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Talking Hands
Ripensare il Made in Italy nella prospettiva del fashion futuring
Paolo Franzo Università Iuav di Venezia, Dipartimento di Culture del progetto paolofranzo@iuav.it
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Il contributo si interroga sulla possibilità che il “Designed & Made in Italy”, in particolare nell’ambito della moda, superi la prospettiva storica, per configurarsi come incubatore di scenari innovativi in grado di sostenere un futuro, anche attraverso nuove modalità di relazione tra i protagonisti del progetto creativo e dei processi produttivi. All’interno della riflessione teorica sul Fashion Futuring e sul Laboratorio Italia, il progetto Talking Hands viene analizzato come modello di innovative pratiche di redirezione, che si esprimono in dinamiche di design partecipativo, relazioni con il territorio, nuove narrazioni e sinergie tra persone e comunità. Questi primi segnali di transizione verso nuovi modi di concepire il design della moda, la manifattura e i suoi protagonisti richiedono un’adeguata analisi in ambito accademico. Fashion Futuring, Transition Design, Talking Hands, Laboratorio Italia
The contribution questions the possibility that “Designed & Made in Italy”, in particular in fashion, goes beyond the historical perspective, to be an incubator of innovative scenarios able to sustain a future, also through new ways of relationship between the protagonists of the creative project and production processes. Within the theoretical reflection on Fashion Futuring and the Laboratory Italy, Talking Hands project is analyzed as a model of innovative redirection practices, which are expressed in participatory design dynamics, relationships with the territory, new narratives and synergies between people and communities. These first signs of transition towards new ways of conceiving fashion design, manufacturing and its protagonists require an adequate analysis in the academic field. Fashion Futuring, Transition Design, Talking Hands, Laboratory Italy
Introduzione [1] La sussistenza del futuro, con le sue molteplici implicazioni, sta caratterizzando il dibattito contemporaneo. Il design, in una prospettiva “futuring” (Fry, 2014), si propone come guida per lo sviluppo di interventi capaci di fornire nuove traiettorie e pratiche di redirezione rispetto alle questioni di sostenibilità ambientale, economica e sociale. Grazie al contributo di Alessandra Vaccari e Ilaria Vanni, questo concetto è stato recentemente introdotto in Italia nell’ambito del progetto di moda, con l’obiettivo di individuare, mappare e analizzare le emergenti pratiche di fashion futuring (Vaccari e Vanni, 2019); questa ricerca si colloca nel quadro teorico del “Laboratorio Italia” (Borgherini et al., 2019), estendendo al design della moda l’idea di Michael Hardt (1996) dell’Italia come laboratorio di sperimentazione politica e cercando le nuove zone di contatto tra design della moda e forme di attivismo (Vanni, 2020). A partire da queste premesse e attraverso l’analisi del caso studio Talking Hands, il contributo si interroga sulla possibilità che il “Designed & Made in Italy”, in particolare nell’ambito della moda, superi la prospettiva storica, per configurarsi come incubatore di scenari innovativi in grado di sostenere un futuro, anche attraverso nuove modalità di relazione tra i protagonisti del progetto creativo e dei processi produttivi [fig. 01]. Questa riflessione vuole dimostrare che è possibile – e necessario – sviluppare un ragionamento sul progetto e la manifattura italiana con una visione sul futuro, con uno sguardo che interpreta i segnali del presente e delinea possibili prefigurazioni del tempo che verrà, superando la visione nostalgica di una tradizione culturale passata. Per questo motivo ritengo sia urgente indagare e analizzare i primi segnali di transizione verso nuovi modi di concepire il design della moda, la manifattura e i suoi protagonisti.
Fashion futuring e transition design
L’idea di “futuring” è uno dei temi centrali affrontati dal Transition Design [2], area di ricerca emergente che si sviluppa attorno alla consapevolezza di essere in un tempo di transizione (Irwin, 2015); considera come premessa la necessità di transizioni sociali verso un futuro più sostenibile e sostiene il ruolo chiave del design in queste transizioni (Yelavich, 2014). La progettazione della transizione si concentra sulla necessità di un “localismo cosmopolita” (Manzini, 2004), uno stile di vita basato sul luogo, in cui le soluzioni ai problemi globali sono progettate per essere adeguate alle condizioni sociali e ambientali locali. Ritengo sia utile considerare anche
il ragionamento opposto, cioè che a partire da progetti locali, capaci di attivare i capitali culturali disponibili sul territorio, si possano fornire soluzioni a problemi globali. Per questo motivo, l’analisi di un singolo caso può contribuire a definire un modello innovativo da riprodurre in altri contesti per sostenere il futuro del Made in Italy (Morelli, Sbordone, 2018). Accettare l’idea della transizione, implica la necessità di riconsiderare logiche precedenti. Il concetto stesso di Made in Italy va inevitabilmente ridefinito, perché diverse sono oggi la dinamiche tra design e manifattura, diversi i luoghi in cui si progetta e si realizza, diversi i protagonisti, le loro storie e culture. Riprendendo la riflessione di Tony Fry rispetto all’idea di “futuring”, il design rappresenta il catalizzatore del cambiamento, per la sua influenza e rilevanza rispetto all’economia, l’industria, la tecnologia, l’ecologia, la cultura, la comunità, il territorio. Il design ha il compito di considerare e promuovere il concetto di “sustain-ability”, che include le azioni e le abilità necessarie per sostenere la vita, le culture, le idee, gli immaginari, l’ambiente, le persone. Sono pratiche di redirezione, in grado di modificare paradigmi e delineare nuovi scenari. La sostenibilità, nel suo significato più ampio che include il rispetto per l’ambiente e per le persone, rappresenta una questione centrale per la moda contemporanea nei suoi diversi linguaggi [3]. Nella percezione comune, gli interventi più innovativi e mirati a fornire risposte adeguate sulle questioni della sostenibilità sembrano essere localizzati fuori dall’Italia, relegando il nostro Paese a un ruolo marginale e meno pronto a superare modelli tradizionali. Tuttavia, da una prima mappatura sviluppata con gli studenti del corso di laurea magistrale dell’Università Iuav di Venezia [4], emerge in Italia una rete significativa, dinamica ed eterogenea di designer, aziende, start up, associazioni che propongono una nuova visione sostenibile del progetto di moda e della manifattura italiana: forme di economia circolare, modelli di design partecipativo, open design, eco-fashion, sviluppo e utilizzo di bio tessuti, interventi di upcycling, artigianato digitale. Questa mappatura sembra confermare che, anche in Italia, siamo in un periodo di transizione che necessita di essere esplorato e sostenuto, anche attraverso la ricerca accademica. Il tempo presente non è caratterizzato solo da fenomeni di evoluzione di tradizioni e saperi consolidati, tipici della storia del Made in Italy, ma è anche un momento in cui compaiono nuove forme di attivismo, di collaborazione e relazione, di attenzione alle emergenze ambientali e umane. Dalla mappatura emergono chiari esempi di
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Collezione Mixitè, 2019. Foto Francesco de Luca
localismo cosmopolita. Molti dei casi individuati, infatti, sono nati in luoghi lontani dalle tradizionali città della moda e distanti dai distretti produttivi che hanno segnato la storia del Made in Italy; sono realtà sorte e cresciute mettendo a sistema le potenzialità di un territorio, creando reti di relazioni e conoscenze, sfruttando i materiali e le competenze locali. Un ulteriore dato significativo è che molti dei casi italiani individuati pongono particolare attenzione alle questioni sociali, al capitale umano e alle dinamiche relazionali tra i protagonisti del processo creativo e produttivo, sviluppando nuovi modelli di business e innovative pratiche progettuali. Sono esempi di un design “pacificatore”, capace di mettere in rete progettisti, manifattura e comunità, sviluppando relazioni, partecipazioni creative e nuovi modelli di sviluppo.
Il caso studio
Oggetto di analisi è “Talking Hands. Con le mani mi racconto”, un laboratorio permanente di design e innovazio
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Collezione Mixitè, 2019. Foto Francesco de Luca
ne sociale, fondato nel 2016 da Fabrizio Urettini, attivista e art director, e situato nell’ex caserma Piave di Treviso. Il progetto è gestito da un gruppo di rifugiati e richiedenti asilo, provenienti principalmente dall’Africa subsahariana, impegnato in diverse attività, tra cui la progettazione, realizzazione e distribuzione di una collezione di abiti e accessori. I responsabili del laboratorio di moda sono due ragazzi provenienti dal Gambia, con precedenti esperienze di sartoria nel Paese di origine. Al progetto collaborano anche designer, studenti, attivisti, insegnanti e fotografi italiani; le persone – sia i volontari che i migranti – contribuiscono per un periodo limitato, lasciando poi spazio ad altre persone che arriveranno e collaboreranno, in base a tempo, esperienze e obiettivi [fig. 02]. Ogni progetto sviluppato da Talking Hands è l’esito di una piccola filiera produttiva, che coinvolge persone con diversi gradi di esperienza e abilità, sostenendo un miglioramento delle competenze nei diversi ambiti disciplinari. Il processo di creazione di valore viene dunque affidato agli individui, alla comunità creativa e alla rete sociale (Meroni, 2007, p. 182). Questo caso è stato individuato perché combina in modo innovativo capitale culturale e competenze tecniche, differenti approcci al progetto e alla manifattura; l’analisi dei processi e dei prodotti di Talking Hands consente di definire nuove forme di Made in Italy. Attraverso un’intervista effettuata ad alcuni dei collaboratori di Talking Hands [5], sono emerse informazioni utili a delineare un modello innovativo per il design della moda e nuovi ruoli dei soggetti coinvolti, fornendo risposte su questioni di sostenibilità sociale attraverso azioni di design partecipativo, rapporti con il territorio e nuove dinamiche relazionali in una prospettiva “futuring”.
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Fase di taglio del tessuto con il supporto di Anthony Knight, docente di modellistica. Foto Francesco de Luca
04 Design partecipativo
La dimensione partecipativa del progetto si verifica in ogni fase del processo creativo e produttivo. La selezione dei tessuti è il primo momento di confronto tra i diversi attori coinvolti nello sviluppo delle collezioni. Il Lanificio Paoletti di Follina (TV) ha aderito al progetto [6], mettendo a disposizione i propri tessuti, rimanenze di magazzino non vendibili a causa dello scarso metraggio; la scelta di utilizzare il materiale di scarto si posiziona in una visione di sostenibilità ambientale, contribuendo alla poetica del progetto (Binotto, Payne, 2017). Una prima selezione dei materiali da utilizzare per la confezione è effettuata da una textile designer, che ne valuta le caratteristiche tecniche in funzione della tipologia di capi da realizzare. La scelta finale, motivata anche da colori, texture e disegnature tessili, è operata dalle diverse persone coinvolte; in alcuni casi i tessuti vengono combinati tra loro come patchwork e l’accostamento viene stabilito dai giovani africani. I tessuti italiani vengono inoltre abbinati a cotoni con colorate stampe Wax, tipiche dei Paesi di provenienza dei rifugiati coinvolti in Talking Hands. I tessuti, dunque, esprimono già l’incontro tra diverse idee, sensibilità, visioni e culture. Le fasi di disegno dei capi e degli accessori presentano simili dinamiche di collaborazione tra i vari soggetti, ciascuno libero di proporre e sviluppare le proprie idee che vengono poi valutate dal gruppo. Lo sviluppo dei cartamodelli avviene sotto la guida di un docente di modellistica, da cui i migranti imparano regole e tecniche [fig. 03]; ma, in parallelo, questi sono liberi di sperimentare e sviluppare idee lavorando direttamente con i materiali, a mano o a macchina, senza definire prima il cartamodello, che viene ricavato successivamente. Due diverse impostazioni di processo creativo, dunque, si intrecciano e
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Fase di sperimentazione e confezione. Foto Francesco de Luca
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contribuiscono alla crescita del progetto [fig. 04]. I servizi video e fotografici sono realizzati coinvolgendo gli stessi giovani che li hanno progettati e realizzati, facendo loro indossare i capi e posando sia all’interno del laboratorio sartoriale che in altri contesti. Spesso le immagini ritraggono più persone, che si tengono per mano, enfatizzando l’anima collaborativa e partecipativa del progetto. Anche il momento della vendita prevede il coinvolgimento dei vari protagonisti del progetto, attraverso la partecipazione a mercatini, fiere, esposizioni temporanee [7]; in questo modo si instaura un contatto diretto con il cliente e le sue sensazioni, il progetto esce dalla delimitazione spaziale del laboratorio sartoriale e si estende alla comunità [fig. 05]. Un progetto di moda come Talking Hands, dunque, si trasforma in un luogo di condivisione di valori, idee, conoscenze; ciascuno porta la propria esperienza, la rende disponibile agli altri, partecipa per un obiettivo comune, lascia tracce di sé anche dopo essersene andato e aver lasciato spazio ad altri.
Il territorio
Talking Hands è un esempio utile di come sia possibile creare nuove reti di relazione all’interno di una comunità attraverso il design (Montanari, Mizzau, 2016); promuove sinergie con aziende locali e si apre al territorio, soprattutto in una città – Treviso – in cui la questione migratoria è spesso al centro del confronto politico, culturale e sociale
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Presentazione della collezione Mixitè durante l’edizione 2019 della manifestazione La Via della Lana, presso il Lanificio Paoletti di Follina (TV). Foto Francesco de Luca
(Moretti, 2019). Bisogna anche ricordare che la provincia trevigiana per decenni è stata un importante distretto industriale del sistema moda, ma che ha subito negli ultimi anni una pesante crisi in termini di occupazione e fatturato ed è alla ricerca di una nuova identità. Sono caratteristiche che contraddistinguono l’intero territorio nazionale e per questo motivo una esperienza locale può diventare un modello per il futuro del Made in Italy. Riprendendo il concetto di localismo cosmopolita, questo progetto è in grado di unire il capitale culturale di un territorio, accogliendo in uno stesso luogo persone di nazionalità, esperienze, culture e obiettivi diversi. Diventa un richiamo per professionisti e aziende del territorio circostante, che decidono di mettere a disposizione materiali, tempo e competenze all’interno della sede di Talking Hands. Ancora più significativo, però, è il movimento opposto: l’idea di far uscire i rifugiati, chiedere loro di attraversare la città, essere in mezzo alla gente, instaurare nuove relazioni. Fabrizio Urettini, infatti, ha deciso di avviare le consegne a domicilio, portando nel centro di Treviso i ragazzi e gli oggetti da loro creati, spesso molto colorati. Nell’intervista osserva che questo momento sembra trasformarsi in una sfilata, che attira l’attenzione, qualche risata ma anche molte conversazioni: «i ponti relazionali che volevamo disperatamente costruire.» L’analisi di questo fenomeno trova un valido supporto nelle parole di Morelli e Sbordone, che dichiarano che «la cooperazione sociale, mirata al local development, esplicita la sua azione sul territorio attraverso una fitta rete di relazioni materiali e immateriali tra persone con diverse competenze, gradi di conoscenza, e i luoghi deputati a centri di attività produttive e culturali.» (Morelli, Sbordone, 2018, p. 178) Un’ulteriore iniziativa mirata ad agire nel territorio è costituita dalla scelta di spostare in un parco pubblico, per un’intera estate, il laboratorio di ricamo. Come racconta Urettini, una volta a settimana i migranti hanno lavorato all’aperto, sopra tavoli da ping-pong in cemento [fig. 06]. Il lavoro artigianale si è trasformato in un dispositivo relazionale in grado di attivare trasformazioni sociali e favorire l’autostima dei partecipanti, attirando l’attenzione delle persone presenti nel parco, affascinate dall’esposizione di ricami e dall’abilità all’uncinetto (Gauntlett, 2011; Hackney, 2013). Si sono verificati scambi di opinioni, discussioni sulle tecniche e un naturale coinvolgimento della comunità; ricamare all’aperto, in gruppo, in un luogo pubblico, è un’evidente azione di craftivism [8], movimento che attiva elementi di solidarietà, anticapitalismo e ambientalismo attraverso pratiche artigianali e manuali.
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Relazioni e narrazioni
Nella visione del Transition Design e del “futuring”, i progettisti hanno il compito di sviluppare potenti narrazioni, visioni del futuro o del “non ancora”, amplificando e collegando gli sforzi di base intrapresi dalle comunità e dalle organizzazioni locali (Manzini, 2015). Talking Hands dichiara già dal nome la volontà di essere un luogo di narrazione, incoraggiando i partecipanti a servirsi del design e dell’attività manuale per raccontare le proprie biografie, i luoghi di provenienza, le esperienze, gli obiettivi [fig. 07]. Sono voci che si sovrappongono e si combinano per definire una storia originale e unica, che si fonda sulla diversità. Sul sito sono presentati senza gerarchie tutti i partecipanti al progetto [9], raccontando una comunità che si relaziona e partecipa allo stesso obiettivo. I ruoli non sono definiti, non sono più riconoscibili le tradizionali figure del processo creativo e produttivo della moda, incluso il designer che si trasforma in una identità collettiva. In Talking Hands l’intero gruppo collabora unitariamente alle fasi di selezione dei materiali, di design, di sviluppo dei cartamodelli, di confezione, di vendita, sotto l’impulso di alcune guide. Questo caso studio dimostra quanto sostenuto da Manzini (2015), cioè che nel XXI secolo sta emergendo un design “esperto”, che si propone come un insieme di competenze, sensibilità e strumenti culturali, stimolando e supportando più ampi e articolati processi di co-progettazione [10]. La
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Attività di ricamo dei collaboratori di Talking Hands presso il parco pubblico di Treviso
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consapevolezza di un nuovo modello di relazioni emerge dalle parole di Urettini: «Abbiamo creduto importante che il gruppo di lavoro fosse accompagnato da dei professionisti per varie ragioni […]. Per noi è di fondamentale importanza la creazione di occasioni di dialogo orizzontale e di operare in un contesto transculturale senza perdere di vista l’obiettivo di valorizzare con i nostri progetti i diversi attori coinvolti e di reimmaginare il mondo materiale attraverso una sintesi delle arti applicate.»Talking Hands è dunque un esempio della potenzialità di riconoscere le dinamiche sociali più promettenti e operare con esse, di mettere mettere in relazione il capitale umano di un luogo per sviluppare una narrazione attraverso un progetto di design.
Conclusioni
L’analisi del progetto Talking Hands ha permesso di dimostrare che in Italia sussistano le condizioni per la nascita e lo sviluppo di progetti capaci di delineare una nuova prospettiva per il Made in Italy, per il fashion design e la manifattura italiana. Diventa oggi particolarmente urgente analizzare, definire e sostenere i primi e fragili segnali di transizione verso nuove pratiche di progettazione e produzione all’interno del contesto nazionale, poiché consentono al Made in Italy di superare le logiche di musealizzazione e configurarsi come concetto innovativo, pronto al dialogo con una contemporaneità globale. Gli oggetti rivestono un ruolo decisivo nel contrastare le
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Presentazione della collezione Mixitè all’interno del progetto creativo “Artisanal Intelligence”, a cura di Clara Tosi Pamphili e Alessio de’ Navasques, Altaroma, luglio 2019. Foto Andrea Buccella
visioni dominanti, sviluppando una cultura della diversità e una società più inclusiva, attraverso nuove forme di relazione tra i soggetti coinvolti nel processo creativo e produttivo. Il design è lo strumento attraverso cui progettare e creare reti relazionali che formano nuove comunità, sinergie con l’imprenditoria locale e interazioni con il territorio.
NOTE [1] Il contribuito è parte del progetto di ricerca “Fashion Futuring: modelli emergenti di fashion design in Italia”, coordinato da Alessandra Vaccari presso l’Università Iuav di Venezia. [2] Il Transition Design è un’area di ricerca, di pratica e di studio del design che è stata concepita nel 2012 dal gruppo di lavoro coordinato da Terry Irwin presso la Scuola di Design della Carnegie Mellon University di Pittsburgh. Propone lo sviluppo di visioni future che siano dinamiche e di base, che emergono dalle condizioni locali rispetto a un processo a misura di tutti, e che rimangono aperte e speculative. [3] Si veda ad esempio il numero di gennaio 2020 di Vogue Italia che, per la prima volta, rinuncia a ogni servizio fotografico sostituendolo con disegni e illustrazioni, eliminando così i viaggi inquinanti di persone e guardaroba in una visione sostenibile della comunicazione di moda. [4] Il corso di Storia e Teoria della Moda, docente Alessandra Vaccari, ha indagato il concetto di Fashion Futuring, conducendo gli studenti, anche attraverso attività seminariali, all’individuazione e analisi di casi studio italiani che agiscono sulle questioni di sostenibilità ambientale e sociale nella moda. [5] Le interviste sono state effettuate di persona a gennaio 2020 presso la sede di Talking Hands. [6] www.lanificiopaoletti.it Il Lanificio Paoletti è un’azienda manifatturiera di Follina, in provincia di Treviso, che produce tessuti per importanti marchi internazionali di moda, coniugando industria e alto artigianato tessile. [7] Nel 2019 il progetto Talking Hands è stato presentato, ad esempio, durante la manifestazione La Via della Lana, ad Altaroma, all’interno del progetto creativo Artisanal Intelligence, alla mostra del design indipendente e sostenibile Ve.Nice Stuff. [8] Per approfondire il manifesto del movimento denominato Craftivism, nato all’inizio degli anni 2000 come forma di attivismo, si veda http://craftivism.com/. [9] L’elenco di tutte le persone coinvolte nel progetto Talking Hands è riportato al link https://talking-hands.it/it/partecipants/. [10] Si veda anche Lucy Kimbell, 2015. Il designer può svolgere un ruolo di supporto, di infrastructuring, che consiste in interventi di prototipazione di situazioni sociali e di interazioni che provocano il contesto sociale, stimolando le capacità progettuali diffuse in tale contesto.
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