STUDI DI
MEMOFONTE Rivista on-line semestrale 3/2009
FONDAZIONE MEMOFONTE Studio per l’elaborazione informatica delle fonti storico-artistiche www.memofonte.it
COMITATO REDAZIONALE
Proprietario Fondazione Memofonte onlus
Direzione scientifica Paola Barocchi Miriam Fileti Mazza
Comitato di redazione Irene Calloud, Alessia Cecconi, Vaima Gelli, Martina Nastasi
Cura redazionale Irene Calloud, Alessia Cecconi
Ristampa ottobre 2015
Segreteria di redazione Fondazione Memofonte onlus, Via de’ Coverelli 4, 50125 Firenze info@memofonte.it
INDICE
M. Fileti Mazza, Verità nascoste
p. 1
V. Gelli, Documenti riccardiani: diario di un progetto di archiviazione informatica
p. 2
E. Vaiani, Monete, medaglie, gemme e piccole antichità: la Collezione delle anticaglie dei Riccardi negli «armari» della Galleria
p. 9
C. Tombini, La Biblioteca Riccardiana, un percorso storico attraverso la formazione dei suoi cataloghi
p. 23
L. Simonato, «Il credulo Sandrart». La ricezione della Teutsche Academie (e le sue riedizioni) tra Sette e Novecento
p. 33
C. Pasquinelli, Il rapimento della Venere dei Medici nel 1802: un episodio ancora da chiarire
p. 54
E. Pellegrini, Le arti di William Roscoe: biblioteca e collezione (II parte)
p. 70
L. Berretti, Sulla Collezione grafica della Biblioteca Marucelliana dal 1804 a Nerino Ferri
p. 88
G. Bacci, Da Sussi e Biribissi a Mazinga: l’Archivio Salani come risorsa per la storia dell’illustrazione in Italia
p. 103
M. Nastasi, A. Salani, Un metodo di studio per le guide storiche di Roma e Pisa: strumenti, prassi e implicazioni della ricerca
p. 117
Miriam Fileti Mazza _______________________________________________________________________________
VERITÀ NASCOSTE Il terzo numero della nostra rivista continua il percorso già iniziato integrando i progetti di ricerca della Fondazione, con i contributi di coloro che vi lavorano insieme ad altri di giovani studiosi comunque attinenti per tematiche o metodologie. Tre saggi illustrano aspetti del programma sul collezionismo riccardiano che arricchisce la storica sezione di studi dedicati a quello mediceo. Oltre all’inquadramento strutturale e metodologico del progetto, reso possibile dal cofinanziamento dell’Ente Cassa di Firenze, si è scelto due aspetti che tra i molti connotano la collezione, quello delle anticaglie e quello della biblioteca della famiglia. La ricognizione e le trascrizioni dei molti inventari della raccolta Riccardi, saranno oggetto di successivi approfondimenti che nel tempo potranno tessere un’adeguata trama di relazioni per una storia che ancora necessita di considerazione critica. I saggi su Sandrart, Roscoe e la politica del direttore della Galleria fiorentina Tommaso Puccini, confermano alcuni interessi già intrapresi da ricerche memofontiane aprendo le pagine della rivista ad utili addende e inedite citazioni documentarie. Le arti visive e l’attenzione al figurativo trovano nei contributi sulla collezione grafica della Biblioteca Marucelliana e sull’archivio della Casa Editrice Salani, uno spazio che aggiorna su due importanti realtà del nostro patrimonio culturale. Mentre il primo caso si dispone ad approfondimenti e legami con altre collezioni fiorentine, non ultimo lo studio dei rapporti con il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, il secondo si sviluppa nel vivace contesto del Laboratorio delle Arti Visive della Normale di Pisa, indirizzando un progetto composito che contribuirà fortemente alla storia dell’illustrazione italiana. L’indice di questo terzo numero si conclude con un saggio che si riallaccia al programma di una didattica di orientamento metodologico perseguito dalla Memofonte e avviato ad una puntuale attività futura. Lo svolgimento del Corso di Alta Formazione di San Miniato, dedicato proprio alle Guide storiche, e la raccolta di dispense funzionali alla frequenza dei seminari, necessitavano di una finale riflessione che evidenziasse le principali istanze di questa nostra esperienza d’insegnamento.
Studi di Memofonte 3/2009
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Documenti riccardiani: diario di un progetto di archiviazione informatica _______________________________________________________________________________
DOCUMENTI RICCARDIANI: DIARIO DI UN PROGETTO DI ARCHIVIAZIONE INFORMATICA
La ricerca sul collezionismo di oggetti d’arte e di libri dei Riccardi è nata dalla necessità di porre maggiormente in luce il ruolo di una delle famiglie più autorevoli sia economicamente, sia politicamente nell’area cittadina e non, che nel corso di circa tre secoli ha sapientemente indirizzato le scelte di gusto e di collezionismo con l’intento di rafforzare la propria autonomia e prestigio. Molti ed esaustivi sono stati gli studi sui beni della famiglia Riccardi, sviluppati spesso focalizzando l’interesse verso la Galleria di Luca Giordano e la Biblioteca1, altri importanti contributi hanno già mostrato l’orientamento dei Riccardi verso l’antiquaria. L’intento è stato di porre a disposizione degli studiosi una selezione di fonti di diversa natura che permettesse di tracciare un percorso storico delle collezioni riccardiane, mostrando come il prestigio culturale fosse il suggello di un riconoscimento sociale acquisito rapidamente e mantenuto fino agli inizi del XIX secolo. Tale prestigio è oggi testimoniato materialmente da una biblioteca che pur essendo inserita in un tessuto cittadino ricco di storiche raccolte librarie, si distingueva da queste mostrando una propria personalità, riflesso degli interessi per la bibliofilia dei diversi membri della famiglia. Se la permanenza materiale di una biblioteca rende possibile ricostruire la passione per i libri della casata, anche partendo dagli oggetti materiali, analogo ragionamento non è altrettanto facilmente applicabile alla raccolta e ricerca di oggetti d’arte, come disegni, dipinti, antichità, cammei, monete e opere di glittica, la cui sorte nel corso di tre secoli ha seguito le alterne fortune dei Riccardi, con una dispersione sul mercato collezionistico internazionale, dove l’integrità del bene resta testimoniata solo dalla carta scritta. Il corpus principale delle fonti documentarie sulle fortune di questa famiglia è conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze, altre testimonianze sono invece tuttora custodite presso la Biblioteca Riccardiana2. Tra i materiali dell’Archivio di Stato due sono i fondi principali presi in esame, il fondo Riccardi e il fondo Mannelli Galilei Riccardi che raccolgono diverse tipologie di documenti. Data la mole di informazioni rinvenute è stato necessario limitare cronologicamente e geograficamente il materiale da esaminare. La data spartiacque presa a riferimento è il 1612, anno dell’inventario in morte di Riccardo Romolo Riccardi3, vero iniziatore di una raccolta dinastica oltre che uno dei massimi artefici delle fortune familiari, che non solo aveva ottenuto riconoscimenti nel mondo culturale fiorentino come letterato e poeta, ma era riuscito anche a ricevere vari incarichi prestigiosi dal granduca rappresentandolo in varie spedizioni internazionali a Danzica, Lubecca e secondo alcune memorie, non suffragate dal Lami e da altri documenti, anche a Costantinopoli. Il progetto è stato realizzato con il contributo dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze e con la collaborazione del personale della Biblioteca Riccardiana e dell’Archivio di Stato di Firenze. Le ricerche sono state svolte dal gruppo di lavoro della Fondazione Memofonte onlus con la collaborazione di Vaima Gelli, Elena Vaiani, Désirée Cappa, Claudia Tombini, Felice Mastrangelo e Federica Giacobbe. Tutte le risorse sono consultabili su www.memofonte.it, nella sezione Collezionismo Riccardiano. 1 Una sintetica ricostruzione storica sulla Biblioteca e su suoi cataloghi viene di seguito proposta da Claudia Tombini in questo numero della rivista Studi di Memofonte. 2 Altri documenti, tra cui alcune copie di quanto conservato presso l’Archivio di Stato, si trovano nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. 3 ASF (Archivio di Stato di Firenze), Mannelli Galilei Riccardi 294, ins. 31-32. La filza riporta il testamento di Riccardo Riccardi rogato da Andrea Andreini il 25 gennaio 1611, a cui è acclusa la copia siglata in data 13 luglio 1611. ASF, Riccardi 258, Inventario in morte di Riccardo Romolo Riccardi con l’intestazione che riporta «Inventari. Questo libro coperto di carta pecora bianca, intitolato Libro d’inventari, servirà per notarvi tutti i beni mobili et immobili, et effetti di qualunque sorte trovati alla morte dell’illustrissimo signore Riccardo Riccardi B.M., seguita a dì 25 di Gennaio 1611, tanto appartenenti al detto signor Riccardo, quanto al clarissimo signor Francesco Riccardi suo fratello».
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Vaima Gelli _______________________________________________________________________________
Riccardo Romolo, lasciando il patrimonio familiare vincolato con fidecommisso 4, scelta giuridica applicata oltre che alle ricchezze fondiarie anche alle collezioni di arte e libri, aveva mostrato la precisa strategia politica mirata ad una maggior dignità sociale; segno di una ricchezza non solo economica e di recente formazione, ma anche di uno status culturale di primo rango5. Dopo l’acquisto nel 1569 del palazzo Mediceo di via Larga, strumento di potere come contenitore ma anche e soprattutto come contenuto, la volontà di fare della collezione di famiglia un simbolo della posizione raggiunta fu ribadita col motuproprio di Sua Altezza Reale Cosimo III, che concedeva in via eccezionale il trasporto delle statue, medaglie e antichità esistenti nel palazzo e nel giardino di Gualfonda alla residenza di via Larga, concessione fatta dal granduca al marchese Francesco Riccardi6. Se l’inizio del collezionismo riccardiano è fatto coincidere con la politica di Riccardo Romolo, la chiusura definitiva di questa politica è segnata dalla decadenza economica della casata che ha portato nei primi anni dell’Ottocento alla messa all’incanto delle raccolte disperdendole nella loro consistenza materiale. Nell’economia del progetto, una volta delineato l’ambito cronologico era necessario limitare anche geograficamente il raggio delle indagini. Le numerose ville e residenze di campagna facenti parte del patrimonio Riccardi, come Chianni, Empoli, Careggi ecc., sono state fin dall’inizio escluse dall’indagine che non poteva avere un carattere esaustivo su un intero percorso collezionistico così ampio e ramificato. Circoscrivere a quanto era custodito nei palazzi fiorentini, Gualfonda prima e via Larga poi, è sembrata la scelta più opportuna, concentrando l’attenzione verso i beni legati alla sede di rappresentanza della casata. Dopo aver notevolmente limitato l’ambito degli studi, consapevoli dei limiti che tale modus operandi imponeva poiché talvolta beni di siffatta tipologia non hanno sempre avuto una sistemazione fissa e stabile, si è proceduto ad una ricognizione su quanto documenta la conservazione di oggetti artistici e libri, sia manoscritti che a stampa, trascurando le notizie relative agli affreschi di Luca Giordano già ampiamente studiati e contestualizzati dalla critica del XX secolo. Il materiale archivistico a disposizione conta documenti di vario tipo, che nelle strutture compilative già esplicitano la qualità delle informazioni con una particolare attenzione ad una ‘gerarchia storica’ della comunicazione. La tipologia che maggiormente guida la ricostruzione cronologica del patrimonio riccardiano è costituta dagli inventari topografici, che permettono di ricreare l’aspetto ambientale con riferimenti settoriali agli interni e alle aree esterne come cortili e giardini della residenza cittadina. Tale architettura trova applicazione anche per le dimore sul territorio che, mantenendo sempre il riferimento topografico, integra e completa tale livello di referenza. Gli inventari tipologici (Fig. 1), dove si raccolgono gli oggetti classificandoli secondo categorie dettate dall’erudizione settecentesca offrono al lettore contemporaneo un insieme non sempre omogeneo di dati, facendo trovare lo studioso di fronte ad elenchi insoliti dove si abbinavano manufatti, matericamente diversi, classificati senza comprenderne e riconoscerne l’esatta cronologia e funzionalità. Mentre per la pittura e i libri, il rigore dell’uniformità tipologica è ampiamente rispettato, per le arti minori e l’antiquaria, la compilazione varia nel livello informativo. Ad esempio troviamo vicine voci che hanno uno sviluppo descrittivo dell’iconografia e delle consistenze materiali a segnalazioni della presenza dell’oggetto, offrendo lo spunto per un recupero del contesto culturale da cui sono stati prodotti. Pratica già adottata nel 1568 da Giovanni Riccardi solo riguardo i beni fondiari. L’utilizzo di questo strumento giuridico si stava affermando come prassi diffusa tra XVI e XVII secolo in tutta Europa giacché atto a garantire la stabilità di una ricchezza familiare, dove gli eredi di fatto godevano in usufrutto del patrimonio avito senza poterlo intaccare o disperdere. 5 Tale desiderio di ascesa familiare venne perseguito anche con un’attenta politica matrimoniale che portò i Riccardi a legarsi ad alcune delle più antiche famiglie nobiliari fiorentine e non, tra cui gli Spada, i Capponi, i Valori. 6 ASF, Mannelli Galilei Riccardi 346, ins. 19 del 1687. 4
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Documenti riccardiani: diario di un progetto di archiviazione informatica _______________________________________________________________________________
Le note di acquisto7 dei singoli membri della famiglia furono raccolte senza seguire alcun ordine tipologico o strettamente cronologico, trattandosi per lo più di serie di biglietti che attestano ingressi di dipinti, ma soprattutto di libri e di antichità, che documentano la ramificazione territoriale degli interessi collezionistici, rendendo noti i nomi di intermediari che lavorarono a servizio di Gabbriello, esperti ed eruditi come Tommaso Puccini, e facendoci conoscere il valore economico della valutazione patrimoniale e di un’eventuale stima necessaria per scambi e alienazioni.
Fig. 1 ASF, Riccardi 2761.1B, Indice dell’Inventario di Vincenzio Riccardi 1752.
I diari di spese8, una tipologia documentaria generalmente per altre dinastie o casate affidata a funzionari o segretari guardarobieri, nel nostro contesto redatti invece spesso direttamente dai Riccardi in prima persona, informano sulle uscite giornaliere riunendo riferimenti non solo alle voci di spesa di gestione e manutenzione, ma anche e frequentemente sulle acquisizioni di oggetti d’arte, riportando i nominativi degli intermediari a servizio del mecenate (Fig. 2). L’indagine sugli inventari topografici ha ovviamente trascurato di toccare le suppellettili e i beni di consumo, selezionando solo le voci di interesse artistico, cercando però di testimoniare lo sviluppo della raccolta sotto i singoli membri della famiglia. Dopo l’Inventario ASF, Riccardi 237. Son qui raccolti molti dei biglietti di pagamento effettuati da Gabbriello Riccardi in un periodo di circa un trentennio, relativi quasi esclusivamente alla collezione di libri che rendono noti i numerosi contatti con librai locali, Orlando Finocchi, Giovanni Canovai, Girolamo Bianchi oltre al noto Gregorio Pagani che curava anche i lavori di sistemazione delle legature dei volumi acquisiti. 8 BRF (Biblioteca Riccardiana di Firenze), Riccardi 3485, dove sono registrate le spese di Gabbriello Riccardi nel periodo compreso tra il 1780 ed il 1793, che ci informano sugli incarichi per restauri di dipinti e acquisizioni di oggetti d’arte, da cui emerge tra tanti il nome di Weber come intermediario per medaglie e stampe. 7
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Vaima Gelli _______________________________________________________________________________
degli inventari del 1612, è stato preso in esame quello di Cosimo Riccardi redatto nel 16489; quello di Francesco Riccardo del 167610; il quaderno che raccoglie inventari di varie residenze compilati tra 1677 e 169911; quello del 171512; il libro di inventari di Vincenzio Riccardi13 e quello del 175314. Sulle altre fonti invece è stata proposta una trascrizione completa, per mantenere il tessuto testuale reso leggibile allo studioso moderno grazie l’adeguamento dello scritto a norme redazionali e omologando le fonti con un’ortografia moderna e leggibile grazie anche allo sviluppo delle abbreviazioni in modo specifico per le unità di misura e monetazione, rispettando altresì l’impostazione grafica delle fonti.
Fig. 2 BRF, Riccardi 3589, Nota di spese di Gabbriello Riccardi 1780-1793, c. 25.
Per mostrare come la mole di informazioni resa disponibile sul sito della Fondazione Memofonte, possa servire da riscontro per lo studio della storia del collezionismo e delle fortune di alcune tipologie di beni, risulta naturale focalizzare l’attenzione sui documenti relativi ai piccoli oggetti, manufatti che oggi rientrano nella categoria delle arti minori e che
ASF, Riccardi 261. Inventario di tutti i beni mobili, immobili, semoventi, masserizie, argenterie, gioie et altro, che si ritrovano nella eredità della B.M. dell’illustrissimo signor marchese Cosimo Riccardi [...] Inventario topografico, che nelle camere elenca anche alcuni dipinti del 1648. 10 ASF, Riccardi 264. Inventario di masserizie [...] del palazzo del giardino di Francesco Riccardi del 1676. 11 ASF, Riccardi 267. Quaderno d’inventari, dove si riportano tra gli altri quello del palazzo di via Larga a c. 237 e quello del giardino di Gualfonda a c. 176. 12 ASF, Riccardi 272. Inventario delle masserizie del palazzo di via Larga del 1715. 13 ASF, Riccardi 276. Raccoglie gli inventari di Vincezio Riccardi. 14 ASF, Riccardi 274. Inventario delle masserizie, mobili, argenti stagni ecc esistenti nel palazzo di via Larga degli illustrissimi signori marchesi Riccardi a cura di Marc’Antonio Frecchioni, guardaroba, principiato q. dì ... [sic] del 1753. 9
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attrassero l’attenzione di molti collezionisti nel XVIII secolo15. Queste fonti riguardano in primo luogo gli oggetti conservati negli armadi del palazzo di via Larga16, armadi sulla cui realizzazione ha ampiamente ricostruito le vicende de Juliis17, destinati ad accogliere i pezzi di maggior pregio della collezione; queste raccolte ci sono ben note anche grazie alle descrizioni e i rendiconti di viaggio di eruditi e viaggiatori settecenteschi18 che hanno dato notizia di come questi venissero aperti per mostrarne i tesori in occasione delle visite di personaggi illustri. La letteratura artistica che ha finora indagato questo ramo del collezionismo Riccardi, ha posto in luce le singolarità delle scelte, focalizzando anche l’attenzione sulla piccola raccolta di avori bizantini facente parte di questa serie; raccolta iniziata già con Riccardo Romolo e proseguita negli anni dai successori19, mostrando la casata fiorentina come una delle più interessate al reperimento di opere di cultura bizantina, la cui notorietà trovava cassa di risonanza nelle descrizioni datene dal Lami nelle Novelle Letterarie e che erano oggetto di interesse grazie anche alle illustrazioni a stampa inserite nel Thesaurus veterum dypthicorum20 di Gori e Passeri21. Questo interesse era visto dagli studiosi come segno della grandezza intellettuale dei Riccardi ma potrebbe altresì essere letto come naturale conseguenza di una famiglia intenzionata a dotarsi di una prestigiosa raccolta di oggetti d’arte che necessariamente doveva differenziarsi dalle tipologie medicee, sul cui piano non avrebbe potuto competere e, al contempo, potremmo dire che erano scelte guidate da motivazioni contingenti come la presenza dei Riccardi a Venezia e Livorno, città luogo di scambio e porto franco, snodo centrale nel commercio di beni non solo artistici22. Una rilettura dei documenti già noti corregge una prima interpretazione delle scelte collezionistiche riccardiane che attribuiva un valore di eccezionalità ai manufatti ivi conservati. Ad esempio se poniamo a confronto diversi documenti23 con le memorie di Gibbon24 che Uno studio dettagliato sulle fonti relative al collezionismo di gemme, cammei, numismatica e medaglistica viene proposto in questo numero della rivista Studi di Memofonte da Elena Vaiani. 16 Era stato Francesco Riccardi a dare a tali pezzi una sistemazione stabile in armadi poiché prima erano conservati nella guardaroba di palazzo. 17 DE JULIIS 1984, p. 238. De Juliis ricorda che tali armadi vennero fatti pervenire in Galleria da Roma e fatti rimontare da artigiani locali. Destinati ad accogliere i pezzi di maggior pregio della collezione le descrizioni e i rendiconti di viaggio, riportano notizia di come questi venissero aperti per mostrarne i tesori in occasione delle visite di personaggi illustri. 18 COCHIN 1756; GIBBON 1965; MONTESQUIEU 1971; DE BROSSES 1973. 19 DE JULIIS 1978, pp. 144-156. 20 GORI-PASSERI 1759. 21 Inventario di gemme, monete, cammei e intagli composto da sette inserti redatti in anni diversi tra 1705 e 1759, documenti con struttura disomogenea che restituiscono ciò che era conservato negli «armari» della Galleria del palazzo. Nella descrizione delle medaglie vediamo adottata la tradizionale classificazione per soggetto iconografico, raggruppandole tra medaglie di sovrani, di pontefici, uomini illustri, città e organizzandole in ordine alfabetico, suddivise per materiali. L’elenco di intagli e cammei è organizzato in quattro tavole, che si raccolgono in due inserti e che sono redatte nel 1707 riportando una breve descrizione iconografica dei pezzi e delle materie trattate. A questi inserti ne seguono altri redatti in anni più tardi e relativi a oggetti metallici e statuette, alcune provenienti da Roma e anticaglie tra cui vengono inseriti pezzi di diversa natura, dittici in avorio, cristalli, bassorilievi e ritratti in rame, di cui viene data una dettagliata descrizione iconografica e materiale. 22 Sull’interesse degli eruditi e collezionisti settecenteschi verso gli antichi avori, e nello specifico i dittici, è utile fare uno spoglio di quanto è riportato in questi anni sul Giornale de’ Letterati, rivista di varia erudizione che toccava interessi di vario genere, letterario, scientifico e storico-artistico che dava notorietà di quanto di nuova circolava in ambito letterario come l’uscita del volume voluto da Anton Francesco Gori e poi completato da Giovan Battista Passeri, il Theaurus Veterum Dypthicorum, non limitandosi ad una semplice comunicazione informativa ma ricostruendo anche quello che era il dibattito erudito del tempo, dando notizia dello stato degli studi su detti materiali offrendo al lettore erudito gli strumenti per un approfondimento e aggiornamento dei temi che teneva conto delle ultime ricerche anche in ambito internazionale. 23 Alcune fonti al riguardo sono il manoscritto Riccardi 270; la filza datata 1752 (ASF, Riccardi 276.1, ins. C. che riporta la descrizione del gabinetto di gemme antiche intagliate con l’elenco dei pezzi conservati negli armadi e la relativa descrizione con annessa la stima del loro valore economico, testimonianza che nel corso di pochi anni si era rivelato indispensabile ridimensionare la raccolta per disagi economici); le descrizioni di gemme, monete e 15
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ebbe modo di visitare il tesoro riccardiano, possiamo ipotizzare che scelte collezionistiche di casa Riccardi così singolari siano state principalmente dettate dalle circostanze storicoeconomiche e dalle aspirazioni sociali a integrazioni delle convenzionali predilezioni di gusto coeve. In tale modo la tradizione familiare di un’attività mercantile che trovò esplicitazione anche nell’apertura di una bottega di oreficeria per volere di Vincenzio Riccardi e Liborio Caglieri sul Ponte Vecchio di Firenze poté guidare le acquisizioni.
intagli, i documenti relativi ad essi e alla messa all’incanto secondo il rescritto imperiale del 1815 (ASF, Riccardi 279, ins. C.) che raccolgono la stima di oggetti suddivisi per tipologia in medaglie, cammei ecc. e che in parte erano elencati in calce all’Inventario e stima della libreria Riccardi del 1810 (INVENTARIO E STIMA 1810, pp. IXIX.). 24 GIBBON 1965, p. 242. Giudizio ancor più stimolante dopo che è stato rinvenuta tra le filze Riccardiane la documentazione relativa ad una bottega di oreficeria di Vincenzio Riccardi con Liborio Caglieri sul Ponte Vecchio. Vedi ASF, Riccardi 357.
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BIBLIOGRAFIA COCHIN 1756 C.N. COCHIN, Voyage pittoresque d’Italie, ou Recueil de notes sur les ouvrages de peinture et sculpture, qu’on voit dans les principales villes d’Italie. Par m. Cochin, graveur du roi ..., Parigi 1756. DE BROSSES 1973 C. DE BROSSES, Viaggio in Italia: lettere familiari, Bari 1973. DE JULIIS 1978 G. DE JULIIS, Le vicende degli antichi avori della collezione Riccardi, «Commentari», 29, 1978, pp. 144-156. DE JULIIS 1984 G. DE JULIIS, La storia del medagliere Riccardi. Primi risultati, in LA MEDAGLIA NEOCLASSICA 1984, pp. 237-245. GIBBON 1965 E. GIBBON, Viaggio in Italia, Milano 1965. GORI-PASSERI 1759 A.F.GORI-G.B.PASSERI, Thesaurus veterum diptychorum consularium et ecclesiasticorum...opus Posthumum..., Firenze 1759. INVENTARIO E STIMA 1810 Inventario e Stima della Libreria Riccardi manoscritti e edizioni del secolo XV, Firenze 1810. LA MEDAGLIA NEOCLASSICA 1984 La medaglia neoclassica in Italia e in Europa, Atti del quarto convegno internazionale di studio sulla storia della medaglia (Udine 20-23 giugno 1981), Udine 1984. MALANIMA 1977 P. MALANIMA, I Riccardi di Firenze. Una famiglia e un patrimonio nella Toscana dei Medici, Firenze 1977. MONTESQUIEU 1971 C.L. DE MONTESQUIEU, Viaggio in Italia, a cura di G. Macchia e M. Colesanti, Bari 1971.
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Elena Vaiani _______________________________________________________________________________
MONETE, MEDAGLIE, GEMME E PICCOLE ANTICHITÀ: LA COLLEZIONE DELLE ANTICAGLIE DEI RICCARDI NEGLI «ARMARI» DELLA GALLERIA* Entrando nella Galleria dipinta da Luca Giordano del Palazzo Medici-Riccardi, nella parete lunga che la separa dalla biblioteca e di fronte alle finestre, si trovano tutt’oggi quattro grandi specchi dipinti e altrettanti armadi. In due di questi era conservata una ricca collezione di piccole antichità, ovvero monete antiche, medaglie moderne, gemme incise, cammei, bronzetti e altre curiosità. Nella stanza di maggior prestigio del palazzo, ma in uno spazio chiuso e ridotto, trovava posto una raccolta molto ammirata dai visitatori del palazzo di via Larga, che racchiudeva reperti preziosi e tradizionalmente oggetto di studio e curiosità; nell’area ampia e aperta del giardino, o esposte nelle altre stanze del palazzo, erano invece collocate le sculture di marmo, statue e iscrizioni. Erano questi i due nuclei principali della raccolta di antichità dei Riccardi; due nuclei dagli spazi e dalla fruizione diversi, dalle fortune e dalle sorti opposte. La collezione di anticaglie è pressoché ignota nel dettaglio agli studi, soprattutto a causa della sua completa dispersione all’inizio dell’Ottocento; la documentazione che la riguarda è tuttavia numerosa. Una prima verifica di questi documenti, ora pubblicati presso il sito della Fondazione Memofonte, consente intanto di ricostruire con maggiore precisione la fisionomia della collezione e di identificarne alcuni aspetti peculiari, soprattutto per quanto riguarda l’esposizione degli oggetti negli armadi1. Le piccole antichità a Valfonda e negli inventari della fine del Seicento Non sono molti i documenti in cui è possibile ritrovare traccia dei primi acquisti di monete e piccole antichità da parte dei Riccardi, che in origine abitavano nel palazzo di Valfonda. Come per la Biblioteca Riccardiana, così per le antichità, Riccardo Romolo (15581612) deve essere ritenuto il fondatore delle collezioni2. È Riccardo infatti, secondo la notizia riportata da Giuseppe de Juliis, a inviare da Venezia a Firenze sedici casse di gemme e antichità, tra la fine del 1585 e l’inizio dell’anno successivo3. Nel suo testamento (1611) si legge inoltre che «lasciò al detto Cosimo Riccardi suo nipote tutti li tavolini di marmo e commessi, e libri stampati, e libri scritti a mano, e tutti i vasi di cristallo, et agate e diaspri, e li studioli pieni di medaglie, intagli e camei, e tutte le pietre dure, segate e lustre come in ciottoli»4. L’inventario dei beni, stilato alla morte di Riccardo Romolo, nel 1612, fornisce qualche informazione in più sulle anticaglie: In camera dello studio a uso di galleria: uno studiolo di ebano filettato d’avorio con le cassette, con cartelle di bronzo dentrovi quattro figure di bronzo, sopra il frontespizio di detto studiolo, *Questo
saggio nasce da un periodo di collaborazione con la Fondazione Memofonte di Firenze per l’edizione online di documenti relativi al collezionismo della famiglia Riccardi. Desidero ringraziare Paola Barocchi, Miriam Fileti Mazza e Vaima Gelli per i consigli continui e il caloroso affetto che hanno accompagnato la realizzazione del progetto. 1 I contributi più importanti per la ricostruzione della raccolta di piccole antichità e degli «armari» della Galleria sono GREGORI 1972; DE JULIIS 1978; DE JULIIS 1984; MINICUCCI 1987; della collezione di marmi, tuttora conservata al palazzo Medici-Riccardi sono usciti diversi cataloghi, GUNNELLA 1998 e SALADINO 2000; per un recente contributo sulla Galleria di Luca Giordano, SPARTI 2003. Tutti i documenti citati nelle pagine seguenti, con l’eccezione della filza in ASF (Archivio di Stato di Firenze), Mannelli Galilei Riccardi 428, sono disponibili all’indirizzo: www.memofonte.it, sezione Collezionismo Riccardiano. 2 MINICUCCI 1987, pp. 222 sgg. 3 DE JULIIS 1984, p. 237. 4 Si veda BRF (Biblioteca Riccardiana di Firenze), Mannelli Galilei Riccardi 294, ins. 30, c. 20v; il documento è citato in DE JULIIS 1984, p. 237 e SALADINO 2001, II, Appendice, doc. A4, p. 391.
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La collezione delle anticaglie dei Riccardi negli «armari» della Galleria _______________________________________________________________________________ tre figure in bronzo con la base; di qua e di là di detto studiolo vi sono due femmine di bronzo, due torrette di bronzo, un Ercole di bronzo che riposa sulla clava;
sono poi citati diversi altri studioli, tra cui: uno studiolo di avorio a foggia di sepolcro, entrovi cammei di rilievo, et incavati d’agate e corniole, et alcuni ricinti d’oro, calcedoni, brevi, diaspri, tutti da commettere, et alcune medaglie d’argento, legato in ebano; un cassettino quadrato, per uso di base, entrovi diverse medaglie di bronzo; n. 6 anelli d’oro intagliati a modo di sigilli, n. 6, messi nelli armari5.
Negli armadi dello studio furono collocate anche altre «anticaglie e pietre» descritte poco dopo, come «una scatola et un cassettino entrovi diverse medaglie di bronzo»; dopo varie cassettine e scatole con pietre preziose, sono anche elencate alcune anticaglie come «quattordici pezzi di bronzo in figure et altro», «un pezzo d’amatista et una testa doppia di bassorilievo di bronzo con ornamento nero»; «più stampe intagliate in rame e disegni e stampe di carta» e «tre verghe di bronzo di braccia 2 incirca, l’una con lettere antiche»6. Alla collezione di Riccardo Romolo sono stati ricondotti due pezzi molto importanti e tuttora conservati, ovvero la tavola canusina e il sigillo con Augusto, oggi al Museo Archeologico di Firenze7. Già da questi documenti si intuiscono alcuni tratti caratteristici della collezione riccardiana, ovvero una notevole presenza di gemme e pietre preziose, accanto a monete antiche e bronzetti; conservati in cassettine o studioli, non pare che a questi pezzi fosse dedicato un particolare allestimento; nello stesso tempo però il fatto che si trovassero in uno studio «a uso di galleria», fa pensare ad una collocazione prestigiosa, che prelude a quanto accadrà più tardi nel palazzo di via Larga. Nella prima metà del Seicento comunque, la collezione doveva aver assunto una consistenza notevole e una certa importanza, se si ritenne necessario avviare un’opera di catalogazione, per la quale fu chiamato il prete inglese Peter Fitton, già al servizio della famiglia medicea e responsabile dell’inventariazione della raccolta granducale di monete8. Un incremento delle serie numismatiche riccardiane attorno alla metà del secolo è in effetti documentato, per opera del nipote di Riccardo Romolo, Gabbriello (1606-1675), di cui sono registrati molti acquisti di monete, soprattutto in corrispondenza del suo incarico romano di ambasciatore del granduca Ferdinando II presso i papi Innocenzo X (1644-1655) e Alessandro VII (1655-1667)9. Una descrizione di un piccolo gruppo di bronzetti, ma non di monete, gemme o altro, è invece contenuta nell’inventario dei beni di Gabbriello e del nipote Francesco Riccardi. Il documento consente di riconoscere il nucleo seicentesco della collezione; vi sono descritti e numerati 27 oggetti, da collocarsi negli armadioni del guardaroba, alcuni dei quali riconoscibili con certezza anche nei cataloghi successivi: la statuetta di David, al n. 5, la lucerna bilicne con due putti (c. 21) la statuetta femminile «che si stuzzica un piede» al 13, le due teste d’aquila, la lucerna ebraica. A questo elenco seguono altri oggetti, soprattutto tazze, bicchieri, vasi, in pietre preziose10. La «guardaroba» citata nella nota che precede l’elenco (Nota delle robe che si aggiungono negli armadioni dove sono gli argenti e porcellane in guardaroba) si riferisce probabilmente già ad un ambiente del palazzo di via Larga, che fu acquistato nel 1659; gli oggetti vi furono sistemati ASF, Riccardi 258, c. 22. ASF, Riccardi 258, c. 23v. 7 MINICUCCI 1987, p. 223; I RICCARDI A FIRENZE 1983, pp. 158-159. 8 MINICUCCI 1987, p. 221 e nota 8; cfr. BNCF (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze), mss. da ordinare n. 129, cassetta terza (tra le carte dell’abate Francesco Fontani). 9 DE JULIIS 1984, p. 238 e nota 15; cfr. ASF, Mannelli Galilei Riccardi 426, ins. 14. 10 ASF, Riccardi 266, 1671 e cfr. infra. 5 6
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provvisoriamente, in attesa di una definitiva collocazione. Diversamente, altre antichità in collezione, tra cui forse le gemme e i bronzetti, dovevano essere ancora a Valfonda, dato che per l’autorizzazione al loro trasferimento nella nuova sede, si dovette attendere fino al 1687, anno del motu proprio del granduca Cosimo III, che annullava così il fidecommisso di Riccardo Romolo, in virtù del quale le opere d’arte erano state vincolate alla vecchia residenza11. Queste prime notizie, dal carattere piuttosto generico e sparso, restituiscono l’immagine di una collezione probabilmente ancora in formazione dal punto di vista della qualità, della quantità e soprattutto senza una fisionomia e una soluzione espositiva determinate; completamente diversa sarà la sorte della raccolta dopo il trasferimento nel palazzo di via Larga. La collezione in Galleria: il Settecento Tra il 1699 e il 1703 sono registrati pagamenti per lavori in Galleria di allestimento degli armadi (la cui decorazione era stata eseguita a Roma) e degli oggetti che vi dovevano trovare posto12. Dopo questa data, si collocano i principali inventari della collezione, che registrano l’ordine e la consistenza numerica degli oggetti. I documenti si concentrano soprattutto in due fasi, il 1704-1707, corrispondenti alla prima collocazione delle antichità negli armadi, e il 17511756, anni in cui la raccolta aveva conosciuto risistemazioni (alcune documentate tra il 1713 e il 171513) ed ampliamenti (soprattutto grazie a Gabbriello Riccardi14) e sono conservati in tre filze. Nel dettaglio: 1704-1705: Nota di statuette et altre minuzie antiche di metallo da museo: lista di bronzetti e utensili acquistati a Roma15. 1705: Diversi intagli. Lista di intagli, monete repubblicane, medaglie moderne e bronzetti (esclusi quelli acquistati a Roma)16. 1706: Inventario delle medaglie, cammei intagli et altre cose che sono negl’armadi di Galleria: primo inventario della collezione sistemata negli armadi e unico a conservare una descrizione sistematica delle monete; è opera dell’antiquario di casa Medici Francesco Pittoreggi17. 1707: Nota dell’intagli e cammei che restano collocati nella tavoletta della cassetta coperta di granatiglia e madreperla, collocata nel primo armadio: nota solo di gemme; è opera di Filippo Modesto Landi18. 1751: Indice e descrizione delle figure di metallo antiche…: inventario di bronzetti, medaglie, gemme, senza le monete antiche, collocate nei due armadi19. 1756: Inventario di medaglie: inventario di monete antiche e medaglie moderne, bronzetti e altre antichità collocate nei due armadi20. DE JULIIS 1984, p. 238. DE JULIIS 1984, p. 238 e nota 16; MINICUCCI 1987, pp. 244 e 258-259; SPARTI 2003, pp. 182 e nota 120, 188. 13 MINICUCCI 1987, pp. 264-265. Un’opera di ordinamento dei cammei e gemme avvenne per cura dell’antiquario Filippo Modesto Landi, cfr. MINICUCCI 1987, p. 263. 14 Per esempio, un acquisto di monete, medaglie, avori e bronzi è registrato il 18 gennaio 1754, dall’eredità del fratello, Vincenzo Riccardi, deceduto nello stesso anno, cfr. MINICUCCI 1987, pp. 275-279; in part. 279. Stessa provenienza hanno le gemme in ASF, Riccardi 270, ins. G (cfr. infra). 15 MINICUCCI 1987, pp. 259-262, con trascrizione. La nota si trova in ASF, Mannelli Galilei Riccardi 428, ins. 8, cc. n.n. e sciolte, alla fine dell’inserto. In ASF, Riccardi 270, ins. D, si trova un’altra copia di questa lista, in cui si specifica però che le antichità sono venute da Roma: Nota delle statuette et altre minuzie antiche di metallo venute di Roma e distribuite in Galleria negli armari; un ulteriore documento ne registra l’acquisto nel 1705, MINICUCCI 1987, p. 262 e nota 45. 16 ASF, Riccardi 270, ins. A. 17 ASF, Mannelli Galilei Riccardi 428; cfr. MINICUCCI 1987, p. 259 e nota 44. 18 ASF, Riccardi 270, inss. B-C; MINICUCCI 1987, p. 263. 19 ASF, Riccardi 270, inss. E-F. 11 12
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Tali carte consentono di verificare come in questi cinquant’anni la collezione portata da Valfonda si modifichi profondamente, sia a livello quantitativo, grazie ad una notevole politica di acquisto, sia nella sua fisionomia, in seguito alla nuova collocazione dei pezzi. Attraverso la storia delle singole raccolte è possibile analizzare con maggior precisione questi aspetti e giungere anche ad una prima, seppur superficiale, proposta sulla sua interpretazione complessiva. I bronzetti Della collezione di bronzetti, che probabilmente univa pezzi antichi e moderni, possono ora essere riconosciuti due momenti fondamentali. Un primo nucleo seicentesco, formatosi con Riccardo Romolo e aumentato negli anni, registrato in dettaglio nel 1671 (si veda supra) e un secondo gruppo di oggetti, acquistati a Roma nel 1705. Il primo nucleo conta una trentina di pezzi, che furono divisi nei due armadi, dove sono registrati nell’inventario del 1706. Per fare qualche esempio, si ritrovano nel primo armadio l’Ercole («Ercole che tiene il fanciullo Ila tra le braccia»), da identificarsi con il pezzo descritto nel 1671 come Saturno, il «modello dell’Ercole Farnese», la figura di Cleopatra («figura di Cleopatra che si accosta un serpe alla mammella»), le due lucerne («lucerna antica con caratteri ebraici»; «altra lucerna con due putti che sostengono una corona di lauro»), e così via; nel secondo trovarono posto la Madonna («Una Madonna col Bambino Giesù»), il «David dorato», il bassorilievo con il Baccanale («Un quadretto che rappresenta un Baccanale») e il ‘medaglione’ con le lettere IANI (probabilmente uno specchio etrusco)21. L’inventario del 1706 esclude esplicitamente gli oggetti giunti da Roma - di cui è citato il registro particolare - che rappresentavano un aumento notevole della raccolta, formata allora da non più di una cinquantina di pezzi, trenta dei quali, come si è detto, presenti in collezione almeno da 35 anni. Le antichità acquistate erano circa il quadruplo di quelle dell’intera raccolta e quindi ne avrebbero mutato completamente sia la consistenza che l’immagine. La lista comprende oggetti numerati da 1 a 93, ma in realtà molte voci raggruppano più pezzi, come le «undici statuette» menzionate al n. 23, o le «otto statuette rappresentanti gladiatori» al n. 35, seguite da altre sei di soggetto analogo22; tenuto conto di questo aspetto, il numero effettivo dei bronzetti sale quindi a 193. Tipologicamente, gli acquisti si dividono quasi esattamente in bronzetti con figure umane o di divinità (fino al n. 55) e instrumenta, oggetti della vita quotidiana, amuleti, statuette di animali. Le ultime voci della lista riguardano infine 5 oggetti, acquistati da Francesco Pittoreggi, anch’essi disposti negli armadi. Nel 1751, le due serie di bronzetti si trovano disposte e fuse l’una nell’altra, negli armadi della Galleria; ne viene stilato un inventario molto dettagliato, che, insieme al catalogo del 1756, permette di ricostruirne quantomeno i tratti generali. La collocazione delle antichità rispetta il criterio di simmetria cui già obbedivano i bronzetti prima dell’arrivo del nucleo BRF, Riccardi 3196, cc. 118-131. Per questo manoscritto cfr. I RICCARDI A FIRENZE 1983, pp. 157-158, n. 19; la data è però erroneamente ritenuta il 1750. 21 ASF, Mannelli Galilei Riccardi 428, cc. n.n. (alla fine dell’inventario). Cfr. nell’inventario del 1671, rispettivamente, le seguenti voci: (dal primo armadio) «3. Statua di bronzo di Saturno in piede, con putto in braccio, appoggiato a tronco d’albero»; «4. L’Ercole Farnese di bronzo in piccolo, sopra base»; «6. Statua di femmina in piede, su base di bronzo con nicchio, e serpente alla mano»; «7. Lucerna antica a due bocche di bronzo, con due putti, sopra base simile»; «27. Una lucerna ebraica, o siriaca, con otto bocchette»; (dal secondo armadio) «22. Una Madonna grande di bronzo, in alto rilievo col bambino in collo e con S. Giovanni Battista da piedi»; «5. Statua di David in piede»; «24. Un bassorilievo quadro con varie figure di bella maniera»; «25. Una targhetta rotonda colla testa di Giano da una parte e dall’altra quella di Saturno» (ASF, Riccardi 266, cc. 20v-21, inventario dell’eredità di Gabbriello e Francesco Riccardi, cfr. supra). 22 ASF, Riccardi 270, ins. E, c. 1v; cfr. MINICUCCI 1987, pp. 260-261 (che trascrive l’altra copia della lista, in ASF, Mannelli Galilei Riccardi 428, cfr. supra). 20
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romano: la collezione si divide equamente nei due armadi, tanto che sono registrati in un armadio 54 «idoli di bronzo in figura umana», 13 «statuette di bronzo in figura d’animale», che si aggiungono ad altre anticaglie; nell’altro il numero degli «idoli di bronzo di diverse grandezze in forma umana» è identico; i bronzetti con animali sono otto, e molto simile sono anche la quantità e la tipologia delle altre anticaglie, ovvero vasi, lucerne, «patere», e così via23. Tra i vari oggetti, per fare solo qualche piccola verifica dall’elenco che riguarda il «primo armadio» dell’inventario del 1751 (che è invece descritto come secondo in tutti gli altri documenti) si possono ritrovare sia i pezzi da sempre in collezione, come per esempio i già citati David e la «patera», o la statuetta di Venere, dal corrispondente armadio del 1707, oltre per esempio la Cleopatra, spostata invece dall’armadio adiacente24; accanto ad essi si trovano tra gli altri la lucerna con la mezzaluna, o i 14 oggetti votivi, chiaramente riconoscibili nell’elenco delle opere giunte da Roma25. L’inventario del 1751 presenta una numerazione dei pezzi non consecutiva, che fa evidentemente riferimento ad una classificazione precedente, di cui tuttavia non pare essere rimasta, fino ad ora, alcuna traccia. Inoltre la lista registra i pezzi senza alcun ordine apparente, a differenza di quella di cinque anni più tardi, che almeno distingueva i bronzetti figurati dagli altri; tale circostanza fa supporre che sui palchetti non vi fosse un percorso ‘logico’ nella disposizione dei bronzetti: sembra piuttosto un’esposizione vincolata all’equilibrio delle quantità e forse anche alle necessità imposte dalla struttura degli «armari». Le monete antiche Grazie alle informazioni che si ritrovano negli inventari è possibile avanzare qualche considerazione anche sulle serie monetali antiche, descritte, con l’unica eccezione dell’inventario del 1706 di Pittoreggi, sempre molto superficialmente. Nonostante sia evidente come la collezione numismatica medicea costituisse un riferimento costante per i Riccardi, se è vero che probabilmente tutti e due gli antiquari al servizio dei granduchi (Peter Fitton, sicuramente, e Francesco Camelli26) si occuparono anche di queste raccolte, un paragone tra le due raccolte è improponibile, in primo luogo per un fatto quantitativo. L’intera collezione medicea alla fine del Seicento era costituita da qualcosa come 41.000 monete, cosa che la
BRF, Riccardi 3196, cc. 130v-131 e cc. 126-126v. ASF, Riccardi 270, ins. E: «63. David con spada torta, ha i piedi su la testa di Oloferne reciso dal busto, con la fionda e zaino a cintola, tre pietre al torrente in terra di bronzo dorato moderno, alto mezzo braccio» (c. 3; cfr. supra e nota 10); «Patera grande et assai grossa nella parte concava vi è in bassorilievo una testa piena di capelli e barba grande al naturale di vecchio, con la bocca alquanto aperta, nella quale appariscono denti e coronato di virgulti e frondi di quercia con le bacche cadenti in diversi luoghi. Nell’orlo piano attorno vi è un virgulto che gira con eguale distanza e fra quello le seguenti lettere SATVNI; nella parte di dietro conversa vi è altra testa, con due faccie, una di vecchio e l’altra di giovane con capelli e barba. Attorno l’istesso labbro piano e virgulto, con lettere IANI, di metallo, largo di diametro mezzo braccio (c. 5, cfr. supra e nota 10); Venere nuda di metallo, si leva una spina del piede, posa la destra gamba sopra a panno steso sopra una base di bronzo trinagolare; accanto vi è un putto nudo che gli tiene il braccio destro e con la sinistra gl’esprime il suo amore; il tutto alto 8 dita, posa su base di pero» (c. 3v; cfr. ASF, Mannelli Galilei Riccardi 428, cc. n.n. [1705] e ASF, Riccardi 266, c. 21, n. 13 [1671]); «Donna tutta nuda, con la sinistra si dà a mordere quella mammella ad una gran vipera che con la coda gli avvolta al braccio, dalla sinistra parte vi è in terra un nicchio marino; posa sopra un sesagono retto da tre palle, tutto di metallo, alto mezzo braccio» (c. 4, cfr. supra e nota 10). 25 ASF, Riccardi 270, ins. E: «85. Una lucerna sepolcrale lunga 6 dita di metallo con suo piede e dietro ha una mezza luna; è sostenuta da tre catenelle lunghe un sesto di braccio» (cc. 3v-4); «Un sesagono di pero nero scorniciato, sul piano vi sono collocati simboli di bronzo antichi, cioè: una fibula senza filo, una testa di Gorgone, cinque chiavi, una lorica con sopra il manico, una testa di lione, un Priapo, tre visi di deità, una de campi Elisi, l’altra della terra, la terza del cielo, un lucchetto, in tutto pezzi 14» (c. 3); cfr. ASF, Mannelli Galilei Riccardi, cc. n.n., foglio sciolto, nn. 58 e 63 rispettivamente. 26 Si veda supra per Fitton; per quanto riguarda Camelli, cfr. DE JULIIS 1984, p. 238. 23
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rendeva, secondo il giudizio dei contemporanei, la più grande d’Europa27. Niente a che vedere con i possedimenti riccardiani, che non sembrano, inoltre, particolarmente ricchi di oggetti pregiati. Questa differenza quantitativa incide naturalmente anche sulle modalità di catalogazione. Proprio mantenendo come riferimento il catalogo mediceo redatto alla fine degli anni Settanta del Seicento da Francesco Camelli, si possono notare chiaramente alcune differenze28: il catalogo non inizia con i medaglioni bronzei (di cui sono citati molto curiosamente solo dieci esemplari nell’inventario del 175629), sono assenti categorie ben attestate nelle collezioni numismatiche dei secoli XVII-XVIII, come i contornati, e in generale, non si tiene conto del formato delle monete, usualmente classificate, soprattutto nel caso di quelle di bronzo, per dimensione (generalmente ‘grandi’ ‘mezzane’ e ‘piccole’)30. In questo caso, invece, le monete sono semplicemente organizzate per serie imperiali, senza distinzione di formato. A differenza di quanto accadrà per le medaglie moderne, tuttavia, risulta chiaro come fosse prestata molta attenzione all’omogeneità della collezione di numismatica antica e al modo di esporla negli armadi. Come si può notare nel confronto tra l’inventario del 1706 e quello del 1756, le monete erano disposte in modo regolare, ovvero collocate in «tavole», che contenevano 48 monete ciascuna31. L’inventario del 1756 permette di chiarire come un armadio fosse interamente dedicato alle monete romane imperiali nei tre metalli, oro e bronzo (sei tavole, primo ordine), argento (sei tavole, secondo ordine); l’altro armadio invece conteneva le monete, in gran parte d’argento, repubblicane (sei tavole, primo ordine) e greche (sei tavole, secondo ordine). La collezione imperiale inizia con la serie di maggior pregio (data l’assenza dei medaglioni) l’oro, di cui nel 1706 si contavano solo sei monete 32, raddoppiate nel 175933. Le monete d’oro sono le uniche di cui si conservi una descrizione dettagliata in tutti e due gli inventari: è così possibile riconoscerne sia il nucleo più antico, sia il tipo monetale, per confronto con gli esemplari tuttora esistenti34. Ben poco si può dire sulle altre serie imperiali romane, dato che nell’inventario del 1756 sono descritte solo per quantità; tuttavia, proprio il confronto del numero di esemplari per imperatore nei due inventari, rivela una sostanziale «instabilità» dei pezzi, a distanza di cinquant’anni, circostanza tipica delle raccolte numismatiche, in cui gli oggetti vengono molto facilmente scambiati e spostati. Per fare un esempio, le monete di Vespasiano nel 1756 sono 4, come nel 1706, quelle di Tito 4, contro le 5 dell’altro inventario, Domiziano 4 (erano 7), Nerva 6 (erano 5) e così via35. Si veda la lettera di Francesco Noris a Francesco Mezzabarba del 16 novembre 1681, in NORIS 1741, p. 141D-A; dalla stessa lettera si apprende come solo le monete del cardinal Leopoldo de’ Medici ammontassero a 4.000 pezzi. 28 Conservato in BGU (Biblioteca della Galleria degli Uffizi di Firenze), ms. 74 (la numerazione ricomincia ad ogni sezione dell’inventario). 29 BRF, Riccardi 3196, c. 129v. 30 Assenze che stupiscono, specie nel confronto non solo con la collezione fiorentina, che contava circa 200 medaglioni (cfr. BGU, ms. 74, pp. 1-33) e un buon numero di contorniati (BGU, ms. 74, pp. 1-8); per la classificazione delle monete per formato si seguano i lemmi successivi all’inventario dei contorniati. Per quanto riguarda i medaglioni, inoltre, erano già stati inoltre oggetto di pubblicazioni antiquarie specifiche, come per esempio, per la collezione Carpegna, BELLORI 1679 e soprattutto l’opera del fiorentino Filippo Buonarroti, dedicata a Cosimo III (BUONARROTI 1698). 31 Alle tavole devono riferirsi i numeri romani presenti nell’inventario del 1706 (ASF, Mannelli Galilei Riccardi 428, ins. 8), per esempio alle cc. 5, 11, 19, 26; non si va oltre però la nona tavola (66). Cfr. BRF, Riccardi 3196, passim. 32 ASF, Mannelli Galilei Riccardi 428, cc. 5-5v. 33 BRF, Riccardi 3196, cc. 119-119v. 34 Le monete presenti già dal 1707 sono riconoscibili in BRF, Riccardi 3196, cc. 119-119v ai nn. 2 e 11; inoltre, per esempio la moneta di Claudio al n. 5 si può riconoscere nel tipo RIC 1966-1994, I, p. 124, n. 3; quella di Galba al n. 7, in RIC 1966-1994, I, p. 201, n. 19. 35 BRF, Riccardi 3196, c. 119v, cfr. ASF, Mannelli Galilei Riccardi 428, cc. 32v-34. 27
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Il secondo armadio, come detto, conteneva le collezioni di monete repubblicane e greche, per le quali vale sostanzialmente lo stesso discorso fatto per quelle imperiali. Si tratta di generi ben presenti nelle raccolte antiquarie, e in primis in quella medicea. Le monete repubblicane o «delle famiglie romane», secondo la denominazione seicentesca, si trovano per esempio nell’inventario della collezione granducale della fine degli anni Settanta del Seicento, descritti come «nummi argentei familiarum romanarum, prout in Fulvio Orsino disponuntur»36. La pubblicazione di Fulvio Orsini (Familiae Romanae quae reperiuntur in antiquis numismatibus ab Urbe condita ad tempora divi Augusti ex bibliotheca Fulvi Ursini, 1577 e edizioni successive) costituiva infatti il paradigma di confronto per questo genere di collezione, a cui guarda direttamente o indirettamente, attraverso il modello mediceo, anche la serie riccardiana, dove ricorrono molte delle voci presenti nel catalogo di Francesco Camelli. La descrizione delle monete nell’inventario del 1706, a opera del Pittoreggi, consente di riconoscere i pezzi nei tipi monetali noti ad oggi, ed è molto vicina come tipologia e quantità ad una lista redatta un anno prima37; l’inventario del 1756 invece è utile anche in questo caso, solo per un confronto numerico, da cui si evince come le voci in cinquant’anni siano molto variate in consistenza38. Delle monete greche, che occupavano il secondo palchetto dell’armadio e descritte per quantità nel 1705 e dettagliatamente, ovvero riportando le leggende, nel 1706, cinquant’anni dopo si dà solo una descrizione della quantità, dato che «per la maggior parte non si trova la via di leggerle»39. Le medaglie moderne Il collezionismo di medaglie moderne è un aspetto ancora poco esplorato negli studi, ma che comparve nel Seicento, per conoscere alla fine del secolo anche una piena indagine teorica40. Sono una presenza che non deve stupire, quindi, a maggior ragione nella Firenze tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, come attesta nuovamente il museo mediceo, che vantava una collezione molto ampia, a cui è dedicato un inventario particolare, conservato presso la Biblioteca degli Uffizi41. Anche in questo caso non è proponibile un confronto numerico tra le due raccolte; colpisce tuttavia come negli armadi Riccardi non vi sia, a quanto pare, alcun tentativo di una classificazione, che, sempre guardando all’inventario mediceo, poteva essere già piuttosto articolata42. L’unico tentativo di distinguere le medaglie papali e quelle di uomini illustri dalle altre si riscontra solo nella lista del 170543; l’inventario del 1706 contiene solo monete antiche, mentre ogni distinzione scompare in quelli del 1751-1756. Nella lista del 1705 sono elencate 64 monete; 12 «medaglie moderne di metallo» tra due serie di monete antiche (cc. 4-4v), ovvero quelle repubblicane con i nomi dei magistri (cc. 2-4) e le monete greche ‘di città’ (c. 5v sgg.). Si tratta di medaglie di sovrani di altri Stati, come l’imperatore Leopoldo I, Guglielmo d’Inghilterra, Carlo di Svezia, Federico primo di Prussia, ecc. Le altre 42 medaglie sono invece BGU, ms. 74, pp. 1-3 (dopo la serie delle monete greche); in part. 1. ASF, Riccardi 270, ins. A, cc. 2-3v; cfr. ASF, Mannelli Galilei Riccardi 428, cc. 50-65v. 38 BRF, Riccardi 3196, cc. 126v-129. 39 ASF, Riccardi 270, ins. A, cc. 5-5v; ASF, Mannelli Galilei Riccardi 428, cc. 66-70v; BRF, Riccardi 3196, c. 129v. Anche questa serie era presente nella collezione medicea, cfr BGU, ms. 74, cc. 1 e sgg. (dopo la serie d’oro, classificazione per formato e per soggetto, re e città). 40 Si veda per esempio BONANNI 1699, opera interamente dedicata alle medaglie pontificie. 41 BGU, ms. 72. 42 BGU, ms. 72, cc. nn., indice all’inizio del catalogo. L’inventario, sul modello della numismatica antica, distingue le monete per metallo e poi, nelle singole serie, per soggetto e per collocazione geografica (prima le medaglie italiane, poi quelle estere): quindi i papi, i re, le repubbliche, i duchi ecc., e in fondo sono collocati gli uomini illustri. 43 ASF, Riccardi 270, ins. A, cc. 4-4v, 7v-9v. 36 37
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elencate dopo la lista di bronzetti che segue le monete greche (cc. 7v-9v), e sono suddivise tra «medaglie moderne», categoria che comprende cinque medaglie pontificie, da intendersi probabilmente coniate al tempo dei papi raffigurati (Alessandro VIII, due medaglie44, Clemente X, Innocenzo XI e Innocenzo X); seguono «i pontefici antichi di cuonio moderno», 22 pezzi; «d’uomini illustri» (7 pezzi, cc. 8v-9, tra cui Antonio Magliabechi e Lorenzo Bellini); e infine «medaglie d’argento di papi» (3 pezzi, uno di Pio V e due di Sisto V, con per rovescio la porta del popolo e il ponte Sisto, c. 9); «medaglie moderne», solo una del cardinale Ottoboni (c. 9); «medaglie d’oro sodo», (5 pezzi, cc. 9-9v) e infine ancora «medaglie d’argento» dell’elettore Palatino. Come detto, in questa lista, i cui oggetti ricorrono negli altri inventari, vi è un tentativo di classificazione dei pezzi, che probabilmente corrispondeva anche ad una loro sequenza espositiva. Tali categorie, sebbene nell’ottica di un arricchimento del medagliere, vengono a scomparire nel più dettagliato e ricco inventario del 1751, che, nonostante il suo titolo (Indice e descrizione delle figure di metallo antiche), elenca anche le medaglie moderne45. Nel secondo armadio, dopo la ricca collezione di bronzetti, inizia un breve elenco di «medaglie senza rovescio di patina artificiale moderna tonde, diametro 6 dita»46, a cui seguono 83 «medaglie di metallo moderne». Il «metallo» in queste liste non è necessariamente il bronzo: ritroviamo per esempio le due monete d’argento di Sisto V, già menzionate nel 170547, o poche voci dopo, ancora quelle di Alessandro VIII, con la tomba commissionata dal nipote, il cardinale Pietro Ottoboni, sul rovescio48; ad esse seguono per esempio le medaglie bronzee dei fiorentini Antonio Magliabechi e Lorenzo Bellini49. Si susseguono quindi medaglie di bronzo e d’argento, medaglie papali e di uomini illustri, senza un criterio apparente, anzi quasi rinunciando alla classificazione. Ed effettivamente, l’inventario di poco successivo (1756) menziona le stesse medaglie come «sparse» per l’armadio primo, anche se ne distingue alcune: sono segnalati i «medaglioni moderni d’imperadori antichi in bronzo che stan attaccati sopra il primo palchetto de quali ve n’è uno per sorte», che corrisponde alla «serie senza rovescio» della lista appena precedente; ne seguono altre d’argento, d’oro e argento dorate50; e poi ancora «medaglie moderne di bronzo sparse pel primo palchetto». Dopo i bronzetti ci sono ancora «medaglie moderne attaccate o appoggiate al primo palchetto», in cui di nuovo si trovano accanto l’imperatore Leopoldo, il cardinale Pietro Ottoboni, Urbano V e Lorenzo Bellini, per un totale di un’ottantina di pezzi, come nell’inventario precedente. L’impressione è quindi di una collezione non organizzata «Alessandro VIII d’argento stampata doppo morte dal cardinale suo nipote, e nel roverscio sta la forma del sepolcro erettoli dal predetto signor cardinale nella basilica vaticana e sono due medaglie», ASF, Riccardi 270, ins. A, c. 7v. 45 ASF, Riccardi 270, ins. F, cc. 6v e sgg. 46 ASF, Riccardi 270, ins. F, c. 6v. questa serie di medaglie in cui si associano agli imperatori romani le loro madri (solo nel caso di Ottone e Albia Terenzia) e le mogli (Ottone, Albia Terenzia, Vitellio, Petronia, Tito Vespasiano, Marzia Fulvia Tiberio Cesare, Agrippina, Caesonia e Vespasiano), è citata anche nell’inv. del 1756; BRF, Riccardi 3196, c. 124. 47 ASF, Riccardi 270, ins. F, c. 8: «Sixtus V. P. M. A. V. Rovescio: ingresso della Porta del Popolo con l’obbelisco in mezzo. D. Pop. quartum An. IIII erexit. Medaglia d’argento, diametro 2 dita, profilo sinistro». «Sixtus V. P. M. A. V. Rovescio: ponte Sant’Angelo. Publicae utilitatis. Medaglia d’argento, diametro 2 dita, profilo sinistro». 48 «Alexander VIII. P. M. Otthobonus Venetus. Rovescio: il sepolcro fatto al medesimo. Petrus Cardinalis Otthobonus S.R.E. Vicecancellarius Petrus Magno benemerenti posuit 1700. Medaglie 2 d’argento, diametro un sesto di braccio, profilo sinistro»: ASF, Riccardi 270, ins. F, c. 8. 49 «Antonius Magliabecchius. Rovescio: un libro aperto. Omnibus omnia. Medaglia di metallo, diametro un sesto di braccio, profilo destro»; «Laurentius Bellini. Rovescio: la Medicina e l’Anatomia che lo introducono nel tempio d’Apollo, dove sono le muse che lo ricevono. Ante me nemini. Medaglia di metallo, diametro un sesto di braccio, profilo sinistro. G. Ticciati F.»: ASF, Riccardi 270, ins. F, c. 8. Anche queste medaglie erano presenti in collezione nel 1705, cfr. ASF, Riccardi 270, ins. A, cc. 8v-9. 50 BRF, Riccardi 3196, cc. 124-124v. 44
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secondo un criterio unitario e ‘antiquario’, ma piuttosto che si adegua ai supporti su cui è collocata, è che si ‘sparge’ a seconda degli spazi, tra una serie e l’altra di monete antiche. A parziale conferma di questa impressione è che di alcune serie di monete moderne si dica che sono «attaccate»: l’uso, già ben attestato nel Rinascimento, di appendere le medaglie moderne a diversi supporti, il che comportava anche praticare un piccolo foro sulla superficie, non è tanto compatibile con un’esigenza di studio e di documentazione, per la quale la medaglia deve poter essere spostata e maneggiata, ma indica l’obbedienza a istanze di carattere più decorativo e di arredo, che non di ricerca erudita51. Le gemme La presenza più importante della collezione era soprattutto quella glittica, che risulta però di non facile quantificazione, dal momento che le gemme erano spesso custodite in cassette e cassettine, di cui non sempre è disponibile una lista. Si tenterà qui solo di chiarirne la loro collocazione, senza entrare nel merito delle corrispondenze dei pezzi tra i singoli inventari, che risulta molto complicata per l’estrema stringatezza delle descrizioni. L’impressione che si ricava dagli inventari settecenteschi è vi sia un passaggio da un’esposizione ‘libera’ di oggetti negli armadi, e in particolare sui palchetti, ad una progressiva selezione, in cui i pezzi esposti restano relativamente pochi, mentre il grosso della collezione viene chiuso in cassettine e scrigni. L’inventario del 1706 infatti elenca le gemme palchetto per palchetto, senza menzionare alcuna cassetta52; così è anche per la nota ‘intagli antichi’ del 170553. Alcuni documenti editi nel 1987 mostrano come vi fu una vivace attività di sistemazione di gemme e cammei tra il 1713 e il 1716, che riguardava anche la decorazione e l’allestimento di supporti come cassette, scarabattoli, maniglie per cassettini d’avorio54. Molto diverso è infatti l’aspetto della collezione glittica negli inventari più tardi, in cui accanto alla menzione di gemme ‘sciolte’ si nota una frequente presenza di cassette e ripostigli. L’inventario del 1751 registra: Un cofinetto tutto d’avorio, lungo un braccio, largo mezzo, alto due terzi, tutto istoriato da tutte le parti in piccoli riquadri di bassi rilievi della vita di Gesù Cristo, della Madonna, e d’altre storie del Testamento Vecchio e Nuovo. Ha tre maniglie, una sopra e due dalle parti, d’argento sodo; [c. 9v] conserva dentro altro piccolo cofinetto di ulivo, nel quale su tiratoi vi sono vari intagli antichi in gioie, come al suo inventario. Il confinetto d’avorio ha la toppa e chiave d’argento.
poco oltre sono però elencati diversi altri pezzi, tra cui il celebre anello di Augusto, con incastonato un intaglio con la Sfinge, dalla collezione del fondatore, Riccardo Romolo 55. Nell’altro armadio, oltre a diversi oggetti in pietre preziose, è segnalata l’altra cassetta «lunga un braccio […] di granatiglia intarsiata di madreperla», di cui è noto l’inventario; ad essa segue una lista di intagli e cammei56. Il criterio a cui obbedisce questa disposizione, in cui non è possibile riconoscere alcun tentativo di classificazione, è chiarito dall’inventario successivo, del 175657. Nel secondo A questo proposito SYSON 2002. ASF, Mannelli Galilei Riccardi 428, c. 74 e sgg. 53 ASF, Riccardi 270, ins. A, cc. 1-1v. 54 MINICUCCI 1987, pp. 263-264. 55 ASF, Riccardi 270, ins. E, cc. 9-9v. 56 ASF, Riccardi 270, ins. F, cc. 10v-11v. 57 Nell’inventario della collezione medicea, le gemme sono distinte dai cammei e i pezzi antichi da quelli moderni; le serie sono distinte inoltre per formato, cfr. BGU, ms. 74, pp. 1 e sgg (dopo le monete repubblicane e quelle siciliane). 51 52
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armadio (cioè nel primo citato nell’inventario precedente), erano sistemate 220 gemme intagliate; le altre gemme (in numero molto consistente, 755), si trovavano nella cassetta d’avorio menzionata supra58. Nell’altro armadio, oltre alla cassetta ornata di madreperla, di cui sono descritti struttura e contenuto, sono menzionate 222 gemme intagliate59. Anche in questo caso quindi è rispettata la simmetria tra i due «armari», in cui sono esposte circa 220 gemme ciascuno, mentre un numero notevole di esse è custodito nelle cassette. Deve essere inoltre notato come nelle filze riccardiane all’Archivio di Stato di Firenze si conservano altri due inventari di gemme, uno con una stima anche dei prezzi, l’altro relativo ad altre «due scatole quadre», dall’eredità di Vincenzo Riccardi, datato 1759; le scatole entrarono in possesso di Gabbriello, ma non essendovi inventari degli «armari» successivi al 1756, non è possibile stabilire dove fossero state collocate60. Le collezioni di piccole antichità paiono quindi dividersi in parti uguali e disporsi simmetricamente negli armadi, ognuno dei quali conteneva due ordini di monete, una serie di bronzetti (54 figurati e altri instrumenta), gemme esposte sui vari ripiani e palchetti (220), scatole di altre gemme e pietre preziose, alcune curiosità e oggetti di vario genere. Nella seguente tabella, sono riassunte le voci dell’inventario del 1756, accanto alle quali si trovano i riferimenti agli altri inventari, tutti presso l’Archivio di Stato, dove sono descritte o menzionate le varie tipologie di oggetti. Primo armadio
Secondo armadio
Primo ordine
Primo ordine
(BRF, Ricc. 3196, cc. 118-126v)
(BRF, Ricc. 3196, cc. 126v-131)
(BRF, Ricc. 3196, cc. 119-121)
Monete romane imperiali: serie d’oro (BRF, Ricc. 3196, cc. 119-120)
serie di bronzo (BR, Ricc. 3196, cc. 120-121)
(BRF, Ricc. 3196, cc. 126v-129v) MGR 428, cc. 5-5v
Secondo ordine
(BRF, Ricc. 3196, cc. 121v-123) (BRF, Ricc. 3196, cc. 121v-123)
(BRF, Ricc. 3196, cc. 126v-129v)
MGR 428, cc. 50-65v
MGR 428, cc. 30-45v
Secondo ordine serie d’ argento
Monete d’argento repubblicane
(BRF, Ricc. 3196, c. 129v) MGR 428, cc. 6-29
33 pezzi di cristallo di monte (BRF, Ricc. 3196, c. 123v)
Monete d’argento greche
MGR 428, cc. 66-70v
Altre monete di bronzo e 10 medaglioni romani
Ricc. 270E, cc. 7v-10
Dodici medaglioni d’imperatori romani
Ricc. 270E, c. 7
(BRF, Ricc. 3196, c. 129v)
(BRF, Ricc. 3196, c. 129v)
Cassetta d’ebano di madreperla con gemme (BRF, Ricc. 3196, c. 123v)
Ricc. 270B-C; Ricc. 270F, c. 11v.
moderni
(BRF, Ricc. 3196, cc. 129v-130)
BRF, Riccardi 3196, c. 130 e c. 131. BRF, Riccardi 3196, c. 123v: «Vi è ancora in questo stesso armadio una cassetta d’ebano intarsiata di madreperla, e d’avorio, e di tartaruga e d’agrifoglio, nella quale sono dodici anzi sei tavolette, co’ suoi fori convenientemente scavati per ricevere altrettante gemme, e nella prima tavoletta sono gemme intagliate centotrentacinque [corretto in] 162. Nella seconda tavoletta sono gemme intagliate novantotto [corretto in] 135. Nella terza tavoletta sono gemme intagliate ottantatre [corretto in] scarti, zolfi, due foglie d’oro, ed altro di niuna conclusione. Nella quarta tavoletta sono due gemme intagliate; due foglie d’oro con due teste, una mistura nera con impressione; trenta impressioni di gemme antiche in ceralacca le due altre tavolette sono vuote [cancellato]. Le altre tre tavolette sono vuote. Queste gemme sono in corniole calcedoni, niccoli, cristalli, lapislazuli, pietre zolfe e verdi. Le tavolette si sono cominciate a numerare dalla parte di sopra». Cfr. l’inventario particolare Nota degl’intagli e cammei che restano collocati nella tavoletta della cassetta coperta di granatiglia. e madreperla collocata nel primo armadio, in ASF, Riccardi 270, ins. B-C, in cui le quantità restano sostanzialmente invariate, ad esclusione della terza e quarta tavoletta, che pare ricca di intagli e non di materiale di poco conto come è scritto nell’inventario del 1756. 60 Cfr. rispettivamente ASF, Riccardi, 270.1, ins. C e 270, ins. G. 58
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Elena Vaiani _______________________________________________________________________________ Medaglie d’argento l’armadio primo
sparse
per
Gemme nel secondo armadio: 220 (BRF, Ricc. 3196, c. 130)
(BRF, Ricc. 3196, c. 124)
Medaglie d’oro
Quattro ritratti di smalto
(BRF, Ricc. 3196, c. 124)
(BRF, Ricc. 3196, c. 130)
Medaglie d’argento dorate (BRF, Ricc. 3196, c. 124)
Medaglie antichi
moderne
di
imperatori
MGR 428, cc. 74 e sgg.; Ricc. 270E, cc. 9v10 Ricc. 270E, c. 10
Ricc. 270F, cc. 7v-10
Bronzi, anelli, terracotte ecc.
Ricc. 270E, cc. 7v-9v, passim
Ricc. 270F, c. 6v
27 ovati con ritratti dipinti
Ricc. 270E, c. 9v
Ricc. 270F, cc. 7v-10
54 idoli di bronzo; 13 statuette di animali; altri bronzi, vasi e instrumenta
MGR 428, cc. nn.; Ricc. 266, cc. 20v-21v; Ricc. 270.D; Ricc. 270E, cc. 3-6v; 8v
Cassetta con 755 gemme
Ricc. 270E, c. 9-9v
(BRF, Ricc. 3196, c. 130v) (BRF, Ricc. 3196, c. 130v)
(BRF, Ricc. 3196, cc. 124-124v)
Medaglie moderne di bronzo sparse pel primo palchetto (BRF, Ricc. 3196, cc. 124v-125)
(BRF, Ricc. 3196, cc. 130v-131)
Quattro tavolette di bronzo con bassorilievi
Ricc. 270F, c. 6v
(BRF, Ricc. 3196, c. 125)
Altre minuzie in bronzo
(BRF, Ricc. 3196, cc. 125-125v)
(BRF, Ricc. 3196, c. 131)
16 tazze e vasi di pietre dure e una scatoletta di pietre dure legata in ottone
Ricc. 266, cc. 22-23; Ricc.270F, cc. 10v-11v
Altre minuzie e 38 pezzi di cristallo di monte
Ricc. 266, cc. 22-23; Ricc. 270F, cc. 10v11v MGR 428, cc. 74 e sgg; Ricc. 270F, cc. 11v12 Ricc. 270F, cc. 7v-10
(BRF, Ricc. 3196, c. 125)
(BRF, Ricc. 3196, c. 125v)
Gemme appese al secondo palchetto: 222 (BRF, Ricc. 3196, c. 125v)
Medaglie moderne attaccate appoggiate al secondo palchetto
o
(BRF, Ricc. 3196, cc. 125v-126v)
54 idoli di bronzo e altri 31 bronzi (BRF, Ricc. 3196, c. 126v)
Due conchiglie
(BRF, Ricc. 3196, c. 126v)
MGR 428, cc. nn.; Ricc. 266, cc. 20v-21v; Ricc. 270.D; Ricc. 270F, cc. 3-6v Ricc. 270F, c. 10v
La collezione nell’Ottocento e la sua dispersione La dispersione delle antichità della collezione Riccardi, riguardò in grandissima parte proprio le anticaglie: la protezione degli «armari» non riuscì a preservare la raccolta da una vendita pressoché totale, destino esattamente opposto rispetto alle sculture di grande formato. Raccolta già di per sé ‘mobile’, per natura soggetta a vendite e a scambi, iniziati ben prima dell’Ottocento, le piccole antichità vennero inventariate e stimate nel 1810 e messe in vendita per lotti, i cui acquirenti sono in parte noti, grazie ai documenti conservati a Firenze e pubblicati nel 198761. L’immagine della raccolta che è restituita dall’Inventario e stima è radicalmente diversa da quelle settecentesche. Trattandosi di un inventario di vendita, in primo luogo, non vi è ovviamente più traccia della collocazione originaria dei pezzi, che sono ASF, Riccardi 278, ins. 3; Inventario e stima delle medaglie e bronzi della casa Riccardi; per i lotti di vendita delle piccole antichità cfr. MINICUCCI 1987, pp. 397 e sgg. 61
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catalogati in modo molto preciso: tipologia e materiali degli oggetti sono sempre specificati e sono recuperate molte categorie tipiche della classificazione tradizionale delle anticaglie. Non sono però solo le esigenze di vendita ad influire sui metodi di catalogazione: colpisce infatti come rispetto a quanto fosse raccolto negli «armari», la raccolta sia numericamente molto più cospicua. Tale incremento è dovuto probabilmente a due fattori, ovvero l’indefessa attività di acquisto da parte di Gabbriello Riccardi fino agli ultimi anni della sua vita62; il fatto che l’inventario raccolga tutti i possedimenti Riccardi, che non necessariamente potevano essere contenuti negli «armari». Per fare un esempio, era stato notata in precedenza la scarsità delle monete d’oro nella serie imperiale romana; questo inventario ne cita ben 13463. Così, alle monete d’oro segue la serie imperiale in argento, per un totale di 437 monete; il confronto con l’inventario del 1756 delle quantità di monete per imperatore rivela, anche in questo caso, una grande variabilità64. La serie d’argento continua con le monete repubblicane, 398, con quelle di re e città (soprattutto greche), con le moderne, di vari personaggi, poi di vari popoli e così via, fino a giungere alla serie imperiale romana di bronzo (dalla c. 30v), questa volta classificata per grandezza, e alla lunga serie di medaglie moderne (cc. 36v-64, per un totale di 744 pezzi). Seguono i bronzetti (cc. 64v-70v), il cui numero non pare molto incrementato rispetto al Settecento (162 voci d’inventario, alcune delle quali però collettive). Non sono inventariate invece le gemme e i cammei, che da un’altra lista apprendiamo essere stati circa 850; la descrizione di diversi pezzi è però contenuta in una Nota, che registra le vendite di altri oggetti, nel 181565. Prima ancora della lunga lista di acquirenti delle medaglie, dei cammei e dei bronzetti, che si alternano nei vari documenti di vendita, è forse l’asetticità dell’Inventario e stima, nel monotono suo alternarsi di categorie, numeri e prezzi, a dare prima di tutto l’idea della fine di questa collezione, legata in maniera indissolubile al suo contesto espositivo, i due grandi armadi, riccamente decorati, nello straordinario ambiente della Galleria di Luca Giordano. Questa raccolta, che rimane composta da tipologie tradizionalmente legate all’antiquaria - e che presuppone quindi interessi e conoscenze erudite, peraltro ampiamente documentate -, non è mai stata concepita solo come strumento di studio, ma anche come uno degli elementi dell’arredo della sala di maggior rappresentanza del palazzo di via Larga. Nella compresenza quindi di un solido percorso antiquario e di fortissime esigenze espositive e decorative risiedono sia gli elementi costitutivi, vitali di questa collezione collocata non solo metaforicamente tra Biblioteca e Galleria - che i motivi del suo particolare fascino; fascino percepibile anche in una ricostruzione che può appoggiarsi solo sull’evidenza dei documenti.
MINICUCCI 1987, pp. 280 e sgg; il diario degli acquisti di Gabbriello per gli anni 1780-1793 è conservato in BRF, Riccardi 3589, cc. 21-70v. 63 ASF, Riccardi 278, ins. 3, cc. 1-9v. 64 ASF, Riccardi 278, ins. 3, cc. 9v-14. Per fare qualche esempio, l’inventario e stima registra 4 monete di Giulio Cesare (erano 8 nel 1756), 2 di Marco Antonio (era 1), 21 di Augusto (25), una di Germanico (0), una di Nerone Claudio Druso (0), una di Caligola (0), una di Claudio (2), 4 di Nerone (3) una di Galba (2) ecc.; cfr. ASF, Riccardi 278, ins. 3, c. 9v e BRF, Riccardi 3196, c. 121v. 65 MINICUCCI 1987, p. 219 e ASF, Riccardi 279, ins. C, cc. 6-18. 62
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Elena Vaiani _______________________________________________________________________________
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LA BIBLIOTECA RICCARDIANA, UN PERCORSO STORICO ATTRAVERSO LA FORMAZIONE DEI SUOI CATALOGHI
Sembra scritto nel destino della Biblioteca Riccardiana mantenere, nonostante le traversie che hanno segnato la sua storia, l’aspetto e la funzione che i fondatori intesero darle. La collezione libraria, raccolta in origine da Riccardo Romolo Riccardi, a cavallo tra il XVI e il XVII secolo e ampliata dagli eredi, consentì ai suoi possessori di giocare un ruolo importante nel panorama culturale fiorentino, tanto più che, per loro stessa volontà, venne molto presto aperta al pubblico1. Ad ogni fondamentale tappa storica corrisponde un tentativo di classificazione e riordinamento del prezioso patrimonio librario da parte dei bibliotecari che si avvicendarono in casa Riccardi e ciò ci consente di tracciare un quadro evolutivo della Biblioteca, nei suoi termini essenziali, accennando alla formazione dei suoi Cataloghi. Filippo Modesto Landi, che per trenta anni rimase al servizio dei Riccardi, con mansioni di segretario, cappellano, custode del museo e bibliotecario, per primo si cimentò nella stesura di un catalogo della Libreria, completato nel 1706 ed oggi conservato in forma manoscritta presso l’Archivio di Stato di Firenze2. L’Indice de’ Libri che sono nella Libreria dell’Ill.ma Casa Riccardi si presenta come una rubrica in ordine alfabetico, recante accanto al numero progressivo di ogni volume, il nome dell’autore, il titolo, la data e il luogo di edizione e presenta una classificazione per soggetto, che rispecchia la divisione per materie della Biblioteca, che il Landi aveva compiuto avvalendosi dell’aiuto del Magliabechi e del Salvini3 (Fig. 1). Quando il Landi redasse il suo Indice, i libri erano collocati in bellissimi scaffali in noce, intagliati e dorati, che il marchese Francesco Riccardi aveva fatto sistemare nelle stanze appositamente realizzate e decorate, contigue al Salone delle Feste nel Palazzo di via Larga. Gli anni intercorsi tra l’acquisto di questa nuova residenza (1657) e il trasferimento delle collezioni riccardiane provenienti dal Palazzo di Gualfonda (1689), non furono necessari solo alla ristrutturazione degli appartamenti, ma anche ad ottenere l’autorizzazione, tramite un motuproprio granducale, per «l’alienazione e l’estrazione» dei beni, proibita per testamento da Riccardo, il fondatore della collezione4. Il Landi assisté alla crescita del fondo librario della famiglia che, già arricchitosi con la Libreria di Vincenzo Capponi, passata in eredità nel 1688 alla figlia Cassandra 5, moglie di Francesco, andava sempre di più accogliendo pregiati manoscritti, incunaboli e libri a stampa. Dal 1699, infatti, giunsero in Biblioteca molte casse di libri acquistati dal marchese Francesco a Roma, dove questi visse per cinque anni, dopo essere stato allontanato da Firenze dal Granduca per intromissioni nella sfera privata della corte6. Gabbriello dispose l’apertura al pubblico della Biblioteca Riccardiana nel suo testamento (14 luglio 1794) e i prestiti, che già in vita fece a parenti e conoscenti, sono documentati in un ‘Registro di prestito’ conservato in BRF (Biblioteca Riccardiana di Firenze), Riccardi 3481; cfr. I RICCARDI A FIRENZE E IN VILLA 1983, p. 16. 2 Indice de’ libri che sono nella Libreria dell’Ill.ma Casa Riccardi fatto per alfabeto del casato degli autori. 1706 ab inc., ASF, Riccardi 271, (cfr. MINICUCCI 1985, pp. 30-37). 3 MINICUCCI 1985, p. 31. 4 Riccardo morì nel 1612 e l’ inventario della sua libreria fu redatto nel 1632, Indice de’ Libri dell’Orto de SS.ri Riccardi fino agl di 15 di nov.e 1632: ASF (Archivio di Stato di Firenze), Mannelli Galilei Riccardi 423, c. 6, trascrizione della Fondazione Memofonte, www.memofonte.it, sezione Collezionismo Riccardiano. Questo risulta essere il primo catalogo del nucleo originario della Biblioteca Riccardiana; il motuproprio per annullare gli effetti del fidecommesso fu emanato da Cosimo III nel 1687 (ASF, Mediceo, f. 5822), (cfr. I RICCARDI A FIRENZE E IN VILLA 1983, p. 16). 5 L’inventario della libreria Capponi, Stime de’ libri della Libreria dell’Ill.mo Sig.re March.se Vincenzio Capponi, datato 1689, elenca più di 5.000 opere a stampa e 249 manoscritti, ASF, Mannelli Galilei Riccardi 346, c. 22 (cfr. scheda n. 33 p. 173 in I RICCARDI A FIRENZE E IN VILLA 1983). 1
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La dedizione con la quale Filippo Modesto Landi si occupava di riordinare la collezione libraria dopo ogni nuova acquisizione, è espressa in un accorato Memoriale7, che lui stesso indirizzò al nipote di Francesco, l’abate Gabbriello Riccardi, quando questi con i fratelli Vincenzo e Bernardino, decise di sostituirlo con Giovanni Lami.
Fig. 1 ASF Riccardi 271, c. n., Indice dei libri redatto da Filippo Modesto Landi 1706.
Al nuovo bibliotecario, entrato ufficialmente in carica il primo gennaio 1733, si deve il secondo importante catalogo della Biblioteca Riccardiana, seppure limitato ai manoscritti8. Il Catalogus codicum manuscriptorum, sempre compilato in ordine alfabetico per autori, a differenza del catalogo del Landi, venne dato alle stampe nel 1756 e già nell’Introduzione manifestava l’intenzione di non risultare una «sterile e digiuna serie di autori e titoli di libri», motivo per il quale l’autore integrò le voci che riteneva più meritevoli con piccoli stralci di testo che dessero un’idea del contenuto. Personaggio poliedrico, il Lami, produsse egli stesso una moltitudine di carte manoscritte, dovute soprattutto al carteggio con uomini di cultura del suo tempo da cui traeva notizie per le Novelle letterarie e tale materiale fu acquistato da Gabbriello dopo la sua morte, avvenuta nel 17709.
MINICUCCI 1985, pp. 23-26. Il Memoriale del Landi è tra gli Autografi Gonnelli della BNCF (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze), cass. 21, n. 67, (cfr. MINICUCCI 1985 pp. 32-34). 8 G. LAMI, Catalogus codicum manuscriptorum qui in Bibliotheca Riccardiana Florentiae adservantur, Livorno, Ex Tipographio Antonii Sanctini et Sociorum, 1756; oggi le segnature di questo catalogo non sono più in uso ed è necessario consultare le tavole di raffronto con le segnature attuali. 9 Per notizie su Giovanni Lami cfr. BARTOLONI 1996. 6 7
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Ovviamente gli scritti del Lami non compaiono nel catalogo del 1756 ma, a questa data, erano già confluiti nella Biblioteca Riccardiana i numerosi acquisti di Gabbriello, documentati da una filza di ricevute riguardanti libri, medaglie e quadri comprati tra il 1726 e il 175610. Certamente il bibliotecario poté documentare anche la presenza di tre importanti acquisizioni: la Libreria dell’abate Antonio Salvini, composta da 3349 volumi per gran parte da lui stesso postillati11, la donazione di testi di argomento giuridico e scientifico appartenuti all’avvocato Giuseppe Averani, giurista all’Università di Pisa12 e, infine, l’ingresso della biblioteca dell’umanista quattrocentesco Nicodemo Tranchedini, funzionario degli Sforza, comprendente componimenti latini e volgari del XV secolo13. La figura dell’abate Gabbriello si lega alle vicende della Biblioteca Riccardiana per quasi tutto il corso del XVIII secolo, essendo vissuto per 93 anni, fino al 1798 e avendo giocato un ruolo fondamentale per l’accrescimento della Biblioteca. Nel tentativo di accentrare le raccolte librarie dei parenti nelle sue mani, prese per uso proprio novanta libri di carattere religioso appartenuti alla madre e comprò in più volte, a partire dal 1752, i libri dall’eredità del fratello, il marchese Vincenzo, che già nel 1741 aveva donato alla Biblioteca di famiglia trentatre manoscritti14. Il suddecano Gabbriello mostrò una vera e propria passione per i libri che collezionava, li studiò, li corredò di note, li fece rilegare per conferirgli un aspetto omogeneo15 e li destinò, oltre che alla biblioteca di famiglia, anche ad una libreria privata, ospitata nelle stanze contigue al suo appartamento, l’ultimo nel mezzanino del Palazzo16. Da una testimonianza di Lorenzo Mehus, pare che la libreria privata di Gabbriello constasse di 1800 manoscritti di provenienza orientale, greca, latina, provenzale e toscana, di molti «libri impressi» e di molte lettere di uomini illustri preziose come fonti storiche17. Alla libreria di Gabbriello sono probabilmente riferibili due frammenti di cataloghi di libri a stampa, conservati tra i manoscritti riccardiani, recanti testi pubblicati fino agli anni Sessanta del XVIII secolo, trascritti per autore in ordine alfabetico18.
ASF, Riccardi 237; tra i documenti che attestano gli acquisti di Gabbriello ricordiamo anche l’Indice de’ libri comprati dal Nostro Reverendissimo Signor Suddecano Gabbriello padrone a dì 4 giugno 1753 (ASF, Riccardi 276, ins. 12), trascrizione della Fondazione Memofonte, www.memofonte.it. 11 La Libreria fu venduta dagli eredi di Anton Maria Salvini per 1151 ducati a Gabbriello Riccardi nel 1734 secondo la stima fattane dal libraio fiorentino Cattaneo Felice Buonaiuti (BRF, Riccardi 3481); il contratto di vendita è contenuto in originale in ASF, Mannelli Galilei Riccardi 448, c. 5, con un elenco di 185 manoscritti oltre l’elenco dei libri a stampa e ve ne è una copia in Riccardiana (BRF, Riccardi 3481, cc. 17-21v), (cfr. BARTOLETTI 2009 p. 122). 12 La donazione avvenne nel 1738 ad opera di Carlo Averani, fratello del defunto avvocato Giuseppe (BRF, Riccardi 3481). 13 MARACCHI BIAGIARELLI 1978, pp. 237-258; in una lettera a Lorenzo Mehus Gabbriello dice di aver acquistato i volumi del Tranchedini da Antonio Galli di Pontremoli nel 1755 (cfr. I RICCARDI A FIRENZE E IN VILLA 1983, p. 182). 14 ASF, Mannelli Galilei Riccardi 423, ins. 19, trascrizione della Fondazione Memofonte, www.memofonte.it. 15 BRF, Riccardi 3481, contiene una lista di prezzi delle legature stabiliti tra Gabbriello e l’artigiano Giuseppe Pagani in data 2 ottobre 1732. 16 I RICCARDI A FIRENZE E IN VILLA 1983, pp. 71-73. 17 L. MEHUS, Appunti sull’origine di varie librerie fiorentine, fa parte di un nucleo di 24 voll. manoscritti confluiti in Riccardiana (BRF, Riccardi 3869-3892), cfr. I RICCARDI A FIRENZE E IN VILLA 1983, p. 171. 18 BRF, Riccardi 3587 (già 3701) e Riccardi 3588 (già 3702); il primo comprende solo la lettera A e l’inizio della lettera B di libri stampati fino al 1765, il secondo è un catalogo tematico di opere di carattere religioso e contiene un elenco alfabetico completo. 10
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Nel 1783 Gabbriello Riccardi dispose la fusione della sua libreria personale con quella di famiglia, dopo aver acquistato dai fratelli Luigi e Piero Alessandro Ginori un appartamento attiguo alla Biblioteca Riccardiana, con lo scopo di ampliare gli spazi riservati al patrimonio librario nel Quartiere nobile19. La riunione fu portata a compimento nel 1787 e a sovrintendere ai lavori, fin dall’inizio, fu chiamato l’abate Francesco Fontani. Questi prestò servizio nella Biblioteca, coadiuvato dal sottobibliotecario Luigi Rigoli, fino al 1818, anno della sua morte e si occupò di redigere un altro catalogo alfabetico di manoscritti, che non venne mai pubblicato né nella versione originale in tre volumi, né nella versione ‘in bella’ che ne fece il custode Vincenzo Volpi nel 1820, su incarico del Rigoli20. Il catalogo dei manoscritti è l’opera più imponente del Fontani ma, nel primo ventennio della sua attività di bibliotecario, avviò anche la compilazione di un catalogo alfabetico degli incunaboli e delle edizioni rare e di un Indice delle Illustrazioni dei codici riccardiani, come attesta una fonte: Mosso già dall’esempio di tanti rinomati Bibliotecari, che avevano pubblicata l’illustrazione dei Manoscritti delle Librerie, alle quali eglino presiedevano, distinguendo l’edito dall’inedito, la varietà, il secolo della scrittura, la provenienza, le qualità della carta, incominciò da’ greci a fare l’Indice ragionato, e quindi meco condusse questo lavoro fino quasi alla metà dei codici, che tra greci, latini e italiani sono in numero di 3591, e questo catalogo sarebbe forse ridotto al suo termine se in questo frattempo non fossero sopraggiunte delle circostanze da doverlo interrompere21.
L’attività di catalogazione del Fontani subì una battuta d’arresto nel 1810, anno in cui si aprì una fase critica che travolse l’intero patrimonio riccardiano, destinato ad essere venduto all’asta, per far fronte all’ormai insanabile dissesto finanziario della famiglia Riccardi. Ancora una volta un catalogo, realizzato proprio nel 1810, compare come il prodotto di una svolta storica per la Libreria, anche se non presenta più le caratteristiche di uno strumento di studio ma quelle di un inventario di stima22.
ASF, Mannelli Galilei Riccardi 314; il contratto di compravendita fu stipulato in data 5 ottobre 1782 e seguono nella stessa filza carte di spese per la fabbrica sostenute negli anni 1784 e 1785. Oggi le stanze acquistate dai Ginori corrispondono alle sale d’esposizione e direzione della Biblioteca. 20 I tre volumi manoscritti del Fontani (BRF, Riccardi 3584-3585-3586, già 3698-3699-3700) sono stati ricopiati da Vincenzo Volpi in un volume che, presente in originale nell’Archivio riccardiano e consultabile in fotocopia, è stato digitalizzato per la Biblioteca Digitale Italiana ed è il Catalogo dei manoscritti attualmente in uso. 21 Elogio del Fontani pubblicato dal Rigoli in Meditazioni sopra l’albero della Croce, Firenze 1819, pp. VII-X (cfr. I RICCARDI A FIRENZE E IN VILLA 1983, p. 69); il catalogo delle illustrazioni dei codici riccardiani dell’abate Fontani è conservato in forma manoscritta presso la Biblioteca Riccardiana (BRF, Riccardi 3581). 22 Inventario e stima della Libreria Riccardi. Manoscritti e edizioni a stampa del secolo XV, Firenze 1810, trascrizione della Fondazione Memofonte, www.memofonte.it. 19
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Il 15 luglio 1811 la Biblioteca Riccardiana fu, infatti, esposta per la prima volta al pubblico incanto e, nel gennaio dell’anno successivo, il Tribunale di Prima Istanza autorizzò una seconda stima affinché la Libreria fosse venduta in lotti23. Fu stimata 32.340 scudi e, a seguito delle offerte giunte prima da un gruppo di tre librai fiorentini e poi da un mercante veneziano, il Fontani, con lunga Memoria al Maire, pregò il Comune di acquistare l’intera libreria per scongiurare il rischio di dispersione del prezioso materiale24. Tuttavia, il Consiglio del Comune non deliberò in tempo l’acquisto, la Biblioteca fu aggiudicata ad una società di librai e questa volta fu il Maire a raccomandare loro di non alienare i pezzi singolarmente e di non allontanarla dal territorio fiorentino25. Solo il 29 aprile 1813, il Comune di Firenze dispose l’acquisto della Riccardiana e, entratone in possesso, la cedette due anni dopo allo Stato26. Con un rescritto del 9 ottobre 1815, la Biblioteca Riccardiana divenne pubblica ottenendo un’assegnazione annua di dodici scudi dalla Real Depositeria e venne ufficialmente affidata al bibliotecario Francesco Fontani e al sottobibliotecario Luigi Rigoli27. Da allora la Biblioteca, passata sotto l’amministrazione granducale, visse periodi tutt’altro che tranquilli e, per limitare i costi di gestione, perse in più di un’occasione la propria autonomia. L’esemplare dell’Inventario e stima del 1810, che continuò ad essere corredato di note manoscritte dai bibliotecari nel corso dei decenni, reca le tracce delle vicende storiche che più volte minacciarono la stabilità della Riccardiana. Passando in rassegna le note a margine del testo stampato, si possono individuare i momenti critici che segnarono il suo destino. La prima situazione di pericolo che dovettero affrontare i bibliotecari, derivò dall’idea avanzata dal presidente dell’Accademia della Crusca, il conte Giovan Battista Baldelli Boni, di annettere la Biblioteca Riccardiana alla Marucelliana28. Il merito di aver dissuaso il Granduca dall’autorizzare la fusione, è tutto di Luigi Rigoli, che di fronte all’eventualità che fosse la Riccardiana a dover lasciare la sua sede, dato che le clausole testamentarie della Marucelliana impedivano a quest’ultima di essere alienata, si batté strenuamente per evitarlo. Espresse con chiarezza le sue perplessità in una serie di lettere al sovrano, in cui non solo elencò i cattivi effetti che tale trasferimento avrebbe prodotto sul piano culturale, ma soprattutto mise in evidenza l’aumento degli oneri finanziari a carico dello Stato che ne sarebbe conseguito29. Preso atto delle oggettive difficoltà di realizzazione, si rinunciò al progetto e con rescritto del 24 marzo 1820, il Granduca ordinò che almeno, per rimpinguare le casse della Libreria, si vendessero i tomi presenti in duplice copia, secondo lo schema di una nota di libri doppi redatta qualche tempo prima dal Rigoli30. Tredici sono i volumi dell’Inventario e stima, di cui viene ricordata in nota la vendita avvenuta per rescritto del 1820, mentre sicuramente più invasiva fu una campagna di vendita di libri doppi, avviata da un rescritto granducale emanato il giorno 8 marzo 1838, che produsse la perdita di 133 testi, puntualmente reintegrati con altri titoli.
MINICUCCI 1979, pp. 13-16. MINICUCCI 1979, pp. 17-18. 25 MINICUCCI 1990, p. 223. 26 MINICUCCI 1990, p. 223; la copia dei documenti dell’acquisto del Comune e della cessione al Granducato, conservata presso l’Archivio della Riccardiana, fu fatta fare dal bibliotecario Antonio Zannoni nel 1850 ed è l’unica che attesti questi importanti passaggi, essendo alluvionati gli originali. 27 MINICUCCI 1979, p. 53. 28 MINICUCCI 1987, p. 209. 29 MINICUCCI 1987, pp. 212-214. 30 Le nota di libri doppi redatta dal Rigoli nel 1820, a cui faceva riferimento il Granduca, è andata perduta, ma presso l’Archivio della Riccardiana, nella sezione Affari, sono conservate due minute autografe del Rigoli del 1832 di libri mancanti a quella data (cfr. MINICUCCI 1987, pp. 225-226). 23 24
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In quello stesso anno, il 1838, Marco Ciatti, custode della Riccardiana, noto per il suo fedele attaccamento all’Istituzione di cui restò al servizio fino alla morte, aveva completato il catalogo alfabetico degli stampati antichi, iniziato cinque anni prima per incarico del sottobibliotecario Gaspero Bencini e realizzato con l’aiuto dell’allora apprendista Fruttuoso Becchi31. Tra i testi in sostituzione di quelli venduti nel 1838, alla segnatura n. 1205 dell’Inventario e stima si trova citata la Guida della città di Fiesole, probabilmente corrispondente al Saggio di Osservazioni sui monumenti dell’antica città di Fiesole, edito a Firenze nel 1814, dell’architetto fiorentino Giuseppe Del Rosso, il cui nome è legato alla Biblioteca Riccardiana per i 134 volumi di miscellanee di architettura e antiquaria, a lui appartenuti, che vi erano confluiti nel 1831, alla sua morte32. Ancora alla metà dell’Ottocento, malgrado la «gelosa custodia» del bibliotecario Antonio Zannoni, la Riccardiana sembrò costretta a privarsi di molti volumi come si legge nelle parole di Alessandro Bulgarini, successore dello Zannoni nel ruolo di bibliotecario dal 1859: Circa la metà del nostro secolo […] essa corse il rischio di essere dispersa, ma per la gelosa custodia del Bibliotecario Zannoni, coadiuvato dal Guasti e dal Silvestri, scrittori elegantissimi, come pure dal bibliofilo Galletti, che ne tolsero per le stampe la difesa, superò anche questa vicenda. Ma la tempesta come che più non apparisse, durava sempre, per modo che alcuni anni dopo, dalla minaccia si passò ai fatti, togliendo via dalla Riccardiana ingente mole di libri per essere data al migliore offerente, sotto colore di volerla sgombra di inutili doppioni, che in realtà essa mai non ebbe, o pochissimi. Però una condotta così inesplicabile doveva prima o poi toccare il suo termine; e ciò avvenne l’anno 1859, quando l’attuale bibliotecario, succeduto al pio, quanto dotto Ab. Antonio Zannoni dimissionario, si dié con animo risoluto e instancabile alla ricerca delle perdute ricchezze. Soccorso quindi d’opera e di consiglio dall’illustre senatore Atto Vannucci, allora bibliotecario della Magliabechiana, egli poté finalmente ricuperare i volumi, ai quali era mancato il compratore, e in sostituzione dei già venduti ottenerne altri in compenso, ma certamente in pregio non eguali33.
Nel corso di tutta la seconda metà del XIX secolo e in qualità di Biblioteca Governativa nel periodo postunitario, la Riccardiana fu ancora teatro di accessioni, vendite e scambi34. Con decreto del 25 febbraio 1876, passò sotto l’amministrazione della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e, ancora una volta, fu proposto di allontanarla dai locali che la ospitavano.
Il catalogo manoscritto del Ciatti comprende le edizioni a stampa dal 1500 al 1900 in ventitre volumi ed è attualmente in uso, consultabile in fotocopia presso la Sala dei Cataloghi della Biblioteca; ad esso sono state aggiunte correzioni e precisazioni. Alla figura di Marco Ciatti, in Riccardiana dal 1820 al 1852, Maria Jole Minicucci ha dedicato il saggio L’elogio del custode (cfr. MINICUCCI 1977). 32 LAZZI 2009, p. 25. 33 BULGARINI 1872. 34 Nell’Inventario e stima del 1810 sono documentate diverse vendite e scambi di libri con la Biblioteca Magliabechiana, la Palatina, il Reale Archivio di Stato e con il collezionista Conte d’Elci. Tra le accessioni della seconda metà del XIX secolo, ricordiamo la donazione nel 1852 dei cinquantacinque manoscritti di carattere letterario e della corrispondenza del prof. Mario Pieri di Corfù, il ricco lascito che Abramo Basevi fece nel 1873 delle carte di argomento politico del periodo risorgimentale e di ventisei periodici politici toscani raccolti in trentadue volumi e la corrispondenza politica e letteraria del senatore Leopoldo Galeotti, lasciata per testamento nel 1879, raccolta in tredici grosse cassette (cfr. MICHEL 1909 e NOTIZIE STORICHE 1900). Ancora nel 1899 la Riccardiana acquistò per 1.300 scudi i nove album di lettere e i ventiquattro volumi di spogli letterari e bibliografici già appartenuti al principe Baldassarre Buoncompagni (BRF, Riccardi 3869-3892). 31
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Negli anni compresi tra il 1884 e il 1898, quando la Riccardiana riacquistò brevemente la propria autonomia, prima di passare sotto l’amministrazione della Biblioteca Laurenziana, il bibliotecario Salomone Morpurgo, collaboratore di Prospero Viani, riuscì a schedare parte del patrimonio manoscritto, pubblicando nel 1900 un catalogo, in cui elencava nel dettaglio i manoscritti dalla segnatura n. 1002 alla segnatura n. 170035. Occorrerà attendere gli anni Novanta del XX secolo, perché si compia un’ulteriore schedatura dei manoscritti ad opera di Maria Prunai Falciani, responsabile durante il decennio 1986-1996 ma, fino ad allora, il catalogo del Morpurgo risulterà essere il più analitico tentativo di riordinamento dei codici riccardiani36. Nell’Inventario l’autore si concentrò in particolare sui testi in volgare e tralasciò volontariamente i titoli dei manoscritti orientali e greci, per i quali erano già stati in precedenza redatti specifici cataloghi37. Attualmente le segnature dei manoscritti riccardiani vanno dal n. 1 al n. 4166 e nel corso del Novecento i manoscritti acquistati dalla Riccardiana da grandi librerie fiorentine come la Olsckhi e la Gonnelli, o ricevuti in dono da privati, come nel caso delle opere del letterato Renato Fucini, donate dagli eredi nel 1953, furono annotati nell’Inventario e stima del 1810; ciò a dimostrazione di come l’esemplare postillato del suddetto Inventario rechi in sé i segni delle modifiche che la Biblioteca subì nel tempo. La firma che ricorre maggiormente nelle note a margine dell’Inventario e stima è quella di Enrico Rostagno, il cui nome è legato alla Biblioteca Laurenziana, presso la quale fu impiegato a cavallo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Il lavoro di Rostagno sui manoscritti greci e latini partì da una verifica compiuta il 25 ottobre 1880, a seguito della quale fu possibile valutare quanti dei volumi mancassero, oltre quelli risultati già mancanti nelle già citate note del Rigoli. Per molti dei manoscritti di cui venne appurata la presenza, Rostagno compilò delle tavole di ragguaglio per confrontare le vecchie segnature con le nuove che gli venivano attribuite38 (Fig. 2). La Biblioteca Riccardiana rimase chiusa nel periodo che intercorse tra le due Guerre Mondiali, ad eccezione di un breve lasso di tempo nel 1933 e, nel 1939, il direttore della Biblioteca Nazionale, Domenico Fava, la riprese sotto la propria amministrazione39.
MORPURGO 1900. PRUNAI FALCIANI 1996; per studi di catalogazione sui manoscritti riccardiani cfr. anche KRISTELLER 1963 e DE ROBERTIS-MIRIELLO 1997. 37 Il primo catalogo dei codici orientali fu compilato per volontà del Lami da alcuni preti copti e reca il titolo di Catalogus codicum manuscriptorum arabice, qui in biblioteca Ill.mi ac Rev.mi Canonici Marchionis Gabrielis Riccardij adservantur (BRF, Riccardi 3822). Evodio Assemani nel 1741, redasse il nuovo catalogo Bibliothecae d. marchionis Gabrielis Riccardi metrop. Eccl. Florent. Subdiaconi codicum orientalium mss. catalogus Steph. Evodius Assemannus archiep. Apameae recensuit, digessit, notis illustravit (BRF, Riccardi 3580, già 3245); nel 1867, su commissione del Ministero della Pubblica Istruzione, Lupo Buonazia riprese e corresse l’elenco dell’Assemani nel Catalogo dei manoscritti arabici della Real Biblioteca Riccardiana, mai dato alle stampe e conservato in un volume manoscritto presso la Biblioteca Riccardiana. Nel 1935 fu invece pubblicata a Firenze l’opera di Olga Pinto, Manoscritti arabi delle Biblioteche governative di Firenze non ancora catalogati. Riguardo ai codici greci, venne pubblicato nel 1894 a cura di Girolamo Vitelli, L’Indice de’ codici greci Riccardiani, Magliabechiani e Marucelliani. 38 Le tavole di ragguaglio compaiono alle pp. 60 e successive dell’Inventario e stima del 1810. 39 I RICCARDI A FIRENZE E IN VILLA 1983, pp. 12-15. 35 36
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Allo scoppiare della seconda Guerra Mondiale, per non rischiare di essere distrutti, i manoscritti furono trasferiti nel ricovero di protezione antiaerea della Badia di Passignano, ma il 27 giugno 1942, nel pieno del conflitto, la nuova direttrice Irma Merolle Tondi ebbe di che festeggiare poiché, dopo quarantaquattro anni, la Biblioteca fu autorizzata a riaprire al pubblico in piena autonomia40. Per l’occasione fu allestita una mostra di stampati rari, che al di là di ogni aspettativa ottenne grande successo di pubblico, suscitando anche la curiosità delle autorità tedesche che la visitarono41.
Fig. 2 Inventario e stima della Libreria Riccardi, p. 60.
Non è difficile immaginare quanta fosse stata l’ammirazione provata da chi, aggirandosi per le bellissime stanze così a lungo precluse alla vista del grande pubblico, poté finalmente comprendere il valore di quel luogo, rimasto a testimoniare la volontà di affermazione di una famiglia, gravitante nell’orbita medicea ma, nel contempo, desiderosa di rappresentare un’alternativa culturale e intellettuale al mecenatismo granducale. Tanto l’obiettivo di acquisire prestigio sociale perseguito dai Riccardi poteva apparire chiaro ad un primo sguardo, espresso anche dall’aspetto sontuoso dei locali della Biblioteca, quanto celato risultava, invece, il paziente lavoro dei bibliotecari ad esso sotteso. L’importanza del loro ruolo, infatti, si comprende solo dopo aver valutato l’impegno comune che li distinse nello sforzo di fronteggiare quotidianamente il rischio di dispersione e di deterioramento del patrimonio librario e nella volontà di catalogare e inventariare tale bene allo scopo di renderlo più fruibile a chiunque avesse voluto consultarlo.
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I RICCARDI A FIRENZE E IN VILLA 1983, pp. 12-15. I RICCARDI A FIRENZE E IN VILLA 1983, pp. 12-15.
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Lucia Simonato _______________________________________________________________________________
«IL CREDULO SANDRART». LA RICEZIONE DELLA TEUTSCHE ACADEMIE (E DELLE SUE RIEDIZIONI) TRA SETTE E NOVECENTO Da poco più di un anno il testo e l’apparato illustrativo della Teutsche Academie, l’imponente opera data alle stampe da Joachim von Sandrart (1606-1688) tra il 1675 e il 1680 a Norimberga (divisa in tre volumi e composta da più di un migliaio di fogli, in grafia gotica su due colonne; Figg. 1-2), sono integralmente fruibili on line. La digitalizzazione consente una lettura più spedita dell’intero testo e una consultazione più agile di tutte le stampe che lo corredano, mentre gli accurati indici (per nome, luogo e opere d’arte citate), appositamente compilati per questa edizione informatica, permettono di penetrare la complessa architettura sandrartiana con una sicurezza (considerata la mole dell’opera) prima impensabile1.
Fig. 1 Frontespizio in J. von Sandrart, Teutsche Academie, Nürnberg 1675.
Duttile alle esigenze di un pubblico ampio (e non destinata ai soli specialisti), l’edizione on line promette di diventare un utile strumento per la conoscenza della Teutsche Academie, lo studio e la valorizzazione della quale sono stati, già dalla sua prima pubblicazione seicentesca, pesantemente inficiati dalle soluzioni editoriali diversissime adottate fino al Novecento per
Questo contributo è dedicato ad Anna, Carsten, Thorsten e a quanti sono ora impegnati in Sandrart.net, con i quali ho avuto il piacere di collaborare durante due anni di borsa postdottorale al Kunsthistorisches Institut di Firenze (2007-2008). 1 Il progetto informatico Sandrart.net. Eine netzbasierte Forschungsplattform zur Kunst- und Kulturgeschichte des 17. Jahrhunderts, realizzato sotto la direzione scientifica di Anna Schreurs con la collaborazione di diverse istituzioni tedesche, tra le quali il Kunsthistorisches Institut in Florenz, il Kunstgeschichtliches Institut der GoetheUniversität Frankfurt am Main, e la Deutsche Forschungsgemeinschaft, ha reso gratuitamente accessibile on line, a partire dal luglio 2008, all’indirizzo http://ta.sandrart.net (cfr. SANDRART.NET), i seguenti volumi sandrartiani: SANDRART 1675; SANDRART 1679a; SANDRART 1679b; SANDRART 1680a, indicati abitualmente nel loro complesso come la Teutsche Academie.
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riproporla (integra o parziale, in tedesco o in traduzione latina) ai lettori. Ultima tra queste, l’anastatica cartacea pubblicata a cura di Christian Klemm tra il 1994 e il 19952. Nell’ultimo decennio del secolo scorso la vivace attenzione nei confronti dell’antiquaria romana degli anni trenta del Seicento, del Museum Cartaceum e della Galleria Giustianiana hanno determinato una nuova messa a fuoco dello scrittore e pittore francofortese. Assecondando una rilettura delle notizie sandrartiane, ormai non più solo sulle tracce di un caravaggismo di terza generazione3, è emerso con chiarezza il ruolo svolto da Joachim a Roma sia di acuto testimone, che di attivo protagonista, come finalmente consentiva di provare l’ingente corpus dei suoi disegni giovanili dall’antico conservati a Dresda (divenuti negli ultimi due decenni di più facile accesso)4 e soprattutto l’apparato illustrativo della Teutsche Academie, che ritornava, nell’anastatica curata da Klemm, di disponibile (per quanto non agile) consultazione non solo in Germania, ma anche nelle principali biblioteche di tutta Europa. La prima edizione tedesca non era stata distribuita al di fuori del territorio germanofono, dove per gran parte del Novecento la conoscenza della produzione storiografica di Sandrart fu assicurata quasi unicamente da un compendio della Teutsche Academie pubblicato a Monaco nel 1925 da Arthur Rudolf Peltzer5: un compendio la cui fruizione in Italia e in Francia affiancò (e finì quindi per soppiantare) quella che già a partire dal tardo Seicento era stata riservata ad alcune traduzioni latine di Sandrart, curate e pubblicate dallo stesso autore, e per diversi secoli principale strumento di consultazione della sua opera da parte del più ampio pubblico europeo6. Resta emblematico il caso di Roberto Longhi: subito aggiornato sulla pubblicazione del compendio monacense, citato nelle Precisazioni nelle gallerie italiane del 1926, lo storico dell’arte italiano esibiva ancora nell’Antologia della critica caravaggesca del 1951 una sottile preferenza nei confronti della traduzione latina seicentesca di Sandrart intitolata Academia nobilissimae artis pictoriae, di cui possedeva un esemplare7. Privata completamente (tranne che per la riproduzione di alcune tavole con i ritratti degli artisti) delle illustrazioni che Sandrart aveva pubblicato tra il 1675 e il 1680, l’edizione di Peltzer dimostrò, fin dalla selezione operata, il profondo debito nei confronti dell’erudita filologia tedesca di fine Ottocento, la cui spietata Quellenforschung non aveva tardato a travolgere la Teutsche Academie. Il particolare legame, già riconosciuto all’inizio del diciannovesimo secolo da Joseph Heller (1798-1849), studioso di Dürer e di grafica tedesca, tra Joachim e una fonte norimberghese cinquecentesca di primaria importanza quale le Nachrichten di Johann Neudörffer (edite per la prima volta tra il 1822 e il 1828, ma conosciute dall’autore seicentesco grazie a manoscritti dell’epoca)8, costituì di fatto l’inizio di una nuova valorizzazione di Sandrart, che percorse gran parte dell’Otto e Novecento, innalzandolo a ‘scopritore’ dei primitivi tedeschi: una valorizzazione che finì per oscurare in Germania la precedente funzione plurisecolare rivestita dalla sua opera (e soprattutto dal suo apparato illustrativo), quale prezioso veicolo di trasmissione di iconografie antiquarie e di fonti storiche e teoriche SANDRART [1675-1680] 1994-1995, integralmente edita in http://ta.sandrart.net. Nel 1995 Klemm pubblicò anche una selezione di biografie sandrartiane, con commento: cfr. SANDRART-KLEMM 1995. 3 Si veda ad esempio CROPPER 1992 e EBERT-SCHIFFERER 1994. 4 Su questi disegni cfr. in particolare SIMONATO 2000; FUSCONI 2001; EBERT-SCHIFFERER 2001. 5 SANDRART-PELTZER 1925. 6 SANDRART 1680b; SANDRART 1683; SANDRART 1684. 7 LONGHI 1926 e LONGHI 1951, in particolare p. 55. Sia l’edizione latina seicentesca che il compendio di Peltzer sono conservati nella Biblioteca della Fondazione Longhi a Firenze, sotto la rispettiva segnatura di «Fonti 52» e «Fonti 53». 8 Cfr. HELLER 1822, p. 3: «Sandrart benutzte wohl dieses Manuscript am ersten, aber er erwähnt es mit keinem Worte, obgleich er mehrere Stellen fast wörtlich wiedergab. Es wird daher beweisen, daß Sandrart nicht, wie man ihm häufig den unrichtigen Vorwurf macht, nur schlechten Traditionen gefolgt sei, sondern er benutzte vielmehr zu seinem Buche mehrere schriftliche Nachrichten, und ich werde einstens in einem der folgenden Hefte dieser Zeitschrift beweisen, welche handschriftliche und gedruckte Quellen er zu seinem damals sehr kostbaren Werke benutzte». Si veda inoltre NEUDÖRFFER-CAMPE 1828. 2
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d’ascendenza italiana e francese. Inoltre, tra il 1832 e il 1849 le Vite vasariane furono tradotte in tedesco e commentate da Ludwig Schorn e Ernst Förster9, ridimensionando definitivamente l’utilità di Sandrart quale divulgatore dell’aretino. Con il profilarsi di questa preponderante esigenza strumentale si creò la necessità di una verifica positivistica dei prestiti sandrartiani e di una puntuale individuazione delle tangenze testuali e iconografiche tra la Teutsche Academie e le sue fonti europee cinque e seicentesche, al fine di sciogliere un pregiudizio che, ancora allo scadere del diciannovesimo secolo, induceva qualcuno a dubitare dello scrittore francofortese anche quando forniva «dati sulla sua stessa vita»: con queste parole Jean Louis Sponsel alla fine dell’Ottocento diede alle stampe un’accurata monografia sulle fonti dell’opera sandrartiana, intitolata Sandrarts Teutsche Academie kritisch gesichtet10. Ancora oggi strumento essenziale per lo studio dei tre poderosi volumi in folio norimberghesi, questo saggio venne pubblicato dopo complicate (ma significative) vicende editoriali che ne ritardarono l’uscita definitiva per più di nove anni. Un’anticipazione dell’opera, intitolata Sandrarts Teutsche Academie, eine kritische Sichtung. I Theil, e costituita da non più di una trentina di pagine, aveva visto la luce già nel 1889 a Dresda, presso l’editore Wilhelm Hoffmann11, come risultato della tesi di dottorato che Sponsel aveva condotto a Lipsia sotto la guida di Anton Springer e probabilmente avvalendosi anche della consulenza di Johann Overbeck (esplicitamente ringraziato dall’autore), a quell’epoca professore di antichità classiche nell’università cittadina e già autore delle Antiken Schriftquellen zur Geschichte der bildenden Künste bei den Griechen (Lipsia 1868). All’interno di una brevissima prefazione a questo embrionale lavoro il giovane storico prometteva l’imminente uscita dell’opera, completa, nella prestigiosa collana viennese delle Quellenschriften für Kunstgeschichte und Kunsttechnik des Mittelalters und der Renaissance: episodio che poi non si verificò. Quale motivo avesse determinato lo sfumare di questa possibilità e cosa avesse indotto Sponsel a ritornare al suo precedente editore, per provvedere autonomamente alla pubblicazione della versione definitiva della monografia, non venne di fatto chiarito dall’autore nell’introduzione dell’opera che vide infine la luce solo nel 1896. Per quanto ancora oscura in diversi aspetti, la vicenda permette però alcune considerazioni e ipotesi. Nel 1893 Cornelis Hofstede de Groot diede alle stampe uno studio intitolato Arnold Houbraken und seine Groote Schouburgh, kritisch beleuchtet (L’Aia 1893), dove non solo veniva ricordata la pubblicazione del 1889 di Sponsel, ma soprattutto si lasciava ampio spazio alla valorizzazione di Sandrart quale fonte di primaria importanza per il Groote Schouburgh di Houbraken12. Che sia stato proprio questo studio ad incoraggiare il giovane autore tedesco alla pubblicazione definitiva sembrerebbe suggerito anche dalla leggera variante lessicale introdotta nel titolo del 1896, modellato di fatto su quello di Hofstede de Groot. Più arduo è comprendere le motivazioni dei tentennamenti che portarono Albert Ilg, in quegli anni direttore della collana viennese, a rimandare e quindi a escludere Sponsel (e Sandrart) dalle Quellenschriften für Kunstgeschichte und Kunsttechnik. Le indagini fin troppo rigorose dell’allievo di Springer avevano finito per offrire un’immagine dello scrittore e pittore seicentesco del tutto asservito alle fonti, per lo più lontano dalle opere e di fatto solo occasionalmente autografo. L’impatto suscitato dal suo studio è ben testimoniato dalla recensione che ne scrisse l’anno successivo Cornelius von Fabriczy per l’Archivio storico dell’arte. Pur non lesinando elogi al giovane e accurato studioso tedesco, tanto da ritenere che «dopo il Sulla prima parte di questa edizione tedesca cfr. la Premessa al commento secolare delle Vite di Giorgio Vasari, di Paola Barocchi, pubblicata nel 1966, e ora in BAROCCHI 1984, pp. 3-33, in particolare p. 13. 10 SPONSEL 1896. Per il passo «Angaben über seine eigenen Lebensschicksale», citato in traduzione, cfr. SPONSEL 1896, p. 2. Da qui in avanti, se non diversamente specificato, le traduzioni dal tedesco all’italiano sono mie. 11 SPONSEL 1889. 12 Cfr. in particolare HOFSTEDE DE GROOT 1893, pp. 263-306. 9
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suo lavoro resta poco da dire sull’opera del Sandrart», il recensore sottolineò l’impressione che la Teutsche Academie altro non fosse che un «grandioso plagio», condotto da un autore che non aveva indugiato ad usare la prima persona singolare nemmeno quando traduceva il testo di uno scrittore morto da più di cent’anni, come Vasari13. La critica era rafforzata da un pesante fraintendimento del Fabriczy. Definita ripetutamente un’«enciclopedia», la Teutsche Academie veniva di fatto valutata dal recensore alla stregua di un abbecedario settecentesco, genere per il quale il carattere letterario e compilatorio trovava riscatto (come in Pellegrino Antonio Orlandi14) in una serrata astensione da soggettivismi critici e in una rigorosa indicazione delle fonti consultate: filologia alla quale Sandrart non si era assolutamente piegato. Proprio per il carattere eterogeneo che esibiva, la Teutsche Academie venne, nelle parole del recensore, idealmente ‘smembrata’. Da una parte, dunque, emergevano le biografie autografe dei tedeschi e degli svizzeri che, «per quanto sieno incompiute e frammentarie, restano sempre l’unica fonte autorevole», e le notizie sugli artisti suoi contemporanei, in quanto che queste sono proprio degne di fede. Anzi, se i ragguagli ch’egli dà sugli artisti da lui conosciuti in Italia si comparano con le loro biografie scritte dai rispettivi autori italiani (Baglioni, Passeri, ecc.), si è costretti a concedere essere egli in molti casi stato meglio informato di loro15.
Dall’altra parte, invece, venivano relegati le biografie mutuate da Karel van Mander, le teoriche tradotte da Vasari e soprattutto gli inserti «archelogico-tecnico-antiquari», tanto testuali quanto figurativi, dove tutto era «compendiato, anzi per la maggior parte copiato da opere anteriori» 16: un classicismo assorbito dall’Italia, e non ‘tedesco’ ed ‘autoctono’ come sarebbe stato in seguito quello di Winckelmann (per parafrasare il giudizio espresso pochi anni dopo da Wilhelm Waetzoldt)17. Sull’aspetto compilatorio della Teutsche Academie insistette ancora Julius von Schlosser nel 1924 all’interno del breve profilo che dedicò a Sandrart nella sua Kunstliteratur. Pur sottolineando il valore storico dell’imponente opera, definita un «monumento della diligente dottrina tedesca», Schlosser non risparmiò critiche né alla monografia di Sponsel (forse memore delle polemiche che ne avevano determinato l’esclusione dalla collana viennese), ritenuta «accurata anche se non completa», né ai tomi sandrartiani, presentati di fatto come una «notevolissima ed amplissima compilazione», all’interno della quale solo alcune parti redatte personalmente dall’autore dovevano meritare interesse18. Pubblicata l’anno successivo, nel 1925, l’edizione di Peltzer accolse questa eredità. I tagli che il curatore operò, basati sullo spoglio di Sponsel e quasi preannunciati dalla recensione di Fabriczy, tradirono la volontà di confermare Sandrart quale fonte originale nella descrizione non solo della propria epoca, ma soprattutto della produzione artistica nordeuropea, tanto più che, per avvalorare questa immagine, Peltzer non esitò a pubblicare anche le notizie sugli artisti tedeschi e fiamminghi del Quattro e del Cinquecento, che Joachim non aveva redatto autonomamente, ma aveva mutuato da Van Mander e da Neudörffer. Conseguenza principale di queste scelte fu la completa decurtazione, nel compendio monacense, degli inserti teorici ed antiquari e di gran parte dell’apparato illustrativo dei tre tomi seicenteschi19, ovvero la ‘trasformazione’ dello FABRICZY 1896. ORLANDI 1704. 15 FABRICZY 1896, p. 465. 16 FABRICZY 1896, p. 465. 17 Così WAETZOLDT 1921, p. 41: «Sandrarts Klassizismus ist eine Kopie romanischer Geistigkeit, Winckelmanns Klassizismus eine deutsche Originalleistung». 18 SCHLOSSER [1924] 1996, pp. 478-479. 19 Nella Einleitung Peltzer sottolineò (SANDRART-PELTZER 1925, p. 10): «wie man denn überhaupt nicht berechtigt ist, an seine Leistungen den Maßstab neuerer kunsthistorischer Methoden zu legen und ihm 13 14
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scrittore e pittore francofortese in un semplice biografo, appiattito sulla figura di Vasari, del quale forzatamente finiva per diventare l’alter ego tedesco: immagine già preannunciata da Waetzoldt nel 1921 e ribadita ancora cinquant’anni dopo l’edizione di Peltzer da Roberto Salvini nel 1974 al Congresso internazionale per il IV centenario della morte di Vasari, con un intervento intitolato eloquentemente L’eredità del Vasari storiografo in Germania: Joachim von Sandrart20. Solo qualche anno più tardi, del resto, Christian Klemm avrebbe pubblicato i primi lavori sulla produzione artistica (e non letteraria) di Sandrart21, confluiti quindi nel 1986 in un’ampia monografia dedicata alla sua attività pittorica22: un aspetto non secondario nell’accostarsi alla Teutsche Academie, dove gran parte delle tavole erano state incise a partire da disegni di Joachim (Fig. 2), e forse alla base anche della decisione, una decina d’anni più tardi, di pubblicare un’anastatica dell’opera priva di tagli.
Fig. 2 Antiporta di C.G. Amling su disegno di J. von Sandrart, in J. von Sandrart, Teutsche Academie, Nürnberg 1675.
Di natura squisitamente oltremontana, la fiducia esibita da Sandrart nei confronti di una didattica affidata alle stampe permette di misurare la distanza concettuale (e non solo meramente tipografica) dalle Vite vasariane della Teutsche Academie: un’accademia cartacea, per l’elaborazione della quale l’accurata preparazione delle tavole costituì un elemento di pari insbesondere einen schweren Vorwurf daraus zu mache, daß der größere Teil seines Werks auf Kompilation beruht». 20 SALVINI 1976. «Der deutsche Vasarinachahmer» è l’appellativo coniato per Sandrart da Waetzoldt che, forzando i risultati della ricerca di Sponsel, scrisse: «das Ergebnis der Sponselschen Untersuchung ist kurz das folgende: Sandrarts Hauptvorbild ist Vasari, der Verfasser der berühmten, den Typus der Künstlergeschichte schaffenden Vite» (cfr. WAETZOLDT 1921, pp. 26 e 35). 21 KLEMM 1979 sul viaggio giovanile di Sandrart a Roma, e KLEMM 1985 sulla sua attività artistica a Norimberga. 22 KLEMM 1986.
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dignità accanto alla compilazione delle notizie, e in rapporto alla quale complessa rimane ancora la decifrazione di quanto spetti a Joachim come autore, quanto come disegnatore e quanto infine come curatore dell’opera. A recenti studi va il merito di aver sottolineato non solo vistose collaborazioni di letterati ed incisori, sia nelle prime redazioni tedesche che nelle successive rielaborazioni latine, ma addirittura di aver dimostrato che alcune biografie di artisti tedeschi, finora ritenute autografe (perché non riferibili a fonti a stampa già edite) erano in realtà state redatte da collezionisti ed eruditi germanici, che avevano poi provveduto ad inviarle a Sandrart: un cantiere polifonico e un dialogo diretto tra Joachim e il suo primo pubblico che sollecitano oggi a considerare con rinnovata attenzione la genesi della Teutsche Academie e le diverse regie che ne scandirono le complesse fasi editoriali23. Pubblicata nel 1679, la seconda parte dell’opera rappresentò per Sandrart, ad esempio, non solo un’occasione per emendare i difetti e riparare alle critiche mossegli subito dopo l’uscita del primo tomo, ma anche l’opportunità per sviluppare l’iniziale progetto editoriale secondo nuove ed allargate prospettive24. Caduta l’articolazione in teoriche e vite che caratterizzava il volume del 1675, il tomo del 1679 venne trasformato in un’agile struttura tripartita, all’interno della quale ogni sezione era dedicata ad una delle tre arti, di volta in volta analizzate con strumenti illustrativi (corredati di testo) di natura eterogenea: planimetrie di edifici antichi e moderni accanto a vedute paesaggistiche delle colline laziali (per l’architettura); statue antiche accanto a tavole dedicate ai busti degli imperatori romani, contornati da placchette per illustrarne le gesta (per la scultura); ed infine biografie di pittori accanto a proposte iconografiche suggerite da gemme e medaglie (per la pittura). A partire dal 1679, inoltre, divenne cospicua la collaborazione alla Teutsche Academie dei due pronipoti di Joachim, Susanne Maria (1658-1716) e Johann Jakob von Sandrart (1655-1698). Entrambi incisori e non eruditi o letterati, del loro coinvolgimento nell’imponente impresa editoriale norimberghese decisiva fu l’incidenza sull’apparato illustrativo, come esemplificano due episodi. Per l’Iconologia deorum dello zio, pubblicata nel 1680, Susanne Maria approntò due rami raffiguranti la Nova nupta, ovvero le cosiddette Nozze Aldobrandini25, un affresco antico riprodotto nel decennio precedente da Pietro Santi Bartoli in due stampe, poi accluse da Giovan Pietro Bellori negli Admiranda Romanarum antiquitatum ac veteris sculpturae vestigia (Roma 1693)26. Le incisioni di Susanne Maria vennero quindi riproposte da Joachim von Sandrart, quattro anni più tardi, all’interno dell’Academia nobilissimæ artis pictoriæ27, il compendio latino della Teutsche Academie, al quale anche Johann Jakob collaborò, disegnando ed incidendo (tra le altre) un’immagine dell’Incendio di Borgo vaticano, con la didascalia: «Raphael d’Urbino pinxit. Joh: Jac: de Sandrart delineavit et sculpsit, Norimb. 1682»28. Per quanto questa edizione latina, pubblicata nel 1683 e destinata ad un pubblico europeo, riproponesse un’impalcatura vasariana (con teoriche, vite e galleria di ritratti), l’esperienza del secondo volume della Teutsche Academie finì per forzarne la struttura, tradendo l’insofferenza Inaugurate da Christian Klemm (KLEMM 1994 e KLEMM 1995), le indagini sulla genesi della Teutsche Academie, sulle collaborazioni di Sandrart con eruditi e letterati per la redazione tanto delle edizioni tedesche quanto di quelle latine, e sulla loro prima distribuzione e fruizione non solo in Germania, ma anche in Europa, sono state recentemente affrontate in FRUCHTBRINGENDE GESELLSCHAFT 1997, pp. 245-302, GERSTL 2000; SIMONATO 2004; MEURER 2006. Attivamente coinvolto nell’officina sandrartiana fu, ad esempio, Christoph Arnold, un antiquario norimberghese in contatto con la Firenze medicea e con Antonio Magliabechi (cfr. SIMONATO 2000): un cospicuo corpus di lettere da lui scritte al figlio Andreas, impegnato in un ampio viaggio di formazione in Inghilterra e in Francia, sono attualmente in corso di pubblicazione da parte mia e di Susanne Meurer. 24 SANDRART 1679a. 25 SANDRART 1680a, tavv. JJ. e KK [http://ta.sandrart.net, pp. 1343 e 1581-1584]. 26 FUSCONI 1994, pp. 95-103. 27 SANDRART 1683, post p. 90. 28 SANDRART 1683, post p. 122. 23
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dell’autore (e dei pronipoti) nei confronti del modello letterario cinquecentesco e le aspirazioni alla compilazione di un atlante figurato che riuscisse a conciliare descrizione testuale e riproduzione grafica delle opere, tanto addirittura da provare ad ancorare dati figurativi alla storia letteraria pliniana o ad offrire una versione illustrata di Vasari. Un’aspirazione, colta a fine Settecento da Angelo Comolli che, rilevando una simmetria tra la selezione delle opere offerta da David Teniers nel suo Theatrum Pictorium (1660) e l’Academia norimberghese affermò: siccome il Sandrart mostra i progressi dell’arte coll’indicare le qualità e i caratteri de’ diversi artisti, così il Teniers mostra lo stesso col dar un saggio delle loro opere principali: onde dall’unione di amendue ne risulterebbe un’opera molto interessante29.
Fig. 3 Antiporta di J.J. von Sandrart, in M. Kramer, Neu-ausgefertiges herrlich-grosses und allgemeines italiänisch-teutsches Sprach- und Wörter-Buch/Il nuovo dittionario reale italiano-tedesco, Nürnberg 1693.
Cresciuti all’ombra della Teutsche Academie, Susanne Maria e Johann Jakob, proseguirono anche dopo la morte del prozio sulla via che era stata loro indicata e si esercitarono non solo nella produzione di singoli fogli sciolti, d’invenzione e frontespizi per opere altrui (Fig. 3), ma anche nella compilazione di intere serie in folio, ottenute reincidendo personalmente raccolte di autori italiani o francesi, dedicate ad aspetti puntuali della produzione artistica antica e moderna (tanto scultorea quanto pittorica), redatte alcune volte in tedesco, altre in latino o addirittura in italiano. Spesso il loro ruolo non andò oltre a quello di semplici editori, con la commissione ad altri delle lastre o con il reimpiego di rami già esistenti (spesso della stessa Teutsche Academie)30. In più casi, come dimostra la pubblicazione da parte di Johann Jakob nel 1694 delle Icones excellentissimarum picturarum (una suite raffigurante gli affreschi di Giovanni COMOLLI 1788-1792, II, p. 84. Sulla produzione grafica dei membri della famiglia Sandrart, compresi Susanne Maria e Johann Jakob: PAAS 1994; PAAS 1995a; PAAS 1995b. 29
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Lanfranco nella Cappella Bongiovanni di Sant’Agostino a Roma), anche le nuove scelte editoriali esibivano, pur a distanza di anni, l’assoluta centralità dell’insegnamento del prozio31. Il gradimento nei confronti dell’apparato illustrativo dell’opera di Joachim, così come il deciso intervento nella promozione dell’eredità sandrartiana da parte dei pronipoti, sono due elementi che contribuirono concretamente alla fortuna della Teutsche Academie durante tutto il Settecento. Per testimoniare l’ampia diffusione in Europa delle edizioni latine di Sandrart e dei volumi illustrati di Susanne Maria e Johann Jakob durante la prima metà del secolo è adatto l’esempio di Francesco Maria Niccolò Gabburri (1676-1742). Nelle sue Vite di pittori, redatte tra il 1730 e il 1742, lo scrittore fiorentino, attenendosi ad un modello già impostato da Orlandi e forte dei consigli epistolari di Sebastiano Resta, attinse a piene mani dall’Academia nobilissimæ artis pictoriæ del 1683, per recuperare notizie non solo su artisti seicenteschi e stranieri (per le vite dei quali Sandrart figurava, a quell’altezza cronologica, spesso ancora l’unica voce spendibile), ma anche su artisti italiani quattro e cinquecenteschi e addirittura primitivi trecenteschi, come Ambrogio Lorenzetti: un rimando bibliografico, in questi casi, non necessario da un punto di vista strumentale, ma ugualmente imprescindibile alla luce della diffusione soprannazionale di cui ormai godeva l’opera32. Così come già Orlandi prima di lui, probabilmente anche Gabburri non sospettava che questa fortunatissima riduzione latina (ovvero il «bellissimo libro in foglio coi ritratti e questo è quel Sandrart che tante volte si nomina in questa opera») altro non fosse che il succinto compendio di una monumentale edizione illustrata in lingua tedesca, data alle stampe in precedenza da Joachim33: di certo però lo scrittore fiorentino non ignorò la produzione grafica dell’artista tedesco e quella incisoria dei suoi pronipoti, stando almeno ad un confronto con il Catalogo dei disegni e delle stampe della sua collezione, redatto nel 1722 e oggi conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. In contatto con le voci più aggiornate del panorama europeo, Gabburri possedeva infatti non solo le altre due traduzioni che Joachim aveva fatto pubblicare in latino mentre era ancora in vita (gli Sculpturae veteris admiranda del 1680 e il Romae antiquae et novae theatrum del 1684), ma anche gran parte delle raccolte di stampe edite da Johann Jakob34: la seconda edizione tedesca e illustrata delle Metamorfosi di Ovidio, datata 169835; la serie degli Insignium Romae templorum prospectus exteriores et interiores a celebrioribus architectis inventi, composti da oltre settante incisioni36; i Palatiorum romanorum a celeberrimis sui aevi architectis erectorum, diviso in tre parti e dati alle stampe nel 169437; la riedizione del 1692 in tedesco degli Admiranda di Giovan Pietro Bellori, illustrati con ottanta tavole da Pietro Santi Bartoli38; la riedizione de Li giardini di Roma di Giovanni Battista Falda39; una nuova edizione tedesca dell’opera francese sulle proporzioni del corpo umano di Gérard Audran40; oltre a una raccolta di incisioni di Salvator Rosa edite «Norimbergem apud Ioan. Jacobum de Sandrart» e ICONES 1694. Su Lanfranco, del quale conosceva personalmente diverse opere romane, napoletane e anche conservate in Germania, Joachim scrisse un interessante profilo nella sua Teutsche Academie: cfr. SANDRART 1675, TA 1675, II, p. 198 [http://ta.sandrart.net, p. 412]. 32 Su Gabburri si veda il primo numero monografico di Studi di Memofonte (2008, 1), con bibliografia precedente. Le attestazioni sandrartiane nelle Vite dello scrittore fiorentino (conservate a Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Palatino E.B.9.5, I-IV), possono essere verificate anche in www.memofonte.it. 33 La vita di Sandrart scritta da Gabburri è conservata a Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Palatino E.B.9.5, III, cc. 1127-1128 (cfr. www.memofonte.it). 34 Cfr. il Catalogo dei disegni e delle stampe di Francesco Maria Niccolò Gabburri conservato alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, ms. II.IV.240, in particolare cc. 282-284, 292-294 e 297 (ora consultabile anche in www.memofonte.it). 35 METAMORPHOSIS 1698. 36 PROSPECTUS [s.a.]. 37 PALATIORUM 1694, realizzato «sumptibus Ioh. Iacobus de Sandrart». 38 MERCKZEICHEN 1692. 39 GIARDINI [s.a.]. 40 AUDRAN 1690, stampato «in Verlegung Johann Jacob Sandrart». 31
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ad una serie di illustrazioni di moderni altari romani, «di stampe 40 in tutto, col frontespizio di Ciro Ferri», intitolata Aras, imagines, symulacra (Figg. 4-5)41.
Fig. 4 Antiporta su disegno di Ciro Ferri, in Altaria et sacella varia templorum Romæ, Norimbergæ s.a. Fig. 5 Incisione con l’Estasi di santa Teresa di G.L. Bernini, in Altaria et sacella varia templorum Romæ, Norimbergæ s.a., tav. XVII.
Che in Germania queste raccolte, già l’indomani della loro uscita, venissero considerate come la naturale prosecuzione del progetto editoriale di Joachim von Sandrart, ovvero come un’appendice della sua monumentale opera, al punto da far con il tempo passare in secondo piano il nome stesso dei loro autori, è provato dalla seconda edizione (settecentesca) in otto volumi della Teutsche Academie, data alle stampe a partire dal 1768: una data significativa se si considera che tra il 1759 e il 1760 era uscita l’edizione romana delle Vite vasariane di Giovanni Bottari, nata sotto gli auspici pedagogici dell’Algarotti42, e nel 1764 si era appena conclusa La vie des peintres flamands, allemands et hollandais di Jean Baptiste Descamps (Parigi 1753-1764), che offriva una ricco bagaglio di notizie sull’arte oltremontana in una lingua ampiamente diffusa in Europa come il francese. Pubblicata a Norimberga presso gli Endter, a cura di Johann Jakob Volkmann (1732-1803), un allievo di Winckelmann, la riedizione della Teutsche Academie (17681775) fu addirittura più sontuosa dell’originale seicentesco, dal momento che non si limitò a riproporre ai lettori gran parte del testo e del materiale grafico che già Joachim aveva dato alle stampe in vita, ma anche diverse serie di incisioni pubblicate dopo la sua morte dal pronipote Johann Jakob: opere autonome, delle quali il curatore tacque, nell’introduzione del 1768, la Corrispondente a ALTARIA ET SACELLA [s.a.], pubblicato «apud Ioh. Iacob de Sandrart». Per queste citazioni si veda il Catalogo di Gabburri alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, ms. II.IV.240, in particolare c. 292 (cfr. www.memofonte.it). 42 Cfr. la Premessa al commento secolare delle Vite di Giorgio Vasari, di Paola Barocchi, edita nel 1966, e ora in BAROCCHI 1984, pp. 3-33, in particolare pp. 4-8. 41
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diversa paternità, riferendone con disinvoltura la piena autografia al solo Joachim43. Intitolata Joachims von Sandrart Teutsche Academie, questa imponente riedizione settecentesca sviluppava e portava alle estreme conseguenze una regia propriamente sandrartiana, già elaborata dal pittore e scrittore francofortese nel secondo tomo del 1679: costituita da «non solo principi teorici, ma anche esempi»44, la Teutsche Academie venne riproposta da Volkmann divisa in tre grandi sezioni, ciascuna delle quali dedicata ad una delle tre arti e composta da illustrazioni eruditoantiquarie (per lo più già edite da Joachim) e da inserti dedicati alla produzione moderna (dati alle stampe dai pronipoti). Giardini, chiese e altari romani cinque e seicenteschi arricchirono ad esempio la parte dedicata all’architettura; i bassorilievi antichi derivati da Bartoli e le regole sulla proporzione del corpo umano di Audran integrarono (e quasi ‘commentarono’) la selezione di statue antiche pubblicate da Joachim nell’edizione tedesca del 1675-1679 (e nuovamente negli Sculpturae veteris admiranda del 168045); e, infine, le notizie sugli artisti (prevalentemente pittori) edite nella terza parte vennero precedute dalle immagini delle volte di Lanfranco incise da Johann Jakob, dagli schizzi di Salvator Rosa e da diverse opere di pittura riprodotte in stampe di traduzione46. Non priva di intenti commerciali, la riedizione settecentesca costituì, per mole e sontuosità, uno straordinario monumento a Sandrart, la cui produzione pittorica (e non solo quella storiografica) era alla metà del diciottesimo secolo ancora ben conosciuta in Germania, tanto che un instancabile viaggiatore come Johann Georg Keyssler (1693-1743), nei suoi Reisen, consigliava di ammirare a Norimberga il Friedensbanquet dipinto «dal famoso Sandrart», dove «il pittore aveva provveduto ad effigiare anche se stesso in un angolo, in una posizione tale, da seguire con lo sguardo tutte le persone: ci si metta pure dove si vuole!»47. Keyssler si dilungava quindi in una dettagliata descrizione della collezione di Joachim, ancora conservata nella città tedesca e visitabile per concessione della (devota) vedova ottantenne del pittore, Esther Barbara Blomart (1651-1733)48, ritratta anche da Volkmann nella sua riedizione (accanto a medaglie con l’effigie di Sandrart e all’immagine della sua tomba), quasi fosse essa stessa divenuta nel diciottesimo secolo un monumento (vivente) alla memoria del marito49. Resa possibile dalla sopravvivenza, ancora a quella data, dei rami originari tanto di Sandrart quanto dei pronipoti, la riedizione era stata sollecitata dal vivo interesse che dopo un secolo SANDRART-VOLKMANN 1768-1775, I, p. X: «ausserdem hat Sandrart noch einige wichtige Werke heraus gegeben, die in der ersten Ausgabe der Akademie nicht anzutreffen sind […]. Diese sämtlichen kleinen Werke wird man gegenwärtiger neuen Ausgabe der Akademie beyfügen, damit die Liebhaber alles, was von Sandrart heraus gegeben worden, in diese Sammlung beysammen haben». Cfr. anche FRUCHTBRINGENDE GESELLSCHAFT 1997, pp. 275-276. 44 SANDRART-VOLKMANN 1768-1775, I, p. VIII: «nicht nur Grundsätze, sondern auch Beyspiele». 45 SANDRART 1680b. 46 La suddivisione interna di SANDRART-VOLKMANN 1768-1775 è la seguente: 1. Haupttheil, 1768-1770 (vol. 1: Welcher von den Baumaterialien, den fünf Ordnungen und deren Regeln handelt, und die Vorstellung der römischen Kirchen enthält; vol. 2: Welcher die besten Muster der alten und neuen Baukunst und die römischen Altäre enthält; vol 3: Welcher in zwey Abtheilungen die römischen Palläste, und einige Gebäude des Palladio im venezianischen Gebiete, und die merkwürdigsten Springbrunnen in Rom vorstellig macht); 2. Haupttheil, 1771-1772 (vol. 1: Von der Bildhauer-Kunst; vol. 2: Welcher des Bartoli anticke Basreliefs von Rom, die römischen Gärten, und die Verwandlungen Ovids enthält); 3. Haupttheil, 1773-1775 (vol. 1: Welcher vier Abteilungen enthält: I. Eine Einleitung zur Malerkunst. II. Testelins Tabellen von der Malerey. III. Die Kuppel des Lanfranco. IV. Die Kupferstiche des Salvator Rosa und anderer Meister; vol. 2: Welcher drey Abteilungen enthält: I. Von den alten egyptischen, griechischen und römischen Malern. II. Von den berühmtesten neuern italienischen Malern, Bildhauern und Baumeistern. III. Nachrichten von niederländischen und teutschen Malern; vol. 3: Welcher die Ikonologie der Götter nebst einem Gesamtregister enthält). 47 KEYSSLER-SCHÜTZE 1751, p. 1386: «von dem berühmten Sandrart […], und der Maler hat sich selbst auf der einen Seite in solcher Stellung gemalt, dass er alle Leute ansieht, man mag sich stellen, wohin man will». 48 KEYSSLER-SCHÜTZE 1751, pp. 1407-1409, e in particolare p. 1408: «die Frau Sandrart selbst ist eine von den größten Raritäten ihres Kabinets, wenn man ihr munteres Alter und unvergleichliches Gedächtniß in einem Alter von achtzig Jahren betrachtet». 49 SANDRART-VOLKMANN 1768-1775, I, post p. XXVIII. 43
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continuavano a suscitare in Germania le illustrazioni di Joachim e di Johann Jakob, apprezzate sia da un punto di vista informativo, sia ancora evidentemente da un punto di vista stilistico, tanto da diventare ormai rare e di costo elevato, come sottolineava (poco prima che Volkmann iniziasse la sua operazione editoriale) una bibliografia francese del 1764, stampata a Parigi da Guillaume-François Debure: «tous ces ouvrages de Sandrart sont fort recherchés; mais il est difficile de les trouver rassemblés»50. Antifilologiche e squisitamente pittoriche, o, come avrebbe scritto un centinaio d’anni dopo Leopoldo Cicognara nel suo Catalogo, «di ricca e infedelissima esecuzione, le quali non hanno il menomo carattere de’ monumenti in esse prodotti»51, le stampe di Sandrart con le statue romane, edite nella Teutsche Academie rappresentarono uno strumento di conoscenza dell’antico per diverse generazioni di eruditi oltremontani, tra i quali anche Johann Joachim Winckelmann (1717-1768)52. Se rimane il sospetto che forse sia stata anche l’interpretazione ‘rubensiana’ dell’Apollo del Belvedere, dello Spinario capitolino o di altre sculture romane lasciate incidere da Joachim a far maturare nel celebre studioso settecentesco l’idea di un’antichità vitale e in movimento, quanto egli frequentasse e addirittura apprezzasse le opere sandrartiane, già prima di venire a Roma, è provato da diverse testimonianze, tra le quali una lettera del settembre 1747. In questa Winckelmann, davanti ad una stampa della Teutsche Academie raffigurante la Ninfa con conchiglia Borghese (oggi al Louvre) e realizzata a ‘taglio unico’ (un unico tratto incisorio concentrico), non celò il più vivace entusiasmo né per l’artificiosa tecnica grafica impiegata, né per la naturalezza dei risultati che con essa erano stati conseguiti53. Se rispetto all’apparato figurativo Volkmann procedette reimpiegando inalterate (e spesso ormai consunte) tavole seicentesche e accogliendo anche materiale non derivante dalla prima edizione sandrartiana, sul testo della Teutsche Academie operò invece tagli e ammodernamenti, spesso secondo discutibili criteri di selezione. Non ancorata a interni rimandi illustrativi e lontana dall’immagine che il curatore voleva trasmettere di Sandrart, quale fonte antiquaria e sull’arte italiana di primaria importanza, una significativa parte sulle collezioni seicentesche oltremontane, scritta da Joachim ricorrendo per lo più a ricordi personali e senza l’ausilio di altri testi, venne esclusa dalla seconda edizione54, nonostante costituisse uno degli inserti più originali e felici dell’intera Teutsche Academie, per questo recuperato e ripubblicato nel 1925 da Peltzer. Come prometteva ai lettori fin dall’introduzione, Volkmann intervenne sul pomposo lessico barocco55, e non lesinò aggiornamenti né correzioni. Nel primo tomo dedicato alla scultura, pur ribadendo ancora l’utilità della selezionata casistica sandrartiana di statue antiche56, il curatore non evitò ad esempio di
DEBURE 1764, p. 558. CICOGNARA 1821, I, p. 49, n. 286, riferendosi a SANDRART 1680. 52 Cfr. ad esempio WINCKELMANN-KUNZE 1994, pp. 34 e 147. Winckelmann conosceva ed utilizzò anche l’Academia nobilissimæ artis pictoriæ: si veda WINCKELMANN-REHM 2002, p. 364. 53 Cfr. WINCKELMANN 1952-1957, I, p. 76: «mir deucht, ich hatte einiger Stiche im Sandrart erwehnt. Ich entsinne mich in selbigem Buche von einer liegenden nackenden Frau aus dem Palais Borghese in Rom (von einem antiken Marmor), wo der Künstler auf dem Wirbel ganz unvermerkt angesetzt hatte, und in lauter ununterbrochenen Kreisen seinen Stich fortgesetzt, und starke und schwache Schatten dermaßen ausgedruckt, daß dieß gekünstelte Spielwerk nicht gekünstelt, sondern der Natur vollkommen nahe zu kommen schien». Per la stampa cfr. SANDRART 1679, II, tav. bb [http://ta.sandrart.net, p. 862]. 54 SANDRART-VOLKMANN 1768-1775, I, p. X: «hingegen hat man einige überflüssige Dinge, als das Verzeichniß von den ehemaligen Kunstsammlungen, die längst zerstreuet sind, […] mit allem Bedachte weggelassen». 55 SANDRART-VOLKMANN 1768-1775, I, p. IX: «daher ist die Schreibart in diesem Buche für unser jetziges Jahrhundert unausstehlich». 56 SANDRART-VOLKMANN 1768-1775, IV, p. 7: «über dieses findet man solche hier zusammen, da man die Statuen sonst aus vielen Büchern und in den Gallerien, wo sie anzutreffen sind, suchen muß». 50
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ricordare le più recenti scoperte di Ercolano e le leggi di tutela emanate da Benedetto XIV 57, né risparmiò critiche a Joachim e a Christoph Arnold (suo collaboratore alle Sculpturae veteris admiranda) per alcune infelici attribuzioni (ad esempio a Fidia e a Prassitele dei Dioscuri) o per quella novellistica accolta spesso senza troppi indugi dai due autori58. Opera redatta da un artista tedesco che era stato in gioventù in Italia e che in un generoso Lebenslauf annesso ai suoi volumi era stato celebrato quale protagonista di importanti eventi dell’arte europea seicentesca, la Teutsche Academie aveva offerto già da quasi un secolo notizie preziose sulla Roma antica e moderna ai viaggiatori oltremontani in procinto di partire per il Grand Tour e, al momento della riedizione di Volkmann, veniva già ampiamente citata negli abbecedari italiani e francesi settecenteschi59, all’interno dei quali le notizie sandrartiane erano state riproposte in una oggettivazione spoglia di accenti personali e manipolazioni letterarie. Che rispetto alla riedizione del testo della Teutsche Academie (in un formato come quello in folio imposto dall’apparato illustrativo e poco adatto alla lettura) le perplessità del curatore non fossero solo di natura lessicale e contenutistica, ma anche di natura tipologica, è evidente alla luce delle sue scelte editoriali. Autopromossosi ‘erede’ di Joachim, soprattutto quale conoscitore di Roma e dell’Italia, che al pari del pittore seicentesco aveva personalmente visitato60, Volkmann non si limitò ad aggiornare e ad annotare l’opera sandrartiana, ma pubblicò anche, tra il 1770 e il 1771, in tre tomi, un’agevole guida in ottavo della penisola, intitolata le Historisch-kritische Nachrichten von Italien61. Ricca di rimandi all’apparato illustrativo sandrartiano, citato nella sua seconda edizione, questa fortunatissima guida, aggiornata sulle pubblicazioni più recenti (Winckelmann, Lalande), ma intrisa ancora di notizie mutuate dalla Teutsche Academie, fu ristampata diverse volte e addirittura tradotta in altre lingue. Adoperata da Johann Wolfgang von Goethe (17491832) durante il suo celebre viaggio in Italia62, contribuì alla sopravvivenza di certe osservazioni sandrartiane su Roma, anche quando, allo scadere del secolo e all’inizio di quello successivo, l’interesse in Germania nei confronti degli inserti antiquari della Teutsche Academie aveva cominciato a declinare; le stampe dall’antico di Joachim e dei suoi pronipoti, così come in generale quelle degli «abili precursori di Piranesi», apparivano un repertorio da case polverose e vecchi padri nostalgici63, e lo stesso formato editoriale dell’opera suscitava non poche perplessità. In un panorama europeo profondamente mutato, diviso tra antiaccademiche istanze preromantiche e nuove esigenze puriste, Clemens Brentano (17781842), nel suo Godwi oder Das steinerne Bild der Mutter del 1800, non indugiava a lamentarsi della fatica che aveva provato da bambino sollevando «Sandrart, Merian» e altri libri illustrati (tanto da arrivare a preferire il cielo aperto alla biblioteca di casa)64, e non avrebbe tardato molto a SANDRART-VOLKMANN 1768-1775, IV, p. 17. SANDRART-VOLKMANN 1768-1775, IV, pp. 19-21. 59 SIMONATO 2004. 60 SANDRART-VOLKMANN 1768-1775, I, p. IX: «die Leser können diesen Nachrichten um so eher Glauben beymessen, weil der Herausgeber sich vor einigen Jahren eine geraume Zeit in Italien aufgehalten, und die Unterschung der Künste und der Alterthümer zum Hauptzwecke seiner Resein gemacht hat». 61 VOLKMANN 1770-1771. 62 Su questa guida tedesca e sulla sua fruizione alla fine del Settecento cfr. RICHTER 1982 e MORRISON 1996. 63 Cfr. il seguente passo goethiano di Aus meinem Leben. Dichtung und Wahrheit, in GOETHE-MAZZUCCHETTI 1962-1963, I, p. 579, dove il poeta tedesco descrive la confidenza che aveva acquisito in gioventù, grazie alla stampa, con le vedute romane, prima di compiere il viaggio in Italia: «nell’interno della casa [paterna], quel che più di tutto attirava il mio sguardo era una serie di vedute di Roma, di cui mio padre aveva adornato l’atrio, incise da qualche abile precursore del Piranesi, buon intenditore di architettura e di prospettiva, dalla punta molto chiara e pregevole. Vedevo così ogni giorno Piazza del Popolo, il Colosseo, Piazza San Pietro, San Pietro, l’esterno e l’interno, Castel Sant’Angelo e tante altre cose. Queste vedute si impressero profondamente in me, e il babbo, di solito molto laconico, aveva talvolta la compiacenza di farci una descrizione del soggetto». 64 BRENTANO 1991, p. 90: «spesso già da fanciullo tutta la vita era per me / una lenta e grigia monotonia. I quadri, / che erano appesi nella sala e nelle stanze, / li conoscevo esattamente; perfino la biblioteca, / con 57 58
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delinearsi in Germania l’esigenza di una rilettura di Sandrart, quale fonte non per l’arte antica e italiana, ma per l’arte tedesca: una fruizione di fatto non troppo lontana da quella che negli stessi anni si era ormai consolidata, per vie diverse, anche in Italia. Nel 1821, all’interno del suo Catalogo, Cicognara non si limitò a criticare gli Insignium Romæ templorum prospectus di Johann Jakob von Sandrart, «essendo eccessivo il numero di quelle [chiese, in essi pubblicate] che, in quanto al gusto, non onorano la capitale del mondo cristiano e il centro delle buone arti»65, ma soprattutto sottolineò il carattere di compendio dell’Academia nobilissimæ artis pictoriæ di Joachim, definita una «versione latina dell’opera originale tedesca che in due tomi comparve nel 1675-1679 […], maggiormente utile per le arti che si coltivarono fuori d’Italia»66: un passaggio, tutt’altro che scontato (già solo considerando l’indiscriminato utilizzo fatto di quest’opera un secolo prima da Gabburri), che necessita di una spiegazione. Cicognara non acquistò la riedizione della Teutsche Academie di Volkmann, che di fatto non circolò in Italia. Se ne lamentò Comolli nel 1788, che dubitò addirittura della sua pubblicazione67, e anche Filippo della Valle, nella prefazione delle sue Vite dei pittori antichi greci e latini, edite a Siena allo scadere del Settecento: «un avviso pubblicato del 1768 dal sig. Gio. Entdter annunziò la ristampa in tedesco di tutte le opere di detto scrittore [Sandrart], colla giunta di varie cose utili, divise in otto volumi; ma a me non riuscì di vederla»68. Pur criticando spesse volte l’opera sandrartiana, fruita peraltro solo attraverso la traduzione latina del 1683, Filippo della Valle ne attinse ampiamente e la presentò nell’introduzione del proprio volume ancora come un’utile fonte, accanto a testi di Franciscus Iunius e di Winckelmann: Gioacchino de Sandrart pubblicò nel secolo passato la sua Accademia, che contiene i ritratti e le vite di tutti i pittori, de’ quali egli ebbe notizia; e sebbene vi siano parecchi errori, specialmente riguardo agli antichi, vi si trovano però delle cose pregevoli intorno ai moderni, de’ quali alcuni anneddoti e ritratti meritano lode particolare69.
Furono proprio i ritratti dei pittori antichi a catturare l’attenzione del Della Valle, che nel 1795 li riprodusse quasi integralmente all’interno della propria opera, intervenendo talvolta sul nome degli effigiati per correggere alcuni errori di Sandrart. Tra questi, uno dei più clamorosi fu l’aver creduto all’esistenza, come già prima di lui Van Mander, di un pittore antico di nome Demone Ateniese, tanto da attribuirgli addirittura un volto70: un pittore in realtà mai citato da Plinio, ma nato già in epoca umanistica da un fraintendimento del passo pliniano su Parrasio e sul suo celebre dipinto raffigurante il demos, il popolo, di Atene. Non senza una punta polemica nei confronti del Della Valle, che pur biasimando ripetutamente Sandrart non aveva indugiato ad abbellire la propria opera con gli splendidi ritratti (tutti di fantasia) editi dal pittore e
Sandrart, Merian, con i libri illustrati, / che riuscivo appena a sollevare, era disprezzata, / l’avevo osservata fino alla nausea. / Così mi stendevo per terra / e nelle multiformi nubi del cielo, / che galleggiavano in alto leggere, cambiando colore / cercavo il mutamento di una vita fugace». Su questo passo del poeta tedesco ha già riportato l’attenzione KLEMM 1986, p. 334. 65 Si veda CICOGNARA 1821, II, p. 218, n. 3873. Per l’opera citata cfr. PROSPECTUS [s.a.]. 66 CICOGNARA 1821, I, p. 32, n. 203, con riferimento a SANDRART 1683. 67 COMOLLI 1788-1792, II, p. 88: «io non so se questa superba collezione [l’edizione di Volkmann] siasi pubblicata, ma sarebbe un danno per le arti che non lo fosse, e tanto più quanto che l’ingegnosa e comoda divisione di quell’editore [Endter] ci faceva sperare un’opera, che da per sé sola poteva bastare, per dar un saggio compito di tutto ciò che può interessare l’artista, tanto nella parte percettiva, che nella storica e nell’erudita». 68 DELLA VALLE 1795, p. II. 69 DELLA VALLE 1795, p. II. 70 SANDRART 1675, tav. D [http://ta.sandrart.net, p. 220].
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scrittore francofortese71, Luigi Lanzi citò il Demone sandrartiano per esibire ai suoi lettori la «poca critica» di Joachim, che «male intendendo Plinio credette non mica il Genio favoloso di Atene, ma un pittore in carne e in ossa, e ne diede il ritratto insieme con quel di Zeusi, di Apelle e di altri pittori antichissimi»72. Non si può giustificare solo alla luce di una polemica domestica l’impennata che Lanzi riservò a Sandrart all’interno della seconda edizione della sua Storia pittorica dell’Italia. In un passo dedicato all’annoso problema dell’invenzione della stampa, che Vasari aveva assegnato a Maso Finiguerra (e dunque a Firenze) e che Sandrart riportava con vigore in Germania, Lanzi, inserendosi in una polemica attualissima e sulla quale si era schierato poco prima anche Giuseppe Pelli Bencivenni (impegnato durante gli stessi anni nell’acquisto per le collezioni granducali dell’autoritratto sandrartiano, arrivato a Firenze nel 1787)73, non solo si limitò a discordare puntualmente dall’autore tedesco, ma ne mise in dubbio la più ampia attendibilità, superando i confini di quella che avrebbe potuto restare una disputa campanilistica tardosettecentesca: il credulo Sandrart pretese già di torci la mano per una stampina d’incerto autore, ove gli parve legger data del 1411, e per un’altra ov’egli trovò l’anno 1455. Ma a questi giorni, ne’ quali Sandrart è scemato di autorità, e per le sue contraddizioni, e per quel che oggidì chiamasi patriottismo è sospetto anche a’ nazionali, quelle sue stampe son come due false monete da non poterci comperare tal gloria74.
Dalle parole di Lanzi si intuisce la straordinaria parabola della fortuna critica di Sandrart in Italia durante il Settecento: un autore che aveva assunto un ruolo di primaria importanza per gran parte del secolo, grazie a quella «autorità» di cui avevano goduto oltre i confini germanofoni le sue edizioni latine, citate e sfogliate da Resta, De Piles, Baldinucci, Gabburri, Baruffaldi e dal Della Valle, note ai lettori grazie alle continue ristampe dell’Orlandi, per il quale Sandrart rimase un costante, universale e ricorrente riferimento di edizione in edizione, apprezzate per la qualità grafica dei ritratti (addirittura preferiti ai corrispondenti vasariani), e infine attestate copiosamente nelle principali biblioteche italiane75. Il registro dell’Academia nobilissimæ artis pictoriæ, ancora più lontano dai soggettivismi critici che caratterizzavano alcune parti dell’originale tedesco, era servito già dalla fine del Seicento a creare un ponte tra la storia figurativa vasariana e i contemporanei abbecedari76, ma la straordinaria diffusione di cui godette questo testo può forse essere imputata anche alla sua particolare impalcatura. Giocata non solo su tre grandi raggruppamenti (antico, italiano e oltremontano), ma addirittura su sfumate articolazioni interne per maniere pittoriche e generi, la griglia storico/geografica, in cui Joachim aveva presentato le notizie sugli artisti (alcune desunte integralmente da fonti, altre inedite, per quanto non sempre autografe), risultava forse un po’ ingenua, ma intuitivamente funzionante, ed era stata apprezzata da collezionisti ed eruditi proprio per la sua pratica apertura cronologica e soprannazionale. Straordinariamente agevole rispetto alle Notizie di Baldinucci, e di facile consultazione grazie ad indici onomastici e a capitoletti intitolati a margine, questa riduzione latina della Teutsche Academie costituì durante il corso del Settecento Sull’impiego dei ritratti sandrartiani da parte del Della Valle e, più in generale, della fortuna di questi nel Settecento cfr. SIMONATO, Dalle Vite di Vasari. 72 LANZI 1795-1796, I, p. 87. 73 Sulla vicenda dell’acquisto dell’autoritratto sandratiano (oggi ritenuto una copia) cfr. la scheda di C. Caneva in GIUSTINIANI 2001, pp. 28-31. Per le posizioni di Pelli sull’invenzione della stampa si veda la sua Memoria dell’arte delle stampe in rame del 1777 in FILETI MAZZA 2009, p. 280. 74 LANZI 1795-1796, I, pp. 87-88. 75 Per un’agile verifica è già sufficiente confrontare la frequenza delle attestazioni di SANDRART 1683 nei cataloghi di biblioteche italiane sette e ottocentesche editi nella sezione Bibliografie e biblioteche d’arte in www.memofonte.it. Si veda inoltre COMOLLI 1788-1792, II, p. 86. 76 SIMONATO 2004. 71
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in Italia una valida alternativa (per quanto ‘artigianale’) sia alle distinte storie locali, sia alle opere alfabetiche puramente compilatorie come l’Abcedario dell’Orlandi, sia alle Vite artistiche di scrittori troppo impegnati in invettive, apologie ed aneddoti: un’alternativa, però, solo fino alla pubblicazione della Storia pittorica di Lanzi, una «storia generale» della pittura italiana articolata non per biografie, ma per scuole e cronologie, e basata su una conoscenza autoptica delle opere. Fu, in definitiva, la pubblicazione stessa dell’opera ‘storica’ di Lanzi a far apparire in Italia l’‘antiquaria’ Academia nobilissimæ artis pictoriæ (dove venivano riprodotte le fattezze fisionomiche anche di artisti mai esistiti) come un’opera inaffidabile, tanto nella regia quanto nei contenuti: un’opera che, per quanto ancora utile su certe voci oltremontane (consultate dallo stesso Lanzi), era ormai ritenuta non attendibile, tendenziosa, compilatoria, patriottica, stilisticamente caratterizzata, ma soprattutto metodologicamente ingenua, ovvero redatta da un autore, il «credulo Sandrart», la cui autorità, allo scadere del secolo, stava scemando.
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Il rapimento della Venere dei Medici nel 1802 _______________________________________________________________________________
IL RAPIMENTO DELLA VENERE DEI MEDICI NEL 1802: UN EPISODIO ANCORA DA CHIARIRE
Se il ruolo svolto dal cavalier Tommaso Puccini all’epoca dell’ingresso dei francesi nel Granducato di Toscana è stato ampiamente studiato, e non soltanto negli ultimi decenni 1, meno note sono invece le vicende legate al suo viaggio a Palermo nell’ottobre del 1800, in qualità di conservatore e custode di settantacinque casse colme di opere d’arte provenienti dagli Uffizi e da Palazzo Pitti, traghettate da Livorno al porto siciliano in vista di un possibile rientro francese2. Durante i due anni e mezzo del soggiorno palermitano del direttore della Real Galleria granducale, le opere furono sorvegliate anche da un incaricato borbonico che si affiancò all’intendente pistoiese. Nonostante le proteste per accreditarsi come unico responsabile delle preziose casse, poiché investito direttamente dalla Segreteria di Finanze della Reggenza di Ferdinando III3, Puccini fu costretto a far ‘buon viso a cattivo gioco’, come lui stesso racconta in una lettera all’illustre amico, il marchese Federico Manfredini4. Del resto, il granduca aveva lasciato la Toscana per Vienna dove, insieme con la famiglia, viveva presso il fratello imperatore, e ben poco poteva influire sulle decisioni pratiche di Ferdinando IV, sebbene fra i due vi fosse un accordo di protezione nei confronti del patrimonio fiorentino. Nonostante le precauzioni e la segretezza della missione, il soggiorno di Tommaso Puccini a Palermo non passò affatto inosservato. Come è evidente dalla lucida e sentita testimonianza del sostituto direttore alla R. Galleria, l’architetto Cosimo Rossi Melocchi5, quando i commissari francesi giunsero a Firenze e si accorsero dei pezzi mancanti nelle sale degli Uffizi (visto il numero non indifferente di capi d’opera prelevati dal Puccini) protestarono vivacemente: Intuiti giunti i francesi fui mandato a chiamare dal Gen. Dupont, che m’impose di far chiudere la Galleria, e che dai Commissari avrei avuto le intrusioni necessarie [...] Il giorno appresso vennero i Commissari e ordinarono ai custodi di depositar le chiavi in mano mia, e ponendo una sentinella alla custodia dei subalterni entrarono meco nei Gabinetti, dimandando il vero mio nome, e dandolo risposero con fermezza, No! Voi siete il Puccini!, chiudendo la porta e replicando che quello era il mio nome quale da tutta la città poteva essergli confermato quando volevano, si acquietavano, domandando esatto conto di tutto quello che mancava, ai quali risposi non Su Tommaso Puccini e sulle vicende della Galleria degli Uffizi nel periodo francese, cfr. CHITI 1907; in particolare vedi PUCCINI 1921; PINTO 1982, pp. 849-854; SPALLETTI 1983, pp. 403-420; PADOVANI 2002, pp. 38-39; SPALLETTI 2005, pp. 101-140 e il recente FILETI MAZZA-SPALLETTI-TOMASELLO 2008, in particolare pp. 73-114. L’episodio della Venere dei Medici è stato trattato in passato da: ZOBI 1851, pp. 242-250, nell’Appendice al t. III; BOYER 1969, pp. 183-192 e PESENDORFER 1984, p. 296-298. 2 Sull’argomento cfr. CHITI 1907; MELONI TRKULJA-SPALLETTI 1981, p. 16 e INCERPI 1982a, pp. 101103. Un breve cenno al viaggio siciliano viene riportato anche in MAZZI 1986. In particolare PASQUINELLI 2008. 3 Cfr. Archivio della Galleria degli Uffizi (AGF), filza 30, 1800-1801, n. 23, firme autografe e Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, (BFP), Fondo Puccini, cassetta II, 2.4, Scritti occasionali di carattere pubblico e privato, n.14, copia. 4 Biblioteca Museo Correr Venezia (BMC), Epistolario Moschini, Puccini, Tommaso Puccini a Federico Manfredini, Palermo, 14 gennaio 1801. 5 L’architetto Cosimo Rossi Melocchi nacque a Pistoia, dove operò prevalentemente e studiò all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Ottenne una pensione per un soggiorno a Roma, rientrando poi a Firenze dove svolse anche attività didattica presso l’Accademia. Tra il 1805 circa e il 1817 trasformò secondo i canoni dell’architettura dell’età napoleonica la Villa Puccini a Scornio presso Pistoia. In funzione della sua attività didattica, scrisse nel 1805 un Saggio intorno alla determinazione delle ombre nei diversi soggetti dell’architettura geometrica e nel 1806 pubblicò una nuova edizione della Regola delli Cinque Ordini d’Architettura di Jacopo Barozzi da Vignola, curando l’esecuzione delle impeccabili tavole incise di corredo; mentre al 1810 risale l’opuscolo Della vera spirale, o voluta del capitello ionico. Cfr. CULTURA DELL’OTTOCENTO A PISTOIA 1977, p. 13 e CRESTI-ZANGHERI 1978, p. 209. 1
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Chiara Pasquinelli _______________________________________________________________________________ potendoli io di ciò soddisfare, mentre dal momento che io era in quella carica non era stato levato alcuna cosa, ma ciò essendo seguito prima, non poteva ciò rilevare che dai custodi, che ritenevano arrestati. Sarebbe troppo allungarsi nel ridirvi le tante cose passando da un gabinetto all’altro intorno alle mancanze e specialmente nella Tribuna e nella Stanza delle Gemme.6
Ma la sua assenza era stata notata soprattutto dal Commissario delle Arti in Italia, l’architetto Léon Dufourny che, dopo un’attenta ricognizione a Firenze, scriveva con assoluta certezza al Ministro dell’Interno francese che diversi oggetti della R. Galleria degli Uffizi «ont été conduits par l’Arno jusqu’à Livourne, puis embarqués sur une frégate anglaise a bord de laquelle ils sont restés longtemps, jusqu’à ce quien [...] ils ont été débarqués à Palerme ou ils se trouvent rémis en ce moment sous la garde du Chev.er Puccini Directeur de la Galerie de Florence»7. Tra questi spiccava la presenza di alcune statue della Tribuna, tra cui l’ambitissima Venere dei Medici. Nell’incipit della lettera è lo stesso Dufourny ad indicare che cercava proprio la celebre statua. Pendant mon séjour a Florence j’ai cherché et j’ai réussi à me procurer les renseignement les plus précis sur la célèbre Vénus de Médicis et les autres objets d’art qui ont disparu de Florence8.
È noto che Napoleone, al tempo della sua prima visita a Firenze nel 1796, aveva messo gli occhi su questa eccelsa opera, sottolineando con una battuta scherzosa proprio al Puccini, in quell’occasione suo ‘cicerone’ nelle gallerie granducali, come la Toscana avrebbe fatto meglio a rimanere neutrale verso la Francia, onde evitare il trasferimento a Parigi della statua9. Con parole semplici, ma efficaci, Puccini riuscì a spiegare in una lettera al fratello Giuseppe l’angoscia dell’interminabile attesa che aveva accompagnato l’arrivo in città del ‘Generalissimo’ còrso: Ai fiorentini non importa un corno dei quadri e delle statue. Ferdinando II, Cosimo III, Leopoldo ne hanno tirati cinque dalla provincia, niuno però da Pistoia, e questi pagati somme assai rispettabili. Eppure voi trovate che i francesi che hanno espilata [sic] l’Italia non sono più rei dei fiorentini. Eglino goderanno nel trovare dei giudici così discreti [...]10.
Non solo, ma in una lettera del 1 luglio ripercorse l’intera giornata con Napoleone raccontando puntualmente lo svolgimento della visita. Seppur già edita dallo stesso Chiti, crediamo che meriti di essere trascritta: Ieri l’altro arrivò qui alle sette di sera Buonaparte con 24 dragoni preceduto da una trombetta. Smontò alla casa del Ministro, dove era imbandito il pranzo, e accettò la guardia dello Stato di 100 uomini con Capitano, Tenente e Bandiera, trattamento che se gli deve come Generalissimo. La mattina venne con tutti i suoi generali di seguito alla Galleria. Si trattenne molto sulla Venere, mi parlò molto di essa. Mi disse che stassi attento che la Toscana non dichiarasse guerra, perchè l’avrebbe portata a Parigi. Io gli dissi che per la nostra parte era più che sicuro dei Vedi la lettera di Cosimo Rossi Melocchi a Puccini, BFP, Fondo Puccini, cassetta VI, n. 4 (Rossi Melocchi Cosimo), Firenze, 27 aprile 1801, pubblicata in PASQUINELLI 2008, p. 94. 7 Archives Nationales du Paris (ANP), s. F 21 573, Correspondance de Dufourny, 9 fruttidoro anno IX. Vedi Appendice doc. 1. 8 Archives Nationales du Paris (ANP), s. F 21 573, Correspondance de Dufourny, 9 fruttidoro anno IX. Vedi Appendice doc. 1. 9 BFP, Fondo Puccini, cassetta III, lettere di Tommaso Puccini al fratello Giuseppe, 1 luglio 1796. 10 BFP, Fondo Puccini, cassetta III, lettere di Tommaso Puccini al fratello Giuseppe, 28 giugno 1796. Citata anche in CHITI 1907, p. 59. 6
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Il rapimento della Venere dei Medici nel 1802 _______________________________________________________________________________ sentimenti pacifici, che ci hanno tenuti finora con la Repubblica. E che sperava che la Venere ne sarebbe stato un monumento parlante e durevole; del resto, lo esortai ad esser tranquillo, perchè dopo gli acquisti, che avevano fatti in Roma, avevano assicurato il primo Gabinetto d’Europa, senza aver bisogno della Venere. Egli fu molto gentile, e piuttosto non impolito11.
Come sappiamo Puccini si riferiva al trattato di Tolentino e al gran numero di opere prelevate dalle Legazioni Pontificie12. Era chiara la preoccupazione per quanto poteva accadere alla Reale Galleria o all’Accademia di Belle Arti, visti i resoconti delle requisizioni negli altri stati italiani. Tuttavia, per lo studioso Alfredo Lensi le frasi del Puccini riflettevano «più che la realtà, uno stato d’animo troppo pieno di sé ed esasperato dalla paura di veder guastata la Galleria»13. Ad oggi, possiamo tranquillamente affermare che i timori del direttore erano più che giustificati. Del resto, Napoleone proprio in quei giorni comunicava al Direttorio alcune impressioni a caldo: «ho visto a Firenze la famosa Venere dei Medici, che manca al nostro museo [il Louvre], e un gabinetto di modelli anatomici di cera che sarebbe non meno importante possedere»14. Nel 1801, questo desiderio sembrava finalmente concretizzarsi. Una volta accertata la presenza della statua a Palermo, i francesi tornarono ‘all’attacco’. In realtà, come ricorda Ferdinand Boyer, all’origine di tali pressioni ci fu l’ambasciatore spagnolo Nicolàs de Azara. In una lettera scritta al ministro francese Talleyrand, Azara esprimeva la propria preoccupazione affinché le opere degli Uffizi, inviate a Palermo a suo tempo, fossero presto restituite al legittimo sovrano della Toscana Ludovico d’Etruria: Le Gouvernement français, comme promoteur et garante du traité de cession de la Toscane, s’est obligé à mettre en possession de cet état le Prince de Parme dans toute son intégrité. Il paraît donc de la dignité même du Premier Consul de réclamer efficacement du Roy de Naples la restitution des susdits effes à la Galerie de Florence d’où ils ont été si injustement enlevés, e Sa Majesté [il Re di Spagna] l’attend de sa justice15.
Quale occasione migliore per cercare di sottrarre alla custodia di Puccini e di Ferdinando IV la famosa dea? Come emerge dalla corrispondenza relativa, si misero subito in moto le trame diplomatiche, intenzionate a far passare sotto la bandiera della pace il sequestro dell’opera. La scusa era semplice: con l’ascesa al trono del re Ludovico d’Etruria, la Toscana non aveva più alcun motivo di lasciare le opere in balìa del re di Napoli. Era opportuno agire per un immediato ritorno delle opere a Firenze. Talleyrand inviò prontamente le sue istruzioni all’ambasciatore francese di stanza a Napoli, Alquier. Nelle sue parole la posizione di Puccini apparve del tutto distorta: L’enlèvement en fut d’autant plus injuste que les Anglais et les Napolitains s’en emparèrent sur un prince de la Maison d’Autriche qui était alors leur alliée. Ils ne pouvaient pas avoir pour prétexte le désir de les soustraire aux vues des Français qui les avaient respectés dans une première expédition. M. Puccini, qui les fesait embarquer sur la flotte anglaise, livrait d’ailleurs un dépôt qui ne lui appartenait point16.
BFP, Fondo Puccini, cassetta III, lettera di Tommaso Puccini al fratello Giuseppe, 1 luglio 1796. L’ARTE CONTESA 2009. 13 LENSI 1936, pp. 58 e sgg. 14 WESCHER 1988, p. 64, lettera tradotta. 15 BOYER 1969, p. 187. 16 BOYER 1969, p. 187. 11
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Alquier, rapido esecutore degli ordini di Talleyrand, il 21 pratile dell’anno 9 (10 giugno del 1801), si affrettò a scrivere una lettera al cavalier John Francis Acton, ministro borbonico, con la quale avanzava una richiesta ufficiale di restituzione delle 75 casse al sovrano d’Etruria. Nella missiva non si scordava di evidenziare la ‘scorrettezza’ del comportamento degli inglesi, che a suo tempo avevano imbarcato il Puccini sulla Santa Dorotea, per difendere le opere dall’arrivo dei francesi che, al contrario, «avaient signeusement conservé la Galerie de Florance, pendant l’occupation de la Toscane [...] et qui les avaient respectés dans une première expédition»17. Talleyrand non si limitò a scrivere a Napoli, ma contattò anche Clarke, ministro plenipotenziario francese a Firenze, affinché incalzasse il primo ministro di Ludovico, Giulio Mozzi. La Toscana avrebbe avuto indietro le sue ricchezze artistiche e, dal momento che la Francia era stata l’intermediaria di questa operazione, poteva giustamente aspettarsi in cambio «quelque chose de ses richesses»18. Clarke si affrettò a comunicare al Mozzi le intenzioni pacifiche e convenienti dell’intercessione francese. Obiettivo: ottenere l’integrale restituzione delle opere d’arte, il rientro di Puccini con esse, senza però dimenticare un ‘petit cadeau’ per il Primo Console, che tanto si era affannato per la Toscana: la Venere dei Medici era dono più che adeguato. Il primo ministro ‘etrusco’ rifiutò decisamente tale proposta. Come contromossa, al Mozzi fu richiesto di mettere per iscritto i motivi che impedivano di acconsentire all’abbandono della Venere da parte della Toscana. Il senso era chiaro: costringere il re d’Etruria a contrariare nero su bianco il Primo Console e mettendosi in una posizione di imbarazzo. Nella lettera del 4 marzo 1802, pubblicata da Antonio Zobi, Mozzi giustificò con fermezza le ragioni del rifiuto di concedere la Venere. L’opera era stata rispettata in tempi di guerra, al momento della prima occupazione francese, per quale motivo requisirla proprio adesso in momento di pace, rischiando di far insorgere i fiorentini contro il loro legittimo sovrano19. Che direbbero poi se in mezzo a tante calamità si vedessero ancora spogliati di un monumento, in cui pongono tanto valore, ed una lodevole vanità nazionale, e che a tutto diritto considerano come proprio? Lungi dal riconoscere il loro Sovrano indipendente, lungi dal considerarlo il loro padre ed il vigile custode delle loro proprietà, potrebbero lasciarsi sedurre dalla malevolenza al segno, da riguardarlo come istrumento della loro rovina, né giammai si unirebbero a lui con quel deciso attaccamento, che è tanto necessario alla sua e alla nostra felicità20.
Due giorni dopo (il 6 marzo 1802) allertato da Clarke, Mozzi contattava Acton in Sicilia. Evidentemente preoccupato per l’insistenza delle richieste francesi, il primo ministro di Ludovico decise di anticipare le mosse di Talleyrand e di sincerarsi non solo della buona fede del re Ferdinando IV, ma anche delle attenzioni che venivano riservate al prezioso deposito fiorentino. La lettera conteneva una precisa avvertenza: «se mai venissero i suddetti preziosi effetti o reclamati o pretesi da qualche Potenza, S. M. è persuasa, che da codesto augustissimo Archivio di Stato di Napoli, (ASN), Ministero degli Affari Esteri, Oggetti di Belle Arti. Carteggio con rappresentanti diplomatici napoletani ed esteri. Acquisizioni e rivendicazioni, 1776-1818, filza 4292, ins. 107, lettera dell’Ambasciatore Alquier senza destinatario, probabilmente il cavalier Acton, 21 pratile anno IX. 18 Lettera del 23 brumaio anno X scritta da Talleyrand a Clarke, pubblicata da BOYER 1969, p. 188. 19 ZOBI 1851, Appendice lettera A, pp. 243-244. 20 «In vista di questi riflessi, S. M. è fermamente persuasa, che il Primo Console, nelle benefiche sue disposizioni a riguardo della Toscana non vorrà privarla di un monumento che riguarda come un pegno prezioso salvato a suo lustro nei passati difficili tempi, né darà questo colpo ad una Nazione, che con un atto tanto ingiurioso alle Arti, quanto contrario ai sentimenti della notoria di lui generosità [...]». Lettera di Giulio Mozzi al ministro plenipotenziario francese Clarke, del 4 marzo 1802, riportata anche da ZOBI 1851, Appendice al t. III, pp. 244245. 17
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Monarca e dal R. Suo Governo non verrano nel suddetto caso ascoltate simili richieste o pretese, e che i suddetti monumenti salvati nei tempi più difficili, saranno gelosamente custoditi in codesto Regno, come il più rispettabile deposito di una Nazione, e serbati alla Toscana, di cui sono una sacra e inalterabile proprietà»21. Era chiaro il riferimento alla Francia, nessun’altra potenza aveva avanzato richieste particolari. Meno che mai l’Inghilterra che anzi, aveva favorito il trasferimento di Puccini a Palermo. A proposito dei monumenti preziosi, Acton rispose il 30 marzo che il Sovrano di Napoli li avrebbe conservati «sempre come un deposito sacro, e li [avrebbe fatti] gelosamente custodire per esser restituiti costà, subitoché gliene sarà fatta la richiesta»22. Un’altra via tentata dai francesi fu quella dello scambio. In una lettera del 30 germinale anno 10, il commissario Dufourny propose al Ministro dell’Interno di accettare il suggerimento di scambiare la «portion des antiquités de la Villa Albani qui est restée a Rome» per ottenere la Venere23. Ma, come ricorda Boyer, furono gli stessi colleghi di Dufourny a ricordargli quanto il baratto fosse difficile, anche a causa dell’incertezza che la Francia ancora aveva di ottenere questi stessi tesori.24 In Sicilia, d’altro canto, il Puccini già da tempo era stato costretto a sorvegliare di lontano le sue opere, affidate ad un deposito segreto sotto le cure di un intendente di Ferdinando IV. Come lui stesso scrive all’amico Federico Manfredini: Due giorni dopo il mio arrivo, fui astretto da un R. Dispaccio a depositare in mano altrui il tesoro, di cui sono debitore allo Stato, e di cui per me dovrei essere il solo depositario, e custode. Nonostante tutto questo, io devo morire sopra una di queste casse, e chiudere gli orecchi ad un così lusinghiero invito, e sopprimere il desiderio vivissimo che avrei di visitare le antichità di Sicilia. Ogni quindici giorni vado a fare una visita con il depositario alla mia bella, che prima di passarla in altre mani ho direi quasi infibulata, per assicurarmi quanto è possibile della sua fedeltà25.
La «bella» di cui parla Puccini in questa lettera è proprio la Venere dei Medici. A rendere ancora più intricata la trama del sequestro intervenne nuovamente Talleyrand che, come sostiene Pesendorfer, procedette in modo ancor più ‘raffinato’ cercando di fare pressione sul primo ministro di Ferdinando IV attraverso l’ambasciatore Alquier. L’obiettivo era far credere ai siciliani che Ludovico d’Etruria fosse consapevole e consenziente. L’11 fruttidoro Alquier scriveva ad Acton che il Primo Console desiderava la Venere per sé, ma che questa scelta fosse condizionata da un accordo preventivo con la Toscana. Le Premier Consul me charge expressément de demander que S.M. Sicilienne veuille bien faire remettre à disposition du Gouvernement Français une caisse renfermant une statue connue sous le nom de Vénus de Médicis, et qui a été transportée de Florence à Palerme. Je crois devoir ajouter à cette demande, Monsieur le Chevalier, la déclaration très formelle que le Gouvernement Français a pris avec S. M. le Roi d’Etrurie, des mesures, qui ne laissent aucun prétexte à élever des difficultés sur cette réclamation, et qu’il se charge envers S. M. Sicilienne et le Gouvernement Toscan, de toutes les explications et de toutes le garanties, si jamais il pouvait y avoir bien à en donner sur une demande aussi légitime26.
ZOBI 1851, Appendice al t. III, pp. 245-246, lettera di Mozzi al cavalier Acton, 6 marzo 1802. ZOBI 1851, Appendice al t. III, pp. 246-247, lettera del cavalier Acton a Mozzi, 30 marzo 1802. 23 ANP, s. F 21 573, Correspondance du Dufourny (an IX-an X), 30 germinale anno X. 24 BOYER 1969, p. 190. 25 BMC, Epistolario Moschini, Puccini, lettera del 14 gennaio 1801 da Palermo. 26 ASN, Ministero degli Affari Esteri, Oggetti di Belle Arti. Carteggio con rappresentanti diplomatici napoletani ed esteri. Acquisizioni e rivendicazioni, 1776-1818, filza 4292, ins. 107. Lettera di Alquier al cavalier Acton, 11 fruttidoro anno X, vedi Appendice doc. 2. 21 22
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Acton rispose all’Alquier il 31 agosto con accondiscendenza: Il Cav. Acton ha posto sotto gli occhi del Re Suo Signore l’ufizio in data dell’11 fruttifero che S. E. il Signor Alquier ambasciatore della Repubblica Francese gli ha diretto per far conoscere la dimanda del Primo Console di mettersi alla disposizione del Governo Francese la statua conosciuta sotto il nome di Venere dei Medici, la quale si ritrova a Palermo, ha l’onore di dirgli che la med. in seguito della dichiarazione formale fatta dal Sig. ambasciatore che il Governo Francese è d’accordo su tal proposito con S. M. il Re d’Etruria, non incontra difficoltà di far togliere dal deposito sacro appartenente a quel Sovrano, ed alla Nazione Toscana, il quale era affidato alla religione della medesima, la suddetta statua e di farla consegnare alla persona che sarà destinata dal Signor ambasciatore27.
Il cardinal Pignatelli, Presidente del Governo in Sicilia, aveva ricevuto dallo stesso Acton l’ordine di consegnare al Mausson, Ministro delle Relazioni Commerciali Francesi, la cassa contenente la sola Venere28. L’8 settembre Pignatelli aveva pertanto incaricato il Presidente della Gran Corte, Giovan Battista Paternò, di eseguire il comando e di fare in modo che la consegna avvenisse senza difficoltà: il deposito delle opere toscane di cui era responsabile il Puccini era stato affidato ad un tale Giovan Battista Scaglia, incaricato da Ferdinando IV. Presso di lui era adesso necessario prelevare la Venere. Tuttavia, Pignatelli il 10 settembre faceva presente all’Acton che il cavalier Puccini ricusa di farne per parte sua la consegna per le ragioni esposte nell’annesso foglio. Ed avendo io rescritto al Presidente suddetto, di far subito eseguire l’annunciato Real Comando anche senza l’assenso ed intervento del Puccini, è stato già il medesimo eseguito, e con la posta ventura ne rimetterò a V. E. la relazione che ne attendo dal Presidente colle corrispondenti cautele29.
La posizione di Puccini, resa difficilissima da tali manovre, fu comunque ferma: il 10 settembre egli si rifiutò con decisione di eseguire l’ordine di Paternò giustificandosi come segue: ho il rammarico di non poter su due piedi corrispondere al comando di V. E., di cui sono invitato ad eseguire di concerto col sig. Giovan Battista Scaglia, la consegna della medesima; stanteché, essendo questo con tutti gli altri monumenti affidato nelle più valide forme dal Governo Toscano alla mia responsabilità, resterebbero compromessi i miei beni, la mia vita, e ciò che mi è più a cuore, l’onor mio, se prestassi consenso e l’opera all’altrui occupazione, senza un ordine preciso a me diretto senza per mezzo delle R. Segreteria di Stato da S. M. il Re d’Etruria mio Signore30.
Ma l’11 settembre del 1802 Mausson fu portato da Paternò, nonostante l’assenza di Puccini, al deposito presso il convento dei Gesuiti, dove si trovavano le opere toscane. Il racconto è riportato nei dettagli dallo stesso Paternò. Egli si era recato nel luogo in cui si conservavano le casse spettanti alla Toscana, che comunque non viene mai nominato esplicitamente31. Qui, con l’aiuto di alcuni artisti che erano in grado di riconoscere la statua, ASN, Ministero degli Affari Esteri, Oggetti di Belle Arti. Carteggio con rappresentanti diplomatici napoletani ed esteri. Acquisizioni e rivendicazioni, 1776-1818, filza 4292, ins. 107, lettera di Acton ad Alquier, 31 agosto del 1802. 28 Vedi Appendice, doc. 3. 29 Vedi Appendice, doc. 5. 30 Vedi Appendice, doc. 6 31 Egli riporta di essersi recato «ieri al giorno personalmente nel luogo ove si conserva in deposito dal Scaglia per ordine del Re tutto ciò che si appartiene alla R. Galleria di Firenze, ed apertasi in mia presenza, del Sig. Marsson, del Scaglia, e di altre persone la prima cassa, si trovò in essa la statua della Venere predetta. La medesima si fece 27
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individuò e caricò l’opera sulla tartana Saint Louis, in partenza per Marsiglia. A Puccini non rimaneva altro che informare con tono dolente il senatore Mozzi32. A proposito del trasporto della Venere a Marsiglia e del viaggio sulla Saint Louis comandata dal captano Jarlier, si vedano i dispacci conservati presso gli Archives Nationales, F 21 573, Transport en France d’oeuvres d’art enlevées d’Italie, an VI-an XII, III: qui è possibile verificare che già al 16 fruttidoro (2 settembre) Alquier informava il Prefetto delle Bocche del Rodano, Delacroix, di aver noleggiato la detta imbarcazione e che avrebbe preso tutte le cure del caso affinché nulla e nessuno compromettesse la sicurezza del trasporto33. A questo punto fu Mozzi a prendere la parola e a protestare vivacemente contro il prelievo della Venere. Prese inoltre le difese del Puccini, ricordando che il direttore aveva agito con la dovuta cautela, opponendosi alla confisca di un’opera tanto importante e niente affatto autorizzata dal sovrano etrusco. La risposta di Acton non si fece attendere34 e in effetti la sua giustificazione era proprio quella di aver agito nella piena convinzione che il trasferimento fosse stato autorizzato da un accordo con Ludovico d’Etruria35. L’assicurazione dell’intesa era stata in effetti più volte ribadita da Alquier36. Non sappiamo, tuttavia, quanto sia reale l’ipotesi che Acton fosse del tutto all’oscuro delle manovre francesi, vista la fretta con cui si volle concludere l’operazione. Quello che più sorprende è infatti la leggerezza con cui in Sicilia si trattò l’intera azione di prelievo. Contrariamente ad ogni aspettativa, a prendere una posizione di protesta giunse Ludovico d’Etruria, inviando una lettera di rammarico direttamente al Primo Console. Animé per vôtre amitié, et par vôtre intérêt sincère à ma gloire, et au bonheur de mes sujets, je ne pourrois pas vous cacher ma doleur, et ma surprise même à la nouvelle que l’Ambassadeur Alquier aie demandé, et obtenu par le Gouvernement de Naples de mettre à vôtre disposition la statue connue sous le nom de Vénus des Médicis.37
Egli esprimeva una chiara preoccupazione per la reazione dei sudditi toscani (da notare che erano sudditi e non cittadini), oltre a chiedere un più regolare ingrandimento dei propri stati a rimedio della perdita subìta. In pratica una maggiore libertà di manovra e confini migliori. Ma gli sforzi furono vani. Per tutta risposta alle lettere di Ludovico e del suo ministro riconoscere da due periti, uno D. Pietro della Valle scultore, che assicurò esser quella che si ricercava per averla veduta nella R. Galleria di Firenze ritrovandosi colà, e per averla copiata in Roma sopra altri modelli in detta città esistenti, il secondo D. Giuseppe Velasquez pittore che assicurò ugualmente di esser quella conosciuta sotto il nome di Venere dei Medici [...]»; ASN, filza 4292, ins. 107, Giovan Battista Armando Paternò al cardinale Pignatelli, vedi Appendice doc. 7. 32 Lettera riportata in ZOBI 1851, Appendice al t. III, p. 250, Puccini a Mozzi. 33 «Naples le 16 fructidor an 10. L’ambassadeur de la République Française près S. M. Sicilienne Au Citoyen Delacroix Préfet du Département des Bouches du Rhone. Citoyen Préfet, Le Capitaine Jarlier, Commandant la Tartane le S. Louis, a été nolisé d’apres mes ordres, pour prendre à Palerme et pour transporter directement à Marseille une statue célèbre, connue sous le nom de la Vénus de Médicis [...]», ANP, F 21 573, Transport en France d’oeuvres d’art enlevées d’Italie, an VI-an XII, III, Transport de la Vénus de Médicis et d’autres statues (an X-an XII), 16 fruttidoro anno X. 34 Nella stessa lettera che Mozzi inviò al cavalier Acton si trova un appunto scarabocchiato di fretta con l’indicazione sulla risposta da fornire al primo ministro toscano: «Si comunichi l’ufizio d’Alquier, e si dirà che il Re non è devenuto ad ordinar la consegna della statua se non dopo l’assicurazione data dall’Amb. che il Primo Console era d’accordo con S.M. il Re d’Etruria», ASN, Ministero degli Affari Esteri, Oggetti di Belle Arti. Carteggio con rappresentanti diplomatici napoletani ed esteri. Acquisizioni e rivendicazioni, 1776-1818, filza 4292, ins. 107, Mozzi ad Acton del 25 settembre 1802, vedi Appendice doc. 8. 35 Ivi, vedi Appendice doc. 9. 36 Cfr. Appendice doc. 2. 37 Archivio di Stato di Firenze (ASF), Segreteria e Ministero degli Affari Esteri, 2197, Carteggio del Sovrano col Primo Console Bonaparte, 22 settembre 1802.
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Mozzi intervenne ancora Talleyrand. Il tono di sufficienza delle sue parole fu piuttosto eloquente: la Toscane a été au moment de perdre toute la collection de ses objets d’arts pour l’effet de leur translation à Palerme [...] Le Gouvernement de la Toscane au milieu de la joie que doit lui procurer une restitution si précieuse, pourrait-il conserver quelque regret sur l’abandon d’une seule statue?38
Anche se Talleyrand aveva evidenziato il rischio di una mancata restituzione da parte dei Borbone e vantato il successo dell’ambasciatore di Francia a Napoli, i toni con i quali i toscani ringraziarono il sovrano Ferdinando IV per la conservazione e la cura delle opere affidate ci fanno ben intendere che Onon vi era mai stato alcun dubbio circa la buona fede della sua custodia. Dopo un viaggio felice di 5 giorni arrivò al 25 dello scorso mese in Livorno il Cavalier Puccini con gli effetti preziosi spettanti a questa Real Galleria, all’eccezione della Venere dei Medici. L’esattezza con cui sono stati conservati durante il tempo del lungo lor deposito in Palermo essendo dovuto alle cure di S. M. Siciliana, e del suo Real Governo, S. M. il re mio Signore mi ha ordinato di pregare l’E.V. di far gradire in di lui nome, a ripetere a codesto Real Monarca i sentimenti della più profonda amicizia e devota sua gratitudine e riconoscenza […]39
A Parigi invece c’era chi esultava. Dominique Vivant-Denon comunicò a Bonaparte l’arrivo del prezioso marmo con un insolito entusiasmo: La Vénus est enfin arrivée! Après avoir été arrêté par les glaces, le bateau sur lequel elle était s’est engravé […]. Elle est arrivé sans aucun accident, mais il faut quinze jours pour la mettre en état. J’ai donc remis à vôtre arrivé l’ouverture des nouvelles salles du musée des Statues. Jamais plus beau trophée de victoire! Entièrement dû à vos travaux, c’est à vous, Général, à faire l’inauguration de ce monument [...]40
Il gioiello degli Uffizi, il «monumento più bello della Galleria»41, entrava così a far parte del ‘bouquet’ di Napoleone. Almeno fino al 1815. Nel frattempo, iniziavano i preparativi per l’incarico ad Antonio Canova della Venere che avrebbe dovuto sostituire quella rapita. Se in un primo momento l’artista pensò ad una copia, il risultato finale dette invece alla luce l’aggraziata Venere Italica. Ma questa è un’altra storia42.
Archivio di Stato di Firenze (ASF), Segreteria e Ministero degli Affari Esteri, 2197, lettera di Talleyrand a Mozzi, 13 ottobre 1803. Documento tradotto anche in PESENDORFER 1984, p. 297. 39 Cfr. in proposito ASF, Segreteria e Ministero degli Affari Esteri, f. 953, prot. 9, ins. 18, lettera di Giulio Mozzi al cavalier Acton, 1 marzo 1803. 40 ANP, AF IV 1049, dr. 2, n. 17, Denon, Correspondance, Denon au Premier Consul, 14 luglio 1803. 41 Così la definisce Puccini nell’ultima lettera a Federico Manfredini, conservata presso BMC, Epistolario Moschini, Puccini, 22 giugno 1803. 42 Cfr. HONOUR 2003, pp. 193-209; cfr. anche BFP, Fondo Puccini, lettera di Federico Manfredini a Puccini in cui si parla esplicitamente della commissione a Canova per la copia della Venere dei Medici, Vienna 16 marzo 1803. Cfr. anche HONOUR 1972, pp. 658-671; INCERPI 1982a, pp. 103-107. Per i rapporti fra Puccini e Canova vedi SPALLETTI 2006, pp. 225-233. 38
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APPENDICE DOCUMENTARIA* 1 Archives Nationales Paris, F 21 573, Correspondance de Dufourny Liberté Egalité, Rome le 9 fructidor an 9 Le Commissaire du Gouvernement français pour les arts, en Italie au Ministre de l’Intérieur Pendant mon séjour à Florence j’ai cherché et j’ai réussi à me procurer les renseignements les plus précis sur la célèbre Vénus de Médicis et les autres objets d’art qui ont disparu de Florence ainsi que sur le lieu où ils se trouvent en ce moment, j’ai l’honneur de vous en communiquer le résultat. Lors de la dernière occupation de la Toscane par l’armée française au Commencement de cette année, la Régence qui gouvernoit alors ce pays au nom de l’Autriche se hâta, vous le savez Citoyen Ministre, de faire enlever de la Galerie de Florence ce qu’elle renfermait de plus précieux, les principaux morceaux sont: 1- la Vénus de Médicis 2- l’Apolline 3- le Faune 4- le Remouleur 5- le groupe des lutteurs ces cinq statues ornaient la pièce dite la Tribune 6- le Bacchus de Bronze 7- l’une des filles de Niobé 8- le fils mort de Niobé 9- le beau vase, dit de Médicis 10- quatre bustes colossaux de Jupiter, Junon, Neptune & Antinous 11- deux cents des meilleurs tableaux de la Galerie 12- la collection entière des dessins, consistant en 313 vol. 13- celle de camées et pierres gravées 14- la suite des médailles et des monnaies Ces objets, formant 40 à 50 caisses ont été conduits par l’Arno jusqu’à Livourne, puis embarqués sur une frégate anglaise a bord de laquelle ils sont restés longtemps, jusqu’à ce qu’enfin ils ont été débarqués à Palerme où ils se trouvent réunis en ce moment sous la garde du Chev.er Puccini Directeur de la Galerie de Florence. Ces richesses ne pouvant jamais être la proie de la Maison d’Autriche à qui elles n’appartienent à aucun titre et devant un jour retourner en Toscane, ou bien, offertes par la reconnaissance, venir augmenter le Musée National; j’ai cru Citoyen Ministre, devoir, aussitôt que j’ai été informé de ces détails, inviter l’Ambassadeur Alquier à veiller à ce qu’aucune partie n’en fut distraite, jusqu’à ce que le Gouvernement eut prononcé et à s’en assurer par un séquestre. Au moment où j’ecris, cette mesure conservatrice doit avoir été prise en sorte que ces objets se trouvent précisément dans l’état où le gouvernement pouvoit les désirer pour en disposer; car c’est l’Ennemi lui même qui les a extraits du pays auquel ils appartenoient, ils sont hors de mains des Anglais qui auroient pu être tentés de les retenir et ils se trouvent déposés dans un pays qui n’a aucun droit à les posséder. Soit donc que le Gouvernement ordonne que la masse de ces objets d’art soit transportée en France, soit qu’il se contente d’autoriser la Commission des Arts à faire un choix de ceux qui par leur mérite ou leur rareté seroient necessaires au complément du Le indicazioni archivistiche dei documenti dell’Archivio di Stato di Napoli sono presenti per esteso solo nel documento 2, dal momento che provengono tutti dal medesimo fondo. Negli altri sono state omesse per evitare ripetizioni. *
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Muséum, les circonstances sont les plus favorables pour l’exécution de sa décision. Je la sollicite d’autant plus vivement, Citoyen Ministre, que mes instruction sont entièrement muettes à cet égard, et que les circonstances pouvant changer d’un moment à l’autre, on auroit à regretter de n’avoir pas saisi l’occasion qu’elles présentoient d’enrichir la France de nouveaux chefs d’oeuvres. Salut et Respect. L. Dufourny 2 Archivio di Stato di Napoli, filza 4292, inserto 107
Ministero degli Affari Esteri, Oggetti di Belle Arti. Carteggio con rappresentanti diplomatici napoletani ed esteri. Acquisizioni e rivendicazioni, 1776-1818 Naples 11 fructidor [an] 10 Monsieur le Chevalier [Acton], Le Premier Consul me charge expressément de demander que S.M. Sicilienne veuille bien faire remettre à disposition du Gouvernement Français une caisse renfermant une statue connue sous le nom de Vénus de Médicis, et qui a été transportée de Florence à Palerme. Je crois devoir ajouter à cette demande, Monsieur le Chevalier, la déclaration très formelle que le Gouvernement Français a pris avec S. M. le Roi d’Etrurie, des mesures, qui ne laissent aucun prétexte à élever des difficultés sur cette réclamation, et qu’il se charge envers S. M. Sicilienne et le Gouvernement Toscan, de toutes les explications et de toutes le garanties, si jamais il pouvait y avoir bien à en donner sur une demande aussi légitime. Je prie V. E. d’agréer les assurances de ma plus haute considération. Alquier 3 Archivio di Stato di Napoli, filza 4292, inserto 107 Napoli, 6 settembre 1802 Eminenza, avendo l’ambasciatore di Francia con sua nota dell’11 fruttifero, domandata a questo Governo di mettersi alla disposizione della Repubblica Francese la Statua conosciuta sotto il nome di Venere dei Medici, coll’assicurazione di essere il Suo Governo di accordo relativamente a quell’oggetto con Sua Maestà il Re d’Etruria, cui il Re Nostro Signore conserva religiosamente il deposito di tutto ciò che appartiene a lui, e alla Nazione Toscana, comanda la M. S. che si consegni al Sig.r Marsson Commissario delle Relazioni Commerciali, la cassa che contiene la sola statua suddetta, esigendone la corrispondente cautela. Io dunque comunico all’E.V. sì fatta reale determinazione per il suo adempimento, e con sensi di distinto ossequio ho l’onore di rassegnarmi di V. Eminenza. Al Sig. Cardinale Pignatelli Dev.mo Obbl.mo Servo Giovanni Acton 4 Archivio di Stato di Napoli, filza 4292, inserto 107 Napoli 6 settembre 1802 All’ambasciatore di Francia [Alquier],
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Si rimette una lettera del Presidente del Regno di Sicilia, colla quale gli si ordina la consegna della statua detta la Venere dei Medici [nota sul primo foglio della seguente lettera]. Il Cav. Acton ha l’onore di rimettere qui compiegata al E.V Sig. Alquier ambasciatore della Repubblica Francese una lettera pel Presidente del Regno di Sicilia, colla quale viene incaricato di consegnare all’uffiziale francese colà spedito, e che recherà la lettera istessa, la cassa colla statua della Venere dei Medici. E qui si processa al Sig. ambasciatore i sensi della sua più alta considerazione. 5 Archivio di Stato di Napoli, filza 4292, inserto 107 Eccellenza [Acton], In esecuzione del Real Ordine, da V. E. Comunicatomi con Dispaccio del V. Corrente, di consegnare al Sig. Marsson Commissario delle Relazioni Commerciali di Francia la cassa che contiene la statua, conosciuta sotto il nome di Venere de Medici, previe le corrispondenti cautele, ne incaricai il Presidente Paternò dell’adempimento. Il medesimo è venuto questa mattina a farmi presente che il cavalier Puccini ricusa di farne per parte sua la consegna per le ragioni esposte nell’annesso foglio. Ed avendo io rescritto al Presidente suddetto, di far subito eseguire l’annunciato Real Comando anche senza l’assenso ed intervento del Puccini, è stato già il medesimo eseguito, e con la posta ventura ne rimetterò a V. E. la relazione che ne attendo dal Presidente colle corrispondenti cautele. Intanto mi dò l’onore di rassegnarlo all’E. V. per la Sovrana Intellingenza. E col più distinto ossequio mi riprotesto costantemente Di V. E. Serv. Vero Obbl.mo Palermo 10 sett 1802 D. Cardinale Pignatelli al Ecc.mo Sig. Cap.no Gen.le Acton (Napoli) 6 Archivio di Stato di Napoli, filza 4292, inserto 10743 10 settembre 1802 Eccellenza pieno di venerazione per il R. Dispaccio comunicatomi da V.stra Eccellenza con il gentilissimo biglietto del 9 del corrente, da cui viene ordinato di mettere alla disposizione del Commissario delle Relazioni Commerciali di Francia la statua conosciuta sotto il nome di Venere dei Medici, ho il rammarico di non potere su due piedi corrispondere al comando di V. E., da cui sono invitato ad eseguire di concerto con il Sig. Gio. B.tta. Scaglia la consegna della medesima, stante che essendo questo con tutti gli altri monumenti della R. Galleria di Firenze affidato nelle più valide forme dal Sovrano Toscano alla mia responsabilità, resterebbero compromessi i miei beni, la mia vita e, ciò che più mi è a cuore, l’onor mio, se prestassi il consenso e l’opera all’altrui occupazione, senza un ordine preciso a me diretto per mezzo della sua R. Segreteria di Stato da S. M. il Re Mio Signore. Io mi lusingo, che V. E. non ravviserà in questi sentimenti, che il solo desiderio di adempire il mio dovere, e vorrà perciò compiacersi di porli nel loro aspetto alla considerazione di Sua eccellenza E.ma, di cui imploro il favore, perché sua Maestà non prenda in sinistro questa mia renitenza ad eseguire prontamente i suoi ordini nella disposizione in cui sono di eseguirli subito che mi verranno partecipati dl mio Governo. In questa fiducia piena di stima, e di rispetto ho l’onore di dichiararmi di vostra eccellenza Dev. Obbl.mo Serv.re Tommaso Puccini Palermo 10 7mbre 1802 A S. E. Il Sig. Presidente Paternò 43
Lettera pubblicata anche in A. ZOBI 1951, Appendice al t. III, pp. 248-249.
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7 Archivio di Stato di Napoli, filza 4292, inserto 107 Palermo 11 settembre 1802 Em.mo ed Ec.mo Sig.re I risultati della mia divota rappresentanza del 10 andante relativamente alla prontezza di Giovan Batt.sta Scaglia nell’esecuzione dell’ordinata consegna della statua conosciuta sotto il nome di Venere dei Medici, e alla renitenza del Cav. Tommaso Puccini per tal consegna al Commissario delle Relazioni Commerciali di Francia sig. Marsson, si degnò l’Ecc.ze LL. con biglietto della stessa data incaricarmi di dar disposizioni, onde sia subito consegnata la statua suddetta, anche senza il consenso e l’intervento del Puccini, previe le cautele indicate nel Dispaccio del primo corrente, comunicatomi dell’Em.za Ill. con biglietto dell’8 dello stesso. In adempimento del nuovo impostomi comando, colla commessa sollecitudine disposi l’occorrente per effettuarsi la consegna ordianza dalla Maestà del Re della cassa che conteneva la suddivisata statua, ed indi avendo fatto arrivare nuovamente il Commissario delle Relazioni Commerciali di Francia Sig. Marsson, il Cav. civico Scaglia, ed i necessari officiali, mi conferì ieri al giorno personalmente nel luogo ove si conserva in deposito dal Scaglia per ordine del Re tutto ciò che si appartiene alla R. Galleria di Firenze, ed apertasi in mia presenza, del Sig. Marsson, del Scaglia, e di altre persone la prima cassa, si trovò in essa la statua della Venere predetta. La medesima si fece riconoscere da due periti, uno D. Pietro della Valle scultore, che assicurò esser quella che si ricercava per averla veduta nella R. Galleria di Firenze ritrovandosi colà, e per averla copiata in Roma sopra altri modelli in detta città esistenti, il secondo D. Giuseppe Velasquez pittore che assicurò ugualmente di esser quella conosciuta sotto il nome di Venere dei Medici. Assicuratasi in questa guisa la salietà [sic] della statua e confermata da diverse altre persone presenti alla riconoscenza per ammirarla che l’aveano veduta in Firenze, o in modelli di gesso e di pittura, sul momento si stipulò dal regio luogotenente di Protonotaro Marchese delli Magnisi il solenne atto di consegna al Commissario Francese Marsson, del quale per mio dovere ho l’onore di rassegnarne all’Ecc. za Ill. l’originale per l’uso corrispondente, e con l’usato rispetto inchinandola mi raffermo Serv. Vostro Oss.mo Giovan Battista Armando [Paternò] 8 Archivio di Stato di Napoli, filza 4292, inserto 107 Si comunichi l’ufizio d’Alquier, e si dirà che il Re non è devenuto ad ordinar la consegna della statua se non dopo l’assicurazione data dall’Amb. che il Primo Console era d’accordo con S.M. il Re d’Etruria [nota segnata sulla lettera di Mozzi] Eccellenza non posso esprimere a V. E. la sorpresa, ed il vivo dispiacere che ha prodotto nell’animo di Sua Maestà il Re Mio Signore la notizia trasmessaci dal Direttore della Real Galleria di Firenze Cav.e Tommaso Puccini relativa all’immediata consegna, che si asserisce essere stata fatta per ordine di codesto Governo al Commissario delle Relazioni Commerciali di Francia della celebre statua conosciuta sotto il nome di Venere dei Medici. La Maestà Sua riposava sicura, e tranquilla, dopoché il dispaccio di V. E. in data del 30 marzo p° protestava che gli effetti della Real Galleria di Firenze che si trovavano in Palermo sarebbero stati, per comodo del Re delle Due Sicilie, riguardati come un sacro deposito, e gelosamente custoditi, per restituirsi, tosto ché ne fosse stata fatta la richiesta. Ma può immaginarsi V. E. da qual rammarico sia stata Studi di Memofonte 3/2009
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penetrata la M. S. sentendo, che si era aderito a rilasciare un monumento così insigne, senza neppure esigere di dar luogo alla debita preventiva interpellazione. Né può dissimularsi, che sia riuscita vieppiù sensibile una così affrettata determinazione, sapendosi che il prelato Direttore della Galleria Cav.e Puccini, nella sua rispettosa, ma ferma protesta, aveva giustamente domandato, che gli fosse almeno permesso di ricercar prima gli ordini diretti al suo sovrano. Sono state inoltrate a Parigi per corriere espresso le opportune rimostranze, nel timore che possa esser forse già eseguita l’asportazione della statua di cui si tratta, ma se per avventura non si fosse ancora verificata, non dubito, che V. E. si darà tutta la pena affinché non abbia più effetto, e venga restituita alla legittima consegna del surriferito Direttore. In tale aspettativa passo all’onore di confermarmi con la più distinta considerazione Firenze 25 settembre 1802 Di Vostra Eccellenza Dev. mo Obbl.mo Serv.re Giulio Mozzi [Al] Sig Gen.le Acton Napoli 9 Archivio di Stato di Napoli, filza 4292, inserto 10744 5 ottobre 1802 Al Senator Mozzi Si risponde su i motivi che hanno indotto alla consegna della Venere dei Medici Mi son fatto un dovere di presentare alla Maestà del Re Mio Padrone l’espressione della giusta pena sentita da S.M. il re d’Etruria alla nuova della consegna seguita in Palermo della statua conosciuta sotto il nome di Venere dei Medici, come vi vien significato dall’E. V. nel suo riverito foglio de 25 dello scorso settembre. Nel rassicurarla del sensibile rincrescimento rovato da S. M. in tal riscontro, ho l’onore d’inviarle qui inclusa la copia della nota ministeriale di questo ambasciatore della Repubblica Francese, dalla quale rileverà al dichiarazione in nome dei Primo Console, i cotenti motivi che hanno determinato la M. S. a far eseguire la richiesta consegna, ed i quali han fatto tanto peso nell’animo mio, che mi son dispensato dal passargliene avviso, avendo creduto che un sicuro consenso di cotesta Real Corte avesse precedute quanto vien dichiarato nella surriferita nota.
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Lettera senza firma, ma si deduce Acton come mittente.
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Le arti di William Roscoe: biblioteca e collezione ________________________________________________________________________________
LE ARTI DI WILLIAM ROSCOE: BIBLIOTECA E COLLEZIONE (II parte) Il catalogo della biblioteca di William Roscoe costituisce uno strumento preziosissimo per capire le fonti edite su cui questi meditò in via diretta e di cui in larga parte si servì per l’elaborazione dei suoi scritti, segnatamente le due sue opere maggiori, le biografie di Lorenzo il Magnifico e di Leone X. L’insieme dei libri appartenuti a Roscoe fu posto all’incanto e smembrato nel 1816, unitamente alla collezione dei dipinti, per il bisogno di liquidità a cui il proprietario si trovò a far fronte in seguito al tracollo finanziario della banca di cui era socio. Nel 1799 egli aveva infatti aderito a questa ‘società’ per soccorrere l’amico William Clarke, il quale tanto aiuto gli aveva prestato nella redazione della biografia di Lorenzo il Magnifico, soprattutto inviandogli dall’Italia, e in particolare dalla Toscana, la trascrizione di numerosi documenti1. La vendita della biblioteca, deprecata immediatamente dai dotti di Liverpool ben consci del suo valore2, comportò però l’edizione di una serie di cataloghi, in cui vengono documentati con buona precisione numero e tipologia dei testi posseduti da Roscoe al 181516. Roscoe aveva costruito la sua biblioteca sia attraverso acquisti effettuati tramite corrispondenti presenti in Italia, sia attraverso i librai in patria, soprattutto londinesi3. Esiste la testimonianza che Roscoe avesse lavorato alla redazione di un catalogo completo di tutte le sue collezioni qualche anno prima che si presentasse la necessità della vendita, quello che i biografi chiamano «catalogue of a private collection of books, pictures, drawings, medals and prints illustrating the rise, vicissitudes, and establishement of literature and art in Europe»: un catalogo a tutti gli effetti abbozzato, utile base per redigere quelli della vendita, che alcuni MACNAUGHTON 1996, p. 27. Una generosità che appare essere uno dei tratti salienti del carattere di Roscoe; un analogo impegno si rileva nell’aiuto prestato a Fuseli per il suo sostentanemento: MACANDREW 1959-1960, in part. pp. 15-22, 31. Per una panoramica generale degli affari di Roscoe, dalle banche all’agricoltura, si veda MORRIS 1993b, pp. 18-19. 2 «Roscoe’s Library! Imagination runs riot at the very thought of it»: ASPINALL 1853, in part. p. V (per la discussione dei lotti in vendita si veda, le pp. 34-39, 45-47, 55-59). Parte dei libri, come poi anche delle opere d’arte, furono acquistati da amici di Roscoe e donati all’Atheneum, istituzione fondata nel 1797: SYDNEY JONES 1931, p. 21. Va citato anche il caso di un latifondista come Thomas Coke, che Roscoe aveva conosciuto quando aveva iniziato a lavorare alla sua proprietà Chat Moss, il quale acquisterà molti volumi della libreria di Roscoe che confluiranno poi nella biblioteca di Holkham Hall, che proprio il Coke aveva ereditato dal prozio duca di Leicester, e di cui Roscoe compilerà il catalogo: GRAHAM 1964-1968, pp. 128-154, in part. pp. 133-134; MUIR 1906, pp. 20-21; MATHEWS 1931, pp. 33-34; MORRIS 1993b, pp. 11-12; MACNAUGHTON 1996, p. 39. 3 CATALOGUE LIBRARY 1816. Nel sottotitolo si specifica che tale «library […] will be sold in auction by Mr. Winstanley, at his rooms in Marble Street, Liverpool on monday the 19 th of August, and thirteen following days (Sunday excepted). The sale to begin at eleven o’clock precisely». La copia di questo catalogo conservata al Warburg Institute di Londra conserva a penna le note recanti i nomi dei singoli compratori e il prezzo a cui furono venduti i vari volumi; copie simili, cioè con i nomi degli acquirenti, sono conservate anche alla British Library di Londra e al Getty Insitute di Los Angeles e sono citate da MORRIS 1993a, p. 98, nota 30; cfr. anche ASPINALL 1853; GLASGOW 1999, pp. 403-407. Uno dei biografi di Roscoe ha riferito anche il guadagno realizzato nella vendita della totalità delle collezioni: 5150 sterline per i libri, 1886 per le stampe, 750 per i disegni e 3239 per i dipinti: TRAILL 1853, p. 34. Esistono diverse testimonianze di alcuni acquisti di libri nelle carte Roscoe: si veda ad esempio la cassa di libri mandati a Livorno «il dì 26 aprile 1790» per essere spediti a Liverpool: Liverpool City Council Library, Roscoe Paper (LCCL, RP), 920, 835; oppure ancora nella corrispondenza con Arthur Arch, libraio di Londra: LCCL, RP, 920, 125-136 (tutte lettere che si datano nel periodo compreso tra 1810 e 1813). Vanno poste in evidenza, perché pertinenti alla nostra ricerca, le segnalazioni di Arch sulla disponibilità delle Vite del Vasari (lettera del 2 novembre 1811: LCCL, RP, 920, 125) e i trattati di Alberti (lettera dell’8 novembre 1813: LCCL, RP, 920, 126). Roscoe, inoltre, approfittò della vendita all’incanto delle biblioteche Pinelli e Crevenna, avvenuta tra 1789 e 1790: ROSCOE 1833, vol. I, p. 146 e vol. II, p. 54. Da segnalare che il catalogo della biblioteca Pinelli era stato pubblicato nel 1787 da Jacopo Morelli, corrispondente di Roscoe, il quale gli fornì anche alcune notizie utili per la compilazione della vita di Leone X (si vedano le interessanti lettere del 25 aprile e 10 agosto 1804: LCCL, RP, 920, 2745, 2747): quest’ultimo catalogo è ora in parte consultabile sul sito www.memofonte.it. 1
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testimoni vogliono infatti scritti da Roscoe stesso4. L’affermazione pare altamente sostenibile anche considerando il fatto che Roscoe elaborò sicuramente altri due cataloghi nel corso della sua vita: quello dei dipinti che costituirono il nucleo iniziale della collezione della Royal Institution di Liverpool, che è del 1819, e soprattutto il catalogo dei manoscritti di Holkham Hall; compito cui lo aveva chiamato Thomas Coke già nel 1812, ma poi portato a conclusione, e nemmeno definitiva, solo alla metà del decennio successivo. Un catalogo, quest’ultimo, che avrebbe posto in evidenza tutti i limiti del Roscoe schedatore, e soprattutto del Roscoe conoscitore, come avrebbe evidenziato Frederic Madden, poi «keeper» dei manoscritti del British Museum, incaricato di revisionare il detto catalogo5. In entrambi i casi si trattava di catalogare opere già in suo possesso, perché i dipinti della Royal Institution rientravano già nella sua collezione, comprate e donate da suoi concittadini; lo stesso Coke, sempre nell’asta del 1816, aveva acquistato alcuni manoscritti di Roscoe per poi trasferirli ad Holkham Hall. È bene precisare però che il catalogo della vendita del 1816, sia per quello che riguarda i libri e poi per quanto concerne le opere d’arte, non è un generico catalogo, bensì una lista ragionata, non meramente elencativa, funzionale invece all’illustrazione di uno sviluppo storico («rise», «vicissitudes», «establishment») che conferma come la stessa costruzione della biblioteca privata perseguisse lo scopo di rappresentare, cioè di offrire immediata visione della storia delle lettere. Catalogo che punta, nella sua discorsività, a ricomporre un quadro organico, piuttosto che alla secca distinzione elencativa, inventariale, delle voci inerenti i singoli oggetti6. L’ossatura della biblioteca è centrata sui volumi di autori italiani dal quattordicesimo secolo al presente, cui si aggiungono alcuni manoscritti, verosimilmente trecenteschi, e un capillare accumulo (che significa anche aggiornamento in fieri) della grande erudizione settecentesca, sempre in maggioranza italiana. Roscoe possedeva, tra l’altro, gli Annali (nelle due edizioni di Roma del 1752 e di Napoli del 1773) e le Dissertationes di Muratori, la Storia civile del regno di Napoli di Giannone (anch’essa in due edizioni, di Venezia del 1766 e Napoli del 1770), le Rivoluzioni d’Italia di Carlo Denina, sino ad arrivare agli Scrittori d’Italia del Mazzuchelli e a diverse opere di Angelo Fabroni, autore con cui Roscoe avrebbe avviato direttamente un carteggio7. Accanto a questa ampia sezione di «History», ci sono parti dedicate a «Letters, orations ecc.» dove si contano le raccolte epistolografiche dello Zeno e del Muratori, indicative di un interesse marcato per questi studiosi, percepiti quali autorità, non solo per le ricerche edite, dato che il loro stesso carteggio diventa fonte preziosa di informazioni8. Poi, accanto a nutrite sezioni di poesia, dall’antichità all’epoca moderna, ripartite per nazioni, si presenta la parte dedicata alle arti figurative, battuta il tredicesimo giorno dell’asta, che qui ci interessa in modo particolare9. Essa è assai articolata, perché molto ricca, tanto che si compone di varie sottosezioni: «ancient art, didactic and critical works of art, lives of painters, collections and catalogues of pictures, drawings, and prints». L’abbondante serie delle biografie di artisti attesta come questo genere fosse avvertito quale prima e imprescindibile ROSCOE 1833, vol. II, pp. 56-58; CLARK 1883, pp. 18-19, 21-22, 24-25; MACNAUGHTON 1996, pp. 134135 (che precisano come tale catalogo era stato redatto a partire dal 1812). Henry Roscoe cita una lettera di Roscoe in cui questi dichiara di aver compiuto questo catalogo; e sempre Henry afferma che la descrizione delle incisioni nel catalogo di vendita era di mano di William Roscoe: ROSCOE 1833, vol. II, p. 125. Alcuni eloquenti passaggi sul valore della biblioteca privata e del collezionare libri, anche in ROSCOE 1805, vol. IV, p. 123. 5 MORRIS 1993b, pp. 11-12. Tale episodio è stato compiutamente analizzato da GRAHAM 1964-1968, pp. 128154. 6 «The very catalogue of this famous library is in itself a curious and interesting study in the history of literature»: ASPINALL 1853, p. 28; GRAHAM 1964-1968, p. 137. 7 CATALOGUE LIBRARY 1816, risp. pp. 34, 41, 34, 18-19. Per il carteggio col Fabroni: LCCL, RP, 920, 1470 (minuta di Roscoe da Liverpool del 23 luglio 1802) e 1471 (lettera di Fabroni da Pisa del 5 ottobre 1802). Si veda comunque tutto LCCP, RP, 920, 1469-1471 e 1267. 8 CATALOGUE LIBRARY 1816, p. 81. 9 CATALOGUE LIBRARY 1816, pp. 175-186 (tutti i riferimenti sono tratti da queste pagine). 4
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fonte di notizie: Roscoe possedeva naturalmente Vasari – in due edizioni del 1550 «first edition, very rare», e del 1648 –, ma anche Soprani, Baldinucci, Passeri, Pascoli, Bellori, Malvasia, Ridolfi, Baglione, Van Mander tanto che si può dire egli avesse cercato di comporre un quadro completo delle raccolte biografiche più importanti, compreso l’Abecedario orlandiano nella edizione edita a Venezia da Pasquali nel 1753, rivista dal Guarienti. In questa sezione è presente anche la già ricordata Storia pittorica di Luigi Lanzi nella seconda edizione, quella di Bassano del 179510, cui seguono subito dopo le Vite dei pittori bassanesi di Giovan Battista Verci. La presenza del volume del Verci, forse in maggior misura rispetto a quella degli altri biografi, che si potrebbero definire ‘storici’, ‘classici’ (Vasari, Baldinucci), ormai entrati nel novero dei riferimenti bibliografici quasi necessari, è sintomatica della straordinaria diffusione nel panorama europeo di opere a carattere ‘locale’, e il loro significato tutt’altro che marginale nella costruzione di biblioteche quali strumenti di lavoro completi per un’indagine storica e artistica a tutto campo, in questo caso in modo preminente della penisola italiana. Non mancano certo Winckelmann e Mengs, significativamente accostati. Del primo però viene elencata solo la Storia delle arti presso gli antichi, nella traduzione italiana del Fea del 1783; mentre del secondo è presente l’edizione delle Opere pubblicate per cura del De Azara. È molto probabile che Roscoe fosse giunto a questi due importanti teorici attraverso la cultura italiana. Conta segnalare inoltre come Roscoe fosse già associato all’opera del D’Agincourt che a quella data stava per esser pubblicata11. Assai nutrita si rivela pure la parte del catalogo di vendita intitolata «didactical and critical works», in cui compare l’edizione del 1485 del De re aedificatoria dell’Alberti assieme ai trattati di Lomazzo, del Dürer, di Leonardo, quest’ultimo nell’edizione parigina del 1651. Da rilevare, in questa sezione, anche la raccolta delle Lettere pittoriche curata da Giovanni Bottari, priva però del settimo tomo edito per cura di Luigi Crespi nel 1773, e la presenza di alcune settecentesche guide di città, inserite nella sezione «collections and catalogues» (posizionamento in sé molto eloquente). Esse si trovano insieme, per fare un esempio, al Musée di Lenoir, e alle opere sulle collezioni di stampe come il De Murr e l’Heinecken, lo Zani e il Basan. Di queste guide cittadine, Roscoe possedeva le Pitture di Bologna del 1706, la guida di Padova del Rossetti del 1776, la guida del Titi per Roma del 1721 e una traduzione inglese del 1679 del Viaggio in Italia di Giacomo Barri, a ribadire una centralità non tanto della letteratura di viaggio quanto della descrizione della città italiana come strumento di conoscenza diretto del patrimonio artistico anch’esso locale, elencato per autori, opere e collocazioni. La storia delle arti risulta insomma rappresentata in tutto il suo sviluppo, dall’antichità al presente e secondo quelli che tra Settecento e Ottocento potevano considerarsi i filoni, o anche generi se si vuole, principali: la biografia, il trattato tecnico, la raccolta documentaria (come la raccolta epistolografica bottariana), la descrizione di un centro urbano. Si può affermare, insomma, che tale raccolta bibliografica garantisse al Roscoe residente a Liverpool una strumentazione di lavoro piuttosto completa e aggiornata, in cui per lo meno non compaiono vistose lacune. Lungi dal costituire una mera collezione, infatti, la biblioteca funzionava per Roscoe, soprattutto per il versante storico-artistico, quale elemento fondamentale al fine di elaborare quelle lunghe digressioni, a volte interi capitoli, inerenti la storia delle arti che sono disseminate in molte sue opere, edite e manoscritte. Digressioni costruite proprio su questo equilibrato dualismo tra costruzione biografica e territoriale, tra la necessità di precisazione documentaria, fattuale, e la ricomposizione in un quadro più vasto, in cui si avverte con precisione il maturare della concezione storiografica artistica dalla singola biografia alla volontà di raccontare con maggiore dettaglio e più generale sguardo critico il dispiegarsi della storia dei fatti figurativi sulle coordinate dello spazio geografico e dello Roscoe possedeva anche il lanziano Saggio di lingua etrusca, una copia con alcuni appunti manoscritti: ASPINALL 1853, p. 35. 11 MIARELLI MARIANI 2005a; MIARELLI MARIANI 2005b. 10
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scorrere del tempo. Senza contare quell’attenzione precipua per la storia del libro stesso, indicata non soltanto dall’addensarsi di edizioni quattrocentesche, che rimontano cioè agli albori dell’arte della stampa – altro tema su cui Roscoe si trovò a riflettere e a scrivere, sia nella vita del Magnifico che in quella di Leone X –, ma anche dalla presenza dei codici miniati, tra cui uno che Aspinall attribuiva a Giotto, il vero restauratore della pittura, come Roscoe stesso recita in una sua poesia: «But see, where Giotto’s purer ray, / emerging from the gothic night, / drives the fantastic shapes away, / and brings his chaster forms to light»12. La stessa produzione manoscritta roscoeana, cui abbiamo deputato un pur brevissimo cenno nella prima parte di questo lavoro, acquista quindi una rispondenza precisa con la biblioteca e col resto della collezione di opere d’arte di Roscoe. Non bisogna dimenticare, infatti, che Roscoe avrebbe lavorato a una storia del manoscritto miniato in cui si evidenzia con marcata chiarezza l’influenza delle miniature sulla pittura italiana prima di Giotto e su Giotto stesso13. È nello studio del libro, della sua storia, che si saldano quegli interessi che spingono da un lato verso il collezionsimo bibliografico, dall’altro delle opere d’arte. Il libro è al contempo oggetto artistico, con le sue miniature, e strumento di studio; la stampa ha una storia che si connette a quella dell’incisione che riproduce i capolavori delle arti. L’oggetto collezionato, insomma, torna a essere non un feticcio ma il concreto, visibile passaggio della storia e della storia delle arti, la testimonianza, nel senso più profondo del termine, che consente nuove elaborazioni scientifiche, utili al presente. La collezione L’analisi della vendita dei beni di Roscoe conobbe il suo momento principale nella collezione delle opere d’arte che erano in suo possesso, il cui elenco è presente in una specifica sezione del catalogo d’asta, anche questo probabilmente redatto dallo stesso Roscoe, con estrema cura, e non comprendente comunque tutte le opere in suo possesso14. Se ne riporta qui di seguito la descrizione-presentazione: The extensive and valuable collection of engravings, painter’s etchings, and prints. The genuine and valuable collection of pictures, and the choice and well selected collection of drawings. The property of William Roscoe, esq. The prints and engravings comprise, a series of prints from works of the greek and italian painters, illustrative of the progress of painting in Italy, from the earliest to the later ages. A series of prints from the works of the greek and italian painters, illustrative of the progress of engravings in Italy, German and Flanders, including choice specimens of every artist of eminence, from the earliest period to Agostino Carracci in the italian school, and from Francis Stoss to Edelinck in the german and flemish. A highly valuable collection of etchings by the italian painters, consisting of the works of the most eminent masters, who have etched their own designs, from Parmigianino to Carlo Maratti. Of the flemish and dutch painters in the various walks of history, landscape, cattle, drolls and interiors, and the french school, including fine examples of Claude, Callot, Gaspar Poussin, Sebastian Bourdon, etc. An assemblage of fine prints, after Rubens, by the most celebrated engravers of his time – choice impressions of the Vandycke heads – several of fine works of Rembrandt and his school – rare specimens of wood and chiaro-scuro prints, by the italian and german masters – engravings from antique busts and statues, a few selected books of prints – valuable portfolios etc. The drawings are a selection of the works of the greatest masters of the art, classed and arranged so as to form a series of the productions of the early and late florentine, roman, venetian, and ASPINALL 1853, pp. 61-62 (e anche pp. 29-30); MACNAUGHTON 1996, pp. 140-141. GRAHAM 1964-1968, pp. 128-154. 14 COMPTON 1960-1961, p. 27; MORRIS 1993a, p. 94. 12 13
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Le arti di William Roscoe: biblioteca e collezione ________________________________________________________________________________ lombard schools. Many of them being highly valuable, and peculiarly interesting. The pictures comprise undoubted specimens of many of the scarcest italian masters, from the time of the greek artists, to the close of the fifteenth century: a collection of the works of the german and flemish masters, from the commencement of the school under John Hubert van Eyck to a recent period. Many rare and valuable portaits of artists and literary characters: the superb picture of Leo X, with the cardinals de’ Medici and Rossi by Andrea del Sarto, an unique and exquisite head of Christ by Lionardo da Vinci, a Holy family by Domenico Ghirlandaio, with a freize by Michelagnolo. The Nativity by Bernardo Lovini, Saint Roch giving alms, by Guido from the design of Annibale Carracci; the Elevation of the serpent, by Nicolo Poussin; Saint Cecilia, by Rubens; the celebrated picture of Saint Hubert, by Lucas van Leyden, mentioned in his life by Carlo van Mander, and many others of high value15.
Una collezione in effetti piuttosto consistente per un privato, che non contava né nobili natali né un elevato lignaggio. Una raccolta che doveva risaltare a Liverpool, non tanto per la quantità e la qualità, giacché, come si è detto nella prima parte di questo lavoro16, la città era assai vivace e avviata a raggiungere forse il momento apicale di una stagione aurea durata almeno un secolo, fino agli anni sessanta dell’Ottocento; quanto per la precisa prospettiva storica con cui era stata assemblata17. Di fatto è proprio la struttura di questa collezione che va rilevata, perché ‘completa’ dagli «old masters» al presente, e capace di coprire con un nutrito settore di grafica (disegni e stampe) molte scuole artistiche europee e secondo periodi cronologici non ristretti. Tale aspetto dovette apparire subito evidente ai dotti amici di Roscoe, nonché suoi concittadini, i quali, di fronte al concreto pericolo di dispersione di un tale insieme, subito individuato come vitale e costitutivo nel tessuto cittadino, decisero di acquistare una selezione dei dipinti (come avevano fatto per i libri). Stando ancora alla testimonianza del Traill un «comprising specimens of art highly illustrative of the progress of painting, was purchased by several of the same gentlemen [cioè gli stessi che avevano comprato anche alcuni libri], at liberal price, fixed by Mr Winstanley at me, and presented to the Royal Institution by those admirers of Roscoe. This collection cost £ 50, and forms an interesting part of the objects which attract strangers to our institution»18. Collezione che si legava quindi in maniera molto forte alla città e sarebbe stata parte integrante della formazione e delle vicende dei suoi musei. Nel 1819, infatti, la «Royal institution» inaugurò una nuova sede dove, in una stanza, si potevano ammirare le opere d’arte recuperate dalla vendita della collezione Roscoe. Tali opere, trentasette in tutto, di cui quattro non comparse nella vendita del 1816 (che quindi Roscoe non aveva posto all’asta o addirittura aveva comprato tra 1816 e 1818 nonostante i dissesti finanziari), erano perfettamente descritte in un catalogo edito nel 1819, redatto con tutta probabilità da Roscoe stesso. Tale pubblicazione prende a pretesto nuovamente l’elencazione dei dipinti e tenta di compilare una sorta di piccola storia dell’arte, dagli old masters alla produzione artistica del presente. Tanto che nell’introduzione, si auspicava apertamente che questo stesso scritto, oltre beninteso alle
Collection of prints, painter’s etchings, drawings, and paintings, Liverpool, which will be sold by auction by Mr. Winstanley at his room in Marble street, Liverpool on thursday the 5th of September and the following days (Sunday excepted), in CATALOGUE LIBRARY 1816, pp. 209-210. Sulla collezione si veda FASTNEDGE 1954, pp. 23-46. 16 Cfr. Studi di Memofonte 2/2009. 17 DARCY 1976, in part. pp. 20-62, pp. 95-155; MORRIS 1993a, pp. 87-98. Utile anche ORMEROD 1953. 18 TRAILL 1853, p. 35; MACNAUGHTON 1996, p. 153. Sulla vendita della collezione di Roscoe si veda anche ROSCOE 1833, vol. II, pp. 114-144, in part. pp. 118-125. Lo stesso Winstanley ricordava di non aver potuto evitare la dispersione e di aver totalizzato poco in termini monetari dalla vendita dei beni; coloro che acquistarono le opere per la Royal Institution sono stati definiti «radical, nonconformist and mercantile [...]. It was a new gallery and the work of a new men»: MORRIS 1993a, pp. 92-93, 96. 15
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opere, «may contribute to the advancement of the fine arts in Liverpool»19. Di fatto Roscoe elabora una schedatura riassuntiva che è un ripercorrimento della storia dell’arte, nella quale indicava in sintesi un percorso critico attraverso manufatti di diversi secoli. L’ordinamento stesso traduce una forma di ricerca e di analisi delle arti figurative: valga la citazione di Lanzi e un paragone tra Giotto e Cimabue, piccoli ma eloquenti segnali di un’estensione ragionata delle singole ‘schede’20. La presenza di un catalogo, recante una forte impronta didattica, la presenza di opere dall’‘antichità’ al presente, cui si aggiunge il fatto che sin dalla sua apertura la collezione della Royal Institution avesse un «clear public purpose and institutional permanence», rendono questo istituto di Liverpool una delle prime gallerie pubbliche d’Inghilterra (ovviamente escludendo il particolare caso di Londra)21. Un’eredità strettamente connessa alla città, che innescò responsabilità non lievi nella sua gestione. Ancora alla fine dell’Ottocento tale insieme di opere non era ritenuto adeguatamente valorizzato, tanto che «its contents are comparatively little known, and are scarcely visible», e siccome «the pictures are crowded together, a rearrangement is required». Una nuova sistemazione, insomma, che si auspicava in un nuovo edificio che si vorrebbe chiamare «Roscoe Gallery»: «the entrance shall be free every day». La situazione poi lentamente – anche se con qualche difficoltà – si sarebbe risolta con l’istituzione della Walker Art Gallery e col passaggio delle opere di Roscoe a questa sede museale prima nell’ultimo decennio dell’Ottocento, poi definitivamente acquisite nel secondo dopoguerra22. Roscoe costruì la sua collezione soprattutto tra 1799 e 1816, gli anni della sua massima prosperità. Innanzitutto grazie al commerciante Thomas Philipe, una sorta di agente di Roscoe a Londra, ma soprattutto essa conobbe un importante incremento per la presenza a Liverpool di Thomas Winstanley, altra figura di commerciante che trattava sia old masters sia artisti contemporanei23. Esistono testimonianze dirette degli acquisti di Roscoe, che possono essere CATALOGUE PICTURES ROSCOE 1819, introduzione, pagine non numerate. La conferma dell’impegno diretto di Roscoe nella redazione di questo catalogo viene da ORMEROD 1953, p. 32, nota 2, cfr. anche MORRIS 1993a, p. 93. Ci sono molti altri casi analoghi di inventari che diventano piccole storie dell’arte: si ricorda quello di Abraham Hume, che aveva pubblicato uno scarno elenco della sua collezione (ante 1792) e uno ben più consistente e commentato nel 1824: cfr. BOREAN 2004, pp. 12, 14, nota 51. Uno strumento di studio oggi assolutamente fondamentale è il Getty Provenance Index Catalogue consultabile sul sito del Getty Institute di Los Angeles: http://piprod.getty.edu. Si noti che in questa eccellente banca dati alcune delle voci riguardanti pezzi della Roscoe collection sono state aggiornate assai di recente (dicembre 2008). 20 CATALOGUE PICTURES ROSCOE 1819, in part. p. 2. 21 MORRIS 1993b, p. 20; MORRIS 1993a, pp. 87-89. A paragone della Royal Institution di Liverpool questo autore richiama le gallerie di Oxford, Cambridge e Dulwich e individua, quale analogo esempio, il solo catalogo del Marquis of Stafford, pubblicato nel 1818 «arranged according to schools and in chronological order with remarks on each picture by William Young Ottley» (MORRIS 1993a, p. 97, nota 6). Il quale Ottley era a sua volta un agguerritissimo collezionista, soprattutto di grafica, come si evince dai cataloghi di vendita dei suoi disegni (del 1804, 1807 e 1814) e delle sue stampe (1911 lotti) avvenuta nel 1837: CATALOGUE OTTLEY 1837; cfr. GERE 1953, pp. 44-52, in part. p. 49 (in cui viene richiamata la similarità con la collezione di Roscoe, che aveva pure acquistato disegni di Ottley, soprattutto nell’impianto che vuole fornire l’idea dello sviluppo storico e non solo della qualità dei pezzi). Cfr. anche SPALLETTI 1979, pp. 416-484, in part. pp. 417-430; BOREA 1993, parte I, pp. 28-40; parte II, pp. 50-74 (in part. parte II, pp. 65-68). 22 Le opere furono conferite «on loan» alla Walker Art Gallery nel 1893, prestito poi rinnovato nel 1914, fino al deposito definitivo occorso nel 1948. Su questo aspetto si veda specialmente ORMEROD 1953, pp. 57-79. Cfr. anche CLARK 1883, p. 31; FASTNEDGE 1954, pp. 23-25; MACNAUGHTON 1996, p. 155. Interessanti i cataloghi di questa stessa istituzione che documentano i passaggi della collezione: si veda CATALOGUE 1915 (in cui sono annotate anche opere presentate da Thomas Winstanley, e alcune riportano in calce i giudizi di Waagen); CATALOGUE 1928 (che appare quale versione ampliata del catalogo precedente), in part. pp. 10-12; WALKER ART GALLERY 1948. Per un inquadramento generale può essere utile anche MORRIS 2001, in part. pp. 84-112. 23 MACNAUGHTON 1996, pp. 147-148. Si ricordi appunto che Roscoe aveva un forte legame con artisti viventi, cui commissionava spesso direttamente opere: emblematico il caso delle numerose pitture di Fuseli che decoravano la villa di Roscoe ad Allerton, tra cui due episodi della vita del Magnifico, Il fantasma del Magnifico 19
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seguite fino agli anni immediatamente precedenti il tracollo finanziario cui egli andò soggetto. Resta una sintomatica attestazione in una lettera alla moglie, inviata da Londra nel 1792 (riportata dal figlio Henry), in cui egli la rassicurava dicendole di aver comprato alcune opere, ma trattarsi solamente di «a few trifles»24. Lo stesso Roscoe, stando alla testimonianza dei biografi, era invece ben conscio del valore della sua collezione o almeno di alcuni pezzi e non aveva mancato infatti di riconoscere diversi elementi di forza interni. Il ritratto di Leone X, innanzitutto, ritenuto una copia di Andrea del Sarto dall’originale di Raffaello e una «Madonna and child, with S. Helena and St. Francis by Dom. Ghirlandaio, the master of M. Angelo, painted, according to his custom, in distemper; but what constitutes its value was a freize or history piece, below; the work of M. Angelo, when young; with the strong indication of the great manner by which he afterwards distinguished himself», sono ritenuti i pezzi più importanti25. Inoltre Henry Roscoe poneva l’accento anche su una testa di Cristo, attribuita a Leonardo da Vinci, «a composition of the noblest conception, and full of the deepest feeling», dichiarata «perhaps the most striking picture in the collection»26. Nelle note alla traduzione italiana del Leone X anche Luigi Bossi teneva a specificare, seguendo la testimonianza del viaggiatore francese Simon, il quale aveva visitato Roscoe ad Allerton nel 1810 e 1811, che quest’ultimo era in possesso di «alcuni buoni quadri, ed uno ne ha acquistato recentemente», riferendosi proprio al ritratto di Leone X, supposto di Andrea del Sarto; e che volentieri mostrava «la sua collezione preziosa di schizzi all’acquaforte originali de’ più grandi artisti»27. La collezione delle opere d’arte era percepita quale nucleo distinto rispetto all’insieme di libri e stampe: «Perhaps the most curios and, indeed, the most highly prized portion of these collections was the series of original drawings and pictures, in the procuring of which Mr. Roscoe had take the greatest delight»; tutte queste sono opere collected during a series of years, chiefly for the purpose of illustrating by reference to original and authentic sources, the rise and progress of the arts in modern times, as well in Germany and Flanders and Italy. They are, therefore, not wholly to be judged of by their positive merits, but by a reference to the age in which they were produced. Their value chiefly depends upon their authenticity, and the light they throw on the history of the arts; yet, as they extend beyond the splendid era of 1500, there will be found several productions of a higher class, which may be ranked amongst the chiefs d’oeuvre of modern skill28. appare a Cardiere e la Morte del Magnifico, da datare rispettivamente al 1795 e al 1811 circa, attualmente non rintracciate: MACANDREW 1960-61, pp. 34, 37; MACNAUGHTON 1996, p. 153; GAJA 2005, pp. 121-144, in part. p. 129; cfr. anche WEINGLASS 1982, p. 130; su Winstanley si veda HERMANN 1999, pp. 198-201. 24 ROSCOE 1833, vol. I, p. 130; DARCY 1976, p. 125. E, ancora da Londra, nel febbraio del 1797: «Pictures I have bought none, prints not above 40’s worth, books a few»: ROSCOE 1833, vol. I, p. 215; anche HALE 2005, p. 63. Però intanto Roscoe, ai primi dell’Ottocento, dovette cambiare casa per consentire un’adeguata sistemazione ai dipinti e ai libri: ROSCOE 1833, vol. II, p. 53; cfr. anche CLARK 1883, pp. 6-7. Cosa del resto tipica nella storia del collezionismo inglese: CHANEY 2003, pp. 9-10. 25 ROSCOE 1833, vol. II, p. 62. 26 ROSCOE 1833, vol. II, si vedano tutte le pp. 130-135. Quest’opera, che era stata acquistata da Winstanley a Parigi, come attestato da un articolo sul «Liverpool Chronicle» del 1829 (cit. in DARCY 1976, pp. 126-128 e in MACNAUGHTON 1996, p. 149), insieme a quella del Ghirlandaio e alla copia del ritratto di Raffaello («the flowers of the collection», anche questa venduta a Roscoe da Winstanley, cfr. ibidem), stando sempre a Henry Roscoe vennero poi acquistate da Thomas Coke e andarono ad adornare la sua Holkam Hall: si veda anche, sulla scia della testimonianza di Henry Roscoe, CLARK 1883, p. 27; DARCY 1976, pp. 126-128; MACNAUGHTON 1996, p. 148. L’opera del Ghirlandaio, col fregio michelangiolesco, è in realtà un Amico Aspertini: di quest’opera e della sua attribuzione, Roscoe ne discusse con Fuseli, come attesta una lettera di quest’ultimo del 13 luglio 1814: MACANDREW 1963, pp. 224-225. Lo stesso Fuseli aveva richiamato alla prudenza nell’attribuzione ad Andrea del Sarto dell’altro ritratto di Leone X nella collezione di Roscoe: WEINGLASS 1982, p. 407 (lettera del 13 luglio 1814); cfr. anche pp. 404-405. 27 ROSCOE-BOSSI 1816-1817, vol. VIII (1817), pp. X-XV. 28 ROSCOE 1833, vol. II, p. 128. Passo parzialmente citato e discusso anche in MORRIS 1993b, p. 17.
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Non mancavano anche molti disegni (610 lotti nella vendita pubblica) i quali «were for the most part intended only for the use of the artist in his more finished compositions, and not like etchings or engravings for publications», la cui autenticità e valore era misurata anche sulla rinomanza dei precedenti possessori, tra cui si contano Vasari, Resta, Luti, a cui si accostavano Crozat, Mariette e Reynolds, ma soprattutto Richardson «who formed the finest collection of drawings ever brought together in this country»29. Lo studio della documentazione diretta può portare informazioni aggiuntive. La corrispondenza col sopra ricordato commerciante Philipe, permette di verificare direttamente come questi trasmettesse a Roscoe elenchi di opere che comparivano sul mercato con l’indicazione del relativo prezzo e attribuzione, di solito a numerosi e diversi artisti, specialmente italiani e francesi attivi tra Cinquecento e Seicento. Testimonianza importante non solo per aggiungere un elemento al vivacissimo mercato di opere d’arte, e non soltanto londinese, ma per confermare che non esistevano preclusioni particolari per Roscoe, dato che si presentano disegni di Carracci, Rosso Fiorentino, Polidoro, Barocci, Salvator Rosa, Leonardo da Vinci, Schiavone, Domenichino, Reni, Puget e Vandyck, per pescare qualche nome da liste che comprendono lunghe serie di nominativi – sempre da leggere col beneficio di quelle attribuzioni – rintracciabili in tutti i più importanti compendi biografici, e forse proprio su questa base scelti30. Tuttavia, ciò che appare veramente peculiare in questo insieme collezionistico, è il fatto che esso si presenti in così stretta connessione con la biblioteca e quindi con i gli studi pubblicati o rimasti allo stato manoscritto. Biblioteca e opere d’arte sono cioè regolate dagli stessi criteri di selezione, si configurano come due valve della stessa conchiglia, perfettamente adese e rispondenti. Il Roscoe collezionista è guidato da un istinto da storico più che da ricco mecenate e lo si capisce ancora dalla redazione dei due cataloghi, sia quello scritto in occasione della vendita del 1816 che quello di tre anni posteriore, relativo alle opere acquistate ed esposte alla Royal Institution. In entrambi vengono infatti sottolineati quegli aspetti della collezione che connotano propriamente una matura ricerca storiografica, come l’ampia estensione cronologica e geografica delle opere. Conta rimarcare, in questo senso, la divisione in scuole dei singoli disegni («classed and arranged so as to form a series of the productions of the early and late florentine, roman, venetian, and lombard schools»). Una precisa eco lanziana si nasconde con tutta probabilità in quest’ultima nota – sono del resto questi gli anni in cui Roscoe comincia a lavorare intorno alla Storia pittorica –, ma anche un’indicazione del pregio che si riteneva avessero queste opere proprio nel loro insieme. La stessa collezione diventa uno strumento vivo di conoscenza, una concretizzazione visibile dello sviluppo storico delle arti, tanto più importante qualora si consideri l’impossibilità per un inglese, mai sceso in Italia, di avere sotto gli occhi le opere che costituiscono un elemento non marginale nella ricostruzione culturale che sta alla base delle biografie di Lorenzo il Magnifico e di Leone X. In maniera molto suggestiva, e altrettanto perspicace, la collezione di Roscoe è stata infatti definita una «slide library»31. La sua struttura è di fatto finalizzata alla rappresentazione visibile, per singoli esempi, del progredire delle arti dalla loro ‘rinascita’ sino ai tempi moderni, da un «early» a un «late» attraverso un «progress». Si tratta di un tipo di atteggiamento in linea con quello riscontrabile in altri eruditi-collezionisti europei, studiosi o semplicemente appassionati di arti figurative, e che gioca di sponda con la coeva sistemazione di molte delle più importanti gallerie d’Europa, dagli Uffizi a Vienna, da Düsseldorf a Dresda 32. L’esigenza ROSCOE 1833, vol. II, pp. 128-129; CLARK 1883, p. 22; anche GOMBRICH 2002, in part. pp. 43-150. LCCL, RP, in part. 2963-2975 (tutte lettere scritte tra 1811 e 1812). 31 MORRIS 1993b, p. 18, e anche pp. 12-14. 32 Resta un punto fermo HASKELL 1981. Evidenzia la distanza della situazione inglese e specialmente di Liverpool da quella museale e collezionistica europea MORRIS 1993a, pp. 90-91. Il Compton ha ben chiarito le 29 30
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principale risiedeva nel creare un nucleo collezionistico capace di rappresentare non solo le varie scuole artistiche, ma anche il loro sviluppo cronologico. Documentare, cioè, una storia dell’arte in determinate zone geografiche. È per questo che la grafica in toto, le incisioni soprattutto e, ove possibile, i disegni erano assolutamente necessari per raggiungere questo obiettivo, altrimenti impossibile mediante sole opere di pittura o magari di scultura, per motivi economici, numerici e di spazio fisico33. La collezione di Roscoe aggiunge quindi informazioni precise al contesto del collezionismo della provincia inglese, ormai assai esteso, e basti pensare a città come Manchester34. La pubblicazione di siffatti cataloghi, infatti, per lo più redatti in occasione di vendite, poteva costituire un modello per la costruzione di una collezione e persino un’occasione non arida di scrittura sulle arti figurative, oltre che, beninteso, un bacino di opere cui attingere attraverso l’acquisto. Lo stesso Roscoe possedeva alcuni di questi cataloghi di vendita35. Una pratica di raccolta non disgiunta da quella catalogatoria, tanto che proprio dalla catalogazione dei manoscritti di Holkham Hall, che abbiamo ricordato, si deve la ripresa di un interesse più diretto di Roscoe per le arti figurative e l’intenzione di scrivere una storia delle arti, in parte già sottesa nella redazione del catalogo della Royal Institution del 1819. Il manoscritto sulla miniatura, che Roscoe portò a compimento senza però consegnarlo alle stampe, ne è una tangibile testimonianza: una sorta di esito a valle di questo intrico di interessi personali affine ad altri collezionisti, spesso di estrazione borghese36. Lo studio della raccolta di opere d’arte di Roscoe, le sue vicende nel tempo, offrono numerosi spunti per ben altri approfondimenti: notevoli risultati, ad esempio, hanno conseguito quelle indagini volte a capire la provenienza di alcuni pezzi, perché hanno documentato, tra l’altro, che Roscoe acquistava in prevalenza opere che riteneva avessero motivazioni che stanno alla base della collezione di Roscoe, partendo proprio dalla redazione del catalogo del 1816, e bene si è espresso sulla sua vicinanza appunto all’organizzazione museale coeva: COMPTON 1960-1961, p. 29. 33 Importante ancora il caso di Luigi Lanzi, indagatore sia della storia dell’incisione, sia della sua utilità per i conoscitori: cfr. il capitolo della Storia pittorica: «Origini e progressi della incisione in rame e in legno»: LANZI 1795-96, vol. I, pp. 73-101. Ulteriori e coeve attestazioni risultano numerose: cfr. ad esempio, oltre al ruolo centrale delle pubblicazioni di Heineken e De Murr (già evidenziato nella prima parte di questo scritto), si veda Raccolta Durazzo 1784, in part. pp. 7-8, 26; assai eloquente anche la testimonianza di Goethe (GOETHEVENUTI 1994, p. 174). 34 DARCY 1976, pp. 30-31. Altre collezioni inglesi, che pure comprendono ‘primitivi’, anch’esse battute all’asta, sono quella di Charles Greville venduta nel 1810 da Christie e quella di Henri Blundell of Ince (peraltro amico di Roscoe, nonché primo presidente della risorta Society of art di Liverpool nel 1783), il quale aveva comprato alcuni dipinti da Ignazio Hugford, figura centrale nei rapporti tra Italia e Inghilterra nel Settecento; oppure quella collezione dell’Earl of Bristol and Bishop of Derry, divisa tra opere tedesche e italiane, tesa a mostrare l’«historical progress» anche tramite una ‘lanziana’ divisione in scuole (Venezia, Bologna, Firenze): COMPTON 1960-61, pp. 30-31. Bisogna ricordare che in Inghilterra operava con grande forza l’esempio di Jonathan Richardson, anch’egli collezionista, la cui influenza sulla formazione dei conoscitori è fondamentale: lo citava già il Turnbull, quando parlava della necessità di avere «a collection of drawings and pictures ranged historically»: TURNBULL 1740, pp. 37, 40-42 (peraltro molto importanti, vista anche la data – 1740 – le sue considerazioni sulle scuole italiane e sulle loro differenze, il parallelo tra la rinascita delle arti in Grecia e in Italia). Cfr. anche GIBSON WOOD 1984, pp. 38-56. 35 Oltre ai già ricordati cataloghi del Daulby, mi limito a richiamare anche quello Blackburne (Catalogue Blackburne 1785). È un caso importante perché il catalogo della vendita di questa collezione compiuta «in the beginning of march, 1786» a Londra, in tredici giorni, è presente tra i libri di Roscoe oggi conservati nella biblioteca dell’Atheneum di Liverpool. Verosimilmente sua è la grafia delle note a penna in cui sono specificati i prezzi delle singole opere, come recita il frontespizio: «this collection consists of near ten thousand of the finest impressions of historical and other prints, both ancient and modern», tra cui vengono riportati alcuni nomi come i soliti Raffaello, Michelangelo, Marcantonio Raimondi, Rembrandt, Van Dyck (ordinati nel catalogo per ordine alfabetico). 36 LCCP, Roscoe papers, 920, ms. 5551. Danno notizie e in parte discutono questo manoscritto GRAHAM 19641968, p. 137; MORRIS 2007, pp. 159-161.
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avuto una connessione con la famiglia Medici e con Firenze37. Tuttavia, per le finalità di questo scritto, sarà sufficiente aver enucleato la caratteristica fondamentale di ‘biblioteca visiva’ che connota questo insieme di opere. La sua formazione, e il suo graduale espandersi e completarsi, corre di pari passo con la redazione delle due biografie medicee, il Magnifico e il Leone X edite tra 1795 e 1805, le cui digressioni sulle arti sono a tutti gli effetti i primi interventi pubblici di un qualche spessore che Roscoe redasse su questa materia. E i primi in cui, davvero, le arti figurative rientrano in un discorso storico complessivo, non settoriale ma latamente culturale, e ne diventano dichiaratamente parte integrante.
Particolarmente interessanti i risultati raggiunti dalle ricerche coordinate da Xanthe Brooke, responsabile della sezione Italian painting della Walker Art Gallery di Liverpool. Tali risultati sono stati in parte inseriti nei depliants informativi posti a corredo delle singole sale della stessa Walker Art Gallery. Devo queste e molte altre preziose informazioni a una pubblica visita tenuta in occasione della conferenza Roscoe and Italy, ripetutamente citata nella prima parte di questo lavoro, guidata proprio dalla stessa Xanthe Brooke, che ringrazio. Si veda anche quanto edito nel Getty Provenance Index Catalogue: http://piprod.getty.edu. 37
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Sulla collezione grafica della Biblioteca Marucelliana _______________________________________________________________________________
SULLA COLLEZIONE GRAFICA DELLA BIBLIOTECA MARUCELLIANA DAL 1804 A NERINO FERRI La R. Biblioteca Marucelliana – che mercè le indefesse cure del chiarissimo cavalier Angelo Bruschi gode fama di Biblioteca modello – possiede, come nobil corredo ai libri ed ai codici, una numerosa e pregevole raccolta di Stampe antiche ed un migliaio di disegni originali. Giunto presso che al termine della compilazione del catalogo delle due raccolte, sono lieto di poterne dare, col consenso dell’esimio Bibliotecario, qualche cenno nel Bollettino d’Arte, a vantaggio degli studiosi1
Con queste parole nel 1911 Pasquale Nerino Ferri, conservatore dei disegni e delle stampe della Real Galleria di Firenze, incaricato di compilare il catalogo dei disegni e delle stampe della Biblioteca Marucelliana, presentò sul Bollettino d’Arte le riproduzioni di alcuni «dei disegni più caratteristici e tutti inediti» della collezione2. Il catalogo dei disegni in questione è stato trascritto lo scorso anno e pubblicato sul sito della Fondazione Memofonte3. Il presente contributo mira a definire le tappe che portarono alla compilazione di questo catalogo; presenteremo inoltre un inventario sin qui inedito della stessa raccolta, proponendo confronti con gli altri esistenti e noti4. Storia della collezione Il lascito testamentario del Marucelli, avvenuto in data 25 settembre 1783, sanciva l’entrata nella Biblioteca di un consistente nucleo di grafica (994 disegni per un valore di 256 scudi secondo la Brunetti, e di 11884 stampe per un valore di 2491 scudi secondo la Sframeli), che l’allora bibliotecario, l’erudito e collezionista canonico Angelo Maria Bandini, prese in consegna e si premurò di riordinare5. Gli studi successivi hanno messo in evidenza l’importanza del materiale grafico che il collezionista riuscì a raccogliere; la provenienza di un certo numero di disegni e stampe, di cui si ignora però la consistenza (che potrebbe essere collegata ai lasciti pertinenti agli zii Orazio e Giovan Filippo, morti rispettivamente nel 1745 e nel 1772); il «catalogo informe» compilato dagli esecutori testamentari Marco Martelli e Zanobi Covoni alla morte del Marucelli; il sistema di riordinamento della raccolta ed il restauro dei volumi e le nuove acquisizioni fatte da Angelo Maria Bandini al passaggio della raccolta in Biblioteca.
1 FERRI
1911, p. 285. 1911, p. 286. 3 www.memofonte.it, nella sezione Collezionismo di disegni e stampe, sottosezione Collezione Marucelli. 4 Sulla storia della collezione di disegni e stampe di Francesco di Ruberto Marucelli, sono da ricordare gli studi e gli approfondimenti di Pasquale Nerino Ferri, Fabia Borroni Salvadori, Maria Sframeli, Giulia Brunetti e Rossella Todros, che sono riusciti nel tempo a dare buona visibilità al patrimonio grafico dell’istituzione, valorizzandola tramite pubblicazioni e mostre: FERRI 1911; FERRI 1912; BORRONI SALVADORI 1970; SFRAMELI 1984; BRUNETTI 1990; TODROS 1999. 2 FERRI
SFRAMELI 1984, p. 122; BRUNETTI 1990, pp. 7 e 9; la Borroni Salvadori contava 867 disegni per un valore di 656 scudi e 6663 stampe per un valore di 3022 scudi, vedi BORRONI SALVADORI 1970, pp. 102-103. Probabilmente la studiosa non aveva preso in considerazione la copia del «catalogo informe» dell’E.C.A. conservata presso l’Archivio Comunale di Firenze (Filza 1, n. 18) peraltro mai citata nel suo saggio e si basò solamente sulla copia del documento posseduta presso la Marucelliana (BMF, Inventario Marucelli 1783, n. 1, cc. 79-87). Si veda inoltre il recentissimo studio FILETI MAZZA 2009, pp. 72-73. Su Angelo Maria Bandini (Firenze, 1726-Fiesole, 1803) si veda in particolare ANGELI 1999, oltre che UN ERUDITO DEL SETTECENTO 2002. 5
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Per quanto concerne i disegni, la Brunetti nel 1990 ha cercato di far luce sulla vicenda collezionistica, ma anche sulla sistemazione del primo nucleo della raccolta rispetto all’attuale, ripercorrendone la vicenda storica fino agli inizi del Novecento6. Alcune affermazioni avanzate dalla studiosa possono oggi esser confermate ed altre riviste grazie al ritrovamento di un inventario inedito conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze7. L’inventario del 1804 Nella filza che contiene il manoscritto si legge sulla costola «Inventario della Marucelliana dell’anno 1804» e sul frontespizio «Inventario dei Libri, Stampe, e Manoscritti ecc. della Marucelliana». Dopo l’elenco di «Libri trovati mancanti, nel confronto fatto del nuovo Inventario, coll’antico Catalogo» segue l’«Inventario delle Stampe», datato 21 settembre 1804 e firmato dal bibliotecario Francesco Del Furia, dove sono elencati, su 8 pagine (non segnate), i 123 volumi, detti «libri», con i relativi titoli e di seguito la specifica del numero delle stampe, e in alcuni casi dei disegni contenuti, per un totale di 16508 pezzi. Il bibliotecario Del Furia, succeduto al Bandini nel 1803, appena entrato in servizio dovette fare il riscontro di tutti i libri, manoscritti, stampe e disegni presenti presso l’istituzione fiorentina e consegnarlo alla Corte dei Conti. I volumi dei disegni sono elencati insieme a quelli delle stampe: il termine «disegni» ricorre in due volumi in riferimento alle celeberrime serie di incisioni di Stefano Molinari e Andrea Scacciati tratte dai fogli originali degli Uffizi (volumi 41 e 43); per contro nei volumi da 70 a 75 il lemma si riferisce all’effettiva presenza di disegni (sono i tomi di disegni del primo nucleo della raccolta su cui torneremo a breve). Il volume 76 contiene disegni: «Nel sett.o ses.o l. int.o Piccini Gaetano raccolta di Maschere da Esso inventate e disegnate, n. 111»; e così accade nei volumi 83, 92, 95, 98, 99, 100, 105 ed infine nel 108. Quest’ultimo (e i due che seguono) è con tutta probabilità uno dei tre volumi di stampe intitolati «Disegni di camere, mobili, camminetti, giardini e fregi diversi» rilegati da Antonio Bonaiuti nel primo semestre del 17858. L’indicazione «tocchi in penna» si ritrova di seguito a «disegni» nel già citato volume 83 e, da sola, nel volume 91. Se quindi escludiamo i primi due casi, risulta che le voci «disegni» e «tocchi in penna», con le eccezioni viste, sono presenti in 16 volumi. Tornando al primo nucleo della raccolta all’entrata in Biblioteca, nel 1783, pare utile ora confrontare le informazioni ricavabili dal saggio della Brunetti con questa nuova fonte di notizie. Si può ritenere che il numero dei disegni attestabili dalle brevi ma preziose righe annotate in fondo all’elenco delle stampe nel «catalogo informe» (la cui ultima voce è «scarti di disegni e stampe … scudi 10») fossero 9949 e che il valore complessivo di stima ammontasse a 256 scudi. Dato che il nucleo iniziale della raccolta dei disegni era costituito da 9 volumi, nel ventennio successivo al lascito Marucelli anche la collezione dei disegni, e non soltanto quella delle stampe, aveva cambiato consistenza10. BRUNETTI 1990, pp. 7-12. ASF, Corte dei Conti, 91; vedi Appendice, doc. 1. Un approfondimento su tale argomento è in corso di realizzazione da parte di chi scrive. 8 BORRONI SALVADORI 1970, p. 108, nota 25. 9 I disegni erano conservati in sei tomi (contenenti disegni di autori diversi i tomi I, II, III, IV e VI, più le 40 Accademie di Cecco Bravo, attuale volume G) oltre al libro contenente 26 ritratti (poi divenuti 27) identificato nell’attuale volume H con i noti ritratti disegnati da Ottavio Leoni e da «n. 2 libri, di maschere uno, l’altro d’uccelli …» contenenti 132 disegni, gli attuali volumi P e K., BRUNETTI 1990, pp. 7-9. 10 La Brunetti segnalava un totale disinteresse del Bandini per i disegni, supportando la sua idea col fatto che non si trovassero documenti relativi ad acquisti nell’Archivio Storico della Biblioteca negli anni della sua direzione, mentre ve ne sono in abbondanza sulle incisioni, specialmente in relazione a stampe di autori contemporanei. BRUNETTI 1990, p. 9. Si veda inoltre BORRONI SALVADORI 1970, p. 101 e sgg. 6 7
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Confronto tra il «catalogo informe» del 1783 e l’inventario del 1804 Analizziamo ora nello specifico l’inventario del 1804 per fare il punto della situazione a tale data: - libro 70, «Disegni di diversi Autori tomo I» (attuale volume A), conteneva 176 disegni, 8 in meno del catalogo del 1783; - libro 71, «Disegni di diversi Autori tomo II» (attuale volume B), 190 disegni, 4 in meno del precedente catalogo; - libro 72, «Disegni di diversi Autori tomo III» (attuale volume E), 144 disegni, 4 in meno del precedente catalogo; - libro 73, «Disegni di diversi Autori tomo IV», 218 disegni, ma non è specificato quanti disegni mancassero rispetto a quelli segnati nel catalogo del 1783 (il tomo IV conteneva 154 disegni); - libro 74, «Disegni di diversi Autori tomo V», 150 disegni, quattro in meno del precedente catalogo; nel libro 75, intitolato «Cecco Bravo Disegni» (attuale volume G) vi erano 40 disegni (2 in meno che nel precedente); - libro 76, intitolato «Piccini Gaetano raccolta di Maschere da Esso inventate e disegnate», 111 disegni, si può identificare nell’attuale volume P. Scorrendo l’elenco delle stampe e dei disegni troviamo: - libro 83, che conteneva oltre stampe dei Carracci, anche «Disegni tocchi in penna n. 12»; - libro 91 intitolato «Daniele Eremita tocchi in penna», composto da 62 disegni e non menzionato nel catalogo del 1783; - libro 92, «Ritratti Miniati di uomini illustri», contenente 27 disegni, identificabile come il volume dedicato ad Ottavio Leoni, già citato nel «catalogo informe»; - libro 85, che comprendeva 26 disegni raffiguranti «Uccelli Miniati» e si identifica nell’attuale volume K; - libro 105, intitolato «Miscellanea di Disegni originali» (attuale volume F), che conteneva 137 disegni e non era menzionato nel catalogo del 1783. Oltre a questi libri, non si esclude la possibilità che vi fossero ulteriori disegni, ma senza poterne specificare la quantità, in altri tre volumi: - libro 98, intitolato «Cifre diverse, Disegni n. 157»; - libro 99, intitolato «Ritratti d’uomini illustri per Santità e Dottrina» contenente 453 stampe e disegni; - libro 100, intitolato «Monumenta Antiqua Sacra et Profana», contenente 363 stampe e disegni (al cui interno probabilmente si trovavano anche i disegni di antichità romane di Giovanni Antonio Dosio)11. Appare più chiaro, da questo inventario, il probabile assetto dato dal Bandini alla collezione dei disegni probabilmente sin dal 1784, quando risulta ne promosse il riordinamento. Pare per giunta evidente che l’accezione di onnicomprensività del termine «stampa» ad indicare qualsiasi tipo di foglio figurato, proposta dalla Brunetti per il primo nucleo di pezzi grafici al loro passaggio in Biblioteca, non sia sostenibile alla luce di questo nuovo documento12. Se infatti i volumi del primo nucleo della raccolta sono rintracciabili fra quelli indicati nell’inventario, anche se vi sono in alcuni casi differenze numeriche, ed i libri 105 (attuale volume F), e 91 (attuale volume I) sono entrati a far parte della collezione proprio nel ventennio 1783-1803, i restanti disegni sono specificati nei libri insieme alle stampe benché non differenziati da queste ultime. Non è dunque possibile stimare la quantità precisa di 11 12
BMF, Stampe, vol. C, nn. 148-161. BRUNETTI 1990, p. 9.
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disegni presenti in collezione nell’anno 1804 nonostante vi sia un elemento in più per approfondire anche i movimenti nella raccolta per quanto concerne le stampe. Riprendendo l’inventario del 1804, si legge: n. 105 «Nel centesimo quinto libro intitolato Miscellanea di Disegni originali, n. 137». Si tratta con tutta probabilità del volume intitolato «Miscellanea di 122 disegni originali» (con alcune aggiunte) a cui lavorò Antonio Bonaiuti nel primo semestre del 1785, non menzionato nel «catalogo informe»13. Allo stato delle ricerche, si può affermare che il volume 91 contenente i ritratti di Daniele Eremita, inesistente nella nota del 1783, sia stato acquisito sotto la direzione del Bandini, ma resta indubbio che potesse all’epoca far parte di un volume di stampe contenente ritratti, tra quelli che l’inventario cita. Confronto tra l’inventario del 1804 e la «nota dei disegni» del 1879 Confrontando l’inventario del 1804 con la «nota dei disegni esistenti nella Biblioteca Marucelliana» in data 26 aprile 1879, risulta che il numero dei disegni contenuto negli attuali volumi A, B, D, E, F, H, I, e K, se non per minime differenze quantitative (la più evidente è nel volume A, ove in luogo dei 176 disegni indicati nel 1804, ve ne sono 187 nel 1879), risulta quasi invariato14. Nella nota del 1879 i volumi 74, 75, 76, e 77 coincidono, nell’inventario del 1804, ai volumi 70, 71, 72, e 73, mentre i volumi 91, 92, 95, e 105 hanno mantenuto la medesima segnatura. Nella nota mancano però l’attuale volume contenente «disegni di autori diversi» segnato C (il n. 74 dell’inventario del 1804); il volume G con i disegni di Cecco Bravo, annotato sin dall’inventario del 1783 e segnato «n. 74» in quello del 1804; e l’attuale volume P, contenente le maschere disegnate da Gaetano Piccini, segnato «n. 76» nell’inventario del 1804. Viene spontaneo chiedersi perché non fossero inclusi nell’elenco del 1879 i tre volumi suddetti. C’è da aggiungere infatti che la nota si trova conservata nell’Archivio Affari diversi della Marucelliana assieme ad un elenco intitolato «19 aprile, numero delle Stampe esistenti nella Biblioteca Marucelliana», in fondo al quale troviamo scritto: «Stampe contenute in vol. 113 – 17.085 / Disegni vol. 8 – 995 / [totale] volumi 121 – n. 18.080»15. Le 40 accademie di Cecco Bravo sono registrate nella nota delle stampe al numero 79. Nella nota delle stampe sono stati inoltre espunti i numeri dal 74 al 77, poiché inclusi, come si è visto, in quella dei disegni. Resta invece da appurare dove si trovassero i 150 disegni al n. 74 dell’inventario del 1804 (e dell’attuale volume C). Il confronto tra i due inventari ci permette quindi di affermare con certezza che dalla direzione del Bandini al 1879, la collezione delle stampe e dei disegni della Marucelliana non subì un grande incremento, ma di certo molti cambiamenti di sistemazione all’interno dei volumi, se si contano infatti solo 1572 pezzi sottraendo dai 18.080 stampe e disegni del 1879 i 16508 pezzi del 1804. Dall’Ottocento a Nerino Ferri Proseguendo con la storia della raccolta grafica durante l’Ottocento, scarse sono le notizie venute alla luce in seguito alle nostre ricerche presso l’Archivio della Biblioteca 16. La segnalazione dell’importanza della collezione dei disegni, fatta dal professor Migliarini al direttore della Galleria delle Statue, Antonio Ramirez di Montalvo, nel dicembre del 1844, è già nota grazie allo studio della Brunetti, così come la lettera del Ministro della Istruzione BORRONI SALVADORI 1970, p. 108, nota 25. L’elenco (BRUNETTI 1990, p. 11), si trova in BMF, Archivio Affari diversi 62, busta n. 13. 15 Come il precedente, anche l’elenco delle stampe si trova in BMF, Archivio Affari diversi 62, busta n. 13. 16 Dall’indice dell’Archivio Affari diversi della Biblioteca risulta che la documentazione sulle incisioni e i disegni è presente soltanto nella collocazione Affari diversi 62. 13 14
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Pubblica (Michele Coppino tramite il Segretario Generale Giovanni Puccini) al direttore della Biblioteca, datata 16 aprile 1879, ove si auspicava un trasferimento della «preziosa raccolta di stampe, quasi negletta e sconosciuta, perché fuori della sua sede naturale» presso la Real Galleria di Firenze17. Due anni più tardi, il direttore della Marucelliana rispose ad una lettera del Ministro sulla consistenza dei volumi manoscritti esistenti presso l’istituzione fiorentina e, oltre a menzionare l’importanza del Mare Magnum «opera deputata il più gran lavoro bibliografico che si conosca», aggiunse: «sebbene non me ne sia fatta domanda, ravviso conveniente ricordare la pregevolissima collezione delle incisioni e dei disegni originali dei migliori maestri delle più lodate scuole antiche e moderne. Sono, dette incisioni, raccolte in 210 volumi in folio massimo»18. Si coglie subito quest’ultima affermazione poiché risulta strano che se nel 1879 i volumi delle stampe e dei disegni erano in totale 121, soltanto due anni più tardi ve ne fossero 210. Si tratta di un errore del copista, ipotesi per la quale propendiamo, o furono calcolati in quell’occasione anche altri volumi contenenti in parte incisioni? Un ulteriore tentativo di accorpamento della raccolta grafica della Marucelliana a quella della Real Galleria, anche in questo caso fallito, fu avanzato dal Ministro Emanuele Gianturco, con la lettera del 15 luglio 1896, rivolta, presumibilmente, in copia unica a tutte le biblioteche governative. Dopo una premessa di questo genere: «Lo studio di un’opera d’arte consiste quasi esclusivamente nel confronto di essa con altre opere omogenee, a fine di stabilire i rapporti di somiglianza e le differenze fra loro, fissarne i caratteri e determinarne gli autori. In tal modo soltanto è reso evidente il continuo e logico sviluppo dell’arte nei secoli andati, e ne è resa possibile e si cura la storia…», la lettera si chiude con queste parole: «le stampe che le biblioteche potrebbero cedere in deposito alle RR. Gallerie ed alle Pinacoteche sono a mio parere quelle o isolate o legate in serie di natura puramente artistica, escluse quindi tutte le altre che sono speciali per la scienza o per la storia locale, come, ad esempio, le carte topografiche, le riproduzioni anatomiche, botaniche, ecc…»19. Angelo Bruschi il 23 luglio rispose al Ministro Gianturco che la Biblioteca Marucelliana possedeva «la più grande e la più preziosa raccolta di stampe (oltre 20.000)» e che la Biblioteca non era da comprendere fra quelle che dovevano trasferire le proprie raccolte di grafica presso le collezioni reali delle città di appartenenza, in quanto era «oggetto di studio e di ammirazione per gli innumerevoli studiosi che qui convengono anche da lontani paesi, attratti dalla meritata fama che essa gode in Italia e all’estero»20. Anche in questa occasione, come già era accaduto nel 1879, il direttore della Biblioteca argomentò con le disposizioni testamentarie del donatore, l’abate Francesco Marucelli, allegando copia del testamento. Il Bruschi non menzionò peraltro la catalogazione del fondo grafico, intrapresa da Pasquale Nerino Ferri, che, secondo alcuni studiosi, ne venne incaricato solo nel 188721. Nerino Ferri e il Catalogo dei disegni della Marucelliana Nerino Ferri, assunto nel 1871 in qualità di aiuto di Carlo Pini, allora conservatore delle raccolte grafiche della Real Galleria, dal 1879 lo aveva sostituito e aveva intrapreso l’enorme
BRUNETTI 1990, pp. 10-11. La lettera, segnata «Biblioteca Marucelliana, lettera n. 335 / risposta al foglio del 15/01/1881, n. di partenza 518», si trova presso l’Archivio Centrale dello Stato Roma, Ministero della Pubblica Istruzione-Divisione Istruzione Superiore – Biblioteche governative e non – 1881-1894, Inv. 16/38, Busta 92. La brutta copia della missiva si trova in BMF, Archivio Affari diversi 63, fascicolo datato «15 gennaio 1881». 19 BMF, Archivio Affari diversi 62, busta n. 13. 20 BMF, Archivio Affari diversi 62, busta n. 13. Il documento citato è la brutta copia della lettera non rintracciata in seguito ad una nostra ricognizione presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma. 21 SFRAMELI 1984, p. 125; BRUNETTI 1990, p. 12; TODROS 1999, p. 37. 17 18
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lavoro di catalogazione del fondo, pubblicando a sue spese, nel 1881, il Catalogo delle stampe e, nello stesso anno, il Catalogo dei disegni22. Il Ferri, quale conservatore di uno dei gabinetti di grafica più prestigiosi al mondo, già autore di diverse pubblicazioni inerenti quella Galleria, aveva maturato una conoscenza tecnica e storica sui disegni e le stampe delle più diverse epoche e scuole. Nel corso degli anni, questi divenne uno dei maggiori esperti di grafica a livello mondiale, il primo ad affrontare in modo serio e deciso l’inventariazione e la catalogazione dei disegni e delle stampe. Fu un funzionario efficiente, preciso, sempre lodatissimo dai propri direttori, come risulta anche dalle note di merito conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Lo conferma la Petrioli Tofani nel 1983, sottolineando che il problema della catalogazione della raccolta grafica degli attuali Uffizi fu affrontato con straordinaria intelligenza dal Ferri, in quanto egli intraprese coraggiosamente fin da subito una prima inventariazione del fondo, avvertita come urgente ed importante per poter agevolare la consultabilità delle raccolte e divulgarne quindi le conoscenze. Fu dagli anni Ottanta dell’Ottocento, che il Ministero della Pubblica Istruzione iniziò ad avvertire il bisogno di una catalogazione ed indicizzazione delle raccolte nel clima postunitario di una consapevolezza del patrimonio culturale italiano, che porterà alle prime leggi di tutela e a quella fondamentale del 190923. A questo proposito, sembra opportuno citare la lettera che il direttore della Marucelliana, Guido Biagi, inviò al Ministro della Pubblica Istruzione il 18 dicembre del 1887 proponendo che Ferri intraprendesse la catalogazione del fondo grafico della Biblioteca24. Come abbiamo visto, infatti, dalla seconda metà dell’Ottocento la collezione cominciò ad essere maggiormente conosciuta e stimata dagli studiosi e dagli appassionati. Un articolo apparso su Il nuovo osservatore fiorentino il 10 ottobre del 1886 denunciò la situazione: Ma quando la Marucelliana non avesse per i curiosi che le 113 cartelle, che come si è avvertito racchiudono la serie delle incisioni, sarebbero queste, di per sé solo valevoli a dare nome alla Biblioteca la più copiosa. A conservatore di queste incisioni dopo il 1860 e per molti anni era un impiegato speciale, ma oggi non lo è più; e l’Osservatore desidera che la rara collezione non resti oltre senza la cura e la sorveglianza dovuta, come desidera per essa cataloghi esatti, o cataloghi di consegna da farsi firmare dagli impiegati cui vengano mano a
Su Pasquale Nerino Ferri (Fermo 1851-Firenze 1917), si veda PETRIOLI TOFANI 1983, pp. 421-442, ad oggi l’unico studio completo sul primo direttore del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. La studiosa analizza l’operato del Ferri presso il Dipartimento, approfondendo con molta perspicacia i criteri di esposizione dei materiali ed i metodi di catalogazione e di conservazione da lui promossi. Per i due cataloghi degli Uffizi si veda: FERRI 1881a e FERRI 1881b. 23 Nella seconda metà dell’Ottocento, dagli anni Sessanta del secolo, il Ministero della Pubblica Istruzione avviò sistematiche statistiche inerenti le biblioteche governative italiane. In BMF, Archivio Affari diversi 63, sono conservate le lettere inviate dal Ministro, le relazioni ed i moduli compilati dai direttori della Marucelliana e le tabelle relative alle attività delle biblioteche. 24 BMF, Archivio Affari diversi 62, busta n. 13. La lettera si trova nell’inserto denominato: «Illustrazione della Raccolta delle Stampe antiche e moderne della Marucelliana». Il documento citato è la brutta copia della lettera, e come detto alla nota 21, anche in questo caso, la lettera originale non è stata rintracciata fra le carte relative alla Biblioteca Marucelliana conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Trascrivo la parte che più ci interessa della lettera: « Firenze 15 dicembre 1887/… poiché il Regolamento vigente prescrive che si facciano indici speciali della raccolta di che può essere ricca una Biblioteca, e poiché quello delle incisioni per il quale richiedesi una singolare pratica e perizia non potrebbe farsi dal personale ordinario di questa Biblioteca, il quale, me compreso non possiede le cognizioni a ciò necessarie, pregai il Sig. Nerino Ferri conservatore delle stampe e dei disegni nelle Reali Gallerie di esaminare la nostra collezione. Il che egli fece ben volentieri nel decorso semestre invernale, e mi consegnò l’unita relazione che attesta del pregio della nostra raccolta. Ora poiché il Sig. Ferri sarebbe disposto a cominciare durante le letture serali il catalogo delle stampe per noi desideratissimo, proporrei che fosse a lui dato ufficialmente per mio nuzio l’incarico di tale lavoro, per il cui compenso, egli si rimette intieramente al giudizio del Ministero…». 22
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mano affidate, giacché nonostante l’onestà del personale anche la collezione Marucelliana è andata passiva della perdita di rarissime stampe, senza che si sia saputo chi ringraziare25. Neanche due mesi e mezzo dopo, Pasquale Nerino Ferri consegnò al direttore Biagi una relazione, ove presumibilmente questi annotava i criteri di catalogazione che avrebbe seguito per affrontare il lavoro26. Biagi scrisse al Ministro per chiedergli di poter affidare l’incarico al Ferri, e la risposta positiva non tardò ad arrivare27. Nel fascicolo relativo alle stampe, conservato nell’Archivio Affari diversi della Biblioteca, non vi sono altri documenti relativi a questa corrispondenza; tuttavia una lettera scritta dal Ferri, nel maggio del 1904, al direttore della Marucelliana, risulta maggiormente utile al fine di comprendere il metodo da lui utilizzato per affrontare la catalogazione delle stampe, con i criteri già seguiti per la catalogazione del fondo degli Uffizi28. Purtroppo la lettera non ci permette di cogliere quando il Ferri iniziò il lavoro: «Giusta l’incarico datomi dalla S.V. ho incominciato la compilazione del catalogo della numerosa raccolta di stampe posseduta da codesta spettabile Biblioteca e pregiomi rimetterle le prime cento schede per essere trascritte in debita forma». Sebbene non siano citate né date, né altre indicazioni temporali, è da escludere che l’incarico della catalogazione del fondo grafico venisse affidato a Pasquale Nerino Ferri nel 1887 come è stato affermato sinora, dato che, evidentemente, l’incipit parla da sé29. Il Ferri si trovò davanti ad un enorme lavoro di classificazione, dopo aver intrapreso il riassetto, l’indicizzazione e la catalogazione dei ben novantamila fogli della collezione della Real Galleria ove era entrato giovanissimo. Per i disegni, la Brunetti indica che nella seconda metà dell’Ottocento furono scritti i nomi degli artisti sulle pagine dei volumi dai quali i disegni furono separati successivamente30. I disegni furono staccati dalle pagine dei volumi BIBLIOTECA MARUCELLIANA 1886, pp. 371-372. È molto probabile che Ferri conoscesse già la collezione di stampe Marucelli, tutt’oggi la seconda più importante a Firenze dopo quella degli Uffizi, dato anche che, nella copia del Catalogo delle stampe del 1881 con aggiunte e correzioni da lui scritte, custodita presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, si trova la seguente annotazione: « n.b. la Biblioteca Marucelliana possiede un Album-oeuvre de Marcantoine, heliogravure pour E. Baldus […] v’è pure un altro album Notice sur la vie de Marc-Antoine, 1853»; probabilmente all’interno vi sono anche altri riferimenti a quella collezione. La relazione menzionata, che doveva inizialmente trovarsi nella cartellina intitolata: «Illustrazione della Raccolta delle Stampe antiche e moderne della Marucelliana», come risulta dalla copertina della stessa ove sono annotati, in quanto documenti allegati, oltre alla relazione (datata 22 dicembre 1886), anche la lettera del bibliotecario al Ministro e la relativa risposta, risulta purtroppo mancante presso la BMF, Archivio Affari diversi 62, busta n. 13, poiché si presume sia stata inviata al Ministro a Roma, come si legge nella brutta copia della lettera. Questa relazione, che con tutta probabilità sarebbe risultata preziosa ai fini di questo studio, come le altre lettere ricercate tra le carte relative alla Biblioteca Marucelliana conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, non è stata rintracciata. 27 Il Ministro gli rispose dando l’indicazione di come istruire la pratica perché potesse esser accolta e quindi, indirettamente, acconsentiva alla richiesta, da espletarsi secondo la normativa ministeriale. La lettera del Ministro Michele Coppino al direttore della Marucelliana, è conservata nel fascicolo denominato: «Illustrazione della Raccolta delle Stampe antiche e moderne della Marucelliana», presso la BMF, Archivio Affari diversi 62, busta n. 13. In essa si legge: «Roma, addì 30 dicembre 1887 / Affinchè la proposta della S.V. circa la compilazione del catalogo delle stampe possedute da codesta biblioteca possa essere presa in considerazione conviene che essa venga fatta secondo l’art. 158 del regolamento, determinando la durata del lavoro e la relativa spesa.» 28 Anche questa lettera si trova presso la BMF, Archivio Affari diversi 62, busta n. 13, vedi Appendice, doc. 2. La risposta, conservata nel medesimo fondo, del direttore Angelo Bruschi fu immediata: «Firenze 3 maggio 1904 / Approvo tutte le proposte da lui fatte per la compilazione del catalogo delle stampe della Marucelliana; e del saggio presentato, mi auguro che il lavoro scientificamente e praticamente risponda […] a tutte le possibili domande degli studiosi». 29 Nel 1909, il Ferri pubblicò il disegno raffigurante l’Angelo genuflesso che presenta S. Giovannino alla Madonna col Bambino attribuito a Lorenzo di Credi (BMF, Vol. Disegni E 137) poiché preparatorio per il dipinto degli Uffizi. Ciò indica che lo studioso aveva già visionato, almeno in parte, il fondo dei disegni, di cui, nel 1911, secondo le sue parole, dall’articolo pubblicato sul Bollettino d’Arte, citato all’inizio del presente saggio, aveva quasi terminato la catalogazione, assieme a quella delle stampe. Vedi FERRI 1909, p. 316. 30 BRUNETTI 1990, p. 11. 25 26
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settecenteschi (la filigrana presente su alcune pagine viene sciolta in G-P-S-C) nel biennio 1964-1966, da Sergio Boni (cui devo l’informazione), restauratore di disegni e stampe e da Giuseppe Masi, restauratore librario, e vennero disposti nelle cassettiere della sala adibita a deposito del fondo grafico della Biblioteca31. Le annotazioni, scritte da un impiegato addetto alla collezione grafica, furono introdotte basandosi per la maggior parte sulle iscrizioni, in grafia antica o moderna, a penna o a matita, presenti sul recto, sul verso o nel controfondo dei fogli. Il Ferri, nell’intraprendere la catalogazione, spesso confermò le attribuzioni iscritte, altre volte ne avanzò delle nuove. Come spesso accade in questo settore, grazie all’evolversi degli studi e all’affinarsi degli strumenti, le attribuzioni vengono di prassi riviste dagli studiosi, e ridimensionate caso per caso in modo più o meno sistematico. Ciò, per quanto riguarda i disegni del fondo Marucelli, è avvenuto specialmente dagli anni Settanta del Novecento, quando una maggiore attenzione da parte degli studiosi del disegno si è concentrata sul nucleo seicentesco, partendo dai fiorentini, revisione, e studio sistematico che continua tutt’oggi32. Per quanto riguarda la struttura del Catalogo dei disegni della Marucelliana, che, grazie alla trascrizione informatizzata risulta per l’utente più agevole da consultare, Nerino Ferri elencò i fogli, seguendo l’ordine di esposizione nei volumi, presumibilmente disposti per ordine di acquisizione. Le voci descrittive dei singoli disegni sono: il nome dell’autore, o l’ambito; la segnatura (alfanumerica); il soggetto, o il titolo; il tipo di carta e la tecnica con cui è stato eseguito il disegno; le dimensioni del foglio (espresse in millimetri); ulteriori note descrittive o di conservazione, e iscrizioni nel caso ci siano. Il metodo utilizzato dal Ferri nella compilazione del catalogo dei disegni della Biblioteca è il medesimo che questi utilizzò per la catalogazione del fondo degli Uffizi, ma semplificato rispetto a quest’ultimo33. Sono queste infatti le indicazioni utili per classificare un disegno, le stesse, che vengono inserite anche oggi nei moderni database di disegni delle collezioni di grafica più importanti al mondo. In fondo al Catalogo dei disegni (un volume conservato presso la Biblioteca), si trova inoltre l’«Indice generale alfabetico degli Autori dei Disegni esistenti nella R. Biblioteca Marucelliana». Per concludere, nonostante che molte delle attribuzioni fatte dal Ferri siano state ridimensionate negli anni, fondamentale è stato il suo apporto al fondo grafico della Marucelliana: oltre ad aver compilato il catalogo delle stampe e quello dei disegni, secondo criteri validi, nel 1913 promosse e fece acquistare dal direttore dell’istituzione un nucleo miscellaneo di 101 disegni messi in vendita dal libraio Gonnelli34. Non si dimentichi poi che oltre agli articoli menzionati del 1909 e del 1911, nel 1912, Ferri pubblicò alcuni nielli inediti della Biblioteca fiorentina, riportando quindi nuovamente l’attenzione sulla straordinaria ed ancora oggi in gran parte sconosciuta, collezione delle incisioni della Marucelliana35.
Dei volumi originali contenenti i disegni si è conservato soltanto, presso la Biblioteca Marucelliana, quello segnato «Tom. I–A», (si legge sotto: «70»). Con Rossella Todros e Sergio Boni, che qui ringrazio per la disponibilità e cortesia dimostrate, abbiamo sfogliato il volume, e dalla lettura delle annotazioni a matita riportate su alcune pagine, risulta che alcuni disegni erano già stati staccati o tagliati negli anni Cinquanta del secolo scorso, per ragioni conservative o epositive. Fu Carlo Angeleri, direttore della Biblioteca dal 1952 al 1972, che incaricò i restauratori dello stacco integrale dei disegni. 32 Negli ultimi anni molte mostre sono state organizzate a cura di Rossella Todros. Recentissima è quella dedicata ad Anna Forlani Tempesti, vedi LEZIONI DI STILE 2009. Inoltre, la schedatura digitalizzata dei disegni del fondo Marucelli, coordinata da Rossella Todros e Silvia Castelli, e svolta da alcuni storici dell’arte, permetterà di far conoscere maggiormente la ricca collezione della Biblioteca. 33 Vedi anche la relazione compilata dal Ferri riguardante la catalogazione dei disegni degli Uffizi, in PETRIOLI TOFANI 1983, pp. 431-433. 34 TODROS 1999, p. 38. 35 FERRI 1912. Le incisioni più antiche della Biblioteca Marucelliana, contenute nel primo volume della collezione, sono state digitalizzate e disponibili sul cd-rom Prisma Print-Search-Marucelliana, n. 1. 31
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APPENDICE DOCUMENTARIA 1
Archivio di Stato di Firenze, Corte dei Conti, 91
Inventario della Marucelliana dell’anno 1804 Inventario dei Libri, Stampe, e Manoscritti ecc. della Marucelliana Inventario delle Stampe [bianca - c. 1] n. 1 Nel primo libro segnato n. 1 e intitolato Autori Antichi, contengonsi stampe n. 413 n. 2 Nel secondo come sopra n. 2 e intitolato Raffael d’Urbino tomo I, contengonsi stampe n. 213 n. 3 Del medesimo tomo II, contengonsi stampe n. 135 n. 4 Nel quarto intitolato Fidanza, Teste Scelte di Raffael d’Urbino, contengonsi stampe n. 72 n. 5 Nel quinto come sopra n. 108 I suddetti due volumi sono divisi in cinque parti n. 6 Nel sesto libro intitolato Marcantonio Stampe, contengonsi stampe n. 130 Qui si trova mancante una stampa avanti lo Stregozzo, cioè il Martirio di S. Lorenzo già da cinque anni n. 7 Nel settimo libro intitolato Marcantonio Antonio attribuite, contengonsi stampe n. 152 n. 8 Nell’ottavo libro intitolato Scuola di Marcantonio Antonio, contengonsi stampe n. 149 n. 9 Primo, nel nono primo come sopra n. 153 n. 9 Secondo, nel nono secondo come sopra n. 145 n. 10 Nel decimo libro intitolato Giulio Romano, Polidoro da Caravaggio, Federico e Taddeo Zuccheri, contengonsi stampe n. 148 n. 11 Nell’undicesimo libro intitolato Ciro Ferri, Lazzaro Baldi e Carlo Maratta, contengonsi stampe n. 102 n. 12 Nel dodecimo libro intitolato Cherubino Alberti, contengonsi stampe n. 180 n. 13 Nel decimoterzo libro intitolato Pietro da Cortona, contengonsi stampe n. 83 n. 2183 [bianca - c. 2] n. 14 Nel quartodecimo libro intitolato Scuola Romana, contengonsi stampe n. 151 n. 15 Nel quintodecimo libro intitolato come sopra contengonsi stampe n. 134 n. 16 Nel decimosesto libro intitolato come sopra contengonsi stampe n. 88 n. 17 Nel decimosettimo libro intitolato Jacopo Frey, contengonsi stampe n. 93 n. 18 Nel decimottavo libro intitolato Lodovico, Annibale e Agostino Caracci, contengonsi stampe n. 144 n. 19 Nel decimonono libro intitolato come sopra contengonsi stampe n. 104 n. 20 Nel vigesimo libro intitolato Scuola Bolognese, contengonsi stampe n. 79 n. 21 Nel vigesimoprimo libro intitolato come sopra contengonsi stampe n. 76 n. 22 Nel vigesimosecondo libro intitolato Scuola Bolognese, contengonsi stampe n. 139 n. 23 Nel vigesimoterzo libro intitolato Giovanni Lanfranco e Francesco Barbieri detto il Guercino, contengonsi stampe n. 120 n. 24 Nel vigesimoquarto libro intitolato Francesco Mazzoli detto il Parmigianino, contengonsi stampe n. 153 n. 25 Nel vigesimoquinto libro intitolato Scuola Veneziana, contengonsi stampe n. 94 96
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n. 26 Nel vigesimosesto libro intitolato come sopra contengonsi stampe n. 122 n. 27 Nel vigesimosettimo libro intitolato come sopra senza titolo contengonsi stampe n. 24 n. 3704 [bianca - c. 3] n. 28 Nel vigesimottavo libro intitolato Pitture a Fresco de principali Maestri Veneziani, contengonsi stampe n. 24 n. 29 Nel vigesimonono libro intitolato Le Pitture di Pellegrino Tibaldi e di Niccolò Abbati esistenti nell’Instituto di Bologna, contengonsi stampe n. 44 n. 30 Nel trentesimo libro intitolato Scuola Fiorentina, contengonsi stampe n. 169 n. 31 Nel trentesimoprimo libro intitolato come sopra contengonsi stampe n. 150 n. 32 Nel trentesimosecondo libro intitolato Antonio Tempesta, contengonsi stampe n. 340 n. 33 Nel trentesimoterzo libro intitolato Scuola Fiorentina Miscellanea, contengonsi stampe n. 121 n. 34 Nel trentesimoquarto libro intitolato Francesco Bartolozzi tomo I, contengonsi stampe n. 237 n. 35 Nel trentesimoquinto libro intitolato come sopra contengonsi stampe n. 90 n. 36 Primo, nel primo trentesimosesto libro intitolato come sopra contengonsi stampe n. 190 n. 36 Secondo, nel secondo trentesimosesto libro intitolato come sopra contengonsi stampe n. 92 n. 37 Nel trentesimosettimo libro intitolato Stefano della Bella, contengonsi stampe n. 478 n. 38 Nel trentesimottavo libro intitolato Jacopo Callot, contengonsi stampe n. 659 n. 39 Nel trentesimonono libro intitolato Paesi di Autori diversi, contengonsi stampe n. 233 n. 40 Nel quarantesimo libro intitolato come sopra contengonsi stampe n. 180 n. 41 Nel quarantesimoprimo libro intitolato Disegni Originali d’Eccellenti Pittori esistenti nella Real Galleria di Firenze incisi da Andrea Scacciati tomo I, contengonsi stampe n. 101 n. 6812 [bianca - c. 4] n. 42 Nel quarantesimosecondo libro intitolato come da tergo incise da Stefano Mulinari tomo II tirate in 70 carte, non compresi due frontespizi contengonsi stampe n. 190 n. 43 Nel quarantesimoterzo libro intitolato Storia pratica dell’incominciamento e progressi della pittura già Raccolta di 50 stampe estratte dai Disegni Originali esistenti nella Real Galleria di Firenze incise di Stefano Mulinari, contengonsi stampe n. 50 n. 44 Nel quarantesimoquarto libro intitolato Raccolta dei Tabernacoli che esistono nella Città di Firenze incisi da Cosimo Colombini, contengonsi stampe n. 28 n. 45 Nel quarantesimoquinto libro intitolato Alberto Durero Stampe in Legno, consistenti in n. 131 n. 46 Nel quarantesimosesto libro intitolato come sopra Stampe in Rame, consistenti in n. 120 n. 47 Nel quarantesimosettimo libro intitolato Luca d’Olanda, contengonsi stampe n. 102 n. 48 Nel quarantesimottavo libro intitolato Scuola Francese, contengonsi stampe n. 73 n. 49 Nel quarantesimonono libro intitolato come sopra contengonsi stampe n. 112 n. 50 Nel cinquantesimo libro intitolato come sopra contengonsi stampe n. 144 n. 51 Nel cinquantesimoprimo libro intitolato come sopra contengonsi stampe n. 56 n. 52 Primo, nel primo cinquantesimosecondo libro intitolato come sopra contengonsi stampe n. 91
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n. 52 Secondo, nel secondo cinquantesimosecondo libro intitolato come sopra contengonsi stampe n. 102 n. 53 Nel cinquantesimoterzo libro intitolato Roberto Strang [sic], contengonsi stampe n. 38 n. 54 Nel cinquantesimoquarto libro intitolato Giovanni Le Potre [sic], contengonsi stampe n. 346 n. 8395 [bianca - c. 5] n. 55 Nel cinquantesimoquinto libro intitolato Rubens Pietro Paolo La Galleria di Ruxembourg [sic], contengonsi stampe n. 25 n. 56 Nel cinquantesimosesto libro intitolato Rubens P. Paolo tomo I, contengonsi stampe n. 66 n. 57 Primo, nel primo cinquantesimosettimo libro intitolato come sopra tomo II contengonsi stampe n. 76 n. 57 Secondo, nel secondo cinquantesimosettimo come sopra e suoi scolari contengonsi stampe n. 91 n. 58 Nel cinquantesimottavo libro intitolato Scuola Fiamminga, contengonsi stampe n. 145 n. 59 Nel cinquantesimonono libro intitolato come sopra contengonsi stampe n. 204 n. 60 Nel sessantesimo libro intitolato come sopra e Tedesca contengonsi stampe n. 166 n. 61 Nel sessantesimo primo libro intitolato come sopra Miscellanea n. 180 n. 62 Nel sessantesimo secondo libro intitolato Rembrant Stampe, contengonsi stampe n. 88 n. 63 Nel sessantesimo terzo libro intitolato Edelink e Nanteuil, Ritratti n. 68 n. 64 Nel sessantesimo quarto libro intitolato Masson, Poilly, e altri ritratti, contengonsi stampe n. 80 n. 65 Nel sessantesimo quinto libro intitolato Autori Diversi, Ritratti n. 186 n. 66 Nel sessantesimo sesto libro intitolato Heads of Illustrious Persons tomo I, contengonsi stampe n. 80 n. 67 Nel sessantesimo settimo libro intitolato come sopra tomo II contengonsi stampe n. 28 n. 68 Nel sessantesimo ottavo libro intitolato Le Statue di Niobe esistenti nella Real Galleria di Firenze, contengonsi stampe n. 19 n. 69 Nel sessantesimo nono libro intitolato Stampe di diversi Autori, n. 179 n. 70 Nel settantesimo libro intitolato Disegni di diversi Autori tomo I – qui si sono trovati mancanti disegni 8 – contengonsi n. 176 n. 71 Nel settantesimo primo libro intitolato come sopra tomo II – qui si trovano mancanti disegni 4 – n. 190 n. 10442 [bianca - c. 6] n. 72 Nel settantesimo secondo libro intitolato come da tergo tomo III, n. 144 – qui si sono trovati mancanti disegni 4 n. 73 Nel settantesimo terzo libro intitolato come sopra tomo IV, n. 218 n. 74 Nel settantesimo quarto libro intitolato come sopra tomo V, disegni n. 150 – qui si sono trovati mancanti disegni 4 n. 75 Nel settantesimo quinto libro intitolato Cecco Bravo Disegni, n. 40 – qui si sono trovati mancanti disegni 2 n. 76 Nel settantesimo sesto libro intitolato Piccini Gaetano raccolta di Maschere da Esso inventate e disegnate, n. 111 98
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n. 77 Nel settantesimo settimo libro intitolato Metamorfosi d’Ovidio, stampe, n. 200 n. 78 Nel settantesimo ottavo libro intitolato Cabinet des Beaux Arts Paris 1690, n. 13 n. 79 Nel settantesimo nono libro intitolato Pautre Stampe Diverse, n. 94 n. 80 Nel ottantesimo libro intitolato Statue e Gruppi di Firenze, n. 30 n. 81 Nel ottantesimo primo libro intitolato L’Entreé de la Reine Mère du Roy très Chrétien, n. 13 n. 82 Nel ottantesimo secondo libro intitolato Medicea Ospes, n. 16 n. 83 Nel ottantesimo terzo libro intitolato Caracci Stampe, dei Mestieri n. 80, Caricature n. 15, Disegni tocchi in penna n. 12, totale n. 107 n. 84 Nel ottantesimo quarto libro intitolato Ritratti diversi, n. 341 n. 85 Nel ottantesimo quinto libro intitolato Patch Opere di Masaccio e Scotto, n. 37 n. 86 Nel ottantesimo sesto libro intitolato Abiti di Nazioni diverse, n. 43 n. 87 Nel ottantesimo settimo libro intitolato Le Figure di diverse Nazioni di Levante, n. 95 n. 88 Nel ottantesimo ottavo libro intitolato Mascarade à La Grecque di Bossi, n. 10 n. 12104 [bianca - c. 7] n. 89 Nel ottantesimo nono libro intitolato Ritratti di Casa Medici, stampe n. 101 n. 90 Nel novantesimo libro intitolato Ingresso di Clemente settimo in Bologna, n. 19 n. 91 Nel novantesimo primo libro intitolato Daniele Eremita tocchi in penna, n. 62 n. 92 Nel novantesimo secondo libro intitolato Ritratti Miniati di uomini illustri, disegni n. 27 n. 93 Nel novantesimo terzo libro intitolato Scenari diversi, stampe n. 67 n. 94 Nel novantesimo quarto libro intitolato Piante di Giardini diversi, stampe n. 36 n. 95 Nel novantesimo quinto libro intitolato Uccelli Miniati, disegni n. 26 n. 96 Nel novantesimo sesto libro intitolato Funerale in morte di Pietro Secondo Re di Portogallo, stampe n. 12 n. 97 Nel novantesimo settimo libro intitolato Coronelli gli Argonauti ossia Vascelli, stampe n. 29 n. 98 Nel novantesimo ottavo libro intitolato Cifre diverse, disegni n. 157 n. 99 Nel novantesimo nono libro intitolato Ritratti d’uomini illustri per Santità e Dottrina, stampe e disegni n. 453 n. 100 Nel centesimo libro intitolato Monumenta Antiqua Sacra et Profana, stampe e disegni n. 363 n. 101 Nel centesimo primo libro intitolato Chiese e Palazzi, stampe n. 131 n. 102 Nel centesimo secondo libro intitolato Miscellanea di Stampe, e Ornati diversi comprese anco le minime, n. 287 n. 103 Nel centesimo terzo libro intitolato Miscellanea di Stampe antiche, n. 231 n. 104 Nel centesimo quarto libro intitolato come sopra, n. 222 n. 105 Nel centesimo quinto libro intitolato Miscellanea di Disegni originali, n. 137 n. 106 Nel centesimo sesto libro intitolato Tempi e Fabbriche Antiche, stampe n. 205 n. 107 Nel centesimo settimo libro intitolato Feste Sacre e Profane, Stampe n. 105 n. 108 Nel centesimo ottavo libro intitolato Disegni di Camere Mobilia Cammini Giardini e Fregi tomo I, n. 230 n. 15004 [bianca - c. 8] n. 109 Nel centesimonono libro intitolato come da tergo tomo II, stampe n. 224 n. 110 Nel centesimo decimo intitolato come sopra tomo III, stampe n. 232
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n. 111 Nel centesimo undicesimo libro intitolato Le Brun Livre de Portraiture, stampe n. 111 n. 112 Nel centesimo dodicesimo libro intitolato Piante e Animali Diversi, n. 323 n. 113 Nel centesimo decimo terzo intitolato Porte di San Giovanni di Firenze, stampe n. 33 n. 114 Nel centesimo decimo quarto libro intitolato Cecchi e Eredi Tavole di Altari, n. 24 n. 115 Nel centesimo decimo quinto libro intitolato Hunter Anatomia dell’Utero, stampe n. 34 n. 116 Nel centesimo decimo sesto libro intitolato Stampe diverse senza serie, n. 38 n. 117 Nel centesimo decimo settimo libro intitolato Fabbriche de Bagni di Montecatini, stampe n. 15 n. 118 Nel centesimo decimo ottavo libro intitolato Hamilton Antiquites Etrusques tomo I, stampe n. 108 n. 119 Nel centesimo decimo nono libro intitolato come sopra tomo II, stampe n. 115 n. 120 Nel centesimo ventesimo libro intitolato Etruria Pittrice tomo I, stampe n. 61 n. 121 Nel centesimo ventesimo primo libro intitolato come sopra tomo II, stampe n. 60 n. 122 Nel centesimo ventesimo secondo libro intitolato Stampe diverse, n. 83 n. 123 Nel centesimo ventesimo terzo libro intitolato Logge di Raffaele [sic], stampe n. 43 n. 16508 (di suo pugno) Francesco Del Furia Bibliotecario, questo dì 21 sett.bre 1804. Mano propria. 2 Biblioteca Marucelliana di Firenze, Archivio Affari diversi 62, busta n. 13 Illustrissimo Signore, Giusta l’incarico datomi dalla S.V. ho incominciato la compilazione del catalogo della numerosa raccolta di stampe posseduta da codesta spettabile Biblioteca e pregiomi rimetterle le prime cento schede per essere trascritte in debita forma. Come di convenuto, mi sono limitato alle seguenti indicazioni: 1 nome dell’incisore e dell’artefice dal quale è tratta l’incisione 2 titolo e breve descrizione di ciascuna stampa seguendo il numero segnatovi in rosso 3 dimensioni a millimetri 4 stato della prova e della conservazione 5 richiamo dell’opera speciale in cui trovasi illustrata la stampa Di mano in mano che le schede verranno trascritte è necessario che io le riabbia per poter compilare l’Indice alfabetico degli Incisori e quello degli Artefici dai quali sono tratti i soggetti, col richamo dei rispettivi numeri per rintracciarne prontamente le opere. Inoltre potrebbe farsi anche un indice per materia repartito in cinque grandi categorie, cioè: I - Pittura II - Scultura III - Architettura IV - Vedute e Paesaggi V - Ornamenti e cose varie Nella lusinga che la mia modesta fatica possa riuscire di soddisfazione della S.V. e di utilità per gli studiosi, mi onoro segnare con distinta stima della S.V. Firenze, lì 3 maggio 1904 Devotissimo Pasquale Nerino Ferri 100
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BIBLIOGRAFIA ANGELI 1999 M.M. ANGELI, Il primo bibliotecario della Marucelliana: Angelo Maria Bandini, in BIBLIOTECA MARUCELLIANA 1999, pp. 41-45. BIBLIOTECA MARUCELLIANA 1886 La Biblioteca Marucelliana di Firenze, «Il nuovo osservatore fiorentino», 10 ottobre del 1886, Firenze 1885-1886, pp. 371-372. BIBLIOTECA MARUCELLIANA 1999 Biblioteca Marucelliana, a cura di M. Prunai Falciani, Fiesole 1999. BORRONI SALVADORI 1970 F. BORRONI SALVADORI, La collezione stampe della Biblioteca Marucelliana di Firenze, «Accademie e Biblioteche d’Italia», 38, 2, 1970, pp. 98-109. BRUNETTI 1990 G. BRUNETTI, I disegni dei secoli XV e XVI della Biblioteca Marucelliana di Firenze, Firenze 1990. FERRI 1881a P.N. FERRI, Catalogo delle stampe esposte al pubblico nella R. Galleria degli Uffizi, Firenze 1881. FERRI 1881b P.N. FERRI, Catalogo dei disegni esposti al pubblico nella R. Galleria degli Uffizi, Firenze 1881. FERRI 1909 P.N. FERRI, Disegno inedito di Lorenzo di Credi per un dipinto degli Uffizi, «Bollettino d’arte del Ministero della Pubblica Istruzione», 3, 1909, p. 316. FERRI 1911 P.N. FERRI, I disegni e le stampe della R. Biblioteca Marucelliana di Firenze, «Bollettino d’arte del Ministero della Pubblica Istruzione», 5, 1911, pp. 285-307. FERRI 1912 P.N. FERRI, I nielli della Marucelliana di Firenze: contribuito alla storia della Calcografia, «Bollettino d’arte del Ministero della Pubblica Istruzione», 6, 1912, pp. 231-238. FILETI MAZZA 2009 M. FILETI MAZZA, Storia di una collezione. Dai libri di disegni e stampe di Leopoldo de’ Medici all’età moderna, Firenze 2009. LEZIONI DI STILE 2009 Lezioni di stile, a cura di C. Monbeig Goguel e S. Prosperi Valenti Rodinò, Firenze 2009. PETRIOLI TOFANI 1983 A. PETRIOLI TOFANI, Pasquale Nerino Ferri, primo direttore del Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, in QUATTRO SECOLI DI UNA GALLERIA 1983, II vol., pp. 421-442. QUATTRO SECOLI DI UNA GALLERIA 1983
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Gli Uffizi: quattro secoli di una galleria, a cura di P. Barocchi e G. Ragionieri, Firenze 1983. SFRAMELI 1984 M. SFRAMELI, Introduzione, in Disegni e incisioni della Raccolta Marucelliana (sec. XV-XVIII), Catalogo della mostra, a cura di G. Brunetti, M. Chiarini e M. Sframeli, Firenze 1984. TODROS 1999 R. TODROS, Le collezioni d’arte in Marucelliana: i disegni e le stampe, in BIBLIOTECA MARUCELLIANA 1999, pp. 31-39. UN ERUDITO DEL SETTECENTO 2002 Un erudito del Settecento: Angelo Maria Bandini, Atti della giornata di studi (Firenze, 22 ottobre 1990), a cura di R. Pintaudi, Messina 2002.
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DA SUSSI E BIRIBISSI A MAZINGA: L’ARCHIVIO SALANI COME RISORSA PER LA STORIA DELL’ILLUSTRAZIONE IN ITALIA Il progetto Illustratori e Illustrazioni della casa editrice Salani, curato dallo scrivente, nasce da una convenzione tra il Laboratorio di Arti Visive della Scuola Normale Superiore di Pisa, diretto da Massimo Ferretti, e la Adriano Salani Editore. L’obiettivo del programma di ricerca è quello di arrivare alla schedatura informatica completa dei circa 30.000 disegni originali conservati presso l’Archivio della casa editrice, che offrono uno spaccato, unico nel panorama editoriale italiano ed europeo, dell’illustrazione dagli ultimi decenni dell’Ottocento agli anni Ottanta del Novecento. Il progetto si articolerà in due fasi, strettamente correlate tra loro: alla digitalizzazione e schedatura informatizzata dei disegni, seguirà infatti l’ideazione di percorsi culturali ed espositivi, entrambi sotto la curatela scientifica del Laboratorio di Arti Visive. La banca dati si presenta come primo e non definitivo risultato di un percorso di ricerca iniziato con approfondimenti dedicati alle illustrazioni per l’editoria di largo consumo, e proseguito con analisi dedicate a celebri romanzi illustrati (Sull’Oceano illustrato da Arnaldo Ferraguti nel 1890) o raccolte di novelle (Le Veglie di Neri illustrate da pittori macchiaioli nel 1889), fino a uno studio globale sull’editoria in Italia tra Otto e Novecento1. L’obiettivo metodologico è arrivare a fondere diversi approcci possibili, a partire dai primi ed ancora fondamentali contributi di Antonio Faeti e Paola Pallottino2, fino ai recenti e importanti saggi di Giovanna Ginex3, tenendo allo stesso tempo ben presenti i nuovi e fecondi studi di storia dell’editoria, rivolti a figure di singoli editori quali Adriano Salani4, Edoardo Perino5 e Bemporad6, oppure a tematiche specifiche come quella, di primaria importanza, dell’editoria di larga circolazione7: coniugare dunque approcci metodologici differenti per condurre una completa analisi socio-culturale del fenomeno dell’illustrazione, colto nelle sue differenti sfaccettature. Suggestioni in tal senso vengono dal panorama francese, dove è in forte crescita un filone di studi in cui si incontrano esperti di letteratura e di storia dell’arte, di fotografia e di illustrazione, tratteggiando così un affresco culturale quanto mai interessante e vivace, come dimostrano i volumi curati negli ultimi anni da Ségolène Le Men e Évanghelia Stead8. La banca dati è dunque uno strumento di studio e una guida imprescindibile, già consultabile on line all’indirizzo www.artivisive.sns.it/archivio_salani.html e curata nella parte di sviluppo grafico e informatico da Giulio Andreoletti e Andrea Ficini, che permette di interrogare l’Archivio dei disegni per ogni voce catalogata. In particolare, è stata creata una scheda per ciascun disegno, analizzato nella sua duplice veste di oggetto d’arte (le caratteristiche tecniche e quindi la tipologia di illustrazione, la tecnica, le misure, il supporto, la data di esecuzione) e di illustrazione libraria (in tal senso sono state acquisite, laddove BACCI 2005; BACCI 2007; BACCI 2008; BACCI 2009a; BACCI 2009b. Impossibile sintetizzare qui l’estesissima bibliografia dei due studiosi, cfr. almeno i fondamentali FAETI 1972; L’ILLUSTRAZIONE NEL ROMANZO POPOLARE 1988; PALLOTTINO 1988; PALLOTTINO 1992; L’IRRIPETIBILE AVVENTURA 2008. 3 LA DOMENICA DEL CORRIERE 2007; CORRIERE DEI PICCOLI 2009. 4 Per una fortunata coincidenza, è in fase avanzata di studio il nuovo catalogo delle edizioni Salani, a cura di Ada Gigli Marchetti. Fino ad ora veniva utilizzato CATALOGO DELLE EDIZIONI SALANI 1993. 5 È al momento in corso di svolgimento una ricerca sull’editore romano che vede coinvolti Maria Iolanda Palazzolo in qualità di curatrice, Sara Mori come studiosa del catalogo e Giorgio Bacci per il settore delle illustrazioni. 6 PAGGI E BEMPORAD 2007; CAPPELLI 2008; ENRICO BEMPORAD 2009. 7 LIBRI PER TUTTI 2009. Non vanno dimenticati, tra gli altri, FARE GLI ITALIANI 1993; STORIA DELL’EDITORIA 1997; EDITORI E PICCOLI LETTORI 2004. Sterminata la bibliografia straniera, in particolare francese, sull’argomento, per la quale mi limito a rimandare a BACCI 2009b. 8 Cfr. almeno i recenti L’ILLUSTRATION 1999; LE LIVRE ILLUSTRÉ 2005; EDWARDS 2008; L’EUROPE DES REVUES 2008. 1 2
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possibile, le informazioni relative al libro, comprendenti il titolo, la data di pubblicazione e la collana). Sono state inoltre approfondite le voci relative allo scrittore – data del contratto, compenso – e all’illustratore – data e importo del contratto. Ha guidato l’ideazione e lo sviluppo della banca dati la volontà di rendere percepibile fin dal primo approccio con la maschera di ricerca la complessità del disegno come illustrazione, opera d’arte multiforme che si presta a letture incrociate di vario tipo, termometro culturale complesso che può suggerire svariati campi di indagine, dal dato economico utile a ricostruire l’importanza degli illustratori in relazione a quella degli scrittori, ad uno invece puramente artistico, consentendo di vedere concretamente l’evoluzione dell’immaginario figurativo italiano. L’Archivio digitalizzato restituisce informaticamente tale complessità affiancando in diverse tabelle i campi relativi all’autore, all’illustratore e al libro, con una sezione, la «galleria», dedicata alla visualizzazione dell’immagine, nel doppio formato ridotto ed espanso. La banca dati deriva i suoi elementi interamente dall’Archivio della casa editrice, preferendo lasciare vuoti i campi laddove non vi fosse un riscontro preciso con i dati archivistici. Allo stesso modo, quando è stato possibile desumere l’anno di pubblicazione ma non il giorno e il mese, si è preferito riportare l’indicazione generica di 01/01. Come è evidente, si tratta di uno strumento di ricerca che è in continua evoluzione, sia per quanto riguarda l’elaborazione informatica, sia per il criterio scientifico, cercando di raggiungere l’obiettivo finale di creare una banca dati, la prima di questo tipo in Italia, che sia innanzi tutto uno straordinario deposito di immagini utile a delineare una storia dell’illustrazione italiana dell’ultimo secolo. In questa sede l’obiettivo, senza naturalmente alcuna pretesa di esaustività, è quello di seguire e approfondire alcune suggestioni nate dal primo nucleo di illustrazioni rese disponibili sul sito internet (circa 7.000), svolgendo delle riflessioni intorno al ruolo dell’immagine nell’illustrazione libraria. Ripercorrendo la storia della casa editrice saranno così messi in luce di volta in volta alcuni importanti snodi figurativi, rilevando come essi siano inscindibilmente legati al contesto culturale e artistico in generale. L’articolo vuole anche introdurre alla consultazione della banca dati ed è in tale ottica che, ove possibile, è stata fatta la scelta di non sovraccaricare il testo di illustrazioni ma di scrivere in nota i rimandi agli indirizzi internet delle diverse illustrazioni. Se guardiamo le cifre della produzione letteraria in Italia nell’ultimo ventennio dell’Ottocento rimaniamo colpiti dal grande sviluppo di ogni settore del sapere. Il gruppo letterario, comprendente la filologia, la poesia contemporanea, il romanzo, la novella, il teatro, le letture popolari e le belle arti passa dai 1452 titoli del 1872 ai 1650 del 1898, con una punta di 1854 nel 1887: in particolare il settore delle novelle-romanzi passa da 280 a 308 con un massimo di 330 nel 1891. Ancora più impressionante è la crescita della letteratura popolare, arrivando a 322 titoli nel 1889, quando nel 1872 ne contava soltanto 79. Altro dato significativo ad emergere in questo periodo è l’affermarsi di un vero e proprio filone di narrativa ‘femminile’, che ha le sue massime rappresentanti in Matilde Serao, la Marchesa Colombi, Neera, Anna Vertua Gentile e Ada Negri (alla cui memoria, tra l’altro, sarà dedicato un premio letterario da Emilia Peruzzi). Queste, tuttavia, sono le autrici lette dal pubblico più acculturato, mentre le esponenti della media borghesia si rivolgono, catturate dall’intreccio, ad autrici straniere tradotte come Elisabetta Werner, Elisabetta Marlitt o Guglielmina Heimburg. È possibile inoltre individuare anche una terza categoria di lettrici, rivolte ai romanzi d’appendice o a scrittrici come Carolina Invernizio, i cui libri, dal facile contenuto emotivo e dal forte afflato sentimentale, divennero veri e propri best-sellers. Va detto però che a partire dalla seconda metà dell’Ottocento si sviluppa una narrativa femminile che «si configura come un controcanto sicuro e gagliardo che si sovrappone al disegno melodico principale rappresentato dalle appendici da un lato e
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dall’incipiente naturalismo di matrice francese dall’altro»9. È così che la donna esce dall’angusto limite delle pareti domestiche ed acquista una verità e solidità storica, rivelando il suo vero volto fino allora coperto dall’enfasi romantica: è questo il significato di romanzi come L’indomani (1889) di Neera o In risaia (1878) della Marchesa Colombi. È nel vitale contesto fiorentino dei Barbera, dei Le Monnier e dei Bemporad che si colloca l’attività di Adriano Salani che, con Gaspare Barbera, Ulrico Hoepli ed altri personaggi influenti del tempo condivideva le umili origini e l’ideologia selfhelpista. Cominciò infatti la sua attività da una piccola tipografia, addirittura un solo torchio a mano, acquistato a Firenze nel 1862, e da allora la sua ascesa fu davvero impressionante. Riuscì a intercettare, basandosi sulle richieste che riceveva giornalmente lo stampatore Spiombi presso cui lavorava, le preferenze e le esigenze più profonde del mercato editoriale italiano, rendendosi conto che se il ‘popolino’ non aveva i soldi per comprare un libro ben rilegato e stampato, o anche un semplice giornale, avrebbe potuto però, se sapientemente guidato, comprare dei libriccini a 25 centesimi, quasi dei fogli volanti, con cui si proponeva di divulgare non solo «l’umile, volgare e scollacciata storia popolare»10, ma anche la letteratura devozionale, storie di amori infelici e di briganti, il romanzo cavalleresco rivisitato secondo il gusto popolare (I Reali di Francia ma anche Rinaldo appassionato): in tutto la collezione disporrà di ben 400 titoli. Il successo fu travolgente, dal momento che Salani riusciva ad affiancare diversi generi letterari corrispondenti a singole collane, attuando una differenziazione per prezzo, qualità ed autori, che non era riuscita, sul lungo periodo, a nessuno degli editori coevi. Nacquero così la «Biblioteca Economica» e la «Biblioteca moderna», la «Biblioteca per tutti» e la «Biblioteca Salani Illustrata», la «Collana di tragedie drammi e commedie» e i «Librettini illustrati di orazioni e fatti religiosi». Altrettanto svariati gli autori che incontriamo: Esopo, Foscolo, D’Azeglio, Grossi e Tasso, ma anche Ildebrando Bencivenni e Cesare Causa. Nel catalogo si alternano Favole per ammaestramento del popolo o La Divina Commedia con gli argomenti del p. Lombardi, accanto a Storia di una bella ragazza che ha cambiato 36 amanti in 9 mesi. Nella collana dei libretti illustrati a basso prezzo un ruolo centrale è svolto dalle immagini, a partire da quelle in copertina, che hanno il compito di guidare il lettoreosservatore attraverso il racconto o la cronaca. È necessario infatti tenere presente che era prevista una ricezione ‘mista’ di questi fogli, nel senso che molti erano gli analfabeti che vi potevano accedere una prima volta tramite la lettura comunitaria, e una seconda volta, in forma individuale, grazie proprio alle immagini che traducevano in un chiaro racconto per figure la narrazione. A partire dalla copertina, con funzione icastico-esemplificativa, che aveva il compito di tradurre fedelmente il titolo e l’argomento del libretto, l’osservatore poteva seguire lo snodarsi delle vicende guardando le illustrazioni dedicate ai momenti salienti, sia che fossero episodi di cronaca come Fatto barbaro e crudele avvenuto in Basciano, due miglia distante da Firenze, ove Antonio Montelatici assassinò il Priore Gatti nel vicino bosco e la sua Serva, sopra i gradini dell’Altare maggiore, oppure novelle umoristiche come Marco l’asino sapiente, dove l’asino è seguito in tutte le sue peripezie, dal momento in cui viene rubato a quando riesce a ritrovare la strada di casa (Fig. 1). Di livello diverso era la «Biblioteca Salani Illustrata» (Fig. 2), leggermente posteriore ai libretti (inizia intorno al 1890 e sarà ripubblicata fino agli anni Trenta come le sue varianti «Biblioteca Economica» e «Volumetti a centesimi quaranta»), e con copertine disegnate perlopiù da Carlo Chiostri, tanto da rendere possibile l’identificazione della collana con il tratto stilistico dell’illustratore. Nella serie non mancavano, tra gli autori stranieri, i fortunati 9
CHEMELLO 1997, p. 185. LANDI 1888, p. 525.
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scrittori francesi, Maupassant e Zola in testa, ma anche i più ‘facili’ Octave Feuillet e George Ohnet, nonché Ponson du Terrail. Ancora, Salani seppe intercettare la ‘narrativa al femminile’, pubblicando autrici come Elisabetta Werner o Guglielmina Heimburg, ma soprattutto Carolina Invernizio, in grado di assicurare tirature impressionanti: basti pensare alle 7000 copie di Bacio infame, edito due volte nel solo 1894, o alle 4028 del Genio del male nel 1895, superiori anche alle 3028 nello stesso anno del celebre romanzo di Zola, Nanà, e che risaltano ancora di più se paragonate ad una media di 2000 copie per edizione delle altre pubblicazioni.
Fig. 1 Marco l’asino sapiente. Bizzarria umoristica, Firenze 1913. Ristampa di un’edizione di fine Ottocento.
Il grande merito di Adriano Salani fu quello di capire immediatamente che una parte consistente del successo dei feuilleton in Francia, e dei romanzi a puntate in Italia, era dovuto anche alle immagini, in grado di soggiogare e avvincere il pubblico. Non esitò dunque ad utilizzare immagini di copertina che attirassero il potenziale compratore, assicurandosi la collaborazione dei maggiori artisti-illustratori del tempo, come il già citato Chiostri, Anichini, Costetti, in un caso Boldini. L’editore elaborò così una fortunata formula, che permetteva di replicare nei libri il successo dei giornali a bassissimo prezzo. In quegli anni si diceva che il giornale avrebbe ucciso il libro: Salani cercò di ribaltare questa previsione, applicando moduli tipici della carta stampata al libro. Ponendosi sullo stesso piano di Sonzogno a Milano e di Perino a Roma, che coronava le dispense della «Biblioteca fantastica illustrata» con il motto Le illustrazioni invogliano alla lettura, intuì appieno quale fosse la strada da seguire. I disegnatori elaborano illustrazioni coinvolgenti e dal taglio fotografico desunto dalle immagini di cronaca dei giornali, evidenziando gli aspetti inquietanti e misteriosi delle storie, 106
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non esimendosi dal sottolineare particolari anche morbosi, che incuriosissero e blandissero il lettore. Omicidi, donne ammiccanti, scene di gelosia, duelli, baci appassionati, tutto si riflette nella «Biblioteca Salani economica»11 e nella «Biblioteca Salani Illustrata»12, conturbando l’osservatore in un mondo di vesti eleganti ed effusioni proibite, delineato con tocchi vivaci di penna, tempera e matita. Si impone così una narrazione visiva che affianca e talvolta sostituisce il testo, rendendo possibile una lettura per immagini: le illustrazioni sono ben più di un semplice corredo figurativo, sono un laboratorio di riflessione artistica, pronte a recepire, accogliere e rielaborare moduli pittorici e visivi.
Fig. 2 A. Minardi, disegno preparatorio per tavola fuori testo di A. Palau, Fate e maghi, 1910. Tempera su carta, 33x24,6 cm. Archivio Adriano Salani Editore.
Significative le immagini disegnate da Carlo Chiostri e Adriano Minardi per Carolina Invernizio, dove l’artista asseconda la fantasia dell’autrice e stimola quella dei lettori. Ad esempio in Il cadavere accusatore13 Minardi traduce fedelmente il titolo raffigurando una donna che, in punto di morte, anzi probabilmente già morta, indica con il braccio alzato una donna, che, conoscendo lo schema solito dei romanzi della Invernizio, potrebbe essere la rivale in amore, ovviamente principale indiziata per l’omicidio. Colpisce nell’orchestrazione della scena l’attenzione al dettaglio realistico (il medico che tasta la vena del collo, i carabinieri che accorrono, l’aula gremita), unita ad una concezione d’insieme irrealistica, consona all’atmosfera del romanzo. Altra caratteristica delle copertine dei romanzi della Invernizio è che i disegnatori tendono a presentare all’osservatore da subito tutti www.artivisive.sns.it/salani/pages/collezione.php?collezione=Biblioteca+Salani+Economica. www.artivisive.sns.it/salani/pages/collezione.php?collezione=Biblioteca+Salani+Illustrata. 13 www.artivisive.sns.it/salani/pages/scheda.php?ID=1. 11 12
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i personaggi della storia: in questo caso la morta in primo piano indica una donna colta in atteggiamento di colpevole paura, dietro alla quale si presenta l’immancabile protagonista maschile, che accorre con il cappello in mano. In breve, il romanzo è già presentato ‘in nuce’ nella copertina: l’illustratore fornisce al lettore tutti gli elementi per comprendere la storia. Altra copertina interessante è quella de I misteri delle soffitte14, uscito per la prima volta nel 1906, dove Chiostri, rispecchiando il tono del titolo, abbandona le rappresentazioni macabre o licenziose (ad esempio la conturbante orientale, stesa tra soffici cuscini, di Il trionfo dell’araba15), a favore di una efficace inquadratura teatrale, con la protagonista che fa il suo ingresso sul palco dalla porta sulla sinistra, in cui unisce suggestioni provenienti dalla tradizione dei racconti polizieschi inglesi, con consuetudini grafiche diffuse nella pubblicistica dei processi (il volto della donna isolato nel tondo in basso a destra): il tutto fuso in una pagina di grande impatto visivo.
Fig. 3 A. Minardi, disegno preparatorio per la copertina di C. Invernizio, Spazzacamino, 1911. Acquerello, penna e tempera su carta, 13,5x25 cm. Archivio Adriano Salani Editore.
Un altro romanzo di Carolina Invernizio, Spazzacamino, serve da cartina di tornasole per un’ulteriore conferma dell’attenzione dei Salani, prima Adriano e poi Ettore, verso l’apparato iconografico di un volume. Il romanzo in questione esce per la prima volta nel 1912 nella collana «Biblioteca Salani Illustrata» con illustratore Adriano Minardi (Fig. 3), e poi nuovamente nel 1953 ne «La biblioteca dei miei ragazzi» con copertina di Gastone Rossini 16 e www.artivisive.sns.it/salani/pages/scheda.php?ID=230. www.artivisive.sns.it/salani/pages/scheda.php?ID=4. 16 www.artivisive.sns.it/salani/pages/scheda.php?ID=267. 14 15
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apparato iconografico interno di Fiorenzo Faorzi17. Se il testo, ovviamente, rimane lo stesso, non è così per le immagini, che si sente il bisogno di aggiornare a distanza di 40 anni, anche probabilmente per rispecchiare uno slittamento semantico che aveva subito il libro, passando da essere un potenziale romanzo di formazione (privato però di sfumature polemiche), a un testo per l’infanzia a tutto tondo. Parlare degli spazzacamini nella Torino dei primi anni del Novecento non poteva ovviamente essere paragonabile a parlarne negli anni Cinquanta, e anche le immagini riflettono un tale declivio concettuale. Se Minardi, rispecchiando peraltro l’impianto moderato del libro, aveva comunque forzato l’aspetto emotivo della narrazione, soffermandosi con un ‘sorridente’ realismo sulle figure degli spazzacamini, Faorzi e Rossini accentuano il lato fiabesco del romanzo, come emerge già a partire dalla copertina. Mentre infatti nel 1912 sulla copertina, su sfondo bianco, apparivano Pallottola e Rampichino che guardano Torino dall’alto dei tetti, nel 1953 la copertina è su sfondo giallo sfumato, con diversi disegni che si compongono in un’unica immagine, curata nei contorni vaporosi dei profili, dall’intento artistico più esplicitamente rivolto a bambini e ragazzi di 10-15 anni: se in Minardi ancora non compariva una specializzazione in tal senso, testimoniata da una uniformità di stile che accomunava romanzi popolari e libri per l’infanzia, in Rossini e Faorzi tale distinzione, soprattutto a livello di copertina, è ben presente. Le illustrazioni possono anche essere luogo di sperimentazione, e il formato cui gli artisti si devono attenere, allungato se a fianco del testo, sfumato se parte integrante della narrazione, ed ancora le testate iniziali e finali, forniscono un ampio spazio dove può applicarsi la fantasia dell’artista: ad esempio, particolarmente curiose sono alcune immagini giapponesizzanti di Chiostri, allorché si trova ad illustrare i paesaggi montani di Tartarino sulle Alpi. Ovviamente, non poteva rimanere esclusa, per un editore fiorentino, un’opera come Pinocchio, seguita in tutte le sue varianti: Pinocchio in Africa, Pinocchio, Pinucchio e Pinicchio o Pinocchio domatore. Diventa allora estremamente interessante seguire i cambiamenti iconografici nel corso degli anni, passando dalle illustrazioni di Luigi e Maria Augusta Cavalieri, a quelle di Faorzi, fino alle recenti di Vitoli-Russo. Non bisogna poi dimenticare che è proprio Salani ad importare le pubblicazioni Disney in Italia, con Topolino e il tesoro del 1935, cui seguono, sempre nella collana «Piccoli Grandi Libri», Topolino pilota postale, Topolino poliziotto, Topolino pipistrello. L’editore fiorentino però non si limita a comprare i diritti americani, ma crea anche delle storie proprie, sempre con Topolino protagonista, che vengono pubblicate nella serie, affine nel nome ma differente nel formato, «Grandi Piccoli Libri»18, che ospita Le avventure di Topolino, Topolino e Pluto, Topolino pompiere, accanto a Pinocchio domatore, Buci e Bobi, fino all’interessante incontro di Topolino e Don Chisciotte. Simile a questa nel formato e nella tipologia illustrativa, con copertina a colori e piccole immagini nel testo a china, la collana «Piccoli libri della patria», il cui primo numero è un emblematico Balilla (1932 ca.), e nella quale rientrano anche titoli come I nostri balilla, Costanzo Ciano, Il fascismo. Contiguità di formato editoriale che indica la volontà di Salani, negli anni Trenta, di avvicinare e in taluni casi sovrapporre libri di propaganda e di innocente fantasia, come attestano «I libri della festa», dove la qualità artistica stride fortemente con la palese e urtante propaganda del regime fascista19. Illustratore principe degli anni Trenta è Fiorenzo Faorzi, in grado di rappresentare con la medesima finezza artistica testi diversissimi come Topolino alpinista o l’aberrante, ai nostri occhi, I ragazzi della rivoluzione20, dove non esita a raffigurare, ovviamente con intento www.artivisive.sns.it/salani/pages/scheda.php?ID=150. www.artivisive.sns.it/salani/pages/collezione.php?collezione=Grandi+Piccoli+Libri. 19 Per il rapporto tra editoria scolastica per ragazzi e fascismo, cfr. in particolare GALFRÉ 2005; GIBELLI 2005; SCOTTO DI LUZIO 1996. 20 www.artivisive.sns.it/salani/pages/scheda.php?ID=321. 17 18
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celebrativo, giovani squadre fasciste in azione. Si tratta del colpo di coda del regime, cui purtroppo Salani offre la sua opera, pubblicando gli scadenti romanzi di Gino Chelazzi e Gino Fornari, e traducendo la mitologia e l’epopea dell’antica Roma in storielle al servizio dell’ideologia fascista in opere della collana «I libri della gioventù»21 come Colui che a tutto il mondo fe’ paura, di Vittorio Emanuele Bravetta, o Un ragazzo contro Cartagine, ancora di Gino Chelazzi, quando ormai il calendario segna il 1943. Degni di nota sono anche «I librini del cuccù»22, dal formato particolare, una pagina sagomata e ritagliata, che riportano le avventure di Biancaneve e i sette nani, Cirillo, Mangiafuoco, Pluto e Geppetto, oltre all’immancabile Balilla. Libretti agili e invitanti, dal formato senza dubbio accattivante e anticipatore dei moderni libri per bambini. Risalgono allo stesso periodo «Piccoli Libri Santi», dedicati ai santi. Artista di riferimento in questo caso è Alberto Zardo23, che per la tavola fuori testo introduttiva, dedicata al santo biografato, adotta la tecnica dell’olio su tavoletta o cartoncino spesso. Le illustrazioni, costantemente 13, impreziosiscono l’intero apparato paratestuale: copertina, frontespizio, controfrontespizio, occhiello, testata, finale, sette tavole fuori testo di cui una a colori. Uno schema ripetitivo e consolidato che, come nei casi precedenti, facilitava il riconoscimento della collana da parte del lettore. Non si tratta tuttavia della sola collana dedicata al tema della religione, in cui rientrano anche le famose serie de «I libri della fede», dove oltre alla Bibbia erano pubblicate le vite di santi e alcuni classici come I fioretti di San Francesco o Le laude di Jacopone da Todi.
Fig. 4 G. Rossini, disegno preparatorio per la copertina di M. Catalany, Il circo Barletta, 1953. Tempera su carta, 31,2x42,3 cm. Archivio Adriano Salani Editore.
Finita la guerra, Salani deve necessariamente reimpostare la produzione editoriale, e decide allora di specializzarsi nell’editoria infantile e femminile, dedicandovi collane apposite, www.artivisive.sns.it/salani/pages/collezione.php?collezione=i+Libri+della+Giovent%F9. www.artivisive.sns.it/salani/pages/collezione.php?collezione=Librini+del+Cucc%26ugrave%3B. 23 www.artivisive.sns.it/salani/pages/collezione.php?collezione=Piccoli+Libri+Santi. 21 22
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come la «Biblioteca dei miei Bambini» e la «Biblioteca dei miei ragazzi» (Fig. 4), in doppia edizione, vecchia e aggiornata, nel passaggio dagli anni Cinquanta ai Settanta. Illustratori principali in queste collane sono il già visto Fiorenzo Faorzi, il giovane Carlo Vitoli Russo, ma anche l’immaginifico Hallison Rex, autore di un affascinante e acceso Il ventaglio rosso24. Lo stile figurativo cambia comunque non tanto da illustratore a illustratore ma da collana a collana, a seconda del mercato da conquistare. Nelle collane dedicate ai bambini e ai ragazzi lo stile si fa morbido e l’acquerello da consistente e duro diventa più trasparente e leggero, come dimostrano Al tempo delle fate25, con disegnatore Carlo Vitoli Russo, o Il cinematografo delle fate26, illustrato da Fiorenzo Faorzi. Quest’ultimo, come Spazzacamino, si presta bene a esplicitare il cambio di sensibilità figurativa nel corso dei decenni, essendo stato pubblicato per la prima volta nel 1908 nella «Biblioteca Salani Illustrata», con i disegni di Carlo Chiostri. In quell’occasione in copertina campeggiava una scena emblematica dello stile realistico-fantastico di Chiostri, con una fatina che sta indicando con la sua bacchetta magica lo schermo del cinema ad una platea di bambine attente e sorridenti. A completare il corto circuito semantico, sullo schermo sono proiettate altre avventure di fate. L’ambientazione della scena tuttavia è estremamente fedele a quel periodo storico, il cinema è reale e le bambine sono vestite con cappelli e vestiti degli anni Trenta: l’effetto di straniamento e stupore nel lettore è indotto proprio dalla commistione di reale e fantastico, in un ambiente, il cinema appunto, ancora in una fase di sviluppo e in grado di suscitare la sorpresa e l’ammirazione dei bambini. Totalmente diversa la copertina di Faorzi di circa venti anni dopo: all’illustratore non interessa più tratteggiare un’ambientazione realistica, e anzi lo sfondo sparisce completamente, caratteristica comune a tutte le copertine della serie «Biblioteca dei miei ragazzi»27. Protagonisti assoluti sono i personaggi, isolati su un fondo rosso uniforme: il lettore è naturalmente portato a identificarsi con il bambino-eroe in piedi sulla cassa con i diamanti in mano, osservato dal pirata-stereotipo in basso a destra. Interessante la figura della donna con il bambino in braccio in secondo piano: è una figura realistica che forse serve a recuperare in parte quella commistione tra vero e immaginario che invece pervadeva totalmente la copertina di Chiostri, con una sfumatura concettuale che tuttavia le differenzia profondamente. Mentre infatti nell’immagine del 1908 il contesto realistico serviva a suggerire l’idea che le avventure fantastiche potessero da un momento all’altro saltar fuori dallo schermo, e la fatina con la bacchetta lo dimostrava, nel disegno di Faorzi questo elemento viene meno e la dimensione fantastica è esplicitamente lontana dal ‘quotidiano’. Il cinema ha forse perso la sua originaria aura discreta di mistero ma ha incredibilmente sviluppato la capacità di suggerire atmosfere irraggiungibili, lo spettatore, per interposta persona (l’attore), vive nelle storie del grande schermo i sogni della sua vita. Tale meccanismo è portato alla sua acme nelle collane, dal dopoguerra agli anni Settanta, dedicate al pubblico femminile: la «Biblioteca delle signorine» 28, «I romanzi della rosa»29, la «Vita in fiore»30 hanno numerose ristampe e cambiano copertine in parallelo con la nascita del fotoromanzo e lo sviluppo delle riviste illustrate e del cinema di Hollywood. Autrici come la Delly, Ruby Ayres o Bertha Ruck riflettono nei loro libri, esaltandole, le avventure delle eroine appassionate e degli eroi coraggiosi del cinema americano, e le copertine, nella loro evoluzione, rispecchiano fedelmente tale situazione, mutando con il www.artivisive.sns.it/salani/pages/scheda.php?ID=255. www.artivisive.sns.it/salani/pages/scheda.php?ID=159. 26 www.artivisive.sns.it/salani/pages/scheda.php?ID=149. 27 www.artivisive.sns.it/salani/pages/collezione.php?collezione=Biblioteca+dei+miei+Ragazzi. 28 www.artivisive.sns.it/salani/pages/collezione.php?collezione=Biblioteca+delle+signorine. 29 www.artivisive.sns.it/salani/pages/collezione.php?collezione=I+romanzi+della+rosa. 30 www.artivisive.sns.it/salani/pages/collezione.php?collezione=vita+in+fiore. 24 25
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passare degli anni. Non è raro così che l’immagine di copertina sia talvolta disegnata e talvolta sia un fotogramma tratto da un film, come avviene ad esempio con Il tesoro nascosto31, che nel 1960 riporta in copertina un fotogramma e nel 1967 invece un disegno di Ugo Signorini, che comunque, nella definizione della donna fatale, di una bellezza ammiccante e allo stesso tempo falsamente ingenua, rivela appieno la sua derivazione dal grande schermo. Se agli inizi del Novecento Salani creava una continuità visiva con i quotidiani illustrati, allo stesso modo negli anni Sessanta e Settanta il rapporto è con le riviste patinate che descrivono le vite impossibili delle stelle hollywoodiane, che entrano nelle case degli italiani non solo attraverso il cinema ma anche grazie ai reportage fotografici di corredo agli articoli. La Salani sfruttava dunque al meglio il desiderio di evasione del pubblico femminile, assecondandolo, così come aveva fatto ottanta anni prima, con romanzi che fin dalla copertina facessero sognare la lettrice.
Fig. 5 Disegno preparatorio per illustrazione interna di Mazinga contro i mostri di Inferno, 1979. Pennarello su carta, 26,3x29,4 cm. Archivio Adriano Salani Editore.
Il rapporto con la televisione diventa una filiazione diretta negli anni Ottanta quando la casa editrice traduce le serie di cartoni animati T.V. in pubblicazioni a colori. È il momento di Mazinga32 (Fig. 5) e di Shirab33, di Heidi e dei Puffi: i tempi della ricezione e lo stile figurativo sono dettati dalla televisione. Si assiste ad una spersonalizzazione dei caratteri fisionomici e alla progressiva diminuzione della parte testuale. L’immagine invade completamente lo spazio della pagina, mentre nei primi volumi di Topolino degli anni Trenta tavole fuori testo affiancavano sulla destra il testo che si sviluppava a fronte, ora la dimensione visiva è preminente e totalizzante. Particolarmente interessante il caso di Heidi, pubblicata per la prima volta nel 1924 con illustrazioni del solito Carlo Chiostri34. Abissali le differenze con le edizioni dell’era della televisione: nel 1924 il libro è un prodotto dall’identità culturale ben precisa, le www.artivisive.sns.it/salani/pages/scheda.php?ID=217. www.artivisive.sns.it/salani/pages/collezione.php?collezione=I+Grandi+Libri+di+Mazinga. 33 www.artivisive.sns.it/salani/pages/scheda.php?ID=146. 34 www.artivisive.sns.it/salani/pages/scheda.php?ID=129. 31 32
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illustrazioni sono suddivise canonicamente tra testata, infratesto, finale e tavola fuori testo, ognuna con una finalità definita e di formato differente. I personaggi non hanno ancora subito il processo di spersonalizzazione e sono realisticamente caratterizzati: il vecchio nonno con le gambe magre e il volto ossuto, Heidi con i suoi riccioli, la casa della famiglia alto borghese descritta nel dettaglio. E ancora, i cuccioli di gatto che servono da finalino, la piccola Clara come testatina dallo stile vagamente liberty, la grande tavola fuori testo con Heidi nei campi con le pecorelle. È una varietà e armonia di immagini, tratteggiate a penna e acquerello, che si perde negli anni Settanta e Ottanta, allorché gli sgargianti colori della televisione sono tradotti con pennarelli gialli e rossi, verdi e azzurri, veicolando una percezione dell’immagine accelerata e compressa, dettata dai ritmi della televisione e non da quelli, necessariamente più lenti, della lettura. È l’esito estremo del percorso che è stato seguito per salti ed esempi a partire dalla fine dell’Ottocento: l’immagine invade il libro e se ne appropria, relegando sempre di più il testo in posizione secondaria e accessoria, ribaltando così quelli che erano i rapporti di forza iniziali.
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Giorgio Bacci _______________________________________________________________________________
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UN METODO DI STUDIO PER LE GUIDE STORICHE DI ROMA E PISA: STRUMENTI, PRASSI E IMPLICAZIONI DELLA RICERCA Ho il sospetto che le guide stampate agissero, ieri come oggi, meno incisivamente della parola viva, tuttavia proprio questi libretti sono sopravvissuti come testimonianza della mentalità di quei secoli. Già allora, del resto, dopo il ritorno dal viaggio, proprio il libro stampato, e talvolta le annotazioni personali permettevano di ricostruire, cioè di ripetere le esperienze di viaggio1
Il valore delle guide storiche quali efficaci strumenti di studio per lo storico e lo storico dell’arte è oramai attestato dalle numerose pubblicazioni che recentemente si sono occupate delle problematiche inerenti a questo genere letterario. I molteplici profili intellettuali che caratterizzano gli autori, la varietà dei potenziali destinatari delle pubblicazioni e la continua evoluzione della struttura interna dei testi nel corso dei secoli, fanno delle guide un valido supporto per la ricerca storico-artistica in merito ad una città o ad una specifica area geografica, alla storia del gusto e del collezionismo, e allo stesso tempo un efficace strumento di controllo del dibattito critico sul ruolo, le funzioni e le aree d’interesse della storia dell’arte stessa. Il riconoscimento del valore documentario di questa peculiare tipologia di fonte non deve però far dimenticare il suo essere essenzialmente una produzione letteraria di secondo livello, uno strumento prevalentemente indirizzato ad un’utenza medio-bassa, frutto di una sorta di filtrazione della cultura alta, intrecciata strettamente con elementi di altro genere e provenienza. Nel rapporto con la letteratura artistica del tempo la guida rimane infatti sempre un passo indietro, in un cammino che non procede mai di pari passo ma che vede la guidistica arrivare sempre come eco del dibattito critico precedente. Il prevalere di questi ultimi aspetti ha fatto sì che la fortuna critica di tale materiale documentario abbia avuto solo recentemente una rinascita, avendo subito per molto tempo la negativa valutazione dello Schlosser, che nella sua Letteratura artistica2 ha lasciato le guide relegate in un cantuccio insieme con gli Abecedari, prediligendo le fonti in cui l’aspetto qualitativo delle informazioni prevaleva su quello quantitativo. Le numerose e preziose informazioni contenute in una guida erano, invece, diversamente valutate dagli intellettuali del Settecento, che ne fecero largo uso anche nel redigere opere diventate punti fermi della letteratura artistica italiana. Fu così, come è noto, per Luigi Lanzi sul finire del secolo, nel momento in cui lavorò alla stesura della sua Storia pittorica dell’Italia3, ma qualche anno prima anche l’intellettuale fiorentino Francesco Maria Niccolò Gabburri, per la stesura delle sue Vite di Pittori, si servì delle guide, facendo una consapevole distinzione fra quelle del secolo precedente, che rappresentavano delle fonti di pari dignità rispetto al resto della letteratura artistica, e quelle a lui più prossime, lette e citate come riferimento peculiare di informazione sulla collocazione precisa delle opere esaminate4. Quello delle guide storiche è certamente un tessuto informativo estremamente ricco, articolato in moduli periodicamente ricorrenti, caratterizzato da una stratificazione temporale delle informazioni, nelle cui trame è importante scavare per comprenderne origini e senso, attendibilità e valore documentario, per poi essere in grado di sfruttarne la preziosa valenza di fonte storico-artistica. A fronte di una tale complessità è necessario individuare un metodo e una strumentazione idonei alla corretta consultazione di testi-guida: tale prassi si pone il fine di MĄCZAK 2004, pp. 311-313. SCHLOSSER [1924] 1996. 3 LANZI 1795-1796. 4 Tale analisi è stata riportata da Roberto Viale nel suo intervento La biblioteca di Gabburri e la sua bibliografia durante la giornata di studi «Le Vite di Pittori di Francesco Maria Niccolò Gabburri» tenutasi il 5 maggio 2009 presso la Biblioteca Nazionale di Firenze. 1 2
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cogliere il maggior numero di informazioni possibili, con la finalità di immagazzinarle secondo criteri che le rendano fruibili in maniera efficace, immediata e produttiva. L’utilizzo degli strumenti informatici può, in quest’ottica, dare le risposte adeguate alle esigenze di ricerca, permettendo l’impostazione di un metodo di studio cadenzato su una lettura dinamica del testo, che può così essere interrogato in maniera capillare ed esaustiva. La problematicità di questo tipo di fonte e la necessità di focalizzare l’attenzione sulle sue caratteristiche più importanti, determinanti per un uso corretto e critico delle informazioni, ha spinto la Fondazione Memofonte a scegliere proprio le guide come ‘fonte protagonista’ del primo Corso di Alta Formazione, organizzato in collaborazione con la Scuola Normale Superiore di Pisa presso la Fondazione del Conservatorio Santa Chiara a San Minato5. Le lezioni – svolte dagli scriventi – sono state impostate in modo da evidenziare i punti focali della ricerca storico-artistica legata all’oggetto guida, al fine di individuarne tutte le potenzialità informative e documentarie da potenziare e rendere fruibili attraverso un successivo processo di informatizzazione. Al fine di rendere la proposta didattica quanto più concreta possibile, sono state scelte due particolari tipologie di guide, quelle romane tra XVI e XVII secolo e quelle pisane tra XVIII e XIX secolo, in modo da presentare oggetti differenti, legati a contesti lontani fra di loro e caratterizzati da elementi non sempre avvicinabili. Il presente contributo, partendo da queste considerazioni e dall’esperienza didattica svolta, si propone di ripercorrere le tappe di analisi di queste due tipologie di guide, illustrando l’iter di una ricerca impostata seguendo le suddette finalità. Il punto di vista proposto è chiaramente quello dello storico dell’arte, che analizza i documenti cercando di precisarne i contenuti e ricostruirne la storia al fine di ricreare contesti e relazioni: gli strumenti informatici da applicare, le tecnologie capaci di rendere attuabili determinate idee e percorsi virtuali rimangono naturalmente campo applicativo degli informatici. L’analisi dei documenti da trattare informaticamente rappresenta il momento della conoscenza dell’oggetto e, come tutti i processi di conoscenza, non si può considerare qualcosa di circoscritto e immediato, quanto piuttosto un cammino progressivo, che permette allo studioso di entrare sempre più fra le trame delle carte che ha davanti. Sapere su cosa si sta lavorando, conoscerne non solo i contenuti ma anche tutti i dettagli editoriali, la struttura del testo, i vizi ortografici, le abbreviazioni ed altro, permette di stabilire dei criteri di trascrizione, in modo da rispondere a due esigenze principali: lasciare integro il testo, evitando qualsiasi forma di interpretazione, e facilitare la lettura e la consultazione del lettore contemporaneo. Indipendentemente dalla struttura e dal contenuto dei testi analizzati è possibile applicare una metodologia di analisi mirante a mettere in evidenza ciò che ne caratterizza il tessuto informativo. Il primo livello di restituzione del documento è quello di sola trascrizione, eseguita e modellata secondo precisi criteri di normalizzazione e finalizzata ad una maggiore fruibilità. Nel momento in cui si passa a livelli successivi, si creano degli strumenti di supporto alla consultazione che entrano progressivamente nelle trame delle informazioni attraverso l’inevitabile applicazione di un margine di discrezionalità da parte di chi opera che, per quanto scientificamente corretto, è pur sempre frutto di una scelta e di un lavoro soggettivi. Infatti, ogni formula di indicizzazione funzionale alla ricerca nel testo fornisce un supporto in più all’utente, costituito però da strade già tracciate secondo precisi piani regolatori: su tali percorsi è possibile anche aggiungere dei cartelli indicativi, per aiutare ulteriormente nell’orientamento all’interno del testo, connotando i nomi attraverso l’indicazione di un preciso ruolo. In altri termini, è possibile individuare delle particolari categorie che facciano da contenitore per i nomi, raggruppati in base ad un comune presignificato di appartenenza. Nell’analisi e trascrizione informatica delle guide storiche la creazione di apparati di supporto al testo sarebbero auspicabili, proprio in considerazione della complessità e varietà 5
Il corso Metodologie di analisi informatica delle fonti storico-artistiche: le guide storiche si è svolto dal 20 al 22 maggio 2009.
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del materiale informativo in esse contenuto. La normalizzazione di nomi, l’indicizzazione, le tavole di concordanza, sono sicuramente buone strade da tracciare al fine di facilitare la ricerca nelle singole guide, estrapolare le informazioni necessarie e compararle con quelle di altri testi. Al di là delle generali questioni critiche e attributive, le guide forniscono delucidazioni su questioni più materiali, quali le sottrazioni, le restituzioni o gli spostamenti di opere d’arte mobili, che consentono di ricostruire un percorso cronologico e ‘geografico’ per una singola opera, attraverso la consultazione di testi redatti in tempi differenti. Difatti determinati aspetti pratici, inerenti alla collocazione di un quadro, come pure alle diverse fasi di ristrutturazione recente di beni immobili, sono frequentemente reperibili in guide e descrizioni: gli autori di questi volumi concentravano una notevole attenzione nel corredare con notazioni pratiche le informazioni storico-stilistiche in merito ai monumenti incontrati all’interno dei differenti itinerari proposti. In questi casi, l’analisi di più testi permette la ricognizione di interessanti fluttuazioni diacroniche nelle attribuzioni di opere d’arte a differenti artisti, alcune frutto di marchiani errori, altre però per noi testimonianza preziosa dell’esistenza di diatribe, dibattiti o comunque significative incertezze.
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LA GUIDISTICA ROMANA FRA XVI E XVII SECOLO Martina Nastasi Sono molti coloro che in Italia non vedono nulla oltre le opere e testimonianze dell’antichità classica e le cose sacre. […] Nell’educazione artistica dei turisti un ruolo enorme era svolto già allora dalle guide e dai libri-guida. La patria di tutti era naturalmente Roma, dove, nel corso dei due secoli di cui parliamo (XVI e XVII secolo), vennero stampate decine e decine di edizioni di vari Mirabilia Urbis o libri simili, che univano le leggende religiose agli elenchi dei monumenti. […] Che cosa poteva leggere allora un turista in una guida popolare?6
Le parole di Antoni Mączak offrono diversi spunti per un approccio analitico alla guida storica romana, finalizzato all’individuazione di elementi significativi e funzionali, capaci di rendere quanto più possibile fruibile il prezioso e complesso tessuto informativo in esse contenuto. Prima ancora di addentrarsi nei meandri dei testi e, qualora presenti, degli apparati figurativi di questi oggetti, è bene soffermarsi proprio sul loro essere prima di tutto prodotti editoriali, cercando perciò di capire tre aspetti principali: tipologia di libro utenza di riferimento contenuti In quanto prodotti editoriali, le guide si presentano come oggetti di ridotte dimensioni7, costituiti da materiali poco pregiati sia nel supporto cartaceo che nelle rilegature, e corredati di immagini di bassa qualità artistica, nella maggior parte dei casi xilografie8. Erano pensate e realizzate come bene di largo consumo, acquistabile per pochi soldi dai viaggiatori, per i quali diventava un prezioso aiuto e un inseparabile amico di viaggio: non erano sofisticati prodotti editoriali, in cui la veste grafica e i materiali avevano un ruolo fondamentale, ma oggetti che dovevano essere utili e facilmente trasportabili, e allo stesso tempo contenere tutte le informazioni necessarie per orientarsi fra le strade e i monumenti di Roma. Con un piccolo sforzo di immaginazione, si può provare a pensare a quelle ondate di pellegrini che riempivano le strade di Roma sul finire del Cinquecento, davanti ai quali si presentava il meraviglioso spettacolo di una città dalle enormi dimensioni, prospera di bellezze artistiche e richiami religiosi, nella quale doveva essere estremamente facile smarrirsi senza riuscire a vedere tutto ciò che essa offriva. Il viaggio da affrontare per raggiungere la Città Eterna era spesso lungo e difficoltoso e, in molti casi, poteva essere fatto una sola volta nella vita: per queste ragioni, occorreva ottimizzare i tempi e riuscire a vedere quanto più possibile nel poco tempo a disposizione. Una moltitudine di gente, dunque, proveniente da ogni parte d’Europa, non necessariamente colta né tanto meno ricca, spesso con poco tempo da utilizzare per il tour: sinteticamente, poteva essere questa l’immagine del visitatore tipo, cui occorreva una guida leggera, economica, di immediata comprensione, dove, preferibilmente, l’immagine fosse presente, in modo da sfruttarne l’impatto visivo e superare le barriere linguistiche. La guidistica cinquecentesca attingeva a piene mani alla tradizione medievale dei Mirabilia: questi, con caratteri gotici e grossolane xilografie, continuarono ad uscire dalle stamperie romane per tutto il XVI secolo, tradotti in più lingue e mantenendo, in linea di MĄCZAK 2004, pp. 311-313. Le guide sono generalmente stampate in ottavo o, più raramente, in sedicesimo, perciò con un’altezza dai 10 ai 25 cm. 8 Essendo la xilografia un’incisione a rilievo, può essere stampata insieme ai caratteri tipografici: per questo motivo continuò ad essere usata, anche dopo la diffusione dell’incisione su rame, per illustrazioni di piccolo formato inserite nel testo, per i capilettera e per i motivi ornamentali geometrici a fascia posti generalmente all’inizio di un capitolo. (BARBIER 2004). 6 7
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massima, le medesime caratteristiche di aspetto e contenuto9. A dare nuova linfa vitale a tale settore fu lo studio dell’antica topografia romana, che alcuni studiosi portarono avanti nella prima metà del Cinquecento a partire dalla Roma instaurata di Flavio Biondo, scritta fra il 1444 e il 1446: a quest’opera vanno aggiunti la Descriptio urbis Romae di Leon Battista Alberti del 1434, le ricerche di Raffaello, le Antiquitatis Urbis di Andrea Fulvio, pubblicate la prima volta nel 1527, l’Urbis Romae topographia di Bartolomeo Marliani del 1534, gli studi di Pirro Logorio e quelli di Pomponio Leto10. Da questo momento in poi si attuò una scissione tipologica delle guide romane: quelle ‘popolari’, per i pellegrini che andavano alla ricerca dei luoghi di culto ma anche dei mirabilia di Roma, e quelle ‘colte’, in cui l’indagine storico-critica assume primaria importanza11. Al fervore archeologico si aggiunse l’implacabile attività edilizia dei pontefici: i percorsi indicanti tutti i luoghi di culto si fusero con le tappe per visitare le nuove collezioni di antichità, i monumenti e i palazzi di antica e recente costruzione, nel tentativo di offrire al visitatore la possibilità di ripercorrere non solo le vestigia della Roma capitale del mondo cristiano ma anche quelle dell’antica Urbe latina. In questo continuo intreccio di arte e religione, antico e moderno, è possibile seguire un lungo e complesso percorso che, grazie ad un continuo e proficuo flusso di pubblicazioni, portò alla creazione di una guida definibile ‘moderna’, in cui l’attenzione è rivolta principalmente alla Roma antica e moderna, prima di tutto città d’arte invece che centro della cristianità.
Tale alternanza si verifica in definitiva nel corso di un secolo circa, a partire dal 1541, anno dell’editio princeps de Le cose maravigliose dell’alma città di Roma12, che rappresentò fino all’inizio del secolo successivo la guida di riferimento, ristampata e aggiornata continuamente a Roma per i tipi di moltissimi stampatori. Nel Seicento si assiste ad una definizione più precisa della guida moderna che, passando attraverso le edizioni ampliate di Pietro Martire Felini del Trattato nuovo delle cose maravigliose dell’alma città di Roma13 e i ‘ritratti’ di Roma antica e Roma
La redazione più antica di un vero e proprio itinerario fra i luoghi di culto e i monumenti pagani di Roma, elaborato secondo un ordine topografico, risale agli anni fra il 1140 e il 1143: si tratta dei Mirabilia urbis Romae, compilati probabilmente dal canonico Benedetto e a sua volta basato sugli itinerari tardo antichi (DI NOLA 1988). 10 Cfr. ACCAME LANZILLOTTA 1997; BURNS 1988; CASTAGNOLI 1993; OCCHIPINTI 2007. 11 Cfr. SCHUDT 1930; BIBLIOGRAFIA DELLE GUIDE DI ROMA 1990; LE GUIDE ANTICHE DI ROMA 1991. 12 LE COSE MARAVIGLIOSE 1541. 13 MARTIRE FELINI 1610. 9
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moderna14, culmina nell’opera di Filippo Titi, Studio di pittura, scultura, architettura delle chiese di Roma, uscita nel 1674 e che, come ricorda il Cicognara, «stette per lungo tempo questo libretto come la miglior guida tascabile di Roma»15. Il percorso che portò alla presentazione delle bellezze di Roma come opere artistiche piuttosto che come oggetti di devozione, si incrociò con la progressiva apertura del collezionismo privato alla pubblica visione: le meraviglie custodite all’interno dei palazzi romani trovarono il loro posto fra quelle pubbliche, diventando tappe del tour cittadino e creando nuovi percorsi, come accade ad esempio nelle Note delli musei, librerie, galerie, et ornamenti di statue e pitture, ne palazzi, nelle case, ne giardini di Roma 16 di Giovanni Pietro Bellori. L’individuazione di tutti questi elementi legati alla storia e all’essenza della guida romana permette di iniziare a creare tutta una serie di relazioni fra l’oggetto guida, il suo contenuto e il suo pubblico di riferimento, ma anche fra i diversi livelli del tessuto informativo e di tutte le realtà esterne ad esso connesse (storia dell’arte, della critica, del collezionismo, dell’architettura, ecc.). L’informatizzazione di una guida offre proprio la possibilità di penetrare all’interno del testo e creare virtualmente tutta questa rete di collegamenti, al fine di sfruttarne le potenzialità documentarie reperendole, confrontandole e analizzandole in maniera critica. Non bisogna mai perdere di vista, infatti, che il lavoro del compilatore della guida era quello di collazionare tutta una serie di informazioni sedimentatesi nel tempo, provenienti dalla cultura popolare e religiosa, e di verificarne l’attendibilità: proprio quest’ultimo passaggio spesso mancava, per superficialità dei curatori o per mancanza del tempo necessario ad effettuare tutti i controlli dovuti, come dichiara lo stesso Felini nella sua dedica17. Soprattutto quando la quantità delle edizioni e la velocità dei mutamenti urbanistici e collezionistici erano così elevate come a Roma, quando gli interessi politici e propagandistici diventavano così influenti e determinanti per la creazione dei percorsi e la stesura dei testi, l’attendibilità delle informazioni merita sempre una verifica attenta. Non a caso uno sguardo nuovo sulla città di Roma ci giunge da quelle piccole guide scritte da personaggi illustri del mondo artistico, quali Giovanni Baglione, Giulio Mancini e Giovanni Pietro Bellori18, che dalla loro posizione di uomini di cultura offrono strumenti nuovi e pieni di spunti, in una visione arricchita dall’aggiornamento della loro posizione di intendenti e dalla conoscenza della letteratura passata e presente. Il mio pennello, Eminentissimo Principe, ho (per così dire) convertito in penna; e per coloro, che abitanti o peregrini, visitano le Nove Chiese di questa Città, capo, e maestra del Mondo, mi sono posto a dichiarar loro Pitture, Scolture, e Architetture antiche, e moderne di esse; […] con ogni possibil diligenza ho cercato di rinvenire il vero; e a’ Professori recare utile, ed a tutti diletto19.
Chi scrive è un pittore, che lascia il pennello e prende la penna per rispondere con la stessa arma a Gaspare Celio, che l’anno precedente aveva dato alle stampe napoletane Memorie delli nomi dell’artefici delle pitture che sono in alcune chiese, facciate e palazzi di Roma, omettendo deliberatamente la citazione delle pitture del Baglione. Quello che il pittore compie è un viaggio fra le chiese romane viste come opere architettoniche contenenti opere di scultura e pittura, facendo riferimento esplicito alla letteratura artistica, e lasciandoci quindi un’importante fonte per la conoscenza delle collocazioni di opere molte delle quali oggi non esistono o sono state musealizzate. L’attendibilità delle informazioni in un caso come questo è resa alta dalla consapevolezza che a scrivere era una persona che lavorava con cognizione di RITRATTO DI ROMA ANTICA 1627; RITRATTO DI ROMA MODERNA 1637. CICOGNARA 1821, t. II, p. 220, n. 3891. 16 BELLORI 1664 (stampato anonimo). 17 MARTIRE FELINI 1610, dedica a Benedetto Ala. 18 BAGLIONE [1639] 1990; BELLORI 1664; MANCINI 1620-1629. 19 BAGLIONE [1639] 1990, p. 37. 14 15
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causa, ma per un prodotto editoriale coma la guida, che usciva in centinaia e centinaia di ristampe, che seguiva dei ritmi di produzione celeri e cadenzati sugli eventi giubilari, spesso il principale scopo dell’editore non era quello di ottenere un’opera filologicamente corretta e perfettamente aggiornata nei minimi dettagli, ma semplicemente di avere un prodotto finito e vendibile ad un pubblico di media cultura. I percorsi proposti all’interno delle guide venivano scanditi attraverso la parola, alla quale era affidata la notizia, l’informazione logistica e la descrizione. A supporto del testo a volte venivano inserite piccole illustrazioni xilografiche, dalla funzione sostanzialmente evocativa più che descrittiva: l’attenzione verso la qualità e la quantità delle immagini non era però molta, probabilmente perché l’inserimento delle immagini rappresentava sicuramente una spesa aggiuntiva superflua. È possibile perciò estrapolare brevi percorsi figurativi, caratterizzati sempre dalle chiese e dai monumenti più rappresentativi di Roma, che trovano un loro parallelo nella produzione cartografica dell’Urbe, in cui i monumenti emergono dal tessuto urbanistico per creare precisi iter di visita, come nel caso della pianta delle Sette chiese di Roma del Lafrery20. Partendo dal presupposto che sicuramente non sono le qualità artistiche ed estetiche gli elementi più interessanti di queste incisioni, occorre evidenziarne il valore di fonte iconografica. Sicuramente esemplare da questo punto di vista è un piccolissima guida, giuntaci in pochi esemplari (probabilmente proprio per il suo carattere estremamente popolare), costituita unicamente di immagini corredate da laconiche didascalie in latino. Si tratta delle Icones Statuarum Antiquarum Urbis Romae, uscite in stampa per la prima volta nel 158921: autore assoluto dell’opera fu Girolamo Franzini, al quale si devono ideazione, disegni, incisioni e pubblicazione di un prodotto editoriale unico nel suo genere e che, nonostante il suo aspetto prettamente popolare, racchiude in sé interessanti aspetti sia da un punto di vista editoriale che da quello storico-artistico e iconografico. Il primo passo da compiere è sicuramente quello della ricostruzione della storia delle matrici: proprio perché la loro lavorazione costava, accadeva spesso che venissero reimpiegate dagli editori, passando in eredità ai successori o finendo in altre botteghe, facendo per decenni bella mostra di sé nelle guide. Girolamo Franzini fu uno stampatore-editore molto attento al dato figurativo: incise da solo le matrici per le sue guide e ottenne da Sisto V nel 1587 un privilegio ventennale sull’intera produzione di «Hieronymus Francinus Bibliopola Urbis», salvaguardandosi dalla riproduzione delle opere da parte di altri editori e dall’imitazione di tutti gli apparati illustrativi. Questo evento spiega l’assenza di qualsiasi tipo di imitazione delle sue creazioni e, di contro, la frequenza delle loro ristampe sotto il «segno della Fonte», tanto da giustificare la presenza di illustrazioni create a fine Cinquecento ancora su guide stampate a metà del secolo successivo. In considerazione di tale elemento, il valore documentario della traduzione incisoria di un’opera varia notevolmente in relazione al preciso momento in cui viene eseguita oppure a quello successivo delle ristampe. Le matrici a disposizioni erano spesso le stesse e gli editori le riutilizzavano senza preoccuparsi di modificarne le didascalie, arrivando a determinare la scelta degli oggetti descritti in base al materiale iconografico a disposizione.
Le Sette Chiese di Roma, dis. E. Dupérac, inc. A. Lafréry, in Speculum Romanae Magnificentiae, 1575, 39,5x50,5 cm, Roma, Istituto Nazionale della Grafica. 21 La guida è consultabile sul sito www.mora.sns.it/portale/index.html (a questo si fa riferimento per la visualizzazione delle xilografie citate e analizzate), progetto della Scuola Normale Superiore di Pisa sotto la direzione scientifica di Salvatore Settis e Sonia Maffei: le schede on-line relative a Girolamo Franzini sono a cura di Federica Matteini. Ciascuna xilografia misura 68x55mm. Per un aggiornamento sulla figura dell’editore romano sarà presto pubblicato un articolo della stessa Matteini dal titolo Le Icones statuarum antiquarum urbis Romae di Girolamo Franzini: un «libro da bisaccia» all’interno del progetto informatico Monumenta rariora. Sulla figura e l’opera di Girolamo Franzini consultare anche BARTOLINI SALIMBENI 1995; CANTATORE 2006 (2007). 20
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Per meglio comprendere il valore documentario di queste fonti iconografiche e il loro essere facilmente soggette all’errore di valutazione e all’oblio, affido a due xilografie delle Icones franziane il ruolo di exempla. La statua bronzea di Taddeo Landini in Campidoglio : «SIXTI· V· STA· IN CAPITOLIO» Veggendo io, Beatissimo Padre, quanto Vostra Santità sopra ogn’altro, sia studiosa & zelante (conforme al suo Pontifical Officio) del culto Divino; & attenta a procurare ogni possibil honore alle sacre, sante, & venerande Chiese principal di quest’alma Città, Capo del mondo: sì come ne dimostrano l’opere tanto segnalate, ch’ella ha fatto, & che va facendo […] Et questa tal opera, ò fatica mia, quella si sia, ho voluto ragionevolmente dedicare à Vostra Santità, come à quella, che è stata da DIO costituita Capo della sua Chiesa, acquistata, & redenta col sangue di CHRISTO suo figliuolo […]22.
Con queste parole Girolamo Franzini dedicava, nel 1588, Le cose meravigliose dell’alma città di Roma a Sisto V: una devozione apertamente dichiarata che trova ampio respiro nella selezione delle opere tradotte in incisione e, di conseguenza, nel percorso proposto ai visitatori di Roma. La ‘cifra sistina’ delle Icones in più occasioni si fa promotrice delle scelte dell’autoreeditore, che conclude la piccola guida con l’omaggio più esplicito: la presentazione della statua bronzea di Sisto V, eseguita da Taddeo Landini per il palazzo dei Conservatori in Campidoglio e distrutta fra il 1798 e il 179923. In base al tragitto indicato da Franzini, la visione del corpus di nobilia opera doveva concludersi a villa Medici, dopo aver lasciato il Campidoglio e attraversato via del Corso: secondo tale disposizione avremmo dovuto trovare la statua di Sisto V fra le incisioni delle opere poste «in Capitolio» piuttosto che a conclusione della guida. È chiaro che in questo caso il Franzini abbandona ogni intento topografico e guidistico rendendo un ulteriore omaggio a papa Peretti: la visita della città eterna inizia e si conclude all’ombra di Sisto V, pontefice attento «a procurare ogni possibil honore» alla sua città e a «tutto il popolo Cristiano». La storia della statua sistina è nota attraverso le fonti e sappiamo che il 29 aprile 1587 «è già stata eretta in Campidoglio la statua di bronzo al Papa»24. I tempi di decisione ed esecuzione dell’opera furono rapidi se si considera che in data 5 dicembre 1585 venivano stipulati «Capituli et conventioni con li quali si à da contrattare l’opera della statua di Nostro Signore Sisto V fra l’inclito Popolo Romano et Maestro Taddeo Landini scultore de opera de bronzzo»25. Nello stesso documento è possibile leggere l’accurata descrizione di come la statua di metallo o bronzo di lega corintio bono et ben segato […] abbia da essere bella, ornata con l’abito pontificale et con il piviale, atorno al quale abbia da essere scolpito storia di basso rilievo delli suggetti che li sarà ordinato, della attitudine et modo sicondo il modello che a conpiacimento della Congregatione piaccia.
Una volta terminata, la nuova icona del pontefice avrebbe trovato posto nel palazzo dei Conservatori, «nel loco dove al presente è la statua di Ercole in piedi alla sala grande dirimpetto alla statua di papa Leone». In considerazione del fatto che la statua in questione non è più esistente, tali informazioni, estremamente utili per la sua ricostruzione storico-artistica, possono oggi essere LE COSE MERAVIGLIOSE 1588, p. 2. Per le notizie riguardanti la distruzione della statua cfr. RODOCANACHI 1904, p. 110; RICCI 1916, p. 163. 24 ORBAAN 1910, p. 295. Per un’ampia bibliografia sull’argomento cfr. BENOCCI 1989; PECCHIAI 1950; AIKIN 1980. 25 BENOCCI 1989, p. 129, nota 3. 22 23
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confrontate solo con le testimonianze grafiche e documentarie pervenuteci. Una prima descrizione dell’opera è fornita da Giovanni Baglione nel 1642 nella sua biografia di Taddeo Landino: «dentro la sala de’ signori Conservatori in Campidoglio disegnò e gettò la bellissima statua di bronzo di papa Sisto V, che piega la testa all’audienza, alza la destra alla benedittione, e porge il piede all’ossequio, belle, e degne attitudini di sommo Pontefice»26. A sostegno delle poche parole del Baglione rimangono alcune testimonianze grafiche fra cui, la migliore ma non la più antica, è quella di Lazzaro Baldi pubblicata nel 166127: papa Peretti, con il suo sontuoso abito pontificale, siede su un trono posto su un basamento mistilineo, con la mano destra benedicente e quella sinistra nell’atto di reggere le chiavi e il piede destro in posizione avanzata per l’ossequio. La medesima iconografia, con un punto di ripresa frontale, si trova nelle altre fonti quali l’incisione di Gregorio Leti del 169828, quella popolare conservata nella collezione di Fabrizio M. Apollonj Ghetti29 e in un disegno di proprietà di Paolo Gaffuri30. In questo nucleo iconografico della statua bronzea di Sisto V si inserisce l’incisione del Franzini, offrendoci una testimonianza pressoché immediata dell’opera che, esposta in Campidoglio prima dell’aprile del 1587, fu tradotta in stampa dopo poco meno di due anni. La nostra xilografia è stata riportata sia da Carla Benocci31 che da Sergio Guarino32 nei loro studi relativi alla statua sistina ma, in entrambi i casi, viene utilizzata come fonte l’edizione del 1643 delle Descrizione di Roma antica e moderna stampata da Andrea Fei e curata da Giovanni Domenico Franzini, facendo perdere all’immagine il suo ruolo di fonte iconografica più antica. Il cavallo di bronzo di Daniele da Volterra: «EQUI·AENEI·STAT·I·PALL·RVCELAI» Il Grande & bello simulacro del cavallo di metallo, che al presente si vede nel palazzo de’ Signori Rucellai presso l’arco di Domitiano, dal volgo detto di Portogallo […] gitato (come dicono) nell’anno 1563 & 1564 nella sommità del monte Quirinale, detto da noi monte Cavallo[…] in casa del Capitan Martio Ceci, […] fu fatto per doversi trasportare a Parigi per memoria & monumento di Henrico secondo Re di Francia […] l’artefice di questa bell’opera fu M. Daniello Ricciarello da Volterra, huomo eccellente di quel tempo, il quale hebbe stretta amicitia co’ l grande Michel’Angelo Buonaroti artefice eccellentissimo […] Percioche essendone stato dato la cura, & il peso a detto Michel’Angelo di far quest’opra del cavallo, vedendosi egli vecchio, & decrepito, & per consequente mal atto a sostener più quelle fatiche, essendo che passava novanta anni, trattò con gli agenti del Re, che di ciò avevano cura, che quest’opra si desse a Daniello, & lo propose loro per valent huomo, ch’egli si assicurava, che sarebbe riuscita perfettamente.33
Con queste parole inizia la descrizione de «Il Simulacro del Gran Cavallo di metallo nel palazzo de’ Rucellai» presente nell’edizione de Le Antichità di Roma di Andrea Fulvio34 stampata dal stesso Girolamo Franzini nel 1588 «con ogni diligenza corretta e ampliata, con gli adornamenti di disegni de gli edificij Antichi e Moderni» e «con le aggiuntioni e annotazioni di BAGLIONE 1642, p. 63. In BORBONI 1661. Sergio Guarino, nel suo saggio (GUARINO 1991) propone l’attribuzione dell’incisione a Guillaume Château, il quale avrebbe operato su disegno del Baldi. 28 LETI 1686, parte III, libro II, immagine fuori testo. 29 ACCADEMIA SISTINA 1987, p. 64. 30 In BENOCCI 1989, p. 118. 31 Carla Benocci a p. 121 del suo articolo fa genericamente riferimento alle «tavole del Franzini» senza indicare di quale dei Franzini si tratti; nella nota 31 a p. 127 e nella didascalia dell’immagine a p.118, in riferimento all’edizione del 1643 scrive erroneamente «E. Franzini»: lo scambio della «F» di Federico Franzini con una «E» del tutto ingiustificata, si unisce al fatto che quell’edizione è in realtà di Giovanni Domenico Franzini. 32 GUARINO 1991, p. 119, nota 16. 33 FULVIO 1588, libro V, p. 220 [320]. 34 FULVIO 1513; FULVIO 1527. 26 27
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Girolamo Ferrucci Romano». Ad introdurre il testo è una piccola incisione rappresentante il celebre cavallo posto su un piedistallo di cui è appena visibile una base d’appoggio dalla forma polilobata: una xilografia che il Franzini usò il medesimo anno nell’Urbis Romae topographia di Bartolomeo Marliani35 e quello successivo per le sue Icones. La presenza di una breve iscrizione sotto il margine inferiore dell’incisione – alla quale si aggiunge il testo del Ferrucci – permette un facile e inequivocabile riconoscimento del soggetto rappresentato: del resto, è noto dalle fonti dell’epoca36 che fra il 1586 e il 1639 il cavallo di bronzo di Daniele da Volterra rimase nel cortile di Palazzo Rucellai in via del Corso a Roma37. L’incisione del Franzini costituisce con molta evidenza una delle rarissime fonti iconografiche dell’opera in questione, anticipando di qualche anno quella più nota di Antonio Tempesta conservata alla Bibliothèque Nationale di Parigi38. La matrice di questa illustrazione ritorna nella già citata edizione del 1610 del Trattato nuovo delle cose maravigliose dell’alma città di Roma, curata e aggiornata dal Felini39: una tale scelta a quell’altezza cronologica non meraviglia, come invece accade nel caso della Roma sacra antica e moderna edita dal Molo e dal De Romanis nel 1687, data in cui il cavallo di bronzo non era più annoverabile fra le bellezze di Roma 40. Alla luce di quest’ultimo elemento si può ben comprendere il carattere non sempre attendibile di fonti di questo genere, considerato che la selezione di immagini e informazioni non era necessariamente sottoposta all’attenzione di esperti. Rimane il fatto inequivocabile che, eseguita nel 1588, la xilografia in esame rappresenta una preziosa testimonianza grafica di un’opera oggi non più visibile. Dallo spoglio della letteratura contemporanea sull’argomento, però, il nome di Girolamo Franzini e la sua incisione non compaiono quasi mai. Unica citazione a riguardo, diretta all’immagine ma non al suo autore, è stata fatta nel 1976 da Virginia Bush41, la quale cita Andrea Fulvio come fonte in riferimento alle dimensioni e alle vicende esecutive del cavallo e riporta, come testimonianza della presenza del cavallo a palazzo Rucellai dal 1586 al 1622, l’incisione del Franzini corredata dalla scarna didascalia «woodcut of Daniele da Volterra’s horse for monument of Henry II» 42. L’oblio sembra poi avvolgere l’illustrazione franziniana, lasciando campo libero alla rappresentazione del Tempesta indicata come «unica testimonianza grafica rimastaci di questo monumento»43 insieme ad un disegno attribuito a Michelangelo e conservato al Rijksprentenkabinet di Amsterdam44. Proprio in relazione a questo disegno è possibile trovare, nel Corpus dei disegni di Michelangelo di Charles De Tolnay45, un’errata citazione della fonte bibliografica e iconografica in questione. Alla fine della scheda il De Tolnay fa infatti riferimento ad una «stampa di Fulvio Orsini, in Antichità di Roma, 1588» indicando così la giusta fonte bibliografica e attribuendola però ad un autore errato. La citazione del testo di Andrea Fulvio del 1588 appare anche in un articolo di Jean Adhémar del 194946: facendo MARLIANI 1588, p. 160v. Oltre a FULVIO 1588, per le fonti dell’epoca riguardanti il cavallo di bronzo cfr: ORBAAN 1910, p. 28; VASARI [1550 e 1568] 1966-1987, vol. V, p. 547 e sgg.; ARMENINI [1587] 1989; BENVENUTO CELLINI [1558-1566] 1996; CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1967. 37 Per la le vicende riguardanti l’opera cfr. VASARI [1550 e 1568] 1966-1987, vol. V, p. 547 e sgg.; ORBAAN 1910; ADHÉMAR 1949; BOSTRÖM 1995; CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1967. 38 L’incisione di Antonio Tempesta è databile fra il 1591 e il 1608: la datazione coincide con la collocazione dell’opera data nella scritta presente sul margine superiore, «VISITUR·ROMAE·IN· PALTIO· EX· FAMILIA· RUCELLAIA». Cfr. BARTSH 1984, p. 365, n. 635. 39 FELINI 1610, p. 346. 40 ROMA SACRA ANTICA E MODERNA 1687, p. 60. 41 BUSH 1976, pp. 175-178. 42 BUSH 1976, fig. 172. 43 CIARDI-MORESCHINI 2004, p. 266. 44 Inv. n. RP-T-1953-140. Cfr. DE TOLNAY 1978, p. 84 e sgg., n. 435; SCHIAVO 1990, p. 442 e sgg., fig. 247. 45 Cfr. DE TOLNAY 1978, p. 84 e sgg. 46 ADHÉMAR 1949, pp. 297-300. 35 36
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cenno alla fama che il cavallo di bronzo aveva a quel tempo in Italia, l’autore riporta in nota proprio Le Antichità di Roma, senza però fare alcun riferimento alla presenza della xilografia franziniana47. L’excursus iniziale sull’analisi delle guide e i due esempi riportati dimostrano come sia necessario considerare e analizzare gli apparati testuali e le illustrazioni sullo stesso piano, andando alla ricerca del loro corretto valore documentario. Nello specifico si rende necessaria la ricostruzione di precise reti di relazioni: • rapporto fra guida e letteratura artistica coeva • rapporto fra traduzione grafica e/o descrizione verbale e oggetto rappresentato • rapporto fra testo e immagine • rapporto fra storia della matrice e pubblicazione specifica • rapporto con altre fonti iconografiche Per fare questo è necessario creare degli strumenti che diano la possibilità di intrecciare i dati reperiti e far parlare l’oggetto guida anche al di là del suo contenuto. Nell’analisi delle Icones di Giralamo Franzini, ed esempio, per riuscire a risalire alle matrici delle xilografie e seguirne il riutilizzo fattone nel secolo successivo, è stato fondamentale intrecciare l’elenco delle pubblicazioni franziniane con quello delle illustrazioni prese in esame. In questo modo è stato possibile ricostruire la storia delle matrici e, come dimostrato, restituirgli il loro giusto valore documentario (Tabella 1): a partire da 1588 e per quasi cento anni le piccole icones sono state inserite nei corredi illustrativi, assumendo nel corso degli anni un valore decorativo, scevro da ogni tipo di riscontro critico sul loro effettivo valore informativo. Il lavoro di informatizzazione di una fonte deve essere costantemente supportato da un attento studio della medesima, e di contro è la stessa informatizzazione a permettere ulteriori approfondimenti aprendo nuove strade di ricerca e di analisi: il valore aggiunto di un percorso così impostato è dato dalla possibilità di affondare in maniera nuova i testi e, soprattutto, di creare relazioni virtuali tra elementi differenti.
47
ADHÉMAR 1949, p. 299, nota 4.
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Herculis Antichità di Fulvio 1588 Urbis Marliani 1588 Cose Meravigliose 1588
●
p. 311 [211]
●
p. 157
Fontana Mattei
Mosè di Michelangelo
Facchino di via Lata
●
Cavallo Rucellai
Lottatori di Villa Medici
Sisto V
●
p. 321 [221]
p. 320 [220]
●
●
p. 161v
p. 160v
●
Icones 1589
●
Icones 1596 Icones 1599
●
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●
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Antiquitates 1599
● ● p. 337
Felini 1610
● p. 722
Descrizione 1643
● p. 571
● p. 346 ● p. 745
● p. 335
● p. 327
● p. 568
● p. 558
● p. 94
● p. 178
Descrizione 1677 Descrizione 1687
Cristo di Michelangelo
● p. 87
testo p. 27
● p. 60
● p. 85
● p. 74
● p. 185
Tabella 1 Tavola di frequenza delle pubblicazione delle matrici di G. Franzini: nella riga in alto sono indicate le opere tradotte in xilografia e nella colonna a sinistra i titoli ridotti delle edizioni. consultate.
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LE GUIDE STORICHE DI PISA 1751-1821 Andrea Salani
A partire dalla metà del XVII secolo, con la progressiva codificazione della pratica del viaggio, si giunge ad individuare dei modelli letterari specifici, o comunque riconducibili a poche categorie di massima, attraverso i quali si concretizza la letteratura di viaggio. Non solo testi compilati dai viaggiatori, ma anche svariate pubblicazioni di autori, appartenenti a differenti profili intellettuali, che ai viaggiatori stessi intendevano fornire un supporto48. Effettuare studi sulle guide scritte a partire dal 1650, come anche utilizzarle quali strumenti per una ricerca integrativa, significa rapportarsi a testi che presentano delle costanti e delle variabili più o meno individuabili e che è possibile censire secondo criteri da determinare. Un tale progetto di ricerca potrà giungere a conclusioni scientificamente più esatte e corroborate da dati numerici e di contenuto, se lo studio potrà avvalersi di strumenti informatici ad hoc. Per ottenere questi risultati i testi in esame devono essere stati trascritti secondo criteri e metodologie standard – e tramite norme consultabili – in un formato interrogabile e fruibile, in cui la trascrizione deve essere compiuta in maniera omogenea e adattata alle specifiche del testo49. Tra differenti guide storiche è individuabile un duplice livello di uniformità, quello della struttura testuale e quello relativo al contenuto. Il primo di questi riguarda la costruzione del testo-guida nelle sue parti fondamentali, come la strutturazione degli itinerari, la loro possibile assenza, il modo di affrontare la descrizione di un quartiere, ovvero tutte quelle possibilità che l’autore di una guida si trova di fronte al momento di dar vita al proprio progetto, indipendentemente dalla città o area geografica cui la pubblicazione si vuol riferire. Per ciò che concerne i contenuti, le variabili e le costanti sono ravvisabili in testi riguardanti la medesima città. Non solo perché nel corso del Seicento e del Settecento si radicalizzarono specifici topoi relativi ai singoli luoghi di viaggio e ai loro abitanti, ma anche a causa della creazione di filoni di letteratura di viaggio locali, in cui una tradizione viene seguita, consultata e talvolta criticamente interrogata. Alcuni ‘pionieri’ del genere letterario individuarono schemi e tematiche prevalenti, giudicati idonei alla miglior descrizione di una città50; i loro successori si inserirono in questo solco, alcuni in maniera acritica, altri proponendo soluzioni originali, ma pur sempre in qualche misura debitrici delle produzioni precedenti. Nel caso delle guide storiche di Pisa, il testo di riferimento è la Guida per il passeggiere dilettante pubblicata da Pandolfo Titi nel 1751; un volume che propone un fluido itinerario tra le ‘rarità’ pisane, nel quale si afferma uno schema descrittivo della città che si radicherà nel contesto letterario locale sino ad influenzare molte guide, anche ottocentesche. 48
SALANI 2009, pp. 1-2. Ci riferiamo a specifiche norme standard per la trascrizione di un documento in un formato digitale (ad esempio il pdf), che permetta di rapportare tra loro differenti testi trascritti con la garanzia di consultare fonti corredate da indicazioni bibliografiche corrette rispetto all’originale, fruibili in formati digitali realizzati secondo criteri omogenei ma comunque sempre fedeli al testo di riferimento. 50 In tal senso ogni città ha il proprio ‘pioniere’, che non è da identificare necessariamente col primo autore di un testo di descrizione dei monumenti e delle opere. Più correttamente lo si deve individuare in una figura intellettuale che ha per prima ideato in uno specifico contesto un testo-guida, inteso come itinerario coerente e pratico attraverso le bellezze e rarità del luogo. In taluni casi le due figure coincidono: per Pisa, Pandolfo Titi non è solo l’autore della prima guida della città in senso moderno, ma è di fatto il primo che ha affrontato una descrizione omogenea e esaustiva del patrimonio artistico pisano. Differente la situazione per contesti meno ‘provinciali’, dove esiste già un corposo filone di letteratura di tipo storico-artistico, identificabile con i mirabilia, in cui, a partire dalla metà del XVII secolo, si inseriscono le prime pubblicazioni che rivoluzionano un genere radicato. La guida del Cinelli per Firenze è l’esempio di questa innovazione nel solco di una preesistente tradizione. 49
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Una delle più frequentate forme di ricerca e studio sulle guide storiche riguarda l’analisi diacronica di testi pubblicati in un determinato arco di tempo, tutti riguardanti la medesima città o lo stesso itinerario regionale. Tale studio investe in egual misura l’aspetto strutturale e quello contenutistico: alla valutazione dei cambiamenti avvenuti nel modo di descrivere una città, della naturale evoluzione nelle preferenze degli autori – o del pubblico – per taluni aspetti del passato storico e artistico di un luogo, si accompagna di norma un progresso, o comunque una ridefinizione, degli schemi letterari adottati per ‘impaginare’ la guida. Queste modifiche del livello strutturale non di rado sono strettamente legate all’evoluzione dei contenuti, nella misura in cui nuove informazioni, nuove tipologie di descrizioni, richiedano forme di ripartizione del testo più idonee alla creazione di un’opera fluida, interrogabile e facilmente fruibile. MONUMENTO
PAGINA
CIT./DESCR.
MONUMENTO
PAGINA
CIT./DESCR.
Duomo
1
Descritto
Spedale Trovatelli
86
Descritto
Campanile
45
Descritto
Coll. Ferdinando
87
Descritto
S. Giovanni
58
Descritto
S. Biagio
88
Descritto
Camposanto
65
Descritto
Pal. Arcivescovile
89
Descritto
Spedal Nuovo
85
Descritto
Convertite
91
Descritto
S. Ranieri
86
Descritto
Pal. Cavalieri
92
Descritto
S. Rocco
86
Descritto
S. Stefano
105
Descritto
Tabella 1 Schema parziale dell’itinerario della guida di Pandolfo Titi.
Anche avvalendosi dello strumento informatico, è possibile compilare delle tabelle di riferimento in cui gli itinerari proposti possano essere confrontati evidenziando omissioni. Tali tabelle possono essere articolate in modo da fornire un numero variabile di informazioni. Indicando una singola tappa dell’itinerario è ad esempio possibile specificare se il monumento/edificio, citato nella pagina indicata, è semplicemente menzionato come punto di passaggio o compiutamente descritto dall’autore della guida51. In realtà una guida viene studiata come opera singola solo in rari casi e difatti normalmente si conducono ricerche comparative che riguardano un corpus, più o meno nutrito, di opere. Questo è certo il caso delle guide storiche di Pisa, realizzate nell’arco di un settantennio, dalla metà del XVIII secolo al principio del XIX. In questo, come in altri case studies, momento fondamentale della ricerca è la determinazione iniziale dei limiti cronologici, quindi del gruppo di documenti che costituiranno il vero oggetto dello studio. Si tratta di individuare un lasso temporale che contenga eventi storici di rilievo, che abbiano toccato l’area geografica da noi prescelta, oppure semplicemente significative evoluzioni nel campo delle idee e del pensiero critico, particolarmente interessanti se inerenti allo studio o alle scoperte della storia dell’arte. Il caso di Pisa rappresenta un perfetto esempio in tal senso, poiché nei settanta anni che separano la guida di Pandolfo Titi (1751) e l’ultima fatica dell’erudito pisano Alessandro da Morrona (1821), la Toscana fu teatro di svariati eventi storici di rilievo, col passaggio dalla Tale informazione risulta spesso futile nel caso in cui una guida rispetti un itinerario fluido e ben organizzato, dove difficilmente il viaggiatore passa più volte dal medesimo luogo, ma diventa determinante negli itinerari più confusi e caotici, per differenziare il percorso delle descrizioni dal percorso degli spostamenti suggeriti dall’autore. Ad esempio, nel Forestiere erudito di Gioacchino Cambiagi, breve guida di Pisa del 1773 redatta ‘saccheggiando’ il Titi ma ignorandone l’itinerario, il ‘forestiere’ è costretto ad incontrare il Ponte di Mezzo per ben quattro volte, e solo uno di questi passaggi prevede una dissertazione storica e artistica sul monumento. 51
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progressista fase leopoldina alla dominazione francese, per poi tornare ad una nuova stagione granducale52. In un contesto storico del genere, le guide divengono un importante strumento per la ricostruzione di molti aspetti di tipo pratico e materiale inerenti alla storia dell’arte. In particolare lo scorcio finale del Settecento conobbe in Toscana provvedimenti che, direttamente e indirettamente, modificarono la geografia del patrimonio artistico del Granducato. Dapprima la soppressione degli ordini religiosi voluta da Leopoldo causò la chiusura di molti edifici e la ridestinazione di numerose opere d’arte ad utilizzi e collocazioni differenti, con un intervento notevole anche da parte dei collezionisti che, se da un lato approfittarono di questa atmosfera di dismissione per incrementare le proprie raccolte, dall’altro costituirono un piccolo baluardo contro la dispersione di opere mobili verso destinazioni che sarebbero tutt’oggi difficili da rintracciare. La calata dell’esercito napoleonico ebbe invece per conseguenza la metodica espoliazione dei beni artistici toscani, solo alcuni dei quali rientrarono in Italia – e in Pisa – con la caduta dell’Imperatore. Alcune guide, come quella di Pandolfo Titi per Pisa, costituiscono dei meticolosi inventari delle opere contenute in una chiesa, quindi confrontando testi che sono stati redatti prima, durante e dopo lo svolgimento di questi eventi storici è possibile verificare materialmente le loro conseguenze attraverso un censimento dei silenzi e delle presenze. DUOMO Navata centrale Pilastro destro
TITI 1751 «S. Tommaso d’Aquino fatto sulla maniera antica e greca da Francesco Benozzo» (p. 37)
CAMBIAGI 1773 «S. Tommaso di Aquino è di Francesco Benozzo» (p. 66)
DESCRIZIONE 1792 «Un S. Tommaso d’Aquino disputante con molti dottori, lavoro antico di Francesco Benozzo Gozzoli» (p. 43)
DA MORRONA 1821 «il S. Tommaso d’Aquino di Benozzo, che passò a Parigi pochi anni sono. Di presente vi fu sostituito un S. Niccolò che dicesi del Corrado fiorentino» (p. 30)
Tabella 2 Confronto sul censimento di una stessa opera in quattro differenti guide.
Anche attraverso l’uso del mezzo informatico è possibile ricostruire il percorso di alcune opere d’arte, proprio perché le guide, dovendo costituire un pratico supporto al viaggiatore, sono tenute a dare conto di anche minime variazioni del patrimonio artistico. Esemplare il caso della tavola con San Tommaso d’Aquino realizzata da Benozzo Gozzoli e collocata un tempo sul pilastro di destra del presbiterio del Duomo pisano. Tramite una elementare tabella che incroci la collocazione ‘geografica’ dell’opera con l’indicazione bibliografica nelle differenti guide, è possibile ottenere un agile strumento di monitoraggio dei suoi spostamenti; talvolta questi sono esplicitamente motivati dagli autori stessi, come per il Benozzo nella guida del 1821 del da Morrona, ma in altri casi il censimento diventa il primo passo per evidenziare una mancata citazione, la scomparsa di un dipinto o una sua ricollocazione non giustificata. In virtù di una notevole densità di pubblicazioni guidistiche tra Settecento e Ottocento, tale Opportuno è dunque fornire l’elenco completo di queste guide pisane: Pandolfo Titi, Guida per il passeggiere dilettante di pittura, scultura ed architettura nella città di Pisa, Lucca 1751; Gioacchino Cambiagi, Il Forestiero erudito, o sieno compendiose notizie spettanti alla città di Pisa, Pisa 1773; Descrizione della città di Pisa per servir di guida al viaggiatore in cui si accennano gli edifizi, le pitture e sculture più rimarchevoli che ornano questa città, Pisa 1792; Alessandro da Morrona, Compendio di Pisa illustrata compilato dal medesimo autore con varie aggiunte per servir di guida la forestiero, Pisa 1798; Alessandro da Morrona, Pisa antica e moderna del nobile Alessandro da Morrona patrizio pisano, volume solo per servir di guida, Pisa 1821. 52
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ricognizione rappresenta il modo per ravvisare, con minima approssimazione, il momento esatto in cui di un’opera si perdano le tracce, avendo dunque la possibilità di contestualizzare storicamente la sparizione e formulare le ipotesi più pertinenti a riguardo.
Tabella 3 Occorrenze e possibili indici.
Il sistema più efficace di catalogazione delle informazioni che lo strumento informatico permette di incamerare è la creazioni di indici, che possono essere in certi casi allegati alla trascrizione medesima dal curatore della digitalizzazione. Tali indici devono riportare il numero delle occorrenze di termini e citazioni, corredate da informazioni basilari, come il riferimento bibliografico, e notazione più specifiche. Ad ogni ricerca di occorrenze corrisponde un indice53. Dall’indice è possibile passare alla creazione di categorie specifiche nelle quali suddividere le informazioni ricavate; si tratta della cosiddetta soggettazione, ossia la suddivisone per soggetto dei termini di cui si sono reperite le occorrenze. Si possono dunque fornire elenchi completi di categorie come pittori, scultori o architetti, ma anche addentrarsi in ambiti più specifici, compilando elenchi che riguardano le iconografie, i nomi di santi o i nomi di città. ARTISTA
PROVENIENZA
PAGINE
Algardi Alessandro
Bologna
83
Ammanati Bartolomeo
Firenze
11, 67
Bandini Giovanni (detto dell’Opera)
[Firenze]
5
Baratta Carlo
Carrara
143
Biduino
[Bidogno- Lugano]
216
Bilivert Giovanni
Firenze
15, 20, 92, 94, 200
Tabella 4 Soggettazione per «Scultori» nella guida del 1798 di A. da Morrona.
Anche sotto il profilo delle evoluzioni nel campo delle idee e del pensiero critico, il caso pisano è decisamente interessante. Proprio la seconda metà del XVIII secolo ha conosciuto in Toscana lo sviluppo di un intenso dibattito sul ruolo e sui metodi di analisi nella ricerca storico-artistica. Pisa ha giocato un ruolo di primo piano grazie all’opera di Alessandro da In alcuni casi i documenti presentano indici già compilati; a riguardo è necessario verificare la correttezza dell’indice trascritto ed eventualmente integrarlo nelle sue lacune o con ulteriori indici funzionali alla ricerca che si vuole condurre. 53
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Morrona, che si inserì da protagonista in una dialettica comprendente altri due principali poli: Firenze, nella figura di Luigi Lanzi, e Siena, ‘rappresentata’ da Guglielmo della Valle. Apprezzare, tra le righe dei testi di tipo guidistico, i riflessi di tale temperie culturale è ovviamente possibile attraverso una comparazione diacronica, volta a seguire il processo di cambiamento nel modo di concepire lo studio della storia dell’arte e l’utilizzo dello strumentoguida nel corso di un settantennio. Come già accennato, a Pisa il genere trova in Pandolfo Titi un vero e proprio capostipite che non ha in ambito locale nessun punto di riferimento per la costruzione strutturale di una guida. Questi imposta un itinerario che tiene conto di tutti i monumenti pisani visitabili, fornendo descrizioni, ora più corpose ora decisamente superficiali, di pressoché tutte le opere d’arte contenute nelle chiese della città. Medesimo schema per la guida di Gioacchino Cambiagi che in maniera più sbrigativa e sommaria ricalca quella del Titi, che sarà ispiratore anche per la struttura e l’itinerario dell’anonima Descrizione di Pisa del 1792. Quest’ultima rappresenta lo spartiacque tra una concezione più catalogatoria della descrizione della città e una versione più approfondita e densa di informazioni. L’anonimo autore dichiara di ispirarsi alla Pisa illustrata del da Morrona, per quel che riguarda i contenuti e le nozioni, e dunque fa da preludio alle due successive guide, redatte dal da Morrona stesso quali compendi alle opere maggiori, in cui si instaura un rapporto diretto tra studi di alto livello e pubblicazioni di secondo piano, derivanti entrambi dalla medesima penna. In questi termini la guida consente di apprezzare la crescita del dibattito critico-artistico riportandone in tempo reale i risultati in pubblicazioni di larga diffusione. Questa tipologia di testi, se studiati in un lasso di tempo considerevole e significativo, danno conto di un processo evolutivo che non riguardò unicamente i contenuti di quella dialettica, ma anche le forme espressive, il ruolo e le metodologie di ricerca della storia dell’arte come disciplina. Il risultato più concreto di questa epoca feconda per gli studi d’arte, individuabile nell’ultimo scorcio del XVIII secolo, consiste nell’aver consegnato all’Ottocento un approccio decisamente più scientifico e critico rispetto alle fonti utili alla storia dell’arte, col superamento dell’atteggiamento dogmatico di fronte al ‘vate’ Vasari; tale nuovo corso permise una valutazione critica di tutte le forme artistiche che si tradusse nell’eliminazione di ostracismi e remore rispetto ad artisti, opere, o interi periodi storico-artistici, instauratisi in virtù di una interpretazione – talvolta addirittura errata o quantomeno forzata – dei ‘classici’ della letteratura Vasari e Baldinucci. Le guide pisane redatte tra il 1751 ed il 1821 coprono in maniera capillare proprio questo arco temporale così peculiare e costituiscono l’ideale strumento di verifica della penetrazione delle suggestioni derivanti dall’intensa dialettica a livello toscano in questo genere di letteratura minore. Tali testi recepiscono le innovazioni sul piano metodologico ponendosi in maniera differente rispetto alla descrizione di monumenti e opere; in più il nuovo critico atteggiamento rispetto alle fonti e agli artisti di tutte le epoche produce una evoluzione, diversificazione e approfondimento sul piano dei temi affrontati. In tal senso l’ampliamento è nella qualità delle descrizioni, nella presenza di riferimenti ad opere in passato trascurate, in una attenzione tutta nuova verso il periodo medievale, di certo il più bistrattato dalla letteratura critica dal XVI al XVIII secolo, che ora vede una nuova considerazione grazie anche alla delineazione più concreta di figure storiche di artisti, individualità che possono dare lustro al passato più remoto dell’arte pisana, adesso a buon diritto considerato quale radice più pura del progresso artistico che culminerà nell’epoca rinascimentale. A questo specifico aspetto è possibile associare anche l’analisi delle evoluzioni del linguaggio, dell’uso di determinati termini, dell’introduzione di neologismi; si tratta di un passaggio irrinunciabile anche per verificare come il tessuto lessicale di questi testi tenti di adeguarsi ad una migliore espressione dei contenuti in continua ridefinizione.
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NUMERO OCCORRENZE
TERMINE
PAGINE
Gottico - Gotico
6
16,59,66, 162,184, 186
Barbaro
2
62, 149
Antico
20
16, 24, 37, 42, 59, 67(2), 71, 73, 77(2), 89, 149(2), 172, 189, 201(2), 216, 238
Tabella 5 Schema delle occorrenze di singoli termini nella guida di Pandolfo Titi.
La comparazione diacronica è solo una possibilità di svolgimento per questa specifica fase analitica; difatti, se mettere a confronto il lessico delle diverse guide di Pisa è sicuramente la prassi più accattivante, anche la valutazione accurata di come un medesimo termine venga adoperato all’interno dello stesso documento risulta altrettanto decisiva per la comprensione del pensiero e delle convinzioni dell'autore. Specifici termini utilizzati per descrivere le opere di un artista compaiono talvolta in altri contesti all’interno della guida; Pandolfo Titi adopera spesso la parola «gottico» e solo dalla verifica attenta di tutte le occorrenze sarà possibile determinare quale valore egli dia a tale aggettivo. Se infatti talvolta ricorre da solo, in altri casi lo incontriamo condito da ulteriori annotazioni che ci informano dell’accezione, se non proprio dispregiativa, non troppo lusinghiera nella quale Titi lo usa. Individuando alcune parole chiave sarà dunque possibile, attraverso la ricerca dei termini a mezzo informatico, conteggiare la ricorrenza di espressioni, come «gotico» o «barbaro stile» o «antico», significative per interpretare l’atteggiamento di un autore rispetto ad una fase storico-artistica, e l’utilizzo – quantitativo e qualitativo – che questi fa delle stesse. Tale operazione può essere condotta all’interno di un unica guida come quella di Pandolfo Titi, ma la ricerca può chiaramente essere estesa ad una comparazione intertestuale che costituirà il vero termometro dell’evoluzione in atto. ARTISTA Niccola Pisano
NUMERO OCCORRENZE 7
PAGINE/MONUMENTO 37 (Duomo/pulpito); 62 (Battistero/pulpito); 64 (Battistero/decor. esterna); 18[3] (S.Michele/decor. esterna); 203 (S. Nicola/Campanile)
Tabella 6 Schema delle occorrenze di un singolo artista nella guida di Pandolfo Titi.
Altre ancora sono le ricerche testuali rivelatrici, come ad esempio la ricognizione del corpus di opere di artisti medievali come i Pisano, Nicola e Giovanni, sintomo di una maggiore o minore considerazione dedicata alle personalità dell’epoca medievale, o semplice misura del livello di approfondimento di una guida. Anche in questo caso si può affiancare una tabella inerente ad un solo testo, quindi corredata da più informazioni sulla qualità delle occorrenze per il singolo artista, ad una intertestuale, che compara il numero e il contenuto delle citazioni tra differenti guide54. Di notevole interesse sarebbe anche la realizzazione di tabelle che valutano l’occorrenza e i contesti (citazioni, attribuzioni etc.) in cui compaiono i nomi delle fonti più frequentate come Vasari e Baldinucci. Questo 54
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Anche nell’ambito dell’attribuzionismo le nostre guide costituiscono un ottimo termometro che aiuta a valutare in maniera costante le oscillazioni delle opinioni, non solo degli autori, ma anche del comune sentire, intorno a determinate opere d’arte. Le guide di Pisa risultano particolarmente attente a questa problematica e, proprio analizzandole sotto il profilo delle attribuzioni, è possibile cogliere importanti cambiamenti. A partire dagli anni Novanta del Settecento, Giunta Pisano è la terza figura che le guide storiche inseriscono nella triade di «ristoratori» dell’arte a Pisa, insieme a Nicola e Giovanni. La Descrizione anonima del 1792 è la prima che lo cita, indicandolo come il «celebre Giunta Pisano» quale autore di un Crocifisso in San Pierino55 e di un altro analogo in San Martino56. Una celebrità recente, dato che né Titi né Cambiagi ne fanno menzione, e quindi sostanzialmente dovuta al profilo che ne delinea il da Morrona nella sua opera magna, la Pisa illustrata. Qui si richiama il ciclo assisiate e si polemizza con Vasari che attribuisce opere pisane di Giunta a Cimabue57, con particolare riferimento al Dossale, oggi nel Museo di San Matteo, raffigurante San Francesco e sei miracoli e proveniente dalla chiesa di San Francesco; Pandolfo Titi nel 1751 parlava di questa opera conservando l’attribuzione vasariana58. Di stesso segno è l’indicazione che, nella guida del 1798, il da Morrona fornisce sulla presenza di una un’opera di Giunta nella chiesa di San Ranieri nei pressi del Duomo59. NICCOLA/NICOLA PISANO
TITI 1751
CAMBIAGI 1773
Pulpito Duomo
p. 37
/
Pulpito Battistero
p. 62
p. 73
Decor. est. S. Michele
p. 186
/
Campanile S. Nicola
p. 203
/
Tabella 7 Schema suddiviso per monumento/opera, dalle guide di Pandolfo Titi e Gioacchino Cambiagi.
Il Crocifisso sul primo altare di destra nella chiesa di San Martino, indicato dal Titi come «la croce con il crocefisso coperta»60, che la guida del 1792 attribuiva con sicurezza proprio a Giunta, viene indicato dal da Morrona nel 1798 come «opera dell’antica scuola pisana» 61, secondo un’intuizione felice, dato che oggi la croce è considerata l’unica opera certa di Enrico di Tedice62. Proprio l’analisi di queste attribuzioni permette di cogliere a pieno l’importanza permetterebbe di apprezzare anche l’evoluzione dell’approccio negli autori di guide rispetto a volumi sino alla metà del Settecento considerati alla stregua di dogmi. Si constaterà, ad esempio, che il numero delle citazioni vasariane non decresce nelle pubblicazioni del da Morrona: Vasari rimane una fonte consultata e autorevole, ma le sue affermazioni sono adesso vagliate attentamente dal giudizio critico. Questo dimostra ulteriormente come l’uso del mezzo informatico deve coniugare una computazione statistico/numerica con rilievi di carattere qualitativo delle occorrenze; una necessità che stimola a individuare metodi di incameramento e strutturazione delle informazioni raccolte sempre più articolati e differenziati a seconda della ricerca in atto. 55 DESCRIZIONE DELLA CITTÀ DI PISA 1792, p. 146. 56 DESCRIZIONE DELLA CITTÀ DI PISA 1792, p. 166. 57 DA MORRONA 1792, t. II, pp. 117-121. 58 TITI 1751, p. 164. «Il quadretto rappresentante l’effigie di San Francesco, posto nel mezzo di quello quadro, e coperto con mantellina, si dice essere opera di Giovanni de’ Cimabuoi». 59 DA MORRONA 1798, p. 74. Opera che egli stesso avrebbe appunto identificato riconoscendo «ai piedi del Cristo i caratteri Juncta Pisanus me fecit», come aveva ricordato già nella prima edizione della Pisa illustrata, definendola «per quel tempo stupenda». 60 TITI 1751, p. 236. 61 DA MORRONA 1798, p. 162. 62 CIMABUE A PISA 2005, p. 136.
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delle ricerche del da Morrona: questi analizzando il panorama artistico della Pisa medievale individua la decisiva figura di Giunta, che nel compendio (1821) alla sua seconda edizione della Pisa illustrata, ha ormai elevato a vero e proprio paradigma della pittura medievale63.. Sono diversi i casi analoghi riscontrabili nelle guide pisane, relativi anche ad altre epoche. In tutti questi la ricerca dei termini conduce alla schematizzazione mediante tabelle. L’attribuzione, in determinate circostanze, non è dunque mero esercizio di erudizione minuta, bensì la testimonianza più diretta di un’evoluzione sul piano delle idee; all’interno delle guide, seppure a volte con ritardo, è possibile rintracciare segni sensibili di questi mutamenti che si riferiscono spesso a un dibattito di alto livello intellettuale. Evidente è anche la problematica del rapporto che le guide avevano con una letteratura di più alto livello, prodotta dai cosiddetti ‘professori’, in contrapposizione alle forme più basse, ma maggiormente divulgative destinate all’uso dei ‘dilettanti’64. Se i testi della metà del Settecento (Titi e Cambiagi) sembrano non avere rapporti e riferimenti diretti con studi di alto livello, essendo tra l’altro dichiaratamente scritte per dilettanti e da dilettanti, col gli anni Novanta del secolo il rimando a studi eruditi e approfonditi diventa d’obbligo. Nel contesto pisano è infatti decisiva la pubblicazione, tra il 1787 e il 1793, della prima edizione in tre volumi della Pisa illustrata nelle arti del disegno di Alessandro da Morrona. Questa opera rappresenta per Pisa il segno di quella ‘rivoluzione’ cui si accennava: da Morrona ridefinisce il metodo di rapportarsi con le antichità pisane e apre la via ad una considerazione diversa per l’epoca medievale, delineando la figura di Giunta Pisano e attribuendogli un corpus di opere e molte altre derivazioni. Abbiamo già visto come la guida anonima del 1792, pur rifacendosi allo schema strutturale del Titi, attinge direttamente ai contenuti della Pisa illustrata, citando più volte il nome del da Morrona ad avvalorare la correttezza delle informazioni rese. Il testo erudito di alto livello diviene dunque fonte imprescindibile per l’autore di una guida, che trova in esso giustificazione per le notizie riportate, per le attribuzioni effettuate, per i commenti di carattere stilistico espressi. In uno studio accurato diviene dunque fondamentale anche indagare i rapporti che intercorrono tra i piani nobili della letteratura artistica e le sue manifestazioni più modeste, in questo caso le guide. Al tempo stesso sarà possibile individuare la provenienza delle informazioni presenti in una guida, determinare modi e qualità di ricezione delle stesse; nel passaggio tra questi livelli letterari l’autore della guida compie spesso delle scelte, quantitative e qualitative, ora selezionando, ora adattando i contenuti per fini specifici, dettati dagli interessi personali e dal tipo di pubblico destinatario. Attraverso controlli incrociati tra le terminologie e le occorrenze dei nomi di artisti ed opere è possibile valutare direttamente, anche grazie ai supporti informatici, il grado di compenetrazione tra questi due poli letterari. Il caso pisano risulta poi particolarmente interessante poiché l’autore di due delle guide prese in considerazione è in prima persona uno degli attori di questa ‘rivoluzione’ metodologica, quindi l’analisi della trasmissione delle informazioni tra opere erudite e guide (realizzate dal da Morrona coll’intento di compendiare le prime) viene in tal caso effettuata senza tener conto di particolari mediazioni; si tratta semplicemente di annotare quali elementi l’autore ha ritenuto opportuno trasferire dalla Pisa illustrata alle pubblicazioni minori. Ultima ma non meno importante forma di analisi per le guide storiche e la loro comparazione è il confronto tra le informazioni in esse contenute e la cartografia storica coeva o di poco precedente e posteriore. Le mappe della città di Pisa incise tra il XVII e il XVIII DA MORRONA 1812, t. II, p. 138. Giunta è la pietra di paragone imprescindibile, come lo si intende in alcuni passi della Pisa illustrata del 1812, dove si parla di tavole «simili al far di Giunta» giudicate, in base allo stile, secondo un criterio di anteriorità o posteriorità rispetto al modello. 64 Il termine era riscontrabile con differenti accezioni; in media possiamo definire col la parola ‘dilettante’ chiunque si interessasse di arte sia traendo diletto dall’osservazione e dall’erudizione legate alle forme artistiche, sia chi di pittura si dilettava praticandola a livello amatoriale. 63
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secolo si presentano come delle ‘vedute planimetriche’ in cui alcuni monumenti sono facilmente riconoscibili: il parallelo tra gli itinerari estrapolati da una guida e i monumenti raffigurati permette di prendere in considerazione discrepanze, rimandi ed eventuali collegamenti diretti tra testo scritto e incisione65. La finalità ultima dell’analisi dei testi pisani attraverso uno specifico metodo, comunque valido per tutti i corpus omogenei di guide storiche, consiste nell’instaurare una feconda dialettica tra fonti di tipo e livello differente; una singola guida deve essere confrontata con le sue ‘simili’, ma anche con testi approfonditi ed eruditi, inerenti alle tematiche artistiche affrontate nella guida stessa, e con la produzione grafica coeva - non solo se questa funziona da corredo al testo - di modo da creare un articolato sistema di raffronti che consentano di indagare la produzione letteraria locale in maniera capillare e di interrogare tutti i testi pertinenti alla ricerca con una metodologia uniforme.
Elemento di grande interesse sono le legende che in buona parte dei casi corredano queste tavole. Talvolta scarne, indicano solo i principali monumenti con un rimando numerico sulla mappa, ma in altri casi si tratta di elenchi lunghi e dettagliati, nei quali incontriamo i nomi di tutti gli edifici ecclesiastici, o comunque di rilievo, della città. Un confronto incrociato tra le tabelle degli itinerari delle guide e questi elenchi pone in evidenza analogie ed eventuali discrepanze. 65
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Le guide antiche di Roma nelle collezioni comunali 1500-1850, Catalogo della mostra, a cura di A.M. Di Stefano e C. Salvi, Roma 1991. LETI 1686 G. LETI, Vita di Sisto V, Amsterdam 1686. MĄCZAK 2004 A. MĄCZAK, Viaggi e viaggiatori nell’Europa moderna, Bari 2004. MANCINI 1620-1626 G. MANCINI, Viaggio per Roma per vedere le pitture, che si ritrovano in essa, 1620-1626 (Venezia, Biblioteca Marciana, ms. 5571). MARLIANI 1588 B. MARLIANI, Urbis Romae topographia, Venezia 1588. MARTIRE FELINI 1610 P. MARTIRE FELINI, Trattato nuovo delle cose maravigliose dell’alma città di Roma […], Roma 1610. MODIGLIANI 1989 A. MODIGLIANI, Tipografi a Roma prima della stampa. Due società per fare libri con le forme (14661470), Roma 1989. OCCHIPINTI 2007 C. OCCHIPINTI, Pirro Ligorio e la storia cristiana di Roma: da Costantino all’Umanesimo, Pisa 2007. ORBAAN 1910 J.A.F. ORBAAN, La Roma di Sisto V negli «Avvisi», «Archivio della R. Società Romana di Storia Patria», 33, 1910, pp. 277-312. PECCHIAI 1950 P. PECCHIAI, Il Campidoglio nel Cinqucento, Roma 1950. PETRUCCI 1979 A. PETRUCCI, Libri, scrittura e pubblico nel Rinascimento. Guida storica e critica, Bari 1979. PIRRO LOGORIO 1988 Pirro Logorio artist and antiquarian, a cura di R.W. Gaston, Milano 1988. RITRATTO DI ROMA ANTICA 1627 Ritratto di Roma antica […], Roma per Andrea Fei, a spese di Pompilio Totti libraro, 1627. RITRATTO DI ROMA MODERNA 1637 Ritratto di Roma moderna, in Roma per il Mascardi, ad istanza di Pompilio Totti, 1637. RODOCANACHI 1904 E. RODOCANACHI, Le Capitole Romani. Antique et moderne, Parigi 1904.
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Un metodo di studio per le guide storiche di Roma e Pisa _______________________________________________________________________________
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