Il cultore del tempo - Denise Nones

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Denise Nones

Il Cultore del Tempo Racconto lungo


Denise Nones, Il Cultore del Tempo Copyright© 2013 Edizioni del Faro Gruppo Editoriale Tangram Srl Via Verdi, 9/A – 38122 Trento www.edizionidelfaro.it – info@edizionidelfaro.it Prima edizione: settembre 2013 – Printed in Italy ISBN 978-88-6537-183-1 In copertina: disegno realizzato dall’autrice.


A Matteo, gemma d’amore.

A tutti i fiori del Mondo Possiate sempre nutrirvi di fresca rugiada e linfa nuova, cosĂŹ da raggiungere il Vostro massimo Splendore.



Il Cultore del Tempo Racconto lungo



“A

nnusa” mi disse, porgendomi una rosa piena di sole. La presi delicatamente tra le mani e ci tuffai il viso: profumo intenso e dolce, come colui che me l’aveva offerta. Offerta. Era questa la parola con cui si era aperto il primo atto del nostro spettacolo: un’offerta di tempo, di sorrisi e di tante tante parole. Non era di certo tra le mie preferite. Era un termine che sentivo spesso usare da chi recitava la parte dell’affarista, quasi mai associato a qualità o a sincero intento di soddisfare a pieno il bisogno di chi chiede. Ma nel nostro caso, l’offerta, fu realmente tale: un dono denso di Senso.

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I

Postiglioni del nostro tempo, così mi piaceva definirli: esseri capaci di prometterti i migliori balocchi, sapendo che ben presto ti saresti trasformato in asino, incapace di ricordarti persino il tuo nome. “Accorrete gente! Vendo pozioni per mostrarvi belli… ma non per sentirvi tali. Comperate, acquistate le chiavi capaci di aprire tutte le porte… eccetto quella del vostro cuore”. Queste mille comparse del teatro dell’economia accettavano di vendere la propria anima per recitare, almeno per qualche tempo, un ruolo da protagonista: dovevano solo promettere le cose apparentemente utili urlandole ad alta voce e sussurrare la mancanza della loro validità quando ormai la gente, resa sorda dall’euforia dell’annuncio, non poteva più sentire. E così, a poco a poco, alle persone spuntavano orecchie lunghissime, capaci di intercettare le offerte più convenienti, ma incapaci di distinguere tra mille voci quelle a loro più vicine. Ricordo che un giorno mi ritrovai in una piccola bottega di paese, una di quelle stanzette contenenti il mondo intero: dai biscotti alle tegole del tetto, con l’aggiunta di spezie e di nastrini e con il veleno per topi vicino alle caramelle. C’era una donna davanti al bancone, indossava una minigonna di jeans e una maglietta corta corta dalla quale usciva 11


una pasciuta salamella che ben si confondeva con i salumi della vetrinetta. La negoziante iniziò a elencare le ultime novità giunte in bottega da paesi lontani e, abile come una serpe tra i rovi, riuscì a circuire la mente della Salamella in gonnella che, abbagliata dalla prospettiva di essere la prima di tutto il vicinato a possedere il tappetino puliscarpe rotante, non sentì la voce insistente di suo figlio: “Mamma pipì, mamma pipì!” Scena classica. Certo. Ma questa fu davvero molto buffa. La donna dalla salamella non si accorse che il bimbo, in evidente stato di bisogno, aveva evacuato nella borsa della spesa, dove poco prima era stato infilato il super tappetino rotante. Giunta alla cassa, vedendo entrare una delle donne più ricche del paese, decise di cedere alla vanità di quartiere e, con voce sufficientemente alta da poter essere udita, disse: “Tesoro, guarda cosa ha comperato la mamma! Siamo i soli a possederlo!” Con decisione appoggiò il tappeto per terra e lo pigiò con entrambi i piedi: schizzi giallastri si diffusero ovunque, trasformando ben presto il panciuto narciso in punteggiato elicriso. Quello del tappetino rotante non fu solo un buffo episodio, ma un inizio di riflessioni profonde che altri tappeti o oggetti con egual funzione mi regalarono. Uno di questi apparteneva all’Uomo delle rose.

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uori dalla sua porta non aveva alcun tappetino, ma in fondo alle scale teneva una famigliola di ricci dagli aculei ferrosi. La prima volta che varcai quella soglia mi fermai a osservarli per parecchio tempo prima di salire: pensai che fossero una delle cose inanimate più tenere e verosimili che avessi mai visto. Quando aprii la porta, l’Uomo delle rose mi accolse dicendomi: “Non sei riuscita a pulirti le scarpe vero?” Mi guardai istintivamente i piedi, molto imbarazzata, pur sapendo che fuori non vi era né fango né acqua e che non avrei sporcato di certo le graziose piastrelline colorate del mosaico pavimentale. La seconda parte del suo dire mi aiutò a rialzare lo sguardo e a uscire dalla melma inesistente: “Ne sono felice, è un buon segno”. Vedendomi oltremodo stupita, mi spiegò che quella piccola famigliola pungente era custode di un suo grande segreto. Ogni volta che qualcuno suonava alla porta, prima di aprirla, lasciava trascorrere qualche secondo e osservava ciò che il visitatore faceva di fronte a quei tre piccoli animali; inizialmente era solo un modo per controllare il nuovo arrivato, ma poi si era trasformato in un vero e proprio metro di misura delle persone, un po’ bizzarro ma davvero molto molto interessante: forniva una prima impressione sull’ospite, sicura13


mente meno superficiale di quella data dall’incontro faccia a faccia dove non sai mai se quella che vedi è la vera carne o un mascherone di cera ben truccato. Mi fece accomodare su un piccolo divano dalla tela consunta, segno di molte visite, e mi chiese se desiderassi un po’ di tè. Accettai di buon grado: mi avrebbe aiutata a trovare il coraggio di mostrare la parte meno fredda della mia anima. Ero lì per ritrovarla. Mi avevano detto che quell’uomo era riuscito a districare personalità contorte e chiuse quanto il cuore della foresta pluviale. La sua voce era profonda e calma e quando sorrideva si colorava delle tinte avvolgenti del tramonto: era un oceano di serenità e pace. Mi raccontò che molte persone che venivano a bussare alla sua porta erano così angosciate dai loro pensieri che non si accorgevano nemmeno dei piccoli ricci e li oltrepassavano, perdendosi un sorriso. Altri invece ci si pulivano le scarpe con forza, calpestandoli, senza nemmeno notare che si trattava di simpatici animaletti. Alcuni, anche se pochi, si prendevano il tempo di osservarli e questo, per lui, era un segno importante. “Chi si concede il tempo di fermarsi è l’unica categoria di persone capace di trovare la propria strada. Anche gli altri si fermano prima o poi, ma perché costretti da cause esterne come una malattia o una perdita dolorosa. Chi lo fa spontaneamente ha già conquistato una grande fetta di libertà”. Gli sorrisi, più per aver scoperto di appartenere alla categoria da lui ritenuta privilegiata che per aver compreso il senso di quelle parole. “I bambini”, aggiunse “anche se pungono, li accarezzano sempre, non li calpestano mai”. 14


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e mie visite duravano circa un’ora: un secolo intriso di sudore e silenzi che a poco a poco si trasformò in attimi di fresca lucidità. Miravo a un po’ di Luce e ne fui pervasa. Fin da bambina temevo il buio. Una paura incontrollabile, che mi faceva sudare come un maiale in corsa anche sotto un leggerissimo lenzuolo di lino. La sera era un incubo, reso vero dagli scherzi continui dei miei tre fratelli maggiori. Ricordo che una notte d’estate, i “tre facoceri”, avevano deciso di mettere in atto un piano terribile, finalizzato a farmi credere che la mia stanza fosse infestata da fantasmi senza pace: spiriti immondi e dannati venuti a trascinarmi nella loro urlante oscurità. In verità, non avevano fatto altro che nascondersi nei soliti posti del nascondino piovoso, cioè quello a cui si giocava in casa nelle giornate brutte; ma al buio tutto si trasforma e la paura blocca i canali sensoriali e li rende schiavi del terrore. Lucio, il maggiore, si era infilato sotto il letto; Sergio nell’armadio e Carlo, detto “Il Piccolo”, dietro il cesto dei peluche. Quest’ultimo fu il primo a muoversi e insieme a esso anche tutti gli occhi vitrei degli animali che conteneva. Svegliata da strani rumori, vidi due dei miei teneri orsetti camminare sulla moquette e dirigersi ai piedi del letto che, senza 15


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