cronache dall'incompiuto

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C r o n a c h e dall’incompiuto

1 9 6 5 - 2 0 0 5 , 4 0 A n n i d i A n f fa s n e l B i e l l e s e

Ga ll e r i a B a n a l e Co n c e pt Sto r e


18 novembre 2005 > 28 novembre 2005 Ga ll e r i a B a n a l e Co n c e pt Sto r e


Progetto a cura di: > Associazione ANFFAS Biellese onlus

Associazione Anffas Biellese Onlus

> Cooperativa Sociale Integrazione Biellese

Associazione ANFFAS Biellese

> Banale Concept Store

Cooperativa Sociale Integrazione

> Harta Design

Biellese a marchio ANFFAS via Cavour 104

Con il contributo di:

13894 Gaglianico (BI) Tel. 015/2493064 Fax 015/2496870

> Fondazione Cassa di Risparmio di Biella > ACSV Biella > Lions Club Biella Host > Unione Industriale Biellese > Ascom Panificatori > CittĂ Studi Biella Con il patrocinio di: > Provincia di Biella > Comune di Biella > Comune di Gaglianico > Comune di Salussola > Comune di Zumaglia

e-mail info@anffas.bi.it www.anffas.bi.it


C r o n a c h e dall’incompiuto

1 9 6 5 > 2 0 0 5 | 4 0 a n n i d i A n f fa s n e l b i e l l e s e


Presentazione

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> 1965: Costituzione della sezione ANFFAS di Biella. > 1968: Via delle viti, Biella. Sette Ragazze/i frequentano il piccolo Centro. > 2005: - 67 ragazzi frequentano il Centro Diurno di Gaglianico; - 9 ragazzi sono inseriti presso la Comunità alloggio in Via Losana a Biella; - 6 ragazzi sono inseriti presso la Comunità alloggio "Villa Virginia" di Zumaglia (BI); - 9 ragazzi sono inseriti presso il Centro di soggiorno agricolo "Mario e Marie Gianinetto" di Salussola (BI).

Molta acqua è passata sotto i ponti dalla costituzione della Sezione ANFFAS di Biella, una delle prime in tutt'Italia. Il cammino non è stato facile, dopo quarant’anni, dal primo piccolo Centro, le strutture danno ospitalità a 90 Ragazze/i. I Biellesi con laboriosità e con generosità sono riusciti a creare centri accoglienti e familiari. Ancora oggi il percorso si rivela in salita ma carico di soddisfazioni e, nonostante le difficoltà, anche in quest’occasione, come per magia, si materializzano le risorse per portare avanti un progetto significativo. Ringraziamo, con i nostri Ragazzi, chi tanto ha dato nel corso di questi lunghi anni. ‘Cronache dall’incompiuto’ è stata possibile grazie a loro. Antonello Papa Presidente ANFFAS Biellese Onlus


Il senso delle cose

Nella richiesta di visionare le opere da esporre per valutare l’opportunità o meno di ospitare questa mostra nei nostro spazi, devo ammettere di essere stato immediatamente colpito dalla valenza estetico-figurativa prima che non dalla comunicazione di supporto e dal contesto di provenienza. L’Arte ha da sempre come primario il valore Evocativo, ebbene anche in questa occasione le opere esposte hanno attivato questa opzione, ma ciò che è apparso sin dal primo istante non è l’associazione con una situazione di disagio, bensì la materializzazione di un potente immaginario, al di là del tempo, della condizione e dell’età. Caratteristica propria dell’Arte contemporanea, secondo quanto amiamo da sempre frequentare. In ultimo mi piace pensare che in questa occasione uno sguardo banale ed apparentemente superficiale sia stato funzionale al rafforzamento di una tesi che diviene ossatura dell’intero progetto.

Il negozio Banale inizia la sua attività nel centro di Biella il 1° Settembre 1991 con l’esplicita didascalia che recitava: ‘Oggetti selezionati per l’uso quotidiano’. Una chiara dichiarazione di intenti che da allora, in forma di anticipazione dei tempi, non ha più cessato di essere una costante linea guida. Dal 2002, conseguentemente all’intervento di ristrutturazione dello storico Cinema Teatro Apollo situato lungo via Italia nel centro pedonale di Biella, Banale affronta un nuovo ciclo propositivo secondo un modello previsto sin dal suo esordio e presente in città e metropoli di più ampio respiro, divenendo a tutti gli effetti un Concept Store ed ampliandosi. Nella proposta commerciale, grazie all’affiancarsi alla consueta selezione di oggetti di Design di una ampliata sezione dedicata all’arredo domestico ed alle forniture per locali, ad una sezione dedicata all’abbigliamento femminile e maschile, calzature ed accessori, e ad una selezione di titoli nell’ambito di Libri e Musica, intesi come naturale compendio al vasto panorama merceologico. Nella attività culturale, grazie al proseguire delle mostre dedicate

alla Fotografia, all’Arte, al Design ed all’Architettura, volte alla divulgazione del pensiero che sempre di più la Cultura deve divenire parte della quotidianità. Negli anni Banale si è sempre distinto per la sua opera di selezione degli oggetti proposti, contribuendo all’identificazione di uno stile di vita orientato verso la ricerca della Qualità nelle cose che ci circondano. Tutto ciò reso con il consueto spirito ed impegno, al servizio della affezionata clientela. Gian Luca Bazzan art director Banale Concept Store

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Arte irregolare: testimonianze di una visione ‘altra’ di Roberto Rossini

La vera arte è sempre là ove non la si attende. Là ove nessuno pensa a lei, né pronuncia il suo nome. Jean Dubuffet

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Quando mi è stata offerta l’opportunità di formulare queste brevi note, in margine alla mostra Cronache dall’incompiuto, il pensiero è ritornato naturalmente all’incontro personale - una performance realizzata più di dieci anni fa - con l’Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli, importante esperienza di arte-terapia, nata nell’ex Ospedale Psichiatrico di Genova Quarto grazie soprattutto alla dedizione dell’artista Claudio Costa. In quell’occasione (dove nell’occasione è insita anche la sua impermanenza: l’occasus è il tramonto, il perire, il morire senza alcuna presunzione...), a contatto con i lavori e le personalità presenti nell’Istituto, ho provato l’emozione che può dare un’arte - per definizione, ‘sistema rappresentativo’ - che comunica l’incomunicabile. Anche le esperienze espressive di questa mostra rappresentano, con una forza ‘naturale’, la solitudine umana, il vuoto esistenziale, le problematiche affettive - in ultima analisi l’assenza - ma anche la gio-

ia del creare, la coscienza dell’esperienza, la padronanza delle tecniche: proprio come l’arte contemporanea, nel suo Spirito del Tempo. Per questo ho sentito necessario evidenziare, nella sintetica storia dell’arte ‘irregolare’ delineata nelle pagine seguenti, i collegamenti con l’‘arte ufficiale’ per sottolineare, piuttosto che la loro dicotomia, la storia comune e la contiguità di tematiche, forme espressive, linguaggi. Non ho voluto stabilire dei criteri estetici pre-formati attraverso cui osservare le opere presentate, nelle quali ha valore l’esperienza in quanto tale; se nelle tradizioni post-rinascimentali dell’arte è il prodotto ad essere considerato, come se potesse essere sottratto al tempo, non così in questi lavoriesperienza, dove il fare è più importante del produrre. Ho ricercato, piuttosto, gli archetipi a cui spontaneamente i ragazzi attingono, mettendo al centro dell’osservazione i condotti principali di un’energia che si presenta di intensità variabile, dal flusso al cortocircuito, sfrondata da valutazioni tecniche o pregiudizi artistici. Sono stato aiutato, in questo lavo-

ro di sottrazione, dal non avere volutamente preso in esame altro che le opere, ignorando contesti e storie personali; occorre altresì precisare che, dal punto di vista dell’esperienza terapeutica, esistono approcci differenti, determinati dalle patologie coinvolte. Le disabilità che sono all’origine dei lavori presentati non possono essere considerate, in questo contesto essenzialmente percettivo, elementi di differenziazione; differenziazione che diventa necessità imprescindibile nella pratica di arte-terapia degli operatori responsabili del laboratorio. Un’ultima osservazione: consultando i manuali di storia dell’arte italiani si può verificare come, a differenza di altri Paesi europei nei cui libri già da tempo le opere di Wölfli, di Aloïse, di Lange e di altri artisti ‘irregolari’ sono ufficialmente rappresentate, si preferisca ignorare la storia, e il presente, di tutte le forme espressive considerate fuori dal mercato. Questo testo vuole essere quindi un piccolo contributo per pagare il grande debito che l’arte moderna e contemporanea ha con le radici espressive dell’‘essere umano’: l’arte dei primitivi, l’arte infantile,


l’arte dei malati mentali e degli esclusi, quella che è stata definita ‘arte irregolare’. La sparizione dell’arte Nella situazione artistica contemporanea, dove tutto è possibile e tutto - o nulla, a seconda dei punti di vista - continuamente si trasforma, non si é più aiutati da una razionalità euclidea per determinare e definire il campo d’azione dell’evento estetico: ci si muove necessariamente attraverso ‘raccolte’ di frammenti per individuare, all’interno di questi, il dato, l’essenza dei linguaggi artistici proposti e il loro divenire. Lo stesso concetto di ‘contesto’, che era servito a tutta l’arte precedente il Novecento a definire ciò che era arte e ciò che non lo era come la distinzione tra arti maggiori e arti minori - riceve, nel secolo appena passato, la critica radicale delle Avanguardie storiche, che portano a compimento un vero atto sacrificale attraverso la massima laicizzazione del fare artistico, l’oggettivazione del ‘prodotto’ arte e l’esaltazione del ‘concetto’. Paradossalmente questo processo di superamento dell’arte o di ‘morte dell’arte’, come l’ha definita

Nietsche, non ha fatto che aumentare la coscienza del valore spirituale dell’arte stessa. Sul piano della de-strutturazione del fare artistico esperienze come i ready-made di Marcel Duchamp introducono l’aspetto aleatorio come elemento determinante dell’opera d’arte, in cui, come precisa Lebel: «La parte dell’inconscio è più importante che in tutti gli altri lavori». L’evento artistico si sviluppa quindi attraverso una libera associazione di gesti, rompendo il binomio causa-effetto, promuovendo nel corpo sociale l’irruzione di gesti non economici e a-funzionali, disinteressati, con l’unica finalità di portare alla superficie zone rimosse, appartenenti all’inconscio. È nella consapevolezza di questa condizione ‘originaria’ che l’arte del Novecento e l’‘arte irregolare’ intessono il loro dialogo proficuo e sviluppano corrispondenze sul piano del comune territorio dello Spirito del Tempo. L’uomo del Novecento è infatti l’uomo della crisi esistenziale e della frantumazione dell’Io, fenomeno che si ravvisa, in campo espressivo, nelle opzioni tematiche e nelle modalità di rappresentazione che mostrano parallelismi sor-

prendenti tra i due campi, fino a giungere a un vero e proprio collasso delle due dimensioni in un territorio condiviso, libero, almeno a priori, da pregiudizi. La situazione odierna è la naturale prosecuzione di questo quadro, determinata da una parte dall’ingerenza dell’economia in tutte le forme del reale, dall’altra dall’impossibilità del potere di controllare adeguatamente tutte le catene biologiche dell’esistente; anche la mutazione delle dinamiche proprie della realtà fa sì che risultino inadeguati i metodi di indagine meccanicistici ed analogici fino ad ora utilizzati. Ne consegue, nel fare arte, che il ‘progettare’ (la capacità di costruire il futuro) appare oggi una strategia perdente o desueta e che tutto quello che è avvenuto negli ultimi cent’anni è rimosso, negato, come mai avvenuto; la rimozione del passato e l’incapacità di ‘prevedere’ significano che una parte della nostra vita è perduto. I recenti cambiamenti tecnologici, economici e politici hanno contribuito alla marginalizzazione e alla frammentazione di strati sociali sempre più ampi, non solo da un punto di vista sociologico, ma piut-

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Vincent Van Gogh Marcel Duchamp Edward Munch


tosto di tutto ciò che viene ‘espulso’ in quanto causa di paradossi e contraddizioni: contraddizioni che pur essendo perfettamente razionali non offrono altre soluzioni se non dei cambiamenti radicali. È in questo tipo di marginalità che si colloca la produzione artistica di chi conduce una vita spesso drammatica, sofferente, che noi non vorremmo vivere. 8

André Breton René Magritte Henri Michaux

Le avanguardie artistiche e la psicoterapia Nel 1924, André Breton definiva così, nel suo Manifesto, il Surrealismo: «Automatismo tipico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmete, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale», palesando così l’interesse degli artisti d’avanguardia per quelle forme espressive definite come ‘arte irregolare’ e la loro ammirazione (peraltro non ricambiata) a Sigmund Freud. L’attrazione reciproca tra arte, psicoanalisi e psichiatria vede soprattutto i Surrealisti - con Breton, Max Ernst, Paul Eluard, René Magritte -

interessarsi alle manifestazioni spontanee dei malati mentali (ma non solo, anche dei popoli cosiddetti primitivi e delle espressioni artistiche infantili), leggendo, nelle loro modalità di dipingere e raffigurare la realtà, una vicinanza ai concetti del dirompente Movimento Surrealista, teso a ribaltare le categorie logiche convenzionali, i dogmi della critica razionalista e a esaltare l’entusiasmo per l’inconscio, il sogno, il bizzarro come elementi fondanti per la nuova rivoluzione sociale. Questo ‘amore a prima vista’ si presenterà ricco di contraddizioni dall’una e dall’altra parte, generando pregiudizi e idealizzazioni, contrasti e stimoli reciproci, ma anche una vasta casistica di esperienze in cui si è raggiunto l’obiettivo più alto di restituire dignità all’umano. Il panorama composito dell’‘arte psicopatologica’ - sia quella degli artisti divenuti folli o quella dei folli divenuti artisti, sia quella spontanea creata di nascosto nelle case di cura o quella incoraggiata nei laboratori di arte-terapia - sembra ancora chiedere il chiarimento di alcuni stereotipi e pregiudizi da cui è stata afflitta fin dalla sua prima evidenza, rappresentata da una

personalità come quella di Vincent van Gogh. Van Gogh, ‘icona delle icone’ nell’arte dell’attuale società mercantile, è la dimostrazione di quanto la follia e la presunta menomazione psichica siano state lette, nel senso comune, come fonte della creatività o, addirittura, del genio. In realtà, la produzione artistica ‘alienata’ appare molto lontana dal romantico binomio genio-follia. La risposta definitiva a queste contraddizioni verrà proprio dall’interno, attraverso la penna avvelenata dello ‘psicotico’ per eccellenza Antonin Artaud, che dedicherà all’artista-uomo Van Gogh uno dei suoi più appassionati, deliranti ed autobiografici testi. Artaud, personalmente convinto di essere una vittima della società, e dei medici in particolare, vedrà nel tragico destino di Van Gogh il dramma stesso di una persona fragile e creativa in una società che tende ad escludere tutte le categorie dei ‘diversi’, dei ‘marginali’, tanto più se detentori di una sensibilità come quella dell’artista olandese; per dirlo con le parole di Artaud: «Perché un pazzo è anche un uomo che la società non ha voluto ascoltare e a cui ha voluto impedi-


re di pronunciare delle insopportabili verità». Il successivo affermarsi dell’‘arte irregolare’ ha in parte liberato la storia dell’arte (come desideravano, almeno nelle loro intenzioni, i Surrealisti) dalla dicotomia tra arte colta - la crociana ‘Arte con la A maiuscola’ - e arte non-colta. Il tratto del pittore è diventato metonimia di una visione del mondo, testimonianza di una visione ‘altra’, segno intangibile di una condizione perduta e irripetibile. Se, per i canoni dell’estetica comunemente accettata, non tutta la produzione irregolare può essere definita ‘artistica’, il valore incontrovertibile di queste opere è proprio nel loro essere testimonianza di un’esistenza unica, vera e non riproducibile . Secondo lo stesso principio di unicità di ogni esistenza per cui solo Van Gogh poteva dipingere Campo di grano con corvi riuscendo, per usare le parole di Artaud, ad essere «più vero della natura stessa», solo il segno di quel pittore, malato o sano che sia, può diventare rappresentativo della sua particolare capacità - o incapacità - cognitiva ed esecutiva. Non dimentichiamo che la menomazione o il rifu-

giarsi nella psicosi rappresenta spesso, per alcuni individui, l’unica via di esistenza possibile; ci accorgiamo così che è l’umano - in tutta la sua complessità ed interezza - a comparire dirompente nei loro quadri, nei loro disegni, nei quaderni riempiti di schizzi, nella costruzione dei loro oggetti. Queste opere sono la testimonianza della vita come ‘assenza di protezione’, una dimensione che si infrange contro le definizioni rigide e prestrutturate per lasciare spazio al manifestarsi di esistenze che seppur ‘altre’ - riescono tuttavia ad esistere e, in questo ex-sistere, essere fuori e dunque mostrar-si, hanno un’unica via per farlo: la malattia, l’alienazione, l’emarginazione e, tuttavia, ancora, la vita. Museificazione e mercato dell’arte irregolare Le prime esperienze di conservazione di tracce o manufatti prodotti da internati in case di cura o di detenzione risalgono alla fine del XIX secolo, nel contesto del positivismo scientifico dell’epoca, spesso acquisite come documentazioni con cui sostenere le diagnosi, giustificare le contenzioni, gli internamenti e il grado di responsabilità

degli ‘imputati’. Questi allegati delle cartelle cliniche, unitamente alle collezioni che all’interno degli istituti ospedalieri avevano la funzione di strumenti didattici (come quella del discusso antropologo criminale Cesare Lombroso), costituirono la base della oramai famosa Collezione Prinzhorn. La genesi e la fama di questa collezione straordinaria hanno la loro ragione nel concetto di ‘essenza originaria’ e della sua trasformazione in mito; le avanguardie artistiche dei primi del ‘900, in particolare Espressionismo e Surrealismo, avevano posto al centro delle loro ricerche l’‘autenticità’ del processo artistico, attraverso l’attenzione all’arte ‘dilettantesca’, a quella dei ‘folli’ e a ‘gli albori dell’arte’, per dirla con le parole di Paul Klee, in una visione estetica coerentemente idealistica. Hans Prinzhorn (1886-1933), spirito libero, sperimentatore, ma soprattutto medico e storico dell’arte al tempo stesso, fece propri questi principi modellando su di essi la sua collezione di opere di malati di mente. Questa attività, incarico ufficiale presso l’istituto ospedaliero di Heidelberg, si svolse sempre conside-

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Antonin Artaud Adolf Wölfli August Natterer (Neter) Hans Prinzhorn


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Auguste Forrestier Else Blankenhorn Aloïse Corbaz

rando il doppio binario consentitogli: da una parte una valutazione estetica del prodotto artistico, al fine di « fare chiarezza nel caos dell’arte contemporanea » per dirla con le parole di Prinzhorn, dall’altra con l’intento ‘scientifico’ di catalogare e dare norma ad aspetti patologici già preventivamente catalogati nell’ambito della schizofrenia. Questi assunti a priori gli faranno sottacere elementi di indagine importanti come, ad esempio, il fatto che molti casi di malattia mentale presi in esame fossero conseguenza stessa del ricovero istituzionalizzato e che molti artisti presenti nella collezione avessero esperienze artistiche acquisite prima o durante la contenzione. Bisogna aggiungere che Prinzhorn non aveva una grande esperienza clinica, nè una precedente conoscenza su cui basarsi; tentava quindi di indagare questo diverso ‘senso del mondo’ attraverso la visita ai pazienti o, pratica diffusa nell’ambiente psichiatrico dell’epoca, con l’assunzione di mescalina in via sperimentale, ritenendone gli effetti la «medesima percezione degli schizofrenici». Nel 1922 pubblicò, presso l’editore

Springer di Berlino, Bildnerei der Geisteskranken. Ein Beitrag zur Psycologie und Psycopatologie der Gestaltung (trad. it. L’arte dei folli. L’attività artistica dei malati di mente), libro che ebbe molto successo, soprattutto nell’ambiente artistico e che influenzò notevolmente vasti settori dell’arte contemporanea. Resta da dire, in queste brevi note, che la prima manifestazione ufficiale che accomunerà sullo stesso livello le opere degli artisti delle avanguardie e le produzioni raccolte in campo psichiatrico sarà la mostra Entartete Kunst (Arte degenerata) del 1937, promossa dal Ministro della Propaganda del Terzo Reich, Joseph Goebbels. L’obiettivo di questa infamante operazione era di convincere il pubblico della natura patologica dell’arte “giudaico-bolscevica”, attraverso l’accostamento di opere di Kirchner, Nolde, Kokoschka, Chagall, Kandinsky, Klee e altri a opere provenienti proprio dalla Collezione del dottor Prinzhorn, sottolineando in tal modo l’ambiguità di fondo di questa esperienza, d’altronde già conclusa prima della morte di Prinzhorn, nel 1933. Nell’immediato dopoguerra, con

Jean Dubuffet e l’apertura del Musée de l’Art Brut a Losanna, l’‘arte irregolare’ entra ufficialmente nei manuali come produzione artistica vera e propria. La Collezione dell’Art Brut prende il via nel 1945 dalla ricerca, fatta dal pittore e scultore francese Jean Dubuffet, di opere realizzate al di fuori dei circuiti ufficiali e delle tendenze di moda da artisti «indenni da cultura, nei quali dunque il mimetismo, contrariamente a ciò che accade presso gli intellettuali, ha poco o per nulla parte». Con il termine di art brut si identifica quindi l’espressione artistica praticata da coloro che, per una ragione o per un’altra, sono sfuggiti al condizionamento culturale e al conformismo sociale. Individui solitari, disadattati, ricoverati di ospedali psichiatrici, detenuti, emarginati di tutti i tipi che hanno prodotto per se stessi, al di fuori della tradizione e delle mode, al di fuori del sistema delle arti, delle scuole, gallerie, musei, opere altamente originali per contenuti e tecniche. L’art brut è intesa inizialmente come ogni genere di manifestazione spontanea e priva di intenzioni culturali, ma nel corso del tempo si


definisce nell’interesse per l’arte marginale dei reclusi, degli alienati, dei clandestini, dei fous; non si presenta quindi come un movimento pittorico in senso stretto, ma come una definizione ampia che comprende opere di artisti, a volte inconsapevoli, colpiti da gravi disturbi psichici ai quali la pittura ha consegnato uno straordinario veicolo di comunicazione. La psicosi o, a volte, l’handicap psichico vengono definiti da larga parte della psichiatria essenzialmente come una ‘crisi del linguaggio’. Se si pensa all’arte come a uno dei più alti sistemi di espressione, l’‘arte irregolare’ appare quindi come un’oasi dove - nel deserto della comunicazione autistica e nella condanna all’impossibilità di parlare - la comunicazione rivela il suo potenziale catartico. È necessario fare un distinguo tra l’art brut e quella che viene definita arte naïf perché quest’ultima, anche se realizzata ‘ingenuamente’, si inserisce nei canali della grande pittura di stile accademico ed è perfettamente integrata nelle regole di mercato, mentre chi pratica l’art brut inventa proprie tecniche, utilizza materiali insoliti, crea a proprio uso e consumo come in

una sorta di teatro privato e senza preoccuparsi del giudizio altrui. Sosteneva Jean Dubuffet : «L’Art Brut ha in sé tutti gli elementi che richiede un’opera d’arte: una bruciante tensione mentale, invenzione senza freni, libertà totale. Pazzi? Certamente. Potreste concepire un’arte che non fosse un poco folle? Nietzsche diceva: Noi vogliamo dell’arte che danzi». Grazie anche all’art brut, la storia dell’arte si è liberata dai vincoli dell’estetica tradizionale, della sterile opposizione tra arte colta, ‘ufficiale’, e arte non-colta, riuscendo a formulare un nuovo statuto disciplinare in cui tutte le pratiche artistiche fanno parte della medesima storia. D’altro canto anche la psichiatria ha rinunciato, in parte, a catalogare e incasellare l’espressione dell’umano, per lasciare spazio anche a margini di incomprensibilità e di espressione pura. Il linguaggio dell’anima Il pregiudizio, lo stereotipo, l’erigere barriere - anche fisiche - tra follia e normalità, tra arte ‘riconosciuta’ e arte ‘alienata’, ma soprattutto l’idealizzazione di quelle esperienze tragiche e distruttive che sono comunque - la psicosi e l’handicap

hanno dimostrato, come abbiamo visto, quanto sia faticoso trasformare realmente queste esperienze in ‘segno umano’. Le opere raccolte nella mostra Cronache dall’incompiuto sono la prova di come sia importante non tanto ‘valutare’, quanto imparare ad ‘ascoltare’, a ‘riorganizzare’ e a ‘rispondere’ alle immagini-esperienza prodotte. Nella psicologia, il potere terapeutico delle immagini non risiede in un effetto letterale (dipingo il problema che mi affligge) e nella sua interpretazione, ma al dialogo che si instaura con esse. Occorre rivolgere attenzione a queste immagini, perchè dietro c’è sempre una storia, meno palese di quella conosciuta, più ricca di informazioni della diagnosi clinica: esse parlano il linguaggio dell’anima. È nella duplice funzione percettiva ed espressiva di queste opere che possiamo ritrovare le tracce del percorso creativo che, partendo dalla gestualità, trasferisce sulla carta l’esperienza del movimento, la padronanza del linguaggio, e reinventa sempre le stesse configurazioni: il cerchio primordiale, i diagrammi, gli aggregati, i mandala, le figure umane.

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Jean Dubuffet Jean Fautrier Copertina de ‘L’Art Brut’ (Jean Dubuffet)


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Antoni Tàpies Asger Jorn Alberto Burri

Attraverso il gesto, che lascia traccia, si produce la testimonianza di una visione ‘altra’, il punto di incontro di una condizione perduta e irripetibile. Il filosofo Agamben ne dà questa esauriente definizione: «Gesto è il nome di questo punto di incrocio della vita e dell’arte, dell’atto e della potenza, del generale e del particolare, del testo e dell’esecuzione. Esso è un pezzo di vita sottratta al contesto della biografia individuale e un pezzo di arte sottratta alla neutralità dell’estetica: prassi pura. Né valore d’uso né valore di scambio, né esperienza biografica, né evento impersonale, il gesto è il rovescio della merce, che lascia precipitare nella situazione i ‘cristalli di questa comune sostanza sociale’». Il valore performativo di questi lavori risiede proprio nel vedere, attraverso di essi e in trasparenza, il corpo come matrice di segno, materia espressiva, ‘ricettacolo dell’anima’: l’origine della pittura e dell'azione, esso stesso materiale, strumento linguistico, mezzo per la produzione artistica. Questa valenza, che trascende il dato individuale per produrre un linguaggio archetipico, è il terreno

ottimale per costruire, attraverso il gesto - e il segno che il gesto produce- la dimensione ontologica dell'esperienza, come imprescindibile condizione di possibilità di ogni esistenza: sia essa ‘normale’ o ‘anormale’. Così queste opere non sono più da considerare oggetti esterni, che si guardano dal di fuori, da rappresentare ed interpretare, non più un semplice dato della realtà da narrare o riprodurre, ma campo privilegiato di indagine per l’approfondimento del problema della costruzione della soggettività. Sono Cronache dall’incompiuto proprio perché incompiuta è la possibilità di affermazione da parte dei ragazzi attraverso la continuità del loro lavoro, rispetto alla compiutezza dell’artista dotato della possibilità di sviluppare la propria ricerca e di estenderla nel mondo delle relazioni possibili. Incompiuta non è l’elaborazione dell’archetipo da parte del ragazzo che dipinge o elabora un manufatto ma incompiuto è il riconoscimento e la consapevolezza ‘ufficiale’ che dal mondo degli archetipi emergono delle immagini universali, a disposizione di chiunque sia interessato a coglierle.

Incompiuta è quindi da parte nostra, da parte della nostra ‘normalità’, la presa di coscienza e la sensazione di meraviglia per l’esistenza di questo mondo, le cui cronache sono generalmente delegate e riconosciute solo all’ufficialità dell’arte; per comprenderlo è necessario mettere tra parentesi ogni aspetto della vita che noi diamo per consolidato e rimanere ricettivi alla meraviglia. Di fronte all'immagine, credo sia necessario mantenere il più possibile aperto il campo d’osservazione, rispettando il linguaggio visivo delle forme e dei colori visti nella loro prospettiva fenomenologica, per saper quindi sospendere il giudizio. L’immagine prodotta deve essere protetta da inopportune incursioni interpretative; non deve pretendere di ‘normalizzare’ l’arte, né di fare dell’oggetto estetico prodotto nel lavoro terapeutico una sorta di arte minore, chiusa nei confini della psicopatologia. Kandinski diceva: «Un quadro è ben disegnato se vive con la piena vita interiore... l’artista è e deve lavorare con le forme, nel modo in cui gli è necessario per i suoi obiettivi. Chiunque sia, oltre la salute mentale, è libero di scegliere


tali forme, può inventarne di nuove, conosciute solo da lui. Solo le vibrazioni spirituali del pubblico gli diranno se è vera arte o no». Lo dimostrano alcune tematiche presenti nelle opere esposte - come la frammentazione dell’Io, il senso di spaesamento e di estraneità dal mondo - che si traducono, all’interno della rappresentazione figurativa del corpo umano, nella deformazione del soggetto, fagocitato dal corpo o annullato nella materia, negazione/affermazione dell’identità. Le grandi figure verticali, totemiche e fortemente espressionistiche, premono per uscire dal formato, avanzano verso lo spettatore, danzano quasi minacciose. Lo vediamo concretamente, nell’arte contemporanea, anche in artisti come Arnulf Rainer - esponente dell’Azionismo viennese con Nitsch, Muehl, Brus e Schwarzkogler - nei lavori del quale la figura assume su di sé la ferita della carne, andando al di là della finzione e della rappresentazione artistica per agire sulla realtà stessa, sul corpo stesso. Di diverso indirizzo appaiono i lavori dove la percezione frantumata, frammentaria, della realtà produce invece un segno polverizzato, che

rimanda ad una dimensione onirica, pulsionale della memoria - quasi psichedelica - tesa alla ricostruzione di una mappa identitaria e di ‘ri-conoscimento’ dell’ambiente, oppure alla destrutturazione dello spazio e, quindi, del tempo. Questo operare richiama le tecniche dell’Action painting (Pittura d’azione), a volte chiamata astrazione gestuale, uno stile di pittura nella quale il colore viene fatto sgocciolare spontaneamente, lanciato o macchiato sulle tele, spesso ‘danzandoci’ intorno o facendolo semplicemente cadere, lasciando che si esprima la parte inconscia dell’artista. Il pittore Jackson Pollok, esponente di spicco di questa tendenza nata tra gli anni ‘40 e ‘50, dipingeva facendo colare dall’alto vernici e colori su supporti di grandi dimensioni, creando textures molto particolari. Era l’attività spontanea ad essere considerata l’‘azione del dipingere’. Le brillanti esaltazioni cromatiche di alcuni lavori linoleografici in mostra, peraltro eseguiti con perizia e senso della composizione, comunicano il senso di vuoto e di solitudine, evidente nelle ‘ferite’ inferte alla materia, simbolicamente aggre-

dita. Non a caso questa tecnica, e altre tecniche similari, furono rivalutate nel XX secolo dagli espressionisti del Künstlergruppe Brücke e da Edward Munch. La stessa materia regredisce, in alcuni lavori qui presentati, fino a una turbolenza originaria che rappresenta la tangibile problematicità di una cosmogonia umana: materia che è al contempo corpo e anima, tessuto umano e sentimento d’essere, materia che diventa corpo, tessuto organico in senso stretto. Possono essere considerate forme espressive con le stesse modalità che caratterizzano le ricerche del nostro Pinot Gallizio, pittore-alchimista-situazionista, o del Gruppo Cobra - acrostico dai nomi delle città di Copenhagen, Bruxelles, Amsterdam dalle quali provenivano gli artisti (Corneille, Appel, Alechinsky, Jorn) che nel 1949 si fusero in gruppo a Parigi che perseguivano uno stile violentemente espressionista, di forte gestualità e impatto materico autosignificante. Il gruppo concepiva l’arte come una manifestazione che si pone prima della lingua e prima della tecnica. Anche questa estrema libertà espressiva, mediata da una eviden-

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Jackson Pollock Jackson Pollock al lavoro Arnulf Rainer Arnulf Rainer


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Georg Kern (Baselitz) Jean-Michel Basquiat Oreste Fernando Nannetti Wurmkos

te attenzione al mondo della comunicazione, spesso si esprime con un linguaggio nativo, selvaggio, generando nuove calligrafie pittoriche. L’opera diventa così un diagramma di segni-scritture, di graffi di rabbia che parlano di un difficile rapporto col mondo esterno. Del resto in tutti i graffitisti c’è l'incontenibile bisogno di comunicare le proprie angosce invadendo gli spazi pubblici, come in Keith Haring e Jean-Michel Basquiat, o nell’esperienza del gruppo Wurmkos, un progetto la cui peculiarità consiste nell’aver creato un’opera d’arte permanente in uno spazio inusuale: una comunità psichiatrica in cui vivono anche alcuni degli autori, un gruppo aperto di artisti, disagiati e non, che lavora dal 1987. Questa è una delle (poche) esperienze italiane che riproducono solo in parte quanto avviene in molti paesi europei. Già lo stesso Basaglia si era occupato attivamente della prospettiva critica della ‘psicopatologia dell’espressione’, prefigurando una lettura terapeutica della produzione artistica. Ancora oggi l’arte terapia, rimasta di fatto estranea alla nostra tradizione, nel nostro paese è una disciplina in via di formazio-

ne e resta una pratica, nel bene e nel male, priva di una definizione tecnica e teorica. L’Ospedale Fatebenefratelli di San Colombano, il San Giacomo di Verona, l’atelier La Tinaia - un centro nato all’interno dell’Ospedale psichiatrico fiorentino di San Salvi l’Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli all’Ospedale psichiatrico di Genova Quarto, sono tra le realtà che si propongono, o si sono proposte, come esempi di comunità terapeutiche in cui l’arte è praticata liberamente e quotidianamente. Alcune di queste esperienze hanno visto crescere, al proprio interno, un numero rilevante di pazienti di grande statura artistica, le cui opere sono state accolte in musei e istituzioni internazionali, a partire proprio dalla Collection de l’Art Brut di Losanna. Al di là delle loro diverse forme, i lavori qui presentati recuperano e testimoniano l’umanità della relazione che deve intercorrere tra l’individuo e le forme di espressione artistica. Quando la malattia separa l’uomo dall’universo, dalla natura, dal corpo, la pratica delle arti aiuta a riallacciare tale rapporto. Questo vale tanto per il malato co-

me per l’artista terapeuta. Non si possono far condividere a lungo i benefici dell’arte senza riceverli in prima persona, senza praticarli, se no l’arte diventa una semplice tecnica e non una nuova fonte di vita. In un saggio su Oreste Fernando Nannetti, che ha impresso la sua straordinaria carica artistica ai muri dell’Ospedale psichiatrico di Volterra, si legge: «quando un’opera è così piena di significato e ascende alla dimensione dell’arte, non c’è più bisogno di critici, basta essere uomini e guardare».


Il gesto che racconta

Questi lavori sono il frutto del percorso dell’attività di un laboratorio sperimentale avviato nel 2002 nell’ambito delle attività psico-riabilitative svolte presso il Centro Diurno ANFFAS di Gaglianico. Il laboratorio artistico ha accolto al suo interno persone non precedentemente ‘contaminate’ da metodologie classiche generalmente utilizzate in ambito educativo-terapeutico ed è stato condotto con l’obbiettivo di sviluppare il linguaggio individuale e di gruppo. Ciascuno si è raccontato ed ha scoltato parti di sé attraverso il racconto degli altri, ha intrecciato la propria storia con la storia altrui, ha tessuto il percorso di un viaggio emozionante lasciando tracce visibili e condivisibili. Si è realizzato, così, quello che universalmente è definibile come espressione artistica, al di là della produzione generalizzata e dell’omologazione che viene più facilmente riconosciuta come ‘compiuta’. Sono state utilizzate tecniche di diverso tipo al fine di stimolare le parti più profonde dell’io, attivare le emozioni e ripercorrere le storie di ognuno. La traduzione del segno è l’equivalente di un bisogno personale di

esprimere e raccontare l’esperienza con un linguaggio privo di condizionamenti, carico di forza espressiva e di suggestione, riportando indietro nel tempo, sino a quei primordi in cui l'immagine iniziava a farsi simbolo e archetipo. I dipinti, nella loro simbologia, evidenziano quegli elementi linguistici che sono propri della prima infanzia. La loro definizione, fatta di gesto e segno, trascende la propria individualità e traduce il sentire in una universalità riconoscibile. Il colore, nella sua spontaneità e naturalezza, comunica al di là della forma, una autentica espressione del proprio mondo interiore: emozioni e sentimenti si integrano con la corporeità e il pensiero. L’informalità comunica il bisogno individuale di scaricare tensioni, rabbia e dolore, mettendo anche in luce tendenze e possibilità positive nascoste o troppo poco manifeste, dimostrando inoltre la capacità di esprimere le reazioni intellettuali ed emotive all'ambiente. L’originalità di questi lavori è il prodotto dello sforzo di quelli che, comunicando il proprio pensiero e sentimento, sono arrivati a tradurre i propri pensieri e sentimenti, inserendoli nella propria esperienza di

vita. Il valore di questi dipinti va visto nella specifica funzione che ha avuto l’atto esecutivo; ciascuno attraverso il disegno e il colore è riuscito a manifestare la propria personalità, liberandosi dalle inibizioni e dalle frustrazioni ambientali, esprimendo le ansie e le preoccupazioni che, se non liberate, rischiano di sedimentarsi nel fondo della coscienza. 15

Cristina Magnani psicologa Francesco Orrù conduttore del laboratorio


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Operatori responsabili del laboratorio: Francesco Orr첫, pittore Luisella Baroni, assistente



Francesco Tasca Autoritratto pastello a cera, cm 46x60 a lato: Giovanni Vigato Natura morta disegno, cm 30x45


opere


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Paolo Acotto Paesaggio tempera, cm 35x50


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Chiara Riconda Ingresso nel verde tempera, cm 50x70


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Jean Claude Sella Chiesa linoleografia, cm 20x30 Francesco Tasca Tracce linoleografia, cm 20x30


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Franccsco Tasca Casa linoleografia, cm 20x30 Giovanni Vigato Nuvola linoleografia, cm 20x30 Renzo Alberelli Ritratto linoleografia, cm 20x30


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Giuseppe Avola Atelier linoleografia, cm 30x20 Saverio Rodi Figura maschile linoleografia, cm 20x30


Giuseppe Abate Prato fiorito linoleografia, cm 30x20 Cesarina Aggio Fiori linoleografia, cm 20x30 Alessandro Rondo Primavera linoleografia, cm 20x30


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Marco Bonadeo e Giuseppe Avola Femminile+maschile tecnica mista, ognuno cm 100x200


Paolo Acotto Blu tempera, cm 22x14 Alberto Bordin Alberto Coppa Paolo Massazza A pi첫 mani collage, cm 20x14 Marco Bonadeo Colore tempera, cm 23x17

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Maurizio Squizzato Senza titolo tempera, cm 150x220


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Saverio Rodi Autoritratto tempera, cm 100x70


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Saverio Rodi Figura femminile tempera, cm 100x70 Marco Bonadeo Verde su giallo tempera, cm 100x70


Antonella Crolla Case (porte con lingue) tempera, cm 145x180 Giovanni Vigato “900” pastelli a cera, cm 46x60 Giuseppe Avola L’accogliente disegno cm 20x30


Associazione Anffas Biellese Onlus Associazione ANFFAS Biellese via Cavour, 104 13894 Gaglianico (BI) Tel. 015/2493064 Fax 015/2496870 info@anffas.bi.it Cooperativa Sociale Integrazione Biellese a marchio ANFFAS via Cavour, 104 13894 Gaglianico (BI) Tel. 015/2493064 Fax 015/2496870 segreteria@anffas.bi.it

progetto grafico Harta Design foto Maurizio Tonelli stampa Arte della Stampa novembre 2005


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