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Corriere del Ticino
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VENERDÌ 30 NOVEMBRE 2018
Liliana Segre «Gli abbracciai le gambe pregandolo di non cacciarci» La senatrice italiana sopravvissuta alla Shoah ricorda quando fu respinta ad Arzo «Ho impiegato ben 45 anni per elaborare ciò che ho vissuto dopo le leggi razziali» «Ho già detto anni fa che per me la Svizzera non è stata terra d’asilo, purtroppo». Quando raggiungiamo telefonicamente Liliana Segre, da quest’anno senatrice a vita in Italia «per avere illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale», la sua voce è calma e determinata. Da quasi trent’anni a questa parte ha deciso di raccontare al mondo, soprattutto ai più giovani, la sua storia di sopravvissuta all’Olocausto. Una storia che incrocia anche la Svizzera, dove – giovanissima – aveva cercato riparo nel 1943 con il padre al valico di Arzo, ma dalla quale fu freddamente respinta. Lunedì la racconterà ancora una volta agli studenti di Lugano in un evento che si annuncia delicato e commovente per il nostro cantone (vedi la scheda a destra). Perché il suo messaggio non è rivendicativo nei confronti del nostro Paese e di tutte le persone che non l’hanno aiutata in quei difficili anni. Anzi, si può riassumere in una sola densissima parola: amore. PAGINE DI CARLO SILINI
Liliana Segre, il presidente italiano Mattarella le ha da poco conferito il titolo di senatrice a vita in occasione degli ottant’anni delle leggi razziali. Non è stato un caso. Lei le ha vissute sulla propria pelle. Cosa ha significato per una bambina di otto anni? «È stato un colpo. Sentirsi dire a otto anni “sei stata espulsa” dalla scuola dove avrei dovuto fare la terza elementare aveva un significato preciso, voleva dire avere fatto qualcosa di grave. E io domandai subito a mio papà: perché? Che cosa ho fatto? Quel perché – perché io non avevo fatto niente a parte il fatto che ero nata – non ha avuto mai una risposta. E non ce l’ha neanche adesso. L’essere espulso da bambino da una società importante, quale è la scuola dell’infanzia, è un carico che ci si porta dietro sempre». L’Italia e l’Europa sono più o meno razziste di allora? «Certi paragoni sono difficili da fare, perché il razzismo di allora – e parlo di razzismo, non di antigiudaismo o di antisemitismo – era già sicuramente forte. A Milano, per esempio, non tutti i settentrionali erano contenti di vedere i meridionali che vi venivano a lavorare. Cosa che per fortuna, negli anni, è scomparsa completamente. Abito a Milano ma non sento mai parlare di razzismo nei confronti degli italiani del Sud. Allora c’era un razzismo diverso». Cioè? «C’era la guerra in Etiopia e poi è arrivato anche il discorso sugli ebrei, una minoranza assoluta. Ancora oggi, infatti, la gente non sa di che cifra stiamo parlando. Qualcuno diceva che eravamo un milione o un milione e mezzo mentre invece eravamo meno di 40 mila. Adesso torna fuori un razzismo dalla veste diversa, non paragonabile a quello quasi imposto dal regime di allora. Dopo la Seconda guerra mondiale si sono tenuti nascosti quei sentimenti che non avevano più un’ufficialità. Erano vergognosi, erano cose di cui non era bene parlare. Poi il tempo passa, muoiono le vittime e muoiono i carnefici e – siccome un nemico ci vuole – questa volta sono i migranti». A tredici anni, quando cercava di fuggire dai nazisti che si erano impadroniti del Nord Italia, lei ha tentato con suo padre la via svizzera, ma è stata respinta. Come ricorda quei giorni di Arzo? «Sono giorni che hanno segnato tutto il resto della mia vita. Ero nascosta in ca-
«Imbroglioni!»
«Il responsabile, svizzero tedesco, fu sprezzante. Ci disse: “Siete degli imbroglioni, non è vero che gli ebrei sono perseguitati in Italia’’. Non ci fu niente da fare».
sa di alcuni eroici amici, che rischiavano la morte, a Castellanza, vicino a Legnano, nel Varesotto. Ci sono stata per un mese, un mese e mezzo. Mio papà mi veniva a trovare con i documenti falsi attraverso mille difficoltà. Ogni volta che veniva a trovarmi lo supplicavo. Andiamo in Svizzera! Che in effetti era lì a due passi». E cos’è successo? «È successo che questi ospiti eroici trovarono dei contrabbandieri italiani che trasferivano in Svizzera antifascisti, ebrei e renitenti alla leva per una cifra che non ho mai saputo (ma che so essere stata pazzesca per quei tempi). Incontrammo questi contrabbandieri a Viggiù, o a Saltrio – non ricordo bene il posto – e ci fecero trovare nella loro casupola sulla montagna, una casupola orribile dove non c’era nulla, due vecchi cugini di mia nonna. Due anziani signori che non erano previsti. Mio papà, non perché queste due persone non fossero buone, ma perché non era questo il patto coi contrabbandieri, si ritrovò quindi ad essere l’unico uomo valido con una ragazzina di tredici anni e due vecchi». A quel punto cosa fece? «All’alba i contrabbandieri, facendoci andare molto in fretta, ci portarono sulla montagna. C’era una cava di pietra che so esserci tuttora dove scaraventarono giù le nostre valigie, piantandoci lì e dicendo: adesso scendete, al di là c’è la Svizzera. Con fatica enorme i due vecchi furono caricati uno per volta sulle spalle di mio papà che li portò giù. Quando fummo tutti scesi mio papà era distrutto dalla stanchezza, i vecchi piangevano dalla felicità. E anch’io ero felice perché eravamo quasi arrivati in Svizzera». Invece? «Invece camminammo ancora. Era il 7 dicembre del ’43, una giornata di piog-
L’APPUNTAMENTO LUNEDÌ A LUGANO Lunedì 3 dicembre, Liliana Segre incontrerà gli allievi dei sei licei cantonali nell’Aula Magna dell’USI di Lugano. L’incontro è organizzato dalla Goren Monti Ferrari Foundation. IL PROGRAMMA Alle 9.30 arriveranno gli studenti. Alle 10.00, dopo il saluto del rettore dell’USI Boas Erez e delle autorità politiche (presenti anche il sindaco Borradori e il consigliere di Stato Manuele Bertoli) sarà Liliana Segre a prendere la parola. IERI E OGGI Liliana Segre da bambina col padre (foto Archivio CDEC, Fondo fotografico Segre Liliana, inv. 022) e in un’immagine recente. gia leggera. Incontrammo in un boschetto dei soldati svizzeri che in un primo momento temevamo che fossero tedeschi, vista la divisa simile. Gelidamente, senza una parola, ci inquadrarono e ci accompagnarono al comando di Arzo. Attraversammo questo paesotto. Ricordo che mentre noi felici avremmo salutato tutti per la strada, la gente ci ignorava. Era mattina presto. Le donne erano andate a prendere il latte. Nessuno ci guardava. Ci scansavano e questo ci fece un certo effetto. Poi, entrati nell’ufficio, ci fecero aspettare ore ed ore senza minimamente chiederci se volevamo un bicchier d’acqua o una cosa qualsiasi. E dopo tutte quelle ore
fummo ricevuti dal responsabile, uno svizzero tedesco che dal primo minuto ci trattò malissimo». Che cosa vi fece? «Era sprezzante. Ci diceva: “Siete degli imbroglioni, non è vero che succede qualcosa di brutto agli ebrei in Italia”. Non ci fu niente da fare. Ricordo che mi buttai per terra, gli abbracciai le gambe supplicandolo di tenerci. E lui mi allontanava come se fossi un cagnolino. Verso le quattro, quattro e mezza del pomeriggio, mentre cominciava ad imbrunire, ci fece riaccompagnare da due soldati col fucile puntato, più o meno nel punto dove eravamo passati la mattina. Un luogo sotto il comando tedesco. Lì,
ANCHE UNA MOSTRA «Si tratta di un evento storico», spiega la presidente Micaela Goren Monti «e per l’occasione, nel foyer antistante l'Aula Magna e lungo il percorso che porta alla sala, proporremo la mostra: «Le leggi razziali del 1938 in Italia», organizzata dal CDEC (Centro Documentazione Ebraica Contemporanea)». «La Shoah – aggiunge Micaela Goren Monti – è una pagina storica ancora troppo poco conosciuta, se non negata e Liliana Segre è uno degli ultimi testimoni in grado di parlarne. La fondazione si vuole impegnare anche nell'approfondimento e nello studio della Shoah e delle diaspore, affinché la memoria non sia annacquata o dispersa».
Il personaggio E le tatuarono sull’avambraccio Nata nel 1930 a Milano, dopo la fallita fuga in Svizzera, da adolescente ha trascorso un anno nel ce Senatrice a vita italiana dallo scorso 19 gennaio, Liliana Segre, classe 1930, è una delle più note superstiti dell’Olocausto, diretta testimone dei campi di concentramento nazisti. Nata in una famiglia ebraica a Milano, dopo la prematura scomparsa della madre (morta quando Liliana non aveva neanche compiuto un anno) cresce col padre – Alberto Segre – e con i nonni paterni. Pur appartenente ad una famiglia laica, è ben presto costretta a fare i conti col fatto di essere ebrea quando, dopo l’emanazione delle leggi razziali fasciste (1938), ad otto anni viene espulsa dalla scuola che frequenta. A quel punto, nel clima di persecuzione degli ebrei in Italia, il padre decide di metterla al sicuro, nascondendola nel-
la casa di alcuni amici a Castellanza, nel Varesotto. La vicinanza col nostro Paese induce poi padre e figlia – insieme a due anziani cugini della nonna aggiuntisi all’ultimo minuto – a tentare la via della salvezza in Svizzera. È il 7 dicembre 1943: intercettati in Ticino al valico di Arzo, i quattro vengono però respinti dalle autorità elvetiche e catturati il giorno dopo dai soldati italiani a Selvetta di Viggiù. Liliana ha tredici anni. Dopo sei giorni in carcere a Varese, è trasferita a Como e poi a Milano, dove rimane agli arresti per quaranta giorni. È solo l’inizio di un allucinante viaggio verso i campi di morte nazisti. Partendo dal Binario 21 della stazione di Milano Centrale, il 30 gennaio 1944 è deportata assieme al genitore nel campo di
sterminio di Auschwitz-Birkenau, che raggiunge sette giorni dopo. Lì viene separata dal padre, che verrà ucciso il successivo 27 aprile. Pochi giorni dopo, il 18 maggio 1944, anche i suoi nonni paterni sono arrestati a Inverigo (in provincia di Como) e deportati ad Auschwitz dove, al loro arrivo, il 30 giugno, trovano la morte. Ad Auschwitz Liliana –alla quale viene tatuato sull’avambraccio il numero di matricola 75190 – è impiegata per circa un anno in lavori forzati per la fabbrica di munizioni Union (Siemens). Alla fine di gennaio del 1945, dopo l’evacuazione del campo, affronta la marcia della morte verso la Germania. Liberata dall’Armata Rossa il primo maggio 1945 dal campo di Malchow –
un sottocampo del campo di concentramento di Ravensbrück – Liliana è uno dei venticinque bambini italiani di età inferiore ai 14 anni (dei 776 deportati ad Auschwitz), ad essere sopravvissuto. Dopo l’Olocausto vive con i nonni materni, di origini marchigiane, unici superstiti della sua famiglia. Nel 1948 incontra un altro reduce dai campi di concentramento nazisti che si era rifiutato di aderire alla Repubblica Sociale: Alfredo Belli Paci. I due si sposano nel 1951 e hanno tre figli. Come per molti bambini dell’Olocausto, il ritorno a casa e ad una vita «normale» è stato per Liliana tutt’altro che semplice. Perciò per molto tempo, non ha voluto parlare pubblicamente della
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Il messaggio «Giusto è colui che non volta mai la faccia» «Sì, ho visto il male e per tutta l’esistenza l’ho combattuto»
sulla rete, ci arrestarono i soldati italiani. Il ricordo della Svizzera è atroce. A quel signore, al quale era già stato dato l’ordine che la barca era piena e che non si doveva accettare più nessuno, è bastato voltare la faccia dall’altra parte». Come ha rielaborato questi fatti a distanza di tanti anni? «Oggi ho ottantotto anni, a quei tempi ne avevo tredici: quindi c’è una vita di mezzo. La rielaborazione è durata 45 anni. Io non ho mai parlato di queste cose fino ai miei sessant’anni, o quasi. Siccome ho avuto una buona vita, ho incontrato un uomo che è stato mio marito per sessant’anni e ci siamo amati tantissimo, ho tre figli e tre nipoti, ho
una bella casa e sono una persona che ha avuto molto amore, a un certo punto sono riuscita a raccontare la mia storia nelle scuole italiane, ma sono andata anche in Messico e a San Francisco». E come la racconta? «Senza mai parlare di odio nei confronti di nessuno. Non ho mai neanche voluto sapere chi fosse quel funzionario di cui potevo sapere il nome e il cognome. Perché lui, col suo atteggiamento, ha condannato a morte tre persone. Dei due vecchi, uno infatti si è buttato giù dall’ultimo piano della scala di San Vittore; il fratello è morto di stenti a Fossoli e mio papà è stato ucciso ad Auschwitz. Solo io sono tornata».
Lei è stata uno degli oltre settecento minorenni che sono stati internati in un campo di sterminio nazista. Che cosa si sente di trasmettere di quella fase tragica della sua vita? «Ci sono stata più di un anno. Ho visto il male e per tutta la vita l’ho combattuto anche nei pensieri delle persone, visto che il male appare sotto varie vesti. E quello era un male organizzato. Non il male di quello che in un raptus di follia pugnala la moglie, cosa che naturalmente condanno. Ma quando uno ha visto il male così da vicino e per così tanto tempo può impazzire oppure può guarire, come si guarisce da tante malattie». Come è guarita da quel male? «Io sono guarita con l’amore. Ed è questo che cerco di trasmettere dopo aver provato l’odio». Lei è stata profuga e oggi il problema delle migrazioni di massa è al vertice di tutte le agende politiche internazionali. Che sentimenti prova di fronte a queste popolazioni in fuga? «Prima di tutto non ha niente a che fare con la nostra fuga. I paragoni sono inaccettabili perché ogni persona in fuga ha un problema. Può essere che dall’altra parte ci sia la morte, come nel nostro caso. O può essere che qualcuno vada verso una vita migliore, abbandonando posti poverissimi nella speranza di avere più fortuna da un’altra parte. Le motivazioni sono diverse. Il fatto è che il più delle volte non si può tornare indietro da dove si è venuti, per situazioni ogni volta diverse». Cosa vuol dire? «Vuol dire che non accetto questo paragone e non perché queste persone in fuga oggi non mi facciano una pena infinita: me la fanno eccome. Si tratta di due situazioni completamente diverse. Ad accomunarle c’è solo l’indifferenza generale in cui queste cose sono accadute e succedono oggi. Troppe persone pensano: la cosa non mi riguarda, la cosa non tocca me e la mia famiglia, volto la faccia dall’altra parte così non mi rattristo e non voglio prendere posizione. Questo fa la gente». Lei afferma di essere guarita con l’amore, l’opposto dei sentimenti che sta descrivendo. Cosa prova di fronte all’umanità, vedendo che certe dinamiche si replicano tali e quali? «Intendiamoci. Non è che tutti i giorni uno è uguale. Non è che una persona che ha attraversato quello che ho attraversato io sia guarita. Ho ho solo lenito una ferita che qualche volta sanguina ancora. Per fortuna adesso ho una tale forza in me per cui riesco a farla cica-
SORRIDENTE Liliana Segre a 18 anni. L’elaborazione delle persecuzioni subite è durata 45 anni. (foto Archivio CDEC, Fondo fotografico Segre Liliana, inv. 022). trizzare. Ma non sempre tutto è così semplice. Ci sono dei segnali e delle realtà che ancora oggi non posso sopportare: il cane lupo, il camino che fuma… Mille cose dalle quale non ho potuto guarire. Ma ho avuto una qualità di vita e un tale amore attorno a me – un amore che sono riuscita a dare e a ricevere – che ha fatto sì che potessi diventare una testimone che parla di vita e di amore». Lugano ha inaugurato quest'anno un giardino dei giusti. Quali sono i giusti che lei ricorda con maggiore affetto? «I giusti che ricordo con più affetto principalmente sono tre. Una è la nostra cameriera di nome Susanna, che è stata 42 anni in casa nostra e che nonostante l’abitudine che avevano gli ebrei di avere una cameriera sotto spoglie di ospite e di amica, è stata fedele e religiosissima, ed ha continuato a far dire messe per i miei nonni. Non è fra i giusti di Yad Vashem perché non è riuscita a salvare nessuno, ma è stata di una fedeltà, di un’affettuosità tali che per me è una giusta. Poi le due famiglie che mi hanno tenuto nascosta rischiando la vita, la fucilazione. E anche se non sono riuscite a salvarci, hanno fatto di tutto perché questo potesse avvenire. I giusti, a mio avviso, sono quelli che non hanno voltato la faccia dall’altra parte». Chi sono i giusti di oggi? «È difficile capirlo. Perché bisognerebbe sempre essere sicuri che chi aiuta lo fa senza interessi. Amo le persone che lavorano gratuitamente, quelle pure di cuore. Quello che si legge o si vede alla televisione mette a volte in uno stato
il numero 75190 ntro di sterminio di Auschwitz-Birkenau sua esperienza nei campi di concentramento. «Era molto difficile per i miei parenti convivere con un animale ferito come ero io» ricorda. «Ero una ragazzina reduce dall’inferno, dalla quale si pretendeva docilità e rassegnazione. Imparai ben presto a tenere per me i ricordi tragici e la mia profonda tristezza. Nessuno mi capiva, ero io che dovevo adeguarmi ad un mondo che voleva dimenticare gli eventi dolorosi appena passati, che voleva ricominciare, avido di divertimenti e spensieratezza», ha poi scritto in Un’infanzia perduta, Voci dalla Shoah testimonianze per non dimenticare (ed. La Nuova Italia Editrice, 1996). Attorno ai sessant’anni, come spiega anche nell’intervista al Corriere
di oggi, ha infine accettato di raccontare ciò che ha vissuto. Ne sono uscite diverse pubblicazioni. Il 27 novembre 2008 l’Università di Trieste le ha conferito una laurea «honoris causa» in Giurisprudenza ed il 15 dicembre 2010 l’Università degli Studi di Verona le ha attribuito una laurea «honoris causa» in Scienze pedagogiche. Il 19 gennaio di quest’anno, in occasione dell’80. anniversario delle leggi razziali fasciste, il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella l’ha infine nominata senatrice a vita «per avere illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale». È la quarta donna a ricoprire tale carica, dopo Camilla Ravera (1982), Rita Levi-Montalcini (2001) ed Elena Cattaneo (2013).
TRAGICO BINARIO L’ingresso del campo di sterminio nazista di Auschwitz.
d’animo di grande tristezza per come vanno e sono andate certe cose. Ciò che mi fa più effetto, non sono tanto i giusti, ma gli ingiusti». Cioè? «Alludo a questa specie di parola d’ordine degli Stati che hanno chiuso le frontiere e non hanno voluto neanche scegliere chi meritasse veramente di esser salvato e chi no. Quel barcone con più di duecento persone sprofondato qualche mese fa nel Mediterraneo che cosa ha lasciato? Di queste persone non si sa neanche il nome». L’ombra degli ingiusti è più forte della luce dei giusti? «Diciamo che ho sempre combattuto l’indifferenza, che è la madre di tante ingiustizie, senza rivelarsi. Questa è la cosa più schifosa: l’indifferenza, più che la violenza. Il voltare la faccia dall’altra parte per non vedere». La generazione di chi ha vissuto personalmente l’Olocausto sta piano piano scomparendo. Lei è una di questi testimoni. E poi? «Sa che in Italia siamo rimasti solo in cinque? Presto saremo una riga in un libro di storia, lo dico sempre. Sebbene sia molto positiva, molto concreta, non mi illudo». Eppure lei continua a portare avanti con forza la decisione che ha preso a sessant’anni di raccontare ciò che ha vissuto. «Perché lo ritengo un dovere nei confronti di tutti coloro che non sono tornati. Io sono una persona che di solito fa il suo dovere, come cittadina, come madre, come moglie…»