Trattatello sull’opera pittorica di Alfonso Fratteggiani Bianchi di Mauro Abba
0. (breve premessa) Nel seguito trovano spazio alcune deliberatamente frammentarie e aforistiche riflessioni sull’opera pittorica di Alfonso Fratteggiani Bianchi. Che una linea logica e potente attraversi in modo coerentissimo tutta l’esistenza di Alfonso Fratteggiani è cose nota e densa di senso non solo per chi, da qualche tempo, ha avuto fortuna e piacere di avere diretto accesso alla sua conoscenza e così modo di scambiare opinioni sull’arte e insieme definire traiettorie esistenziali. Se letta e studiata con attenzione, questa linea coerente e logica nell’operare dell’artista traccia e nel suo corso semina percorsi di “accesso” a un pensiero pittorico e a una riflessione sull’arte (in generale) che abbraccia tutto il nostro tempo. Ciò che viene qui esposto si fonda su un presupposto (inizialmente) intuitivo cui si è voluto dare seguito teorico e di riflessione: da un lato ossia che la pittura monocroma rappresenti un tramonto coerente e definitivo nell’arte (non soltanto) pittorica dell’Occidente, e dall’altro ne inauguri un nuovo ‘rinascimento’, a partire dal quale le future generazioni dovranno seguitare a pensare e da qui fondare il proprio rapporto con l’arte che verrà.
1. rappresentazione – figura (1) In principio di ogni nuova fase del pensiero (o fase culturale) si pone una immagine informe e scontornata, suggestiva e al contempo perentoria, quasi lo spettro radiale e luminescente di una immagine. Tuttavia non ancora figura. Essa è anticipazione, che contiene tutto ciò che accadrà, e quindi salto in avanti rispetto a ciò che è. Essa è presenza, poiché riesce a restare sospesa in attesa di divenire in qualche modo essa stessa figura. Ed è poi figura; quando la funzione attiva dell’immagine informe e scontornata si manifesta sincronicamente, anche in campi diversi, rivelando una sua genesi nella forma (presente oppure senza tempo).
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E’ questa stessa figura che prescrive alla scienza e alle arti il destino del loro cammino (futuro). Poiché attraverso di essa la scienza e le arti ritrovano di volta in volta la collimazione tra mondo dell’esperienza e immagine intuitiva del mondo. La figura r a p p r e s e n t a l’incontro tra esperienze fondate e ciò che è anteriore a qualsiasi esperienza. Se una linea si può individuare nella serie delle manifestazioni sincroniche (viste anche come unità), l’altra linea (poiché pure di movimento opposto) certo con più difficoltà si può far risalire alla genesi delle sue manifestazioni diacroniche.
2. coincidenza degli opposti (traiettorie 1) (…) per fortuna l’arte non è morta, come affermano certi detrattori, l’arte è più viva che mai, perché l’uomo e sempre vivo. Se fosse morta, l’uomo sarebbe morto.
(G. Panza di Biumo, “La collezione Panza di Biumo al Palazzo Ducale di Gubbio”, in La collezione Panza di Biumo, Artisti degli anni ’80 – ’90, Gubbio, Museo del Palazzo Ducale, 5 dicembre 1998 – 4 dicembre 2003, 1998, p. 50) Una prima linea diacronica viene fatta risalire al …1863, quando Manet dipinse il primo quadro impressionista. Non solo i soggetti, ma la stessa realtà viene vissuta in quest’arte in modo nuovo, trasformato. I contorni cominciano a liberarsi della propria definizione lineare e perdere il proprio ‘a fuoco’. La realtà non è più sentita e percepita in modo univoco, bensì attraverso l’alleggerimento della forma e dei suoi contorni tende a evaporare in altre manifestazioni. Per la prima volta (in Occidente) il colore viene usato da Manet (e da Renoir, Van Gogh, Cezanne, Gaugain) non come quid esornativo, tuttavia per definire la realtà in modo diverso. L’arte di questi artisti, che per primi intravidero la forza della rappresentazione puramente cromatica, è tuttavia legata, ancorata perfino, a una rappresentazione figurale, che vincola la tavolozza in funzione del verisimile. Sarebbe una ricerca molto interessante, perché anche la vita intellettuale ha un andamento ciclico. Certamente stiamo vivendo uno di questi cicli, purtroppo n e g a t i v o , dopo il precedente, caratterizzato da spinte positive e da una visione ottimistica del futuro. Questo periodo negativo è iniziato attorno al 1976 quando sono nate forme d’arte che rifiutavano le conquiste precedenti.
(G. Panza di Biumo, ibid., p 30, sottolineatura dello scrivente)
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3. teorema (afb 1) Alfonso (Fratteggiani) vive in Umbria, che è una terra speciale, e forte, e ricca di bellezza e ricchissima di luce. Abita nel cuore della campagna umbra, circondato da spazi aperti e colline colorate di ogni cromia. D’inverno come d’estate questa terra offre a chi la abita (Alfonso la abita da generazioni) una natura limpida e generosa nel dare (con giusta fatica) i suoi frutti. Alfonso abita un vecchio casolare riattato in modo accogliente e essenziale, fatto di pietre quasi gialle e di cotto umbro quasi rosso. L’ho conosciuto in una mattina di mezzo inverno, quando verso la sua conoscenza mi spingeva la musica del tedesco Bernd Alois Zimmermann. Di questo compositore unico e problematico, come di molti altri, Alfonso è ottimo conoscitore e ottimo interprete. Mi accorsi già in quella nostra prima conoscenza di essere in presenza di uno spirito libero, di un autentico creatore. Egli riusciva a interpretare il pensiero musicale del compositore tedesco con la stessa limpidezza in cui riusciva a muoversi nella pittura informale, nella storia del pensiero filosofico, o nella definzione della preparazione di un buon vitigno d’uva da vino. Il mio ricordo va a un momento di quella prima mattina, quando Alfonso prese in mano un disegno eseguito da una bambina di sei sette anni e che ritraeva un bel sole con alberi e casa fatto a pennerello su carta usomano. Lo portò alla mia attenzione e alzandolo lo pose vicino a un piccolo quadro azzurro che stava appeso alla perete (e che più tardi scoprivo essere opera dell’artista americano Phil Sims). Disse soltanto: sono due cose diverse. Nel quadro di questa bamina è il modo tradizionale, quello utilizzato per due millenni e più. Questo quadro (indicando il Sims) è una altra cosa, una altra rappresentazione, che parte da una configurazione differente dal reale. Una altra occorrenza, che conduce a un altro risultato. Grossomodo queste le parole, il lessico impiegato (l’intronazione manca allo scritto). Mi piace far nascere la sua arte (ossia i riverberi della sua arte dentro di me, ed è ciò che qui importa) in quell’atto, in quella “dimostrazione”, in quella sorta di teorema pure esatto e assiomaticamente completo. Nell’aver posto insomma davanti ai miei occhi la ‘buona novella’ di una arte diversa, di una diversa ‘configurazione’ del reale, interamente sua e propriamente già colma di (infiniti) sviluppi; come se tutto già allora, in quella strana premessa, che per me da allora in poi avrà valenza di un teorema, fosse già contenuto.
4. suono interiore (traiettorie 2) Quanto alla libertà, essa si esprime anche nell’aspirazione a liberarsi dalle forme che hanno già materializzato il loro fine, ossia dalle vecchie forme, nell’aspirazione a creare forme nuove e infinitamente varie.
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(W. Kandinsky, “Il problema delle forme”, in W. Kandinsky, F. Marc, Il Cavaliere Azzurro, SE, Milano, 1998, p. 131) Una seconda linea diacronica viene fatta risalire al 1910: Kandinsky (prima, Mondrian dopo) emancipò la rappresentazione dalla realtà: tolse all’arte la realtà, e così liberò la strada a un nuovo tipo di rappresentazione. Un acquerello Ohne Titel (Senza titolo, oggi al Pompidou di Parigi) di quell’anno testimonia di questo primo “passaggio”. Come per Kandinsky anche per Schönberg e la sua musica vale il medesimo discorso; entrambe in luoghi diversi portarono la stessa ricerca, che videro con occhi simili e analogo sentire. Il ‘suono interiore’ (W. Kandinsky, ibid.), invero potente sinestesia, sia per il pittore che per il musicista, è l’immagine informe e scontornata della nuova realtà che vibra già in tutte le cose. Che ciclicamente parte e ritorna, tra i poli della grande astrazione del grande realismo, elemento artistico e elemento oggettivo. Nel ‘suono interiore’ è la figura astratta che diviene materia, ‘risonanza interiore’, ‘vita’ (W. Kandinsky, ibid., p. 135, e passim., corsivo dello scrivente). L’incremento esteriore di un mezzo espressivo conduce, in determinate circostanze, alla diminuzione della sua forza interiore.
(W. Kandinsky, ibid.) Quanto più è libero l’elemento astratto della forma, tanto più pura, quindi più primitiva, ne è la risonanza.
(W. Kandinsky, “Segni con accompagnamento”, (1927), in R. De Fusco, Storia dell’arte contemporanea, Laterza, Bari, 20032, p. 49, corsivo dell’autore)
5. pars pro toto (afb 2) Un prezioso spunto di riflessione fu per me il paragone che Alfonso fece tra il pensiero musicale di (John) Cage e il pensiero musicale di (B.A.) Zimmermann Cage giunse a sentire la bellezza (anche) nell’atto di nasconderla (hidden the beauty); fondò percorsi di senso chiamando il caso nello stesso modo in cui per secoli si chiamò l’ispirazione. B.A. Zimmermann fondò percorsi di senso partendo dalla negazione di una differenza tra materiale e spirito (tra tecnica e ispirazione). Entrambe tuttavia fondarono la loro (nuova) realtà mediante differenti occorrenze di tempo. Spostando il tempo, vivendo un tempo a densità non più omogenea, sempre presente e
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sempre attuale. Entrambe vissero, ciascuno a proprio modo, il paradosso di una simile definizione di realtà… Zimmermann (ponendo) “in esclusione la profonda antinomia della musica in un suo ordine imbrigliato e contemporaneamente sciolto; bellezza e morte affratellati l’una con l’altra nell’unico secondo di eternità, che ha luogo nel calmo e silenzioso centro del ciclone”. (B.A.Zimmermnn, “Mozart und das Alibi“, in Intervall und Zeit. Aufsätze und Schriften zum Werk, B. Schott’s Söhne, Mainz, 1974, p. 16; trad. dello scrivente) Cage inserendo un quinto parametro ai quattro tradizionali: l’occorrenza; il tempo dell’evento (sonoro), determinato e posto nell’arco delle possibilità spazio-temporali. Entrambe si servirono del calcolo (la scienza) per sviluppare il proprio paradosso, e rendendoerlo reale. Alfonso ripete spesso che in un’opera riuscita, si riesce a ridurre la “pars pro toto”. Egli si riferisce a questa medesima questione. Zimmerann da un lato, Cage dall’altro. Anche per Alfonso il pensiero sempre si ribalta dialetticamente nel suo contrario, rendendo impossibile (come per Cage) una qualsivoglia definizione. E’ possibile solo fornire soluzioni diversificate e non ripetibili, in una ricerca di liberazione morale da ogni tipologia di schema precostituito.
6. veronese limone (traiettorie 3 – colore 1) Il cespuglio è verde, un po’ color bronzo e variegato. L’erba è molto, molto verde, un veronese limone, il cielo è molto, molto blu. La fila dei cespugli del fondo è tutta oleandri, pazzi furiosi, le benedette piante fioriscono in modo che potrebbero buscarsi un’atassia locomotrice. Sono cariche di fiori freschi e di mucchi di fiori appassiti, e anche il verde si rinnova di vigorosi germogli, in apparenza inesauribili. Un funebre cipresso, nerissimo, si drizza su tutto e alcune figurine colorate vagano su un sentiero rosa. Il tutto è gemello di un’altra tela da 30 dello stesso luogo, visto però da un punto in cui tutto il giardino è colorato di verdi molto diversi sotto un cielo giallo limone pallido.
(V. van Gogh, da una Lettera a Theo da Arles, settembre 1988, n.541, cit. in A. Artaud, Van Gogh il suicidato della società, Adelphi, Milano, 1998, p. 166) Un breve passo: il pensiero pittorico dello scrivente è definito, in pochi tratti, dal modo di vedere e sentire il colore nella configurazione del paesaggio. La descrizione degli oggetti, che è già vero e proprio quadro, fissato nel momento del suo farsi tela, si realizza nella (per la) gradazione cromatica; nel momento esatto in cui viene nominato il cromatismo della cosa, essa diviene reale e si fa concetto. Il cespuglio, l’erba, il cielo, il cipresso, il sentiero, e poi il giardino e di nuovo un altro cielo. Per l’artista non esiste un cielo, ma tanti quanti sono le gradazioni cromatiche che lo definiscono giorno dopo giorno. Il cielo è il colore del cielo.
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Il colore è una componente fondamentale della nostra vita abituale. Se abitiamo in una grande città del Nord, dove i lunghi inverni sono completamente coperti da una compatta coltre di nubi grigie che ci impedisce di vedere il cielo blu e lo splendore del sole, sentiamo una forte mancanza del colore. Quando lo possiamo vedere con la luce limpida, il nostro animo si rasserena, risveglia in noi il piacere di vivere, nasce il desiderio di luoghi lontani dove il cielo è sempre blu in tutte le direzioni dell’orizzonte. Poche emozioni sono così grandi come vedere, dopo un lungo viaggio in un clima di grigia nebbia, all’improvviso, l’immensa distesa blu del mare.
(G. Panza di Biumo, “Il colore”, in Monocromi, San Fedele Arte, Milano, 2001, s.n.d.p. (3))
7. pensiero [creativo]- (tempo 1) Nell’affrontare l’opera di un autore, prima di accedere direttamente alle singole creazioni/creature, è necessario afferrarne il pensiero [creativo]. Definirne (o avvicinarsi il più possibile a farlo) cioè le traiettorie di creatività: le esperienze formative, e il meccanismo di produzione [creativa]. Tale pensiero [creativo] è il risultato di queste componenti essenziali, evidenziate nel divenire progressivo, e nel farsi presenza in ogni singolo atto. Ciò si definisce gesto (si veda per questo più sotto) [creativo], in ultima istanza. Così il pensiero [creativo] è ‘visione del mondo’, da visione a rappresentazione, da rappresentazione a creazione, parimenti manifestazione del suo risultato. Che nell’arte sono momenti di un tutto unico, suprema pars pro toto, con prima e dopo di continuo capovolti. Pensiero [musicale], pensiero [pittorico], pensiero [politico]; aggettivazioni/ridefinizioni di una sostanza creativa, di volta in volta sono le manifestazioni particolari di quello stesso pensiero. tutto quello che la tua mano sarà capace di fare fallo finchè ne hai forza
(Qohélet, IX, 10) Accanto al pensiero convive in arte solo ciò che è fatto. Ciò che è arte, in ultima istanza, è reale e così nel reale esiste, si determina. L’opera diviene sforzo, intimo [lavoro], la cui forza fattiva giunge spesso dalle più profonde pozze dell’essere. L’immagine del pensiero (in questa sede) è (forse) una pellicola, una lunga-breve sequenza, continuamente riavvolta su se stessa, in una sequenza atemporale, dove ogni frammento è (naturaliter) parte del tutto. L’ordinamento dei frammenti è filosofia, estetica, teoria (dall’etimo perfino tautologico all’attuale contesto). La visione del pensiero creativo è quindi critica. E la critica non può staccarsi dal proprio oggetto/contesto.
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Ma anch’essa, come l’opera di cui tratta, è figlia del suo tempo, in senso inattuale che lavora cioè “contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo” (F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, II, prefazione, ed it. Adelphi, Milano, 1967, p. 261) Speriamolo.
8. miracoli La poesia è però poesia solo se uno udendola, da essa subito si senta colpito dentro, senza immaginare ancora di potersela spiegare, o non ancora indotto a doversi confessare di non potere mai essere in grado di valutarne le manifestazioni, miracoli.
(G. Ungaretti, “Discorso del traduttore”, in W. Blake, Il matrimonio del cielo e dell’inferno, SE, Milano, 1994, p. 58) Nell’atto ultimo, della fruizione diretta e consapevole dell’opera viene difficile scostarsi da questa visione, del resto adamantina, difficilmente confutabile. Essa è critica, teoria. Prova del valore di una opera: esserne colpiti, senza spiegazione, in un caleidoscopio di manifestazioni. Miracoli. Che viene da chiedersi come furono concepiti. Di che sostanza sono frutto, che passione li anima, che storia raccontano, e che benefici possono recare a ciasuna coscienza. Il miracolo ha valore paradigmatico, perché simbolo di una realtà senza dubbio superiore, cui si tende come fa la fiamma: verso l’alto. Immateriale frutto dello spirito: è la memoria. La memoria è così il tempo su cui sedimenta il miracolo. E tempo e miracolo sono la stessa cosa. L’opera lo dimostra. Lo dimostra come epoché, sospensione, del tempo. Frattura grande. Che apre altri percorsi di continuità. Senza ditaccarsi dalla sua sostanza. Alfonso Fratteggiani è artista di questo miracolo. Continuamente la sua opera spalanca gli estremi opposti, e fa coesistere i contrari. Confuta, con Schöengerg, l’idea che la via di mezzo sia l’unica che possa portare a Roma. E la trattazione dell’arte filosofica e citica che qui si tenta riguarda proprio questo (il [miracolo]), e non i concetti di stile, per quanto con essi poi possa venire in contatto. Esprime il miracolo della connessione intrinseca dell’immagine creativa.
9. generazione (1) e linguaggio Alfonso Fratteggiani non si è subito definito come pittore. Sappiamo che ha a lungo mosso i suoi passi nella musica e nell’organizzazione di eventi artisitici e musicali, con il medesimo impulso creatore che segna oggi l’opera pittorica (vedi n.13).
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Egli non è l’unico artista ad aver mostrato tale attrazione intermittente verso altri universi del creare. Nell’essere umano vi è qualcosa che lo spinge a (ri)cercare; qualcuno che all’inzio voleva diventare musicista ha poi scelto la letteratura, la poesia, o la pittura. E siano musicisti, pittori o poeti, alcuni artisiti arrivano a definirsi in fasi varie e in apparenza dispersive. D’altro canto qualcuno sa già giovanissimo cosa intende fare e magari si brucia presto; un altro aspetta la maturità per realizzare le prime opere e continua a lavorare fino a tarda età. Ma la longevità di una carriera non dipende affatto dal momento in cui è iniziata. La carriera di un artista dipende unicamente dal tempo in cui si realizza, e tale problmatica va pertanto posta in termini di generazione, piuttosto che di precocità o tardività. Fratteggiani si potrebbe definire, in questo contesto, il più giovane della generazione dei pittori monocromatici: una definizione la cui portata travalica di molto il suo stesso significato letterale. Dobbiamo chiederci: che cosa ha trovato Fratteggiani nelle discipline che ha toccato negli anni della sua “formazione” e negli argomenti trattati nelle pubblicazioni da lui curatei? Che cosa ha egli inteso nei fenomeni artistici di cui si fece in un certo modo “propulsore”, e parimenti “propugnatore” attraverso i suoi eventi? Tale domanda riamanda al problema stesso del linguaggio. Quando si è coinvolti da vicino in una tecnica e nel suo linguaggio, ci si comporta da specialisti, e parimenti si diviene incapaci di cogliere alcuni degli schemi e dei nessi concettuali più generali e, se in ciò si riesce, spesso lo si definisce in termini molto specifici e vieppiù tecnici e complessi. Un musicista, ad esempio, che cerca di fornire una spiegazione di un fenomeno musicale, la fornirà in termini musicali: tale spiegazione risulterà incomprensibile all’ascoltatore che non sia a fondo familiarizzato con tale proprio linguaggio. Così, tutti i linguaggi tecnici possono produrre il medesimo scarto, la medesima incomprensione di fondo, e ampiamente ciascuno può soggettivamente farne esperienza continua nel proprio vissuto quotidiano (si pensi ancora al progressivo tecnicismo di matrice anglofila introdotto nel linguaggio dal medium informatico). Nel caso di Alfonso Fratteggiani nulla di tutto questo. Egli non usa un vocabolario specialistico nel definire della propria arte. Tantomeno negli interventi scritti (invero non molti). Il linguaggio di cui egli si serve è un linguaggio corrente, i suoi esempi sono generali e semplici, tanto che è possibile ricavarne una lezione applicabile a qualunque altra disciplina e qualsivoglia tecnica. Per questa via emerge una delle chiavi (punto cardanico) del suo pensiero [pittorico]: la semplificazione.
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In ogni suo gesto (si veda più sotto), in ogni sua traiettoria, egli pare dire: quale segreto va rivelato, dove segreto non ve ne è alcuno? Nel tecnicismo progressivo dei linguaggi è connaturata la “furia del dileguare” (die Furie der Verschwindens, per usare una espressione di Hegel mutuata da Adorno), che consegna il dato del vero nelle mani dell’anarchia del pensiero (così cara alle tendenze dell’arte di maggior consumo). Nel tecnicismo si nasconde la confusione di ciò che non è saldamente raggiunto, la cui capacità espressiva ancora difetta di sé; quasi una tendenza sociale generale propria dell’industria culturale (Adorno…) A tale tecnicismo linguistico corrisponde la volontà di una riduzione della capacità percettiva, resa ottusa, volta a rendere impossibile la concentrazione di una visione responsabile. Fratteggiani, nella sua idea (che è sempre rappresentazione) di semplificazione insegna a ridurre gli elementi di qualsiasi linguaggio al loro principio essenziale, ossia a coglierne innanzitutto il principio regolatore, e quindi a saperlo ridurre in altri contesti a principi estremamente semplici. Parimenti insegna la forza della deduzione: ossia trarre, partendo da un unico soggetto, corollari multipli, multiformi, proteicamente cangianti.
10. colore (2) E’ evidente come ogni colore eserciti una differente sensazione. Il verde è il colore della vegetazione e quindi è la vita; il rosso è il sangue, è la vita dentro di noi; il nero è la notte, quindi il nulla e la morte. Dentro queste sensazioni esiste una molteplcià di intuizioni che l’artista rende visibili con l’uso di varianti cromatiche che si accumulano con altre possibilità offerte dalle diverse qualità della superficie.
(G. Panza di Biumo, Gli anni 80 e 90 della collezione, Museo Cantonale di Arte del Canton Ticino, Lugano aprile-luglio 1992, U. Alemanni Editore, Torino, 1992, p. 48) I colori fondamentali dell’iride sono pochi, ma dalla loro combinazione si possono ottenere una quantità quasi infinita di soluzioni diverse. L’occhio umano può distinguerne una quantità incredibilimente grande. La nostra vita emotiva è strettamente legata ai sentimenti che ci comunicano. (…) Il colore è fondamentale nella vita dei nostri sentimenti, ciononostante ha avuto un’importanza marginale nell’arte, è sempre stato subordinato alla forma. Era un riempitivo tra le linee vuote del disegno.
(G. Panza di Biumo, Monocromi, op. cit., p. 3) 11. traiettorie (4) Una (ultima, ai fini della nostra aforistica indagine) ulteriore triettoria di pensiero, terza linea diacronica, formativa, liberatoria, necessaria, criticamente decisiva, va rintracciata dopo il 1945.
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L’arte astratta, e il suo affermarsi all’inizo del secolo ha permesso un progressivo avvicinamento a una nuova tematica (come si è detto invero anch’essa sempre presente), abolendo il riferimento alla realtà oculare (dal linguaggio tecnicistico definita ‘retinica’, si veda su questo il dibattito sulla ‘percettibilità dello sguardo’ sulla rivista filosofica aut aut, 319-320, gennaio-aprile 2004, La Nuova Italia, pp. 96-147), liberando la ricerca degli artisti dai limiti imposti dal binomio forma/contenuto (riempitivo, contorno), e aprendo alla loro ricerca la possibilità di usare una infinita quantità di immagini e soprattuto di ridurle a un minimo. Possiamo dire con un certa sicurezza che solo dopo il 1945, la funzione del colore e dei colori liberata dai limiti imposti da forma/contenuto in funzione della relatà oculare di tipo tradizionale è diventata importante. Ciò è avvenuto negli anni Cinquanta del secolo scorso, con lo sviluppo dell’Espressionismo astratto americano. Da allora, alcuni artisti come Rothko, Newmann, Still hanno utilizzato grandi superfici colorate per esprimere la loro visione della vita. Negli anni Sessanta e Settanta la pittura minimalista di Rymann, Marden e Mangold è stato un ulteriore importante sviluppo verso la pittura di un solo colore.
(G. Panza di Biumo, Monocromi, op. cit., p. 4)
12. quaderni 1996, monocromia (1) Una pubblicazione curata da Alfonso Fratteggiani in particolare segna ai nostri occhi la prefigurazione di questo percorso artistico particolare. Si intitola Pittura contemporanea in galleria. Si presentano cinque opere, che progammaticamente… ‘circoscrivono nonostante le loro caratteristiche individuali un tema comune: la monocromia’. (dal saggio di M. Bleyl, in Pittura Contemporanea in Galleria, 25 maggio-28 luglio 1996, Perugia, 1996, p.3) Grazie alla intraprendenza di Alfonso Fratteggiani, e alla collaborazione preziosa di collezionisti e creatori, cinque opere di cinque artisti, Mark Rothko, Adrian Schiess, Phil Sims, Günter Umberg, Ulrich Wellmann, sono esposte dal 25 maggio al 28 luglio 1996 presso la Galleria Nazionale dell’Umbria. La pubblicazione risponde in ogni sua parte alle linee estetiche, di ricerca e di pensiero del curatore: ma un messaggio, forte e rettilineo viene sommessamente espresso. Con gli occhi osservatori di chi oggi conosce questa storia viene da pensare a un nuovo miracolo creativo,
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una lugimirante visione, i cui effetti esplosivi vanno rintracciati come frammenti sparsi nelle varie opere dell’artista, allora organizzatore dell’evento. Basti per ora una prefigurazione tra le molte qui contenute: a pagina 39 della pubblicazione è riportata una ripresa dell’allestimento presso la Galleria Nazionale dell’Umbria. Viene ritratto l’arco che avvolge la nicchia ospitante le cinque opere. La stanza del piano inferiore accoglie alle proprie pareti alcuni frammenti visivi di quadri e tavole di antichi maestri umbri. La ripresa fotografica espone nell’angolo inferiore destro un frammento che a differenza degli altri posti sulle pareti è chiaramente definito. Ritratti sono il capo della Vergine sovrastato da due angeli con le mani giunte. Non sarà necessario recarsi in Galleria per riconoscere la meravigliosa tavola dipinta nel 1496 dal Perugino: Madonna con Bambino tra due angeli e un gruppo di Disciplinati, la codiddetta Madonna della Consolazione. Si osservi la tavola (183 x 139 cm.): il vestito della Vergine è definito da tre campiture cromatiche fondamentali; verde il mantello, rosso la camicia, blu la gonna. L‘incarnato del Bambino si definsice a sua volta dall’incrocio tra queste tre aree cromatiche, ciascuna delle quali è accostata all’altra in modo netto e preciso, contrappuntando le vesti degli angeli della parte superiore.
13. monocromia (2) generazioni (2) I cinque artisti esposti al piano di sopra nell’allestimento voluto da Fratteggiani appartengono a tre diverse generazioni di artisti che si interessano al problema cromatico fornendo differenti e etrogenee soluzioni: la prima, rappresentata da Rothko, è la generazione dei pionieri dell’arte cromatica. L’estrema ricerca di sintesi, raffinata oltremisura, essenziale per definizione, è il primo momento di questa ricerca emancipata dalla rappresentazione oggettiva. La seconda generazione, rappresentata da Sims e Umberg (1940 e 1942), “già ben conosce la monocromia come problematica dell’arte. In termini tanto affermativi e propositivi quanto oppositivi tale gnerazione riesce a riallacciarsi alle conquiste di artisti come Rothko e a svilupparne i principi artistici con un certo qual radicalismo” (M. Bleyl, op. cit., p. 6). Il terzo gruppo, Wellmann e Schiess, più giovani dei precedenti (1952 e 1959) orienta la propria ricerca sul “problema della scelta cromatica” (M. Bleyl, op. cit., p. 7). Tre generazioni raccolte in un evento che prefigura a sua volta una nuova e decisiva soluzione (mono)cromatica, e così la nascita a distanza di qualche tempo di una nuova generazione, che elabora una propria originale soluzione in continuità rispetto alle presenti.
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14. monocromia (3) Il monocromo è importante non per il processo riduttivo a qualcosa di sempre più essenziale o perlomeno non solo per questo, ma perché ha sviluppato la nostra sensibilità a dei valori che la pittura tradizionale trascurava o che le tecniche artistiche non potevano consentire. Il monocromo mette in evidenza l’azione, quella minima, che è in grado di riflettere con fedeltà le situazioni più nascoste della nostra psiche, diventa un legame con quello che pensiamo e sentiamo.
(G. Panza di Biumo, Gli anni 80 e 90 della collezione, op. cit., p. 47) In quest’arte, come in quella astratta, l’effetto sulla psiche dello spettatore è ottenuto abolendo l’elemento narrativo (che è sempre un fattore occasionale ma non essenziale nella grande arte del passato) ed è sostituito con un rapporto diretto con gli elementi che creano una relazione immediata ed intuitiva con il significato che l’artista vuole comunicare.
(G. Panza di Biumo, ibid., p. 50) Per apprezzare quest’arte è necessario sviluppare una maggiore educazione della sensibilità, cosa diversa dall’educazione culturale; si può sapere tutto sull’arte del passato, ma non capire nulla di un’arte che richiede un’educazione della personalità e non soltanto una conoscenza ereditata dalla storia.
(G. Panza di Biumo, ibid., 51) Non farti scultura alcuna, né immagine alcuna di cosa che sia in cielo di sopra, né di cosa che sia di terra di sotto, né di cosa che sia nell’acqua di sotto alla terra.
(Esodo, XX, 3) …arte ‘monocromatica’. Pittura che si concentra sul colore, sulla rappresentazione di un unico colore in tutte le sue accezioni possibili, in una forma connaturata al colore stesso. E’ necessario forse cominciare dal versetto dell’Esodo, per capire che si tratta di una categoria universale, un assoluto primario: non un “movimento artistico”, ma una categoria dello spirito nel senso più ampio.
15. timbro e colore - monocromia (4) La pittura è arte del colore, sopra ogni cosa: elementare constatazione. Le altre componenti, linea, chiaroscuro, prospettiva, tono, timbro, sono derivati di una primordiale sostanza cromatica che può giungere fino a annullarsi nel bianco e nel nero o esaltarsi nello sfavillare degli impasti, nella fissità mistica del fondo oro, o nella furia caotica dell’arte informale.
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Una distinzione tra colore timbrico e colore tonale è stata posta da alcune linee critiche più o meno recenti a fondamento della disciplina pittorica, come a definirne una nuova visione paradigmatica delle moderne correnti artistiche. Questo è corretto da un punto di vista storico, tuttavia non riesce a comprendere le molteplici implicazioni tecnico-estetiche connaturate alla questione comatica. In rapporto soprattuto all’apparente rapido evolversi delle tendenze artisitiche contemporanee. L’arte monocroma non può essere compressa nella bipartizione tonale/timbrico, poiché se da un lato essa assume entrambe le categorie (quasi come proprio postulato), dall’altro le supera nell’atto stesso della propria manifestazione (rappresentazione). La categoria tonale è infatti superata nella elimiazione di qualsiasi accostamento cromatico; la categoria timbrica viene assimilata se mai nella sostanza dell’impasto cromatico, nella propria componente fattiva e di ‘cosa’ commista al dato cromatico impresso sulla superficie pittorica.
16. gesto forma particolare (1) E’ il gesto di dipingere, la fase iniziale dell’opera, l’artista sa cosa deve dire. In questa conoscenza esite già il germe del risultato finale. Una grande personalità la si riconosce da questo gesto. Nel particolare vi è tutto. E’ una osservazione che possiamo fare facilmente entrando in un museo ed esaminando il gesto di Tinziano, Tintoretto, Caravaggio, Rubens, oppure il non gesto di Raffaello, Piero della Francesca, il Perugino, dove esso si dissolve in una nebbia colorata fatta da minime velature. Questa osservazione è importante perché nell’arte monocroma, dove la forma sembra scomparire, in realtà esiste, è poco visibile, ma determinante per percepire il colore e il suo significato.
(G. Panza di Biumo, “La collezione Panza di Biumo al Palazzo Ducale di Gubbio”, op. cit., p. 36) Passo di importanza capitale, questo, ché sintetizza nella formulazione rapsodica (proprio alla maniera d’Omero) tipica del linguaggio critico di Giuseppe Panza i tre elementi sostanziali che segnano l’arte monocroma nel più profondo, e che nel contempo, nella loro reciproca interazione, le fanno vivere oggi uno dei momenti più felici della sua solo apparentemente breve storia nell’arte. Nel gesto infatti è nascosta la profondità dello sguardo, che (come più volte sottilneato in queste pagine) si fa figura e rappresentazione della realtà interiore. Al gesto si lega la visione del mondo che appartiene all’artista come il proprio codice genetico. Il gesto di Alfonso Fratteggiani è un gesto semplificatore, perfino semplice, fatto della poesia della sua terra e nel contempo degli orizzonti nuovi che il suo occhio dischiude. Ancora pochi si sono soffermati a descrivere (e Giuseppe Panza anche in questo rappresenta una mirabile e benefica eccezione) tale gesto: tendenza tipica per una arte che è stata definita correttamente non-dominante, lontana cioè dalle mode e dai chlicheés di tendenza. Esposta in poche rare sale, in gallerie quasi carbonare.
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Nel gesto di Alfonso Fratteggiani sembra essere contenuto un genere sconosciuto di energia, che si manifesta nella purezza del tratto e nella semplice evidenza delle superfici. Tale energia prorompe sinteticamente compatta, capace cioè di riempire con pochi centrimetri di superficie una intera parete di grandi dimensioni. Una gesto che contiene energia capace di concentrarsi nel particolare più recondito (quasi implodere), e nel contempo di esplodere essotericamente nella pura forza del solo colore.
17. pietra materia forma particolare (2) Un elemento necessario per l’arte di Fratteggiani è il supporto che deve avere la caratteristica di trattenere nei suoi alveoli il colore, per non lasciarlo cadere. Anche in questo caso l’Umbria offre un dono speciale non soltanto per la gioia di vedere i colori più belli che la natura ci offre, ma anche il supporto per fare il quadro. I bellissimi palazzi di Firenze e le armoniose chiese progettate dal Brunelleschi, le colonne, i capitelli sono fatti con la pietra serena che è estratta anche in Umbria. Oltre a essere grigio-chiara, è perfettamente omogenea e possiede la proprietà di trattenere il colore nelle sue cavità. Essendo il supporto dei quadri di Fratteggiani di pietra, il suo peso limita la dimensione.
(G. Panza di Biumo, Monocromi, op. cit., p. 6) Molto si è teorizzato, e sempre è necessario farlo, sulla superficie che le ultime generazioni, le più prossime al nostro tempo, utilizzano per trattenere la propria creatività e manifestare la propria creazione. La superficie è da sempre stata non solo semplice accessorio all’arte e alle modalità tecniche atte a realizzare il pensiero creativo. Nell’arte del passato si assiste a una certa uniformità nella scelta del materiale di superficie, che solo nel caso (e non sempre costante) dei grandi maestri, quasi sperimentatori a tutto tondo, diviene via via elemento diversificatore per una particolare tecnica. Nel caso dell’arte nuova tale tendenza si acuisce in direzione di una sempre maggiore cura per la scelta del supporto, così definito non a caso a evidenziare la sua funzione accessoria, fino a divenire tutt’uno con la creazione stessa. Non tutti gli artisti sono ovviamente sensibili a questa tendenza, anche qualora essa sia connaturata alla cosa. Nel caso degli artisti monocromatici, appartenenti alle generazioni più vicine, possiamo evidenziare l’arte di David Simpson, che utilizza una superficie di tela su cui appone una particoalre miscela doi colore acrilico, e i quadridi Phil Sims, che sempre sulla tela utilizza un impasto di colore ad olio vicino al tipo tradizionale. L’arte di Alfonso Fratteggiani rappresenta anche in questo caso un vero e proprio rivolgimento. Nel caso della sua creazione infatti superficie e pigmento sono una sola materia: si potrebbero definire vera e propria endiade, per significare la totale e profonda istanza simbiotica dei due elementi.
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Non solo endiade affermativa, ma anche endiade negativa, a significare in questo modo l’eliminazione materica dell’elemento ‘collante’, vero e proprio cardine dell’arte monocroma dal suo inizio. Tale abolizione si pensava impossibile a darsi. E costituiva un limite non sconfiggibile, invalicabile, posto a delimitare il futuro prossimo di una arte e con esso dei suoi frutti più luminosi. Il collante, la cui funzione mantiene in contatto la sostanza cromatica e la superficie esponente, ha rappresentato per molti secoli una linea di condotta vincolante per gli esiti artistici e così pure, non in ultima istanza, estetici. Si potrebbe dire che Fratteggiani ha scoperto l’uovo di Colombo: ma nessuna profonda e duratura scoperta dell’intelletto ha valore autonomo, e vive solo se posta in realzione con altro. In questo contesto, nella duplice funzione di materia aggregante e superficie esponente, la pietra serena e il pigimento allo stato di pulviscolo consentono all’artista la più ampia libertà creativa, in una sintesi che ha anche in questo contesto il sapore del miracoloso.
18. gesto forma particolare (3) Accanto alla duplice funzione della materia (affermativa e negativa) Alfonso Fratteggiani fa convivere un nuovo tipo di concezione del monocromo, radicalmente nuova: il colore per la prima volta nella storia viene liberato da ogni elemento che ne limita la purezza. Egli utilizza la radice del colore, una sorta di essenza massimale: ossia il pigmento allo stato di pulviscolo. Tale materia rappresenta il vero cuore intimo di ogni sostanza cromatica. Alla base di ogni colore vi è questo pigmento in polvere, che nella prassi dell’industria viene miscelato di volta in volta con le particolari sostanze che ne determinano la natura finale. Nell’uso del pigmento allo stato naturale e così primigenio, vi è una ulteriore elmento di rivoluzione, che rende questa arte carica di una energia particolarissima, che è materia vivente e evidente in ogni suo quadro. Utilizzare poi la sostanza cromatica senza infiltrazioni e senza ulteriori elementi di disturbo e corollari ha radicalmente il sapore della terra d’Umbria: viene perfino alla mente quella opera benedetta dal favore di Dio del poverello d’Assisi, San Francesco, che liberando la fede di ogni elemento accessorio la spinse verso una nuova definizione, in una ricerca di purezza, prima che di povertà. Parimenti nell’arte di Alfonso Fratteggiani la semplificazione di cui si è già detto tra le linee e le traiettorie è nuova nascita, palingenesi dell’arte pittorica, che proprio nel colore, suo elemento essenziale, ha la sua propria funzione dominante. Ritorno alle origini e semplificazione estetica degli elementi costituenti il quadro e l’opera. Endiade radicale di due elementi primigeni e essenziali, pigmento e pietra, antichi quanto lo è il mondo.
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Diviene: gesto pittorico di sintesi che dà origine alla sua propria forma. Stupefacente quanto Alfonso Fratteggiani abbia raggiunto con la sua ricerca: appoggiandosi a questa in apparenza semplice intuizione dell’intelletto, ha dato origine a una sorta di fortunato incontro di sostanze in una fusione alchemica. Non solo: l’endiade connaturata diviene forma perfetta nella sola manifestazione dei suoi contorni. Che sono soltanto linee ideali dell’intelletto, fatte per arginare e originare nel contempo l’energia del gesto. E’ sufficiente avvicinarsi alla superficie della tavola di pietra, e osservare la sostanza cromatica a contatto con la pietra. Apparirà la semplice visione di un mondo di relazioni minimali, dove ogni frammento appartiene al disegno complessivo, come ogni particella si aggrappa alla vicina per appoggiarsi e vivere rimanendo. Nel particolare minimo esiste già tutta la personalità dell’artista, esiste tutto il quadro, ciò che per Raffaello era un fatto inconscio in quest’arte diventa elemento fondamentale, rendendoci consapevoli di un potere intellettuale prima sconosciuto.
(Panza, “La collezione Panza di Biumo al Palazzo Ducale di Gubbio”, op. cit., p. 47)
19. prossima generazione Con la sintesi che qui si è tentata, abbiamo dato origine a numerosi percorsi frammentari, deliberatamente lasciati ‘aperti’ alla futura riflessione/ricezione, (anch’essi) scolpiti nella pietra lasciata grezza, non levigata, qui e là liberamente abbozzata. In sintesi abbiamo cercato di dare fondamento a una riflessione inizialmente intuitiva, alla cui radice sta innanzitutto un particolare e autonomo percorso di conoscenza Innanzitutto nella ferma consapevolezza che… nell’arte non abbiamo a che fare con un gioco piacevole o utile, ma... con un dispiegarsi della verità. (G. F. Hegel, Estetica, III, cit. in T.W. Adorno, Filosofia della nuova musica, ed. it. Einaudi, Torino, 2002, p. 7, incipit I parte) Nella mole di risultati raggiunti dall’arte di Alfonso Frattegiani è contenuta in fondo (e poi non così in fondo) una sorta di impenetrabilità, che è data nel contempo dalla estrema e palese semplificazione di ogni elemento, quasi che nell’opera fosse contenuto un segreto da custodire: tale segreto è prossimo alla formula alchemica della pietra filosofale: la trasformazione della materia che racchiude in sé l’essenza del mondo. In fondo, si dice, che per nascondere bene una cosa, è necessario metterla bene in evidenza…
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Quest’arte è (per definizione) aforistica, nel senso dato da Kierkegaard, quale “essere isolato”, che deve cioè respirare circondato da uno spazio vuoto… Ogni quadro di Fratteggiani, per la sua caratteristica di reiterata esplosione–impolosione energetica (in tangibile contrapposizione al II principio della termodinamica) necessita di uno spazio vuoto per riverberarsi, poiché sembra emergere da un vasto deposito di materia oscura e profonda. Come nella musica, per portare un esempio sonoro: le Bagatelle op. 9 di Anton Webern (pochi instanti di musica per quartetto d’archi), o parimenti i Sei piccoli pezzi per pianoforte op. 19 di Arnold Schönberg, hanno bisogno di molti istanti di silenzio tra un numero e l’altro; così i quadri monocromi di Alfonso Fratteggiani necessitano per vivere di uno spazio libero, un corrispettivo di silenzio-spaziale di materia alla materia… Nell’abolizione di ogni trama evolutiva interna e di ogni sviluppo immanente, essa fa decadere la struttura lineare della successione, nell’inversione continua di un prima e un dopo. Innesca cioè un procedimento circolare che ritorna continuamente su se stesso, in una sorta di incantata sincronia. Tutte le minime vibrazioni, le incessanti (pulviscolari) trasformazioni della materia, le vertiginose oscillazioni ecoidali vengono riverberate in un moto ondulatorio accrescitivo, senza progresso e senza mutamento sostanziale, in un microscopico avanzamento che è nel contempo un continuo trasecolare che lo coinvolge. Non vi è insomma differenza tra elementi essenziali e inessenziali, poiché tutto è allo stesso modo essenziale e inessenziale: ogni dettaglio nell’ambito di una totalità determinata non ammette possibilità di scelta o di selezione. E’ rappresentazione di una forma di fluire esistenziale nel continuum cormatico; uno stato di sospensione che si pone tra ciò che è coagulato e ciò che attende la possibilità di esserlo. Alfonso Fratteggiani con la sua arte monocroma rappresenta la profonda totalità del tutto, e tende continuamente a comprendere in ogni suo gesto il corrispettivo reale e associativo della materia, verso una nuova manifestazione del reale, concentrata vieppiù oltre ogni misura e modalità conosciuta prima d’ora. Siamo quindi nel regno dell’oltre: ed egli è maestro che concentra tutto in quelle minime oscillazioni del polso e dell’occhio in una tensione di semplificazione che cristallizza ogni possbilità della materia in una nuova sostanza significante. Nella sua opera, che per tutti gli elementi finora esposti è rivoluzione e rivolgimento verso il nuovo, sta certo la nascita di una nuova gnereazione di artisti che nell’interpretare i suoi traguardi sapranno tendere e realizzare nuovi risultati. Questa arte lavora nel favore della verità: nella solitudine del vero, nel consenso dei pochi, nella ovvia distrazione del mercato figlio della fama.
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Le giovani generazioni di creatori, spesso distratte dai richiami delle sirene del tempo presente, non potranno fare a meno di accorgersi di tale esplosione di energia creativa: forse oggi, forse nel tempo inattuale del poi, tale carica affermativa saprà rendere merito a se stessa. Attraverso questa arte, che è figlia del bello e del bene, e che senza segreti si oppone per sua definizione all’arte dominante (nel suo rapporto privilegiato con le istituzioni e il mercato), le giovani generazioni potranno prendere parte al nuovo ciclo storico positivo che quest’arte, nel suo profondo, precorre. L’evoluzione non sta più nel rapporto tra colori, ma nella composizone interna del colore stesso
Scritto a Torino e a Pieve Caina (Pg), tra marzo e giugno del 2004
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Bibliografia (dei testi citati) T.W. Adorno, Filosofia della nuova musica, ed. it. a cura di G. Manzoni, L. Rognoni, A. Serravezza, trad. it. di G. Manzoni, Einaudi, Torino, 2002; A. Artaud, Van Gogh il suicidato della società, a cura di P. Thévenin, trad. it. J.P. Manganaro, E. Marchi, C. Dumoulié, Adelphi, Milano, 1998; “aut aut”, 319-320, gennaio-aprile 2004, La Nuova Italia, 2004; R. De Fusco, Storia dell’arte contemporanea, Laterza, Bari, 20032; W. Kandinsky, “Il problema delle forme”, in W. Kandinsky, F. Marc, Il Cavaliere Azzurro, SE, Milano, 1998; F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, II, Prefazione, ed it. a cura di G. Colli, M. Montinari, trad. it. di G. Colli, M. Montinari, S. Giametta, Adelphi, Milano, 1967; G. Panza di Biumo, Gli anni 80 e 90 della collezione, Museo Cantonale di Arte del Canton Ticino, Lugano, aprile-luglio 1992, U. Alemanni Editore, Torino, 1992; id., “La collezione Panza di Biumo al Palazzo Ducale di Gubbio”, in La collezione Panza di Biumo, Artisti degli anni ’80 – ’90, Gubbio, Museo del Palazzo Ducale, 5 dicembre 1998 – 4 dicembre 2003, a cura di C. Bon Valassina e G. Panza di Biumo, Edizioni De Luca, Roma, 1998; id., “Il colore”, in Monocromi, San Fedele Arte, Milano, 2001; Pittura Contemporanea in Galleria, a cura di A. Fratteggiani e U. Brand, 25 maggio-28 luglio 1996, Perugia, 1996; Qohélet (Eccelsiaste), a cura di G. Ceronetti, Adelphi, Milano, 2001; A. Schönberg, Sechs kleine Klavierstrücke, op. 19, Belmont Music, BE.BEL-1032; G. Ungaretti, “Discorso del traduttore”, in W. Blake, Il matrimonio del cielo e dell’inferno, SE, Milano, 1994; A. Webern, Bagatellen für Streichquartett, Op. 9, Score, Universal Edition, Philharmonia Verlag/Philharmonia, PH00420; B.A.Zimmermnn, Intervall und Zeit. Aufsätze und Schriften zum Werk, B. Schott’s Söhne, Mainz, 1974;