Come zucchero per le formiche - quattro racconti neri

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COME ZUCCHERO PER LE FORMICHE QUATTRO RACCONTI NERI

MATTEO MARTIGNONI


Titolo originale

come zucchero per le formiche

illustrazione originale di Cristian Grossi progetto grafico e impaginazione di Beatrice Davighi

- quattro racconti neri




COME ZUCCHERO PER LE FORMICHE La mattina ci svegliamo alle nove. C’è anche chi si sveglia prima chiaramente. Il mangiafuoco è già in piedi dalle cinque e fa gli esercizi. Io ho sempre avuto questa passione per il sonno, per dormire, per cui personalmente non mi posso lamentare. In estate quando suona la sirena la stanza è già un piccolo forno, una sauna, e tiro su le tendine e apro le imposte di plastica e fuori c’è il deserto che trema per il caldo e le altre roulotte tremano anche loro e sono solo dei grumi neri e argento nel deserto. Adesso siamo in marzo, è appena iniziata la stagione delle vacanze. E le formiche arrivano fin dalla mattina e si siedono nell’arena e aspettano

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le undici che è l’orario del primo spettacolo del parco di divertimenti. Erica è bella, è bellissima, ha i capelli castani e la pelle bianca con le venuzze spezzate sulle guance, per me è una cosa tenerissima che me la fa amare ancora di più. È la mia mela, mi viene voglia di mangiare mele rosse e piene di sugo quando la vedo la mattina. Le mele qui non ci sono. Mangiamo solo cereali e cioccolata durissima che è tipo fango pietrificato e mangiamo arachidi e cose secche e quando è autunno anche un sacco di verdura e poi ci danno carne a volontà. Carne secca in stecche scure che si tengono appese ai pali di alluminio della veranda. Chiaramente nessuno la mangia.

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Forse l’autunno prossimo, più probabile in inverno, ci daranno il permesso di emigrare. Mi piacerebbe andare verso sud, verso un clima un po’ più freddo, io sono nato in un posto molto umido. Non mi dispiacerebbe vedere la neve ogni tanto. Comunque ritornando a me io mi preparo e mi metto la tuta da lavoro con il marchio del parco dappertutto, una mano aperta. Il mio lavoro è più o meno quello di pulire le gabbie e l’impianto di ventilazione e la pista. Per prima cosa entro nella tenda e saluto i miei colleghi, siamo in quattro o cinque Giona, Mattia, Luca, Eze. Facciamo il giro di campo con gli spazzettoni e puliamo la pista dalla cacca degli animali ma poi in realtà adesso c’è rimasto solo l’elefante. Le formiche non vogliono vedere animali, a loro non piace. A me non fanno schifo o paura le formiche, dopo ti ci abitui. Le prime volte chiaramente si, gli occhi lucidi e le antenne e i peli. Adesso no. Ti abitui a tutte le schifezze. Puliamo gli spogliatoi degli artisti e le docce e le gabbie dei bambini. Giona fa questo lavoro da un sacco di tempo. Lavorava nel circo anche prima della guerra, anche prima che mettessero in piedi questo circo. Lui è un circense puro diciamo, anche se non è un artista ma un inserviente. Giona ha le basette e la barba, una bella barba lunga, gliela invidio molto. Forse tra qualche anno anche a me crescerà così, ma dubito perché ho quasi venticinque anni. La cosa che mi piace di più del lavoro è che quando c’è lo spettacolo non devi fare niente e per quell’ora e mezza lì puoi nasconderti dietro le reti dei trapezisti e guardarti tutto lo spettacolo. Gli altri non lo guardano mai, si siedono e giocano a carte o ascoltano la musica assieme, con le cuffie attaccate al grammofono e tutti quei fili. Io guardo sempre gli


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spettacoli, non ce ne è mai uno uguale. Il mio preferito è il domatore. Ensi è il domatore, ma chiaramente fa finta, non doma nessuno. Però è bella la messa in scena, è proprio bello lo spettacolo che fa, lui per me è proprio un artista. Ci sono questi piedistalli tipo stampini per pasticcini rovesciati, grossi come una ruota di trattore. Lui mette tutti in fila sui piedistalli e schiocca la frusta. Ha un vestito rosso e attaccato a ogni bottone c’è un campanello dorato e appena si muove tintinna. Ensi ha un petto gigante e i baffi, proprio come ti aspetti uno che fa l’artista del circo. Ha dei pantaloni, rossi anche quelli lì, tutti arrotolati e stretti che gli fanno delle gambe da cavaliere. Io provo molta ammirazione per Ensi. Schiocca la frusta lunghissima e non fa mai male a nessuno, è tutta messa in scena. Erica invece lavora alle gabbie dei bambini. È un lavoro duro ma le piace. Deve dare loro da mangiare e poi farli anche un po’ giocare. Poi li fa uscire a volte e cantano insieme, per il resto il regolamento è chiaro su queste cose e anche Erica deve seguire il regolamento. Le è sempre piaciuto come lavoro ma credo che adesso ci tenga di più dopo che abbiamo avuto un bambino anche noi, due mesi fa. Il pomeriggio nelle ore libere si allena con la ballerina. Si mettono dietro il van di Stephen, hanno recuperato una lunga barra di ottone tenuta su da dei blocchi di cemento e lì fanno gli esercizi. A Erica piacerebbe diventare un’artista, apparire nello spettacolo. Anche a me piacerebbe tantissimo vederla in pista o attaccata ai trapezi che volteggia e vola tra i miei occhi e il tendone. Se si allena credo che ce la può fare, forse in un anno o due, sempre se quest’autunno non migriamo a sud e allora sarà tutto da vedere. Il barattolo dello zucchero è pieno di formiche. Tutto sta marcendo, la sabbia del deserto entra dappertutto. Ho sognato che le carovane erano partite e che il parco era abbandonato. Il sole era sempre alto ma non c’era nessuno intorno. Il cerchio scuro del tendone sulla piana, la tribuna di cemento. Eccoci, siamo arrivati. Il primo sulla destra davanti al capanno è Giona. Lo si riconosce perché è l’unico con un po’ di ciccia. Gli altri sono tutti pelle e ossa, nessuno mangia, Giona è l’unico un po’ grasso, lo invidio un po’. Sono tutti appoggiati con la schiena alla baracca e fuma-

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no le sigarette premio. Eze me ne lancia una, io ho sempre uno zippo a benzina nella tasca della tuta da lavoro. Questa mattina mi sento strano, ci sentiamo tutti strani e quando entriamo per cominciare le pulizie del tendone Giona mi dice che devo andare da Mr.Avanzi, il direttore del parco. Giona mi strizza l’occhio e poi entra nel tendone, immagino che dovrei essere contento perché il grande capo mi chiama nel suo ufficio.

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Il caravan di Mr.Avanzi è alla fine del campo sopra una specie di collinetta di terra dura. Il suo cane è Tilly, un dobermann molto gentile. Si fa accarezzare e fa le feste e ti lecca le mani. Non c’è bisogno di suonare il campanello perché Tilly abbaia forte e allora Mr.Avanzi accosta la porta e mi urla di entrare. Dal sole di fuori alla luce bassa dell’interno della roulotte gli occhi vanno in tilt e è tutto nero, a momenti svengo. A pensarci bene sono due giorni che non mangio perché faccio questi sogni che mi mettono un po’ di tristezza. Mr Avanzi è in cucina che si fa un caffè di cicoria, si sente la puzza di bruciaticcio, me lo offre senza girarsi, rimane di spalle con la tuta da lavoro addosso e i capelli bianchi e gialli tutti appiccicati al collo. Poi si siede e mi parla e mi spiega che siccome ho maturato una certa anzianità di lavoro mi merito di essere spostato. Da domani passo dalle pulizie alla sicurezza della zona gabbie. Poi mi stringe la mano e sorride e ha un dente d’oro. Il resto della giornata di pulizie non ci penso. Nessuno dei ragazzi mi chiede niente, anche loro pensano al lavoro che oggi è un po’ pesante e la stanchezza ci ammazza. Neanche Giona mi dice niente e poi si vede poco perché è sulle reti che pulisce gli spazi degli acrobati, va fatto una volta al mese. Poi andiamo tutti nelle roulotte e facciamo la doccia. Erica è ancora a fare gli allenamenti da ballerina. Ancora con l’accappatoio addosso mi siedo sulla panca e ci penso. L’importante è che il nuovo lavoro ha gli stessi orari, per me è importante non svegliarmi troppo presto, sono fatto così. Per il resto io non glielo dico neanche a Erica, anche se credo che comunque mi vedrà perché saremo nello stesso settore. Qui la tv non c’è, un po’ mi manca. La notte non è un problema dormire. Il deserto è molto silenzioso. Anche il parco di divertimenti è molto silenzioso e a me il silenzio fa bene. Appena appoggio la testa al cuscino comincio a dormire. Anche


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a Erica succede così. Dormiamo abbracciati, faccia a faccia, lo sento quando cambia il respiro. Peccato che questa settimana continuo a fare questi sogni tristi. Le formiche nel vasetto dello zucchero, il cesto della frutta marcio, mamma e papà sul divano, la televisione. Non sono proprio ricordi, è come un mix di tanti ricordi di quando ero piccolo. In marzo pioveva per settimane intere, anche di notte, qui invece no. Come ho detto, la mattina si mangiano i cereali con un po’ d’acqua e la cioccolata dura che ci danno qui. Poi mi metto la tuta da lavoro e vado alla baracca, un po’ prima stamattina perché mi dovranno spiegare le nuove cose da fare e non so bene chi saranno i miei compagni. La zona delle gabbie è vicino alla tenda però è l’unico edificio di cemento con le fondamenta e tutto. Sul tetto ci sono i tubolari dell’aria condizionata e infatti dentro c’è sempre quasi fresco. Ho addirittura un ufficio con un tavolo e una sedia e dei raccoglitori per le scartoffie. Che stupido che sono, mi sono dimenticato di dire che non sono molto bravo a scrivere. A leggere me la cavo, ma a scrivere non scrivo più da dieci anni. Farò delle prove. Per tutta la mattina il mio lavoro adesso è solo controllare che il personale sia nei reparti giusti. Le balie nella nursery, le donne delle pulizie nel locale pulizie o nei bagni, gli addetti al mangime nella mensa o nella cella frigorifera o nel cucinotto, le inservienti alle gabbie dei bambini. Però non ho visto Erica stamattina perché lei fa dei turni diversi dai miei. A lavorare qui siamo in tanti, almeno una ventina, posso abituarmi alla svelta. Poi il pomeriggio invece stiamo di guardia al magazzino, ma solo se è una delle giornate in cui le formiche mangiano. Allora dobbiamo stare attenti a fare uscire i bambini dalle gabbie e tutto il resto. Non dobbiamo mica stare lì ad assistere per fortuna, controlliamo solo che tutto vada per il verso giusto e non ci siano casini. Poi quando ci danno l’ok le donne delle pulizie mettono a posto. Ma questo succede solo una volta alla settimana.

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In una bella giornata di sole sono ripartito da Hannover. Il Furgone era finalmente riparato, ma mi fermavo spesso lo stesso per controllare che le riparazioni tenessero perché, viste le esperienze dei giorni passati, non volevo rischiare ancora di fare una brutta fine. Tanto più che lungo la strada c’erano dei fossi che ci poteva stare dentro un uomo in piedi e non vedere il ciglio della strada. Siccome comunque era quasi ora di pranzo ho svoltato giù all’uscita Hamelin-Pyrmont. Ho passato un ponte su un fiume che si chiama Weser e ho imbroccato l’entrata della città. Veramente la prima idea era quella di fermarmi in un paesino, in un posto carino e trovare una trattoria tipica e mangiare qualcosa di buono e di locale con un bel boccale o due di birra chiara. Poi però ero già sulla strada della città di Hamelin e ho pensato che potesse esser bella da visitare, da farci un giro. Già da quando sono entrato in città, passando dalla porta medievale, ho capito che c’era qualcosa di strano. Forse molto di strano. Le strade erano deserte. Nessuno in giro. Le finestre delle case tutte sprangate.


Sembrava di essere in un film western quando arrivano i banditi e la gente del paesino di frontiera si barrica in casa o in cantina. Vi giuro che ho pensato che forse stava arrivando un uragano. Erano tre o quattro giorni che non leggevo il giornale, non ascoltavo la radio, non guardavo la tv. Poteva essere successo di tutto e io non lo sapevo. Avranno dichiarato la guerra.

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Poi dal portone di una casa, poco più avanti di me sulla strada principale, si è sentito un gran rumore. Un portone di un cortile è sbattuto e è venuto fuori un bello sguazzo di acqua nera come se avessero allagato il cortile per pulirlo dopo degli anni che non lo puliva nessuno. Subito dopo dal portone è uscito anche un uomo con una scopa di saggina in mano e urlava e urlava chissà cosa. Una maledizione ecco cosa siete, un canchero, siete merda merda merda. Tutto questo urlava l’anziano facendo girare la scopa in cerchio come un cavaliere con la spada. Merda merda e ancora merda. Ho guardato in basso e ho visto la fiumana delle zampette, delle code, dei baffetti grigi, dei culi neri dei ratti e gli occhi come capocchie di spillo, rossi e neri. I topi, saranno stati delle centinaia sicuramente, sono usciti dal portone e son filati giù dal tombino in mezzo alla via, proprio come acqua. Qualcuno è tornato in casa passando dal cortile. Perbacco. Per un disinfestatore, e io faccio quello di mestiere, questa qui era una scena bellissima. Chiaramente mi aveva fatto molta impressione e schifo anche. Ma ci vedevo comunque una fonte di lavoro, un buon modo per trovare qualcosa da fare senza stare tanto a cercarlo. Mi sono avvicinato al portone da cui era iniziato tutto. Il vecchio però aveva già chiuso tutto e sbarrato il cortile. Allora ho provato a suonare qualche campanello. Hoffmann, Goldstein, Bruckner, Rossetti. Si sentiva solo lo squillo del campanello dentro il palazzo, ma rimbalzava a vuoto sulle pareti e fin sul tetto spiovente con le placche di ardesia blu. Nessuno rispondeva. Poi ancora case sbarrate, vetrine dei negozi abbassate, qualcuna anche sfondata e vuota. Cominciavo a avere un po’ paura e a pensare davvero che era cominciata la guerra e che mi avrebbero richiamato nell’esercito. A me fa schifo l’esercito, mi fa schifo prendere in mano il fucile e obbedire a degli ordini, devo dirlo. Pensavo già di girare sui tacchi e


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andare in Svizzera che ci abita mio cugino oltretutto e mi poteva ospitare, potevo fare anche una bella vita. C’avranno pure gli scarafaggi e i topi in Svizzera. Io avevo il mio furgone e stavo a posto. Fregavo anche la guerra. E intanto un altro vecchio, anzi erano due, uno ciccione e uno magro, tutti e due coi capelli grigi e le bretelle, mi fanno dei gesti come per avvisarmi da lontano di avvicinarmi o forse di stare molto attento. Io mi sono avvicinato. Intanto il bel sole della mattina che mi aveva fatto venire voglia di perdere ancora del tempo in Sassonia era quasi andato via. Al suo posto era venuta su una foschia grigia e anche il cielo si era coperto e diventava grigino, color mobili da ufficio. I due signori si continuavano a sbracciare e quando sono stato a tre o quattro metri da loro hanno cominciato a parlarmi. Si davano il turno delle frasi nel parlare. Mi spiegavano che la città era tutta un casino, mezza abbandonata per via di un’invasione di ratti. E io a dirgli che i ratti li avevo visti. Ma vi va anche bene perché io sono un disinfestatore. E Allora loro mi han preso subito uno da un braccio e uno dall’altro, a braccetto mi hanno portato in municipio. Scusate signori, mi piacerebbe sapere dove mi portate, gli dicevo. In municipio mi dicevano. Ah, rispondevo. E così per due o tre volte perché la strada sembrava non finire mai e loro andavano piano perché erano un po’ anzianotti. Io guardavo i cartelli e il municipio era segnalato da tutta un’altra parte. Scusate ma siamo sicuri che il municipio è per di qui? Chiedevo. Ma senti te se ci devi insegnare dov’è il municipio a noi del posto. Avevano ragione. E via che andavamo avanti a braccetto per le strade sassose di Hamelin. Infatti arriviamo nella piazza del municipio. Un bel palazzo come ve lo aspettate voi. Un palazzo tipico della Sassonia, non sto qui a spiegarvelo. I due vecchietti mi portano su dalle scale sempre tenendomi sotto le ascelle e acquistando un po’ in forza e in velocità. Tanto che gli ho in detto Lasciatemi signori ce la faccio ancora da solo, e loro mi hanno mollato. Il bürgermeister era un bell’uomo vestito con un completo italiano. Uno di quegli amministratori pubblici moderni che sembra più un manager. Una persona distinta si dice così. Questi due cittadini mi dicono che lei è disinfestatore e ci potrebbe aiutare con questa sciagura dei ratti. E sa, non è neanche la prima volta. La città è da secoli che è esposta periodicamente

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alle invasioni dei ratti. Non c’è niente da fare. Solo che la gente si dimentica e allora scappa ancora come se fosse la prima volta. E dove scappa poi. Nel paese vicino. Forse che a Hessisch e Emmerthal non hanno i topi? O a Coppenbrugge? Certo che ce li hanno. Ma veniamo a lei. Cosa può fare? E in quanto tempo? E con che mezzi? Non userà mica dei pesticidi, perché sa ci siamo appena convertiti al biologico. E la tariffa? Io e il bürgermeister dai capelli color topo ci siamo accordati per cacciare via i ratti da Hamelin. Gli accordi erano che sarei stato pagato solo se riuscivo a mandarli via entro il sabato successivo perché cominciava la fiera annuale degli agricoltori e non si poteva di certo fare la fiera la città vuota. Comunque non mi preoccupavo perché era martedì e avevo tre giorni pieni per fare il mio lavoro e anche se la città era bella grossa non avevo problemi. Calcolavo a mente che al massimo ci avrei messo due giorni. Per il pagamento ho piazzato lì una bella cifra. Dovevano averle già provate tutte prima di evacuare la città e allora se erano arrivati a questo punto sarebbero stati disposti a pagare qualunque cifra. 18

Ho dormito in una casa extra lusso. Sulle pareti c’erano dei quadri che dovevano valere un sacco di soldi. La casa era vuota naturalmente. I padroni di casa dovevano essere scappati con gli altri. Anche se avevo scoperto che non tutti gli abitanti erano scappati. Una trentina di famiglie erano rimaste. Erano molto religiose e da quando era iniziata l’invasione dei ratti non facevano altro che riunirsi in duomo e pregare e pregare perché tornasse tutto a posto. Mi sono addormentato che erano l’una o le due. Son stato tutto il tempo a girare per casa e sentire i passetti dei ratti nelle altre stanze. Poi ho dormito in un letto morbidissimo nella stanza della padrona di casa. I cassetti erano pieni di mutande di pizzo e di giocattoli di gomma. Un letto morbido che non me lo dimentico. Ho sognato ancora l’incidente a Hannover. Alle sei di mattina ero già in giro per la città, seduto alla guida del furgone. Sul sedile del passeggero avevo un grosso sacchetto di carta pieno di panini dolci e brioche varie che mi aveva regalato l’unico panettiere rimasto in città, vedendomi passare. Deve aver letto sul retro del furgone DISINFESTAZIONE e allora per lui sono diventato una specie di salvatore. Il mio metodo di derattizzazione è semplice e scientifico. Io


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emetto delle frequenze sonore che ai ratti danno particolarmente fastidio. L’animale si ritrova in un habitat ostile in cui non riesce a resistere e è costretto a scappare. Nella pratica io giro per la città con le mie casse stereo e mando musica a tutto volume. Di solito dà molto fastidio anche alle persone anziane, ma in questo caso non credo che chiameranno le forze dell’ordine perché c’è un buon motivo per far confusione. Già al secondo giro completo della città, finito verso le quattro del pomeriggio, la maggior parte dei ratti era scappata terrorizzata verso il fiume. Uno schifo di visione di migliaia di code che strusciano una contro l’altra e un sacco di topi morti per strada. Ma per quello sarebbero passati di notte i mezzi della nettezza urbana. Ho parcheggiato in piazza del municipio e mi sono diretto alla trattoria per bere una birra prima di cena. Poi con il mio boccale in mano ho fatto due passi per la città e sono passato a fianco della cattedrale. Aveva le porte chiuse ma da dentro si sentiva un continuo mormorio della gente che stava pregando interrotta dalla voce più forte del prete che scandiva bene le parole. Poi a un certo punto verso la fine ho sentito delle voci più sottili come voci di ragazzini che intonavano dei canti che sentivo sempre da piccolo. Ma io andavo in chiesa solo per i funerali. A cena il bürgermeister si è congratulato per il mio lavoro e mi ha offerto dell’arrosto e delle patate con il burro e anche una torta di cioccolato. Stavolta quando sono tornato nella casa ho dormito subito. Poi mi sono svegliato verso le tre del mattino per pisciare. Il bagno era al piano di sotto rispetto alla mia stanza. Sulle scale gelate avevo i brividi e poi mi sembrava di sentire ancora quel mormorio di vespe della gente che pregava. Ho guardato fuori dalle feritoie nell’androne delle scale. Doveva essere un palazzo medioevale anche quello. Si vedeva la piazza della cattedrale e c’erano ancora le luci accese all’interno e a allungare l’orecchio si sentiva ancora davvero il suono della gente che pregava a voce sempre più alta. Poi sono passate le macchine con gli spazzoloni per pulire le strade dalle carcasse dei ratti morti. Pulivano con le spazzole e contemporaneamente spruzzavano dell’acqua viola che conteneva un disinfettante da obitorio. Il secondo giorno mi son svegliato ancora presto anche se sapevo che c’era poco da fare. Giravo con calma con la musica a tutto volume e solo da qualche cantina usciva un topo stanco e stordito che non sapeva bene

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dove andare. Dal finestrino abbassato allungavo un bastone con una rete e prendevo il topo. Ne avrò riempiti cinque sacchi della spazzatura. Ma già dopo pranzo le strade erano pulite e non sembrava neanche che ci fosse stata l’invasione. Mi immaginavo già la faccia del bürgermeister quando gli avrei detto che in un giorno e mezzo avevo già finito il lavoro. E invece poi il bürgermeister non era felice come pensavo. Faceva tutto un sorriso storto e ripeteva alla segretaria che c’era subito da richiamare la gente che era sfollata a Emmerthal e a Coppenbrugge e Hessisch. E lei ha fatto un ottimo lavoro. Ma lo diceva guardando verso il muro e si vedeva che stava pensando a dell’altro.

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Volevo partire. Volevo che mi pagassero così partivo subito e magari andavo in Svizzera da mio cugino Oleg. E intanto la gente cominciava a ritornare a Hamelin. A me mi avevano dato una stanza in un hotel di lusso dove mangiavo quello che volevo. Evidentemente i signori ricchi che abitavano in quella casa con i quadri costosi e i cassetti pieni di giocattoli di gomma erano tornati anche loro. E poi si stava preparando la grande fiera degli agricoltori e nella piazza del municipio e in quella della cattedrale si montavano degli stand prefabbricati in legno. Io volevo proprio levare le tende e sono tornato in municipio. Ma qui era tutta un’altra cosa adesso, con il personale in attività. Chiedevo di parlare con il signor bürgermeister e questi mi rimbalzavano da un ufficio a una segreteria e poi ancora da un responsabile del verde pubblico e da un ufficiale sanitario. Quando stavo per spazientirmi finalmente ho visto passare in corridoio la segretaria del bürgermeister e l’ho fermata. Signorina avrei bisogno urgente di essere pagato perché devo ripartire entro domani. Mi mu mo ma, risponde lei. Ma mi mu e allunga il brodo e guarda verso il muro e prende tempo. Il consiglio comunale è in corso e non si può entrare e le faccio sapere qualcosa domani. Venivo giù dalle scale del municipio con una rabbia in corpo che è difficile da spiegare. I clienti che non pagano mi fanno sempre venire i cinque minuti, ma i clienti ricchi che non pagano mi fanno proprio uscire di testa. Allora mentre ero sull’ultimo scalino e stavo per uscire in strada ci ho ripensato e sono tornato su. Ho cercato la sala del consiglio che si evidenziava per la scritta dorata SALA DEL CONSIGLIO sopra la porta. Ho spinto l’inserviente che guardava chi entrava e usciva e sono entrato di prepotenza nel mezzo della seduta.


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Chissà come mi è venuto in mente di fare così lo sbruffone. Chissà come ho pensato di entrare lì e di dirgliene quattro a quegli spilorci che gli avevo salvato la città e la fiera dell’agricoltura. Fatto sta che ero in mezzo a questo cerchio di scranni di legno coi microfoni e gente in giacca e cravatta e signore in tailleur e occhialini con la catenella. Un gran mormorio e qualcuno che esclamava Eccolo lì, proprio di lui si parlava. E il bürgermeister in piedi sopra un palchetto di legno che imboniva le masse con i palmi aperti Buoni Buoni. E mi presentava come il signor Disinfestatore che ci ha aiutati in questo momento complicato per la città. E una donna che si è alzata dalla panca ha urlato al microfono che io non avevo risolto un bel niente e che adesso i topi ce li aveva Emmerthal e il problema non era risolto ma solo spostato, polvere sotto il tappeto, diceva. E la gente di Emmerthal adesso era ospitata dagli abitanti di Hamelin ma che loro non se lo potevano permettere, era una spesa. E allora i conti si pareggiavano. E io non avrei avuto niente. E poi anche le altre persone hanno votato alzando la mano e il bürgermeister guardava il muro e alzava le palme al cielo e mi diceva Sono spiacente signor Disinfestatore ma il consiglio ha deciso. Sia ragionevole. Sono stato un signore. In un’altra circostanza avrei spaccato tutto, spaccato anche qualche testa, invece niente. Mi son preso su e sono uscito. In quelle situazioni lì non c’è altro da fare, anche se si ha ragione e si hanno di fronte delle merde. Però chiaramente dentro di me pensavo già a come fargliela pagare e pensavo che non gliela potevo far passare così. Poi quando sono uscito in strada c’era un sacco di gente intorno al mio furgoncino, gente che non avevo mai visto. Quando mi sono avvicinato hanno cominciato a sputare e a tirarmi per la camicia e a urlare. E tiravano calci e mazzate anche al furgone che ormai era tutto ammaccato. A fatica son riuscito a salire, a farlo partire e uscire dalla città. Ho fatto una decina di chilometri e poi mi sono fermato vicino a dei resti di un castello vicino a Coppenbrugge, poi ho preso un sentiero di montagna. Ho passeggiato nel bosco con la rabbia che mi saliva dentro e con la voglia di vendicarmi. Sul lato della montagna ho trovato una grotta bella grande, avrà avuto lo spazio di un piccolo cinema. Mi sono messo a esplorare la grotta con la torcia elettrica e ho visto che le pareti erano piene di disegni dei bambini, animali e uomini e facce sorridenti e mostri

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con le corna. Quando sono tornato al furgone era quasi sera e ho avuto l’idea che mi serviva. Il giorno dopo era sabato e sarebbe iniziata ufficialmente la fiera dell’agricoltura. Quindi il venerdì notte, per dimenticarsi l’invasione dei topi, i bravi cittadini di Hamelin avrebbero fatto una bella cerimonia in chiesa e avrebbero pregato perché non succeda più niente di simile. Allora io ho guidato fino alle porte della città e mentre gli uomini e le donne pregavano in chiesa ho acceso il mio stereo con la musica più dolce che avevo. Tutti i bambini lasciati a casa nei loro letti si son svegliati contemporaneamente. Le strade della città erano vuote e bagnate di rugiada, buie e azzurrine nella notte. I bambini hanno sceso le scale e aperto i portoni di casa. Sono venuti a piedi scalzi e ancora in pigiama e camicia da notte. Bambine dai capelli biondi, bambini dagli occhi grigi, tutti in silenzio. Li ho fatti salire sul furgone e ho chiuso il portellone, poi sono tornato a Coppenbrugge e ho guidato fino alla caverna. Ho fatto fatica perché il furgone pesava molto più del solito e le ruote si infangavano e ho rischiato di rimanere bloccato nella carraia. Arrivati alla caverna ho fatto entrare tutti e messo il furgone davanti all’entrata. Il giorno dopo il bürgermeister e la gente di Hamelin urlavano davanti alla caverna. Cosa hai fatto, ridacci i nostri bambini. E io urlavo indietro Pagatemi. E loro via a dire che ero pazzo e che non mi avrebbero pagato e sarei andato in galera e mi avrebbero impiccato come un cane. E io gli dicevo solo Pagatemi. Poi ho fatto saltare il furgone e la caverna magica si è chiusa. I giornali e le tv e la radio hanno detto che i bambini di Hamelin sono rimasti incastrati in una grotta durante una gita scolastica e che un crostone di roccia si è staccato a causa delle piogge intense degli ultimi giorni. Eppure tutti sanno che non pioveva da quasi tre settimane.


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Sì, a dirla tutta il margine nero faceva paura anche a me anche se non mi andava di farlo vedere. In giro si diceva che non era niente, che non dava fastidio a nessuno. Le pubblicità tra un film e l’altro ormai parlavano solo di questo. Il paese era sicuro. Il margine era sicuro. Tutti eravamo sicuri. I cartelli sul treno e in stazione erano disegnati a fiori e la faccia sorridente diceva IO VIVO AL MARGINE. Di cosa dicesse la pubblicità o cosa dicevano i cartelli a me importava poco e l’ho detto non volevo fare quello che si intimorisce, ma il margine c’era e come. Tutti avevano paura. Lei mi aveva invitato. Avevo dormito a casa sua. No non pensate male, non avevamo fatto niente, non con le luci accese e tutto il resto. Avevo dormito sulla sua scomodissima poltrona, mentre lei era andata a letto dopo un po’ lasciando accese tutte le luci come se fossimo al supermercato. Si era chiusa in camera con la tv. La replica di un telefilm gracchiava fastidiosissima attraverso il legno di ciliegio e attraverso i muri di cartongesso del suo appartamento di periferia. Una periferia qualsiasi.


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Al bar c’era questo tale che diceva che lui non aveva paura del margine e che ci camminava spesso. Aveva un margine proprio sotto casa, abitava a sud dietro la zona industriale. Là il margine ormai era come le erbacce e la gente lo trattava con naturalezza. A lui da un giorno all’altro era cresciuto un metro quadro di margine nero davanti alla porta del garage e ci passava tutti i giorni quando tornava dal lavoro. Capite? Il margine nero. Lui ci passava sopra come, che ne so, uno zerbino, welcome eccetera e se ne andava in casa. E poi seguiva il racconto degli insulti alla moglie nella casa a sud dietro la zona industriale. Beh, dicevo che avevo dormito da lei in periferia. Non ci andavo quasi mai in periferia. Il bozzolo era la mia casa. Mi sentivo più sicuro in centro e alla fine erano fatti miei. Comunque mi aveva invitato e pensavo anche che succedesse qualcosa e non che finivo sulla poltrona scomoda e lei in camera con la tv. Grazie. Avevo dormito pochissimo. Le luci sparate al massimo mi disturbavano. Non riuscivo a chiudere occhio. Anzi ero costretto a chiuderli per il bagliore, ma quando li chiudevo vedevo le palpebre rosa ed era ancora peggio. Faccio questo sogno in cui mi alzo per guardare dalla finestra. Sono nella stessa stanza, luci accese. Tutte le luci accese come se fossimo al supermercato. C’è questo balcone con la porta a vetri e fuori si vede la periferia. Poche luci e la superstrada che fa una curva toccando la città e i fari si muovono veloci e poi di nuovo calma. Mi avvicino e guardo fuori e c’è tutto questo pezzo di quartiere di periferia. Palazzi pieni di ombre e finestre come denti al neon e dietro le colline scurissime. Le strade e i vicoli sono come vene illuminate dal gialloarancio innaturale dei lampioni. I lampioni creano piccole ombre. Tutto ha un’ombra. Il cane che piscia, il barbone sulla panchina, la prostituta sulla superstrada. Piccole ombre come buchi sul nastro, sulla pellicola, sulla scena. Piccole ombre, buchi regolari e rotondi. Le ombre si dilatano e sono scure e innaturali e sono una finestra su un inferno buio di catrame e spazio vuoto. Il catrameombra si diffonde come liquido e inghiotte la strada e sale sulle superfici dei palazzi. Il sogno mi aveva sconvolto a dovere. Svegliandomi mi ero accorto di aver dormito un paio d’ore. Erano le nove di mattina. Le pareti adesso


MARGINE NERO

erano inondate dalla luce bianca del giorno. Dalla camera si sentivano le previsioni del tempo urlate dalle casse della tv. Senza salutare mi ero messo le scarpe e ero uscito dalla stanza-tatami e giù fino a terra lungo l’ascensore trasparente, dentro alle luci al neon e alla radio del mattino. Gli stessi palazzi del sogno adesso erano pareti di cemento armato innocue e per le strade c’erano i ragazzini e i cani. Mi sentivo il cervello in pappa come se avessi bevuto un sacco. Doveva essere per come avevo dormito. E non parliamo della schiena, come se mi fosse passato sopra un camion, e intanto passava un taxi chiedendo Bisogno? no grazie sono vecchio stile, prendo il treno. Entro alla stazione con l’odore di sigaretta e valigia e bomba e carta di giornale, vecchio stile. Arcata gigantesca sopra di me e vetrate azzurro cielo che tanto non ci crede nessuno che il cielo è azzurro. Ma nelle scuole si ostinano ancora a far colorare il cielo con il pastello azzurro mentre il grigio sarebbe più onesto e la notte rosa, sarebbe più onesto insegnare i veri colori e disegnare sempre il margine nero e non fare finta che non c’è. Per rimanere in tema c’era uno di questi cartelloni che cadevano dal soffitto e era uno sfondo verde con una faccia sorridente con in bocca una margherita e sotto la scritta VIVO AL MARGINE ma lì non c’era dipinto il cielo, solo questo verde come sfondo che penzolava giù dalla grande arcata della sala biglietti. Niente coda. La gente non prendeva più il treno. Per via delle bombe per via che la tv diceva Fidati delle ferrovie, e allora la gente non è cretina e gli venivano i dubbi. Non c’era nessuno in fila e il corrimano lungo d’ottone era lucido che risplendeva. Un biglietto, una moneta, il bigliettaio gira la lastra di vetro e mi dice grazie. Mi siedo sulla panchina di marmo. La voce nel muro dice che il treno arriverà tra dieci minuti. La voce nel muro dice RESPIRATE TRANQUILLAMENTE E LO STRESS SE NE VA. La voce nel muro, vaffanculo, dice VIVI AL MARGINE VIVI FELICE. La voce vuole essere la voce nella mia testa, ma ognuno ha i suoi spazi. Una donna delle pulizie puliva il pavimento con un grande spazzettone elettrico grigio di sporco e pelucchi e polvere e vomito di pendolare e segatura. Tentava di pulire le grandi piastrelle di marmo e i loro margini. Scuri i margini.

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Avevo comprato una rivista fuori moda e scendevo le scale. Lunghe scalinate vecchio stile che la gente non usa e che odoravano di sigarette e di detersivo per pavimenti all’ammoniaca e anche di carta di giornale. Chissà perché tutte le stazioni hanno questo odore misto di sigarette e carta di giornale e a volte di caffè quando c’è un po’ più di gente. Ma adesso la gente ha paura dei treni per via del margine nero e delle bombe e dei telegiornali. Era tardi ormai, tipo le undici di mattina, e non c’era quasi nessuno sui marciapiedi. Il sole allo zenit è una lampadina al fosforo.

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La gente faceva tanta confusione per questo margine nero. Ma solo nel primo mese in effetti, come con la polmonite dei polli. E ormai c’è da dire che c’era chi col margine nero ci conviveva. Non so se credere a quello del bar che diceva di avere uno zerbino di margine davanti al garage che ci si puliva i piedi prima di entrare in casa. Rimane che i margini si vedevano in molti posti. E le leggende erano tante che se ci finivi dentro… Ok, ma si creano leggende su ogni cosa. E anche adesso che c’erano le pubblicità per sviare l’attenzione, per non avere più paura, la gente aveva paura uguale e come ho già detto anch’io ne avevo, anche se non volevo darlo a vedere. Dalla periferia al bozzolo era circa mezz’ora o forse un po’ di più per via delle interruzioni. Il treno era un mezzo vecchio stile e a me piaceva per quello. La poltrona comunque non era sfondata, era nuova e blu e sempre più comoda di quella in cui avevo dormito due ore la notte e che mi aveva fatto sognare un inferno di buchi neri di catrame. E il dondolio del treno mi cullava e la cornice dei finestrini sembrava una proiezione di diapositive veloci e sbavava i colori dei giardinetti pubblici e delle casupole dell’elettricità e delle panchine e dei marciapiedi gialli e dei palazzi. Il centro città si stava avvicinando ma non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Secondo sogno. Sono in uno spazio senza forme senza pareti senza margini, tutto bianco come un foglio bianco leggermente luminescente. Ho le mani sporche di inchiostro. Di quello delle penne a sfera che si usavano un sacco di anni fa. Anche nei sogni mi sa che sono vecchio stile, mi sento molto vecchio nel sogno con le mani sporche. Anche nel sogno prima mi sentivo vecchio ma adesso di più. Sento il bisogno di pulirmi le mani ma non c’è niente vicino e non posso sfregarle e mi sembrano sempre


MARGINE NERO

più sporche tanto che cominciano a gocciolare. La prima goccia cade lenta dalle mie mani e tocca il pavimento bianco e luminoso e disegna un punto minuscolo che però rende tutto lo spazio più piccolo. Poi un’altra goccia e un’altra ancora e si allargano come assorbite dal colore bianco. Alla fine tutto è coperto di inchiostro e mi sento soffocare e mi sveglio. Mi sveglio con le mani al collo che mi sento soffocare e c’è una signora anziana che mi guarda negli occhi e mi scuote un braccio Signore sta bene? Signore sta bene, direi di no. Centralissima fermata al bozzolo. Vite frenetiche di formiche all’amfetamina veloci veloci dentro ai cunicoli subway tutti riverniciati di bianco preelettorale verniciati di un bianco laser di un bianco neon bianco senza macchia. Niente da dire, faceva il suo effetto. Le porte del treno si sono aperte e sono sceso. Dal vuoto del vagone mi trovo di testa nella folla del centro. Una scritta a caratteri cubitali nera su bianco diceva QUESTA NON E’ LA PERIFERIA un’altra altrettanto convincente diceva AL CENTRO CI SEI TU. Tanto per non sbagliarsi, come dire Questo non è il margine. Non lo era. Peccato che il sistema aveva crepe ovunque. Mi piaceva camminare. Respirare l’aria dove si poteva. Non usavo mai la macchina. Dalla fermata a casa mia quella mattina potevo sgranchirmi le gambe, perdermi guardando i cancelli colorati dei miei vicini, fissare le punte degli alberi, giocare coi sassi sul marciapiede mentre andavo. Abitavo in un isolato residenziale. Casette a due piani, massimo quattro. Niente di spaventoso, ma c’era lo stesso questo margine. Questo bel pezzo di margine era lì da un sacco. Iniziava a infastidire tutto il vicinato. Prima era solo una specie di sottolineatura nera. Un bordo nero sfumato. Cominciava dal marciapiede vicino al tabaccaio dell’angolo e continuava dentro un lotto invenduto dove crescevano le erbacce tra le assi abbandonate e un cartello senza scritte. La macchia aveva raggiunto le dimensioni di un posto macchina nel parcheggio, ma nessuno voleva fare niente. E quello del bar mi dice. Si, mi guarda proprio negli occhi questo energumeno e mi dice Sai come dicono, se lasci casa per fare la spesa puoi trovare nel tuo letto un leone. Teneva in mano questa bottiglietta di birra ghiacciata marca australiana e una goccia gli colava giù per la mano e per il braccio e spariva sotto alla maglietta. E io allora lo fisso di rimbalzo e gli chiedo cosa vuol dire e quello sembrava non essersi neanche fermato

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come in una risposta preimpostata Significa che impareremo a non avere paura delle ombre. Nello schermo dietro al bancone lo schermo friggeva, si riceveva male il segnale e in una trasmissione questo tipo con gli occhiali su una seggiolina parlava con un libro in mano. Erano le 11.50. Le campane della chiesa suonavano, non chiedetemi perché. Forse perché i preti hanno dei ritmi da teatro o ancora meglio da cinema. Capiscono la tempistica, la suspense la sentono nell’aria. Venti metri e sarei stato a casa. Arrivavo da un filare anonimo di villette a schiera bianche del tipo famiglia-cane-parabola-tv-cassetta delle lettere-nano di plastica in giardino. C’era già qualcosa che non mi tornava. Arrivato al parcheggio vedo il margine nero. Non mi aspettavo si fosse allargato tanto. Era una specie di piega della ragione, un’allucinazione della coda dell’occhio, ma c’era. Niente da dire. C’era.

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Il margine del parcheggio si era allargato come una pozzanghera e aveva proseguito lungo il marciapiede. Tutto in una sola notte. Adesso curvava e arrivava a toccare la mia casa, il garage del mio vicino, il mio terrazzo, le mie piante grasse. Ero bloccato. La macchia si distribuiva ad arco e mi impediva di entrare in casa, toccava persino il mio portone. Avrei potuto provare a fregarmene, passarci sopra come, che ne so, uno zerbino, welcome eccetera. Ma c’erano anche le leggende che se ci finivi dentro... Ok, ma si creano leggende su ogni cosa. Era solo mezzogiorno. Si accendono i lampioni lungo la via. In giro si continuava a dire che non era niente, che non dava fastidio a nessuno. Le pubblicità tra un film e l’altro ormai parlavano solo di questo. Il paese era sicuro. Il margine era sicuro. Tutti eravamo sicuri. Tutti avevano paura. Di cosa si dicesse in giro, lo ripeto, a me importava poco e l’ho detto non volevo fare quello che si intimorisce, ma il margine c’era e come. Io ci ho provato ma adesso tremo. Ci siamo solo io e il margine. In fondo c’era da immaginarselo che sarebbe successo, il leone dormiva nel mio letto. Un giorno impareremo a non avere paura delle ombre.


VITRIOLO -Ce l’hai?una voce nell’ombra verde scura -Si. Ce l’hoIo e Ronnie di solito la sera, d’estate, ci trovavamo al campo giochi vicino al piccolo market del quartiere. Erano gli anni ‘90, la città non era ancora esplosa mangiandosi la periferia e la campagna. Attorno al supermercato crescevano tre file di villette a schiera e tutto il resto erano prati incorniciati dai marciapiedi, panchine di legno, scivoli e altalene. -Ok, si vaRonnie ha quindici anni e io sedici, ma lui è molto più sveglio di me. So dove stiamo andando, ne abbiamo parlato tutto il pomeriggio bevendo tè freddo e mangiando gelati preconfezionati con il biscotto. Viaggiamo in motorino, con il mio motorino rosso di seconda o terza mano. Io guido e Ronnie sta seduto dietro di me sulla sedia lunga da cross, mi tiene le mani sui fianchi e solleva i piedi per non strisciarli per terra e per non perdere le ciabatte da piscina. Il motorino fa casino, sembra una trombetta giocattolo che urla disperata per chiamare aiuto.

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Coperti dal suono acuto e arrugginito nessuno dei due parla. Attorno c’è l’Emilia, immobile, d’estate. I lampioni arancioni che si allontanano sulle strade morte, il pavimento di legno di una balera abbandonata vicino al palco di metallo dietro a un vecchio capannone. Lontano, molto lontano ma chiaro, il rumore dei camion e delle macchine sull’autostrada. Gli ultimi segni della vita del paese e poi al di là delle file di tigli, la notte.

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-Qui. Qui- dice Ronnie e io fermo il motorino a lato della carraia. Ma io lo so già che quello è il posto, ci siamo stati di giorno per vederci meglio. Ronnie comunque mi parla sottovoce e mi racconta la storia, come se fosse un rituale da ripetere ogni volta, in segno di rispetto o per superstizione. -Questo è l’albero. Ci si è impiccato il tizio e là in fondo c’è la casa- muovo lo sguardo dall’albero sottile e nero ai muri diroccati poco più avanti verso sud -o almeno quello che è rimasto-. Appoggio il motorino all’albero e continuo a guardarmi attorno in silenzio, le mani nei jeans. Ronnie si siede in mezzo alla strada tra i sassi e il fango secco che nella luce della notte è bianco e lucido come un foglio di alluminio. Sta con le spalle girate, lo vedo accendersi una delle sigarette che ruba a sua madre, sigarette lunghe e puzzolenti, da donna. Dopo qualche secondo sopra la testa c’è già una piccola nuvola bluastra che si sposta molto lentamente, l’aria sembra morta, immobile come nello spazio. Alzo lo sguardo e vedo le stelle di luglio, la Lira e il Cigno e Arturo rossa come un occhio a un palmo dalle colline a ovest, il bagliore di latte del Sagittario sull’orizzonte. -Siamo sicuri che lo vogliamo fare?- Io gli rispondo semplicemente facendo di si con la testa, ma poi ho paura che nell’ombra dell’albero lui non mi veda e allora glielo dico anche a voce in un sussurro. -SiLui apre il sacchetto di plastica che ci siamo portati dietro fin dall’inizio, scricchiola nel silenzio che inzuppa le cose attorno, le piante, il grano nel campo vicino. Anche i grilli si fermano. Dentro un involto di carta di giornale c’è un oggetto bianco e rettangolare, con un lato smussato e quasi curvo. Io lo so che cos’è, è un osso umano. Ronnie alza gli occhi e adesso è un po’ meno serio, sorride eccitato -L’ho trovato vicino al cimitero di San Nicomede. Su un lato del cimitero, vicino al torrente, vengono fuori dalla terra, non devi neanche smuover-


VOTRIOLO

la- deve aver visto la mia faccia poco convinta, anche stavolta credevo di essere nascosto dal buio -Ti sembra un osso di maiale a te?- mi appoggia l’osso sul palmo aperto della mano. Sul verso piatto è liscio e sugli angoli invece è ruvido e pieno di piccole incrinature, sembra proprio una scapola. -Adesso tocca a te. Ce l’hai, hai detto-Si. Ce l’hoEra stato facile entrare in oratorio. Non c’era più nessuno in quei pomeriggi lì. Anche il prete passava tutto luglio in montagna con i boy scout. Era stato facile scendere le scale dietro il campetto di calcio, entrare nella stanza con il calcio balilla e il biliardo e le vetrate dipinte con i colori a dito dai bambini delle elementari. Poi dai bagni si prendeva un’altra scala che andava direttamente nella parte posteriore della chiesa. Non ci vedevo niente di male, a me sembrava solo una specie di cialda di quelle da gelato e comunque ne avevo prese solo un paio. Sfilo di tasca il fazzoletto di stoffa e lo apro. Le ostie riflettono il bianco della notte, sembrano anche loro delle ossa umane, ossa sottili, cartilagini di bambino. Ronnie mi dà una pacca sulla schiena e fa degli urletti divertiti -Cazzo, cazzo- è chiaro che non ci credeva che l’avrei fatto. È stupito e saltella. Lo vedo più basso di me nell’ombra dell’albero, posso giurarci che sta sorridendo. -Ok. Visto che si fa sul serio- altro urletto, altro saltello. Si guarda intorno e si allontana, ma sento la sua voce -C’è da cercare la mandragola. Ce n’è sempre una vicino agli alberi degli impiccati-. Ci mettiamo a frugare a bassa quota sul campo inondato di luce della luna. Io non ho la minima idea di come è fatta una mandragola e non ci credo neanche che lo sappia Ronnie, tutto il cortile sa che lo hanno rimandato due volte in seconda media. Ma la ricerca è buffa e divertente e avventurosa, a quattro zampe nell’erba bassa, e mi piace far finta di essere degli alchimisti. -Devi trovare una pianta con le foglie messe così- unisce le mani e fa una specie di stella con le dita, le vedo traslucide contro il cielo blu profondo -e la radice ha la forma di un uomo. Dicono che delle volte quando la strappi da terra piange e l’urlo ti può uccidere sul colpo-

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Rido, ma non per le cose che dice, rido perché mi fa strano che Ronnie ne sa di queste cose, mi sembra uno scienziato pazzo, un mago Merlino. -Cazzo ridi. L’ho letto-. Rido ancora più forte. I grilli alzano di una tacca il livello dei loro suoni, sembra di essere in un grande, vibrante campo magnetico.

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Dopo una mezz’ora il gioco comincia a stancare. Sono sicuro di essermi rovinato i jeans, sporchi di erba e terra sulle ginocchia. Ronnie è sparito dietro a dei cespugli scuri vicino a un piccolo canale, lo sento grufolare piano come un cinghiale. Poi urla. Corre verso di me veloce, le ciabatte si incastrano nelle zolle di terra lungo il canale e si deve fermare per rimettersele. Poi corre ancora con le braccia allungate davanti al corpo, vedo solo la sagoma nera sul bianco acciaio del campo e la collina scura. Quando è a qualche metro da me riesco a capire che cosa tiene in mano. È una piantina di piantaggine o di radicchio, sembra anche che ci sia una bella radice, ma non è un tubero, sembra grossa solamente per via di tutta la terra che è rimasta attaccata. Ronnie la tiene a due mani come si tiene un gatto o qualcosa che sta gocciolando. -Cazzo. Eccola- urla. Mi guardo intorno come per controllare che non si sia svegliato nessuno. E quando Ronnie vede che io non sono convinto, e lo vede dalla mia faccia che adesso è vicina, allora riprende a fare quei versi da scimmia. -Abbiamo tutto- dice. La luna adesso è alta. Ha fatto il giro sopra la collina e è in mezzo al cielo notturno come il neon sul soffitto di una cantina grossa come l’universo. Una mongolfiera gigante piena dei sogni e degli incubi che la gente fa d’estate, succhiata a morte dalle zanzare. I grilli cantano e smettono, cantano e smettono. Io e Ronnie siamo seduti da ore sotto l’albero dell’impiccato e non succede niente. Mi alzo e mi pulisco i pantaloni. La terra secca cade sulla terra sbriciolandosi. Nel buio del tronco vedo solo l’occhio rosso del diavolo, la brace della sigaretta della mamma di Ronnie. Ronnie tossisce, si alza in piedi anche lui e butta la cicca per terra. La spegne con la suola della ciabatta. Ai nostri piedi rimangono i cadaveri dei cerini e l’osso bruciacchiato su cui dorme un’ostia ancora intera.


UN FATTO DI CRONACA

Devono essere le tre o le quattro di mattina. Il motorino gratta nell’aria gonfia di silenzio e polvere. A destra e a sinistra i campi di girasole senza fine. Non ci penso a domani, non ci penso a dove finisce l’estate, non penso a niente. Il motorino fatica sulla salita, nel cortile di una fattoria i cani abbaiano forte. Arriviamo in cima al dosso, Ronnie mi stringe i fianchi per farmi fermare. Rallento, lui abbassa i piedi e la plastica delle ciabatte sfrega contro l’asfalto rovinato. Scendiamo dal motorino a fianco della strada, dove il catrame si mescola con l’erba dei fossi. Ci sono campi di frumento e più in là si stende la città. Le luci brillano, bianche e rosse, arancio, qualche scintilla blu. Si vedono le forme degli edifici, della stazione, della piscina coperta, dell’acquedotto e della chiesa dei gesuiti, della fabbrica del vetro. Le luci nell’ultima ora di buio ondeggiano assieme, sono mosse dallo stesso vento, sono frammenti dello stesso fuoco. Riaccendo il motorino e ritorniamo a casa.

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