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IPP migliore appropriatezza prescrittiva con il documento AIGO-SIF-FIMMG Intervista il razionale della terapia con GAGs nelle cistiti croniche Epidemiologia la vitamina D sembra protettiva nei confronti dei tumori Cardiologia le differenze di genere nell’infarto miocardico acuto

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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

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CLINICA

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

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2.2018

sommario

Abbiamo sempre dedicato molta attenzione alla BPCO, uno dei “big killer” del nostro tempo. Un aspetto emergente e ancora poco conosciuto della patologia è l’aumento di incidenza e prevalenza tra le donne. Significativamente dunque, dedichiamo la copertina di questo numero della nostra rivista alle differenze di genere nella BPCO presentando i risultati di un’indagine condotta nelle realtà ospedaliere pugliesi: emerge un quadro a tinte fosche per il genere femminile, in cui la patologia non solo ha un trend in crescita, ma si presenta in forma più severa rispetto a quanto accade negli uomini e in età più giovane. L’approfondimento questa volta affronta un tema che potremmo definire evergreen ovvero l’appropriatezza prescrittiva degli inibitori di pompa protonica, farmaci tra i più usati e abusati nel nostro Paese, di cui si occupa il documento congiunto AIGO-SIF-FIMMG

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Le differenze di genere nella BPCO Un’analisi nelle realtà ospedaliere pugliesi nel decennio 2005-2016

Inibitori di pompa protonica Le linee d’indirizzo AIGO-SIF-FIMMG per una maggiore appropriatezza prescrittiva

Lo studio evidenzia un aumento delle ospedalizzazioni

Letti per voi medicina/approfondimenti

medicina/epidemiologiA

per BPCO tra le donne, con un profondo cambiamento di distribuzione dei due sessi

Il documento congiunto mette ordine tra le

Immacolata Ambrosino, Francesco Patano, Maria Serena

informazioni disponibili al fine di garantire una migliore

Gallone, Cinzia Annatea Germinario, Anna Maria Moretti

appropriatezza prescrittiva dei farmaci probabilmente più usati nel nostro Paese Folco Claudi

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medicina/approfondimenti Prescrizione appropriata degli IPP Un ruolo di primo piano per il Medico di Medicina generale A colloquio con Rocco Maurizio Zagari, professore

Segnalazioni

20 I Love Life La campagna di sensibilizzazione per “battere” lo scompenso cardiaco

22 Disturbi associati allo stato ansioso Dalla nutraceutica nuova opzione di trattamento, rapida ed efficace

associato di Gastroenterologia del Dipartimento

23 L’inefficiente assorbimento del calcio: perché?

di Scienze mediche e chirurgiche (DIMEC),

Una prospettiva evoluzionistica

dell’Università di Bologna Folco Claudi MEDICO e PAZIENTE | 2.2018 |

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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Numero 2.2018 - anno XLIV

Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel. 02 4390952 - Fax 02 56561838 info@medicoepaziente.it

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Direttore editoriale Anastassia Zahova Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Folco Claudi, Piera Parpaglioni, Cesare Peccarisi

Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano.

Comitato scientifico

Redazione WEB Alessandro Visca Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno

Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia)

Segreteria di redazione Concetta Accarrino

Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna

Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Hanno collaborato a questo numero: Immacolata Ambrosino, Maria Serena Gallone, Cinzia Annatea Germinario, Massimo Lazzeri, Anna Maria Moretti, Francesco Patano, Rocco Maurizio Zagari Foto di copertina: 123RF Archivio Fotografico

Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM

Direttore responsabile Sabina Guancia Scarfoglio

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letti per voi Epidemiologia

Un ampio studio prospettico di coorte nella popolazione giapponese porta nuove evidenze sul ruolo protettivo della vitamina d nei confronti di tutti i tipi di cancro £

Questo recentissimo studio di coorte ha misurato la concentrazione plasmatica di 25-idrossivitamina D nel più ampio numero di casi di cancro (3.301) finora considerati all’interno di una popolazione e ha riscontrato che le concentrazioni più alte di vitamina D si associavano con un rischio più basso di cancro in qualsiasi sede. Pubblicato sul BMJ, lo studio è stato condotto all’interno del Japan Public Health Center-based Prospective study (JPHC), partito nel 1990 e ampliato nel 1993 per un totale di oltre 140mila partecipanti, che indaga il ruolo dello stile di vita e di altri fattori sul rischio di cancro e di altre malattie croniche. Il trial in questione ha incluso solo i partecipanti che all’inizio dello studio JPHC avevano sia risposto a un questionario (anamnesi e stili di vita), sia fornito volontariamente un campione di sangue (sul quale con analisi immunoenzimatica è stata misurata la concentra-

zione plasmatica di 25-idrossivitamina D), fino a definire una coorte di oltre 33mila individui. Questa popolazione è stata suddivisa in quattro categorie con concentrazioni plasmatiche crescenti di 25-idrossivitamina D. Un dato notevole è che, rispetto al quarto con le concentrazioni più basse della vitamina, il tasso di rischio (HR) per tutti i tipi di cancro diminuiva progressivamente nel secondo e nel terzo quarto (HR 0,81 e 0,75, rispettivamente), ma non aveva un ulteriore decremento nel quarto con i livelli plasmatici più elevati (HR 0,78). Il potenziale effetto “tetto” osservato dai ricercatori suggerisce che oltre una certa concentrazione ottimale (da definire) di 25-idrossivitamina D circolante non si consegua nessun ulteriore beneficio (è probabile per livelli plasmatici all’incirca oltre 80 nmol/l). L’analisi per cancro in sedi specifiche ha mostrato una forte correlazione inversa tra i livelli di vita-

mina D circolante e il rischio di cancro del fegato (P per trend =0,006). Non è invece emersa una correlazione significativa per il rischio di tumore colorettale, già osservata in vari studi prospettici e metanalisi. Ulteriori studi aiuteranno a fare luce sul pattern dose-risposta e sulle concentrazioni ottimali della vitamina ai fini di una prevenzione anti-tumorale. Queste nuove evidenze, le prime ad ampio raggio riguardanti una popolazione asiatica, avvalorano l’ipotesi, da tempo formulata, che i benefici della vitamina D si estendano ben oltre la salute delle ossa e includano diverse malattie croniche, tra le quali il cancro. I meccanismi che mediano le possibili azioni protettive della vitamina D nei confronti della carcinogenesi sono attribuiti al metabolita attivo 1,25-diidrossivitamina D, prodotto dalla 25-idrossivitamina D circolante grazie all’enzima 1alfa-idrossilasi. Molti tessuti corporei esprimono tale enzima e un numero anche più ampio di tessuti possiede recettori per la 1,25-diidrossivitamina D, pertanto è probabile che l’effetto anti-tumorale della vitamina non sia circoscritto a uno o pochi organi o tessuti. Budhathoki S, Hidaka A, Yamaji T et al. BMJ 2018; 360: k671

£ Il diabete di tipo 2 notoriamente porta a un aumentato rischio di fratture; tale associazione tuttavia non sembra esserci per le fratture Negli uomini molto anziani, a livello vertebrale, soprattutto tra gli uomini molto anziani. A queste conclusioni giunge lo studio che ha analizzato i dati sulla prevalenza il diabete di tipo 2 non e incidenza di fratture in una popolazione costituita da 875 diabetici sembrerebbe aumentare il rischio e 4.679 controlli non diabetici, tutti uomini e di età ≥65 anni. Lo studio aveva anche l’obiettivo di identificare se la densità minerale di fratture vertebrali ossea a livello spinale (aBMD e vBMD) possa essere predittiva di fratture vertebrali nella popolazione considerata. La BMD ha livello lombo-sacrale è stata misurata sia con tecnica DEXA (aBMD) sia mediante TC quantitava (vBMD). Prevalenza e incidenza di fratture vertebrali sono risultate sovrapponibili tra i pazienti con diabete di tipo 2 e i controlli. L’analisi in un modello aggiustato per fattori tra i quali età, BMD, BMI ha mostrato un analogo trend per quanto riguarda il rischio di fratture prevalenti (OR 1,05, CI 95 0,781,40) e incidenti (OR 1,28 CI 95 0,81-2,00). In entrambi i gruppi osservati, elevati valori di aBMD a livello spinale correlavano con un rischio ridotto di prevalenza e di incidenza di fratture vertebrali (l’andamento è stato simile anche per i valori di vBMD). Di fatto quindi, il diabete di tipo 2 non comporta un aumento del rischio di fratture vertebrali negli uomini molto anziani, e il trend è confermato dopo aggiustamento per variabili confondenti; tanto più alti sono i valori di aBMD e vBMD a livello spinale, tanto minore è la possibilità che gli anziani siano essi diabetici che non sperimentino tali eventi.

Patologie metaboliche

Napoli N, Schwartz AV, Schafer AL et al. J Bone Miner Res 2018; 33(1): 63-9

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MEDICO E PAZIENTE

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Farmacovigilanza

£ L’impiego a lungo termine di alte dosi di corticosteroidi per via inalatoria (ICS) è associato Uso prolungato di ics ad alte con un aumento modesto del rischio di fratture dell’anca e delle estremità superiori, nei pazienti dosi e rischio di frattura con malattia polmonare cronica ostruttiva (BPCO). nei soggetti con bpco, i dati da L’aumento del rischio dose-durata non risulta più alto nelle donne rispetto agli uomini. Sono i risultaun’analisi caso-controllo su una ti, riportati su Chest, di un’analisi caso-controllo su un’ampia coorte di soggetti con BPCO, individuati popolazione canadese attraverso i database del Règie de l’assurance maladie du Quebec (RAMQ) nel periodo 1990-2005 e seguiti fino al 2007 per il verificarsi della prima frattura dell’anca o degli arti superiori. Ogni caso di frattura è stato incrociato con 20 soggetti di controllo per età, genere e durata del follow up. Nella coorte di 240.110 individui, 19.396 hanno avuto una frattura durante una media di 5,3 anni (tasso 15,2 per mille per anno). L’uso di ICS in generale non era associato con un aumento del tasso di frattura (RR 1,00; CI 95 per cento, 0,97-1,03). Il tasso di frattura aumentava per un utilizzo di ICS a dosi giornaliere ≥1.000 mcg di fluticasone o equivalenti per più di quattro anni (RR, 1,10; CI 95 per cento, 1,02-1,19). L’aumento del rischio non era più alto nelle donne in postmenopausa rispetto agli uomini. I ricercatori sottolineano che i medici dovrebbero valutare con attenzione i benefici e i rischi della prescrizione di ICS nei pazienti con BPCO soprattutto nel lungo termine e prescrivere il dosaggio più basso possibile. Nonostante il trattamento con ICS sia raccomandato per pazienti selezionati affetti da BPCO, nella realtà si può verificare un uso frequente e improprio di questi farmaci nei pazienti con un basso rischio di esacerbazioni. Gonzalez AV, Coulombe J, Ernst P et al. Chest 2018; 153: 321-8

Cardiologia

Le differenze di genere nell’IMA: quali sono e come vengono interpretati i sintomi prodromici in una popolazione di giovani adulti £

Diverse evidenze presenti in letteratura suggeriscono che esistono differenze di genere per quel che riguarda i sintomi di presentazione dell’infarto (IMA); in particolare sembra che le donne sperimentino in minor misura uno dei segni classici ovvero il dolore toracico. Stando però ai risultati dello studio qui presentato, non sembrerebbe così: infatti i sintomi toracici si riscontrano in tutti i pazienti, indipendentemente dal sesso, e nelle donne inoltre ci sarebbe una maggiore prevalenza di sintomi prodromici extratoracici che tuttavia vengono attribuiti dalle stesse pazienti ad altre cause piuttosto che all’IMA. Lo studio ha intervistato 2.009 don-

ne e 976 uomini giovani (età 18-55 anni) che erano stati ospedalizzati per IMA. Dall’analisi dei dati è risultato che oppressione, dolore, pesantezza, fastidio a livello toracico interessavano pressappoco la stessa quota di soggetti nei due sessi (donne vs uomini 87 vs 89,5 per cento); solo nel caso di IM con elevazione del segmento ST le donne riferivano dolore al petto con minore frequenza rispetto agli uomini (OR 1,51, CI 95 1,03-2,22). Nelle donne si associavano inoltre, almeno tre sintomi prodromici extratoracici, come per esempio sintomi epigastrici, fastidio/discomfort a livello della mascella, del collo, delle braccia o a livello delle regioni scapolari.

Sempre rispetto agli uomini, le donne mostravano una maggiore tendenza a interpretare tale sintomatologia come ansia o stress (20,9 vs 11,8 per cento, P <0,001) piuttosto che dolori muscolari (15,4 vs 21,2, p =0,029). Proseguendo nell’analisi, risulta che in presenza di sintomi le donne si rivolgono più spesso al medico rispetto agli uomini (29,5 vs 22,1 per cento), tuttavia il 53 per cento di esse riferisce che il medico non interpretava tali sintomi come “cuore-correlati” (rispetto al 37 per cento degli uomini; P <0,001). Concludendo, gli Autori sottolineano come in entrambi i sessi i sintomi prodromici dominanti siano quelli toracici, sebbene nelle donne vi sia un’ampia sintomatologia addizionale extra-toracica (che si manifesta indipendentemente da quella toracica). Le donne come anche i clinici a cui esse si rivolgono in molti casi trascurano l’infarto miocardico come causa di tale sintomatologia. Lihtman JH, Leifheit EC, Safdar B et al. Circulation 2018; 137: 781-90

MEDICO E PAZIENTE

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letti per voi Intervista

Cistiti croniche: il razionale della terapia di combinazione a base di glicosaminoglicani due in età fertile sperimenti almeno una volta nella vita un episodio di questo tipo. Si distinguono poi le forme batteriche acute, le forme batteriche croniche e infine le forme croniche non batteriche.

Uno studio apparso qualche tempo fa sulla rivista Therapeutic Advances in Urology (2016 8(2): 91-9) ha sottolineato l’ottimo profilo di efficacia e tollerabilità della terapia a base di condroitin solfato in combinazione con acido ialuronico nel trattamento delle forme croniche di cistite. Abbiamo approfondito la questione con il professor Massimo Lazzeri, dell’Unità Operativa di Urologia dell’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano (Milano), primo Autore dello studio. Prof. Lazzeri, iniziamo con l’inquadrare la cistite cronica: quali sono segni e sintomi e quanto è diffusa nella popolazione? £ In termini generali, parliamo di cistite quando siamo in presenza di una patologia vescicale che si manifesta con aumento della frequenza minzionale, urgenza minzionale e dolore alla minzione accompagnato a volte anche da sanguinamento. Si tratta di una condizione per la quale è difficile fornire un dato epidemiologico; tuttavia, si stima che una donna su

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MEDICO E PAZIENTE

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... e l’articolo si concentra sulle forme croniche, non è così? £ Certamente. Dal punto di vista clinico, quello che ci interessa maggiormente non è tanto l’episodio acuto batterico, che molto spesso è autogestito dalla paziente con i consigli delle amiche, del ginecologo o del Medico di Medicina generale, quanto piuttosto le forme tendenzialmente croniche, definite da segni e sintomi, che non sono batteriche e che alterano profondamente la qualità di vita dei soggetti che ne sono affetti. Con che frequenza si ripresentano queste forme croniche? £ La frequenza è estremamente varia: ci sono donne che presentano questi episodi 3-4 volte al mese, donne che presentano 3-4 episodi all’anno, donne che hanno un disturbo postcoitale... sono pazienti che convivono costantemente con il dolore. Quindi c’è un’estrema variabilità di gravità e di sintomi. Che cosa possiamo dire invece dell’eziopatogenesi di questo disturbo? £ Molto spesso non è facile capire la causa della cistite cronica... negli ultimi tempi si è pensato che la perdita d’impermeabilità della vescica possa far passare parte del suo contenuto nella parete della vescica stessa, determinando un’infiammazione. Ora, in condizioni normali, l’impermeabilità è garantita dai glicosaminoglicani: per

questo, un deficit di queste sostanze è stato considerato come una delle cause delle forme croniche di cistite, tra le quali anche la cistite interstiziale. Da qui l’idea di trattare sia con preparazioni orali sia con instillazioni endovescicali di glicosaminoglicani queste forme di cistite. Quali sono i risultati di questa terapia in termini di efficacia? £ Non è facile dare una cifra esatta per quanto riguarda l’efficacia; tuttavia possiamo dire che in letteratura vengono riportati risultati molto positivi: dagli studi, anche randomizzati e controllati contro placebo, quindi di un buon livello di rigore scientifico, emerge che la terapia con glicosaminoglicani può dare dei benefici significativi; in particolare uno studio sulle cistiti croniche uscito sul British Medical Journal mostra che un trattamento endovescicale riduce il rischio di recidiva in un anno anche del 50 per cento: è un risultato molto importante per questo tipo di disturbi. Perché si usa la terapia di combinazione? £ Alcuni anni fa si è partiti con le monoterapie, poi si è constatato che la terapia di combinazione determina un potenziamento dell’efficacia. E che cosa possiamo dire del profilo di tollerabilità? £ È ottimo, tant’è vero che questa terapia di combinazione a base di condroitin solfato più acido ialuronico si utilizza in forme particolarmente gravi di cistiti, come quelle indotte da radioterapia, in soggetti colpiti da tumore della prostata, della vescica, dell’utero o del retto; quindi ripeto: il profilo di tollerabilità è eccellente.


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medicina

approfondimenti

A cura di Folco Claudi

Inibitori di pompa protonica Le linee d’indirizzo AIGO-SIF-FIMMG per una maggiore appropriatezza prescrittiva Il documento congiunto AIGO-SIF-FIMMG mette un po’ di ordine tra le informazioni disponibili, al fine di garantire una prescrizione appropriata dei farmaci probabilmente più usati nel nostro Paese

U

na maggiore appropriatezza prescrittiva degli inibitori di pompa protonica (IPP), una classe di farmaci tra le più usate – e abusate – nel nostro Paese. È questo l’obiettivo delle nuove linee d’indirizzo elaborate da una collaborazione tra l’Associazione italiana dei Gastroenterologi ospedalieri (AIGO), la Società italiana di Farmacologia (SIF) e la Federazione italiana dei medici di Medicina generale (FIMMG). Il gruppo multidisciplinare di esperti, autore del documento, delinea un quadro complessivamente positivo degli IPP, che rappresentano attualmente i farmaci più efficaci per

inibire la secrezione gastrica, e in passato hanno avuto il merito di aver rivoluzionato il trattamento di molte malattie gastrointestinali acido-correlate. Sono sicuri e ben tollerati, e offrono quindi un rapporto tra beneficio e rischio favorevole. Il rovescio della medaglia è però l’elevato numero di prescrizioni inappropriate, con un importante danno erariale per il Sistema sanitario nazionale, come evidenziato da alcuni studi. Sarebbe importante dunque attenersi rigorosamente alle indicazioni terapeutiche, tenendo conto soprattutto delle possibili comorbilità dei pazienti e dei trattamenti farmacologici a cui sono sottoposti.

Sicurezza e tollerabilità Anche con una somministrazione a lungo termine, gli IPP mostrano un’incidenza di effetti collaterali compresa tra l’1 e il 3 per cento. Nella maggior parte dei casi, questi effetti sono biologicamente plasubili e prevedibili. Anche nel caso di reazioni rare e non prevedibili, se prescritti in modo appropriato, gli IPP garantiscono benefici superiori ai potenziali rischi.

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Di seguito sono riportate schematicamente le indicazioni contenute nelle linee d’indirizzo AIGO-SIF-FIMMG.

Modalità di somministrazione Gli IPP sono propriamente profarmaci. Quindi vanno presi circa 20 minuti prima di colazione, avendo cura di assumere latte, biscotti o altri alimenti con un consistente contenuto proteico, necessario alla stimolazione acida e all’attivazione dei principi attivi.

Indicazioni terapeutiche La prima parte delle linee d’indirizzo è dedicata alle tre principali indicazioni degli IPP, ovvero: malattia da reflusso gastroesofageo (MRGE), eradicazione di Helicobacter pylori e ulcera peptica, e infine dispepsia. Nella MRGE con sintomi tipici quali pirosi e/o rigurgito, gli IPP sono la terapia di prima scelta. In questi casi, un trattamento protratto per 8 settimane si associa a una scomparsa dei sintomi nell’80 per cento dei pazienti. Trattandosi di una patologia tendenzialmente recidivante, spesso occorre una somministrazione a lungo


tabella 1 Indicazioni terapeutiche degli IPP Setting

Indicazioni

Reflusso gastroesofageo con sintomi tipici (pirosi, rigurgito)

IPP per 8 settimane

Malattia da reflusso gastroesofageo non erosiva

IPP per 8 settimane

Esofagite da reflusso grado A o B secondo la Classificazione di Los Angeles

IPP per 8 settimane

Esofagite da reflusso grado C o D secondo la classificazione di Los Angeles

IPP a dosi doppie per 8 settimane

Reflusso gastroesofageo con sintomi atipici

Dosi doppie di IPP per 1-3 mesi. Se persistono i sintomi associare terapie add-on

Dispepsia

Ricercare e trattare l’infezione da H. pylori. IPP per 4-8 settimane nei pazienti non infetti o in quelli che non migliorano dopo l’eradicazione soprattutto nei pazienti con prevalente dolore epigastrico (Epigastric Pain Syndrome secondo i criteri di Roma III)

Terapia con FANS

IPP a lungo termine (Nota 1 AIFA) solo nei soggetti a rischio di complicanze (ovvero pazienti che presentano ≥ 1 fra i seguenti fattori di rischio: età >65 anni; storia di malattia peptica, uso concomitante di steroidi e/o anticoagulanti). Prima di iniziare terapia a lungo termine è indicata la ricerca e l’eradicazione dell’infezione da H. pylori.

Terapia con antiaggreganti

IPP a lungo termine (Nota 1 AIFA) solo nei soggetti a rischio di complicanze (ovvero pazienti che presentano ≥ 1 fra i seguenti fattori di rischio: età >65 anni; storia di malattia peptica, uso concomitante di steroidi e/o anticoagulanti)

Terapia con steroidi

Non è indicata terapia con IPP tranne che nei pazienti che assumono contemporaneamente FANS

Terapia con anticoagulanti orali

Non è necessaria terapia con IPP tranne che nei pazienti che assumono FANS e/o antiaggreganti. Il pantoprazolo e il rabeprazolo rappresentato gli IPP di scelta

Pazienti con cirrosi epatica

Il trattamento con IPP per la prevenzione del sanguinamento da varici non è consigliato

Politerapia

Nei casi in cui una terapia con IPP si impone, pantoprazolo e rabeprazolo sono le molecole da preferire

termine, sia essa continua, intermittente o al bisogno. Esistono poi diversi sottogruppi di pazienti per i quali sono previste ulteriori raccomandazioni cliniche. Gli IPP risultano infatti inefficaci o solo parzialmente efficaci nei pazienti con esofago ipersensibile all’acido o al reflusso non acido, per cui spesso è necessario associare agli IPP algi-

nati, procinetici o baclofen, e nei pazienti con sintomi atipici, come tosse, laringite da reflusso, bolo faringeo e asma. Questi sono particolarmente resistenti al trattamento, e richiedono spesso altri farmaci in associazione. Nel caso in cui il paziente presenti esofagite, occorre fare una piccola distinzione a seconda della stadia-

zione di malattia secondo la classificazione di Los Angeles. Se si tratta di esofagite di grado A e B, il trattamento per 8 settimane è sufficiente; nei gradi C o D è indicata una dose doppia, con la stessa durata di trattamento. In caso d’infezione da H. pylori, è raccomandata l’associazione alla tesegue a pagina 13

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intervista

Prescrizione appropriata degli IPP Un ruolo di primo piano per il Medico di Medicina generale Efficaci e sicuri: questo il giudizio pressoché unanime sugli inibitori di pompa protonica. Ma i possibili effetti collaterali dell’uso a lungo termine richiamano l’attenzione sulla necessità di attenersi alle raccomandazioni per una prescrizione appropriata. Ne abbiamo parlato con Rocco Maurizio Zagari, professore associato di Gastroenterologia del Dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche (DIMEC) dell’Università di Bologna

❱ Prof. Zagari, sappiamo che gli IPP sono attualmente tra i farmaci più prescritti nel nostro Paese. In quali casi sono indicati? Gli inibitori di pompa protonica sono oggi tra i farmaci più usati e – vorrei aggiungere – anche tra i più amati sia dai medici sia dai pazienti, per due motivi: perché sono i farmaci più efficaci nella maggior parte delle malattie dell’esofago e dello stomaco, e perché sono molto ben tollerati, considerato che solo circa 3 persone su cento hanno qualche effetto collaterale. Il problema è che proprio perché sono molto efficaci e molto sicuri vengono dati fin troppo spesso e in molti casi in modo inappropriato. Sappiamo ormai da vent’anni che gli IPP sono i farmaci migliori per tutte le malattie dovute all’acido, quindi per i sintomi da reflusso gastroesofageo, per l’esofagite da reflusso e per l’ulcera peptica e le sue complicanze, come l’emorragia. Un’altra indicazione è quella della prevenzione dei danni nello stomaco, vale a dire gastriti acute e soprattutto ulcere, in tutti quei pazienti che devono assumere FANS o che prendono farmaci antiaggreganti, come la cardioaspirina, e che hanno anche un ulteriore fattore di rischio, come l’età oltre i 65 anni. Un’altra indicazione ancora riguarda i pazienti giovani – sotto i cinquant’anni di età – che sof-

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frono di dispepsia; per questi soggetti, l’indicazione è di fare, invece di una gastroscopia, un test non invasivo per Helicobacter pylori: se questo è positivo, i pazienti vengono trattati con la terapia antibiotica insieme con gli IPP; se è negativo, l’indicazione è di trattarlo solo con IPP; questi farmaci sono fondamentali anche per curare l’infezione da H. pylori.

Rocco Maurizio Zagari, professore associato di Gastroenterologia del Dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche (DIMEC) dell’Università di Bologna

Questi farmaci funzionano così bene, che spesso il paziente ne diventa dipendente: sta bene se li prende e sta male se non li prende

❱ E quando invece si corre il rischio di una prescrizione non appropriata? Numerosi studi suggeriscono che gli IPP vengono talvolta prescritti in modo inappropriato sia in ospedale sia dai medici di famiglia. È emerso per esempio che gli IPP vengono spesso prescritti anche a pazienti sotto i 50 anni che fanno uso di FANS o di aspirina, pur non avendo altri fattori di rischio per l’ulcera peptica: questo avviene perché quando si prescrivono FANS o cardioaspirina la prima preoccupazione del medico è quella di proteggere lo stomaco del paziente… ma non sempre questo deve essere protetto! Se il paziente è giovane, non ha mai avuto un’ulcera, non ha mai avuto disturbi digestivi, non prende altri farmaci gastro-lesivi né anticoagulanti né cortisone, non dovrebbe assumere IPP. Un altro caso importante è quello degli steroidi, considerati per


molti anni gastro-lesivi, per cui c’è ancora la tendenza a prescrivere IPP con questi farmaci; in realtà, da soli gli steroidi sembra abbiano una scarsa azione gastro-lesiva, e quindi si tratta di un altro esempio di prescrizione inappropriata, a meno che il cortisone venga dato insieme a cardioaspirina o FANS. Talvolta poi gli IPP vengono somministrati mentre il paziente è ricoverato in ospedale, quando ne ha realmente bisogno, e poi il medico ospedaliero si dimentica di togliere questi farmaci dalla lettera di dimissione, cosicché anche il medico di famiglia continua a prescriverli, quando invece la terapia andrebbe interrotta. Quindi ci vorrebbe più attenzione sia da parte dei medici ospedalieri nel valutare l’indicazione alla prescrizione, e nel togliere l’indicazione dalla lettera di dimissione se non più necessaria, sia da parte dei medici di famiglia, che dovrebbero valutare quando non c’è bisogno della terapia continuativa con IPP. ❱ Recentemente sono usciti alcuni studi su possibili rischi dell’uso a lungo termine di questi farmaci. Che cosa ci può dire in proposito? Negli ultimi anni sono stati pubblicati innumerevoli studi che suggeriscono come l’uso cronico, non a breve termine, possa esporre il paziente a eventi avversi, che possono interessare quasi tutti gli organi – dalle ossa, al cuore, ai reni – oltre a un maggior rischio di infezioni intestinali. Negli Stati Uniti, alcuni anni fa la Food and Drug Administration ha lanciato due warning: il primo sull’aumentato rischio di fratture dell’anca nei pazienti che assumono cronicamente IPP, dovuto a probabilmente un malassorbimento di calcio e di vitamina B 12, il secondo per un aumentato rischio di infezioni intestinali, e in particolare per le infezioni da Clostridium difficile, un batterio molto aggressivo che può portare anche alla morte i pazienti anziani. Sono eventi avversi di cui tenere sicuramente conto, ma vorrei sottolineare che i risultati degli studi sono ancora molto contrastanti e soprattutto che il rischio

rimane in ogni caso molto basso. In definitiva, se si usano in modo appropriato, questi farmaci presentano vantaggi che superano di gran lunga i rischi di effetti collaterali. ❱ Recentemente sono state pubblicate le nuove linee d’indirizzo SIF-AIGO-SIMMG sull’uso degli IPP. Qual è l’importanza di questo nuovo documento? L’importanza di questo documento è nel tentativo di mettere ordine, nel dare indicazioni chiare per cercare di risolvere questo problema dell’abuso degli IPP; si sottolinea in particolare che questi farmaci devono essere usati a dosi piene in genere per brevi periodi di tempo, cioè 4-8 settimane, e come occorra seguire rigorosamente le indicazioni al loro uso per evitare una prescrizione inappropriata. ❱ Parliamo ora dei pazienti. Esiste un problema di aderenza alla terapia, soprattutto in termini di abuso, che può favorire effetti collaterali ed eventi avversi? Questi farmaci funzionano così bene, che spesso il paziente ne diventa dipendente: sta bene se li prende e sta male se non li prende…. Alcuni li prendono addirittura preventivamente prima di un’abbuffata… il medico di famiglia, che è la figura sanitaria più vicina ai pazienti, deve impegnarsi in un’opera di educazione, perché su questo tema bisogna lanciare messaggi chiari, tenendo conto che gli IPP sono anche farmaci da banco; il primo punto da sottolineare è che sono da usare per periodi brevi: se dopo il periodo di trattamento non ci sono benefici o se ci sono benefici e si vuole protrarre l’assunzione per un lungo periodo, occorre assolutamente consultare il proprio medico; inoltre, bisogna che sia chiaro che, una volta interrotto il trattamento, l’effetto rebound, per cui i sintomi sembrano ripresentarsi, è normale e soprattutto è transitorio: per questo non bisogna demordere, pensando che l’unica soluzione sia convivere con gli IPP.

rapia eradicante di un IPP, in particolare rabeprazolo ed esomeprazolo, per alcune peculiarità del loro catabolismo. L’eradicazione ha quasi sempre successo, e quindi non è necessaria una terapia di mantenimento con IPP. Nel caso di ulcera peptica idiopatica, per esempio in pazienti che assumono FANS e che sono negativi per H. pylori, è indicata invece una terapia a lungo termine con dosi standard di IPP. In pazienti di età inferiore a 45 anni con sintomi di dispepsia che non destano allarme, si procede con test per H. pylori, terapia eradicante e somministrazione di IPP. A parte questi casi di specifici disturbi, gli IPP sono raccomandati anche come protezione della mucosa gastroduodenale in pazienti sottoposti a trattamenti farmacologici o di altro tipo: terapia antiaggregante in soggetti a rischio di sanguinamento (ma non in caso di terapia con soli anticoagulanti); terapia con FANS e corticosteroidi, oppure terapia con corticosteroidi in pazienti con pregressa malattia di ulcera peptica; trattamento endoscopico delle emorragie gastrointestinali (al fine di ridurre il rischio di risanguinamento e la necessità d’intervento chirurgico). La prescrizione degli IPP, infine dev’essere molto prudente nei pazienti con cirrosi epatica e non è giustificata in pazienti in poli-farmacoterapia, poiché possono interferire con il rilascio gastrointestinale e con il metabolismo epatico di diverse molecole, in particolare con farmaci con indice terapeutico ridotto: benzodiazepine, antagonisti della vitamina K, anti-epilettici, antimicotici, etc. Nella tabella 1 sono riportate sinteticamente le indicazioni terapeutiche e la durata del trattamento con IPP.

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medicina

Epidemiologia

Le differenze di genere nella BPCO Un’analisi nelle realtà ospedaliere pugliesi nel decennio 2005-2016 Lo studio mette in evidenza un aumento delle ospedalizzazioni per BPCO tra le donne, con un profondo cambiamento nella distribuzione dei due sessi. In linea con altri dati presenti in letteratura, assistiamo a una progressiva femminilizzazione della patologia Immacolata Ambrosino1, Francesco Patano2, Maria Serena Gallone2, Cinzia Annatea Germinario2, Anna Maria Moretti3 1. ASL Lecce, DSS Maglie; 2. Dipartimento di Scienze Biomediche e Oncologia Umana, Università degli Studi di Bari; 3. UOC Pneumologia, Università degli Studi di Bari

L

a broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) rappresenta la quarta causa di decesso nel mondo e si stima che nel 2020 diverrà la terza (1). La prevalenza della BPCO è destinata ad aumentare nei prossimi anni sia per la maggiore diffusione nei Paesi sviluppati del fumo di sigaretta che per il progressivo e costante invecchiamento della popolazione, e si calcola che nel 2030 si potrebbe arrivare a 4,5 milioni di morti per anno causati dalla BPCO (2). Inoltre nel 2020 la BPCO passerà dal nono al quinto posto come causa di disabilità (3). Pertanto questa patologia rappresenta un’importante causa di morbidità, mortalità e disabilità con un notevole impatto economico (2) legato sia alle morti premature che alla spesa sanitaria.

Il volto femminile della BPCO Negli ultimi anni si è assistito a una progressiva “femminilizzazione” di questa patologia che prima costituiva un “primato maschile”, infatti la prevalenza e la mortalità per BPCO nel sesso femminile sono più che raddoppiate negli ultimi 20 anni nei Paesi industrializzati, mentre negli uomini sono rimaste invariate (4-6). La prevalenza della BPCO negli uomini risulta stazionaria a tutte le età, mentre nelle donne continua ad avere un trend in crescita. Nelle donne, infatti, c’è un incremento del

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tasso di prevalenza del 68,7 per cento rispetto al 25,3 per cento degli uomini (6). In particolare mentre la prevalenza negli uomini ha raggiunto il plateau nella metà degli anni ’90, negli ultimi anni i tassi di prevalenza nelle donne di età compresa tra i 45 e i 65 anni sono sovrapponibili a quelli degli uomini e inoltre si assiste a un costante e importante incremento della prevalenza della BPCO nelle donne ultrassessantacinquenni. La prevalenza della BPCO nelle donne, infatti, è in costante aumento in tutti i Paesi in cui esse hanno le stesse abitudini di vita e sono esposte agli stessi fattori di rischio lavorativi e non degli uomini (7); tuttavia la BPCO nelle donne è molto meno diagnosticata e, di conseguenza, le pazienti con BPCO sono meno trattate (7). In Canada è stato registrato un incremento delle ospedalizzazioni nelle donne, soprattutto nelle fasce di età più avanzate (8) e in uno studio condotto da Celli B. è stato riscontrato un tasso di riacutizzazione del 25 per cento maggiore nelle donne rispetto agli uomini (9). È stato evidenziato, poi, un incremento della mortalità per BPCO nelle donne negli Stati Uniti e in Canada (7). L’influenza del sesso nella BPCO è complessa e coinvolge diversi fattori che includono le differenze anatomiche, ormonali e comportamentali, la differente suscettibilità al fumo di sigaretta e la differente risposta alla terapia (10). Certamente il fumo di sigaretta rappresenta uno dei più noti e importanti


fattori di rischio per la BPCO in entrambi i sessi (11); mentre negli uomini vi è una lenta, ma progressiva riduzione dell’abitudine tabagica, la prevalenza del fumo di sigaretta nelle donne è destinata ad aumentare del 20 per cento nel 2025 sia nei Paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo (12). Gli uomini e le donne rispondono in maniera fenotipicamente differente all’esposizione al fumo, in particolare gli uomini tendono a sviluppare un fenotipo enfisematoso, mentre le donne un fenotipo ostruttivo a carico delle vie aeree (7). Rispetto agli uomini, le donne sviluppano una forma più severa di BPCO in età più giovanile e con l’esposizione a un minor numero di sigarette (10). Inoltre le donne presentano una maggiore suscettibilità al tabacco dose-dipendente (10), infatti le vie aeree femminili sono più piccole rispetto a quelle maschili, per cui c’è una maggiore esposizione (7) e una maggiore concentrazione di tabacco per unità di superficie aerea. Infine nei due sessi c’è una differenza ormono-mediata per quanto concerne il metabolismo del tabacco, in particolare ci sono disparità nell’espressione e nell’attività degli enzimi del citocromo P 450 (13). w L’impatto dei fattori di rischio La cessazione del fumo di sigaretta rappresenta l’unico elemento documentato per poter arrestare la perdita della funzione polmonare (14) e le donne, che sono più suscettibili ai danni indotti dal fumo, ottengono anche più benefici dalla sua sospensione. Diversi studi epidemiologici (5,15) indicano che circa il 15 per cento dei soggetti con ostruzione delle vie aeree non ha mai fumato e questi pazienti sono in grandissima maggioranza (80 per cento) donne. Tali dati suggeriscono una maggiore sensibilità delle donne ad altri fattori che concorrono alla BPCO (16), tra cui anche una maggiore suscettibilità all’autoimmunità organo-specifica (15). Diversi studi (17) evidenziano il ruolo determinante nella BPCO degli inquinanti ambientali, legati all’ambiente di lavoro e all’ambiente domestico (indoor e outdoor pollution). La maggiore incidenza di queste patologie nelle donne è legata al loro accesso ad ambienti di lavoro che, fino a qualche decennio fa, erano prevalentemente frequentati da uomini. Inoltre il rischio per le donne in questi ambienti è principalmente dovuto a esposizione a detergenti, disinfettanti e sterilizzanti, pesticidi e polveri organiche, prodot-

ti chimici e solventi, oltre alla cattiva qualità dell’aria e al fumo passivo. In Cina l’esposizione agli inquinanti indoor (cucina), unita alla scarsa ventilazione degli ambienti, è molto frequente nelle zone rurali (17), ove è maggiore la mortalità per BPCO. Il fumo resta sicuramente la principale causa di ostruzione delle vie aeree, ma la restrizione economica legata alla povertà spiega l’alto tasso di mortalità nei Paesi poveri (18). Il basso stato socio-economico è associato a una riduzione dell’aspettativa di vita di 2,5 anni nei soggetti tra i 40 e gli 85 anni (19). Da uno studio condotto da Chetty et al. (20), in cui sono state analizzate le imposte federali sul reddito di tutti gli individui americani tra il 1999 e il 2014, è emerso che un reddito più elevato è associato a una maggiore longevità, infatti il gap per quanto riguarda l’aspettativa di vita tra gli individui più ricchi e quelli più poveri è risultato pari a 14,6 anni per gli uomini e 10,1 per le donne; è stato, inoltre, evidenziato che questa differenza nell’aspettativa di vita aumenta con gli anni e varia tra le diverse aree geografiche e che, infine, queste differenze sono correlate in maniera statisticamente significativa ad alcuni stili di vita, quali l’abitudine tabagica, ma non risultano correlate in maniera statisticamente significativa all’accesso alle cure mediche, alle condizioni fisiche e alle condizioni di lavoro.

Lo studio condotto in Puglia Considerate queste differenze di genere, abbiamo valutato la BPCO nella realtà ospedaliera pugliese attraverso un’analisi dell’ospedalizzazione nel periodo compreso tra il 2005 e il 2016. Per l’analisi sono state utilizzate le informazioni presenti nell’archivio regionale delle Schede di Dimissione Ospedaliera (SDO) delle strutture sanitarie della Regione Puglia. La codifica delle informazioni cliniche delle diagnosi e delle procedure effettuate durante il ricovero segue la classificazione ICD-9, versione 2007. L’analisi è stata effettuata selezionando le dimissioni per BPCO senza e con riacutizzazione (codici ICD-9 491.20 e 491.21) utilizzando come chiave di ricerca i codici ICD-9 nel campo “diagnosi principali”. In particolare abbiamo analizzato il numero di ricoveri per sesso, età e reparto di dimissione. Si è provveduto a calcolare la degenza media dei ricoveri, l’età media dei pazienti ricoverati e la mortalità intraospedaliera.

• La maggiore diffusione dell’abitudine al fumo, come anche la crescente esposizione a inquinanti legati all’ambiente di lavoro, sono i fattori che hanno contribuito in maggiore misura all’aumento dell’incidenza e prevalenza della BPCO tra le donne. • L’analisi condotta sulle ospedalizzazioni in Puglia mette bene in evidenza le dimensioni del fenomeno. Nel periodo 2005-2016, i ricoveri per BPCO sono andati diminuendo tra gli uomini, mentre tra le donne sono passati dal 31,9 al 37,9 per cento. Inoltre, sempre nella popolazione femminile si registra un incremento della mortalità, e restringendo l’analisi al periodo 2015-2016, un aumento delle riospedalizzazioni.

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medicina

Epidemiologia

Tabella 1 Rapporto M:F e proporzione di ricoveri per BPCO nel sesso femminile. Puglia, anni 2005 – 2016. Anno

M:F

% ricoveri nel sesso femminile

2005

2,1:1

31,9

2006

2,1:1

32,6

2007

2,1:1

32,7

2008

2,0:1

33,4

2009

1,9:1

34,4

2010

1,9:1

34,0

2011

1,8:1

35,6

2012

1,7:1

37,0

2013

1,8:1

36,2

2014

1,9:1

34,4

2015

1,8:1

36,3

2016

1,6:1

37,9

Figura 1 Percentuale di ricoveri con diagnosi principale di BPCO e diagnosi secondaria di ansia e depressione (Grafico A), diabete mellito (Grafico B), fibrillazione atriale (Grafico C), obesità (Grafico D), osteoporosi (Grafico E) e scompenso cardiaco (Grafico F), per anno e per sesso. Puglia 2005-2016

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È stata anche calcolata la frequenza delle seguenti comorbidità che possono modificare la storia naturale della BPCO: diabete (codice ICD-9 250.x), obesità (codice ICD-9 278.0), ansia (codice ICD-9 300.x), fibrillazione atriale (codice ICD-9 427.31), ipertensione arteriosa essenziale (codice ICD-9 401), insufficienza cardiaca (codice ICD-9 428) e osteoporosi (codice ICD-9 733.0). Per le comorbidità sono stati esaminati i campi di diagnosi secondaria del database da 1 a 5. Inoltre, è stata calcolata la percentuale di SDO con l’indicazione dell’esecuzione di terapia respiratoria (codice di procedura ICD-9 93.9x). L’analisi è descrittiva ed è stata effettuata con metodo quantitativo. Le variabili nominali sono espresse come proporzioni, le variabili continue sono espresse come proporzione o media. w Risultati Nel nostro studio è emersa una progressiva riduzione delle ospedalizzazioni per BPCO con e senza riacutizzazione dal 2005 al 2016 proprio perché i pazienti con BPCO sono sempre più seguiti ambulatorialmente e incoraggiati a seguire la terapia a domicilio per cui le ospedalizzazioni sono, ormai, limitate ai casi più gravi. Tuttavia se andiamo a valutare le differenze di sesso si osserva che in Puglia negli uomini si assiste a una riduzione del numero dei ricoveri dal 68,1 per cento nel 2005 al 61,1 per cento nel 2016, mentre nelle donne il numero di ospedalizzazioni aumenta passando dal 31,9 nel 2005 al 37,9 per cento nel 2016. Questi dati sono


Figura 2 Percentuale di ricoveri con diagnosi principale di BPCO e ipertensione arteriosa come diagnosi secondaria, per anno e per sesso. Puglia 2005-2016

in accordo con diversi studi condotti in Europa e in America (6-9) e confermano lo studio precedentemente condotto in Puglia nel periodo compreso tra il 2001 e il 2011 (4). Nel periodo di osservazione dal 2005 al 2016 si riscontra un profondo cambiamento nella distribuzione dei due sessi, infatti il rapporto maschi/femmine è passato da 2,6:1 nel 2005 a 1,6:1 nel 2016 (Tabella 1); si assiste quindi a una “femminilizzazione” della BPCO nelle realtà ospedaliere pugliesi. Questo fenomeno potrebbe trovare un razionale legato al fatto che le donne fumano molto di più rispetto al passato, hanno una maggiore suscettibilità al tabacco che è dose-dipendente (10), sviluppano forme più severe di BPCO in giovane età rispetto agli uomini pur fumando un minor numero di sigarette (10), vivono negli stessi posti degli uomini e sono esposte agli stessi inquinanti negli ambienti di lavoro (7) e agli inquinanti indoor quali, la combustione dei cibi e i prodotti per pulizie che sono ancora oggi pratiche esclusivamente di appannaggio delle donne. In questo periodo di osservazione si riscontra un incremento delle ospedalizzazioni dei pazienti ultra-ottantenni e questo dato è in linea con il progressivo invecchiamento della popolazione in tutto il mondo. Inoltre le donne sono maggiormente ospedalizzate rispetto agli uomini soltanto nei reparti di geriatria proprio perché le donne vivono più a lungo, mentre il numero dei ricoveri degli uomini è pari quasi al doppio

rispetto a quello delle donne in tutti gli altri reparti analizzati (medicina interna, pneumologia, riabilitazione e lungodegenza). L’età media dei pazienti ricoverati per BPCO riacutizzata aumenta progressivamente per entrambi i sessi dal 2005 al 2016; inoltre le donne sono più anziane e mostrano una degenza media più lunga rispetto agli uomini in tutti gli anni e per tutti i reparti esaminati proprio perché la gravità della BPCO è maggiore nelle donne come evidenziato da diversi studi (21). Dalla nostra analisi è emerso un incremento della mortalità intraospedaliera delle donne tra il 2005 e il 2009 e tra il 2011 e il 2015; tale incremento della mortalità femminile per BPCO è emerso anche in diversi studi condotti in Europa e in America (7,10,13). Nel focalizzare la nostra analisi agli ultimi tre anni di osservazione (2014-2016) è emersa una riduzione delle ri-ospedalizzazioni per BPCO nel 2016 rispetto al 2015, tuttavia la percentuale delle donne riospedalizzate, in linea con i dati canadesi (8), è aumentata nel 2016 rispetto al 2015. Nonostante questi dati è emerso che, nel corso del ricovero, gli uomini ricevono approcci terapeutici più specifici e appropriati rispetto alle donne. w Il ruolo delle comorbidità L’importante impatto socio-economico della BPCO è fortemente legato alla presenza delle comorbidità che svolgono un ruolo fondamentale nella progressione della BPCO andando MEDICO e PAZIENTE | 2.2018 |

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medicina

Epidemiologia

a incidere fortemente sulla sopravvivenza e sulla qualità di vita dei pazienti. La prevalenza delle comorbidità nei pazienti con BPCO è stata oggetto di analisi in molti studi condotti nell’ultimo decennio (22-28) con risultati differenti. Nella nostra analisi, la comorbidità più frequente è rappresentata dal diabete mellito; inoltre diabete, fibrillazione atriale, obesità, scompenso cardiaco, ansia e depressione sono più frequenti nelle donne rispetto agli uomini, mentre non ci sono differenze di sesso per l’ipertensione arteriosa che è equamente distribuita nei due sessi (Figure 1,2).

conclusioni La nostra analisi è stata condotta soltanto sulle SDO, che rappresentano sicuramente una reale fonte di informazione che, però, è limitata ai pazienti ospedalizzati; inoltre abbiamo considerato soltanto i pazienti che avevano come diagnosi principale la BPCO e che rappresentano comunque soltanto una parte dei pazienti ricoverati per tale patologia. Potrebbe essere interessante effettuare ulteriori studi volti a valutare anche i pazienti seguiti ambulatorialmente allo scopo di effettuare una ricerca gender-oriented per identificare quelli che sono i determinanti di genere allo scopo di poter intervenire in maniera appropriata sulla prevenzione, la diagnosi precoce e la terapia efficace di tale patologia che interferisce negativamente sulla sopravvivenza e la qualità di vita dei pazienti, con un impatto socio-economico sempre più rilevante.

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Segnalazioni

I Love Life la campagna di sensibilizzazione per “battere” lo scompenso cardiaco onoscere lo scompenso cardiaco significa migliorare la propria qualità di vita e affrontare la propria condizione e il percorso terapeutico in modo consapevole. È questo il messaggio che vuole trasmettere la campagna di sensibilizzazione di Novartis che è stata presentata in un incontro a Milano lo scorso 24 aprile, e che ha preso il via sotto il patrocinio del Ministero della salute e dell’Associazione italiana scompensati cardiaci (AISC). E il messaggio è ben racchiuso nello slogan dell’iniziativa “I Love Life. Il cuore è imprevedibile, lo scompenso no. Curarlo si può. Non lasciare andare la tua vita.” Ma da che cosa nasce la necessità di una campagna di informazione sullo scompenso? Come emerso dall’incontro milanese, si tratta di una sindrome poco conosciuta e dunque sottodiagnosticata e sottotrattata. Ma soprattutto chi ne è affetto, sottovaluta la propria condizione nella convinzione che si tratti di una patologia “non così grave da portare al decesso”. Eppure se andiamo a vedere i dati, la mortalità per scompenso è seconda solo a quella per tumore al polmone e al pancreas. Nella migliore delle ipotesi, un paziente scompensato ha un rischio annuo di decesso dell’ordine del 10 per cento, che salta al 30 per cento se il soggetto subisce un ricovero. È una sindrome subdola e insidiosa, che spesso avanza silenziosamente, e colpisce all’improvviso nel momento in cui si abbassa la guardia. “Una porta che si apre davanti a una gradinata, e mano a mano che si scende, non potendo tornare indietro, ci si avvicina all’abisso. Ogni ricovero rappresenta la discesa di un gradino”. Così Michele Senni, dell’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo descrive lo scompenso, e prosegue “Il paziente ha poca percezione dei rischi, soprattutto quando torna a casa dopo un ricovero; passato l’episodio acuto ‘si sente come prima’ e inizia a trascurare la propria condizione facendosi complice inconsapevole di una progressione silente della patologia”. Conoscere lo scompenso cardiaco significa acquisire consapevolezza sulla severità della sindrome e sull’importanza di rivolgersi tempestivamente a uno specialista, in modo da trovare soluzioni terapeutiche appropriate. Dallo scompenso cardiaco non si può guarire, e questo è un dato di fatto. È certo però, che con le armi terapeutiche oggi a disposizione si può stabilizzare la condizione del paziente, migliorandone la qualità di vita. “Grazie alle recenti innovazioni terapeutiche”, ha sottolineato all’incontro Claudio Rapezzi, dell’Università di Bologna “oggi lo scompenso cardiaco può essere curato

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in modo efficace. Da un anno abbiamo una nuova opzione a disposizione, gli ARNI (inibitori del recettore dell’angiotensina e della neprilisina), la prima dopo 15 anni. Si tratta di molecole che vanno ad amplificare la funzione di sistemi neurormonali in grado di produrre benefici sul lungo periodo”. Gli studi condotti con questa nuova classe di farmaci, di cui il primo rappresentante è il sacubitril/ valsartan (Entresto, Novartis), hanno dimostrato che il trattamento possa prolungare la durata della vita di circa un anno e mezzo in un paziente di 60 anni, con punte che possono raggiungere anche i 2-3 anni, rispetto a quanto finora possibile con le terapie attualmente a disposizione. Il farmaco è indicato nei pazienti con frazione di eiezione ridotta che siano abbastanza stabili ovvero che non abbiano subito un ricovero recente per un episodio acuto; in questa quota di soggetti che rappresentano circa il 30 per cento di tutti i pazienti scompensati, il trattamento è in grado di mantenere la stabilità clinica, ridurre i ricoveri, e prolungare la sopravvivenza. I progressi terapeutici dunque sono concreti, ma il tallone d’Achille dello scompenso resta l’informazione e la sensibilizzazione dei pazienti. Ed è proprio qui che si inserisce I Love Life, che ha per protagonista Cino, un cuore stilizzato che accompagnerà le tante iniziative in programma. La campagna procede su più binari, street art, musica, social media. Nel mese di aprile, nelle piazze di alcune città gli artisti Elena Magenta (Milano), Daniele Tozzi (Roma) e il duo Rosk e Loste (Palermo) hanno creato tre opere d’arte a tema. In parallelo è stata lanciata una pagina facebook (https://www.facebook.com/ AscoltailTuoBattitoITA/) dedicata alla campagna, e dove è anche possibile trovare informazioni sullo scompenso. Sono in programma i “Cino days”, incontri per medici, pazienti e caregiver che toccheranno Sicilia, Campania, Veneto ed Emilia Romagna, e infine tre eventi in piazza a Torino (12 maggio), Napoli (16 giugno) e Verona (29 settembre).


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Segnalazioni

Disturbi associati allo stato ansioso Dalla nutraceutica nuova opzione di trattamento, rapida ed efficace li stati ansiosi rientrano a buon diritto tra i disturbi psichiatrici a maggiore impatto sulla qualità di vita e rappresentano frequente motivo di consulto dal Medico di medicina generale. Tali disturbi però spesso non vengono riconosciuti e di conseguenza non vengono curati. In realtà, la diagnosi di un disturbo d’ansia vero e proprio costituisce una sfida per il clinico, dal momento che si tratta di una condizione multifattoriale. Spesso i pazienti si presentano dal medico con sintomi che non inquadrano un disturbo d’ansia, quanto piuttosto uno stato d’ansia per così dire “sfumato” o borderline, che comunque merita di essere trattato dal momento che crea disagio nella vita sociale e di relazione del soggetto. In queste situazioni, il trattamento più prescritto è a base di ansiolitici e ipnotici, solitamente benzodiazepine (BZD), che stando ai dati si collocano tra i farmaci maggiormente prescritti: le stime indicano che tra gli adulti una quota variabile tra il 25-30 per cento assuma occasionalmente o regolarmente BZD, e il 5-7 per cento lo abbia fatto negli ultimi 12 mesi. Le BZD come anche altre molecole ad azione ansiolitica tuttavia dovrebbero essere impiegate con cautela, soprattutto in relazione agli effetti collaterali di questi farmaci. Spesso infatti lo stato del paziente non ne giustifica l’impiego, che andrebbe riservato a casi selezionati.

Figura 1 Variazione punteggio totale medio HAM-A test

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Il peso dei potenziali effetti collaterali delle BZD ha spinto la ricerca verso nuove frontiere, allargando gli orizzonti e aprendo alla medicina complementare. In particolare, vi sono alcune specie vegetali con note proprietà ansiolitiche come il biancospino e la melissa, che si sono mostrate efficaci sui sintomi associati al disturbo d’ansia. Nell’ambito delle diverse pubblicazioni, molto promettente si è rivelato un integratore alimentare a base di estratti di melissa, biancospino e magnesio (vagostabil®, Cristalfarma), la cui efficacia e sicurezza sono state ulteriormente avvalorate da un recente studio italiano (Sannia A, 2016). Questa esperienza clinica aveva l’obiettivo non solo di confermare i dati di efficacia del prodotto, ma anche saggiarne la rapidità d’azione in pazienti affetti da disturbi correlati a stati ansiosi borderline. Vi hanno preso parte 40 soggetti (età media 47±11 anni; 72,5 per cento donne) che in aperto hanno ricevuto vagostabil® 1 compressa x3/die, per 24 giorni. I partecipanti sono stati arruolati nello studio sulla base dei criteri previsti dal DSM-IV per i disturbi d’ansia generalizzata, e le valutazioni sono state eseguite al basale (T0), a 12 giorni (T12) e a 24 giorni (T24). Al basale tutti pazienti riferivano una sintomatologia moderata, e i sintomi a maggiore impatto erano lo stato ansioso, la tensione, i sintomi cardiovascolari e i comportamenti nel colloquio. Questa sintomatologia andava progressivamente diminuendo, durante il trattamento. Già dopo 12 giorni di terapia, si osserva una riduzione statisticamente significativa nel punteggio totale medio dell’HAM-A (Hamilton Anxiety Rating Scale) che risulta dimezzato rispetto al valore iniziale di 7,39 (p <0,001), per arrivare a uno score finale (a 24 giorni) di 2,05 (Figura 1). Per ciascun sintomo analizzato (stato ansioso, tensione, comportamenti nel colloquio, disturbo CV di natura piscosomatica) si è osservato un trend in continua riduzione. I risultati mostrano che con l’andare del tempo la percentuale di soggetti che al T0 mostrava un sintomo moderato diventa nulla a T24, con un netto miglioramento già a T12. In parallelo, vagostabil® ha mostrato un ottimo profilo di tollerabilità, e non è stato osservato alcun effetto avverso significativo. Questa esperienza clinica di fatto oltre a confermare l’efficacia del prodotto, ne evidenzia la rapidità d’azione e la tollerabilità, e pertanto vagostabil® potrebbe rappresentare una valida opzione di trattamento per tutti quei pazienti che lamentano disturbi psicosomatici ascrivibili a stati ansiosi borderline.


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L’inefficiente assorbimento del calcio: perché? Una prospettiva evoluzionistica assorbimento di calcio (Ca2+) è soggetto all’influenza di molteplici fattori, tra cui gli ormoni (ormone paratiroideo, l’ormone della crescita durante l’infanzia e l’adolescenza e gli estrogeni), i livelli di vitamina D e la presenza di nutrienti che interferiscono con l’assorbimento intestinale. Indipendentemente da ciò che possa alterarne la ritenzione, l’assorbimento di Ca2+ è comunque sempre incompleto e, anche in condizioni fisiologiche ottimali e in giovane età, si attesta intorno al 35 per cento di quello introdotto. Questa relativa inefficienza è probabilmente dovuta a un retaggio dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori presenti nel tardo paleolitico, periodo il cui inizio risale a circa 30.000 anni fa. L’evoluzione dei primati ha avuto luogo in un ambiente con sovrabbondanza di Ca2+ e vitamina D; come conseguenza, l’organismo si è adattato mettendo in atto azioni che potessero prevenire i potenziali danni da eccesso da entrambe queste sostanze. Per quanto riguarda la vitamina D, i sistemi protettivi sono la pigmentazione della pelle che assorbe le lunghezze UV critiche per la sintesi, riducendo quindi la sintesi del colecalciferolo stesso e il lento rilascio della vitamina al circolo sanguigno che lascia l’eccesso della vitamina nella pelle esponendolo alla degradazione per fotolisi solare. Per il Ca2+, invece, l’adattamento evolutivo si è concretizzato in un assorbimento inefficiente che si riflette in perdite obbligatorie tramite le urine e le feci, nonché nella perdita non regolata attraverso la pelle. La migrazione dall’Africa a latitudini più elevate e l’introduzione dell’agricoltura sono due cambiamenti importanti verificatisi nel corso dell’evoluzione: la prima ha ridotto la sintesi di vitamina D e la seconda il contenuto di Ca2+ nella dieta. Se oggi la nostra alimentazione si può suddividere in quattro gruppi base – carne e pesce, vegetali e frutta, latte e latticini, pane e cereali- la suddivisione percentuale in alimenti della società nomade di cacciatori-raccoglitori del tardo paleolitico era suddivisa in due gruppi, il 65 per cento circa di origine vegetale e il 35 per cento di origine animale. Questa società, infatti, si sosteneva cacciando animali e raccogliendo frutta e verdura selvatica. Paradossalmente, per quanto non assumessero latticini, la loro dieta conteneva più Ca2+ di quello normalmente riscontrato nelle diete occidentali odierne.

Gli uomini dell’età della pietra avevano picchi di massa ossea elevati, probabilmente un riflesso non solo dell’elevata assunzione di Ca2+,ma anche dell’intensa attività fisica, come dimostrato dalla notevole quantità di massa magra sviluppata. Per quanto poche, le evidenze disponibili suggeriscono che la perdita ossea legata all’età fosse minore di quella che sperimentiamo oggi. L’adozione dell’agricoltura, circa 10.000 anni fa, dovuta soprattutto alla pressione per l’aumento della popolazione, ha cambiato nettamente l’apporto di calcio nella dieta. La coltivazione e il consumo dei cereali hanno contribuito alla riduzione dell’assorbimento di Ca2+ e, in concomitanza all’avvento delle abitudini sedentarie della popolazione, la riserva di piante selvatiche, tuberi e radici ricche in Ca2+ si è ridotta in modo consistente. Data la sua sovrabbondanza nel corso dell’evoluzione, non si è sviluppata una pressione selettiva per conservare il calcio e il nostro organismo ha pertanto ereditato una modalità poco economica di gestire lo ione. In particolare, la quantità di Ca2+ necessaria per raggiungere un bilancio positivo è influenzata dagli altri costituenti della dieta. Un’alimentazione ricca di proteine e sodio, ad esempio, determina una perdita obbligatoria dello ione. Le proteine sono legate a un bilancio negativo del Ca2+ a causa di un aumento dell’acidosi: questo nel paleolitico era compensato dall’elevata assunzione di potassio (10,00 mg/die per circa 3.000 Kcal/die), elemento alcalinizzante che probabilmente esercitava un effetto benefico sull’osso. Il mantenimento dell’osso era anche garantito dalla carenza in sodio, che aumenta l’escrezione urinaria di Ca2+ e che era circa 5 volte minore di quello assunto oggi in Italia. Queste differenze che, in un ambiente dove l’assunzione di Ca2+ è elevata, possono non avere alcun effetto, possono però essere limitanti in soggetti con basso introito di calcio. Per quanto le abitudini siano cambiate, non vi è stato un adattamento genetico-fisiologico della popolazione alla riduzione alimentare dell’introito di calcio, e ancora oggi manteniamo le vestigia dei nostri antenati del tardo paleolitico e abbiamo un assorbimento ridotto del minerale. Riferimento bibliografico Question Time Tabloid integratore in Medicina generale 2018; n. 1. Pacini Editore Srl Pisa

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