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Times IIddeeee F Finanza inanza C Cultura ultura || A E sutat tun e n o2011 2009 | A | A n n on n o C iTnrqeu e | N | Nuumme errooC i S nq eu tt ee
Lo spettro dell’inflazione spaventa poco i mercati. Ma restano motivi diversi di preoccupazione.
Soldi
La ripresa economica è in atto, ma è ancora densa di squilibri e incertezze. Esistono molte interessanti opportunità d’investimento, specie nei Paesi emergenti, nei quali però i rischi di surriscaldamento inducono a tenere alta la soglia di attenzione. In questo quadro, la gestione del risparmio richiede grande cautela e ancora maggiore professionalità. Anima vuole garantire tutto questo, come attestano i numerosi riconoscimenti ricevuti di recente per l’eccellenza nella gestione finanziaria.
Storie
Verso nuovi equilibri di mercato
Segue a pagina 16
Da luglio cambiano le modalità ma non le aliquote di tassazione dei fondi comuni di diritto italiano.
Cultura
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entre le economie occidentali a dispetto dei problemi strutturali rimasti sul tavolo si mantengono in qualche modo sul sentiero di crescita bruscamente interrotto con la crisi finanziaria del 2008, mentre il Giappone cura le ferite del terremoto di marzo, i Paesi emergenti continuano a produrre crescita e ricchezza a ritmi molto superiori, anche se alcuni scorgono i segnali (soprattutto l’inflazione: di asset finanziari, immobili, materie prime) di una prossima crisi. Al tempo stesso, molte delle variabili che influenzano gli investimenti globali – ad esempio i rapporti fra le valute, la salita del prezzo del petrolio e delle altre materie prime, il finanziamento del debito di Usa e UE – incrociano prima o poi la traiettoria di sviluppo dei mercati emergenti, che in molti casi solo per abitudine chiamiamo ancora così. Come spieghiamo in questo numero di Anima Times, i paesi cosiddetti “BRIC” (Brasile, Russia, India e Cina) e i loro cugini meno citati non sono meteore o mode finanziarie, ma sono una realtà economica di cui si deve sempre più tenere conto. I gestori di Anima lo fanno già da tempo e con profitto, dedicando una parte dei portafogli agli investimenti, diretti e indiretti, nei mercati emergenti, ricercando le migliori opportunità e facendo attenzione ad evitare “infatuazioni” pericolose. Per cogliere le opportunità offerte dai mercati finanziari occorre un attento e costante lavoro di analisi. Ed è un compito, questo, che spetta alle società di gestione del risparmio. Oggi più che mai siamo coscienti della nostra responsabilità di “gestori attivi” e dell’importanza di guidare
L’INTERVISTA IMMAGINARIA: la profezia di Thomas Robert Malthus è arrivata solo con due secoli di anticipo.
Libri
Marco Carreri | Presidente, Anima
Letture per capire come stanno cambiando l’economia, la finanza e le nostre abitudini e consumi.
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Storie IL QUADRO ECONOMICO E FINANZIARIO MONDIALE
Cauta flessibilità
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Dopo tre anni di crisi, la crescita economica è in ripresa, anche se in modo diseguale e poco equilibrato. E nel quadro internazionale permangono ancora dei rischi da tenere sotto controllo. Mario Deaglio | Professore ordinario di Economia internazionale, Università degli Studi di Torino
L’
incidente nucleare giapponese continua a riversare nell’ambiente una grande quantità di radiazioni molto pericolose; la Banca centrale americana continua a immettere nel sistema finanziario mondiale, al ritmo di 75 miliardi di dollari al mese, una forte quantità di dollari potenzialmente tossici. Questo curioso parallelismo - ovviamente superficiale, ma utile per fissare le idee - induce a riflessioni non sempre rassicuranti su un quadro economico mondiale del quale non è più possibile effettuare valutazioni solamente con parametri economici. Chi vuole ragionare oggi sugli andamenti futuri dell’economia deve prendere in considerazione elementi del tutto inusuali e non economici, come l’impatto delle già citate radiazioni nucleari giapponesi che hanno indotto la Banca centrale di quel paese a ridurre di un punto percentuale le previsioni del prodotto interno lordo del 2011, abbassando da 1,6% a 0,6% la crescita stimata; o cercare di sciogliere difficili rebus politici, come quelli legati alle rivolte dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente, dalla cui soluzione può dipendere il prezzo del petrolio e quindi il futuro andamento dell’inflazione. Non è quindi un caso che le autorità monetarie dei paesi ricchi – che già da metà 2010 si dimostravano cautissime sulle possibilità di uscita rapida dalla crisi – da un paio di mesi dicano abbastanza chiaramente che il dopo-crisi sarà, per certi versi, più difficile della crisi: al recupero dei livelli produttivi pre-crisi, previsto entro il 2012 per le maggiori economie (con l’eccezione non trascurabile di Gran Bretagna, Italia e Spagna che ci met-
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teranno 2-3 anni in più) non fanno da contrappunto né il recupero dei livelli di occupazione e dei tassi di crescita precedenti, né una ragionevole certezza sul controllo dell’inflazione e dei debiti pubblici. Talvolta sembra che i banchieri centrali ritengano che le debolezze dei conti pubblici di Grecia e Portogallo possano rivelarsi un piccolo antipasto rispetto a quanto potrebbe venire, ma che forse si è ancora in grado di evitare. È questo, prima di tutti, il caso degli Stati Uniti, avvitati in un difficile, a volte aspro, scontro sulla pros-
In questa situazione, qualsiasi strategia finanziaria non può che muoversi all’insegna di tre principi: flessibilità, tempestività, piani alternativi.
sima legge finanziaria tra il governo del presidente Obama e un ramo del Parlamento (la Camera dei Rappresentanti) controllato dall’opposizione. «Non vogliamo essere inadempienti sui nostri debiti, sarebbe una politica rovinosa», dichiara il 9 febbraio 2011 Ben Bernanke - capo della Federal Reserve e, in quanto tale, il più importante banchiere centrale del mondo - alla Commissione economica della Camera dei Rappresentanti. Le sue dichiarazioni fanno sobbalzare gli esperti in quanto, prima di allora, nessuno aveva ufficialmente e pubblicamente avanzato dubbi sulla tenuta del debito americano. Tre settimane più tardi, il 1 marzo, davanti all’analoga Commissione del Senato, Bernanke rincara la dose: «Dopo la perdita di 8,8 milioni di posti di lavoro nel 2008-09, il settore privato ha creato poco più di un milione di nuovi posti nel 2010, a malapena
sufficienti ad assorbire l’afflusso dei nuovi ingressi nella forza lavoro… se, come previsto, la crescita rimane moderata, ci vorranno molti anni prima che la disoccupazione torni a livelli normali». Passa poco più di un mese e il 10 aprile Pimco, il maggiore operatore mondiale in titoli a reddito fisso, dichiara, per bocca del suo capo Bill Gross, di non voler più investire in titoli del Tesoro americano. Del resto Gross ha già venduto nel mese precedente 7 miliardi di dollari di tali titoli presenti nel suo portafoglio, definisce “una tragedia greca” la legge finanziaria americana che fatica a farsi strada in Parlamento e sta speculando al ribasso sui titoli del debito pubblico di Washington. Passa un’altra settimana e Standard&Poor’s, la nota agenzia di valutazione di titoli, rivede al ribasso l’outlook del debito pubblico americano. Non si tratta ancora di declassamento, bensì di un avviso importante (e umiliante per quella che è ancora la prima potenza finanziaria del mondo): se continuate così, dicono i valutatori, vi declasseremo nel giro di 2-3 anni. Non fa meraviglia, quindi, che il dollaro, rimasto a lungo stabile su un valore di 130-135 cents per un euro, abbia cominciato a perdere vistosamente terreno, nonostante i problemi del debito sovrano di alcuni Stati, e che e a fine aprile 2011 si trovasse in prossimità di 150 cents. Lo stesso avvertimento viene dato pochi giorni dopo al Giappone: secondo gli esperti la ricostruzione costerà 250 miliardi di dollari che il paese del Sol Levante, già indebitato in modo pesantissimo, avrà difficoltà a trovare. Apparentemente i mercati finanziari non se ne danno per inteso, ma per oro, metalli, petrolio si rafforza un movimento al rialzo in atto da vari mesi. Gli intenti speculativi si sommano alla di-
Premio Alto Rendimento 2010 ad Anima come Miglior gestore – 1° classificato, nella categoria “Big” Premio Alto Rendimento 2010 ad Anima Emerging Markets come miglior fondo azionario emerging
saffezione dei mercati non solo per il dollaro ma per le monete in genere: i produttori non amano più essere pagati in dollari che perdono rapidamente e vistosamente valore, gli operatori – per parafrasare Einaudi – «votano con i piedi», ossia si allontanano dalla finanza più rischiosa e sono alla ricerca di cose “solide”, come i metalli e il petrolio appunto; o anche di azioni di società con molti beni al sole. Per i cereali, poi, ci si mettono anche i temporali, le trombe d’aria e i tornado che devastano le grandi pianure interne degli Stati Uniti, rendono difficili le semine e propensi a scattare all’insù i prezzi. Si arriva così al 28 aprile 2011 e alle deludenti notizie sull’occupazione, sui prezzi, sulla crescita di oltre Atlantico. La velocità di crescita dell’economia americana cala dal 3,1% dell’ultimo trimestre 2010 all’1,8% del primo trimestre 2011 (pari a circa zero in termini di crescita per abitante, essendo quasi uguale al tasso di crescita della popolazione); au-
mentano i first claims, ossia le cifre dei nuovi disoccupati che tutti prevedevano in diminuzione; si riduce la crescita della spesa per i consumi, ormai prossima allo zero. E riappare lo stesso Ben Bernanke, nella prima conferenza stampa nella storia della Fed per annunciare una sforbiciata alle stime di crescita e un piccolo aumento alle stime per l’inflazione. La prospettiva di un’inflazione fuori controllo tormenta invece India e Cina, soprattutto quest’ultima che teme una riduzione della meravigliosa coesione sociale che ha accompagnato fin qui la crescita più spettacolare della storia. A questo punto, il lettore che provasse un senso di vertigine e di sgomento è ampiamente scusato. È però proprio in occasioni come queste che, per chi ha interesse ai mercati finanziari, è necessario mantenere la calma e raddoppiare l’attenzione. In questa situazione, qualsiasi strategia finanziaria non può che muoversi all’insegna di tre principi: flessibilità, tempestività, piani alternativi:
lessibilità significa che non ci sono più principi F eterni né mostri sacri, che il dollaro va considerato come le altre monete, che occorre essere intellettualmente preparati a mutamenti di ogni tipo. Tempestività significa che la situazione va seguita con una continuità molto maggiore del solito. Assieme, i due principi denotano un’attitudine positiva al mondo che cambia, la curiosità di capire e la voglia di partecipare. Piani alternativi, infine: i cambiamenti epocali potrebbero anche risultare stemperati, senza accentuazioni e momenti di crisi. Alcune situazioni di crisi, però, debbono e possono essere previste in modo da poter agire subito. Bisogna, in altre parole, avere nel cassetto quello che in gergo si chiama un “Piano B”. Sperando di non dover mai aprire quel cassetto, ma anche considerando che, come dice un fin troppo citato proverbio inglese, quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. A
inflazione
Uno spettro che non fa paura Mario Noera | Professore di Economia degli intermediari finanziari, Università Bocconi Con i primi mesi del 2011 sembrerebbe essersi riaffacciato anche in Europa lo “spettro” dell’inflazione. Fino a pochi mesi fa questo era un problema confinato solo ai paesi emergenti. Per buona parte del 2010 il mondo appariva infatti diviso in due: da una parte Cina, India e Brasile dovevano fronteggiare forti accelerazioni dei prezzi interni, sospinti da una crescita economica esuberante e da massicce importazioni di capitali; dall’altra, USA, Europa e Giappone erano invece ancora afflitti dai postumi della crisi finanziaria, con una disoccupazione elevata e latenti pericoli di deflazione. A livello globale, tuttavia, la crescita economica dei paesi emergenti si traduceva in un forte aumento della domanda di materie prime energetiche ed alimentari, esercitando una costante pressione al rialzo sulle loro quotazioni. Le politiche monetarie espansive adottate dalle Banche Centrali occidentali, finalizzate a contrastare la deflazione, avevano inoltre esasperato il fenomeno, dirottando sulle materie prime ingenti masse di liquidità alla ricerca di impieghi speculativi. Le preoccupazioni che ad aprile hanno portato la BCE ad alzare il tasso sulle proprie operazioni di rifinanziamento (portandolo dall’1% al 1,25%) trovano però solo in parte spiegazione nell’eccessivo aumento dei prezzi delle materie
prime. La BCE cerca infatti solo di anticipare la possibilità che l’aumento dei costi delle materie prime possa traslarsi anche sui prezzi degli altri beni, cioè sulla cosiddetta inflazione “core”. La “core inflation” è un indicatore dei prezzi al consumo depurato della dinamica delle quotazioni energetiche e dei prezzi alimentari. L’importanza segnaletica di questo indicatore deriva dall’assunzione che esso, essendo immune dagli effetti diretti dei prezzi delle materie prime importate, sia particolarmente adatto a segnalare le componenti endogene della dinamica dei prezzi, cioè il manifestarsi di eccessi di domanda interna di beni o di pericolose rincorse tra prezzi e salari. Nel corso del 2010, pur a fronte dei forti aumenti di prezzo di energia e beni alimentari, l’inflazione al consumo complessiva (la cosiddetta “headline inflation”) dell’Eurozona, si era attestata in media all’1,6% e la dinamica dell’inflazione “core” era invece apparsa sostanzialmente stabile su livelli storicamente molto bassi. Più di recente -tra il 4° trimestre 2010 ed il 1° trimestre 2011- non solo l’inflazione complessiva (“headline inflation”) si è portata al 2,6%, ma anche la “core inflation” ha mostrato qualche segno di movimento, portandosi attorno all’1,2%. Sono entrambi segnali molto tenui e tali da non
destare di per sè particolari preoccupazioni prospettiche. All’interno dell’Eurozona, la BCE ha tuttavia il problema di conciliare un’unica politica monetaria con situazioni congiunturali molto differenziate tra i paesi membri (una situazione in cui l’economia tedesca cresce già a ritmi sostenuti ed alcuni paesi periferici fronteggiano ancora prospettive recessive, come Grecia e Portogallo, o di crescita molto modesta, come Spagna e Italia). Non vi è quindi alcun pericolo inflazionistico alle porte, soprattutto tenendo conto dell’azione monetaria di “contenimento preventivo” delle aspettative messo in atto dalla BCE.
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Storie L’ECONOMIA ITALIANA
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on c’è dubbio che stiamo vivendo anni di grande cambiamento. Molte delle certezze del passato sono state definitivamente spazzate via dalla violenza della crisi del 2007-09: la certezza della crescita infinita, del benessere per tutti e del debito facile. Con queste certezze, sembra ormai appannarsi anche il mito della perenne supremazia delle economie occidentali. All’interno di questo quadro, l’Europa sembra paralizzata dalla sua incapacità di darsi regole di governance condivise e, all’interno dell’Europa, l’Italia appare a molti quasi alla deriva, abbandonata ad una prospettiva di inesorabile declino. Quasi quotidianamente emergono statistiche che mostrano i paesi europei in affanno e l’Italia in coda alle classifiche mondiali. L’Italia è stata classificata dalla Banca mondiale1 solo 29° tra i paesi OCSE per “facilità di fare impresa” (dietro a tutti i paesi UE, tranne la Grecia) ed è stata addirittura collocata (da una ricerca di Banca Mondiale, IFC e PWC2) 167ma su 183 paesi per il peso asfissiante del prelievo fiscale sulle imprese. Il Pil italiano è atteso crescere molto poco nei prossimi anni (tra l’1% e l’1,5% all’anno) perché il Paese è appesantito dall’obsolescenza delle sue infrastrutture, dall’inefficienza delle sue burocrazie, dalla rigidità dei suoi mercati e dall’invecchiamento della sua popolazione. Queste sono tutte evidenze indiscutibili, che - come purtroppo ci viene ricordato quasi quotidianamente - sollecitano a “non perdere tempo”, “a concentrarsi sui problemi effettivi”, a “cambiare passo” e a “disegnare progetti di lungo respiro” per ridare all’economia italiana lo slancio perduto. Tutto ciò è vero. Ma non è tutta la verità. Un elemento estremamente positivo che sembra sfuggire all’immagine dominante del nostro Paese e che merita di essere rimesso al suo giusto posto dentro al quadro è che l’Italia è uno dei paesi patrimonialmente più solidi del mondo. Quando si analizza un’impresa si guardano molteplici elementi: non si guardano solo il fatturato, le prospettive di crescita, le strategie, la capacità del suo management, la redditività ecc. Si guarda anche – e con grande attenzione - al suo generale equilibrio patrimoniale, cioè all’equilibrio tra attività e passività, tra debito e capitale. Un debito elevato può non essere, ad esempio, un problema se l’impresa ha anche capitali propri adeguati. Un’impresa patrimonialmente solida può anche superare momenti di crisi, perché ha le risorse per riorganizzarsi e rilanciarsi. Perché non dovremmo usare le stesse informazioni per valutare anche i Paesi? Purtroppo, di un Paese, è più facile misurare i debiti che le attività. Ma già anche solo guardando ai debiti totali (cioè considerando anche l’indebitamento di famiglie e imprese e non solo quello pubblico) l’Italia appare meno disastrata di quanto non sia usuale considerarla. È vero, infatti, che il debito pubblico italiano è elevatissimo (119% del Pil a fine 2010, contro una media UE del 85,1%), ma è anche vero che, se si sommano i debiti pubblici e privati di ogni Paese (come ha fatto McKinsey in uno studio del 20103), l’Italia non appare affatto in condizioni peggiori degli altri. Anzi. Il debito totale italiano (debito pubblico + debito privato) è infatti alto (298% del Pil), ma l’Italia appare messa molto meglio di molti altri Paesi come il Giappone (460%), la Gran Breta4
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Debito pubblico e ricchezza privata Monnezza e nobiltà. In Italia i consumi delle famiglie, soprattutto di fascia alta, sono relativamente indipendenti dallo stato generale delle finanze pubbliche.
La crescita dell’Italia è da molti anni inferiore a quella degli altri paesi avanzati. Paradossalmente la ricchezza delle famiglie italiane è tra le più alte al mondo. Per contribuire allo sviluppo, dovrà quindi essere indirizzata verso impieghi più produttivi. Mario Noera | Professore di Economia degli intermediari finanziari, Università Bocconi gna (380%), la Spagna (342%) e perfino la Francia (308%). Gli Stati Uniti si collocano subito sotto all’Italia (290%) e addirittura il debito complessivo della virtuosissima Germania appare molto vicino a quello italiano (274% del Pil). Il debito pubblico italiano in rapporto al Pil è cioè molto alto ma, rispetto ad altri paesi, è ampiamente compensato da un debito privato molto basso. Buone informazioni emergono anche guardando all’altro lato dello stato patrimoniale: cioè guardando all’attivo. Anzi, ad una sola parte dell’attivo: la ricchezza delle sole famiglie. Da questo punto di vista una recente ricerca di Credit Suisse Research4 ci ha fornito informazioni preziose perché ha ricostruito e messo a confronto la ricchezza lorda (finanziaria ed immobiliare) delle famiglie in 160 paesi. Per l’Italia ne esce un quadro inedito e quasi incoraggiante. In valori assoluti, la ricchezza mediana (quella dell’individuo che divide esattamente in due la popolazione) è infatti in Italia una delle tre più elevate al mondo (115mila dollari) e segue solo quella della Norvegia e dell’Australia (che sono due Paesi ricchissimi di materie prime). Anche tenendo conto della diversa numerosità della popolazione adulta
tra i diversi paesi, l’Italia si colloca su posizioni di classifica elevatissime: la ricchezza media pro-capite è infatti la settima al mondo e - tra i paesi cosiddetti ricchi del G7 - è seconda (dopo la Francia). Quanto vale questa ricchezza privata rispetto al principale problema finanziario del paese, che è il debito pubblico? Moltissimo: l’Italia ha infatti il più alto rapporto al mondo tra ricchezza delle famiglie e debito pubblico; la ricchezza è più di 4,35 volte superiore al debito, un rapporto più elevato addirittura di quello della Germania (4,25) e più che doppio di quello di Grecia e Irlanda, cioè i Paesi europei oggi in grave difficoltà finanziaria. Applicato a un impresa, un valore come quello italiano suonerebbe rassicurante. È un paradosso? Più che un paradosso, i dati di ricchezza sono la misura di valori economici tradizionali che, in Italia più che altrove, non sono stati ancora dispersi: la capacità di risparmiare e la propensione a non finanziare con debiti i propri consumi. Forse, come sostengono alcuni, queste “virtù” delle famiglie italiane sono dettate dallo “stato di necessità”, cioè dall’esigenza di tutelare il proprio futuro minacciato dalle inefficienze pubbliche. È però fuori di dubbio che - come in ogni impresa pa-
Premio Top Rating ad Anima ai Milano Finanza Global Awards 2011 Tripla A ai fondi: Emerging Markets Equity, Europe Bond confluito in Risparmio, Internazionale confluito in Visconteo
trimonialmente solida - in Italia vi siano ancora ottime premesse per affrontare gli ammodernamenti, le riorganizzazioni e i sacrifici necessari per il rilancio. Basterebbe cominciare a farlo seriamente. A partire dalla diagnosi. L’Italia si deve lasciare alle spalle molti anni di performance macroeconomiche mediocri, nel corso dei quali non ha saputo reagire alle grandi sfide imposte dal cambiamento globale (caduta del muro di Berlino, unificazione monetaria e ascesa dei paesi emergenti), perdendo nel tempo slancio e competitività. L’adesione all’euro imponeva la capacità di supplire con progressivi aumenti di produttività interna alla rinuncia del cambio come leva competitiva. Non poter più contare come nel passato sulla svalutazione della lira aveva implicazioni strategiche molto impegnative e non eludibili: non solo il contenimento del disavanzo e del debito pubblici entro i parametri di Maastricht, ma anche sostegno all’innovazione, cura della qualità del capitale umano, liberalizzazione dei mercati interni e progressivo smantellamento delle rendite di posizione e delle incrostazioni corporative annidate in troppi ambiti della società e dell’economia. È soprattutto su quest’ultimo terreno che l’Italia, negli ultimi quindici anni, ha invece perso terreno. Contrariamente a quanto talvolta si lascia credere, “bassa produttività” non è sinonimo di “poca voglia di lavorare”. La produttività di un paese dipende invece dall’adeguatezza delle sue infrastrutture e dei suoi servizi, dalla semplicità delle procedure amministrative, dalla certezza dei contratti, dalla rapidità della giustizia civile e dalla funzionalità del suo sistema educativo. Tutti elementi su cui, alla prova dei fatti, l’Italia non ha investito abbastanza. È stata invece mantenuta per troppi anni una linea di galleggiamento precaria, giocata quasi esclusivamente sul tasto - necessario, ma non sufficiente - del contenimento dei salari (che nel periodo sono cresciuti in media annua dello 0,4%, contro una crescita dei profitti dell’8,1%5). Questa virtù non ha saputo però tradursi in benefici. Il massiccio trasferimento di risorse dal lavoro ai profitti (oltre l’8% del Pil, pari a oltre 120 miliardi di euro6) non ha trovato canalizzazione - come invece in altri paesi - in investimenti produttivi e iniziative innovative7. Si è invece cristallizzata in una crescente ricchezza finanziaria e immobiliare. La grande forza del paese - il suo invidiabile stock di ricchezza - è stata quindi allo stesso tempo anche lo specchio della sua stagnazione. L’accumulazione di ricchezza è stata alimentata negli anni da massicci processi redistributivi, non da un’esuberante crescita del reddito complessivo; essa si è sostituita agli investimenti reali anziché alimentarli; si è tradotta in dilatazione delle disuguaglianze sociali e in minore capacità di consumo interno, deprimendo la domanda. Accumulazione di ricchezza finanziaria e immobiliare, insufficiente propulsione della domanda interna (per consumi e investimenti) e decrescente competitività esterna (e quindi insufficiente crescita delle esportazioni nette) sono dunque facce della stessa medaglia. La vera sfida per l’Italia è saper mobilitare e canalizzare le proprie risorse verso impieghi produttivi. Se si parte da questa premessa, il futuro del paese appare meno scoraggiante: l’Italia ha ancora ottime carte in mano, adesso deve solo volerle giocare. A
MERGER & ACQUSITIONS
Il bello della crescita attraverso l’M&A Le operazioni di fusione e acquisizione (Merger & Acquisition, M&A) costituiscono spesso un passaggio importante per un’azienda che si trovi a fronteggiare un periodo di stagnazione del mercato, o una crisi come quella del biennio 2008/2009. Attraverso quella che si definisce spesso “crescita inorganica” è, infatti, possibile aumentare le dimensioni dell’impresa, entrare in nuovi mercati, acquisire tecnologie interessanti e incamerare risorse umane e talenti in grado di arricchire la struttura dell’impresa. In Italia questo strumento è peraltro utilizzato in misura abbastanza limitata. Nel 2010, per esempio, si sono registrate solo 279 operazioni di M&A su un totale mondiale che ha sfiorato le 30.000 operazioni. E in valore le cose sono andate anche peggio: solo 30 miliardi di dollari circa su un totale mondiale di 1.847. Uno dei motivi di questa situazione di assenza è certamente costituito dalla dimensione relativamente piccola delle imprese italiane, ma un secondo fattore importante è costituito anche dall’insufficiente appoggio del sistema bancario e finanziario in generale. Eppure, vi sono aziende italiane che hanno saputo in questi anni sfruttare le strategie di fusione e acquisizione in modo veramente
magistrale. Un esempio è dato da Autogrill che, una volta privatizzata nel 1995, è entrata in borsa nel 1997 e ha avviato rapidamente una lunga serie di acquisizioni che l’hanno portata a essere uno dei protagonisti della ristorazione “on the road” e dei negozi duty free di mezzo mondo. L’azienda, che oggi fattura quasi 6 miliardi di euro e ha oltre 62.000 dipendenti, opera in 1.200 località diverse con più di 5.300 punti vendita. Nel tempo ha acquisito catene come HMSHost (Marriott) negli Stati Uniti, Aldeasa in Spagna, Alpha Group e World Duty Free in Gran Bretagna, oltre ad attività in posti diversi come Vancouver e Atlanta negli Usa, e duty free a Kuwait City e a Riad (Arabia Saudita). E un altro esempio eccellente, di un’azienda familiare e di piccola dimensione, è quello del gruppo dolciario Colussi (oggi non più tanto piccolo, poiché fattura 500 milioni di euro). La famiglia Colussi ha portato l’azienda a livelli competitivi avanzati con una serie di acquisizioni con cui oggi domina diversi mercati con marchi molto noti come Misura, Flora, Liebig, Sapori, Maltagliati e Pangram. È presente con i suoi prodotti in 11 aree merceologiche e in ben 60 Paesi e di recente ha persino stretto un accordo di distribuzione con il gigante Del Monte.
1 Banca Mondiale, Doing Business Report 2011, giugno 2009-maggio 2010. 2 Price Waterhouse Cooper, Paying Taxes in 2011: the Global Picture. 3 McKinsey Global Institute, Debt and Deleveraging: The Global Credit Bubble and Its Economic Consequences, gennaio 2010. 4 Credit Suisse Research, Global Wealth Report, ottobre 2010. 5 Nel 1998 il reddito pro-capite italiano era del 20% superiore alla media europea, a fine 2009 si è collocato sulla media (appena il 2% sopra). In termini di reddito pro-capite, l’Italia è stato il paese che ha avuto nel periodo la perdita di posizione relativa più elevata. 6 La quota del Pil classificata dall’ ISTAT alla voce “profitti” era del 23% nel 1983 ed è salita al 31% nel 2005, mentre la quota destinata alla remunerazione del lavoro è passata dal 77,8% al 68%. 7 Dossier ISTAT, Crescita, produttività e investimenti delle imprese italiane, luglio 2004.
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Storie GLI EQUILIBRI ECONOMICI GLOBALI
Emersi e competitivi I Paesi che fino a ieri chiamavamo Terzo mondo sono oggi una realtà economica di crescente importanza, con mercati attraenti e con imprese sempre più forti capaci di competere non solo a costi bassi, ma con ottima qualità. Enrico Sassoon | Direttore responsabile di Harvard Business Review Italia
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e lo spostamento del baricentro degli interessi economici e commerciali mondiali è iniziato da ormai molti decenni, muovendosi gradualmente dall’Atlantico al Pacifico, negli ultimi anni questa dinamica è divenuta sempre più forte, a mano a mano che il processo ha teso ad accelerare sia per la maggiore velocità di crescita dei paesi emergenti, sia per la relativa stagnazione di quelli più sviluppati. E i dati di fatto sono indubbiamente impressionanti. Le economie dei paesi emergenti pesavano all’inizio degli anni Novanta all’incirca un terzo dell’economia mondiale, contro i due terzi dei Paesi avanzati, a loro volta dominati dalla massiccia realtà nordamericana e da quella europea. Oggi il peso economico degli emergenti supera la metà del totale mondiale e si avvia entro meno di vent’anni a costituirne i due terzi. Dunque, in soli quarant’anni, dal 1990 al 2030, un totale ribaltamento di situazione, con il mondo ricco che contava due terzi avviato a pesare attorno al 35% e, viceversa, il mondo emergente (ma nel 2030 non potremo certamente più considerarlo tale) pronto a passare al timone dell’economia mondiale dominandone i due terzi. È bene soffermarsi su questi dati perché il loro significato va colto in tutte le sue implicazioni. Infatti, nella percezione della gente i Paesi emergenti sono quelli che crescono velocemente perché partono da una base molto bassa e dunque si trovano nella fase di decollo dove alti ritmi di crescita sono da considerare normali; un’altra convinzione diffusa è che competono bene sul piano internazionale perché il costo del lavoro nelle loro imprese è molto più basso che altrove; un terzo elemento del buon senso comune è che sono paesi ancora troppo poveri per rappresentare un mercato veramente attraente per le imprese dei paesi più avanzati; e un quarto mito è che sono i destinatari di un trasferimento di tecnologie, spesso superate, da parte dei paesi industrializzati, e che sono sostanzialmente incapaci di produrre scienza e tecnologia a livelli realmente competi-
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tivi; infine, il quinto luogo comune è che la loro popolazione conta sì miliardi di persone, ma che il loro livello d’istruzione le rende inadatte a spostarsi internazionalmente e a riempire, eventualmente, le esigenze che si manifestano nei paesi di antica industrializzazione. Sono cinque opinioni molto diffuse e, sebbene in passato abbiano avuto un’ovvia parte di verità, oggi sono sempre meno fondate; e permanere nell’errore è molto pericoloso, perché non consentirebbe di scorgere i pericoli competitivi che vengono oggi da questi paesi e, dunque, di farvi fronte nel modo adeguato. Vediamo, allora, in breve cosa accade realmente. Il primo elemento è quello della crescita, di cui si è detto. Da tempo questo sviluppo non è più fondato prevalentemente sulla sostituzione delle importazioni e sull’export; nei fatti, in molti paesi del cosiddetto B6 (Brasile, Cina, India, Messico, Russia e Sud Corea) e in altri emergenti la crescita è alimentata da una classe media di crescenti dimensioni e con un potere d’acquisto relativamente elevato. Le stime indicano che entro dieci anni in Cina questa popolazione, che già oggi conta per più di 100 milioni di individui, supererà i 300 milioni. E non si tratta solo di Cina, India o simili; una ricerca McKinsey calcola in 100 milioni gli africani che in 10-15 anni avranno un reddito pro-capite da classe media e, dunque, un potere di spesa corrispondente. Il punto centrale è che questa classe media for-
temente urbanizzata esercita una forte domanda di beni e servizi che alimenta il mercato locale e quello internazionale. Riferendosi nuovamente alla Cina, oltre 100 città “minori” hanno una popolazione superiore al milione di abitanti e si stima che nel 2025, delle 30 “megalopoli” del mondo, 25 saranno situate nei paesi oggi chiamati emergenti. Nell’insieme, e nel breve termine, la classe media con almeno 5.000 dollari di reddito pro-capite annuo passerà da 2,6 miliardi del 2010 a 4 miliardi nel 2014. Dunque, la base per la crescita accelerata è ormai essenzialmente interna e nei prossimi anni tenderà solo a crescere ulteriormente. Il secondo punto concerne la capacità competitiva basata sul basso costo del lavoro, sulla scarsa protezione sociale e sul basso rispetto per l’ambiente. È certamente vero che finora questi elementi hanno pesato in modo determinante. Ma da qualche anno a questa parte, pur rimanendo evidenti, pesano sicuramente meno. Le imprese dei paesi emergenti hanno infatti imparato che competere sulla base dei prezzi bassi (consentiti dai costi contenuti) è una strategia destinata ad esaurirsi, a mano a mano che crescono le richieste sociali interne e che sale il reddito medio (quello che poi determina la capacità di spesa che alimenta la domanda). Per cui, queste imprese hanno già da tempo avviato strategie di investimento e di utilizzo di forza lavoro a più alto grado d’istruzione, che formano la base per una crescente capacità di innovazione. E questa è a sua volta il frutto di un sempre più alto livello scientifico e tecnologico che consente lo sviluppo di prodotti di migliore qualità, con buoni livelli tecnologi-
Il lettore Kindle di Amazon, venduto in tutto il mondo a milioni di esemplari, viene prodotto con componenti che vengono in massima parte dalla Cina.
Grand Prix Eurofonds-Fundclass ad Anima come Migliore società di gestione in Italia per il numero di fondi analizzati compreso tra 16 e 25 GLI EQUILIBRI ECONOMICI GLOBALI
La ben nota auto low cost Nano dell’indiana Tata è stata studiata in parte in India, ma in parte da aziende occidentali.
ci, che rimangono comunque molto competitivi in base al prezzo. Due esempi sono, sotto questo profilo, decisamente impressionanti. Il famoso lettore Kindle di Amazon, venduto in tutto il mondo a milioni di esemplari, viene prodotto con componenti che vengono in massima parte dalla Cina; e nessuna fabbrica statunitense potrebbe produrre il Kindle con componenti americane perché, semplicemente, non esistono. La ben nota auto low cost Nano dell’indiana Tata è stata studiata in parte in India, ma in parte da aziende occidentali (come la Bosch) che hanno sviluppato componenti di buon livello e a basso costo che mettono in grado il costruttore indiano di produrre e commercializzare l’auto (di buona capienza e buon livello medio) a meno di 2.000 dollari l’una. Un successo che avrà conseguenze sugli equilibri dei segmenti più bassi dell’auto su scala planetaria. Il terzo fattore è quello di mercato. Molte imprese ritengono ancora oggi di non avere delle reali opportunità nei paesi emergenti perché i loro prodotti o servizi sono troppo costosi mentre il mercato locale chiede ancora i tradizionali prodotti a basso costo che dominavano fino a qualche anno. La realtà è oggi ben diversa e lo sarà soprattutto domani. A parte la ben nota realtà per la quale molte aziende del lusso occidentali prosperano nei mercati emergenti (basta pensare a Zegna, Ferrari, Luis Vuitton o Rolex), ciò che è realmente interessante per le aziende di tutte le dimensioni (piccole e medie comprese) è il cosiddetto mercato “alla base della piramide”, al quale normalmente non si pensa. È un mercato costituito da almeno tre miliardi di persone di livello basso, ma superiore a quello di sopravvivenza, che chiedono beni e servizi poco costosi, ma anche con caratteristiche di grande semplificazione. Si parla, per esempio, di frigoriferi più piccoli ed esteticamente meno attraenti di quelli abituali, di confezioni di detersivi o di shampoo di minore dimensione e magari monodose, di scooter e motorini poco costosi e senza optional modaioli; insomma, di tutta quella gamma di prodotti che, svestiti da inutili orpelli indispensabili in Occidente, servono alla popolazione dei paesi emergenti per vivere meglio. E non può non saltare all’occhio che questo particolare mercato sembra fatto apposta per le dinamiche, flessibili e creative imprese italiane di minore dimensione. Il quarto mito è quello della scienza e tecnologia cui si è già accennato in precedenza e in proposito vale la pena notare solo che sono ormai un piccolo esercito le multinazionali americane (come IBM, Cisco, Intel, Microsoft e Procter & Gamble) che hanno delocalizzato non solo la produzione di certi beni, ma anche importanti centri di ricerca per avvalersi della crescente dotazione scientifi-
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co-tecnologica di alcuni paesi emergenti (per ora questo discorso riguarda essenzialmente Cina e India, ma si sta allargando anche altrove). Va anche segnalato che la Cina è oggi al secondo posto al mondo nella produzione di articoli scientifici e che entro qualche anno potrebbe balzare al primo; e lo stesso vale per la sua spesa in R&S, che sale ogni giorno di più e porterà il paese al primo posto nel mondo per il 2025-2030. L’ultimo elemento da considerare è quello dei talenti.
Se fino a qualche anno fa indiani, cinesi, coreani, filippini, brasiliani e messicani si recavano in massa a studiare nelle università americane, nella speranza poi di trovare lì lavori ben pagati irreperibili in patria, oggi la musica è diversa. Innanzitutto molti di questi studenti, ormai divenuti professionisti di successo, stanno tornando a casa chiamati dalle imprese locali che vogliono beneficiare della loro esperienza; in secondo luogo, le università dei paesi emergenti stanno sfornando centinaia di migliaia di ottimi studenti ogni anno, specie nelle materie scientifiche (in primis, ingegneria e matematica); in terzo luogo è crescente l’esigenza sia delle imprese, sia delle società mature, di far affluire questi tecnici e laureati, per le carenze che sono ormai divenute evidenti sia in Europa sia, ormai, anche in America. In conclusione, anche solo rispetto a cinque anni fa il mondo è molto cambiato e i paesi emergenti costituiscono una realtà di una forza fino a ieri del tutto insospettabile. Sarebbe un grave errore di prospettiva non tenerne conto. A
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Storie MATERIE PRIME
La spinta continua I recenti rincari dei prodotti di base, energetici e non, sono il frutto di una domanda mondiale in continuo incremento. Ecco perché i prezzi sono destinati a restare elevati. Un particolare dell’edificio Art Deco della Borsa di Chicago.
Fabrizio Galimberti | Editorialista de Il Sole 24 Ore
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aterie prime: in tempi di finanza più o meno creativa il nome stesso riporta bruscamente alla realtà. Nella sempiterna contrapposizione fra economia e finanza, fra carta e lamiera, le materie prime stanno ancora più a monte della lamiera e sono lì a ricordarci che senza quel che tiriamo fuori dalle viscere della terra non ci sarebbero neanche banche e derivati. Ma non sono queste filosofiche considerazioni che hanno portato le materie prime in prima pagina, quanto gli strappi dei prezzi. Che ci sono stati e hanno destato molte preoccupazioni. Preoccupazioni? Un osservatore marziano potrebbe dire che le materie prime sono un costo per chi le compra e un reddito per chi le vende. Talché le preoccupazioni dei primi sono la contentezza dei secondi. Ma qui, visto che i Paesi occidentali in generale (con alcune eccezioni) e l’Italia in particolare sono Paesi utilizzatori di materie prime, esaminiamo gli scenari “preoccupati”. Tanto più che l’impennata di quei prezzi viene presa come “scusa” per aumentare i tassi di interesse. Un’osservazione preliminare. Abbiamo usato i termini “strappi” e “impennate” per descrivere i movimenti dei prezzi delle materie prime. Nell’altra direzione avremmo potuto usare termini come “crolli” o “sgretolamenti” (ci sono stati anche quelli, ma ci ricordiamo più facilmente gli aumenti che i ribassi). La ragione di questi movimenti bruschi sta in quello che gli economisti chiamano lo hog cycle. Quando il prezzo degli hog (i maiali) aumenta, gli allevatori ne producono di più; ma una scrofa mette al mondo anche 10 maialini in una volta, talché quando questa maggiore “produzione” arriva sul
mercato (dove nel frattempo i prezzi hanno continuato a salire, dato che la maggiore offerta ha bisogno dei tempi tecnici per far sentire i propri effetti) si crea un grosso squilibrio fra domanda e offerta. La prima magari sta già scendendo per motivi di mercato, mentre la seconda si è moltiplicata, data la scomoda fecondità delle scrofe. Il risultato è un crollo dei prezzi: lo hog cycle oscilla quindi fra penuria e abbondanza, e l’andamento delle quotazioni fa concorrenza ai profili delle montagne russe. Questo meccanismo non agisce solo sugli hog. Agisce per tutti i raccolti (alti prezzi ➡ maggiori semine con i relativi tempi tecnici ➡ raccolti abbondanti ➡ prezzi bassi) e anche per i minerali, dal petrolio allo zinco o alla bauxite (alti prezzi ➡ apertura di nuove miniere/pozzi o rimessa in funzione di quelli chiusi ➡ offerta abbondante ➡ prezzi in discesa). Agisce anche per attività a valle del raccolto/estrazione, come i trasporti: quando aumenta la domanda (e i prezzi) delle materie prime i noli si impennano anch’essi, dato che la capacità di trasporto è quella che è. L’aumento incoraggia la costruzione di nuove navi che arrivano sul mercato (dopo tempi tecnici molto lunghi) e fanno crollare i noli. Dietro a questi meccanismi vi è una caratteristica comune: la difficoltà di adeguare l’offerta alla domanda, dato che la prima non può aumentare con piccoli aggiustamenti al margine, ma solo per grosse quantità e in tempi non ravvicinati. Questa lunga premessa serve per giustificare uno “sguardo lungo” sui prezzi, per traguardare i movimenti bruschi con la lente di un periodo non breve. A sua volta questo sguardo lungo impone di guardare
materie prime: prezzi nominali e reali 250
ai prezzi reali. Nel lungo periodo tutti i prezzi aumentano e quindi per apprezzare il comportamento delle materie prime è d’uopo controllare se quelle quotazioni siano aumentate più o meno del livello generale dei prezzi. Il primo grafico mostra l’andamento, nell’ultimo mezzo secolo, dei prezzi nominali e reali delle materie prime. Come si vede, gli ultimi aumenti sono stati vistosi, ma costituiscono in fondo una reazione a un lungo sgretolamento dei prezzi reali, che li aveva portati, all’inizio del secolo, a minimi storici, con danno dei Paesi produttori (che sono in media meno ricchi dei Paesi consumatori). Ancora oggi, malgrado i forti aumenti, i prezzi reali sono più bassi rispetto alla fine degli anni Cinquanta. Il secondo grafico mostra come non ci siano grosse divaricazioni, all’interno delle materie prime, fra gli indici che includono il petrolio, quelli che coprono i metalli e altri input di base dell’industria, e le derrate alimentari. Segno che ci sono potenti forze comuni alla radice della presente corrente ascendente dei prezzi. Questa corrente ascendente troverà fra non molto, secondo i classici meccanismi dello hog cycle, una maggiore offerta, ma questo non vuol dire che le quotazioni potranno scendere come in passato. La fame di materie prime dei Paesi emergenti (con l’industria pesante che ricalca il passato sviluppo dei Paesi emersi) e il cambiamento dei modelli nutrizionali nei Paesi più popolosi del mondo porteranno a una pressione costante sui prezzi di minerali e derrate. I paesi consumatori, insomma, non possono più sperare nello hog cycle e devono farsi una ragione del fatto che il potere negoziale si è spostato dalla parte dei Paesi produttori. A
I prezzi reali delle materie prime 250
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l petrolio sarà caro per tutto il 2011. E anche nel 2012. Lo stesso, secondo molti esperti, negli anni successivi. Il Fondo Monetario Internazionale, nel suo ultimo World Economic Outlook, uscito in aprile, sostiene che nel futuro prevedibile l’offerta di greggio sarà scarsa e i prezzi elevati. Petrolio caro, dunque, ma quanto? A metà aprile era intorno ai 120 dollari per barile, mentre per buona parte del 2010 è stato tra i 70 e i 90 dollari. Secondo alcuni analisti potrebbe salire entro pochi mesi a 130-150 dollari e tornare così al record storico di 147 dollari del luglio 2008. Sono prezzi da shock. E l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) ha avvertito che il greggio a più di 100 dollari è «incompatibile» con la ripresa dell’economia mondiale. Nei primi mesi del 2011 l’escalation dei prezzi è stata in parte connessa alle vicende politiche del Medio Oriente e Nord Africa, una regione che coi suoi 29 milioni di barili al giorno (mbg) fornisce più del 30% della produzione mondiale e il 40% del greggio commercializzato a livello internazionale. Si è poi aggiunta la tragedia del Giappone – lo tsunami, il terremoto, la catastrofe di Fukushima – che sul piano energetico ha immediatamente comportato un maggior import di Gas Naturale Liquefatto e un successivo incremento del fabbisogno di greggio, che rischia di accentuare la tensione del mercato. Fino a metà aprile, tuttavia, nel Medio Oriente si è avuto solo il blocco dell’export libico (circa 1,3 mb/g), in parte compensato da una maggiore offerta dell’Arabia Saudita. Secondo l’AIE, però, la situazione in Egitto, Oman, Sudan e Yemen può mettere a rischio altri 3 mbg di export mediorientale. Così, i rincari connessi con le vicende mediorientali non riflettono una significativa carenza di greggio, ma implicano un «premio di rischio» per motivi geopolitici. La società di brokerage Nomura Securities ha avvertito che se dovesse venire bloccato anche l’export algerino, dopo quello libico, il greggio potrebbe salire a 220 dollari. Il vero problema è quello dei produttori arabi del Golfo che nel loro insieme fanno circa 20 mbg e la cui destabilizzazione spingerebbe i prezzi alle stelle. Se poi la loro produzione si arrestasse davvero, in tutto o in parte, il mondo entrerebbe in una crisi senza precedenti. La sola Arabia Saudita fornisce circa il 10% della produzione mondiale. Tuttavia, già prima di queste emergenze la situazione petrolifera globale presentava dei problemi. Nel 2010 alcuni studi prevedevano difficoltà per il 2011 e un possibile shock petrolifero tra il 2012 e il 2015. L’anno scorso, però, il petrolio faceva poca notizia. Nella seconda metà del 2008, dopo il record
Shock troppo annunciato Giorgio S. Frankel | Centro di ricerca Luigi Einaudi, Torino
Prezzi del petrolio 2001-2011 120 $ 105,2
Prezzo medio Basket Opec 94,5
100 $ dollari al barile
Le vicende politiche mediorientali si intrecciano alla maggiore domanda mondiale che deriva dai Paesi non-OCSE. E c’è chi teme un greggio oltre i 200 dollari al barile nel 2012. Ma non tutti gli esperti sono d’accordo.
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2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011
dei 147 dollari, i prezzi erano crollati a 35-40 dollari e così, per il pubblico, il problema sembrava chiuso. Poi, nel 2009 e 2010, la domanda mondiale ha preso a crescere in modo spettacolare per via della ripresa economica, soprattutto in Asia e nelle altre economie emergenti non-OCSE, con un incremento complessivo di più di 4 mbg, per salire a più di 86,5 mbg. L’offerta ha, però, faticato a tener dietro alla domanda e le scorte commerciali di greggio e prodotti nei paesi importatori sono diminuite. Gli esportatori non aderenti al cartello OPEC hanno potuto aumentare solo di poco la produzione e l’incremento della domanda ha gravato soprattutto sui paesi OPEC. Questi si sono trovati a lavorare quasi a pieno regime, il che ne ha fortemente ridotto la capacità produttiva di riserva, un elemento cruciale per la capacità del sistema petrolifero globale di assorbire improvvise emergenze. L’AIE ha recentemente stimato la capacità di riserva dell’OPEC a 3,9 mbg, di cui 3,2 nella sola Arabia Saudita. Ma i dati petroliferi sauditi sono assai opachi e oggetto di dibattito tra gli esperti. Nello scorso aprile sul petrolio mondiale gravavano molte incognite, di breve e medio-lungo periodo. Il rincaro può compromettere la ripresa economica, ma è difficile attendersi un significativo calo della domanda di greggio, ormai poco elastica rispetto al prezzo: il petrolio è già stato sostituito da altre fonti in molti usi finali e ormai il suo impiego fondamentale è nei
Nel 2009 e 2010 la domanda mondiale ha preso a crescere in modo spettacolare.
trasporti (50% della domanda globale e circa il 90% del previsto incremento della domanda nei prossimi 20 anni). Inoltre, la crescita del fabbisogno di greggio si sposta nelle nuove potenze economiche non-OCSE (prime fra tutte la Cina e l’India) la cui domanda è piuttosto rigida rispetto al prezzo. A ciò va aggiunto che parte della domanda OCSE di greggio è stata «esportata» in paesi non-OCSE con la delocalizzazione di attività manufatturiere. In effetti, il «baricentro» del petrolio globale si sta rapidamente spostando verso l’area non-OCSE, e soprattutto verso l’Asia, con future implicazioni economiche di vasta portata. L’altra grande incognita riguarda il futuro della produzione mondiale. In effetti, la produzione ha un andamento più o meno piatto fin dal 2005/2006 e, secondo molte analisi, ha raggiunto il suo «picco» e non potrà più aumentare. Ci si chiede se la produzione di petrolio convenzionale potrà restare attorno ai livelli attuali o se comincerà subito a scendere e con quale rapidità. Ma, secondo l’AIE e altri, il petrolio non convenzionale (greggi ultra-pesanti o da scisti e sabbie bituminose) e i liquidi che sgorgano dai giacimenti di gas potranno compensare per i prossimi 25 anni il previsto calo della produzione di petrolio, insieme alle benzine sintetiche prodotte dal gas naturale, dal carbone e dalle biomasse. Tuttavia, i combustibili non convenzionali sono ancora in gran parte un’incognita: richiedono investimenti massicci e, in alcuni casi, pongono gravi problemi ambientali. A
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Soldi le scelte del gestore
Il segreto è diversificare Intervista a Gianluca Ferretti | Responsabile investimenti obbligazionari di Anima L’inflazione sembra essere lo spauracchio del momento; quanto c’è da preoccuparsi? Effettivamente, da quello che si legge sui giornali sembrerebbe che l’inflazione nel suo complesso sia destinata a restare su alti livelli, trainata dal rialzo delle materie prime che per qualche trimestre resterà ancora piuttosto marcato. Nel momento in cui tale rialzo si fermerà, anche l’inflazione si stabilizzerà e tornerà a scendere. In realtà, analizzando più in profondità la situazione, l’inflazione che meglio indica l’impatto sul lungo periodo (la cosiddetta inflazione “core” che non considera nel paniere le materie prime) pare essere destinata a non incidere in modo deciso sull’economia. Questo perché al momento nei Paesi sviluppati, data la disoccupazione elevata, le pressioni salariali sono molto basse. Tutto ciò mi porta a dire che, finché questa situazione non cambierà, non vedo forze interne in grado di generare una inflazione preoccupante e strutturale. Quale approccio ai mercati e che metodo adotta un gestore attivo che voglia mettersi al riparo dall’inflazione? Sulla base di quanto appena detto, c’è anche da considerare che la Banca Centrale Europea ha come compito preminente quello di evitare l’in-
nalzamento dell’inflazione. Pertanto è molto probabile che ad ogni preoccupante rialzo inflattivo verranno prese contromisure piuttosto immediate attraverso l’aumento dei tassi d’interesse. Proprio per questo motivo preferisco avere un portafoglio ben diversificato con titoli di Stato a tasso variabile che sono ovviamente molto meno sensibili alle variazioni dei tassi rispetto ai titoli a tasso fisso. L’utilizzo di questi strumenti permette di gestire l’inflazione come, se non meglio, dei titoli a tasso fisso inflation linked, che comunque tengo in portafoglio sebbene in misura minore. Le obbligazioni indicizzate all’inflazione sono titoli emessi soprattutto da governi il cui prezzo di rimborso, le cedole periodiche o entrambi si rivalutano seguendo l’andamento di un indice dei prezzi. Il tasso delle obbligazioni indicizzate è fisso e dunque questi titoli, sebbene nel lungo termine difendano il capitale da accelerazioni inattese dell’inflazione, nel breve soffrono in caso di salita dei tassi. Nella selezione dei titoli prediligo il paese Italia che ad oggi mostra un rapporto rischio/rendi-
mento migliore di molti altri paesi in Europa. Non solo: l’Italia permette di diversificare al meglio il portafoglio grazie a una elevata offerta di strumenti a tasso variabile (i CCT), che sono i più utili in una politica di contenimento del rischio tassi. La scelta di titoli a tasso variabile di altri emittenti, come Germania o Francia, è invece molto limitata. Infine nei portafogli dei fondi che tollerano un po’ di rischio aggiuntivo e che lo consentono, si possono utilizzare obbligazioni convertibili, che permettono di cogliere una parte del rialzo dei titoli azionari sottostanti mentre forniscono al contempo una protezione in caso di ribasso delle azioni sottostanti. Nel complesso, ciò fa sì che si possa partecipare all’andamento dell’economia reale con un’assunzione di rischio minore. A
Come investire sui mercati emergenti I Paesi emergenti nel corso degli ultimi anni sono stati caratterizzati da elevati i tassi di crescita economica, che li hanno portati ad essere una componente sempre più importante nella creazione del Pil mondiale. Questa crescita tumultuosa ha conseguentemente attirato l’attenzione di molti investitori sia privati sia istituzionali. Tuttavia, non è sempre facile accedere ad alcuni di questi mercati. Infatti, l’operatività è sottoposta a
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vincoli, richieste d’informazioni e autorizzazioni certe volte molto complicate da parte delle autorità locali. Tutto ciò rende difficoltoso (sia pure con gradi diversi) l’apertura di un conto in certi Paesi. Si tratta di Borse di alcuni Paesi che contribuiscono significativamente alla formazione della produzione globale. I principali listini che presentano tali difficoltà sono quelli di Cina, India, Federazione Russa, Corea e Taiwan. Per aggirare questi ostacoli, esistono diversi strumenti, tra cui gli ADR (American Depositary Receipt) o i GDR (Global Depositary Receipt). Si tratta di certificati rappresentativi di una o più azioni di società quotate sui mercati emergenti. Sono emessi da una banca e quotati nella Borsa americana gli ADR, mentre i GDR sone generalmente trattati a Londra. Occorre sottolineare che non solo non esiste per ogni società quotata un certificato rappresentativo della proprie azioni, ma alcune volte questi certificati possono trattare a premio rispetto al titolo sottostante. Esistono anche alcuni future che non sono trattati nei paesi originari, ma in altre borse di più facile accesso. Ad esempio, i future sui Paesi asiatici sono quotati alla Borsa di Singapore in dollari Usa o in dollari di Singapore.
Non tutti i mercati presentano, per fortuna, tali difficoltà. Infatti, per un gran numero di mercati emergenti, come la maggior parte dei Paesi asiatici, dei Paesi sudamericani o dell’Europa dell’Est, l’operatività è meno ardua. Ci sono, infine, altri mercati emergenti la cui principale problematicità è causata dalle piccole dimensioni della loro Borsa, dalla loro scarsa liquidità, dalla limitata scelta di titoli e dai a costi fissi elevati. Per questi ultimi risulta non molto conveniente l’operatività. I mercati emergenti hanno rappresentato negli anni scorsi, e continuano a rappresentare, anche se in misura inferiore, una grossa opportunità di investimento, richiamando l’interesse di molti. Tuttavia, come visto, è un tipo di investimento che per gli investitori privati diventa quasi impossibile. Solo gli investitori istituzionali, come le società di gestione del risparmio, grazie alla professionalità e alla capacità dei propri gestori sono in grado di affrontare i problemi legati a difficoltà di carattere burocratico, di valutazione dei vari mercati e delle numerosissime società quotate, per le quali non è sempre facile avere informazioni dettagliate.
Lipper Fund Awards 2011 per il fondo Sforzesco, nella categoria Mixed Asset EUR Cons - EuroZon a 10 anni le scelte del gestore
Prendere i mercati La pensione? “per le corna” È online Informazioni sulla pensione? Anima mette a disposizione on-line, su www.animasgr.it e sul sito dedicato www.belfuturo.it, informazioni e servizi utili sia per chi ha già aderito ad un fondo pensione sia per chi sta ancora decidendo che cosa fare. Per tutti, il primo passaggio è toccare con mano a quanto ammonterà la propria pensione pubblica e quanto occorrerà versare per colmare il probabile divario tra la pensione pubblica e quella ideale o desiderata. A questo scopo si può utilizzare il Simulatore “Calcolo rendita”, che permette appunto di stimare la pensione obbligatoria e la rendita complementare ottenibile investendo nel fondo pensione aperto Arti & Mestieri. Per i clienti di Arti & Mestieri che accedono al simulatore direttamente dall’area riservata, i calcoli si fanno ancora più concreti, perché il sistema automaticamente incorpora i dati della posizione effettiva dei clienti. All’interno dell’area riservata i clienti possono monitorare e consultare tutti i mesi l’andamento nel dettaglio della propria posizione personale sul fondo pensione Arti & Mestieri, verniciare tutti i versamenti effettuati, compiere alcune operazioni amministrative (cambio indirizzo, nomina beneficiari ecc) e scaricare le comunicazioni periodiche ufficiali di Anima. Se l’obiettivo della previdenza complementare è di lunghissimo periodo, come noto la molla è spesso il risparmio fiscale, un vantaggio collaterale che ottiene subito chi aderisce agli strumenti di previdenza complementare. Per apprezzare meglio quante tasse si possono risparmiare sul sito www.animasgr.it è disponibile il “Calcolatore del beneficio fiscale”. Inserendo pochi dati il sistema calcola immediatamente il risparmio fiscale specifico dell’utente, in funzione del suo reddito e dei suoi versamenti. Da ultimo, su www.belfuturo.it si può giocare a “Giornale & Caffè”, un modo divertente per apprezzare il valore del risparmio e il potere della capitalizzazione nel lungo termine di piccoli accantonamenti periodici. Con un occhio ai pensionati di dopodomani, i nostri figli.
Intervista a Lars Schickentanz | Direttore investimenti e responsabile ufficio azionario di Prima
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i troviamo a metà della fase di ripresa economica, uno stadio che potrebbe preludere, dopo l’estate, a un rallentamento ulteriore o a una nuova accelerazione. Questa situazione, accoppiata al fatto che i mercati non hanno registrato movimenti forti né in una direzione né nell’altra nella prima parte del 2011, porta ad avere portafogli dagli angoli smussati, senza scelte drastiche di sovrappeso o sottopeso”. È questa in sintesi la posizione di Lars Schickentanz, direttore investimenti e responsabile ufficio azionario di Prima, società di asset management che con Anima darà vita al più grande polo indipendente di gestione del risparmio, con circa 40 miliardi di euro di patrimoni. Ma esploriamo più a fondo la filosofia di investimento di Prima: il processo di investimento incrocia l’approccio dall’alto (“top down”) a quello dal basso (“bottom up”). Il primo serve a disegnare gli scenari macro-economici più probabili e, sulla base di questi, definire quali mercati e settori privilegiare. Il secondo punta a individuare i titoli che, nell’universo di quelli potenzialmente acquistabili, presentano le migliori potenzialità di crescita in relazione al settore e mercato d’appartenenza. “Idealmente vorremmo investire in società con una posizione di mercato dominante, tassi di crescita degli utili elevati,
management di qualità e una buona forza finanziaria”, afferma Schickentanz. Non sempre però queste società abbondano. Il contesto attuale inoltre non presenta macro-temi dominanti: quelli che hanno guidato i mercati nel 2010, come la crescita dei Paesi emergenti o il cloud computing, stanno sfumando, altri viaggiano sottotraccia e non si sono ancora affermati. “Stiamo esplorando diversi temi, che potrebbero fornire opportunità di investimento importanti in futuro: penso al gas, che si candida come la fonte di energia (relativamente) pulita del prossimo decennio e beneficia dell’ostilità al nucleare e degli alti prezzi del petrolio, ai titoli minerari, tornati interessanti dopo la correzione delle materie prime”, riferisce il direttore investimenti di Prima. “Ma guardiamo anche, più in là, al ritorno alla normalità del settore finanziario e alla ripresa del mercato immobiliare americano”. Per un gestore attivo, cioè che cerca di consegnare ai clienti performance superiori al mercato di riferimento nel lungo periodo, mercati poco mossi offrono poche opportunità di prendere posizioni forti: “Per fare davvero la differenza abbiamo bisogno che le quotazioni si muovano”, conclude Schickentanz. Non è questo il momento. Ma i gestori sono sempre pronti a prendere i mercati “per le corna”. A
I migliori fondi di Anima secondo Morningstar Di seguito la selezione dei fondi Anima con un rating Morningstar Overall di 4 o 5 stelle. Morningstar è una società di analisi fondi indipendente e internazionale. Il Rating di Morningstar considera i rendimenti di un fondo corretti per il rischio. Il Morningstar Rating Overall di un fondo deriva dalla media ponderata di tali dati relativi agli ultimi 3, 5 e 10 anni (se disponibili).
NOME
Categoria Assogestioni
ANM Anima Liquidità ANM Risparmio ANM Sforzesco ANM Visconteo ANM Tesoreria
Fondi di liquidità area euro Obbligazionari flessibili Obbligazionari misti Bilanciati obbligazionari Fondi di liquidità area euro Obbligazionari euro governativi breve termine Obbligazionari euro gov. medio/lungo termine Obbligazionari euro soc. investment grade Obbligazionari internazionali governativi Obbligazionari Paesi emergenti Azionari Italia Azionari America Azionari paesi emergenti Azionari Paesi emergenti
ANM Monetario ANM Anima Obbligazionario Euro ANM Corporate Bond ANM Pianeta ANM Emerging Markets Bond ANM Italia ANM Americhe ANM Anima Emerging Markets ANM Emerging Markets Equity
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Fonte: Morningstar. Dati al 27 maggio 2011.
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Soldi I NOSTRI RISPARMI
L’imposta sui fondi? Rinviata all’uscita Dal primo luglio il valore delle quote dei fondi comuni di diritto italiano sarà calcolato al lordo della ritenuta d’acconto, come già avviene per i fondi di diritto lussemburghese o di altri paesi Ue. E l’investitore pagherà le imposte sulle plusvalenze solo al momento del loro effettivo realizzo. Matteo Tagliaferri | Responsabile comunicazione e brand, Anima
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rimo luglio 2011, scatta una piccola rivoluzione nel mondo dei fondi di investimento. A questa data sono infatti entrate in vigore le modifiche, migliorative, alla tassazione dei fondi comuni di investimento introdotte dal cosiddetto “Decreto milleproroghe” del febbraio scorso. La riforma del regime fiscale dei fondi prevede il passaggio da un sistema di tassazione “sul maturato” (o alla fonte) e in capo al fondo ad uno “sul realizzato”, lo stesso sistema già in vigore per i fondi comunitari autorizzati, come le Sicav. In una parola, cambia, a vantaggio degli investitori, la modalità di tassazione dei fondi comuni italiani (in
qualunque classe di attivi o mercato investano), anche se è bene chiarire subito che la precedente aliquota del 12,50% sui guadagni in conto capitale e sui proventi di ogni fondo non cambia affatto. La riforma si applica ai fondi comuni di investimento di diritto italiano e ai fondi lussemburghesi storici. Sono invece esclusi i fondi immobiliari e le forme di previdenza complementare. Ma vediamo le cose più da vicino. Finora il risparmiatore non se ne accorgeva, ma pagava un po’ di tassa ogni giorno; dal 1° luglio pagherà l’imposta solo nel momento in cui disinvestirà dal fondo. Fino ad oggi infatti, ogni volta in cui il valore della quota del fondo saliva, la Sgr era tenuta a detrar-
re da quel valore la frazione giornaliera dell’imposta. Il valore della quota dei fondi italiani era quindi sempre già netta da tassazione. La Sgr accantonava le imposte maturate quotidianamente e, alla fine dell’anno, le versava all’erario per conto del cliente. Nei fondi di diritto estero (le Sicav), l’applicazione della tassazione avveniva e avviene invece al momento del disinvestimento. La riforma ha due conseguenze principali La prima è che, nei confronti tra fondi comuni italiani ed esteri, come quelli riportati abitualmente sulla stampa, anche i fondi italiani presenteranno le performance al lordo dell’imposta. Non si avrà più la di-
Le parole ricorrenti di questo numero di anima times
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storsione ottica di confrontare rendimenti già al netto dell’imposizione fiscale – quelli dei fondi italiani – con rendimenti lordi – quelli dei fondi esteri. La distorsione può essere significativa: a fronte di una performance lorda del 20%, ad esempio, un fondo di diritto italiano mostrava fino a ieri una crescita del 17,5%, contro il +20% di un fondo estero (Sicav). La seconda conseguenza è che, con il nuovo sistema, il pagamento delle imposte è posticipato al momento del disinvestimento e questo premia gli investitori di
lungo periodo. I guadagni maturati ma non realizzati possono essere infatti capitalizzati per intero negli anni successivi, dando luogo ad altri guadagni. Piccole differenze nel breve termine possono diventare non trascurabili nel lungo periodo: ad un passo di crescita del 10% all’anno, ad esempio, un fondo di diritto italiano in 10 anni maturava una performance netta del 131% circa, contro il +139% netto di una Sicav, a parità di rendimento lordo. Il divario è dovuto esclusivamente al differimento delle imposte. Sul piano operativo,
Come cambia la tassazione: un esempio concreto Mario Rossi ha sottoscritto 1.000 quote del fondo Anima Fondo Trading il 1/12/2010. Analizziamo il trattamento con il vecchio e il nuovo regime fiscale.
1 – VECCHIO REGIME FISCALE
Il 18/05/2011 Mario Rossi decide di rimborsare le sue 1.000 quote del fondo Anima Fondo Trading. Ipotizziamo che il fondo assuma, a tale data, un valore quota pari a 13,84€. Nessuna ritenuta fiscale è applicata al sottoscrittore. L’imposizione fiscale (imposta sostitutiva) è applicata sul fondo Anima Fondo Trading nella misura del 12,50%. Il valore della quota di 13,84€ è quindi già espresso al netto dell’imposta sostitutiva. Mario Rossi si vedrà quindi accreditato l’importo di 13.832,00€: 1.000 quote x 13,84€ = 13.840€
Controvalore lordo
13.840€ – 8€ = 13.832€
Controvalore netto dato dal controvalore lordo meno le commissioni di rimborso
2 – ATTUALE REGIME FISCALE (con plusvalenza)
Ipotizziamo che al 30/06/2011 (Anima Times è stato chiuso a inizio giugno, ndr) il fondo Anima Fondo Trading abbia un valore quota pari a 14,50€. Tale valore gli verrà assegnato come costo medio ponderato ai fini fiscali. Nella nostra ipotesi il 4/07/2011 il valore delle quote sale a 15,00€ e Mario Rossi decide di rimborsare le sue 1.000 quote del fondo Anima fondo Trading. Rossi otterrà un provento dato dalla differenza positiva tra il valore quota del rimborso e il suo costo medio ponderato ai fini fiscali: (15,00€ – 14,50€) x 1.000 quote = 500€
Tale plusvalenza costituisce un reddito da capitale
Su tale plusvalenza la SGR applicherà la ritenuta fiscale del 12,50%: 500€ x 12,50 % = 62,50€ Mario Rossi si vedrà quindi accreditato l’importo di 14.929,50€: 1.000 quote *15,00€ = 15.000€
Controvalore lordo
15.000€ – 8€ – 62,50€ =14.929,50€
Controvalore netto dato dal controvalore lordo meno le commissioni di rimborso meno la ritenuta fiscale
Al cliente è riconosciuta anche una minusvalenza pari all’importo di commissioni e diritti fissi, in questo caso 8€. La minusvalenza costituisce un reddito diverso.
2 – ATTUALE REGIME FISCALE (con MINUsvalenza)
Se ipotizziamo invece che il 4/07/2011 il fondo in questione abbia un valore quota pari a 13,00€, Mario Rossi otterrà una perdita data dalla differenza negativa tra il valore quota del rimborso e il suo costo medio ponderato ai fini fiscali: (13,00€ – 14,50€) x 1.000 quote = – 1.500€
Tale minusvalenza costituisce un reddito diverso.
Nessuna ritenuta fiscale è applicata al sottoscrittore. Mario Rossi si vedrà quindi accreditato l’importo di 12.992,00€: 1.000 quote x 13,00€ = 13.000€
Controvalore lordo
13.000€ – 8€ = 12.992€
Controvalore netto dato dal controvalore lordo meno le commissioni di rimborso
Al cliente è riconosciuta inoltre come minusvalenza l’importo di commissioni e diritti fissi, in questo caso 8€ e anch’essa costituisce un reddito diverso.
dal 1° luglio 2011 sui proventi derivanti dalla partecipazione ai fondi (“redditi di capitale” per la normativa), sarà applicata una ritenuta pari al 12,5%. Questa ritenuta potrà essere utilizzata dalla Sgr, senza limiti temporali e di importo, per compensare il credito di imposta dei fondi. I proventi sono determinati dalla differenza positiva tra il valore di rimborso/cessione e il costo medio ponderato di sottoscrizione delle quote. Per tutte le quote in essere al 30 giugno il costo medio ponderato iniziale corrisponde al valore della quota al 30 giugno stesso. Il costo medio sarà aggiornato sulla base del valore quota delle successive operazioni di sottoscrizione. In caso di rimborso delle quote di un fondo ad un valore inferiore rispetto al costo medio ponderato, l’investitore maturerà una perdita di capitale (“reddito diverso”) che potrà essere utilizzato in compensazione di redditi diversi maturati su altri titoli nei quattro anni successivi. Il box riporta due esempi concreti di applicazione della nuova riforma. A
Metodologie di assegnazione DEI premi PREMIO ALTO RENDIMENTO 2011 DE IL SOLE 24 ORE Il Premio Alto Rendimento è un importante riconoscimento attribuito dal Sole 24 Ore alle Società di gestione ed ai fondi comuni d’investimento che si sono distinti per i risultati conseguiti. L’attribuzione dei premi avviene sulla base di solidi criteri di analisi, che tengono conto di diversi elementi e sono ispirati al fondamentale valore della tutela del risparmiatore (periodo: dicembre 2008 dicembre 2010). Per maggiori informazioni consultare il sito www.ilsole24ore.com/altorendimento. MILANO FINANZA GLOBAL AWARDS 2011 Il Premio Top Rating Milano Finanza - Tripla A è un riconoscimento ai fondi comuni di investimento italiani e alle Sicav estere che hanno ottenuto il massimo del rating di Milano Finanza. Vengono utilizzate le quotazioni degli ultimi 36 mesi, secondo graduatorie per rendimento medio mensile, numero di rendimenti mensili che risultano maggiori della media del comparto, volatilità delle variazioni mensili logaritmiche del fondo. La Tripla A è assegnata solo ai fondi che ottengono il punteggio più elevato in tutte le tre graduatorie. Per maggiori informazioni, consultare l’”Annuario dell’investitore”, ed. dicembre 2010. Il Premio Milano Finanza Insurance Awards 2011 è un riconoscimento ai fondi pensione che hanno ottenuto il massimo del rating di Milano Finanza. Il Rating è calcolato utilizzando i valori quota di fi ne mese degli ultimi 5 anni (periodo: dicembre 2005 – dicembre 2010). All’interno di ciascuna categoria Assogestioni sono calcolate tre diverse graduatorie riguardanti il risultato dell’investimento, la rischiosità e la continuità delle performance. Ad ogni comparto è assegnato un punteggio in base alla votazione ottenuta nelle tre graduatorie. GRAN PRIX EUROFONDS-FUNDCLASS I risultati sono calcolati da Fundclass, una società indipendente di analisi che valuta i fondi venduti in Europa per conto di Eurofonds, consorzio costituito da quotidiani europei. Gli analisti di Fundclass applicano la teoria del Nobel Usa Steven Ross, la Arbitrage Price Theory (teoria dell’arbitraggio dei prezzi) per riclassifi care le performance tenendo conto del rischio al quale si espongono i gestori. I vincitori dei Grand Prix Eurofonds sono i migliori fondi tra chi ha ottenuto con maggiore costanza i Rating di eccellenza, ossia le 5 e 4 stelle (su sette livelli di cui due negativi). LIPPER FUND AWARDS 2011 I premi Lipper sono assegnati ai fondi di diritto italiano ed estero commercializzati in Italia con una serie storica di performance ‘total return’ di 36, 60 e 120 mesi. Il fondo premiato si è classifi cato al primo posto nella classifi ca dei Lipper Leaders per la sistematicità/consistent return.
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Cultura L’INTERVISTA IMMAGINARIA: THOMAS ROBERT MALTHUS
Un grande piccolo pianeta A colloquio con il grande e discusso economistafilosofo che da oltre 200 anni continua a preoccuparsi per l’eccessiva crescita della popolazione e i possibili limiti allo sviluppo. E per la malsana propensione dell’umanità a inquinare il luogo in cui vive. Fabrizio Galimberti | Editorialista de Il Sole 24 Ore
C
ome un fiume carsico il nome del grande economista (filosofo, sociologo, moralista?) inglese ritorna periodicamente alla superficie. Forse nessun saggista ha destato tante polemiche come quel pastore anglicano vissuto a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento. La sua visione pessimistica del mondo e quel suo millenarismo – a carestie, guerre e pestilenze veniva affidato il compito di mantenere l’equilibrio fra popolazione e risorse – sono stati volta a volta smentiti e ripresi, man mano che la storia del pianeta svoltava fra abbondanza e penuria. Ora siamo in una fase di “neo-malthusianesimo”, innescata dall’aumento dei prezzi delle materie prime, dai tumulti dei poveri in risposta a questi aumenti, dagli squilibri fra domanda e offerta di generi alimentari, dal riscaldamento globale e dal perdurare di sacche di indigenza e di fame. Ce n’è abbastanza per porre qualche domanda al Nostro, scomodandolo dal suo ultimo e paradisiaco (dopotutto era un prete) rifugio. Thomas Robert Malthus accetta di buon grado l’interrogatorio. Ehm, Mister Malthus – o Professor, o Father… come la debbo chiamare? Mi chiami pure Pop. Pop? Sì, è così che mi chiamavano i miei studenti, all’East India Company College, nell’Hertforsdshire. So che oggi in America “pop” è un termine informale per dire “papà”, ma allora venivo chiamato così per i miei studi sulla popolazione. Mettevo gli andamenti demografici in cima alle grandi forze che muovono l’economia e la mia insistenza sulla pop(olazione) era così, diciamo, insistente che gli studenti mi avevano appioppato quel nomignolo. A questo proposito, lei è stato chiamato in vari altri modi, e molto meno affettuosi di quel “pop”… È vero, anche quassù ancora mi fischiano le orecchie. Quel romantico poeta, Shelley, che morì trentenne, se la prese con me, non capisco bene perché («Malthus era un prete, naturalmente, e le sue dottrine erano quelle di un eunuco e di un tiranno»). Karl Marx ripeteva la bugia secondo cui io avevo fatto un voto di celibato: ma la chiesa anglicana non 14
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richiede celibato, e io ero sposato con figli. E secondo Marx io ero anche un «agente dei latifondisti» e il «principale nemico del popolo». E ancora ai giorni vostri, un editore di una recente edizione dei miei libri scrive che io, che predicavo il controllo della popolazione, razzolavo male perché ebbi undici figlie; in realtà ebbi due figlie e un figlio. Ricapitoliamo: lei si attirò tante critiche perché scriveva che l’uomo ha un istinto innato a procreare, ma questa procreazione finisce col fare i conti con le risorse finite del pianeta. La popolazione aumenta, ma i mezzi di sussistenza non aumentano allo stesso ritmo e quindi prima o poi la rotta di collisione procura disastri: guerre, carestie, conflitti, malnutrizione si incaricheranno di riportare la crescita della popolazione in linea con la crescita delle derrate ailmentari. Esatto. È quello che sostenevo. Ma lo sosterrebbe ancora adesso? Ammetto che, nei due secoli che son passati da quando predicavo e ammonivo, l’umanità è stata capace di nutrire miliardi e miliardi di uomini senza grossi problemi, seguendo le linee di minima resistenza delle tante rivoluzioni industriali in campo agricolo, dalla meccanizzazione alle nuove sementi. Ma… Ecco, veniamo al “ma”… …ma il punto centrale rimane: le risorse non sono
Leggi sul sito www.animasgr.it, nel canale “Il mondo di Anima Times” l’intervista immaginaria a John Pierpont Morgan
infinite. Di Terra ce n’è una sola. Pop, lei rischia di diventare una musa dei verdi e degli ambientalisti. Ai miei tempi non c’era un problema di inquinamento. Certo, la conceria vicino alla Rookery, la casa di campagna dove son cresciuto, nel Sussex, riversava i suoi fetidi effluvi in quello che prima era un limpido torrentello. Ma non c’era abbastanza industria per causare problemi a livello dell’intero pianeta. Oggi è diverso, e rischiate di farvi del male ancora prima di esaurire le risorse. Allora, se l’umanità non rischia guerre e carestie rischia però di soffocare per l’aria cattiva e di doversi arrampicare sulle alture quando il riscaldamento globale farà sciogliere i ghiacci dei poli… Il mio monito originale – la popolazione aumenta più rapidamente della produzione di derrate necessarie alla nutrizione – vale ancora: altrimenti perché continuerebbero ad aumentare i prezzi di riso e grano, i due più importanti raccolti del pianeta? Stanno cambiando i modelli nutrizionali, i due miliardi e mezzo di cinesi e indiani consumano più carne e più latticini, e il bestiame viene nutrito con i cereali. La produzione di questi ultimi è stata presa in contropiede ma gli alti prezzi chiamano più semine e più produzione, e queste faranno da calmiere ai prezzi. Fino a quando? La popolazione continua ad aumentare, e questo aumento si porta nuove case e nuovi spazi abitabili che vengono sottratti all’agricoltura. Meno terra coltivabile e più bocche da sfamare. L’equazione non ha soluzioni. Pop, ma lei ha scritto che se la popolazione e le derrate fossero sempre andate di conserva, l’uomo sarebbe ancora allo stato selvaggio: sono proprio i problemi, le carestie e le turbolenze, che hanno stimolato ingegno e progresso. È vero, ho scritto: «Il male esiste non per creare disperazione, ma per spingere all’attività». Allora, non è possibile che le prospettive nere che lei disegna possano spingere l’umanità a cercare soluzioni prima che le tensioni si realizzino, e a stabilizzare la popolazione attraverso un controllo delle nascite responsabile, senza bisogno di essere decimati da conflitti e carestie? Auguri. A
Libri
LIBRI: TRA ECONOMIA ED ECOLOGIA
Modello insostenibile
Il Nord che fiorirà
Jeffrey D. Sachs Common Wealth: Economics for a Crowded Planet Penguin Books 2008, pagg. 391, $ 17,00
Laurence Smith Il futuro del nuovo nord Profile 2011, pagg.336, $ 20
Common Wealth è un libro di economia che abbraccia l’intero spettro delle problematiche con le quali il pianeta sarà inevitabilmente destinato a confrontarsi nei prossimi decenni. Il messaggio del libro viene scolpito fin dalla prima riga del primo capitolo: “il ventunesimo secolo rovescerà molte delle nostre assunzioni di base sulla vita economica”. Dopo duecento anni in cui la tecnologia e la demografia hanno creato e diffuso un benessere senza precedenti, nel ventunesimo secolo la scarsità di risorse energetiche, l’intensificarsi degli stress ambientali, la crescita della popolazione, l’entità delle migrazioni, lo spostamento dei centri di gravità del potere economico e la dilatazione delle diseguaglianze appaiono sfide troppo grandi per essere lasciate alle forze spontanee del mercato. Il messaggio non è né nuovo né originale, ma, al contrario di tanta letteratura sensazionalistica sul medesimo argomento, l’argomentare di Sachs si incardina su solide analisi dei dati spogliate di qualunque enfasi ideologica e inquadrate in uno schema concettuale rigoroso. È un libro per gli scettici scritto da un autore “al di sopra di ogni sospetto”. Jeffrey Sachs non è infatti né un ecologista né un pensatore alternativo: è un economista educato nel tempio dell’ortodossia e che ha studiato sui banchi di MIT. Impressiona che l’allievo di Paul Samuelson, uno dei massimi esegeti del capitalismo, ci ponga di fronte con tanta asciutta crudezza l’insostenibilità del modello di sviluppo occidentale e individui con fredda sistematicità le scelte improrogabili per evitarne il collasso. Il libro nasce infatti da un ampio progetto delle Nazioni Unite diretto dallo stesso Sachs (“Millennium Development Goal”) e non è quindi orientato alla denuncia, ma a definire un catalogo accurato delle soluzioni possibili.
Il ritorno di Malthus Giovanni Sartori Il paese degli struzzi: clima ambiente, sovrappopolazione Edizioni Ambiente 2011, pagg. 160, euro 17,50 Giovanni Sartori è un “grande vecchio” della politologia che insegna alla Columbia University di New York e che intrattiene spesso, con i suoi brillanti editoriali, i lettori del Corriere della Sera. Il libro raccoglie una selezione di quelli tra questi ultimi dedicati all’argomento della sostenibilità dello sviluppo e alle sue conseguenze climatiche e ambientali. Sono editoriali distribuiti nell’arco di oltre un decennio (dall’agosto 1997 al settembre 2010) e che, riletti in sequenza, suonano come una richiesta appassionata di attenzione a temi cruciali per la sopravvivenza del pianeta e, nello stesso tempo, come la constatazione di una capacità di ascolto drammaticamente insufficiente da parte della politica e dell’opinione pubblica. La lettura, trascinata dallo stile polemico, spiritoso e brillante dell’autore, risulta tuttavia estremamente scorrevole e di straordinaria piacevolezza. Anche se condita in 48 modalità diverse (tanti sono infatti gli articoli raccolti nel volume) e collegata ai più svariati fatti di cronaca (dagli incendi estivi ai congressi mondiali della FAO), un’argomentazione centrale ritorna di articolo in articolo come un mantra: a metà del secolo scorso la popolazione del pianeta era di circa 2 miliardi di persone, oggi siamo già 6,6 miliardi e saremo 22 miliardi nel 2050; le risorse naturali sono di entità finita e le stiamo consumando, distruggendo o inquinando troppo rapidamente; poiché è velleitario ridurre i consumi pro-capite, l’unica soluzione è il controllo dei trend di crescita demografica. Una tesi (che gli economisti definirebbero neo-malthusiana) che ha il pregio di mettere in discussione molte consolidate convinzioni e che ci conduce, con bonaria ironia, a riflettere sui futuri esiti della nostra attuale miopia.
Geografo di professione (insegna all’UCLA di Los Angeles), climatologo per passione e per convinzione, Laurence Smith ha scritto uno di quei libri che richiedono innanzitutto molta fiducia da parte del lettore, e in secondo luogo una capacità di pensare oltre gli schemi. Il titolo che in inglese è The World in 2050 chiarisce la necessità di pensare ‘oltre’ e in grande dato che il libro abbraccia quattro dimensioni ognuna delle quali è ostica di per sé: globalizzazione, crescita demografica, cambiamento climatico e risorse naturali. La tesi di Smith, basata su una miriade di dati e osservazioni, è che il cambiamento climatico non è un’ipotesi ma un fatto già pienamente in svolgimento, e che dati i megatrend della globalizzazione e della crescita demografica, coniugati con un graduale esaurimento della disponibilità di molte risorse naturali, le conseguenze non si faranno attendere. In pochi decenni il “Nord”, ossia le regioni del pianeta al di sopra della latitudine 45° nord, si scalderà e godrà di un clima più temperato; e, mentre il Sud si scalderà e diventerà più povero, al nord sarà invece possibile non solo attrarre massicci flussi di popolazione, ma avviare importanti attività economiche in tutti i campi: agricoltura, estrazioni e industria. Si parla di Paesi in parte già ricchi, ma in parte decisamente ancora da sviluppare: Russia, Canada, Alaska e Nord degli Stati Uniti, e ancora Islanda e Groenlandia. Inoltre, Smith prevede un’esplosione di ricerche e attività economiche nell’Oceano Artico, già oggetto di famelico interesse di molte potenze. È un libro interessante, a metà strada tra l’allarmismo classico stile Club di Roma e le tesi scientifiche di molti climatologi. Non si tratta di vere e proprie previsioni, ma di “riflessioni informate” che vanno prese come tali per meditare ognuno per proprio conto e senza pregiudizi.
Politiche anti-gas David Victor Global Warming Gridlock Creating More Effective Strategies for Protecting the Planet Cambridge University Press 2011, pagg. 392, $ 40 Il mondo è diviso tra chi ritiene che le cause dell’indubbio incremento della concentrazione di gas nell’atmosfera (in primo luogo l’anidride carbonica) sia di origine antropica, e chi invece lo ritiene di origine naturale. Ed è altrettanto diviso su come farvi fronte: si va dalle strategie quali gli accordi di Kyoto (finora inefficaci) a quelle regionali (esempio, lo schema 20-20-20 dell’Unione europea) alle posizioni che tendono a rigettare limiti e accordi globali, per puntare invece all’autoregolamentazione e all’innovazione tecnologica (è la posizione degli Stati Uniti). Un libro appena pubblicato da un docente dell’Università di California, David Victor, cerca di reimpostare il dibattito partendo da analisi e constatazioni abbastanza inquietanti. Il volume, in ben 392 pagine, non fa seguire all’osservazione anche l’eventuale soluzione. Sostiene Victor, infatti, che il problema dei gas serra è non solo grave, ma virtualmente intrattabile, almeno nel medio termine. I gas serra si accumulano lentamente nei decenni e secoli, e la loro eventuale dissoluzione, anche in presenza di politiche efficaci che devono contemplare niente meno che un blocco delle emissioni, richiederà altrettanto tempo e, soprattutto, enormi investimenti dall’esito sostanzialmente incerto. Un punto, delle tesi di Victor, sembra particolarmente fecondo. L’autore ritiene che il problema sia così ampio e complesso che affrontarlo con approcci globali sia virtualmente impossibile. Giudica dunque inefficaci gli accordi finora percorsi e propone invece accordi tra pochi paesi che si scambino soluzioni e tecnologie da implementare assieme. Invece di un accordo di Kyoto, molti “club del clima”, eventualmente inquadrati in organizzazioni internazionali ma solo per motivi di informazione e coordinamento. Può essere una buona idea, ma salta all’occhio che non sarà facile da applicare.
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il cliente nelle scelte di investila normativa europea Ucits IV e la mento offrendo strumenti di rimodifica del trattamento fiscale dei sparmio che aiutino le famiglie fondi di diritto italiano. a concretizzare i loro progetti di Sono due novità a cui tutti i risparvita. miatori italiani possono brindare: Interpretiamo questa missione la nuova normativa europea pone anche con l’offerta di prodotti le basi per un mercato sempre più di nuova generazione, con una aperto e competitivo, mentre il camproposizione più chiara in terbiamento del regime fiscale elimina mini di obiettivi: un esempio le precedenti asimmetrie fra prodotdi questo nuovo corso è Anima ti italiani ed esteri (es. Sicav). Traguardo, una serie di fondi In un mondo che cambia, Anima obbligazionari a scadenza e con non resta ferma. cedola. Nel 2010 è stata portata a termine Marco Carreri Cambiano i mercati finanziala fusione tra Bipiemme Gestioni e ri, cambia il modo di Anima, semplificata Anima di rispondere la gamma prodotti, Cambiano i mercati finanziari, allargata l’offerta a alle esigenze dei ricambia il modo di Anima sparmiatori e cambia disposizione dei partanche il mondo dei fonner distributori. Tutto di rispondere alle esigenze di. Il primo luglio 2011 questo consegnando dei risparmiatori e cambia sono entrate in vigore ai clienti risultati ecanche il mondo dei fondi. due importanti novità: cellenti, come testi-
moniano i diversi riconoscimenti ottenuti che riportiamo su questo numero di Anima Times. Ne cito qui solo uno: il Premio Alto Rendimento 2010 assegnato da Il Sole 24 ORE ad Anima come Migliore gestore big. È a mio avviso il riconoscimento più importante nel settore, perché premia non i risultati di un singolo prodotto, ma la società di gestione nel suo complesso, e conferma che Anima ha un squadra di gestori di talento e un’offerta di fondi affidabili e di qualità. Il 2011 si apre con l’alleanza Anima-Prima, finalizzata alla creazione di un campione nazionale del risparmio gestito, forte di circa 40 miliardi di masse in gestione e della fiducia di un milione di clienti. Avere una dimensione importante significa poter contare su maggiori risor se da investire nell’azienda e poter esercitare una capacità di attrazione verso i migliori gestori del mercato. Ci sono tutte le premesse perché Anima continui a fare, bene, il suo mestiere di protezione e valorizzazione dei risparmi dei clienti, in un mondo complesso. A
Connessi e trasparenti Intervista a Maurizio Vanzella | Direttore commericale di Anima
Rivista semestrale edita da Anima Sgr Anno 5 - Numero 7 Responsabile editoriale Anima: Matteo Tagliaferri Direttore responsabile: Enrico Sassoon Redazione: Daniele Lami, Giuseppe Leozappa, Francesca Manera, Matteo Tagliaferri Progetto grafico: Grph Ufficio grafico e impaginazione: In Pagina Sas - Milano Hanno collaborato a questo numero: Marco Carreri, Mario Deaglio, Giorgio Frankel, Fabrizio Galimberti, Mario Noera Fotografie e Illustrazioni: iStockphoto, shutterstock, Maurizio Riccardi/AGRPRESS.it. Stampa: Rotomail Italia
Anima S.p.A. Società di gestione del risparmio. Soggetta all’attività di direzione e coordinamento del socio unico Asset Management Holding S.p.A. Corso Garibaldi, 99 - 20121 Milano Tel. 02 771201 Numero Verde 800 255783 www.animasgr.it info@animasgr.it
Registrazione Tribunale di Milano N. 573 del 28.09.2007 Pubblicazione non in vendita
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Anima ha nel tempo costruito la sua identità su alcuni caratteri distintivi: l’indipendenza, l’esperienza e la professionalità del team di gestione, l’attenzione ai clienti e ai consulenti attraverso un’ampia gamma di servizi e strumenti di supporto. Certamente vantare un fondo in testa alle classifiche è gratificante, sarebbe però fine a se stesso se il cliente non ne avesse condiviso l’utilità in tutto il periodo precedente al raggiungimento della vetta. Ecco perché c’è una caratteristica, trasversale alle altre, che qualifica Anima in modo peculiare: una comunicazione efficace, orientata alla massima trasparenza. Scopriamo qualcosa di più insieme a Maurizio Vanzella, Direttore commerciale di Anima. Maurizio, qual è l’approccio di Anima alla comunicazione? Siamo in un periodo storico caratterizzato da crescente complessità e velocità, la comunicazione si connota sempre più come un dialogo attivo a più voci. Un’azienda moderna non può più solo “parlare”, deve saper “ascoltare”. Il nostro obiettivo è offrire spazi ai clienti e operatori del settore in cui è possibile raccogliere informazioni e confrontarsi, per investire meglio. Sembra interessante, ma come è possibile mettere in pratica queste idee? La tecnologia ci aiuta molto. Attraverso il web è possibile esplorare nuovi linguaggi e nuove relazioni, è possibile trovare nuovi spazi di dialogo e nuovi interlocutori. Il web ci permette di essere tempestivi, il che è fondamentale nei momenti di crisi, quando la sete di informazioni da parte degli investitori è massima e dove è più elevato il rischio di fare scelte sbagliate.
Essere accessibili su Youtube, Facebook e nella videochat settimanale (ogni giovedì alle 11 su www.animasgr.it, ndr) per noi non è un vezzo, è un modo per migliorare il servizio a distributori e clienti. Quali sono gli strumenti web che Anima usa per “socializzare” con i suoi pubblici? Siamo presenti sui principali social network: abbiamo un avviato e cliccatissimo canale su YouTube (www.youtube.com/AnimaSgr) e una pagina su Facebook. Realizziamo settimanalmente la video chat in cui chiunque può porre i suoi quesiti in diretta ai nostri esperti, proponiamo il “3 minuti su…” - il videoblog di Anima - dove commentiamo i temi dell’attualità finanziaria, offriamo gratuitamente i nostri podcast, mettiamo a disposizione dei nostri utenti il forum “Animatamente” per discutere liberamente di mercati o dei nostri prodotti e tanto altro ancora… insomma, venite a scoprirci: www.animasgr.it.