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Prefazione di Curzio Maltese
«Vi è mai capitato di vedere in televisione Tremonti? Avete mai notato che ogni volta che il Nostro risponde a una domanda, specie se pensa di aver assestato un bel colpo al suo avversario con una dichiarazione brillante, subito stringe leggermente le labbra e il volto assume un atteggiamento di attesa, come il bambino che si aspetta che i grandi gli dicano: “Bravo Giulietto”. Ecco, in quei momenti ci si immagina subito un bambino, appunto, bello, biondo, con la banana in testa e due pon pon che gli penzolano sotto il collo, che è sempre vezzeggiato per la sua bellezza. Poi lo si vede un po’ cresciuto che, prima ancora di andare a scuola, sa già tutte le capitali a memoria, conosce molte cose che non sanno neanche i bimbi più grandi. Gli adulti gli dicono applaudendo: “Bravo Giulietto”. E così fino all’età adulta». Una volta letto il ritratto di Giovanni La Torre è difficile togliersi dagli occhi quella immagine, per tutto il libro e anche quando capita di incontrarlo di persona, il superministro. L’infantilismo era anche la chiave della geniale imitazione di Tremonti fatta da Corrado Guzzanti ne Il caso Scafroglia. Un bimbetto in zuava che si giocava la Puglia alla slot machine per cercare di far tornare i conti pubblici. Un personaggio puerile, con picchi improvvisi di crudeltà. Come quando tirava sotto un pedone e, prima di chiamare l’ambulanza, si chinava per chiedergli: «Ma almeno lei ce l’ha la carta di credito?». Allora infat7
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ti Tremonti era un “mercatista”, per usare il suo sprezzante neologismo, anche se oggi nega di esserlo mai stato. Perché Tremonti è stato tante cose, socialista, di destra, antileghista e leghista, liberista e antiliberista, europeista e antieuropeista, tutto e il contrario allo stesso tempo. L’assenza di memoria storica e la mancata assunzione di responsabilità sono elementi psicologici classici delle classi dominanti in Italia. L’ultima vi ha aggiunto un tocco di vanagloria puerile. Silvio Berlusconi non si fa scrupolo di presentarsi come il «miglior presidente del Consiglio che abbia avuto l’Italia in 150 anni». Il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, ha confessato con un sospiro durante una puntata di Matrix che il suo gran rimpianto è non aver potuto vincere il Nobel per l’economia, cui ha dovuto rinunciare per amore della politica. E al povero Enrico Mentana, che obiettava basito: «Ma è proprio sicuro di quello che dice?», Brunetta replicava ergendosi sulla poltrona: «Senza dubbio!». Giulio Tremonti si considera un mirabile punto di sintesi fra il genio amministrativo di un Quintino Sella e quello profetico di Nostradamus. La differenza rispetto ai colleghi è che il suo bluff funziona molto meglio. Mentre davanti alle vanterie di Berlusconi e Brunetta chiunque abbia sfogliato qualche libro non può fare a meno di ridere, il Tremonti profeta della crisi e filosofo dei nuovi mondi gode di un inspiegabile credito anche presso ambienti intellettuali, anche di sinistra. La Torre si chiede a un certo punto se alcuni sorprendenti elogiatori dell’opera tremontiana, come Fausto Bertinotti e i vescovi, si siano mai davvero cimentati con la non piacevolissima lettura dei libri del ministro. Per quanto riguarda i vescovi, mi sento di rispondere di sì. Sono persone serie che non parlano di libri mai letti. Ma la chiesa cattolica deve tanto a Giulio Tremonti, inventore del truffaldino meccanismo dell’8 per mille, ai tempi in cui era consulente di Bettino Craxi, che sarebbe un vero delitto d’ingratitudine avanzare riserve sulle sue sgangherate teorie economiche. Quanto a Bertinotti, qualche sospetto è lecito, ma è sicuro che il rivoluzionario in cashmere abbia colto delle affini8
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tà elettive con l’avversario, per non dire una solidarietà fra venditori di fumo. Questo libro smaschera il bluff del Tremonti profeta della crisi con una tale massa di argomenti da lasciar a bocca aperta anche i critici più feroci del tremontismo. Il superministro ne esce come una figurina misera e dilettantesca, uno dei tanti miracolati del padrone di Arcore, un bravo e magari astuto commercialista sbalzato dal corto circuito del berlusconismo alla guida di una delle grandi economie del pianeta, senza averne la preparazione e qua e là neppure la consapevolezza. Ed è forse per giustificare tale inadeguatezza che il Nostro partorisce attraverso una rocambolesca prosa libri la cui funzione essenziale, una volta smontati i meccanismi retorici, appare quella di glorificare l’autore con l’invenzione di un glorioso curriculum intellettuale. Opere nelle quali Tremonti non esita, sfidando il ridicolo, a entrare in furibonda colluttazione con entità immense, la Cina, l’Europa, l’America, senza contare giganti del pensiero economico come Marx e Keynes, dei quali sì è lecito domandarsi se li abbia mai davvero letti. E ne esce ogni volta vincitore, auto proclamato s’intende. Eppure i libri di Tremonti hanno successo e riscuotono perfino un certo credito intellettuale. Tanto da meritarsi la meticolosa confutazione di Giovanni La Torre. Perché? Dove Tremonti è davvero efficace è nell’usare la retorica, le dinamiche, gli stilemi del populismo. Si parla spesso di pensiero dominante o pensiero unico. Ma il populismo non è un pensiero, è linguaggio. Un linguaggio unico, nel quale siamo immersi in Italia da anni. Non soltanto per colpa di Berlusconi e del berlusconismo. Il populismo, in estrema sintesi, fa questo. Sostituisce la reale complessità dei problemi contemporanei con una finta complessità, per arrivare infine a spiegare ogni problema con una teoria del complotto. Le crisi cicliche del capitalismo, per esempio, non vengono attribuite al cattivo funzionamento del sistema, ma alla responsabilità di singoli o collettivi agenti provocatori infiltrati nel sistema. In questa caccia all’untore Tremonti è un maestro. Senza l’ombra di un argomento razionale, concentra di volta in 9
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volta tutte le colpe, «a prescindere» come direbbe Totò, su obiettivi specifici. Purché lontani dal suo mondo di riferimento, la piccola borghesia padana la cui massima aspirazione culturale è trasformare il Nord Italia in un gran Canton Ticino. Quindi il nemico può essere incarnato dai cinesi, dai burocrati di Bruxelles, dagli immigrati come dai super manager di Wall Street. Sono loro i responsabili della peste economica. Una volta eliminati, a colpi di forcone magari, tutto riprenderà per il meglio e si potrà tornare a vivere felici e contenti, come nelle fiabe. Ma il nemico più nemico, il diavolo in terra, è la sinistra. I “comunisti”. Anche oggi che non ci sono più. Anzi, da morti sono ancora più pericolosi. La crisi economica del resto non è stata causata dal trionfo del turbo capitalismo applicato da Reagan e Thatcher, ma al contrario, nella vulgata tremontiana, dalla vendetta postuma del comunismo. Che dire di fronte a queste acrobazie? Con questo rovesciamento retorico Tremonti pensa di risolvere un nodo della storia di questi vent’anni. Una storia dove la destra ha quasi sempre governato, ma la sinistra alla fine ha avuto quasi sempre ragione. L’ultimo G8 ha di fatto adottato molte idee e analisi del movimento “no global” nato a Seattle dieci anni prima, e gli slogan per i quali i giovani manifestanti erano stati picchiati a sangue. La crisi economica, la necessità di tornare all’intervento statale, la conversione al welfare dell’America di Obama, il fallimento delle guerre in Iraq e Afghanistan, sono tutti temi sui quali la sinistra, o almeno i movimenti di sinistra, hanno avuto lo sguardo lungo che è mancato ai governi di destra. Ma naturalmente Tremonti, che in quella storia sbagliata ha avuto una parte rilevante, come ministro dell’Economia di una grande nazione, non ha il coraggio di assumersi le responsabilità. E allora nega, ribalta la realtà, lancia i pogrom, secondo gli schemi classici del populismo. Una volta smontata la favola del Tremonti profeta, non rimane che giudicare il personaggio non per quello che ha detto e scritto (tutto e il suo contrario) ma per quello che ha fatto come uomo di governo. Il profeta della crisi era uno che nei governi 10
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Berlusconi ha sempre dipinto l’Italia «alla vigilia di un nuovo miracolo economico». Il critico dell’Europa imbelle è uno che ha sempre fiancheggiato la Lega di Bossi nella battaglia contro lo «strapotere dei burocrati di Bruxelles». Il demolitore del neo liberismo è uno che ha sempre sostenuto i tagli al welfare e la ricetta del «meno Stato, più mercato». Ma Tremonti è stato soprattutto quello dei condoni. Se c’è qualcosa per cui passerà alla storia è questo atto rituale compiuto un’infinità di volte, nel quale si condensa tutto il pensiero economico del berlusconismo: il condono. Ovvero il premio all’Italia dei furbi e dei corrotti, contro l’Italia onesta e produttiva. L’incoraggiamento alla più alta evasione fiscale dell’Occidente, all’economia del sommerso e delle mafie. Un modo, il peggiore, per assecondare, anzi per accelerare il declino italiano. Ma non illudiamoci che la classe dirigente possa essere chiamata a rispondere di queste gravissime responsabilità. Ci sarà sempre un condono anche, soprattutto per loro.
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