L'esagono. Storia, tradizioni e antichi mestieri del baianese

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Benedetta Napolitano

L’Esagono

GIORNALISTA - PUBBLICISTA

Tutti i diritti riservati

L’ Esagono

con il patrocinio del

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Benedetta Napolitano

A mio figlio Antonio e alla memoria dei miei amati nonni.

“ Sii sempre leale e gentile con il prossimo tuo: ogni persona che incontri sta combattendo, come te stesso, una meravigliosa ma dura battaglia! � (Benedetta Napolitano)

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Presentazione “L’Esagono” è la prima testimonianza autentica di come i sei Comuni del Baianese siano stati da sempre una sola etnia malgrado i virtuali limiti territoriali che gli uomini hanno loro imposto. Solo campanilismi sterili e mentalità retrograde hanno tentato di dividere questo nostro popolo e tutt’ora ne rallentano uno sviluppo più moderno. L’approfondimento della storia di ognuno dei sei comuni evidenzia tutti questi caratteri unitari nell’ambito dell’area avellana anche se, per il Litto di Mugnano del Cardinale, permane qualche dubbio dovuto alla sua origine sannita per la particolare ubicazione montana. Tale discorso unitario è inequivocabile e si evidenzia specialmente nei caratteri folkloristici, economici (agricolo, silvo-pastorali) e nelle attività commerciali. Per la prima volta abbiamo la testimonianza vera di come sei popoli parlino una sola lingua, evidenziano una unica origine, hanno una sola cronaca negli stessi momenti storici. Benedetta Napolitano con una ricerca semplice, evidenziando per la prima volta le abitudini più comuni, ha realizzato un pregevolissimo lavoro che deriva da un serio impegno, diligente e certosino. Altra qualità dell’opera è la facilità di fusione tra avvenimenti importanti della nostra storia ed episodi comuni della nostra vita quotidiana, che vengono presentati con semplicità esemplare e ricchezza di particolari come tutto ciò che appartiene al nostro patrimonio culturale. Quante attività, mestieri, personaggi superati dal correre del tempo e dalla trasformazione di una società moderna che ci erano sfuggiti ora ritornano nella loro integrità, nel loro essere perché la nostra memoria li aveva solo accantonati. Dopo la lettura dell’opera un entusiasmo di operosità nuova e di nuovo impegno generoso invade gli amanti della Storia del territorio per realizzare una nostra società migliore e più vivibile: “La Città del Baianese” da sempre teorizzata. Tale idea-progetto si concretizza per la prima volta e sembra a portata di mano, diventa un messaggio persuasivo per gli uomini forti e determinati della nostra area. Storie talora già note, ricche di un insolito servizio fotografico, diventano un messaggio nuovo specialmente per i più giovani e per ogni tipo di operatore pubblico. Riferimenti concreti di questo progetto nell’ultimo arco di tempo risultano il Piano sociosanitario previsto dalla legge 328/2000 che vede Mugnano capofila; il P.I.T. (Piano Integrato Territoriale) per lo sviluppo degli interessi archeologici monumentali che vede Avella come capofila; l’unione dei Comuni per una migliore efficienza e funzionalità dei servizi che vede il Comune di Baiano Comune trainante. Sono questi i fatti e le promesse concrete per una nuova realtà intercomunale della nostra area e per collaudare la nuova classe dirigente ai tempi moderni. E l’impegno politico con tali obbiettivi diventa più serio e responsabile. Prof. Giovanni Colucci Sindaco di Mugnano del Cardinale

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Introduzione Finalità Il presente libro si rivolge in particolar modo ai giovani: gli uomini di domani. Essi dovranno misurarsi con problematiche complicatissime ma piene di stimoli. La globalizzazione dell’economia, della politica e del terrorismo. La risoluzione dei problemi ambientali e di quelli –etici e pratici- posti dall’avanzare delle biotecnologie. Dovranno saper cavalcare il progresso tecnologico per la ricerca di nuove fonti energetiche che rendano sostenibile -e compatibile con l’ambiente- l’indispensabile aumento di produttività, necessario per fronteggiare le emergenze e le necessità dei paesi meno sviluppati. Forse alcuni di loro andranno nello spazio. Altri dovranno combattere con disoccupazione e disagi sociali. In ogni caso, si troveranno a vivere in una civiltà dai mutamenti rapidi e imprevedibili. In tale frenetica realtà c’è il concreto rischio di perdersi, perciò è importante –soprattutto per chi non avesse la fortuna di avere un credo filosofico, politico o religioso- di avere un punto di riferimento che possa fungere da àncora e al quale approdare per riprendere fiato. La riscoperta delle proprie radici, dell’ambiente naturale, delle proprie tradizioni può –forse- servire a rigenerare le forze. Questo mio lavoro –senza troppe pretesevuole essere un piccolo, piccolissimo contributo mirante a far conoscere meglio le nostre radici. Mi auguro, perciò, che questa mia “fatica” possa essere utile –anche per le informazioni storiche, naturalistiche e statistiche che racchiude- a un discreto numero di giovani e di studenti. Esso, infine, vuole stimolare i politici di turno ad impegnarsi maggiormente per la costituzione di una “Città del Baianese”, per poter affrontare in maniera più efficace i vari problemi che ci attanagliano. Argomenti trattati La prima parte del libro è costituita da un rapido excursus storico, dalla preistoria fino ai giorni nostri, che vuole mettere in evidenza “storia e il destino comuni” dei paesi che costituiscono l’esagono. Indi, segue una dettagliata trattazione della storia dei singoli comuni e delle loro principali espressioni folkloristiche, il tutto corredato con interessanti foto, molte delle quali inedite. E’ stata aggiunta, poi, una scheda dei dati salienti di ogni Comune e l’annotazione delle sue principali risorse naturalistiche. Segue la sezione riguardante “l’ultimo secolo”, in cui vengono descritti i modi di vita del secolo scorso, alcune credenze ed usanze, i principali antichi mestieri ed alcuni dei giochi dell’epoca. Per completezza di trattazione sono stati aggiunti alcuni cenni ambientali, con una rapida disamina della flora e della fauna presenti nel nostro territorio, ed alcuni grafici e tabelle statistiche riguardanti gli aspetti demografici e produttivi del nostro mandamento.

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Metodologia Raccogliendo l’esortazione di alcuni stimati amici, è stata aggiunta in appendice una “bibliografia essenziale”, il cui scopo è quello di indicare al lettore alcune pubblicazioni che hanno trattato argomenti di cui si è parlato nel presente libro: la loro citazione non deve, pertanto, essere intesa come un elenco di fonti da cui si sarebbero attinte le informazioni. Da dove provengono, quindi, le notizie riportate nella presente pubblicazione? La risposta è che, in questo libro come nel precedente (“La Città del Baianese”), all’approccio metodologico della cosiddetta “ricerca” (su vari testi e documenti, e loro citazione) è stato preferito -tutte le volte che era possibile- quello dell’inchiesta di tipo giornalistico-divulgativo. Per quanto concerne -ad esempio- la parte archeologica, pur avendo preso visione delle pregevoli pubblicazioni del Gruppo Archeologico Avellano e della Cooperativa Territorio-Ambiente di Avella, è stato dato maggiore peso alle osservazioni e ai sopralluoghi effettuati in prima persona nei principali siti archeologici, in compagnia di persone esperte del settore (tra le quali cito la mia figlioccia e amica Elisabetta Vitale, archeologa). Per quanto riguarda la storiografia locale, ho attinto -prevalentemente- dall’imponente archivio di mio zio, don Giovanni Picariello (curatore de “La Valle munianense” ed autore di “Mugnano del Cardinale nel tempo”), oltre che -naturalmente- dagli scritti del celeberrimo Antonio Iamalio, che fu insigne professore presso il Liceo-Ginnasio Alessandro Manzoni di San Pietro a Cesarano, a Mugnano del Cardinale (e dal quale tutti gli Storici locali -indistintamente- hanno attinto), cercando -comunque- di “leggere” gli eventi locali tenendo conto del contesto storico generale. Per la parte riguardante gli antichi mestieri e le tradizioni dell’area Baianese, ho preferito effettuare interviste dirette alle persone più anziane (a cominciare dai parenti più vicini), effettuando anche registrazioni digitali di varie testimonianze, “cunti” e filastrocche (che potranno eventualmente essere utilizzate per la futura realizzazione di un cd-rom multimediale). Per gli aspetti ambientali e naturalistici ho utilizzato il materiale fornitomi da mio marito (dottore in Scienze e Tecnologie Agrarie) e le preziose indicazioni del geologo e amico Stefano Lanziello, di Baiano. Anche per i dati statistici e demografici, pur avendo preso visione di alcuni lavori (come il “Piano di Sviluppo socio-economico” della nostra Comunità Montana), ho preferito consultare direttamente le fonti primarie: annuari ISTAT, Informatore Statistico Campano, Banca Dati Demografica Evolutiva, Camera di Commercio, Uffici Comunali e del Ce.S.A. (Centro di Sviluppo Agricolo) di Baiano. Le foto, a parte quelle scattate personalmente durante i vari sopralluoghi (quella dello scheletro a pag.25 è stata addirittura scattata da mio figlio Antonio), provengono in gran parte dalla fototeca de “La nuova Gazzetta”. Altre sono state fornite da alcuni amici e dai vari fotografi della zona, alcune sono giunte in redazione via e-mail. Ringraziamenti. Oltre alle persone già citate, ringrazio per il materiale fornitomi: il carabiniere Renato Mone di Avella, l’armiere Stefano D’Apolito di Sperone, il prof. Felice Colucci (ex Sindaco di Baiano), i coniugi Rita Severo e dott. Vincenzo Marsella di Mugnano, la dott.ssa Caterina De Laurentis di

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Baiano, il prof. Carmine Montella di Baiano. E, poi, i fotografi: Pierluigi Postiglione di Baiano (che ci ha fornito anche alcune foto dell’archivio di don Pietro Foglia, di Baiano), Antonio Montuori di Sirignano, Vincenzo D’Apolito di Mugnano, Mimmo Liguori di Avella. Ricordo la grande gentilezza e disponibilità di Armando Sodano di Sperone, del prof. Rino Conte di Avella, grafico e impaginatore de “Il Meridiano” e, insieme ad essi, di tutte le persone che hanno “subìto” con pazienza , benevolenza e cortesia le mie “interviste”. Esprimo, poi, la mia riconoscenza agli UTC dei sei Comuni del mandamento per il materiale fornitomi (cartine e dati statistici). Ringrazio, inoltre, il collega giornalista Enzo Pecorelli, il prof. Carmine Strocchia e la dott.ssa Grazia D’Apolito per la cortese e preziosa lettura delle bozze. Ringrazio, ancora, mio marito per il decisivo e paziente aiuto datomi nella fase di impaginazione del testo, e l’Amministrazione Comunale del mio paese natìo che, ancora una volta, ha ritenuto di ospitare la presentazione di una mia pubblicazione nel corso dell’importante manifestazione culturale “Arte Sotto le Stelle”. Un doveroso e sentito ringraziamento va -infine- al Prof. Giovanni Colucci, Sindaco di Mugnano del Cardinale e illuminato uomo di cultura, per le belle parole usate nella presentazione del presente libro. A tutti i lettori auguro che gli argomenti trattati in questo libro possano, in qualche modo, accrescere la loro conoscenza del nostro territorio, stimolando nei più giovani la voglia di attivarsi socialmente e politicamente per realizzare, come simbolicamente rappresentato in copertina, un moderno Esagono poggiante sui valori storici e culturali delle nostre tradizioni. L’autrice Benedetta Napolitano

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Paleolitico - Osci - Volsci - Sanniti- Etruschi - Hyria - Novla

Storia e destino comuni La valle del Baianese, nonostante i “capricci” del complesso vulcanico VesuvioMonte Somma-Campi Flegrei, è stata abitata dall’uomo sin dalle epoche preprotostoriche. Interessanti tracce di insediamenti umani preistorici sono state rinvenute nel territorio di Avella, prevalentemente lungo il corso del torrente Clanio. Le testimonianze più antiche risalgono, addirittura, al Paleolitico Superiore (VIII millennio a.C.), cioè a circa 10.000 anni fa. Esse si riferiscono, con ogni probabilità, a gruppi tribali costituiti da pochi individui. Per la costituzione di un primo vero agglomerato urbano, sempre ad Avella, bisognerà attendere il IX-VIII secolo a.C.. Notizie antecedenti la fondazione di Roma (753 a.C.) sono, comunque, incerte e avvolte dall’impenetrabile nebbia dei secoli. Si ritiene che, già prima del V secolo a.C., questo territorio sia stato abitato da antiche popolazioni, come gli Osci, i Volsci, i Sanniti, le cui origini sono antecedenti agli stessi Etruschi (questi ultimi, secondo accreditati Studiosi, si stanziarono più a Nord e non si sarebbero mai spinti sino ad Avella) e ai Romani, e che interagirono, talora bellicosamente, talora pacificamente, tra di loro e con le prime colonie Greche calcidiesi. Un presunto (non ufficiale) ritrovamento di una pipa in bucchero di chiara foggia etrusca (cfr. il capitolo su Avella) farebbe supporre, in disaccordo con quanto sopra riportato, che l’antica Avella abbia avuto anche un’epoca etrusca. Ciò concorderebbe con quanto riferito da alcuni Studiosi del XVII secolo a proposito del rinvenimento, sull’altura del Morricone (a Mugnano del Cardinale), di alcuni reperti (poi scomparsi) attribuibili alla misteriosa civiltà etrusca. Poco plausibile, infine, appare una “ermetica” teoria presentata in una recente pubblicazione, che confonde la città osca di Hyria (o Yria) con una “mitica Avella fondata da Enea”. In realtà, a detta di importanti Studiosi, è più probabile che Hyria si debba identificare con la vecchia Nola. La produzione di alcune monete (didrachme, vedi foto a pagina seguente) emesse attorno al IV secolo a.C., prima Avella. Località Fontanelle da Hyria e Novla (=Nola, città Zona abitata fin dal Paleolitico nuova) e poi solo da Novla, 7

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Campania Felix - Romani - Ville prediali - Abella romana

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farebbe pensare che si trattasse della medesima città. Avella fu alleata di Nola e, insieme ad essa, si oppose a quelle popolazioni sannitiche che, dagli appennini, volevano espandersi verso la piana campana. Durante la seconda guerra sannitica, Nola ed Avella si opposero Monete coniate ad Hyria ai Romani . Avella, poi, nel 339 a.C. si pose sotto la protezione di Roma come Civitas foederata. Il nostro territorio pur facendo parte della Campania felix (si veda la mappa al termine dell’introduzione), luogo di villeggiatura dei Romani dell’epoca classica, non poteva competere, com’è ovvio, con le bellezze naturali ed ambientali della costa e delle isole campane, largamente preferitegli dagli antichi Romani. Ciononostante, come si è ben compreso in queste poche righe, esso fu ugualmente importante dal punto di vista militare, data la sua posizione strategica per il controllo della direttrice di collegamento tra la pianura campana e la valle del Sabato. Studiando gli eventi dei nostri luoghi ci si rende conto che, quantomeno nel periodo più antico, la storia dei nostri paesi finisce per coincidere per grandi linee con quella di Abella, l’antichissima città di Avella (al cui capitolo, per evitare inutili ripetizioni, si rimanda). Da questa vetusta città, più antica della stessa Roma, sono derivati, direttamente o indirettamente, gli altri cinque comuni. Quadrelle e Sperone sarebbero coevi di Avella romana, della cui struttura militare facevano parte integrante. Quadrelle (Oppidum quadrellarum), doveva essere la fabbrica di grossi giavellotti quadrangolari, detti appunto “quadrèlle”, che venivano incatramati, incendiati e lanciati da apposite catapulte contro gli elefanti degli invasori. Probabilmente, esse furono usate contro Pirro, re dell’Epiro (odierna Albania), nella battaglia di Benevento del 275 a.C., e contro il generale cartaginese Annibale, nella battaglia di Zama del 202 a.C.. Sperone, presumibilmente, costituiva l’avanguardia, la punta più avanzata del territorio della città romana. Baiano, Mugnano e Sirignano sarebbero sorti da antiche ville prediali, insieme ad altri centri abitati poi scomparsi, come ad esempio Camillanum (che doveva Storia e destino comuni

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Visigoti - Vandali - Turchi - Bizantini

trovarsi fra Mugnano ed il bosco di Arciano). Ciò concorda con gli studi del Flechia, secondo cui nel napoletano tutti i nomi di località terminanti in –ano o in –iano, deriverebbero dal nome del proprietario di una qualche villa prediale. Nell’82 a.C., durante la guerra sociale, Abella e i suoi casali furono conquistati da Silla, che li assegnò alla 47a Legione Romana (Tribù Galeria). Il dittatore romano, dopo aver occupato Avella con le sue truppe, vi aveva stabilito una colonia militare (oppidum), aveva sottratto i terreni ai vecchi proprietari e li aveva distribuiti ai suoi veterani (dai quali proviene il cognome Vetrano, così diffuso nei paesi del baianese). Nel 31 a.C., Augusto, dopo la vittoria di Anzio, intraprende una politica di pacificazione sociale. A livello locale, egli concede una certa autonomia alle popolazioni assoggettate e ridona la municipalità ad Avella. Inoltre, cerca sia di favorire l’integrazione con le popolazioni locali sia di promuovere la permanenza e la sussistenza dei suoi fedeli guerrieri, con la concessione di terreni. Essi, perciò, richiamano le loro famiglie, ricercano le zone più salubri dell’ager pubblicus e vi costruiscono le loro ville prediali. Queste, com’è noto, non erano luoghi di villeggiatura ma fattorie, dove i nobili romani abitavano e si allenavano alle armi, circondati dai loro schiavi e liberti. Esse erano costituite dalla casa padronale, dalle dimore della servitù, dalle tettoie per il ricovero degli animali e dai magazzini per le derrate alimentari. Di forma quadrangolare, con al centro un grosso spiazzale (di due o tremila metri quadrati) e provviste di un pozzo o di una cisterna centrale. Dopo la caduta di Roma -e quindi di Avella- le plebi, per sfuggire alle vessazioni delle diverse popolazioni barbariche, trovarono rifugio nelle caverne dei monti vicini (Summonte, Campimma, Litto, Montevergine, di San Michele, dei Santi, del Monaco ed altre). Solo con l’avvento dei Normanni, nella seconda metà dell’XI secolo d.C., essi ridiscesero a valle o in collina e, raccogliendosi attorno alle antiche ville prediali, diedero origine a vari agglomerati urbani. Le nostre zone furono invase prima dai Visigoti di Alarìco (410 d.C.) e poi dai Vandali di Genserico (455 d.C.). Nel 589 d.C. entrarono a far parte del Ducato di Benevento retto dal longobardo Autari. Avella, facendo parte del gastaldato di Nola, con la Divisio Ducatus dell’849 tra Radelchi e Siconolfo, fu assegnata al principato di Salerno, diventandone uno dei punti strategici, essendo posizionata al confine tra i ducati di Napoli e di Capua ed il principato di Benevento. I territori dell’agro baianese furono, poi, conquistati dai Turchi (Saraceni) nell’anno 884 e dai Bizantini di Napoli nell’887. In seguito, passarono prima al Principato Normanno (1075) e, successivamente, agli Svevi di Federico II (si vedano, ancora una volta, i capitoli su Avella e sugli altri singoli comuni). Avella, Sperone e Baiano proseguirono insieme la loro storia. Mugnano del Cardinale, Quadrelle e Sirignano legarono le loro sorti al feudo di Monteforte 9

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Bagliva - Via Regia delle Puglie - Cenobio di S. Pietro a Cesarano Benedetta Napolitano

(1272), per poi ritornare, grazie a Nicolò Orsini, Conte di Nola, nuovamente a far parte della Baronia di Avella (insieme anche a Monteforte). Nel quattrocento, Mugnano del Cardinale, chiamato allora Mugnano di Montevergine passa a far parte della Commenda di Montevergine, separando nuovamente il proprio destino da quello di Avella e godendo dei numerosi vantaggi che gli derivarono dall’appartenere ad un’importante Istituzione Ecclesiastica (ciò fino al 1511, quando passò alla Casa dell’Annunziata di Napoli). Nel 1510, Enrico Orsini, conte di Nola, istituisce a Baiano, la Bagliva (o “Corte Baiulare”), che vi resterà fino al 1861 (anno dell’Unità d’Italia). Questa istituzione, detta anche Baliva o Baliato, comprendeva sia le funzioni giudiziarie sia quelle di imposizione e riscossione dei tributi. Il baricentro amministrativo da Avella veniva dunque a spostarsi a Baiano, cui, da quel momento, tutti gli abitanti del comprensorio dovevano far capo per le varie incombenze impositive e giudiziarie. L’apertura (1757) della Via Regia delle Puglie (ex Strada di Terra di Lavoro, attuale Strada Statale 7 bis), fatta costruire da Carlo III di Borbone, che aveva lasciato Avella fuori dal suo tracciato, diede a Baiano l’opportunità di accrescere ulteriormente la sua importanza nei secoli successivi. E’ noto, infatti, che la rete viaria precedente si sviluppava secondo due direttrici. Un primo tracciato, quello più importante, protetto da ben due castelli, partiva da Roccarainola, passava davanti Monteforte. Fontana Carlo-III al castello medioevale di Avella, quindi per l’antico borgo di Sirignano (località San Ciliesto) e per Quadrelle, per poi inerpicarsi verso il castello svevo del Litto, di Mugnano del Cardinale, e proseguire verso Montevergine. Un secondo tracciato, più a valle, collegava Nola con Monteforte passando per Sperone (molto più all’interno, rispetto alla Nazionale) e poi puntava verso la base di Arciano, passando per l’esterno di Baiano e tra gli antichi abitati di Pontem Mianum (poi divenuta Mugnano del Cardinale) e Camillanum (oggi scomparso). Nel frattempo, nel 1641, a Mugnano del Cardinale, era stato fondato il Cenobio di San Pietro a Cesarano che, nei secoli seguenti, rappresentò il centro morale e culturale della valle del baianese. Alcuni Cronisti dell’epoca ci raccontano che, durante i secoli XVII e XVIII, le nostre contrade furono colpite da un’impressionante serie di eventi nefasti. Epidemie di peste, nel 1635 (probabile “coda” della pestilenza del 1629 descritta Storia e destino comuni

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Editto di Saint-Cloud - Epidemie

dal Manzoni ne “I promessi Sposi”) e nel 1656. Eruzioni vesuviane che ricoprirono le nostre terre di ceneri e lapilli (e, nel 1631, anche di alghe e pesci cotti). Nel 1640 un’invasione di cavallette distrusse i raccolti e provocò una grave carestia, cui seguirono altre numerose eruzioni, inondazioni e morìe di persone e di animali. L’impressionante sequenza di epidemie era dovuta, oltre che alla malnutrizione, alle miserrime condizioni igieniche in cui versavano i centri abitati in quell’epoca storica. Tornando al XVII secolo, conviene ricordare che, all’epoca, vi era l’abitudine di seppellire i morti (almeno quelli appartenenti ai ceti più elevati) all’interno di chiese, monasteri e cappelle cimiteriali. In queste ultime, i corpi venivano tumulati, nella nuda terra, in semplici fosse poste sotto il pavimento. Le chiese più grandi erano provviste di sotterranei, ai quali si accedeva tramite un botularium (una grossa lastra di Scolatoi o cantarelle marmo che fungeva da chiusura). Le salme venivano poste sedute in nicchiette a forma di sedili dette cantarelle. Successivamente le ossa venivano raccolte in un ossario posto generalmente dietro l’abside. Chiese e cappelle cimiteriali erano provviste di sfiatatoi che, soprattutto nei periodi più caldi, esalavano pestiferi e malsani effluvi che favorivano, insieme alle scorrerie dei topi, le frequenti epidemie. Solo con l’editto napoleonico di Saint-Cloud (promulgato in Francia il 12 giugno 1804 ed esteso in Italia il 5 settembre 1806) si pose fine a questa usanza e si cominciarono a costruire i primi cimiteri fuori dai centri abitati. Facciamo, ora, un salto di qualche altro decennio e arriviamo alla Rivoluzione Francese (1789), i cui princìpi, diffusi da Napoleone Bonaparte in tutta Europa, localmente portarono alla disintegrazione della potente baronìa di Avella. Nel 1806, il regno di Napoli, tolto a Ferdinando IV di Borbone, fu dato, com’è noto, prima a Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone (che emanò la legge che aboliva la feudalità) e, più tardi, quando questi divenne re di Spagna (1808), a Gioacchino Murat, cognato dell’imperatore (che rese operativa tale legge). Ogni feudo, perciò, veniva ad essere diviso in tre parti: un terzo andava al vecchio feudatario; un terzo agli istituendi comuni; un terzo al demanio statale 11

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Brigantaggio - Giacobini e Sanfedisti

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per poter procedere alla lottizzazione e all’assegnazione a prezzi modici ai contadini e ai privati. Spesso i poveri cafoni e i bifolchi, non avendo alcun potere di acquisto, funsero da prestanomi per borghesi, mercanti ed altri galantuomini che, con pochi spiccioli, costituirono o consolidarono le proprie fortune. Molte delle famiglie agiate dei nostri paesi acquisirono in tale modo le proprie ricchezze. I primi ad approfittare di questa legge furono i cittadini di Avella (1809), seguiti da quelli di Baiano (1810), di Sirignano, di Mugnano, di Quadrelle e, per ultimo (1836) di Sperone. Furono assegnate ad Avella le proprietà di Bosco di Ciesco, del Castello, delle Lenze, di Campo di Volpe e Sopraciesco. A Baiano andarono Arciano, Campimma, Carbonara, Santo e Briganti catturati dalla Guardia Nazionale Torone. Mugnano ebbe il Litto. Sirignano ottenne il Tuoro e Sperone la Paradina. La legge eversiva della feudalità, ottima nelle intenzioni, nella sua applicazione pratica finì per ridurre alla fame le popolazioni rurali. La borghesia, come abbiamo visto, aveva usurpato alle plebi le quote di terreni baronali loro spettanti. Inoltre, queste ultime avevano perso, improvvisamente, il diritto degli usi civici (raccolta di legna e castagne, uso di pascoli e di seminativi), giacché i terreni erano divenuti di proprietà o dei comuni o della ricca borghesia (i galantuomini). I popolani più deboli e timorosi si rassegnarono ad una vita miserevole ma i più ribelli si organizzarono in bande armate (le “comitive”) e diedero vita al fenomeno del brigantaggio (che poi doveva far sentire maggiormente i suoi effetti nel 1848 e negli anni a cavallo dell’Unità d’Italia). In questa prima fase (1817) l’agro baianese era controllato dalle bande di Tuppillo (al secolo Giuseppe Caruso fu Antonio di Sirignano), Francesco Napolitano (alias Romaniello) e Francesco Abbate di Domenico, di Avella. Nella confusa situazione politica di quel periodo avvenne, a Mugnano del Cardinale, un importante episodio storico: un sanguinoso scontro tra giacobini e sanfedisti (1799). In quell’occasione i mugnanesi (presumibilmente appoggiati dal Clero, solidale con i Borboni) si schierarono contro i repubblicani (ndr. l’importante episodio sarà trattato, per evitare ripetizioni, nel capitolo di Mugnano). In seguito al congresso di Vienna (1814-1815) che, dopo la caduta di Napoleone, stabiliva il ripristino delle leggi e degli ordinamenti in vigore prima del 1789, il Regno di Napoli fu restituito a Ferdinando IV di Borbone, che rinunciò al duplice titolo di “Re di Napoli e di Sicilia”, per assumere quello di Ferdinando I, re delle Due Sicilie, trasferendo la capitale da Palermo a Napoli. Il tentativo di restaurazione Storia e destino comuni

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Società segrete - Unità d’Italia

del vecchio ordinamento comportò, ovunque, la ribellione delle popolazioni e sorsero un po’ dappertutto le società segrete (come la Carboneria). Ai primi di luglio del 1820 le guarnigioni di Nola e di Avellino, per opera di due ufficiali di cavalleria, Michele Morelli e Giuseppe Silvati, e del prete Luigi Minichini, inalberarono il vessillo dei Carbonari (azzurro, rosso e nero), e al grido “viva il Re e la costituzione di Spagna” mossero verso Napoli. A capo degli insorti si mise il generale Guglielmo Pepe (che aveva già militato con Murat) con parte della guarnigione di Napoli. Il 13 di luglio Ferdinando di Borbone giurò sul Vangelo la liberale costituzione di Spagna. I Onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto ( prima guerra mondiale), concessa a nostri compaesani, in quella De Rosa Domenico di Sirignano occasione, si dimostrarono imbelli e timorosi e non si aggregarono all’esercito del Minichini, con la cocente delusione di Nicola Luciano, di Avella, fervente carbonaro. Facciamo un altro salto e arriviamo all’unificazione d’Italia. Il 18 febbraio 1861 si inaugurò a Torino il primo Parlamento italiano, e il 14 marzo Vittorio Emanuele fu proclamato re d’Italia. Le condizioni delle popolazioni rurali, però, non migliorarono in seguito a questo importante avvenimento politico. Semplicemente i nuovi padroni (i liberali), presero il posto dei vecchi (i galantuomini) e si appropriarono dei beni demaniali. Quindi, mentre con i Borboni (Ferdinando II), in seguito ai moti del 1820 e del 1848 e con lo scopo di tenere sotto controllo il fenomeno del brigantaggio, le affamate popolazioni rurali avevano riavuto parzialmente gli usi civici (legnatico, erbatico, fogliatico, soccida e castagnatico), con l’Unità d’Italia avevano visto peggiorare la loro condizione. Il nuovo governo, infatti, per far fronte alle nuove spese necessarie per la ristrutturazione del nascente Stato Unitario, non aveva trovato di meglio che svendere i beni ecclesiastici. Ciò aveva determinato un ulteriore impoverimento delle classi 13

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Il brigantaggio nel Baianese

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più deboli (perdita dell’uso, tollerato, dei fondi ecclesiastici) e la reazione (più o meno palese) di gran parte del Clero. A livello locale, questo comportò la recrudescenza del brigantaggio (soprattutto fra il 1861 e il 1865) che, questa volta, fu sfruttato dai Borboni (Franceschiello), i quali, cavalcando il malcontento popolare, speravano in una insurrezione dell’intero territorio di Terra di Lavoro, che ridesse loro il trono (magari a Caserta). Questa seconda fase del fenomeno del brigantaggio ebbe, nell’agro baianese, i suoi maggiori esponenti nei fratelli Giona e Cipriano La Gala (di Nola), che avevano posto le loro basi sui Monti di Avella e sul Massiccio del Taburno. Questi “scorridori” (come venivano anche chiamati), che giunsero a formare un piccolo esercito di oltre trecento armati, non si limitarono solo a “togliere ai ricchi per dare ai poveri” ma, come riportano alcuni atti ufficiali dell’epoca, commisero numerosi misfatti ai danni delle popolazioni di Sirignano, Quadrelle, Avella e Moschiano non disdegnando frequenti sortite nel Sannio e nella provincia di Terra di Lavoro. Questa sanguinaria banda di briganti venne sgominata in una cruenta battaglia, il 18 dicembre 1861. I fratelli La Gala riuscirono, però, a mettersi in salvo e, quasi a voler confermare i loro rapporti col clero, ripararono nello Stato Pontificio. Più piccole, ma non meno feroci, furono le “comitive” di Antonio Manfra di Monteforte, e quelle di Nicola Picciocchi di Baiano, di Francesco Abbate e di Giuseppe Lauria. La più temibile fu, probabilmente, quella di Angelo Bianco, detto Turri Turri, di Mugnano del Cardinale, che si rese responsabile, tra l’altro, dell’uccisione del patriota quadrellese Andrea Mattiis, e che terrorizzò la banda musicale di Avella (per il solo fatto che i suonatori, come i garibaldini, portavano un berretto rosso). Questa banda di delinquenti sanguinari fu presto sgominata dalla Guardia Nazionale (cfr. capitolo su Mugnano). Baiano. Anni ‘50 Molti briganti nostrani, secondo quanto ci tramandano i cronisti dell’epoca, godettero della Baiano.21.04.1933. Cerimonia di simpatia e della protezione consegna del libretto di pensione delle popolazioni locali. E’ noto, infatti, che le carbonaie (le donne che dai boschi di Campimma, Litto e Tora, portavano a dorso di muli il carbone nei vari paesini) erano il tramite con il quale i signorotti filoborbonici fornivano di provviste e di munizioni la banda di Storia e destino comuni

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Emigrazione - Nascita del “mandamento” - Circumvesuviana - Fascismo

Nicola Picciocchi. E’ risaputo, inoltre, che essi ebbero anche il sostegno delle suore del monastero di Santa Filomena: la madre superiora, suor Concetta Attanasio (che aveva personali vincoli di amicizia con i borboni) fu addirittura arrestata per questo. Vale la pena ricordare che un’altra conseguenza delle condizioni miserevoli di quel periodo fu una prima ondata migratoria (1860-1886) che interessò le nostre popolazioni fino al 1914 (prima guerra mondiale). Questo primo flusso migratorio si diresse, prevalentemente, verso gli Stati Uniti d’America. I nostri paesi, già compresi nella provincia di Terra di Lavoro (l’attuale provincia di Caserta), distretto di Nola (uno dei cinque in cui si divideva la provincia), circondario di Bajano (uno degli otto in cui si divideva il distretto) passano, dopo il 1861, con l’Unità d’Italia e con il conseguente nuovo assetto politico e amministrativo, prima al Sannio e, poi, alla provincia di Principato Ulteriore (o Principato Ultra), distretto (o circondario) di Avellino, mandamento di Bajano. Da tale ripartizione amministrativa deriva, quindi, il termine “mandamento” comunemente usato da tutti gli abitanti del baianese per definire l’intero circondario, l’esagono dei sei comuni. Esso, infatti, (Legge Rattazzi,1859) indicava una circoscrizione amministrativa intermedia tra il circondario e il comune, in vigore fino al 1923. L’11 luglio 1885 fu inaugurata la ferrovia Napoli-Nola-Bajano, mentre i collegamenti con Avellino avvenivano tramite rocambolesche “corse” di robuste diligenze trainate da temerari cavalli. Come già anticipato, la fine del XIX secolo e l’inizio del XX (fino alla prima guerra mondiale) videro Baiano. Anni ‘50. le prime emigrazioni di massa (a cui poi dovevano seguire, mezzo secolo dopo, quelle del secondo dopoguerra). Durante l’era fascista le nostre popolazioni, a detta dei nostri nonni, videro migliorare per alcuni aspetti la loro situazione (maggiore ordine, istruzione, prime pensioni, refettori dell’E.C.A.), ma dovettero anche subire la tracotanza dei podestà e degli squadristi. I gruppi più esagitati erano quelli di Mugnano del Cardinale che, in più di un’occasione, ebbero dei violenti scontri con i loro compagni di partito di Baiano. In alcune occasioni, ci furono anche delle revolverate. Quando, il primo settembre 1939, l’esercito di Hitler aggredì la Polonia, molti napoletani temettero, a ragione, l’inizio della seconda guerra mondiale. Circa 15

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Gli sfollati - Seconda guerra mondiale

Benedetta Napolitano

duecento famiglie, pari ad un migliaio di persone, giunsero a Baiano grazie alla linea ferroviaria della circumvesuviana. Si trattava, quasi sempre, di famiglie di commercianti o dell’alta e media borghesia. Persone agiate e professionisti che portarono una ventata di innovazione nei piccoli paesi del comprensorio baianese. Rimasero per pochi mesi, fino a gennaio del 1940. Poi, illusi dalla politica di non belligeranza di Mussolini, ritornarono a Napoli. Ma quando, nel giugno del 1940, l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania, ci fu un nuovo e più consistente arrivo di napoletani. Ma il fenomeno degli sfollati, come testimoniano i nostri compaesani più anziani, assunse dimensioni drammatiche nell’autunno del 1942. I frequenti bombardamenti di tedeschi ed americani sulla città partenopea provocarono morte e distruzione, spingendo i nostri amici napoletani ad abbandonare la città per rifugiarsi nei paesini di provincia, dove potevano sentirsi più al sicuro e nelle cui campagne potevano trovare più facilmente di che sfamarsi. La popolazione del mandamento di Baiano si triplicò. Intere famiglie, composte spesso di otto o dieci persone, si rassegnarono a vivere in un’unica stanza. La solidarietà dei nostri compaesani fu concreta e discreta e durò circa tre anni. Ma, naturalmente, gli sfollati napoletani si diedero da fare per proprio conto e s’ingegnarono nella coltivazione dei campi, nel commercio e nel contrabbando (della pasta e del grano provenienti dalla provincia di Foggia; dei salumi nostrani e delle sigarette -rispettivamente- verso e da Napoli). Purtroppo, il sovraffollamento e le scarse condizioni igieniche che ne derivarono provocarono l’insorgenza di gravi epidemie di vaiolo e di tifo, difficili da fronteggiare per la carenza di medicinali. Nel mese di settembre del 1943, il mandamento conobbe, in maniera ancora più diretta, gli orrori della guerra. Il 18 di quel mese i cacciabombardieri americani, nell’intento di scacciare i tedeschi, sganciarono alcune bombe su Baiano, provocando 18 morti e numerosi feriti. Anche su Mugnano del Cardinale fu sganciata qualche bomba che, per fortuna, o per intervento di Santa Filomena, mancò l’obbiettivo. Seguì la mobilitazione generale della impaurita popolazione che, ripetendo il percorso fatto dai loro antenati per sfuggire agli invasori medioevali, si rifugiò sulle montagne circostanti. La gente fuggita sulle colline, non potendo portare con sé tutti i suoi averi e volendoli proteggere dalle razzie dei tedeschi e dai numerosi “sciacalli”, li nascondeva nei posti più impensati, li murava nei piccoli vani (mandrilli) dei forni a legna o li calava nei pozzi e nelle cisterne. Storia e destino comuni

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L’Esagono

Dopoguerra - Voto alle donne - Primo sciopero del Baianese

I soldati tedeschi, allo scopo di rallentare l’avanzata dell’esercito degli Alleati, fecerono saltare alcune abitazioni presso il “ponte” del Cardinale, a Mugnano. Minarono la strada nazionale (nei pressi della curva ove ora si trova la clinica “Villa Maria”) e posero la loro artiglieria nella zona del Fusaro di Avella: il nostro comprensorio stava per diventare, suo malgrado, teatro di una violenta battaglia, ma un provvidenziale e violento nubifragio, tra il 2 e il 3 ottobre 1943, spazzò via gran parte dell’artiglieria della retroguardia teutonica, demoralizzando i tedeschi che decisero di abbandonare le loro postazioni. Ai primi di ottobre di quello stesso anno, due colonne di soldati americani, una proveniente da Monteforte e l’altra da Summonte, scesero a “liberare” i nostri paesi dai tedeschi occupando, a loro volta, i migliori palazzi di Mugnano del Cardinale, Baiano e Avella. Qui posero la loro artiglieria, sullo stesso suolo che, nel 1976, ci avrebbe restituito l’anfiteatro romano. Altri campi militari alleati furono posti a Baiano, a Sperone (marocchini) e ad Avella (inglesi), ove costruirono la piscina del Fusaro. L’occupazione alleata si protrasse per circa un anno e i nostri intraprendenti compaesani stabilirono proficui rapporti “commerciali” (contrabbando) con i soldati alleati. Alcune vecchiette raccontano anche di alcuni casi di ragazze che familiarizzarono eccessivamente con i soldati. Nel dopoguerra cominciò l’emancipazione femminile nel baianese. Com’è noto, le donne poterono votare per la prima volta solo nelle amministrative della primavera del 1946 (D.L.luogotenenziale n.23 del 2 febbraio 1945) e, subito dopo, nel Referendum Istituzionale del 2 giugno 1946. Il 18 aprile 1948 (prime elezioni politiSperone. Radio Lem. 1976. che) a Sirignano, unico fra i paesi del mandamento, vinsero le sinistre e le neovotanti donne, insieme agli uomini, presero parte ad una rumorosa sfilata per tutto il circondario. Mugnano del Cardinale, in quei tempi, si caratterizzò invece per una costante e netta prevalenza delle destre. Ebbene, negli anni 1948-1950, vi fu il primo vero sciopero del mandamento di Baiano. Protagoniste furono le operaie delle fabbriche di ciliegie ( ‘e cirasare), guidate dall’allora giovanissimo comunista Stefano Vetrano, che sarebbe poi diventato deputato della Repubblica. Un’altra tappa importante del nostro mandamento fu l’apertura, nel 1965, del casello dell’autostrada di Baiano (A-16), che migliorò in maniera 17

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I gruppi musicali - Le radio private - Tele Baiano - I giornali locali Benedetta Napolitano

considerevole i nostri collegamenti con il resto del Paese. I mitici anni ‘60 e il boom economico, sfiorarono appena i nostri paesini. Ci furono alcuni gruppi musicali (The Florials, I Dolci Pensieri ed altri) e ci fu anche una certa ripresa dell’economia, dovuta soprattutto alle rimesse degli emigranti (da Francia, Svizzera e Germania) e degli operai che Sirignano. 1981. Post-terremoto. si erano trasferiti nel Nord Proprietà Saveriano.Via Nazionale. industrializzato. Gli anni ‘70, gli “anni di piombo”, videro -anche da noi- qualche arresto di persone appartenenti ai NAP (nuclei armai proletari) o vicini ad altri movimenti terroristici (brigate rosse). Ma si trattò solo di qualche caso isolato. Nacquero numerose radio private (Radio Lem di Sperone, Radio Mandamento di Baiano, ed altre). La prima ed unica televisione privata del comprensorio fu Telebaiano (1982-1994) del “maresciallo” Peppe Esposito. Ad un secolo di distanza dalla fondazione del primo periodico del baianese ( “La favilla” del 1882) videro finalmente la luce alcuni giornali locali (“l’Alba”, “la Voce”) che ebbero vita molto breve (ad essi sono seguiti, in tempi più recenti “Il Meridiano”, del Prof. Pierino Luciano di Avella, e “La nuova Gazzetta” del dott. Pellegrino De Rosa, di Sirignano). In seguito al terremoto del 23 novembre 1980, che funestò l’Alta Irpinia, e a quello del 14 febbraio 1981 (con epicentro tra i Monti di Avella) i nostri paesi subirono danni di media entità. Più dannosa delle stesse scosse telluriche fu la gestione del post-terremoto che, se da un lato, con la ricostruzione offrì un po’ di respiro alla anemica economia locale, dall’altro produsse, in nome di una presunta rimodernizzazione, la scellerata distruzione di graziosissimi centri storici e di importanti ed imponenti edifici, che avrebbero potuto essere invece conservati e valorizzati. Dal punto di vista ecclesiatico, i paesi del baianese, hanno fatto parte della Diocesi di Avella (che comprendeva anche Roccarainola) fino a circa la metà del XIII secolo. Poi passarono (tra il 1215 e il 1264) alla Diocesi di Nola (II decanato). Il nostro mandamento, storicamente, culturalmente e, finanche, linguisticamente, ha maggiori affinità col napoletano che con l’entroterra irpino. Ciò, insieme ad altre considerazioni di ordine politico e Storia e destino comuni

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L’Esagono

Il Baianese oggi - Città del Baianese - Provincia di Nola - CDR

amministrativo, ha spinto negli ultimi anni alcuni politici locali a caldeggiare la possibilità della istituzione di una “provincia di Nola”, nella quale entrare a far parte -per avere maggior peso politico- non come singoli comuni ma, tutti insieme, come “Città del Baianese”. Le ultime vicende (costruzione del CDR al confine di Avella) hanno, infatti messo in evidenza ancora una volta il fatto che i sei comuni divisi non godono, attualmente, di alcuna considerazione sia da parte della Provincia sia della Regione. A proposito della mancanza di iniziativa dei nostri politici in sede amministrativa, si tramanda il seguente divertente aneddoto: Un nostro ex Consigliere Provinciale, uomo simpaticissimo e stimato professionista, o perché privo di idee o per “educazione”, non aveva mai osato prendere la parola durante le sedute del Consiglio Provinciale. Naturalmente, per questo motivo era aspramente criticato dagli avversari politici. Ma un bel giorno, nell’ultima seduta del Consiglio Provinciale, tra la sorpresa generale, si alzò di scatto in piedi e, puntando minacciosamente l’indice contro l’esterefatto e sorpreso Presidente Provinciale, urlò: «ma la volete chiudere o no quella benedetta finestra dietro le spalle; non vedete che c’è corrente?».

Esistono (così si dice) la “Comunità Montana Vallo di Lauro e Baianese”, il Parco Regionale del Partenio (che comprende Avella, Baiano, Quadrelle e Sirignano) e i PIT (piani integrati territoriali) ma, al momento, non si apprezza nessun loro effetto positivo sull’economia o sull’ambiente. Nel 2002, il mandamento del Baianese non è più terra di emigranti. Esso, anzi, accoglie -secondo alcune stime sicuramente più veritiere degli ultimi dati ISTATcirca trecento extracomunitari, provenienti in gran parte dalle sponde meridionali del Mediterraneo e dai Paesi del vicino est europeo (Polonia, Ucraina, Romania). Un consistente numero di persone provenienti dall’hinterland partenopeo si sta trasferendo nei paesi del baianese, ove è possibile trovare abitazioni a prezzo più conveniente e, soprattutto, un ambiente più tranquillo. Ma la nostra non è un’economia ricca. I nostri problemi sono quelli tipici delle zone interne non industrializzate e incapaci di valorizzare le loro risorse ambientali che, tra l’altro, nel frattempo vanno degradandosi. Periodicamente si ha notizia di rifiuti (più 2002. Il costruendo CDR o meno tossici) interrati, più o meno clandestinamente, in vari siti (vallone Acquaserta di Quadrelle, Panoramica di Avella, Fossa di Mugnano, Vasca tra Avella e Sperone). Il fenomeno droga è in preoccupante aumento. Urgono seri e decisivi provvedimenti. 19

Storia e destino comuni


Foto satellitare e coordinate geografiche del “mandamento”

Benedetta Napolitano

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Rare foto satellitari del nostro territorio (sotto) e della piana campana (in alto) 1-Complesso vulcanico Monte Somma - Vesuvio; 2-Monti Lattari (Penisola Sorrentina); 3- Monti di Sarno; 4- Monti di Lauro; 5- Monti di Avella; 6- Massiccio del Taburno; 7- Avellino; 8- Cis di Nola; 9- Alenia di Pomigliano d’Arco; 10- Mandamento di Baiano. Le coordinate del nostro mandamento (riferite a Baiano) sono: 40°57’00’’ latitudine Nord e 14° 37’ 00’’ longitudine Est 9 3 8 4

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L’Esagono

Origini del nome Abella - La citazione nell’Eneide

Avella Avella si chiamava, anticamente, Abella. Questo nome deriverebbe, secondo alcuni Autori, da Aberula, termine osco che significherebbe “città del cinghiale” (aper in latino). Tale ipotesi sarebbe avvalorata dal fatto che nell’attuale stemma civico (detto dagli avellani più anziani affettuosamente ‘o puorco) si trova raffigurato proprio un cinghiale con l’Appennino sullo sfondo. Secondo altri, il nome della città proverrebbe da Abblona, città delle mele, toponimo indoeuropeo derivante da Apfer o Apple. Altri, ancora, ritengono che esso derivi da Abel, campo erboso, nella lingua di una popolazione anatolica di razza semitica che sarebbe capitata dalle nostre parti fuggendo dai Caldei, dopo la guerrra di Troia. La stessa popolazione si sarebbe spinta, successivamente, nell’entroterra irpino e vi avrebbe fondato Abellinum, il primo nucleo della moderna Avellino. Alcuni Studiosi ritengono -infine- che il nome Abella possa derivare da avellere, verbo latino che significa sradicare, spazzare via; in riferimento al forte vento di tramontana che sferza le nostre terre nelle stagioni invernali ed autunnali. L’ipotesi che Abella significasse semplicemente poco incline alla guerra non viene generalmente accettata, anche in considerazione dell’indole fiera dell’antico popolo avellano. Secondo la leggenda, Avella sarebbe stata fondata da Èbalo, alleato di Turno (re dei Rùtuli) che si opponeva ad Enea sbarcato sulla costa laziale. Virgilio, infatti, nell’Eneide (libro VII, 733-743) racconta quanto segue: «Nec tu carminibus nostris indictus abibis, (733) Oebale, quem generasse Telon Sbethide nympha Fertur, Teleboum Capreas cum regna teneret, iam senior; patriis sed non et filius arvis contentus late iam tum dicione tenebat Sarrastis populos et quae rigat aequora Sarnus quique Rufras Batulumque tenet atque arva Celemnae et quos maliferae despectant moenia Abellae, (740) Teutonico ritu soliti torquere cateias, tegmina quis capitum raptus de subere corex, aerataque micant peltae, micat aereus ensis.». (743) «Né di te tacerò nel mio canto; Èbalo nato da Telon unito ormai vecchio alla Ninfa Sebètide quando su Capri regnava coi suoi Teleboi; ma il figlio non pago dei campi paterni già dominava i Sarrasti e i campi che il Sarno attraversa, le genti di Bàtulo, di Rufra e Calemma e quelle che le mura di Abella ricca di mele guardano in basso dall’alto; usano lanciare catée al modo Teutonico e copre il lor capo corteccia strappata dal sughero e brillan gli scudi di bronzo, le spade di bronzo».

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Gli insediamenti umani preistorici

Benedetta Napolitano

Da questa descrizione del sommo poeta si evince che gli antichi avellani usavano lanciare le catèe, una sorta di sottili giavellotti legati da una fune che ne consentiva il recupero, e che si coprivano il capo con corteccia di quercia da sughero. Ma gli archeologi e i paleontologi ci rivelano che il territorio dell’odierna Avella era abitato dall’uomo ancora prima. Fin dalle ere pre-protostoriche. Numerosi ritrovamenti risalgono, infatti, al Paleolitico Superiore (VIII millennio a.C.), al Tardo Neolitico (IV millennio a.C.) e all’Età del Bronzo (XIV secolo a.C.). In particolare, il sito Presunta pipa etrusca (in bucchero) archeologico individuato in località Mulino S.Antonio, alle sorgenti del torrente Clanio, ha restituito una serie di significativi reperti che suggeriscono antichi rapporti delle popolazioni indigene con altri nuclei preistorici, anche notevolmente distanti dalla valle baianese. Infatti, accanto a ceramica figulina con decorazione dipinta databile a circa seimila anni fa (Tardo Neolitico), sono state rinvenute alcune asce di selce importate dal Gargano, asce in pietra verde provenienti dalle regioni alpine e strumenti in ossidiana, originaria delle Eolie (Lìpari) e dell’isola di Palmarola. Lo studio della sequenza stratigrafica, effettuato in vari siti del territorio avellano (lungo il Vallone Serroncello, località Fusaro, Fontanelle, Caravatta, Campopiano, Mulino S.Antonio ed altre) ha posto in evidenza l’alternanza di alcuni paleosuoli con eventi vulcanici vesuviani e flegrei. Strati di materiale vulcanico (pomici, lapillo, ceneri) e strati di dilavamento si alternano ad antichi suoli (paleosuoli) che ci hanno restituito resti di animali (cervi, orsi, caprioli, tartarughe, cinghiali e così via) e primitivi manufatti. Questi reperti rappresentano un’ulteriore conferma di come questo territorio sia stato costantemente abitato dall’uomo, nonostante i numerosi e devastanti eventi eruttivi subiti. Inoltre (secondo una notizia non confermata), alcuni intraprendenti avellani avrebbero calato una telecamera con relativo faretto all’interno di una fossa del terreno, riuscendo ad osservare, in tal modo, una grotta con all’interno primitive pitture rupestri. La persistenza dell’uomo in questo territorio è dovuta alla presenza di numerose grotte, alla ricchezza di selvaggina e di vegetazione e, soprattutto, alla presenza Avella

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L’Esagono

Il torrente Clanio - I Sanniti - I Greci - La “Civitas foederata”

di un importante corso d’acqua: il Clanio. Questo torrente, a giudicare dalle incisioni e dalle grotte che ha lasciato lungo il suo corso, alcune migliaia di anni fa doveva avere una portata d’acqua ben più consistente di quella attuale e doveva essere, presumibilmente, navigabile tramite zattere e canoe almeno in alcuni tratti. Esso ha rappresentato un’importante via naturale di popolamento, di comunicazione e di interscambio dell’intera area, mettendo in comunicazione le coste del Tirreno (ove termina il suo corso, nei pressi della foce del fiume Volturno) con l’entroterra campano, Alto Clanio favorendo (come risulta da recenti scavi nell’area a sud dei Regi Lagni) l’addensamento di insediamenti umani lungo tutta la direttrice fluviale. I primi villaggi sorsero sulle alture del Clanio circa mille anni prima di Cristo. Ma il primo vero e proprio agglomerato urbano si fa risalire, comunemente, a prima del secolo VIII a.C. (quindi, ad ancora prima della fondazione di Roma, che la tradizione fa risalire al 21 aprile del 753 a.C.). Avella fu, quindi, Greca Calcidiese, Osca, Etrusca, Sannita e Romana (oltre che, in epoche successive, Normanna e Saracena). Greci ed Etruschi provenivano dalla costa tirrenica, mentre i Sanniti provenivano dall’entroterra. I primi, come testimonianza della loro presenza, lasciarono oggetti e manufatti simili a quelli rinvenuti ad Ischia (Pithecusa) e a Cuma; i secondi lasciarono alcune sepolture, cinturoni e vasi a vernice nera, sulle colline del Clanio. Avella era diventata un luogo di incontro (e di scontri) tra le popolazioni provenienti dalla valle del Sabato e quelle della piana campana. I Sanniti Caudini la fortificarono con solide mura in opus incertum, cioè con blocchetti irregolari di tufo. Essa fece, poi, parte della Lega Sannitica, insieme a Nola. In seguito, apparvero i Romani, che vi si insediarono per la sua importante posizione strategica. Nel 339 a.C. si pose sotto la protezione di Roma come Civitas foederata. Nell’87 a.C. venne distrutta dai Sanniti. Fu, poi, municipio e, più tardi, vi venne insediata una colonia da parte di Silla, dittatore romano (82 a.C.). Avella riacquistò una rinnovata importanza tra la fine del periodo repubblicano e l’inizio dell’età imperiale (circa 2000 anni fa). Fu, infatti, menzionata da importanti Autori classici tra cui -come abbiamo visto- Virgilio, che la cita nell’Eneide fra coloro che si allearono con Turno (re dei Rùtuli), contro Enea. 23

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Invasioni barbariche - Abella romana

Benedetta Napolitano

Plinio la nomina per le nocciòle, “Nucae Abellanae”. Anche Diocleziano la ricorda nel suo editto, sempre per gli stessi frutti (“Nucium Abellanorum”). L’antica Abella subì le invasioni barbariche e fu saccheggiata dai Visigoti, guidati da Alarico, nel 410 d.C., e da Genserico re dei Vandali e degli Alari, nel 455 d.C.. Successivamente fu devastata dalla guerra gotico-bizantina. Nel VII secolo d.C., subì la dominazione prima dei Goti e poi dei Longobardi. Questi ultimi vi costruirono il castello, non in legno, come facevano in altre parti d’Italia ma in pietra, sfruttando evidentemente la manodopera locale già esperta in tali costruzioni; essi diffusero la coltivazione dell’albero di tiglio, che adoravano. Avella fu assalita dai Saraceni nell’884 d.C. e nell’887 d.C. fu presa dai Bizantini di Napoli, guidati da Atanasio II. Nel 937 d.C., secondo quanto riportato nella “Chronica Monasterii Casinensis”, in seguito a una scorreria degli Ungari, Avella fu distrutta insieme con Cimiterium (Cimitile) e Sarno. Con la caduta della longobardia minore, nell’XI secolo divenne normanna. Fu feudo dei baroni normanni, e angioini, per poi passare ai conti Orsini, Doria, Cattaneo, Spinelli Del Balzo, Janvilla, Caracciolo, Pellegrino, Loffredo, ad Aspreno Colonna Doria del Carretto e ai Toledo, ultimi discendenti baronali. Si ipotizza che nel XIV secolo, sotto Nicola Janvilla, sia stata coniata anche una moneta: un tornese in rame recante al dritto una croce patente ed al rovescio il Castello con la legenda “De Avelle do 2”. Abella Romana Abella romana era situata nella zona di San Pietro e aveva sei porte: Porta Casale, verso Tufino; Porta di Corte nel territorio di Sperone; Porta Ventura nei pressi di Via Carmignano; Porta di Ponte, verso Est; Porta Riva nella zona di San Pietro; Porta Castello nei paraggi della chiesa di San Giovanni. La disposizione urbanistica di Abella romana si può intuire dalla disposizione delle strade dell’attuale centro storico della moderna Avella che, purtroppo, Avella

Le due facciate del monolitico “Cippus Abellanus”

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L’Esagono

La scacchiera ippodomea - Il cippus abellanus

è stata costruita in gran parte sulla città antica. E’ risaputo che i Romani costruivano le loro città e i loro accampamenti militari in maniera molto caratteristica. Avella. Località San Nazzaro. Vi era un asse principale, Tomba romana con scheletro sempre orientato da Est ad Ovest, detto decumanus major, affiancato da due strade parallele secondarie, una per lato (decumani minori). Dall’asse principale si dipartivano, poi, i cardini, disposti trasversalmente ai primi e in numero variabile. Questa particolare disposizione detta “a scacchiera ippodomea”, derivava dal modo in cui l’augure (l’indovino, interprete del volere degli dei ) delimitava il templum celeste (uno spazio circoscritto della volta celeste in cui “leggere” i presagi). Corso Vittorio Emanuele corrisponderebbe al decumanus major. I cardines, partendo da piazza Municipio, sarebbero, sulla sinistra: via Roma, viale San Giovanni, via Santa Croce, via Foro Avellano, via Molino e sulla destra: via Carmignano, via Cardinale D’Avanzo, Via A. Buongiovanni, via San Nicola e via Cancelli. Probabilmente Piazza Municipio doveva essere lo stadio, mentre le necropoli erano poste fuori la città (Località S.Nazzaro e S.Paolino). Il Cippus Abellanus E’, forse, il reperto archeologico più importante di Avella, per il contributo determinante dato alla conoscenza della lingua osca. E’ costituito da una pietra calcarea (larga m. 0,81 ed alta m. 1,83), risalente presumibilmente al II sec. a.C. e recante un’iscrizione scolpita su due lati. Questo reperto rappresenta uno dei più importanti documenti epigrafici in lingua osca, dai più ritenuta un’emanazione della lingua etrusca, risalente al periodo successivo alla seconda guerra punica; vi si trovano anche alcuni termini greci e latini. Esso, secondo i primi archeologi che l’hanno studiato, era conficcato a terra come confine, probabilmente all’altezza del ponte di Schiava (frazione di Casamarciano e di Tufino). L’iscrizione, scolpita su entrambi i lati, risale probabilmente al II secolo a.C. e riporterebbe i termini dell’accordo tra Abella e Nola per la regolarizzazione dell’uso comune del tempio di Ercole (non ancora riporta25

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L’anfiteatro romano

Benedetta Napolitano

to alla luce) e delle aree circostanti, adibite a mercato. L’ipotetica esistenza di questo tempio sarebbe avvalorata da un recente ritrovamento (in località Montagnola, al confine tra Monumenti Funerari (incustoditi) Avella, Schiava e Visciano) di due statuette bronzee raffigurante il forzuto dio. Altri archeologi, recentemente, hanno messo in dubbio sia l’originaria localizzazione del Cippus sia il fatto che, ad Avella, sia mai realmente esistito un tempio dedicato ad Ercole. Il Cippus Abellanus fu rinvenuto secondo alcuni Autori nel 1685 tra le rovine del castello. Secondo altri, fu scoperto nel 1745 dal prete mugnanese don Pasquale Bianco. Sembra, comunque, che fu il Remondini (ma non c’è accordo neppure su questo) a portarlo, nel 1750, presso il Seminario Vescovile di Nola, ove ancora si trova. Nel 1984, durante uno scavo in località San Pietro, è stata rinvenuta una seconda iscrizione osca, composta da tre frammenti. L’Anfiteatro romano Fu portato alla luce solo nel 1976. Si trova nella zona detta di San Pietro, nell’immediata periferia della città. Ha un diametro massimo di 90 metri. Per grandezza e periodo di costruzione può paragonarsi a quello di Pompei. E’ tra i più antichi della Campania, fu costruito tra il Struttura di un anfiteatro I secolo a.C. ed il II secolo 1) arena. 2) fossa per la custodia di fiere e attrezzature. d.C.. Venne edificato in se- 3) canale di deflusso delle acque. 4) podio. guito alla guerra sociale e il 5) ingresso per animali. 6) vomitori. 7) corridoi anulari. successivo insediamento di 8) meniani. 9) matroneo. 10) velario. una colonia da parte di Silla. Esso sorgeva all’estremità orientale del decumanus maior (attuale corso Vittorio Emanuele), all’altro capo del quale era il foro (nelle Avella

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L’Esagono

I mausolei

vicinanze dell’attuale piazza San Pietro). Realizzato in “opus reticulatum” di tufo, ha forma ellittica, a doppia arcata. La struttura è appoggiata in parte alle mura perimetrali dell’antica città, e in parte ad un pendio naturale. La cavea presenta tre ordini di gradinate: l’ima, media e summa cavea; di quest’ultima rimane solo qualche traccia. Contrariamente ad altri anfiteatri più recenti non presenta sotterranei o cunicoli. InolAnfiteatro tre, l’asse maggiore si presenta traslato rispetto allo schema urbano con cui si sviluppò la città di Abella. L’anfiteatro presenta dei piccoli tempietti dedicati ad Ercole, davanti ai quali si soffermavano a pregare i gladiatori prima dell’inizio dei combattimenti. All’arena si accedeva attraverso due porte principali: la “porta triumphalis”, orientata in direzione della città, e dal lato opposto la “porta libitinensis”, dalla quale venivano portati via i gladiatori morti in combattimento. Una terza porta, ad ovest, era riservata ai giudici di gara. L’Anfiteatro venne distrutto dai Sanniti nell’87 a.C. e poi fu ricostruito. Era sicuramente accessibile nel periodo medioevale, poiché all’interno del perimetro della sua arena sono state trovate alcune tombe risalenti a tale epoca. Le pietre di tufo che costituivano le gradinate, nei tempi passati, sono state asportate ed utilizzate per altre costruzioni. Presumibilmente, inoltre, l’anfiteatro veniva allagato utilizzando le acque del vicino torrente Clanio in occasione di rappresentazioni di battaglie navali (naumachìe). Mausolei I mausolei Sono tombe romane (epigee) o “monumenti funerari” risalenti al periodo compreso fra il I sec. a.C. e il I sec. d.C.. Risultano posizionati sulle più importanti vie di comunicazione che collegavano la città di Abella con Suessola (Acerra) e Calatia (Maddaloni), Abellinum (Avellino) e l’antica Nola, o nei pressi di ville rustiche. 27

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Il castello medioevale

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Ad Avella, i mausolei sono sparsi un po’ dovunque quasi sempre incustoditi e in rovina. Addirittura, alcuni di essi venivano utilizzati dagli agricoltori del posto, come cisterne o come case rurali: i meglio conservati sono quelli in località Casale. I monumenti sono costituiti da due corpi sovrapposti, con pianta inferiore quadrangolare e superiore circolare o poligonale, terminante in cuspide o sormontata da un’edicola. Sono costruiti in “opus incertum” e rivestiti con stucco. All’interno è situata una camera sepolcrale in cui veniva collocata l’urna con le ceneri del defunto. I mausolei appartenevano, naturalmente, ai ceti sociali più elevati e al cosiddetto “ordo”. Il castello medioevale ( “Castello Longobardo”, Castello Normanno” o “di San Michele”).

Pianta della fortificazione A- Ingresso al borgo B- Ponte elevatoio C- Cinta muraria interna (longobarda) D- Cinta muraria esterna (normanna) E- Cisterna di raccolta d’acqua piovana F- Cappella G- Donjon normanno (castrum) H- Torrione o Mastio angioino I- Torretta aragonese

Secondo la tradizione (ma non tutti concordano) esso sorgerebbe sulle rovine di un antichissimo tempio pagano consacrato ad Ercole. Nel suo genere, è tra i meglio conservati dell’Italia meridionale. Costruito in posizione strategica, a 320 metri sul livello del mare, su una collinetta a nord-ovest della città, domina la valle sottostante e consente di godere del panorama fino al golfo di Napoli. E’ raggiungibile grazie a una strada carrabile che, attraversato il torrente Clanio, si inerpica per la collina fino al Piano della Calcara, ove s’incontrano i primi ruderi. Caratteristica peculiare di questa fortezza sono la tecnica di costruzione e i materiali usati. La manodopera locale dell’epoca, costituita da contadini abilissimi a costruire i muri a secco delle campagne, ma poco avvezzi a realizzare grandi strutture, costrinse i costruttori ad utilizzare blocchi irregolari di pietra Avella

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L’Esagono

Le cinte murarie - Il mastio - Il donjon

calcarea locale tenuti insieme da malta, disposti secondo una tecnica costruttiva che richiama, vagamente, l’opus incertum. Attualmente restano due cinte murarie degradanti sul pendio della collina. Quella esterna, normanna, di forma rettangolare, è costituita da solide mura (1,5 metri di spessore) intervallate da otto torri quadrangolari. Queste, a due livelli, sono munite di strette fessure per la difesa ed ornate con merlature guelfe, che ne favoriscono la difesa dall’alto. Questa prima linea di difesa racchiude un’area di circa 4 ettari e presenta, nella parte in basso a destra, un’apertura che consentiva l’ingresso al borgo. La cinta muraria interna, più antica (VII sec d.C.), di forma ellittica, corrisponde al primo inseUn mosaico avellano diamento longobardo e racchiude un’area di circa 1,2 ettari. Essa comprende dieci torrette difensive (sei di forma tondeggiante e quattro di forma quadrata). Le torrette potevano ospitare, al massimo, due difensori. Nella parte alta della collina si elevano le strutture meglio conservate e più imponenti della fortificazione: il torrione (mastio o maschio) svevo-angioino, alto venti metri, e il massiccio donjon normanno. Nel lato est della fortificazione, tra il torrione e il donjon, si apriva l’ingresso principale del castello, costituito da un’apertura a sesto acuto, protetta da un ponte elevatoio (di cui non vi è più traccia). Erano presenti anche una cisterna di circa 10 x 8 metri per lato e una cappella. Alcuni avellani più anziani sostengono, infine, che vi sia un cunicolo sotterraneo che condurrebbe fino all’altura delle Forestelle. 29

Avella


Il cippo onorario - L’aquedotto romano

Benedetta Napolitano

In un documento spagnolo del 1529 esso è descritto come “Forteleza con una tierra iunta disabitata; sobre un monte sta el castillo, mal tratado aunque antiguamente era bello y grande”. Un altro documento del 1603, così parla del castello: “...sopra un monte dalla parte di occidente (vi è) lo castello con la cittadella e palazzo... nel quale vi è una torre grande con cortiglio. Una Tombe ipogee sala con otto camere in piano e molta altra comodità. Questa cittadella è murata con dodici altre torrette attorno dette mure ... e dentro vi sono circa cento fochi distrutti e disabitati. Vi è anco la Parrocchia e cisterna grandissima ... (e, inoltre) vi si ponevano i carcerati di mala vita...”. Il castello venne abbandonato nel 1371 ma, poi, fu fatto restaurare nel 1533 da Pietro Spinelli. A partire dal 1986, la struttura è stata interessata da vari interventi di restauro. Gli ultimissimi lavori hanno portato alla luce alcuni ruderi che, a quanto sembra, rappresenterebbero ciò che rimane di alcuni locali adibiti a stalle. Il Cippo onorario L.E. Invento. E’ un blocco di pietra calcarea databile attorno al 170 a.C. dedicato a Lucio Egnazio Invento. Su di un lato, è visibile uno schema dell’anfiteatro (con ima, media, summa cavea e la doppia arcata) e, sull’altro, due lottatori. L’Acquedotto romano (o “di San Paolino”). E’ un acquedotto a cielo aperto, le cui vestigia sono ancora visibili lungo il torrente Clanio (in particolare in località “Capo di Ciesco”). Esso comprendeva due diramazioni: una, posta più in alto, che andava verso Roccarainola, e l’altra, più in basso, che forniva Avella e giungeva sino a Nola. L’acquedotto di San Paolino, fu costruito gratuitamente dagli Avellani (410 d.C.) su richiesta di San Paolino, per approvvigionare Cimiterium (Cimitile). Successivamente è stato adibito per la funzionalità dei quattro mulini lungo la strada che ora costeggia il fiume Clanio. Avella

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L’Esagono

Mosaici - Aree sacre - Ritrovamento fossili marini

Acquedotto romano (ponte)

Altri reperti Delle Terme sono state rinvenute solo misere tracce in via Foro Avellano, sempre nei pressi del fiume Clanio. Il Teatro non è ancora stato portato alla luce; alcuni pensano che doveva trovarsi nel territorio divenuto ora del comune di Sperone. Nessuna traccia è stata rinvenuta di Ginnasio, Pretorio e Piscina. Sono stati invece riportati alla luce importanti mosaici, come quello di “Edipo che uccide Laio” del I sec., (ora al Museo Nazionale di Napoli) ed altri rinvenuti (nel 1965) in Vico Luciano e in Via Cancelli. Tombe ipogee, sepolte, monumenti e interessanti corredi funerari sono stati portati alla luce in località San Paolino (Circumvallazione, Via Fusaro), in località San Nazzaro e in altri numerosi siti. Altri scavi hanno portato alla luce pezzi di antiche strade un po’ dovunque. Ugualmente importanti sono i reperti archeologici riguardanti vasi di argilla figulina (di influsso greco ed etrusco) e vari oggetti ornamentali: bracciali, fibule e ventagli. Non mancano vasi dipinti e monete, come ben sanno i “tombaroli” nostrani. Inoltre, due Aree Sacre sono state individuate in località ben precisate: sul Colle del Seminario e a Campopiano. La prima località, nota anche per il ritrovamento di fossili di organismi marini risalenti a ben 125 milioni di anni fa (cretacico), è una collinetta posta al limite tra i comuni di Avella, Tufino e Roccarainola. La seconda località è rappresentata 31

Avella


Il misterioso santuario di Ercole e la presunta pipa etrusca

Benedetta Napolitano

da un bassopiano che si estende dalle colline di San Cataldo e delle Forestelle fino a raggiungere i primi contrafforti dell’appennino. In tali aree sono stati rinvenuti manufatti risalenti a varie epoche storiche, a partire dall’VIII secolo a.C.. Nel 1996, al confine del Comune di Tufino (nei pressi della località Schiava), in seguito ai lavori di costruzione del metanodotto italo-algerino, vennero alla luce i resti di una villa romana. Si pensa che in quella zona (ponte di Schiava) si trovi, coperto da pochi metri di terra, l’importante Santuario di Eracle (per i greci) o Ercole (per i romani), a cui fa riferimento il Cippus Abellanus. E’ stato già detto che accreditati Studiosi Vaso Avellano. Regolarmente registrato. sembrano dubitare dell’esistenza di tale santuario, Proveniente da una collezione privata. ritenendo che il tesaurus per le offerte al dio potesse essere costituito anche da una semplice urna di piccole dimensioni, non necessariamente collocata in un tempio. Ma insistenti voci di paese, non confermate, riportate per pura cronaca, insistono nel ritenere che il “sottosuolo” di Avella sia molto più interessante di quanto gli archeologi ufficiali sembrano o vogliano lasciar credere. Ma non è dato sapere di più. Su questi argomenti permane un silenzio da tomba (romana). Anzi, da “tombarolo”. Non sono improbabili, infine, futuri (o passati, ma non ufficiali) ritrovamenti di tombe dell’età sannitica, come quelle già portate alla luce nel vicino agro nolano. Altre voci riferiscono, insistentemente, di ritrovamenti di un grossa pipa, forse etrusca, in bucchero (si veda la foto ad inizio capitolo, pervenuta via e-mail alla redazione de “La nuova Gazzetta”). Si tratta solo di uno scherzo o di un importante ritrovamento? Ogni lettore potrà farsi una sua personale idea. Ma, nel caso che il reperto sia originale e veramente proveniente da Avella, cosa mai potevano fumare gli antichi avellani (etruschi o osci), visto che il tabacco è stato portato in Europa dopo la scoperta dell’America (12 ottobre 1492)? Forse la spiegazione deve essere ricercata in una certa raffigurazione su di un misterioso e inafferrabile vaso (della cui reale esistenza non vi sono prove certe) rappresentante un uomo intento a cogliere foglie di vite. E, se si fosse trattato non di un disegno di una vite ma di una stilizzazione della cannabis? (*) Al di là della fondatezza di tale ipotesi, resta certo che i ritrovamenti casuali (per lo più in cantieri edili) e non, hanno alimentato un intenso e assai prospero commercio clandestino di reperti di ogni tipo. Avella

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L’Esagono

Alcune vecchie foto di Avella

Chiesa della SS.ma Annunziata e Convento dei frati minori

Chiesa di Santa Marina e Collegiata di San Giovanni Battista (si noti il ponte a tre arcate sul Clanio e il “passaggio” in pietra)

Piazza municipio 1920

(*) non la Cannabis indica, naturalmente, che giunse in Europa solo qualche millennio dopo, ma la Cannabis Sativa, da fibra e da granella, che pur avendo una minore concentrazione di THC risulta ugualmente allucinogena, e che da sempre è presente in Europa.

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Giardino Livia Colonna. Statua del Dio Nilo. Avella


La sede del Vescovato - Il Papa di Avella - Alcune chiese

Benedetta Napolitano

Avella: i beni architettonici La Chiesa di San Pietro, risalente al 1300, nell’antichità fu la cattedrale di Avella e sede del suo antico vescovato, che comprendeva anche gli attuali comuni di Baiano, Mugnano del Cardinale, Sperone, Quadrelle, Sirignano e Roccarainola. La prima citazione nota è del 1308 (come risulta dal libro delle Decime ecclesiastiche). A tre navate, fu costruita sulle rovine di un palazzo gentilizio romano, nella zona dell’antico foro avellano. Lo stile della costruzione è romanico con influenze arabo-normanne. La chiesa com’è oggi risale al XVII secolo. Sull’ingresso è situato un bassorilievo marmoreo dell’età imperiale, proveniente dal monumento sepolcrale di Lucio Sitrio Modesto. Una cappella annessa custodisce un bell’altare in marmo con colonne in porfido di colore verde antico e, alle spalle di questo, un sarcofago sul quale è incisa in esametri latini un’appassionata e bella iscrizione a Prenestina, consorte di Veio, che testimonia la fede dell’autore nell’immortalità dell’anima. La Chiesa della SS.ma Annunziata, ad una sola navata, annessa al convento dei Frati Minori Osservanti, inizialmente fu dedicata alla Vergine degli Angeli e, nel 1725, fu intitolata alla SS.ma Annunziata. Edificata tra il 1580 e il 1589, presenta un soffitto a cassettone e dipinti di Giuseppe Castellano. Vi si conserva gelosamente una Convento dei Frati Minori. Porticato. “deposizione” in legno che si dice copia del Rubens, un Sant’Antonio da Padova della scuola Salernitana, un bellissimo Crocefisso, un coro ligneo di G. Del Tito del 1625. Il suo chiostro è sorretto da colonne monolitiche, alcune delle quali provengono da palazzi o monumenti romani. Esso venne poi abbellito da A. Buongiovanni, artista avellano, con scene raffiguranti la vita di San Francesco. Al centro del chiosco, nel 1653, fu fatta scavare una cisterna da padre Giuseppe di Fontanarosa. La Chiesa parrocchiale di S. Marina e Collegiata di San Giovanni Battista, fu costruita nel 1798 su una preesistente basilica paleocristiana che era stata fatta edificare dall’avellano Papa Silverio, nel VI secolo d.C.. Un documento del 1324 ricorda il titolo della chiesa di S.Marina, che sorgeva ad Ovest dell’attuale campanile. Nello stesso sito vi erano anche l’antica Collegiata e la Cappella Avella

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L’Esagono

Palazzo Ducale - Giardino Livia Colonna

dell’Immacolata. Successivamente queste furono abbattute perché in pessimo stato e al loro posto venne edificata l’attuale costruzione. Di stile vanvitelliano, caratterizzata dal campanile isolato, con il particolare castello campanario originario in legno. A croce latina, ad una sola navata, fu abbellita da Papa Onorio e da San Gregorio. Notevoli l’altare maggiore in marmi policromi e il sarcofago del cardinale Bartolomeo D’Avanzo. Nella sacrestia è custodita una tavola di Cristo che versa sangue e su cui si legge l’iscrizione “Detius Tramontos facebat” (1581). Custodisce alcune tele settecentesche di N. Malinconico e O. Fischetti. La torre campanaria, restaurata nell’800, presenta i resti di alcuni affreschi tardo-trecenteschi. Di notevole interesse sono le acquasantiere del 1501, probabili resti dell’antica basilica fondata da Papa San Silverio. Altre chiese Tra le altre chiese, degna di menzione è senz’altro la Chiesa San Romano, che conserva una tavola su fondo dorato del XV secolo e un quadro della Madonna di scuola leonardesca. Sulla destra della sua facciata è situato il campanile sorretto da un’arcata sotto cui passa la strada. Da segnalare, ancora, la graziosa chiesetta detta “dei sette preti” (già nota come Cappella di S. Maria delle Grazie e, poi, della SS.ma Visitazione di Maria), la piccola chiesina di Santa Candida, e la Chiesa del Purgatorio (frazione di Avella), ove si possono ammirare una scultura in marmo con un angelo benedicente, un’edicola sacra rappresentante l’Annunciazione e il soffitto dipinto raffigurante la SS.ma Trinità, la Vergine e le anime purganti (oltre al ritratto del canonico Domenico Viola, che nel 1745 prese possesso della Chiesa e la ingrandì). Complesso Palazzo Ducale-Giardino Colonna. Giardino

Di notevole interesse Livia Colonna. architettonico è il Palazzo Ducale Alvarez De Toledo e il retrostante bel giardino vanvitelliano, detto di Livia Colonna. Il palazzo, oggi di proprietà del comune di Avella, è situato al centro della cittadina. Fu sede del Museo Archeologico di Avella, realizzato nel 1969. E’ un esempio di rara bellezza architettonica della prima metà del XVI secolo. Ha pianta longitudinale e presenta ai lati due torrette. Nel giardino, all’italiana, è presente una fontana marmorea 35

Avella


Grotta di San Michele - Avella moderna

Benedetta Napolitano

rappresentante il dio Nilo Palazzo Ducale (secondo altri, il fiume Clanio). Vi sono anche due peschiere a forma di rettangolo lobato, in mezzo al quale era presente un gigantesco platano secolare di cui oggi non rimane che il tronco rinsecchito. Siepi di bosso delimitano i quattro viali ortogonali e le gradevoli aiuole. Il palazzo appartenne agli Spinelli, ai Cattaneo, agli Orsini e ai Colonna. Conservato egregiamente fino alla morte del suo ultimo proprietario, conte Alvaro Alvarez De Toledo, fu danneggiato dal sisma dell’80 e dall’incuria. E’ stato da poco completato un accurato restauro dell’intero complesso architettonico. La Grotta di San Michele E’una chiesa rupestre risalente al medioevo (VIII sec. d.C.). Un tempo era abitata da monaci eremiti. Fu ricavata in una grotta naturale di Grotta di San Michele origine carsica, internamente risulta divisa in tre cavità fra loro comunicanti, dette dell’Immacolata, del Salvatore e di San Michele. In quest’ultima è presente un baldacchino barocco (1816) e, sopra l’altare, la statua dell’ Arcangelo. Vi sono, inoltre, numerosi affreschi di argomento religioso di chiaro influsso greco-bizantino (IX-XIV secolo d. C.). Oggi è chiusa ai visitatori ma, pare, che stiano per partire i lavori di restauro (nell’ambito dei P.I.T., Piani Integrati Territoriali), grazie anche all’interessamento della Curia Vescovile di Nola, proprietaria dell’antro. Anni addietro vi si svolgevano suggestive cerimonie nella notte di Natale. Avella moderna E’ nata dalla fusione di almeno quattro piccole borgate, presenti già nel XIII secolo: Cortalùpini, Farrìa, San Pietro e Cortabucci. Infatti, almeno fino ai primi anni ‘20, questi quattro agglomerati erano chiaramente individuabili sulle piantine catastali dell’epoca. Solo successivamente sono andati a confluire, lentamente, in un unico grosso agglomerato urbano. Avella

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L’Esagono

‘O laccio d’ammore

Avella: il folklore La rappresentazione de“e’ misi”, la farsa de “’A zeza”, i balli e le musiche de “’O laccio d’ammore”, erano spettacoli itineranti legati ai festeggiamenti del carnevale. Queste manifestazioni folkloristiche -ad esclusione di qualche lodevole eccezione- non vengono più rinnovate ormai da molti anni.

Della Zeza e dei misi verrà riferito nel capitolo di Sirignano, ove si è assistito ad un recupero di queste tradizionali rappresentazioni. ‘O laccio d’ammore è ricomparso, in termini piuttosto semplificati e rimaneggiati, in alcune sfilate di Carnevale tenutesi negli anni scorsi a Baiano. Ma la tradizione del “laccio (o palo) d’ammore” era particolarmente viva ad Avella, almeno fino agli anni ‘70 (foto sopra). A memoria dei più anziani, il ballo “del laccio” vero e proprio era preceduto, di norma, da altri tre balli: il primo di questi rappresentava l’incontro tra i ragazzi e le ragazze e mimava alcuni cenni di corteggiamento; il secondo, un ballo in cerchio con un passamano, simboleggiava la ritrosia della ragazza; il terzo, in cui lo spasimante -fattosi coraggio con un buon fiasco di vino- porta la serenata alla sua bella che accetta il corteggiamento, è costituito da una vivace polka. L’intreccio del “laccio d’ammore”, infine, rappresentava l’epilogo del matrimonio. In altri anni, ‘O laccio d’ammore veniva rappresentato solo limitatamente all’ultimo “movimento”: l’intreccio, vero e proprio. Questa ballata popolare rappresenterebbe, secondo gli Autori più eruditi, un antico rito propiziatorio degli antichi popoli di agricoltori e di pastori del mediterraneo. Si tratta di una danza popolare attorno a un palo, dominato dal segno del “sole nuovo”, dal quale 37

Avella


‘O Fucarone - Il maio - I battenti

Benedetta Napolitano

pendono 24 nastri policromi che -nel corso della danza- vengono incrociati, formando varie figure geometriche. Il “Fucarone” di San Sebastiano si tiene il 20 gennaio, in occasione dei festeggiamenti del Santo Patrono. In tale occasione, normalmente, vengono anche tagliati e messi in vendita degli alberi (maio), ma quest’ultima tradizione ha un’importanza piuttosto secondaria e non raggiunge gli apici del maio baianese. Semplicemente, l’albero più alto viene eretto in piazza e attorno ad esso viene acceso un falò. In occasione dei festeggiamenti di San Pellegrino (25 agosto), si organizzano delle sfilate di battenti che si portano (a piedi) fino ad Altavilla Irpina. In passato, come già ricordato altrove, la notte di Natale si svolgevano delle suggestive cerimonie nella Grotta di San Michele. Avella, così come gli altri paesi del mandamento, ha subìto negli ultimi anni gli influssi della “globalizzazione del folklore”. Ormai (ad Avella e altrove) si organizzano sagre prive di qualsiasi tradizione e di qualsiasi collegamento con le potenzialità del territorio. Di tali manifestazioni, che esulano dagli scopi di questo libro, non verrà dato alcun cenno.

La modella Lucia Barba, di Avella. Ha partecipato alle fasi finali del concorso di Miss-Italia Edizione 2001, classificandosi fra le più belle ragazze d’Italia.

Clanio

Avella

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L’Esagono

Dati essenziali

AVELLA Abitanti: 7.674 Avellani (al 21.10.2001) Superficie territoriale: 3.038 ettari Altitudine sul livello del mare (min/max): 126/1.591 m Altitudine sito casa comunale: 207 m slm Scuole:

Asilo nido (statale) Scuole Materne (statali e non statali) Scuole Elementari (statali e non statali) Scuole Medie Inferiori (statali) Scuola Media Superiore: Istituto Professionale

Strutture sportive:

Stadio Comunale, Campo da Tennis/calcetto. Palestre: scuole medie e scuole elementari.

Informazione e cultura: -

“Il Meridiano” -Periodico fondato dal prof. Pierino Luciano (con sede a Nola); “Clanion” edito dal Gruppo Archeologico Avellano; Biblioteca Comunale, curata dal prof. Nicola Montanile; Biblioteca dei Frati Minori, ubicata nel Convento «SS.ma Annunziata» con vari manoscritti e testi di rilievo. Antiquarium- Museo paleontologico ed archeologico (reperti locali).

Cittadini illustri: * Papa Silverio, nato ad Avella e fatto morire di fame, nel giugno del 538 d.C., dal generale bizantino Bellisario, nell’ isola di Ponza ; * Cardinale Bartolomeo D’Avanzo (1835), già Vescovo di Castellaneta, di Calvi e di Teano; * Frate Giovanni Trottola, celebre matematico del XVII secolo nonché insigne musicista; * Maria Giovanna Teresa Doria del Carretto, duchessa di Tursi e principessa di Avella (1745), edificò un edificio carcerario in cui stabilì la divisione degli uomini dalle donne.

Attività economiche: -

Industrie boschive (produzione legna da ardere); Industrie trasformazioni alimentari (cherry, maraschino); Aziende zootecniche: apicoltura - allevamento di bufali, ovini e caprini; Agricoltura: olivicoltura e corilicoltura; Turismo: ristorazione - alberghi (uno); Industria produzioni elettroniche; Industrie metalmeccaniche artigianali (tornitori); Terziario: piccoli negozi - nessun supermercato; Produzione orafa; Edilizia.

-

Misericordia del Baianese; Expo Città di Avella: fiera dell’ industria, commercio, agricoltura e servizi (l’ultima edizione non ha avuto luogo per problemi organizzativi). - Scouts - Stazione dei C.C. Per altri dati demografici e statistici consultare il capitolo “aspetti demografici”

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Iinerari naturalistici

Benedetta Napolitano

Avella: risorse ambientali Bosco del Ciglio Grazioso bosco di faggi e cerri, di circa 50 ettari di superficie. A circa 12 Km dall’abitato. Vi si accede tramite la strada sterrata Castellone. Cerreto Serra-Palumbo Castagneto da frutto, con estensione di circa 15 ettari. Ideale per la raccolta dei funghi. Sito nella località omonima. E’ raggiungibile tramite la strada Percicati-Cucciarda, a circa 7 Km dall’abitato. Cognulo Area di circa 6 ettari di estensione, ad un’altitudine di 600 metri slm, comprendente sia conifere che latifoglie e tratti rocciosi di un’aspra bellezza E’ raggiungibile tramite la strada asfaltata Panoramica, a circa 5 Km dall’abitato. Forestella Bosco ceduo di castagni, comprendente un’intera collinetta di circa 60 ettari. Vi si accede tramite la strada per Campopiano, a circa 2 Km dall’abitato. Pianura Faggeto di circa 50 ettari di estensione, posto ad un’altitudine di circa 800 metri slm. Vi si accede tramite la strada asfaltata Panoramica, a circa 12 Km dall’abitato. Pineta del Fusaro Sita nella località omonima. E’ costituita da un’area adibita a verde attrezzato dell’estensione di circa 3 ettari. Ideale per pic-nic. A circa 1,5 Km dal centro abitato. Salmola Circa 10 ettari di conifere e latifoglie, con ampi tratti rocciosi e soleggiati. A 600 metri slm, vi si accede tramite la strada Patricciano, a 6 Km dal centro abitato. Vallone Serroncello-Fontanelle e torrente Clanio Vallone dalla bellezza selvaggia con scoscesi rupi rocciose ai lati del torrente. Vi è una caratteristica fonte di freschissima acqua. Sono stati realizzati di recente gradevoli spazi di verde attrezzato. In questa zona sono venute alla luce tracce dei primi insediamenti umani. Cascata di Acquapendente Grotta di San Michele Formazione carsica, costituita da tre cavità. Custodisce alcuni affreschi di epoca bizantina. Grotta di Camerelle di Pianura Vi si accede tramite una stretta buca del terreno. Si apre alla quota di 900 metri, sul fianco orientale del Vallone S. Egidio, in prossimità della fontana di Pianura. Si estende per circa 150 metri. Grotta degli Sportiglioni Si estende per circa 120 metri. Nel corso dell’800 è stata depredata di gran parte delle sue stalattiti e stalagmiti (note come “pietra di Avella”). Situata più a monte delle grotte di San Michele, lungo il Vallone Serroncello. Importante dal punto di vista biologico perché in essa vivono tre specie saprofaghe endemiche (un acaro, un collembolo e un coleottero).

Avella

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L’Esagono

Itinerari turistici

Acquapendente

Monti Avella

Grotta di Camerelle di Pianura Grotte di S. Michele sezione

pianta

Il castello negli anni ‘50

Il castello sullo sfondo del Vesuvio-Monte Somma sezione

Grotta degli Sportiglioni

pianta

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Le origini del nome

Benedetta Napolitano

Baiano Secondo alcuni Studiosi il nome di Baiano deriverebbe da praedium Vallejanum (Villa di Valleo) oppure da praedium Badianum (Villa di Badio), da cui per “corruzione fonetica” si giunse a Vallejanum, Bajetaum ed infine a Baianum. Poichè nello stemma del comune c’è una lettera V che inquadra un cervo, si può ipotizzare che Baiano sia derivato dal nome di Valleo, uno dei più insigni cittadini della vicina urbs Abella, vissuto ai 1911 tempi del basso Impero e discendente da una nobile e potente famiglia romana. Ma non è escluso che Baiano, come riportato in una precedente pubblicazione (“La Città del Baianese”, di Napolitano e De Rosa) possa derivare semplicemente da Baianum, ovvero da Baia, la famosa località flegrea, costantemente presentata -nelle fonti antiche- come un luogo di delizie, a caratterizzare il quale si uniscono le bellezze naturali, la presenza di sontuose ville e di grandiosi impianti termali e la “dolce vita” che vi si svolgeva. Si potrebbe ipotizzare, quindi, che Baiano fosse un “luogo di delizie” per gli antichi avellani o che la villa prediale, da cui esso prese origine, derivasse da un qualche importante personaggio originario o proveniente da Baia, l’impero dei vizi. Della località flegrea, Varrone nelle sue “Satire” dice: “Lì non solo le vergini divengono un bene comune, ma molti vecchi ringiovaniscono e numerosi fanciulli si effeminano”. Marziale cita la località termale ammonendo che: “A Baia una donna arriva come una Penelope e ne riparte come un’Elena”, a sottolineare come neanche la più virtuosa delle donne riuscisse a sottrarsi alle lusinghe della costa flegrea. Secondo questa ipotesi, quindi, Baiano doveva essere ben più di un semplice casale di Avella. Ricco, un tempo, di importanti rovine. Infatti, secondo quanto riportato da Gianstefano Remondini, in alcune opere datate 1785-1797, Baiano viene indicato come: “…vetusta e popolata terra (2273 ab.), in cui si veggono anche delle vestigia di antichi monumenti, infrante colonne, tronchi busti, e sminuzzate lapidi di marmo…”. La lettera “V” presente nello stemma di Baiano, di per sé non costituisce alcuna prova in nessun senso, in quanto potrebbe essere, Baiano

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L’Esagono

Insediamenti preistorici - Invasioni barbariche - Bagliva

semplicemente, il numero cinque in latino e stare a significare che Baiano era, in ordine di tempo, il quinto possedimento di Avella, o il quinto “casale” che si era venuto a costituire. Di origini antichissime, questa cittadina presenta tracce di insediamenti umani risalenti all’età neolitica. Databile all’età del Ferro (VIII-VII secolo a.C.) è una necropoli, con tombe a fossa, rinvenuta all’altezza della località Cava, al confine col comune di Avella. Durante la guerra sociale, questo casale fu conquistato da Silla che lo assegnò alla 47° Legione Romana (82 a.C.). Nell’anno 79 a.C. fu saccheggiato dall’esercito di Spartaco. Sotto l’imperatore Augusto, nella divisione amministrativa della penisola italiana, venne assegnato alla tribù Galeria. Seguì, poi, le vicende della vicina Avella. Caduto l’Impero Romano, questo nucleo abitato andò soggetto a numerose incursioni barbariche (Alarico nel 410 d.C. e Genserico nel 455 d.C.). Insieme ad Avella nel 589 d.C. entrò a far parte del Ducato di Benevento, retto dal longobardo Autari. Dopo nuove invasioni barbariche (prima i Saraceni e poi gli Ungari) il casale passò al principato di Salerno e nel 1075 fu aggregato al Principato Normanno. Considerato ancora “de pertinentiis Avellarum” nel XIII secolo, il casale di Baiano viene citato in “privilegi” di Papa Celestino nel 1197, di Papa Innocenzo III nel 1203, in quelli 1981 dell’Imperatore Federico II di Svevia nel 1250 e di Papa Urbano IV nel 1264. Già nel 1210, comunque, cessa di essere casale di Avella e comincia ad essere tassato a parte. Dopo la dominazione normanna passò sotto il controllo degli Svevi di Federico II. Nel 1371 la Regina Giovanna I donò il territorio di Baiano, insieme a quello di Avella, a Nicola Jamnvilla, conte di S. Angelo dei Lombardi, la cui famiglia ne ebbe il possesso fino al 1427 allorché il feudo fu tolto a Marino Jamvilla dalla Regina Giovanna II che nel 1431 ne fece dono a Ser Giovanni Caracciolo. Quest’ultimo lo concesse alla sorella Isabella dalla quale passò, per matrimonio, a Raimondo Orsini. Nel 1510 Enrico Orsini, conte di Nola, vi istituisce la Bagliva o “Corte Baiulare” e la dona, per compensarne i servigi, a Tommaso Mastrilli, nobile nolano, la cui famiglia l’amministra fino al 1594, anno in cui essa viene ceduta ad Ottavio 43

Baiano


Epidemie - Il suicidio delle suore - Affrancamento da Avella

Benedetta Napolitano

Cattaneo. Poi, con decreto reale del 9.9.1605, fu assegnato alla Baronia di Avella, retta da Don Giovanni Andrea Doria. Il XVII secolo fu per Baiano (come per gli altri borghi della zona) particolarmente funesto a causa di un’epidemia diffusasi nel 1635 e per la peste del 1656 che ne decimò la popolazione. Il successivo e consistente incremento demografico si ebbe soprattutto grazie all’accoglimento di numerosi fuoriusciti dal Regno napoletano, alla fine dello stesso secolo. Sembra che, nel corso del XVII sec., in un monastero di Baiano, si sia verificato un misterioso suicidio di massa, in cui furono coinvolte alcune decine di suore (La Carità di Giulia, di Fabio Romano - Ed. Intra Moenia, Napoli. pag.368). Alla fine del XVIII secolo Baiano risultava appartenere ancora ai Doria, con Maria Giovanna moglie di Francesco Sforza Visconti marchese di Caravaggio, che esercitò il proprio potere fino all’abolizione della feudalità. Il territorio di Baiano acquistò l’autonomia da Avella tra la fine del XVII e il principio del XVIII sec., ad ogni modo prima del 1726 quando ottenne, con decreto reale, l’uso civico del bosco di Arciano. Nel 1757, il passaggio della Via Regia delle Puglie (fatta costruire da Carlo III di Borbone) costituì per Baiano un altro piccolo passo verso l’emancipazione da Avella, rimasta fuori dal tracciato dell’importante via di comunicazione. La definitiva autonomia fu raggiunta agli inizi dell’Ottocento. In quel periodo, con l’emanazione della legge eversiva della feudalità da parte di Giuseppe Bonaparte (1806) e a seguito della ripartizione dei beni baronali da assegnare in proprietà ai singoli comuni, si originarono, tra questi, aspre contese. La commissione feudale fu molto benevola con Baiano, attribuendogli le proprietà di Arciano, Santo, Campimma, Carbonara e Torone. Questa situazione demaniale finì per privilegiare il paese, favorendone la successiva e continua crescita d’importanza. Come avvenne per gli altri comuni vicini, esso fu incluso nella provincia di Terra di Lavoro (l’attuale provincia di Caserta) e compreso nel distretto di Nola (uno dei cinque in cui si divideva la provincia), circondario di Bajano (uno degli otto in cui si divideva il distretto). Dopo il 1861, con l’Unità d’Italia e il conseguente nuovo assetto politico e amministrativo, passa alla provincia di Principato Ulteriore (o Principato Ultra), Baiano

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L’Esagono

Brigantaggio - Ferrovia - Il quartiere ‘e Vesuni

distretto (o circondario) di Avellino, mandamento di Bajano. In quel periodo (come abbiamo già visto nel capitolo “Storia e destino comuni”, e al quale si rimanda) il territorio fu interessato dal fenomeno del brigantaggio. Nel 1888, il Principe di Sirignano, Giuseppe Caravita, vi fonda la Cassa Popolare Agricola di Baiano (primo istituto di credito in provincia di Avellino). Nel corso del XIX secolo Baiano andò incontro ad un forte incremento demografico, divenendo il centro più popoloso della zona. L’11 luglio 1885 fu inaugurata la ferrovia Napoli-Nola-Bajano. Il paese fu interessato da un consistente fenomeno migratorio, nei periodi tra il 1860 e il 1866 e, più tardi, tra il 1887 e il 1914, quando si verificò il grosso dell’emigrazione italiana. Durante la seconda guerra mondiale, nei mesi di settembre ed ottobre 1943, Baiano subì alcuni bombardamenti aerei, cui seguì una mobilitazione generale della popolazione che, ripetendo il percorso fatto dai suoi antenati per sfuggire agli invasori medioevali, si rifugiò sulle montagne circostanti. In seguito ai terremoti del 23 novembre 1980 e del 14 febbraio 1981 subì danni abbastanza seri. Più grave ancora fu la gestione del post-terremoto. Molti centri storici ed edifici importanti furono distrutti, come -ad esempio- il solidissimo edificio scolastico (posto a sinistra, nella foto sopra, e nella foto a pag.48). Monumento dei caduti in guerra

Caratteristico è il quartiere antico di Baiano detto di ‘e Vesuni (i Visoni). Di sicuro, questo nome non ha nulla a che vedere con i simpatici animali da pelliccia. Alcuni Autori sostengono che esso possa derivare dai volti non proprio da fotomodelli dei villici che vi abitavano nei secoli scorsi, deformati dagli stenti e dalle malattie. Questa fantasiosa versione non appare del tutto condivisibile. Più plausibile si può ritenere la versione del prof. Galante Colucci, secondo cui il nome proverrebbe da una divinità osca, chiamata Vesuna o Venusia, alla quale -forse- era stato eretto un tempio nel caratteristico e antico quartiere. Questa affascinante ipotesi non è, però, suffragata da prove documentarie né da rinvenimenti di ruderi. Pare più probabile, invece (cfr. Napolitano-De Rosa, op.cit.), che in questo antico agglomerato urbano ci fosse un tempio dedicato a Giano bifronte. Come del resto appare probabile che ve ne fosse uno più importante sulla montagna 45

Baiano


La lastricatura del corso - Il miracolo del 1700

Benedetta Napolitano

di Arciano (=Arx Janui, 1930 altura di Giano). Questa divinità viene solitamente rappresentata con due grossi “faccioni”, da cui, appunto, Vesuni. Tale ipotesi se mbra essere avvalorata dal fatto che, secondo quanto riferiscono i più anziani, molti antichi portali del quartiere dei Vesuni, presentavano in corrispondenza della “ chiave di volta” (la parte superiore dell’arco), l’effige di grossi “capoccioni”, scolpiti nella bianca pietra calcarea o nel più friabile e nero piperno. Diversi elementi fanno ritenere che Baiano, in passato, dovesse essere particolarmente soggetto agli eventi alluvionali. Lo stesso Corso, doveva essere stato, in tempi remoti, poco più che un lagno. Infatti, durante i lavori del 1930, con cui si costruì una parziale rete fognaria e si provvide alla lastricatura delle strade principali, con “basolato” di pietra vulcanica (basalto), furono rinvenute sotto il piano stradale dell’attuale Corso le cosiddette “catene”: lastre di pietra calcarea usate per imbrigliare il deflusso delle acque. Inoltre, antichi cronisti riportano che Baiano: «... situato in luogo piano, (era) soggetto a continue alluvioni, per le grandi acque che calano da Summonte, dalla montagna della Tora, e dalle altre di Quadrelle e Monteforte...». I più anziani, a tale proposito, raccontano che il tratto di strada che si trova fra la casa comunale e il monumento ai caduti veniva chiamata ‘o malepasso, proprio per indicarne la pericolosità durante le piogge. E’ noto, infine, che fino alla metà del secolo scorso durante la stagione invernale gli studenti che uscivano dal vecchio edificio scolastico (demolito dopo il terremoto del 1980) venivano aiutati a “guadare” la strada tramite un piccolo carretto. Secondo una leggenda, fu proprio a causa di un miracolo occorso durante un’alluvione che venne eretto il Santuario di Santo Stefano Protomartire. Il titolo della suddetta chiesa viene ricordato fin dal 1308, nel libro delle Decime Ecclesiastiche. Essa sorge su una vecchia Cappella cimiteriale, ad un’unica navata, successivamente ampliata ed elevata al rango di Chiesa Madre, in seguito ad un miracolo avvenuto nei primi decenni del 1700. Si tramanda che, mentre i fedeli erano riuniti nella vecchia Chiesa Madre di Santa Croce per una funzione religiosa, si scatenasse un temporale così violento da trasformare in una vera e propria fiumana la strada antistante la chiesa e in Baiano

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L’Esagono

Le varie chiese - L’eremo di Gesù e Maria - I Sabbah

palude i terreni retrostanti. Ebbene, sembra che, mentre i fedeli intrappolati si preparavano al peggio, un provvidenziale raggio di luce penetrato attraverso una vetrata dell’abside, illuminasse un quadro di Santo Stefano e, riflettendosi su di esso, indicasse ai presenti la via della salvezza. I Baianesi gridarono al miracolo e vollero che a Santo Stefano, divenuto protettore del paese, fosse edificata una chiesa. Così, l’antica Cappella cimiteriale, ampliata a tre navate e ristrutturata, divenne la nuova Chiesa Madre dedicata a Santo Stefano Protomartire. Il quadro del Santo finì, poi, a Sirignano dove probabilmente ancora si trova. Da alcuni documenti storici, conservati nella Curia nolana, si apprende che questa chiesa funzionava da Parrocchiale già alla fine del 1586 (anno della visita pastorale di Mons. Scarampi). La statua di Santo Stefano risale al 1750. Il Santuario fu restaurato nel 1920. La Chiesa della Confraternita di Santa Croce, dalla pregevole facciata in stile gotico, conserva un dipinto su tavola raffigurante l’Invenzione della Santa Croce, del 1610, realizzato da Pompeus Landolfus e pregevoli stucchi seicenteschi. La Chiesa dei SS. Apostoli Giacomo e Filippo viene citata per la prima volta nel 1324. Presenta il caratteristico portone d’ingresso rivestito di lastre metalliche, risalente al 1794. All’interno si può apprezzare il pulpito in legno, con un affresco raffigurante la Madonna delle Grazie e la pala dell’altare maggiore con un dipinto su tela siglato Galasso, raffigurante la Vergine col Bambino tra i SS. Apostoli Filippo e Giacomo e le anime purganti. La Cappella della SS.ma Annunziata, del Seicento, è caratterizzata dalla notevole e pregiata struttura architettonica esterna, in piperno (pietra lavica). Nel quartiere dei Vesuni è possibile ammirare la graziosa Chiesa di San Giacomo, recentemente restaurata. Ancora più recententemente (marzo 2002) sono stati riaperti, dopo un certosino restauro, anche l’eremo e la chiesetta di Gesù e Maria, che verranno gestiti per 99 anni dalla Curia Vescovile di Nola. Su questo colle, dal 1400 al 1700, prima ancora che si chiamasse Gesù e Maria, si dice che furbi accattoni esercitassero la stregoneria e messe sataL’eremo prima del restauro niche (sabbah), per ap47

Baiano


Sant’Alfonso dei Liguori

Benedetta Napolitano

profittarsi degli ingenui contadini e pastori. Riti magici, vino, orge e qualche erba medicinale consentivano a stregoni e fattucchiere di plagiare e di sfruttare i poveri villici. Il fenomeno era diffuso in forma e misura diverse in tutti i paesi vicini, in particolare a Quadrelle e ad Avella. Sant’Alfonso dei Liguori (che fu, tra l’altro, l’autore di “Tu scendi dalle stelle”, la celeberrima canzoncina di Natale) combatteva tenacemente queste pratiche sataniche. Perciò, trovandosi in missione a Nola nel dicembre del 1756, venne in carrozza ad Avella e poi a Baiano. Qui, dopo aver predicato nella Chiesa di Santa Croce, chiese ed ottenne che sul menzionato colle venisse edificata una chiesetta da dedicare a Gesù e Maria. Questa fu costruita tra il 1756 e il 1759 sui vecchi ruderi di un precedente eremo (risalente al IV sec. d. C.). In seguito all’Unità d’Italia (1861) e alle leggi che prevedevano la vendita dei beni ec1918-19 clesiastici, la piccola chiesetta venne abbandonata, fu imposto il divieto di culto e le due statue di Santa Lucia e di Sant’Aniello furono portate in paese nella parrocchia di Santo Stefano. Si noti la fontana davanti all’edificio scolastico. Essa fu successivamente spostata nella piazza IV novembre e sostituita dal monumento ai caduti.

1937

Baiano

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L’Esagono

Alcune foto di Baiano

Chiesa di Santa Croce

‘e Vesuni

anni ‘30

‘e Vesuni

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Baiano


Il maio - Il mito di Cibele - Le passiate a Montevergine

Benedetta Napolitano

Il folklore baianese Le manifestazioni popolari più tipicamente baianesi sono concentrate nel periodo natalizio. Esse si fondano su tradizioni ataviche e pagane, successivamente cristianizzate dalla “lungimirante” politica del clero. Il periodo natalizio, infatti, coincide -grosso modo- con il solstizio d’inverno (21 dicembre), quando il sole sembra fermarsi nel cielo (da cui il nome “solstizio”) e le ore di luce giungono al minimo. Le antiche religioni, più sensibili ai ritmi della natura, festeggiavano in questo periodo la ripresa del ciclo astronomico. I romani, ad esempio, celebravano il Natalis Solis in onore del dio Mitra (personificazione del sole). In tali credenze pagane, inoltre, affondano presumibilmente anche le radici dei “focaroni”, con cui gli antichi cercavano -ritualmente- di contrastare l’avanzare delle tenebre.

La festività del maio baianese si svolge nel giorno di Natale e consiste, essenzialmente, nell’offerta a Santo Stefano Protomartire, protettore di Baiano, dell’albero più maestoso (maius=più grande) del bosco di Arciano. Si tratta (analogamente alla festa dei gigli di Nola) della trasposizione religiosa di un’antica festa pagana dedicata a Cibele; divinità della Frigia, il cui culto si diffuse prima in Grecia, poi, fra il IV e il III secolo a.C., nella Magna Grecia e, successivamente, nella nostra regione. Sul Monte Partenio (Montevergine) sorse un tempio dedicato alla “grande madre” Cibele, che venne chiamato Parthenios (da “vergine”) dai greci e Cibellinus dai romani. I festeggiamenti della dea si celebravano in primavera con riti orgiastici ed erano intrecciati con il culto di Attis, il giovane tanto amato dalla dea e da questa trasformato poi in pino. Per ricordare questo giovane nume, il 22 marzo ( giorno successivo all’equinoziodi primavera), si portava in processione un grande pino che, essendo sempreverde, simboleggiava l’immortalità (o, più precisamente, la morte e la rinascita) di Attis. I giorni successivi erano dedicati a festeggiamenti dal rituale spiccatamente orgiastico e lascivo, con cui le plebi partecipavano alla ripresa vegetativa (primavera) della Natura e al rinnovo di tutto il Creato. Nei secoli seguenti il culto di Cibele si indebolì sino a sparire del tutto. Sulle rovine dell’antico tempio, sembra tra il VI e il XII secolo d.C., si insediò e si consolidò una comunità cristiana e venne edificata una cappella dedicata alla Vergine, da cui prese origine l’attuale Santuario di Montevergine. La festa pagana, però, sopravvisse ed il vecchio albero di pino venne sostituito da grossi alberi, dalla indiscutibile simbologia fallica, che fino al 1700 venivano portati per le strade di Nola, prima di essere “cristianizzati” ed essere trasformati nei più famosi e pittoreschi gigli dedicati a San Paolino. A Baiano la festa del maio venne traslata dall’inizio della primavera al mese di dicembre, a Natale. La tradizione pagana legata ai riti orgiastici e gaudenti di Cibele sembra però riemergere, in maniera presumibilmente più casta e in chiave più ecologica, nelle antelucane “passiate a Montevergine”, che hanno luogo nei mesi di maggio e di settembre, in cui schiere di ragazzi e ragazze dei centri del Baianese s’incamminano, nottetempo, per i sentieri montani, alla volta del Santuario di Montevergine in allegra, rumorosa e goliardica compagnia.

Baiano

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L’Esagono

‘E messe ‘e notte - Processione del Bambin Gesù

I preparativi della grande festa collettiva del maio iniziano con la Novena di Natale, consistente nelle cosiddette messe ‘e notte, che si celebrano alle cinque di mattina, dal 13 dicembre -giorno di Santa Lucia- fino alla vigilia di Natale. Gruppi di ragazzi e ragazze, una volta finita la messa, fanno il giro del paese cantando- oltre alle classiche canzoni natalizie- la più tipica ‘Oi Stefanì (vedi a pag. seguente) La sera della vigilia, dopo il tradizionale cenone, dal centro storico di Baiano (quartiere Vesuni), ove è allestito un piccolo presepe, parte la processione del Bambin Gesù. Una folta folla di fedeli segue la processione (senza prete)

‘E mascarielli erano costituiti da una chiave femmina e da un chiodo tenuti insieme da uno spago. Nel foro della chiave veniva messa della polvere da sparo e poi il chiodo. La percussione del “mascariello” contro un muro, dal lato del chiodo, provocava il botto.

per le strade del paese, tra musiche e spari di tradizionali fucili ad avancarica (schioppi, o “scuppette”, e archibugi) impropriamente denominati carabine, di tracchi e (una volta) di “mascarielli”. La processione si conclude nella Chiesa di Santa Croce, dove il parroco accoglie i fedeli e celebra la Santa Messa. Alle cinque del mattino successivo (giorno di Natale), nella Chiesa di Santo Stefano Protomartire, si celebra la Messa che si conclude con la benedizione di attrezzi, carabine e delle squadre di persone (una volta quasi tutti boscaioli) che si recheranno a tagliare il maio nel bosco di Arciano. Qui giunti (a bordo di camionette, e poi a piedi) gli uomini scelgono l’albero di castagno più bello e più grande e vi incidono le lettere S.S.(iniziali di Santo Stefano) ed esplodono alcuni colpi in segno di festa. Fattosi ormai giorno, il maio viene abbattuto e sfrondato (lasciando -però- la frasca apicale) per poi essere trasportato fino a valle, insieme a tutti i rami ed alle sàrcine e sarcinelle (fascine) raccolte sul posto. Giunti al paese, fra un 51

Baiano


Spartito di Oi Stefanì

Benedetta Napolitano

3) Sott’o braccio, a ccore a ccore ‘mbri-

acat ‘ e passione, nce ne jamme ‘o fucarone chesta sera Stefa-

nì. E là ‘nnanz’ ‘a chellu fuoco, ie te giuro tutt’o bbene, tut-

t’ammore che me vene d’’a stu core mio, pe’ tte. E... viene, sì --

--- ecc..

Questa canzone , composta nel 1928 per una donna (Stefanina), diventò poi l’inno di Santo Stefano.

Baiano

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L’Esagono

Carabine

indescrivibile tripudio di spari e botti di ogni genere, uniti ai canti dedicati al Santo, si unisce al corteo l’Antico Gruppo Avancarica Baianese (fondato nel 1993). I proprietari delle “carabine” (alcune delle quali sono vere e propri pezzi d’antiquariato) danno vita, quindi, ad una spettacolare gara di abilità. Le vecchie carabine borboniche vengono caricate (anteriormente) con polvere nera (di tipo Antico Gruppo Avancarica Baianese rinculante e non esplosiva, come ci assicura l’armiere Stefano Lippiello). Per ovvii motivi di sicurezza, la carica viene effettuata solo con polvere da sparo, senza aggiungere le palle di piombo. Lo sparo produce una vera spettacolare fiammata, seguita da una vera e propria nuvola di fumo. Moschetto Il forte rinculo dell’arma viene attenuato da un sapiente Moschettone degli ussari movimento rotatorio delle braccia, talora un tantino Trombone della marina esagerato dalla estrosità e dalla sensibilità coreografica dello “sparatore”. Il maio, portato con un Alcune repliche di armi borboniche ad avancarica, carro trainato da cavalli, sul realizzate dall’armeria Lippiello Stefano di Sperone piazzale antistante il Santuario, viene innalzato -a mo’ di obelisco- con una complessa e spettacolare operazione. La base del maio viene fatta scivolare dal carro direttamente nell’apposita buca al centro della piazza, mentre robuste funi vengono calate dalla sommità della facciata della Chiesa e legate all’estremità del lungo tronco. Altre due funi (che lo tengono dritto) vengono tirate lateralmente. Indi, il grande albero viene issato a forza di braccia e con una tecnica collaudata per decenni. Secondo una tradizione che si 53

Baiano


La raccolta delle sàrcine

Benedetta Napolitano

tramanda da padre in figlio, un agile e temerario giovanotto si arrampica -poifino in cima al maio per liberarlo dalle funi. Fino ad una decina di anni fa, a questo punto seguiva un enorme fragore prodotto dagli spari di fucili e doppiette caricati a pallini, diretti contro la cima del maio. Lo scopo era quello di colpire alcuni barattoli che venivano appesi alla frasca apicale. In seguito questa tradizione venne abbandonata e si cominciò a sparare solo verso i rami. Oggi, non viene più consentita né l’una né l’altra usanza, per comprensibili motivi di sicurezza. Ma ciò non impedisce ai “focosi” baianesi di far esplodere le “trecce” di fuochi pirotecnici appese precedentemente all’imponente albero di castagno. A circa un’ora di distanza dall’innalzamento del maio, un centinaio di ragazzi e ragazze (ancora praticamente a digiuno) cominciano a girare per tutta Baiano per fare incetta di fascine, pezzi di vecchi mobili e di quant’altro possa fungere

Foto dei primi del ‘900

Fontana Vecchia

Baiano

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L’Esagono

Il fucarone - I battenti - Fontana Vecchia - Gesù e Maria - Carri

da “combustibile” per il fucarone (falò) che sarà acceso in serata. Il tutto viene portato, in varie riprese, nello spiazzale antistante il Santuario. Ma al gruppo dei giovani “raccogli-legna” non viene consegnata solo della legna: al loro festoso passaggio, tra canti, balli e spari di tracchi, la gente cala dai balconi decine di panettoni e di bottiglie di spumante, ai quali la squadra di raccoglitori non manca di rendere onore. Allegramente rifocillati, i giovani continuano il loro giro fino ad incontrarsi, nella piazza del municipio, con gli “sparatori” di carabine. Questi gli impediscono scherzosamente il passaggio, dando vita ad una pittoresca esibizione di spari con la carabina. I “raccoglitori”, per farsi strada, rispondono con scariche di tracchi e di rauti. E’ una vera e propria battaglia fino all’ultimo granello di polvere pirica! In serata, sempre nello spiazzale del Santuario di Santo Stefano, viene finalmente acceso un suggestivo “fucarone”, tutt’intorno al maio (ma a una certa distanza). I Baianesi, naturalmente, non si lasciano sfuggire questa occasione per dare vita ad un nuovo tripudio di spari e tracchi. Anticamente le donne usavano portare a case un pò di brace del focarone, poiché ritenevano che il fuoco del “fucarone” fosse sacro. Il giorno seguente (26 dicembre) è il giorno di Santo Stefano e i festeggiamenti proseguono con la processione e, al pomeriggio, con la vendita del maio. La caratteristica principale del maio baianese resta, comunque, la sentita e totale partecipazione popolare all’evento folkloristico-religioso pari, per intensità, solo alla manifestazione dei battenti di Santa Filomena, di Mugnano del Cardinale. Altre tradizioni da segnalare sono: la sfilata dei battenti, che si tiene il 3 di agosto; le scampagnate del mercoledì in Albis a Fontana Vecchia e le gite fuori porta del martedì in Albis all’ameno eremo di Gesù e Maria. In passato si svolgeva a Baiano anche un’importante Festa del vino. Nell’ultimo decennio, infine, si tengono a Baiano delle manifestazioni carnevalesche di buon livello, comprendenti sfilate di carri allegorici e balli (vi sono stati anche dei tentativi di riproposizione del “laccio d’ammore”).

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Baiano


Manifestazioni folkloristiche

Baiano

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L’Esagono

Altri contributi fotografici

FESTA DEL VINO

1921

Sopra. 1910.’E Stefanini. Fanfaretta di Santo Stefano: suonava delle marcette durante il maio. Sotto. La Villa Comunale di Baiano La Casa Comunale Il monumento dei caduti

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Baiano


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Dati essenziali

BAIANO Abitanti: 4.658 Baianesi (al 21.10.2001) Superficie territoriale: 1.225 ettari Altitudine sul livello del mare (min/max): 174/796 m Altitudine sito casa comunale: 191 m slm Scuole: Asilo nido (non statale) Scuole Materne (statali e non statali) Scuole Elementari (statali) Scuole Medie Inferiori (statali)

Strutture sportive: Stadio Comunale, Campo da Tennis/calcetto. Palestre: scuole medie e scuole elementari. Moderno Palazzetto dello Sport.

Informazione e cultura: -

Biblioteca Comunale

Cittadini illustri: * Mons. Agnello Renzullo, Vescovo di Nola e poi di Filadelfia; * Prof. Vincenzo Bocciero, avvocato e parlamentare, direttore archivio di Stato di AV; * Dott. Giuseppe Lembo, finanziere, uomo politico e medico; * Avv. Giuseppe Lippiello, amministratore comunale e provinciale; * Canonico Don Stefano Boccieri, professore al Seminario Vescovile di Nola, parroco di Santo Stefano, cameriere segreto soprannumerario di Sua Santità presso il Vaticano, autore di un saggio agiografico su Santo Stefano e di due raccolte di novelle.

Attività economiche: -

Industrie boschive (produzione legna da ardere); segheria legno tropicale Industria trasformazioni del nocciolo (clamorosamente “sfuggita” alle rilevazioni del Piano di Sviluppo della Comunità Montana) Aziende zootecniche: bovini, ovini e caprini; Agricoltura: olivicoltura e corilicoltura; Turismo: ristorazione ; Industrie metalmeccaniche artigianali (tornitori); Terziario: piccoli negozi e supermercato; Produzione componenti elettriche ed elettroniche; Artigianato: produzione di “sporte” Edilizia.

Varie: -

Per altri dati demografici e statistici Comando di Compagnia dei Carabinieri; consultare il capitolo “aspetti demografici” Casa di Cura “Villa Maria”; Guardia medica, medico condotto ASL; Caserma Guardia di Finanza; Uffici del Corpo Forestale dello Stato; Sede del Ce.S.A. (Centro di Sviluppo Agricolo, ex-Ispettorato Agrario, già Ce.Zi.Ca); Sede della Comunità Montana (la sede operativa è stata trasferita a Quadrelle); Capolinea della Circumvesuviana (1885) - Casello Autostrada A-16 (1965).

Baiano

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L’Esagono

Itinerari naturalistici

Baiano: risorse ambientali Bosco di Arciano Sito nella località omonima, a circa 400 m slm, bosco di ceduo castanile di circa 200 ettari. Accesso dalla strada Carcara e dalla via omonima, a circa 3 km dall’abitato. Vi crescono ottimi funghi. Questo bosco, a lungo conteso fra Mugnano e Baiano ha più volte, con i suoi castagni, sottratto alla morsa della fame e del freddo i nostri avi. Inoltre, è famoso fra i fitopatologi di tutto il mondo perché proprio qui, per la prima volta in Italia fu rinvenuto un pericoloso fungo (microscopico) parassita: l’agente del cancro della corteccia del castagno, ora sotto controllo. Casone-Arciano Boschetto di conifere di circa 3 ettari. Piano della Cisterna Vasto altopiano di circa 20 ettari di castagneto da frutto. Ideale per funghi, a circa 8 km dall’abitato.

Foto aerea del 1996

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Le origini del nome - Il castello del Litto - La Villa Caesarana

Benedetta Napolitano

Mugnano del Cardinale Il toponimo Mugnano deriverebbe, secondo alcuni Autori, dalla divinità Giove Ammone di cui, anticamente, doveva sorgere un tempio alle falde del colle del Litto (Lyctus). Secondo altri, invece, esso proverrebbe da Munianus, una villa prediale appartenuta ad un romano di nome Munio. E’ certo, comunque, che Mugnano abbia origini molto antiche. Infatti (cfr. Napolitano e De Rosa, op. cit.), antichi Studiosi riferiscono che, ai loro tempi (fine ‘700), era ancora possibile osservare i ruderi delle «…torri con gli spalti e le torricelle avanzate sulla scoscesa del burrone di Pontemiano detta “la difesa”, e le mura di cinta ed alcuni tratti di un cunicolo». E, riferendosi alla località Litto, ci tramandano che: «veggonsi… i ruderi di molte fabbriche (fabbricati) Castello Svevo del Litto. Ruderi. …vestigi di antica gran torre, di alcuni molini ad acqua … e poco distante una sorgente di acque leggere, salubri e limpidissime». Si ritiene che il castello svevo del Litto (ora ridotto ad un misero ammasso di ruderi), sia stato edificato su una più antica fortificazione di epoca romana, a sua volta eretta sui resti di una precedente fortezza fatta costruire dai Greci Calcidiesi (provenienti dalla città cretese di Lyctos e che avevano stabilito una potente colonia a Cuma), i quali fra il V e il IV secolo a.C. colonizzarono i territori di Nola, Avella, Avellino e Benevento. Quasi sicuramente Mugnano ebbe anche un’era Sannitica. Esistono, poi, incontestabili evidenze di una “Villa Caesarana”, di epoca romana, che sorgeva sull’altura del Morricone, sul sito che poi sarebbe stato utilizzato per la costruzione della chiesa dei SS. Pietro e Paolo, prima, e del Cenobio di San Pietro a Cesarano, poi. Secondo quanto tramandano antichi Studiosi, durante i lavori di costruzione di questo monastero (1641) furono rinvenute alcune tubature in piombo che dovevano far parte, evidentemente, dell’impianto termale della villa gentilizia. Nel corso degli stessi lavori sarebbe stata rinvenuta anche una statua in marmo, raffigurante un vitello, prontamente distrutta perché ritenuta l’effige di un idolo pagano. Fu ritrovato anche un bassorilievo rappresentante “il prosperoso seno delle dea Cerere e i numerosi serpenti che lo circondavano”. Mugnano del Cardinale

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L’Esagono

Pontem Mianum - Camillanum - Rione Archi - Pupianum

Nel 1749, dallo stesso sito archeologico emersero altre importanti tracce dell’antica Villa romana. Nel giardino del convento furono rinvenuti un mosaico e alcune fondamenta di mura. Ci si accorse, inoltre, che i pilastri laterizi che reggevano le volte dell’antichissima chiesa dei SS. Pietro e Paolo (risalente al VI secolo d.C.) altro non erano che i resti dell’antica Villa Caesarana.

S. Pietro a Cesarano

Infine, antiche ed autorevoli fonti documentarie assicurano che, a Mugnano del Cardinale, siano stati : “... in ogni tempo scoverti e poi distrutti per ignavia o ignoranza, sepolcri laterizi, con entro scheletri e monete e vasi fittili e idoletti e fibule e anelli, e tanti altri oggetti di non dubbia antichità osca, etrusca, greca e romana”. Viene comunemente accettata la tesi che l’attuale Mugnano del Cardinale derivi dalla confluenza di più nuclei abitati, di origine ed età diverse: Litto, rione Cardinale, rione Archi, Pontem Mianum (o Pontem Mignanum) e Camillanum. Quest’ultimo nucleo abitato si trovava tra l’attuale Mugnano del Cardinale e il bosco di Arciano (zona della Circumvallazione o Via San Silvestro). Di esso è fatta menzione in un “privilegio” di Papa Urbano IV del 1264 (cfr. capitolo su Quadrelle). Ponte Miano era posto oltre il cimitero del paese, andando verso Monteforte, nella zona della prima grande curva (‘o ponte ‘e vascio), dall’altra parte del vallone della Difesa. Esso, in antico, costituiva il confine tra i possedimenti di Avella e quelli del santuario di Cibele (nda. futura Montevergine) e, nel medioevo, tra il feudo avellano e quello di Monteforte. Sembra che da qui, nei primi anni del 1200, quaranta famiglie si trasferissero a Mugnano (il cui nucleo primitivo probabilmente già esisteva). Tra Pontem Mianum e rione Archi, doveva esistere un altro piccolo agglomerato detto Pucciano (Pupianum). Esso era situato nella zona dell’odierno cimitero, 61

Mugnano del Cardinale


Le origini

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fatto costruire nel 1856. Il rione Archi che tanto ha fatto discutere (e, inspiegabilmente, finanche litigare) gli Storici locali, deve presumibilmente il suo nome al fatto che si trova su una piccola salita (Arx = altura). La prima notizia documentata (pergamena n. 219 dell’ Archivio di Montevergine) dell’esistenza di Mugnano del Cardinale, risale al 1135. Altre pergamene, di Pontem Mianum epoche diverse -conservate nel medesimo Monastero Verginiano- sembrano far riferimento a Mugnano del Cardinale, definendolo Fundum mammulleianum. Litto e Ponte Mignano (o Ponte Miano) furono di proprietà di Riccardo I Scillato, sotto l’alta signoria del feudatario di Monteforte, perlomeno dal 1272. Nel 1312 il feudo fu ceduto all’Abbazia di Montevergine in cambio di altre terre che i monaci possedevano a San Marzano (San Mauro). Per la precisione lo scambio avvenne con “San Mauro e i molini di Nocera”. Questa permuta fu voluta dal monastero di Montevergine per gestire direttamente le lucrose entrate delle taverne, delle bettole e dei luoghi di ristoro posti lungo la strada che passava per Mugnano e Monteforte, e lungo quella che passava per il Litto, che -dopo nove miglia di sentiero tra i boschigiungeva sino a Montevergine. Nicolò Orsini, conte di Nola, ottenne in fitto le terre di Litto, Pontemiano e Quadrelle, ed alla fine del trecento le incorporò nella baronia di Avella, unitamente a Monteforte. Le sorti di Mugnano, frattanto organizzato a Universitas (ndr. una sorta di comune), si intrecciano con quelle di Raimondo Orsini, marito di Isabella Caracciolo ed alleato di Marino della Leonessa in una guerra alla Badìa di Montevergine. Il Papa Martino V scomunicò gli usurpatori e fece restituire tutti i possedimenti alla Badìa. Allora Mugnano, chiamato Mugnano di Montevergine, divenne un feudo dell’Abbazia di Montevergine e fu indicato nei documenti con la dicitura: “homines casalis Mugnani”. Nel quattrocento, l’Abate feudatario Palamides lo cedette al Cardinale Ugone Lusignano, cognato della regina Giovanna II, e Mugnano entrò a far parte della Commenda di Montevergine. La “Commenda” era un istituto ecclesiastico grazie al quale una chiesa o un beneficio privi di titolare venivano affidati, “raccomandati”, ad un importante personaggio. Mugnano del Cardinale

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L’Esagono

Procaccia - San Gennaro

Il Cardinale Commendatario governava Mugnano tramite i suoi delegati, monaci anch’essi, e Giovanni d’Aragona commendatario tra il 1466 e il 1485, figlio del re Ferdinando D’Aragona, fece costruire il palazzo del Cardinale. Il centro abitato assunse, così, il nome di Mugnano del Cardinale. Successivamente il palazzo cardinalizio venne trasformato in una grande foresteria, denominata il Procaccia. (In tempi a noi più vicini esso fu utilizzato, prima come deposito di carbone e, poi, come sala cinematografica, denominata Cinema Partenio).

Procaccia

Storici dell’epoca narrano che, prima che fosse costruita la Via Regia delle Puglie, « … qui (davanti al “Procaccia”) terminava la strada rotabile in piano, e cominciava la mulattiera, che, ripida e sassosa, ma confortata da svariati spettacoli naturali e bellissimi paesaggi, si inerpicava su per le balze e per le forre del celebre Partenio. Qui si lasciava la vettura per la cavalcatura, e viceversa…». Di qui «...nel verno del 1497 … (passò) una nobile schiera di Cavalieri napoletani, per venire incontro e scortare il cardinale Alessandro Carafa, arcivescovo di Napoli, il quale reduce dal Santuario (di Montevergine), recava seco le preziose reliquie di San Gennaro, guadagnate a quei monaci riluttanti. Era il 13 gennaio, e nel rigido e sereno meriggio invernale fu visto dai monti di Mugnano, bianchi di neve, discendere (per la mulattiera) in lungo ordine 63

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San Pietro a Cesarano

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serpeggiante il sontuoso corteo…». La notte del 13 gennaio del 1497, le sacre spoglie di San Gennaro, sostarono nel menzionato palazzo d’Aragona del rione Cardinale. Nel 1511 la commenda di Montevergine passò alla Casa dell’Annunziata di Napoli (A.G.P., Ave Grazia Plena) per circa 300 ducati. Nel 1641 -come già accennato- venne fondato (dal prete missionario Michele Trabucco) il Cenobio di San Pietro a Cesarano, dei Padri Pii Operai. Questo Istituto esercitò una funzione altamente morale sulle popolazioni di queste contrade, tra il Seicento ed il Settecento, quando epidemie e carestie funestavano queste terre. L’apertura della Via Regia delle Puglie (1757), costituì un decisivo fattore di crescita economica per Mugnano del Cardinale, che divenne un importante crocevia commerciale tra le Puglie e Napoli. Da Mugnano venivano esportati i salumi in Puglia e da qui giungevano formaggi, olio e bovini. Risalgono a quell’epoca i primissimi salumifici artigianali, mentre per le prime vere industrie bisognerà aspettare i primi del Novecento. Altre attività di una certa importanza erano, come nei paesi limitrofi, la sericoltura (allevamento del baco da seta), la coltivazione della canapa da fibra, l’allevamento del bestiame e lo sfruttamento dei boschi per legnami, carbone e castagne. Nel Palazzo d’Aragona (o del Cardinale) venne istituito un ufficio postale e una delle più importanti barriere daziali del Regno, che raccoglieva dazi, tasse e balzelli di tutte le provincie dell’entroterra. Perciò, tale palazzo venne da quel momento chiamato “del Procaccia”. Bettole, osterie, industrie e attività di ogni tipo sorsero lungo l’importante arteria stradale e molte case gentilizie furono costruite in quell’epoca di vero e proprio “boom economico”. Nel 1799 al passo del Gaudo (tra Mugnano e Monteforte) e al ponticello del rione Cardinale si svolse un’importante e cruenta battaglia tra giacobini repubblicani e sanfedisti realisti, di cui è opportuno dare qualche cenno. Mugnano del Cardinale

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L’Esagono

1799: scontro tra Giacobini e Sanfedisti

Nel convento di San Pietro a Cesarano era stato confinato, fin dal 1793, il sacerdote calabrese Don Antonio Jerocades (uno dei maggiori esponenti del movimento massonico e giacobino meridionale), che con il suo indiscutibile carisma aveva raccolto proseliti in tutti i paesi della valle. Quando, il 23 gennaio 1799, in seguito agli eventi della Rivoluzione Francese, l’esercito Francese entrò a Napoli e vi proclamò la Repubblica, i patrioti mugnanesi, guidati da Jerocades, furono i primi in Irpinia ad istituire il Municipio repubblicano e le milizie civiche, e a piantare (nel rione Archi) l’Albero della Libertà (simbolo della repubblica partenopea). Come sempre succede nelle rivoluzioni, vi furono anche violenze e saccheggi incontrollati. Nel nostro mandamento erano presenti, comunque, anche numerosi realisti filoborbonici. Tra questi è opportuno menzionare Michele Mario Bisesti di Mugnano del Cardinale; Pietro Foglia di Baiano; i sacerdoti Michele d’Acierno e Biagio Cassese (a Sirignano) e don Saverio Bisesti (del Cardinale), che, segretamente, si preparavano alla restaurazione della monarchia. Avvenne che il 7 maggio i francesi ritirarono da Napoli gran parte delle loro truppe per mandarle al Nord a soccorrere i soldati impegnati contro gli austrorussi, abbandonando la repubblica partenopea (mai richiesta né eletta dal popolo). Vi furono insurrezioni un po’ dovunque, spesso, soffocate nel sangue. Il generale repubblicano Agamennone Spanò (il giorno 20 o 21 maggio) passò una prima volta per Mugnano (ove venne accolto con grandi onori) per raggiungere le Puglie e ricongiungersi con la colonna del generale Federici. Ma, giunto ad Avellino, ebbe notizia che Foggia era stata presa dall’esercito sanfedista del cardinale Ruffo, perciò decise di ritornare a Napoli. La notizia della sconfitta dei Repubblicani a Foggia, giunta a Mugnano la sera del 27 Via Casa Canonico. 1918. maggio, mise in azione tutti i 65

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Il Santuario di Santa Filomena

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reazionari filoborbonici, che discesero armati a Sirignano, Avella, Baiano, Sirignano, Sperone (allora ancora casale di Avella), dando una caccia spietata ai repubblicani e abbattendo ovunque l’Albero della Libertà per sostituirlo con la Croce della Santa Fede. La plebe tutta e gran parte dei repubblicani si affrettarono a cambiare bandiera e a ridiventare filoborbonici. Il giorno seguente (28 maggio), il generale Spanò, ignaro di quanto accaduto, ritornò verso Mugnano ma fu attaccato all’altezza del Maisone e subì ingenti perdite. Riuscì ad entrare a Mugnano e ad operare una rappresaglia. Ma una moltitudine di profughi proveniente da Montoro, Sanseverino e Mercogliano, giunse in soccorso ai Mugnanesi e li rifornì di armi e munizioni. Costoro si riorganizzarono e scacciarono i repubblicani di Spanò. Inoltre, una parte di essi (raggiunti dai realisti di Baiano e di Sirignano) si andarono ad appostare sul ponticello del Cardinale e qui prepararono un’altra micidiale imboscata ai giacobini. Rione Cardinale Secondo le fonti storiche, la battaglia primi del ‘900 durò circa cinque ore e non meno di cinquecento uomini rimasero sul campo, numerosi furono anche i feriti. Il generale Spanò riuscì, travestito, a mettersi in salvo ma la “colonna campana” da lui comandata, composta da circa ottocento soldati, era stata completamente annientata. Nel combattimento si distinse, tra i realisti, il mugnanese Camillo Speltra. Non tutti i mugnanesi cambiarono bandiera. Si tramanda, infatti, che quando il 10 giugno giunse, diretto a Napoli, il cardinale Ruffo, un certo Antonio Napolitano, di indubbia fede repubblicana, dall’alto della sua abitazione all’altezza del ponte Figlioline (nel rione Archi), ebbe l’audacia di sparare un colpo di schioppo in direzione del menzionato cardinale, senza però colpirlo, e di riuscire a fuggire verso il bosco di Arciano, per riapparire solo nel 1806, quando ritornarono i francesi. Famosissimo è il Santuario di Santa Filomena, la cui storia inizia alla fine del secolo XVI, quando la comunità mugnanese, con il ricavato del taglio della selva demaniale delle Vallicelle, diede inizio alla costruzione della chiesa di Maria Santissima Mugnano del Cardinale

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L’Esagono

Santa Filomena

delle Grazie che, circa due secoli dopo, sarebbe divenuta il Santuario della giovane Martire, onorata e venerata in tutto il mondo. In origine, l’edificio religioso aveva un solo bellissimo campanile, posto sul lato est. Alto più di 58 metri, a terrazze quadrate fino a circa la metà dell’altezza, la parte superiore di forma ottagonale, terminante con una cupoletta a pera, portante in cima una palla di bronzo dorato, a sua volta sormontata da una banderuola e dalla croce. Il 30 maggio 1673 il campanile fu danneggiato gravemente da un fulmine, ma fu prontamente ricostruito. Ma ciò che non riuscirono a fare gli eventi naturali (come spesso è accaduto nella storia di Mugnano e dell’intero mandamento) lo fecero gli uomini. Infatti, tra il 1850 e il 1860, per volere del marchese d’Avalos, la chiesa della Madonna delle Grazie fu restaurata e il bellissimo campanile fu abbattuto non per essere ricostruito com’era, ma per essere sostituito dalle due, modestissime, torri campanarie che ancora oggi si vedono. Il 25 maggio 1802, durante gli scavi nelle catacombe di Priscilla, a Roma, fu rinvenuto il corpo di una giovanissima martire, di circa dodici o tredici anni: Santa Filomena. Don Francesco De Lucia (1772-1847), sacerdote pio e colto di Mugnano, trovandosi a Roma l’8 luglio 1805, chiese e (grazie alla mediazione del suo amico Mons. Bartolomeo De Cesare, Vescovo di Potenza), ottenne, dal Papa Pio IX, il corpo della Santa bambina. Il 10 agosto 1805 le reliquie della Santa fecero il loro ingresso trionfale e miracoloso nella città di Mugnano del Cardinale. Le cronache raccontano che «...all’arrivo delle Sacre reliquie, al Cardinale di Mugnano, un avvenimento straordinario sconvolse l’entusiasmo della folla: un vento impetuoso si scatenò all’improvviso per placarsi di colpo quando il pio sacerdote Don Francesco De Lucia esortò la folla a non aver paura perché si trattava del vano tentativo delle forze del male che tentavano, inutilmente, di ostacolare l’arrivo della Santa. Con la meraviglia di tutti, le candele ardenti davanti all’urna della Martire non furono spente dal forte vento». Numerosi altri miracoli, verificatisi successivamente, contribuirono alla repentina diffusione del culto della Maria Cristina di Savoia Santa in tutto il mondo. 67

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Maria Cristina di Savoia - Papa Pio IX - Post-terremoto del 1980 Benedetta Napolitano

Giunsero a Mugnano, per adorare la Santa, vescovi, arcivescovi e, il 7 novembre 1849, lo stesso Pontefice Pio IX, per essere stato guarito da una grave malattia. Vi vennero, inoltre, l’imperatrice del Brasile Maria Teresa; la regina Maria Isabella moglie di Francesco I; la regina di Francia Amalia Borbone moglie di Luigi Filippo; la regina Maria Cristina di Sardegna vedova di Carlo Felice, l’infante di Spagna; il re Ferdinando II e la sua prima moglie Maria Cristina di Savoia (poi diventata beata), che volle farvi costruire un’educandato. Grazie alla devozione per Santa Filomena, Mugnano fu citato da alcuni grandi scrittori come Alessandro Dumas e Marino Moretti (la cui madre, di nome Filomena, era devota della giovane Martire). Nel 1838 venne costruito “lo stradone”, in terra battuta. Nel 1847 il re delle Due Sicilie, Ferdinando II, devotissimo di Santa Filomena (si narra che venne a Mugnano non meno di una settantina di volte) fece allargare e pavimentare questo grande viale, abbellendolo da due filari di alberi di tiglio. Fu allargata la piazza, che all’epoca era occupata da “rurali casamenti” e fu costruito un imponente edificio che ospitò per alcuni anni le suore della Carità (e che poi divenne Palazzo Rega). Questo edificio occupava l’angolo formato dal lato est della parte alta dello stradone e dal lato sud della piazza. Il 7 novembre1849, il papa Pio IX, da un balcone di questo edificio benedisse la folla acclamante. L’11 gennaio 1853, sorse, attiguo al Santuario, il maestoso edificio a tre piani che poi ospitò l’Istituto Maria Cristina di Savoia (e, negli anni ’70 del XX secolo, il Liceo Scientifico “P.S. Mancini”, sezione distaccata di Avellino). Le suore della Carità vi si trasferirono immediatamente, abbandonando il vecchio edificio che, verso il 1870, fu acquistato “con tenue pecunia” dal Senatore Giuseppe Rega. Quest’ultimo edificio avrebbe poi avuto una lenta decadenza, fino ad essere completamente distrutto “dagli eventi postsismici del terremoto del 1980”. Palazzo Rega

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L’Esagono

Un prodotto da valorizzare: il “salame tipo Napoli”

Il salame di Mugnano A Mugnano del Cardinale si producono salumi da tempo immemorabile, quantomeno fin dall’epoca romana. E’ risaputo, infatti, che i Romani (che colonizzarono anche questo territorio) conoscevano bene le tecniche di conservazione delle carni tramite essiccamento, salagione e affumicamento. In passato, si producevano salumi, a livello casalingo, in tutti i paesi del mandamento. Antichi Cronisti ci informano di un fiorente commercio di salumi mugnanesi con le lontane Puglie, già nel corso del XVI° secolo. I primi veri e propri salumifici sorsero, però, solo agli inizi del XX° secolo, a Quadrelle. Mugnano del Cardinale divenne l’indiscussa patria dei salumi nostrani solo nel corso del secondo dopoguerra. Vi operano, attualmente, circa una dozzina di aziende a carattere prevalentemente artigianale. Parte di esse stanno tentando, con gli auspici dell’amministrazione comunale, di riunirsi in un consorzio che possa tutelare la Logo del Consorzio tipicità del prodotto, favorire la realizzazione di impianti di dimensioni più adeguate alle mutate esigenze produttive e mettere in atto tutte le politiche (economiche e di marketing) necessarie per dare un nuovo impulso a questo importante settore produttivo. Si stima che il fatturato annuo del comparto si aggiri attorno agli 80 miliardi di vecchie lire (circa 40 milioni di euro). Nel comprensorio non esiste una suinicoltura locale, per cui la materia prima deve essere acquistata altrove. Alcuni salumifici adoperano ancora carne fresca, altri solo mezzene congelate. Attualmente, vengono lavorate circa 3000 tonnellate di carne suina, acquistata al nord Italia o all’estero (Francia, Germania, Austria, Inghilterra e Spagna), al prezzo di circa 2,50 euro al chilogrammo. I prezzi di vendita all’ingrosso si aggirano attorno ai 4,50 euro al chilo mentre quelli al consumo variano tra i 7,50 e i 9,50 euro al chilo. Qualche salumificio adopera, nell’impasto, anche carne proveniente da tagli “più nobili” (coscia e longissimus dorsi) che solitamente vengono utilizzati per la produzione, rispettivamente, di prosciutto e di coppa (o capocollo). In questo caso, la consistenza del salame si avaffumicamento vicina a quella della “soppressata”. 69

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La tipicità del salame di Mugnano del Cardinale

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Normalmente, per l’insaccaggio ‘e suppressatare viene utilizzato l’intestino tenue di bovino (raramente quello di suino), in nessun caso vengono adoperati budelli artificiali. A Mugnano del Cardinale si producono vari tipi di salumi (pancetta, salsicce, capicolli, salami, soppressate e prosciutti) ma il prodotto principe è, senz’altro, il cosiddetto “salame di Mugnano” o “salame tipo Napoli”, dalle particolari caratteristiche organolettiche e gastronomiche. La tipicità del prodotto deriva dai tagli di carne impiegati, dalla specificità delle formulazioni (rapporto tagli magri/tagli adiposi, quantità di cloruro di sodio, nitrato di potassio o salnitro, spezie, tipo e quantità di zuccheri), dall’impiego di microrganismi autoctoni (lattobacilli, micrococcae, lieviti, enterobatteri non patogeni), dalla tradizionale tecnica di asciugamento con fumo e, soprattutto, dalla particolare lavorazione artigianale, eseguita dalle espertissime insaccatrici o “suppressatare”. A proposito della presunta “loquacità” delle simpaticissime suppressatare, i mugnanesi hanno coniato il proverbio: «’E suppressatare: comme taglian’ ‘e suppressat’, accussì taglian’ pure ‘e cristian’» che -tradotto lliberamente- sta a significare: «così come tagliano i salami, così “tagliano” (con la loro affilatisima lingua) pure le persone. «Un possibile sviluppo del comparto salumiero potrebbe essere quello di creare ex novo altri prodotti che, in futuro, diventeranno tipici. Ad esempio, si potrebbero allevare razze suine più rustiche (come la Casertana, la Cinta Senese, la Siciliana ed altre), che possano pascolare e “grufolare” liberamente, castagne, radici ed altro. Con la macellazione di tali animali si possono ottenere prodotti dal gusto particolare che possono trovare una loro collocazione negli agriturismi e in una cucina rurale orientata al soddisfacimento di un turismo di nicchia. Il tradizionale salame di Mugnano, pur con l’indispensabile adeguamento delle strutture, dovrebbe continuare ad essere prodotto e stagionato in maniera tradizionale: modernizzare troppo la produzione potrebbe condurre alla perdita delle caratteristiche organolettiche del prodotto.». (dagli appunti del dott. agr. Pellegrino De Rosa)

quann’ s’accirev’ ‘o puorco

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La sfilata dei battenti

Il folklore mugnanese La tradizionale sfilata de « ‘ E Va t t i e n t i ‘ e S a n t a Filumena», risalente al 1934, rappresenta la manifestazione folkloristica più importante di Mugnano del Cardinale. I battenti sono vestiti con maglia e pantaloni bianchi adornati con una fascia rossa (vedi foto) e rigorosamente a piedi scalzi. Ma, contrariamente a quanto farebbe pensare il nome, i “battenti” nostrani (intelligentemente) non si flagellano affatto, come invece fanno i “flagellanti” o “’e fuienti” di altre zone del meridione d’Italia. Le manifestazioni di Mugnano del Cardinale (e degli altri centri del mandamento) sono molto più solari e allegre. Ciononostante, l’evento è molto sentito dai fedeli. Questa tradizionale marcia si tiene la seconda domenica di agosto, in occasione dei festeggiamenti di Santa Filomena (amatissima dai mugnanesi, almeno quanto la Madonna delle Grazie, che è la Patrona di Mugnano del Cardinale). Si tratta di un miscuglio tra sacro e profano che, talora, assume interessanti aspetti sociologici e antropologici che andrebbero meglio analizzati.

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I battenti: la prima squadra

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Prendono parte a questa manifestazione persone di ogni età e di ogni estrazione sociale; lo studente, l’operaio, il politico, il collaboratore ecologico e anche «…qualche piccolo delinquente che –mentre prepara un’altra malefattaspera, con questa performance “atletico-religiosa” di farsi perdonare di quelle precedenti». Vi partecipano anche alcuni vecchietti, che nei giorni normali si aiutano col bastone, ragazzi e ragazze nel pieno del loro vigore fisico e –solo per qualche metro- minuscoli bambini, anche di pochi mesi- portati teneramente in braccio dai loro sudatissimi papà. Lo spettacolo è veramente suggestivo. Un vero e proprio sciame di persone parte da Cimitile e -a piedi scalzi sull’asfalto roventeavanza per chilometri, sotto il sole cocente e senza interrompere mai il passo, per giungere dopo circa tre ore di marcia al Santuario della Santa. A Mugnano vi sono due squadre di battenti. La “prima squadra”, più numerosa, è composta da quasi un migliaio di fedeli. Prima di giungere al Cardinale si unisce, in coda al corteo, la cosiddetta “barca” (un quadro di Santa Filomena posto su una piattaforma abbellita da colonne e nastri), portata a spalla da alcuni battenti (che, a differenza di tutti gli altri, indossano fasce azzurre). Quando i primi battenti giungono al ponticello del Cardinale, viene sparata una prima scarica di fuochi pirotecnici a cui fa seguito una seconda salva di colpi allorquando essi giungono ai piedi Santa Filomena dello scalone del Santuario. Qui i battenti si inginocchiano per alcuni minuti, in segno di devozione. Poi –sempre in ginocchio- salgono lo scalone e strisciano fino all’urna della Martire ove depongono dei ceri (alcuni dei quali di diMugnano del Cardinale

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L’Esagono

La Seconda squadra - Il gemellaggio con Altavilla Irpina

mensioni veramente ragguardevoli). A distanza di circa mezz’ora, giunge la “seconda squadra” composta da circa trecento battenti. La sfilata si conclude verso mezzogiorno e ad essa segue la celebrazione della Santa Messa. Già in mattinata, verso le nove, erano giunti i battenti di San Pellegrino da Altavilla Irpina. E, dopo di loro, quelli di Bitonto (Bari). Negli ultimi anni, i battenti di Altavilla hanno arricchito la coreografia, portando sulle spalle -per la salita dello “stradone”- una piattaforma con sopra una ragazzina di dodici-tredici anni, che rappresenta Santa Filomena (la Santa Bambina). I battenti di Santa Filomena, a loro volta, ricambiano la visita a San Pellegrino, il 24 agosto. Ad Altavilla Irpina, entrano prima i battenti Mugnano del Cardinale, poi le due compagnie provenienti da Avella, seguite da quelle di Roccarainola, di Manocalzati, e, per ultima, da quella di Altavilla.

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Il maio

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A Mugnano del Cardinale, come in tutti i paesi del mandamento, si perpetua anche la tradizione del maio. Il 10 gennaio, verso le sei mattina, i membri del Comitato per i festeggiamenti di Santa Filomena, partecipano alla Santa Messa e ricevono la benedizione del Rettore di Santa Filomena, don Giovanni Braschi, che –uscito dal Santuario- benedice anche gli autocarri e le attrezzature. La colonna di automezzi viene “scortata” dalla banda musicale fino al rione Cardinale, dopodiché si porta in montagna (località Litto, Cerreta, Faitiello) per andare a caricare i mai, già tagliati da qualche giorno. Normalmente, vengono abbattuti circa una decina di alberi. Essi non vengono innalzati, ma sono semplicemente venduti per contribuire alle spese per la Festa di Santa Filomena. Dopo aver caricato i mai sui camion, gli uomini si trattengono in montagna per partecipare ad un luculliano banchetto a base degli ottimi e tipici salumi locali, innaffiati con generose quantità di buon vino. Verso le cinque o le sei del pomeriggio, preceduta dal crepitìo di tracchi, rauti e castagnole, e dallo strombazzare dei clacson, giunge in paese la colonna di camion carichi di alberi che sporgono oltre la motrice, come canne di grossi cannoni. Sul primo automezzo del corteo, generalmente, prendono posto alcuni musicanti, muniti di tamburi, trombe e piatti che intonano ritmiche canzoni napoletane. Gli altri uomini, “armati” di sacchi a tracolla pieni di trik-trak, lanciano fuochi artificiali tutt’intorno. Dopo aver attraversato la Nazionale, la chiassosa e festante colonna di automezzi imbocca lo “stradone” e giunge nella piazza adiacente al Santuario, dove gli imponenti alberi vengono scaricati per poi essere venduti. In certi anni (vedi foto sopra), alcuni mai vengono tirati a forza di braccia, per brevi tratti. Mugnano del Cardinale

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‘O fucarone - Gesù e Maria - Arte sotto le Stelle

Il fucarone a Mugnano del Cardinale viene acceso il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia. Per quanto riguarda le festività religiose è d’obbligo citare quantomeno la festa di SS. Maria delle Grazie, la Patrona di Mugnano. A questa Santa i mugnanesi sono così legati da fare il possibile -da qualsiasi parte del mondo si trovino- per essere presenti a Mugnano nel giorno della celebrazione della festa (2 luglio). Una tradizione ancora viva è quella delle scampagnate a Gesù e Maria, una chiesetta del XV secolo, situata in collina. Il martedì in Albis intere famigliole o comitive di giovani, partecipano prima al rito religioso che si celebra nella graziosa chiesetta da poco restaurata e poi si trattengono a prender parte a tavolate nelle campagne circostanti o a romantiche ed ecologiche escursioni alla pineta di San Pietro o, più sopra, “all’acqua del Litto”. Negli ultimi anni, al rione Cardinale, sta prendendo piede la simpatica usanza di allestire -nel periodo natalizio- un grazioso presepe. Tutti si augurano che questa bella iniziativa possa prendere piede e perpetuarsi di anno in anno, migliorando sempre di più. In occasione del Carnevale anche a Mugnano si svolge la farsesca celebrazione del funerale del Re Carnevale. A Mugnano del Cardinale questa tradizione risale agli inizi del secolo, quando le “soppressatare”, le operaie addette alla lavorazione dei salumi, la organizzavano come una sorta di rito propiziatorio di un futuro anno felice e laborioso. Esse partecipavano al rito vestite di nero, piangendo, urlando e disperandosi naturalmente per finta- per la morte di Carnevale. Negli ultimi anni, purtroppo, anche questa tradizione è andata affievolendosi, come accade un pò ovunque nel mandamento, a beneficio delle tante sagre e delle feste “d’importazione” (del tipo di “Halloween”, di origine celtica-statunitense, che ricorre la notte tra il 31 ottobre e il primo novembre). Da menzionare la rassegna culturale Arte Sotto le Stelle, che si svolge nei primi giorni di settembre, nel caratteristico quartiere di Cordaràura. Questa suggestiva manifestazione, la prima del genere nel mandamento di Baiano, è nata nel 1997, per volontà dell’Assessore Prof. Stefano D’Apolito e del Sindaco Prof. Giovanni Colucci. Durante i cinque giorni della manifestazione si tengono convegni, rappresentazioni teatrali, mostre di opere d’arte, presentazioni di libri e incontri con importanti personaggi nazionali ed internazionali (ad esempio il regista Ettore Scola, nel 2000, e il “presidente” Biagio Agnes, nel 2001), grazie anche alla fattiva collaborazione del collega giornalista dott. Enzo Pecorelli. Uno degli scopi di questa importante manifestazione è il recupero del centro storico e delle tradizioni delle nostre terre.

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Il brigante Turri Turri

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Il palazzo del Cognulo

Turri Turri Angelo Bianco (Alias “Turri Turri”). «... Era stato condannato per un omicidio a scopo di furto, aveva passato una decina di anni in carcere, ed era stato liberato nel gennaio 1859. Era ancora sottoposto a sorveglianza speciale con obbligo di presentarsi ogni giorno al capo-urbano di Mugnano; ma Turri Turri profittò dei disordini successivi all’impresa garibaldina, e si dette alla macchia con altri mugnanesi. [...] Turri Turri, che dai Borbone non aveva avuto che processo e carcere, improvvisatosi “campione borbonico”, andava in giro impugnando una bandiera borbonica. Riuscì a formare una banda di circa trecento briganti. In un giorno dell’agosto del 1862 fermò una carrozza proveniente da Avellino, e chiese ai quattro viaggiatori atterriti: viva chi? Uno di essi rispose “viva Vittorio Emanuele”. Turru Turri spianò la carabina e lo fulminò. Gli altri tre, vista la fine del loro compagno di viaggio, si affrettarono a rispondere “viva Francesco”. Le milizie mandamentali di Baiano ed una compagnia di bersaglieri si misero alla caccia dei briganti su per le montagne mugnanesi. Il generale Pinelli che comandava la divisione di Nola ed era rigido esecutore degli ordini di Cialdini, quando perlustrava la via delle Puglie, se incontrava una persona che non sapesse lì per lì dare ragione della sua presenza, non esitava a comandare ai suoi soldati: “Fusilé, fusilé”. La popolazione era stretta tra i briganti e la legge marziale. Un brigante della banda di Turri Turri, incontrata una ragazza mugnanese che era stata fidanzata e che lo aveva lasciato, non esitò a puntare contro di lei il suo schioppo e la stese a terra. Turri Turri aveva un macabro capriccio, bruciare i baffi o la barba delle persone, perché barba e pizzo potevano significare simpatia per Vittorio Emanuele. Altra sua impresa: s’imbatté nella banda musicale di Avella; i bandisti avevano un’uniforme con berretto rosso; il rosso garibaldino faceva infuriare Turri Turri, che sequestrò berretti e strumenti. Poi la schiera si assottigliò ma il capo rapì Filomena di Pietro, una bella massarotta mugnanese, la portò in montagna e la possedette, sotto gli occhi dei suoi fratelli, Raffaele e Filomeno della Mammana. La donna e i suoi fratelli per vendicare l’oltraggio uccisero Turri Turri; gli segarono la testa mentre dormiva. Era la fine di dicembre 1862. I superstiti furono catturati e passati per le armi un mese dopo, il 31 gennaio 1863». (La presente nota è stata tratta da: G. De Matteo “Brigantaggio e Risorgimento - legittimisti e briganti tra i Borbone e i Savoia” A. Guida Editore, Napoli.2000) Mugnano del Cardinale

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L’Esagono

Dati essenziali

MUGNANO del Cardinale Abitanti: 4.910 Mugnanesi (al 21.10.2001) Superficie territoriale: 1.214 ettari Altitudine sul livello del mare (min/max): 223/1.406 m Altitudine sito casa comunale: 280 m slm Scuole: Scuole Materne (statali e non statali) Scuole Elementari (statali) Scuole Medie Inferiori (statali)

Strutture sportive: Stadio Comunale, Campo da Tennis/calcetto. Palestre: scuole medie e scuole elementari.

Informazione e cultura: -

Biblioteca Comunale Centro Informagiovani

Cittadini illustri: * Rev. don Paolo D’Ippolito, Superiore della congregazione dei Preti Missionari di San Pietro a Cesarano, nel 1697; autore della biografia del rev. don Michele Trabucco; * Senatore Giuseppe Rega, deputato e senatore del Regno, contribuì allo sterminio del brigantaggio nel nolano. Dopo il 1860 fece istituire a Mugnano una Scuola Normale femminile, annessa al Santuario di Santa Filomena; * Don Francesco De Lucia, primo rettore del Santuario di Santa Filomena, portò a Mugnano le sacre spoglie della Santa bambina; * Avv. Camillo Renzi, Commissario di Pubblica Sicurezza ad Aosta, Comandante delle guardie del corpo di Sua Altezza Reale Maria José. Patriota e partigiano; * Michele Criscuolo (1881-1911), pittore.

Attività economiche: -

Produzione salumi tipici (salame di Mugnano, salame tipo Napoli); Industrie trasformazione alimentari (funghi, pomodori, ciliege, albicocche, sottaceti); Industrie boschive (produzione legna da ardere); Industria tessile; Agricoltura: olivicoltura e corilicoltura; Allevamenti ovini; Per altri dati demografici e statistici Turismo: ristorazione; consultare il capitolo “aspetti demografici” Terziario: piccoli negozi e supermercato; Artigianato: produzione di ceramiche; Edilizia.

Varie: -Casa per anziani

“Monete” fatte coniare nel 1869, dal mugnanese don Santo Bellusci. Valevano “una giornata di lavoro”.

La foto ci è stata fornita dal -Festival prof. Giovanni Colucci, canoro “voci nuove” Sindaco di Mugnano del Cardinale.

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Mugnano del Cardinale


Itinerari naturalistici

Benedetta Napolitano

Mugnano: risorse ambientali Faio della Toppa Grazioso bosco di faggi di circa 50 ettari situato a 1150 m slm. E’ raggiungibile tramite la strada del Litto, a 12 Km dall’abitato. Cerreta Di circa 40 ettari, è situato nella località omonima a 650 m slm. Si accede dalla strada del Litto, a 9 Km dall’abitato. Morricone Bosco di ceduo di castagno di circa 30 ettari di estensione. Vi si accede dalla strada del Litto, a circa 4 km dal centro abitato. Faitiello Bosco di ceduo castanile di circa 20 ettari. In prossimità della “fossa”. Vi si accede dalla strada del Litto. Difesa Ceduo castanile, posto alla quota di circa 500 metri slm, di circa 25 ettari di superficie. Anche questo bosco si trova in prossimità della “fossa”. Pineta di San Pietro Situata in località San Pietro-Vallicelle-Morricone, ricca di conifere. Estesa circa 20 ettari. E’ raggiungibile tramite la strada del Litto, a 1,5 Km dall’abitato. Fontana del Litto e faggeta Ottima meta per scampagnate. Nei boschi circostanti, facendosi spazio tra le verdi felci, è possibile trovare castagne, porcini e fragole. L’acqua è leggerissima e fresca. Qui, ad appena 700m slm, si trovano robusti alberi di faggio, relittuali, testimoni di un clima più freddo di quello attuale. Valle fredda Un’estesa faggeta e un’acqua buonissima e freddissima. Fossa Formazione carsica originatasi, presumibilmente, dal crollo della volta di una grotta sotterranea a sua volta originatasi da una dolina. Purtroppo, oggigiorno, essa è parzialmente riempita da ogni sorta di rifiuti. Vedi foto a pag. 139.

Mugnano del Cardinale

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L’Esagono

Le origini del nome - Le prime citazioni

Quadrelle Si ritiene che il paese di Quadrelle (così come anche Sperone) sia coevo di Avella romana, in quanto costituiva una struttura finalizzata alla sua difesa. Il suo nome deriverebbe, infatti, come è stato già detto altrove, da Oppidum quadrellarum, dal nome di grossi giavellotti incendiari che, avvolti in stoppa e pece, venivano lanciati a mezzo di catapulte contro i fianchi degli elefanti. Secondo tale ipotesi, a Quadrelle doveva esistere una fucina per la forgiatura delle temibili armi sopra descritte. Secondo un’altra ipotesi il nome deriverebbe da un castello a forma quadrangolare, eretto dai Normanni sui resti dell’antica “fabbrica”. Questa ipotesi sembra trovare conferma nelle quattro torri presenti nello stemma civico. Ma il castello in esso rappresentato potrebbe essere anche il vecchio Castello svevo del Litto, nell’attuale territorio di Mugnano del Cardinale (di cui Quadrelle in epoca normanna, sec. XI d.C., era un casale). Il 26 ottobre del 1254, probabilmente, a Quadrelle sostò il re Giardino Pagano. Prospetto e pianta. Manfredi di Svevia, reduce dall’incontro di Ceprano con il Papa Innocenzo IV. Il nome di Quadrelle appare, per la prima volta, in un “privilegio” di Papa Urbano IV del 1264 (Mastrullo, Monte Vergine sacro;Napoli, 1663; pag.459) che testualmente recita: « In Diocesi nolana, homines redditus quo habetis in Casali, quae Muniarum, Camillarum, Quadrellas et Siriniarum vulgariter nuncupantur..». Successivamente, ritroviamo Quadrelle in un rogito del gennaio del 1282. Secondo alcuni Autori, nel 1297, il casale fu concesso da Carlo II D’Angiò a Tommaso Scillato, nobile salernitano cortigiano della Magna Curia. Secondo altri Studiosi, Quadrelle sarebbe già stato in possesso di Riccardo I Scillato (almeno dal 1272) sotto l’alta signoria del feudatario di Monteforte. Comunque sia, alla morte di Tommaso, il suffeudo di Quadrelle andò al figlio Riccardo II, il quale nel 1312 (come abbiamo visto a proposito di Mugnano) cedette all’Abbazia di Montevergine (distante solo nove miglia di sentiero monta79

Quadrelle


Da grancia a Comune

Benedetta Napolitano

no) Quadrelle e Mugnano (il Litto e Pontemiano), ricevendo in permuta altre terre che questa possedeva nella zona dell’agro nocerino-sarnese. I monaci qui stabilirono una grancia (ovvero una costruzione in cui essi lavoravano e custodivano le derrate alimentari), probabilmente sul fabbricato sorto sull’antica fucina di quadrèlle. Fra i servizi feudali che si dovevano prestare ai monaci, i vassalli del Casale di Quadrelle avevano l’obbligo di: consegnare il legnatico a settembre di ogni anno; di portare al monastero le pale che dovevano servire a raccogliere la neve, che poi veniva pigiata e trasformata in ghiaccio, conservato per i periodi estivi nelle fosse montane (nevane o neviere); di fornire i cerchi di legno per le botti ed i tinacci sia di Montevergine che del Loreto. L’Abate di Montevergine rimase feudatario di Quadrelle fino al 1431, anno in cui i Cardinali Commendatari spogliarono l’Abate dei suoi feudi e se ne impossessarono. Inizialmente, essi vivevano a Napoli, ma successivamente (al tempo del loro settimo rappresentante) si stabilirono al rione Cardinale, a Mugnano del Cardinale. Nel secolo XIV, sui ruderi della grancia (sorta, secondo alcuni Autori, su una torre dell’ipotetico castello Giardino Pagano. Esedra. normanno, da non confondere con il castello svevo del Litto) fu costruito un Palazzo Baronale (oggi di proprietà della famiglia Pagano). Nel 1515 il feudo passa alla Santa Casa dell’Annunziata di Napoli, la quale invia a Quadrelle, col compito di amministrare i suoi beni, una casata fedele e blasonata alle sue dipendenze, concedendole in cambio titoli e terre. Nel 1599 fu edificata la Chiesa dell’Annunziata, dagli artistici altari, e un imponente acquedotto in muratura per l’acqua potabile, in comune con Mugnano. E’ in questa fase che nella storia di Quadrelle compaiono le prime famiglie nobili residenti. Agli inizi del XVII sec., i Barile, nobile famiglia napoletana, acquistano in Quadrelle “una casa con giardino” da identificarsi con l’antica sede di proprietà abbaziale. Da sito agricolo legato a necessità produttive, il giardino comincia ad assumere il carattere di luogo di ornamenti e di delizie che conserva ed accresce con i successivi proprietari: D. Paolo Braccio, barone di Cutignano, D. Francesco Emanuele Pinto, principe di Ischitella e, dal 1773 a tutt’oggi, la famiglia Pagano. Quadrelle

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L’Esagono

Il giardino Pagano

Il palazzo, a pianta quadrata con cortile centrale nella originale edizione seicentesca, ha subìto nel tempo notevoli trasformazioni tra cui la demolizione del volume sulla strada per la creazione di una piazzetta. Il giardino, pur non avendo ricevuto l’ordinaria manutenzione (al punto che oggi i manufatti architettonici mostrano un avanzato stato di degrado) ha però conservato gli elementi dell’originaria edizione: la geometria, le fontane, il confine murato, gran parte delle specie botaniche. Esso ha una estensione di 3500 mq frazionati in quattro riquadri e in un boschetto sul lato nord. Tre fontane in grotte ed edicole sono collocate in aderenza al muro di fondo; una quarta circolare è all’incrocio dei due viali mediani. Poggi e Quadrelle. Proprietà Sebastiano Schettino. Ruota in pietra. sedili punteggiano, L’Autrice durante il sopralluogo ai resti del mulino ad acqua. infine, le prospettive più significative dei viali. Gli elementi architettonici sono realizzati con strutture in pietrame calcareo e tufaceo, rivestiti di intonaco e piastrelle maiolicate. L’apparato decorativo è ottenuto mediante stucchi, frammenti di schiuma di lava, di alabastro, di corallo, di vetro, di conchiglie, tutti concorrenti a comporre figure e spartiti architettonici. Il patrimonio botanico oggi esistente comprende monumentali lecci plurisecolari accanto a bossi, mirti, lauri, pervinche, palme e alberi da frutta. Gli impianti idraulici, oggi del tutto inattivi, sono tuttavia presenti e potenzialmente efficienti per alcuni tratti. E’ presente un leccio plurisecolare già esistente nel seicento. Il simbolismo nel giardino è svelato da una piccola scultura marmorea. Essa raffigura un mascherone (poi trafugato) dalla cui bocca sgorgava acqua, inscritto in un ovale alla cui sommità appare la testa di un monaco incorniciata dal cappuccio del saio. Iconografia legata all’originale proprietà abbaziale del luogo. Nel ‘500 il passaggio a famiglie nobiliari porta alla rimozione del simbolismo religioso e alla sostituzione con figurazioni naturalistiche, astronomiche e demoniache. Il polo della morte è riassunto visivamente dalla 81

Quadrelle


Benedetta Napolitano

I primi “fuochisti” - I primi salumifici

ricorrente figura del cipresso, ma il giardino è anche frutteto, dunque elemento di vita; nel giardino, l’acqua compone giochi e spazi di frescura per divenire poi una fonte per gli abitanti di Quadrelle. Un’antica fonte, generata dal monte Campimma, ha alimentato dalle origini fino agli anni ’30 le fontane del giardino. Nel cellaio del palazzo fino al ‘700 gli abitanti del paese attingevano l’acqua, poi erogata da una fontana costruita nella piazzetta antistante dal principe di Ischitella. Singolare e densa di significati è la tradizione popolare che assegna all’acqua dell’antica fonte virtù terapeutiche, per cui la modesta fontanella evoca un rapporto ancestrale e simbolico con questa acqua, quando essa era elemento di gioco e di frescura, ma anche, in senso letterale, fonte di vita. Quadrelle è stato, da sempre, terra di abilissimi artigiani pirotecnici. Già in alcuni documenti del 1844, infatti, si legge che «…quelli che senza permesso traggono in aria folgori o altri fuochi artificiali… saranno multati di 15 carlini e di due giorni di prigionia». Quadrelle, inoltre, è la vera patria del salame nostrano. Proprio qui infatti, ancor prima di quelli più famosi di Mugnano del Cardinale, sorsero i primissimi salumifici artigianali del nostro mandamento.

Mascherone, ora trafugato, una volta situato nel “Giardino Pagano”

anni ‘50 Cappella Fiordelisi e resti Chiesa di S. Giovanni Battista

1925. Piazzetta antistante il Palazzo Pagano

Quadrelle

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L’Esagono

Maio - fucarone - “Vient’ ‘e terra” - “Cumanna patrò”

Il folklore quadrellese La manifestazione folkloristica più importante di Quadrelle è il maio di Sant’Antuono, Sant’Antonio Abate, il protettore degli animali e dei contadini. In questo giorno (il 17 gennaio), una dozzina di persone, autorizzate dal Comune, si portano nei boschi circostanti (Litto, Vallefredda) per tagliare alcuni grossi alberi. Vista la presenza, a Quadrelle, di due famiglie di abilissimi pirotecnici, ai partecipanti alla festa non mancano certo i botti di qualsiasi forma e grandezzza. E, considerata la presenza di alcuni importanti salumifici, di sicuro non mancano “soppressate” e salami. I mai giungono in paese verso le 17, trascinati da camion e da camionette per essere lasciati ‘ncopp ‘o ponte, lo spiazzo che copre il torrente Rio secco. I fusti non vengono innalzati ma sono semplicemente venduti per contribuire con il ricavato alle spese dei festeggiamenti. Esiste anche l’usanza d’‘o fucarone, che viene preparato il giorno prima dai ragazzi che raccolgono la legna e le fascine, in paese e per le campagne. Tra le fiamme del grande falò vengono lanciate petardi, botte a muro e grosse “cipolle” esplosive. I più anziani narrano di un certo vient’ ‘e terra (vento di terra), un personaggio un pò sempliciotto e molto corpulento, che pare avesse delle capacità psicocinetiche. Quando questi si arrabbiava, cominciava a soffiare e a roteare vorticosamente le braccia fino a “richiamare” un fortissimo vento che sollevava le gonne delle donne e, a volte, gli faceva cadere dalla testa le “conche” di rame piene d’acqua. Si racconta, inoltre, un episodio che sarebbe accaduto nella prima metà del secolo scorso. Una giovane donna di Quadrelle diventava ogni giorno sempre più triste e depressa perché gli mancava tantissimo il suo giovane marito, emigrato da alcuni anni in America. Nelle lettere che gli giungevano il marito la invitava a farsi forza; alla fine i loro sacrifici sarebbero serviti a migliorare la loro posizione economica: egli sarebbe tornato e avrebbero potuto, finalmente, acquistare un “vascio” (nda “basso”: piccola casa a piano terra) e un pezzetto di terra. Ma la donna voleva rivedere ad ogni costo il suo amato marito. Una persona del luogo, notando la sofferenza della giovane sposa, la avvicinò e -dopo essersi fatta giurare di mantenere il segreto- gli propose uno stupefacente metodo per fargli rivedere il marito. Questa persona possedeva il libro cumanna padrò (Comanda Padrone); un libro di magia bianca e di magia nera. Fecero il rito, recitarono le “parole” e, mentre le compagne di lavoro della giovane donna la vedevano lavorare ai salami (in uno dei primissimi salumifici casalinghi di Quadrelle), il suo corpo etereo, sul dorso di un caprone, giunse in un batter d’occhio in America, dal marito. Questi (visto anche il diverso fuso orario) stava dormendo profondamente. La donna lo toccò, lo accarezzò, gli

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Quadrelle


Quadrelle ieri ed oggi

Benedetta Napolitano

diede un calcio per farlo svegliare ma riuscì solo a farlo muovere leggermente nel sonno. Delusa, ritornò indietro. Ancora più amareggiata. Chissà quale fu il prezzo di questo servigio del demonio! Di certo, i più vecchi raccontanno che -quando qualcuno gli chiedeva: «... mi racconti di come andasti in America sulla capra?» la donna, ormai vecchia, mandava violentemente a quel paese il malcapitato che aveva osato ricordargli quel grave sbaglio di gioventù.

Chiesa SS.ma Annunziata

Anni ‘70 Ponte dell’Acquaserta

Ponte dell’Acquaserta

Il maio tirato a forza di braccia Giardino Pagano

Acqua della fica

Quadrelle

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L’Esagono

Dati essenziali - Itinerari naturalistici

QUADRELLE Abitanti: 1.574 Quadrellesi (al 21.10.2001) Superficie territoriale: 692 ettari Altitudine sul livello del mare (min/max): 270/1.368 m Altitudine sito casa comunale: 300 m slm Scuole: Scuole Materne (statali e non statali) Scuole Elementari (statali)

Strutture sportive: Stadio Comunale, Campo da Tennis/calcetto. Palestre: scuole elementari.

Informazione e cultura: -

Biblioteca Comunale

Cittadini illustri: * Andrea Mattis, fervente patriota, venne ucciso dalla banda di Turri Turri * rev. don Beniamino Masucci, insigne professore di latino e greco

Attività economiche: -

Produzione salumi tipici (salame tipo Napoli); Industrie trasformazione alimentari (ciliege, cioccolato); Industrie boschive (produzione legna da ardere); Agricoltura: olivicoltura e corilicoltura; Allevamenti ovini; Per altri dati demografici e statistici Terziario: piccoli negozi; consultare il capitolo “aspetti demografici” Artigianato: fabbriche di fuochi artificiali; Edilizia.

Varie: -

E’ l’unico paese del mandamento che non dispone di un’edicola; Sede operativa della Comunità Montana “Vallo di Lauro e Baianese”; Sede del GAL (gruppo di azione locale); Sede volontari della Croce Rossa.

Risorse ambientali Travertone-Rocche Bosco di faggi di circa 25 ettari situato su un territorio scosceso ed irto, ideale per funghi. E’ raggiungibile tramite la strada panoramica di Sirignano. Vallicelle-Morricone Circa 10 ettari di conifere e latifoglie. A circa 450m slm. Vi si accede dalla strada del Litto di Mugnano del Cardinale. Vallefredda Bosco di castagni, aceri e cerri secolari. Estensione: circa 25 ettari. Ideale per campeggi e pic-nic. Vi si accede dalla strada del Litto. Chiaio Circa 4 ettari di conifere. Vi si accede dalla strada “chiaio”.

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Quadrelle


Le origini del nome

Benedetta Napolitano

Sirignano Sirignano è situato all’estremo lembo di Campimma, un colle che raggiunge i 673 m slm, alle falde dei monti di Avella. Nell’antichità il territorio di Sirignano e i suoi sparuti abitanti gravitavano verosimilmente attorno all’antica Avella e ne seguirono -presumibilmente- le vicende. L’etimologia del toponimo Sirignano deriva, secondo l’ipotesi più accreditata, da fundus Serenianus, ovvero, da una villa prediale appartenuta ad un nobile romano di nome Serenio. In alcune antiche pergamene conservate nell’archivio dell’Abbazia di Montevergine, viene citato un fondo denominato Serrallinianum, da cui alcuni Studiosi farebbero discendere il nome di questo antico borgo. Ma non tutti concordano con tale ipotesi. Probabilmente, in antico, Sirignano era semplicemente uno dei tanti pagi (intesi come “case rurali sparse”)

Stemma in legno e stucco posto, un tempo, sulla facciata del Palazzo Caravita. La foto, presumibilmente scattata nel 1981, è inedita. Essa potrà contribuire alla riproduzione dei particolari araldici di cui si era persa memoria.

Sirignano

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L’Esagono

San Celiesto - I primi riferimenti storici

della valle del baianese (o, come altri preferiscono dire, della valle avellana). Successivamente, nel medioevo, seguì le vicende storiche di Avella, di cui era un casale (frazione). Le prime notizie accertate su Sirignano risalgono al 1130 e si riferiscono alla donazione di un terreno da parte di un certo Angelo, detto Scambatus, al monastero di Montevergine. Altre notizie riguardano la tassazione della comunità sirignanese per l’importo di otto once, all’epoca della dominazione angioina. A quel tempo, Sirignano come tutti gli altri nuclei abitati, era situato più in alto e nei pressi di una fonte d’acqua. Secondo la tradizione, infatti, esso doveva trovarsi nella località ancora oggi chiamata “San Celiesto”, nella zona collinare, in prossimità del luogo detto delle “quattro vie”, nelle immediate adiacenze della sorgente della Fontana del Lago (o “Lavo”), appartenente ora al territorio di Baiano. Qui era ubicata la chiesa di San Celeste, di cui, però, oggi non si ha più traccia. I più anziani riferiscono che, in quei paraggi, erano presenti anche dei ruderi somiglianti ai mausolei romani di Avella. Nonostante l’Abbazia di Montevergine possedesse, fin dal 1130, alcuni beni nelle pertinenze di Sirignano, provenienti da varie donazioni, il paesino non venne compreso fra i suoi possedimenti ma rimase, sino agli inizi del 1800, nella giurisdizione feudale di Avella. Infatti, mentre esso non viene mai citato (per quanto si conosce fin’ora) nei documenti del XIII e XIV secolo che riguardano

Piazza Principessa Rosa. La fontana com’era negli anni ‘50. In alto una delle quattro rane in ghisa che l’abbellivano e dalla cui bocca sgorgava l’acqua.

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Sirignano


Dal 1614 al 1799

Benedetta Napolitano

Litto e Ponte Miano e i loro rapporti con Montevergine, viene chiaramente menzionato in alcuni documenti riguardanti la baronìa di Avella. Sirignano appartenne, poi, ai Fellecchia, nobile e potente famiglia nolana, che vi edificarono probabilmente un loro palazzo padronale. Nel 1614 il casale di Sirignano ottenne un primo spiraglio di autonomia con la stipula di una convenzione con l’Università ( il comune) di Avella. In base a tale accordo i Anni ‘20. ‘ncopp capo casale Sirignanesi iniziarono, finalmente, ad eleggere da sé i propri amministratori. Il suffeudo passò, poi, per matrimonio agli Albertini di Cimitile e, in seguito, ai Caracciolo della Gioiosa. Nel 1700 il feudo divenne Principato. I De Gennaro furono i primi a potersi fregiare del titolo di “Principe di Sirignano”. Nel 1772, tale titolo pervenne per matrimonio al marchese Tommaso Saverio Caravita, napoletano, discendente da una nobile famiglia spagnola. Con la soppressione del feudalesimo da parte di Giuseppe Bonaparte (1806), il borgo divenne comune autonomo (nel 1837). Come avvenne anche per gli altri comuni vicini, esso fu incluso nella provincia di Terra di Lavoro (l’attuale provincia di Caserta) e compreso nel distretto di Nola (uno dei cinque in cui si divideva la provincia), circondario di Bajano (uno degli otto in cui si divideva il distretto). Nel 1861, con l’Unità d’Italia e il conseguente nuovo assetto politico, passò alla provincia di Principato Ulteriore (o Principato Ultra), distretto (o circondario) di Avellino, mandamento di Bajano. Nel 1799, Raimondo De Gennaro dei Principi di Sirignano venne eletto, a Napoli, tra i 25 rappresentanti della Commissione legislativa della Repubblica Partenopea. Ma alla caduta di questa, venne rinchiuso nel carcere di Castelnuovo e poi condannato, dalla Giunta di Stato, all’esilio perpetuo dal Anni ‘20. Via Santa croce Regno delle Due Sicilie. Sirignano

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L’Esagono

I Prìncipi di Sirignano e il castello - Memorie di un uomo inutile

Nel corso del 1800, intanto, il feudo passò a vari proprietari, ma i Caravita, formalmente, continuano a mantenere il titolo nobiliare di “Prìncipi di Sirignano”, fin quando esso giunge a Giuseppe Caravita (1849-1920). Questi ricomprò le proprietà che un tempo avevano costituito l’antico feudo di Sirignano e fece costruire, intorno al 1885, sulle rovine del vecchio castello feudale, lo splendido maniero in stile neogotico, conosciuto come il palazzo del Principe (nella foto). Nella “belle èpoque” (tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento), questa sfarzosa residenza fu meta di personaggi di levatura internazionale. Tra questi è d’obbligo ricordare il poeta Salvatore Di Giacomo, il tenore Enrico Caruso e il pittore Eduardo Dalbono. Nel 1891 il Principe Giuseppe Caravita, in contrapposizione al Barone Girolamo Del Balzo, fu eletto Deputato del Parlamento del Regno d’Italia e partecipò alle prime sedute parlamentari. Tuttavia, il Del Balzo contestò il risultato elettorale e riuscì a far annullare l’elezione del Principe Caravita (che, però, nel 1913 fu Senatore) e a far convalidare la propria. Ultimo principe di Sirignano è stato don Francesco Caravita, detto pupetto, (1908-1998), noto per i clamori della sua vita mondana, per le sue apparizioni televisive e per il suo fortunato libro “Memorie di un uomo inutile”, edito da Mondadori, nel 1981. In questo piacevolissimo libro (ormai introvabile e di cui, forse, sarebbe opportuna una ristampa) il Principe, narrando in prima persona, racconta tra l’altro che: «...la famiglia De Gennaro dalla quale il mio antenato prese il titolo (di Principe di Sirignano) discendeva dalla “Januaria gens”, lo stesso ceppo al quale apparteneva San Gennaro, Patrono di Napoli. E nella mia famiglia accade un fatto decisamente inspiegabile: nella prima decade di maggio e il 19 settembre di ogni anno, nel preciso istante in cui nelle teche custodite nel Duomo di Napoli e sulla pietra a Pozzuoli, dove il Santo fu decapitato, Il Principe Giuseppe Caravita il sangue di San Gennaro miracolosamente si li89

Sirignano


Piazza Principessa Rosa

Benedetta Napolitano

quefa, sulla nuca del primogenito maschio dei Caravita, all’attaccatura dei capelli, appare una striscia sanguigna che ricorda vagamente la cicatrice di una sciabolata e scompare quando il sangue nelle teche e sulla pietra torna a coagularsi.» . Il “Palazzo del Principe”, abitato dalla famiglia Caravita fino alla prima metà del ‘900, fu progressivamente abbandonato e spogliato delle opere d’arte che custodiva. Lo stupendo parco è stato prima abbandonato a sé stesso e poi parzialmente espropriato dal Comune nel 1980. Nel 1992, infine, si è avuto il crollo della parte destra della facciata e l’abbattimento della parte superiore delle tre torri, con le caratteristiche merlature guelfe. Il “Castello del Principe” rappresenta il cuore dell’antico borgo e buona parte della stessa identità storica dei sirignanesi. Come tale, andrebbe recuperato e valorizzato. Attualmente, l’antico maniero sta cadendo letteralmente a pezzi, ma sembra che si stia lavorando ad un serio progetto di restauro. Oltre al “Palazzo del Principe”, in piazza Principessa Rosa (dal nome della prima moglie del Principe Giuseppe Caravita, la nobildonna cubana Rosa Plazaola y Limonta) sono degne di menzione il palazzo del Municipio Vecchio costruito, pare, su progetto di Carlo Vanvitelli e la Chiesa di Sant’Andrea Apostolo Martire, questa, risalente al 1500, Interno del castello. Anni’70 secondo don Antonio Sorbo, che fu parroco di Sirignano “... fu fatta ristrutturare dai Principi di Sirignano, com’è attestato dagli stemmi presso l’altare maggiore. I Principi avevano anche il diritto di nominarne il parroco. Successivamente, questa facoltà fu acquisita da Re Ferdinando II di Borbone, che la esercitò fino all’Unificazione d’Italia. Sembra che Sua Maestà venisse spesso nell’ameno borgo a trascorrere le sue vacanze. Successivamente il diritto di nomina passò al Vescovo di Nola, della cui Diocesi Sirignano faceva già parte. Nel 1863, il nuovo parroco, don Salvatore Napolitano, trovando la chiesa in stato di grave abbandono la ricostruì con i fondi provenienti da Sua Maestà Vittorio Emanuale II di Savoia, da poco diventato Re d’Italia. Rifece l’atrio e vi pose due pietre ... con la scritta C.P.S.A. (chiesa parrocchiale San Andrea Apostolo)”. La chiesa, ad una sola navata in stile barocco, profanata in passato da mani vandaliche che ne asportarono parte del vecchio altare, custodisce le statue di legno del protettore Sant’Andrea Apostolo, della Immacolata, della Madonna Sirignano

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L’Esagono

Genesi del soprannome “coreani”

delle Grazie e di San Pasquale. Al centro dell’abside venne costruito l’altare maggiore, in marmi pregiati, cesellato con madreperla. Al centro dell’altare, un bellissimo quadro in legno con sopra dipinto, in alto, la Madonna delle Grazie; giù al centro, Sant’Andrea Apostolo; a destra San Giuseppe e a sinistra Santa Lucia. Tutto l’insieme è incastonato in un trono di chiara fattura barocca. In Piazza Croce è posta la graziosa Chiesetta della Madonna dell’Arco, fatta erigere dalla famiglia Sgambati, nel 1609 (foto a lato). Degno di menzione è il Palazzetto Sgambati, risalente al XVII secolo. Si riporta, per curiosità, che il rione Sirignano, nel quartiere Chiaia a Napoli, deve il suo nome al fatto che là vi sono palazzi della famiglia Caravita. Sirignano fu, nell’ormai lontano 1948, il solo comune del “mandamento” in cui , alle elezioni, vinsero le sinistre. In conseguenza di ciò, l’allora parroco di Sirignano, don Liberato Gallicchio, evidentemente infastidito da quei risultati elettorali, in una veemente predica affibbiò ai Sirignanesi il noto epìteto di coreani.

Vecchio municipio. Anni ‘70.

Via Santi. Anni ‘70

Cimitero di Sirignano. Lapide di don Serafino De Lucia. Collaboratore di Guglielmo Marconi.

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Sirignano


Natale Piccirillo - Il maio

Benedetta Napolitano

Il folklore sirignanese La tradizione sirignanese più tipica è senza dubbio quella del festeggiamento del Natale piccirillo (piccolo Natale). Questa usanza che, per la verità -come tante altre- si va perdendo, ha soprattutto risvolti culinari. Si fanno abbondanti pranzi a base degli stessi piatti che si

I mai sirignanesi, in Piazza Principessa Rosa

consumano in occasione delle feste natalizie (scarole, baccalà, “capitone”, frittura di pesce, broccoli e così via). Si tratta, in realtà, della festa di Sant’Andrea Apostolo, patrono di Sirignano, che cade il 30 novembre e che viene festeggiato anche con “’o fucarone ‘e Sant’Andrea” e con il maio. La domenica che precede la ricorrenza di Sant’Andrea, alcune comitive di giovani, provvisti di una ragguardevole scorta di tracchi e petardi (e di un generoso vinello), si portano nelle montagne circostanti per tagliare tre grossi alberi, generalmente di pioppo. Una volta effettuati il taglio e il caricamento dei mai sui camion, i Sirignano

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L’Esagono

‘O fucarone - La Zeza - ‘E misi

giovani si concedono un lauto banchetto: un’ottima occasione per socializzare e per divertirsi. A volte, alla comitiva si uniscono anche alcuni suonatori di fisarmonica e di mandolino. I mai vengono poi trasportati in paese, tra un tripudio di tracchi e di clacson, e vengono lasciati nel rione “Capo Casale”. La sera del 29 novembre (“vigilia” del “Natale Piccirillo”), si accende il “fucarone ‘e Sant’Andrea”. In passato questa era una buona occasione, per i giovani sirignanesi, di mettere in mostra le loro capacità atletiche e la loro prestanza fisica. Essi, infatti, si disponevano a cerchio intorno al falò tenendosi per le braccia e reggevano sulle spalle -a mo’ di piramide- un altro cerchio di giovani. Girando intorno al falò, intonavano canzoni improvvisate. La mattina del 30 novembre, i mai vengono letteralmente trascinati fino alla vecchia piazza, davanti alla chiesa.

Nell’ultimo lustro, a Sirignano, si sta assistendo ad un recupero delle antiche tradizioni, come la rappresentazione farsesca della “Zeza” e la cantata de “’e misi”. Si tratta -com’è noto- di scenette carnevalesche cantate e recitate in vernacolo. Quasi sempre le due rappresentazioni vengono presentate insieme, quasi fossero due atti del medesimo spettacolo. Un tempo gli “attori” erano esclusivamente maschi ma, attualmente (vedi foto sopra), vi partecipano -e con notevole successo- anche alcune donne. Alla base di questi spettacoli itineranti vi è un canovaccio che è sempre lo stesso, anche se la rappresentazione può variare di anno in anno ( e di luogo in luogo). 93

Sirignano


I battenti

Benedetta Napolitano

Lo spettacolo si svolge all’aperto e comincia con lo scambio di alcune battute tra “Capuranno” e “Polecenella”. Segue la rappresentazione de “’e misi” e, dopo una allegra quadriglia, quella della “Zeza”. Nei misi ciascun personaggio, in ordine cronologico e senza interagire con gli altri, recita una parte a sé stante costituita da una filastrocca in cui presenta sé stesso. La Zeza (diminutivo di Lucrezia) narra delle contrastate nozze di Don Nicola, studente calabrese, con Tolla (o Vicenzella), figlia dell’intrigante Zeza e del gelosissimo Pulcinella (quest’ultimo personaggio, nel baianese è sostituito da “Maretiello”).

A destra, la pubblicazione del Prof. Pasquale Colucci. Alla quale si rimanda per eventuali approfondimenti

I tradizionali festeggiamenti di Sant’Andrea, maio escluso, non si tengono peraltro alla data della festa liturgica (30 novembre), ma a fine agosto, quando è lecito attendersi condizioni climatiche presumibilmente migliori. In tale occasione si tiene anche la sfilata dei battenti, a cui partecipa -di anno in anno- un numero di persone sempre maggiore, compresa una folta rappresentanza femminile.

Sirignano

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L’Esagono

Dati essenziali - itinerari naturalistici

SIRIGNANO Abitanti: 2.366 Sirignanesi (al 21.10.2001) Superficie territoriale: 625 ettari Altitudine sul livello del mare (min/max): 225/1.368 m Altitudine sito casa comunale: 270 m slm Scuole: Asilo nido (non statale)

Scuole Materne (statali e non statali) Scuole Elementari Statali Scuole Medie Inferiori Statali

Strutture sportive:

Stadio Comunale, Piscina olimpionica, Campo da Tennis/calcetto. Palestra scuole medie

Mezzi di informazione: Stampa locale: “La nuova Gazzetta - Periodico fondato dal dott. Pellegrino De Rosa” Portale Internet: http://www.tuttobaianese.it

Attività economiche: Edilizia, Industria di trasformazione della frutta (ciliege solforate), commercio al minuto, agricoltura part-time (olivicoltura, corilicoltura), allevamento bovini (una sola azienda).

Cittadini illustri: * Giuseppe Caravita (1849-1920). Principe di Sirignano, Deputato e Senatore del Regno. * Francesco Caravita, (1908-1998). Principe di Sirignano. Scrittore. * Cav. Serafino De Lucia, maresciallo di marina, collaboratore di Guglielmo Marconi. * Cav. Domenico De Rosa, Cavaliere di Vittorio Veneto. Decorato con croce di ferro. * Dott. Carlo Fiordelisi, magistrato, procuratore del re, presso il Tribunale di Avellino. * Prof. Sac. don Francesco Fiordelisi, rettore del Collegio Pareggiato «A.Manzoni». * Dott. Giovanni Fiordelisi, medico pediatra, morto nel 1941 a bordo dell’incrociatore Egeo, in azione di guerra. * Cav. Pietro Fiordelisi, Sindaco di Sirignano per 20 anni (a cavallo tra l’800 e il ‘900)

Varie: - Casa per anziani (in costruzione).

Per altri dati demografici e statistici consultare il capitolo “aspetti demografici”

Risorse ambientali Ciglio Bosco di conifere che si estende su una supeficie di circa 6 ettari. Vi si accede tramite la strada panoramica di Sirignano. Faiabella Faggeta di circa 22 ettari di superficie, con accesso dalla strada panoramica di Sirignano. Ottimo sito per funghi. Torritiello Bosco di faggi di circa 6 ettari. Fornino Bosco ceduo castanile, di circa 12 ettari. Vi si accede dalla strada panoramica di Sirignano

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Sirignano


Sperone, un quartiere di Avella - Le antiche popolazioni

Benedetta Napolitano

Sperone Il nome Sperone deriverebbe dal fatto che, in epoca romana, esso costituiva la punta più avanzata della fortificazione avellana: infatti, in origine, il territorio speronese era compreso entro la cinta delle mura di Abella. La storia di questo Comune perciò coincide -almeno per quanto riguarda gli eventi più remoti- con quella dell’antica Avella, alla quale per evitare inutili ripetizioni- si rimanda. Qui vogliamo solo riportare che, comunemente, si ritiene che le popolazioni locali appartenessero al ceppo irpino del gruppo etnico-linguistico osco-sannita. Infatti, dopo le guerre sostenute vittoriosamente da Roma contro le popolazioni italiche degli Osci, Sanniti, Volsci, Equi ed Etruschi, un gruppo di sconfitti osco-sanniti fu deporCircumvesuviana. Stazione Avella-Sperone. Anni ‘20. tato dal proprio territorio, il Samnium (situato più a nord dell’attuale Sannio e vicino all’attuale Molise), nei territori deserti e disabitati dell’Irpinia e nella conca avellana. Nell’80 a.C., come è stato detto altrove, Abella diventa “città fortificata” romana (oppidum): Sperone era uno dei suoi quattro quartieri e difendeva la più meridionale delle sei porte della cinta muraria di Avella, la Porta di Corte. Alcuni Studiosi ritengono che, proprio nell’attuale territorio speronese, potesse essere ubicato il teatro di Abella romana. Quando Avella fu distrutta dalle orde barbariche, gli abitanti del vecchio quartiere “speronese” si rifugiarono sui monti circostanti. Qui costituirono nuovi nuclei che furono a lungo uniti con Avella e da cui si distaccarono solo in tempi successivi. Una parte di essi si insediò nella zona dove, già prima del XVI secolo, sarebbe stata edificata la “Cappella vecchia di Sant’Elia” (sulla quale, nel 1888, venne poi innalzata la Chiesa di Sant’Elia). Si tramanda che, nel XIII secolo, un prete di Sperone abbia assassinato il Vescovo di Avella. Ciò determinò la fine del Vescovato avellano e l’inclusione dei borghi della valle baianese nella Diocesi di Nola. Per la Porta di Corte passava l’antica Via Vecchia, costruita (pare) dagli Angioini, fra il XIII e il XIV secolo d.C., che collegava Napoli con le Puglie. Sperone

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L’Esagono

Il distacco da Avella

Quando Carlo III di Borbone fece costruire, nel 1757, la via Regia Puglie, la Via Vecchia non fu più frequentata e la popolazione speronese si stabilì lungo la nuova strada, sulla quale successivamente venne costruita un’altra chiesa, dedicata alla SS. Annunziata. Nel 1700, quando Avella era una fiorente Universitas (Comune), il quartiere di Sperone esercitava il diritto di eleggere dieci decurioni che duravano in carica cinque anni. L’autonomia amministrativa di Sperone fu sancita con Regio Decreto (borbonico) Sperone. Anni ‘20. La squadra che realizzò del 10 ottobre 1836 e cominciò il manto stradale della via Nazionale il primo gennaio del 1837. Con l’avvento dei Napoleonidi sul trono di Napoli, Sperone venne incluso (1806), insieme agli altri comuni del baianese, nella provincia di Terra di Lavoro (Ce), Distretto di Nola, e vi rimase fino al 1863. In tale anno, in seguito al nuovo assetto politico conseguente all’Unità d’Italia, Sperone venne incluso nella provincia di Principato Ulteriore, Distretto o Circondario di Avellino, ed elesse il suo primo Sindaco. Da quell’anno cominciò a rivendicare il suo quinto dei beni ecclesiastici e demaniali. Dopo estenuanti dispute coi tribunali ecclesiastici Sperone finalmente ottenne la Cappellania del Salvatore e il diritto alla nomina di un Canonico nella Collegiata. Il denitivo affrancamento da Avella cominciò soltanto nel maggio del 1871, per concludersi il 5 febbraio 1880, quando l’ingegnere Gennaro Plantulli, assistito da due agronomi, completò la divisione di tutto il demanio e stabilì i confini del nuovo paese. I cittadini di Avella e Sperone, toccati negli interessi economici e nel loro orgoglio campanilistico, conservarono per molto tempo una certa rivalità. Gli speronesi chiamavano “cipullari” gli avellani, e questi controbattevano apostrofandoli “graunari” (carbonai). Non erano infrequenti “’e pietriàte”, bellicose tenzoni con lanci di pietre, tra squadre di ragazzi dei due comuni rivali. Questa sorta di primitiva intifada (nda: “guerra con pietre”), che non mancava di lasciare qualche dolente bozzo sulle focose teste di alcuni dei contendenti, era un’usanza comune anche agli altri paesi del mandamento, protrattasi fino agli anni ‘60. “Epici” erano gli scontri tra Mugnanesi e Cardinalesi, quelli tra Cardinalesi e Sirignanesi, e tra Baianesi ed Avellani. In genere alle “battaglie” ponevano termine le urla di qualche casalinga che, avendo la sfortuna di abitare sulla “linea del fronte”, subiva la rottura di uno o più vetri.

I rapporti ufficiali tra i due comuni erano, però, ottimi e civilissimi. Infatti, ancora nel 1899, a quasi dieci anni dalla separazione dei beni demaniali, la 97

Sperone


Il museo della Civiltà Contadina

Benedetta Napolitano

Contessa Livia Colonna, di Avella, fece riparare a sue spese la fontana di acqua magnesiaca che si trova nella selva Paradina di Sperone (ora divenuta parco comunale). Nel 1900 Sperone costruì sull’antica sua taverna, lungo la Via Nazionale delle Puglie, la nuova casa comunale. Si racconta che, durante la terribile pestilenza del 1656, una donna di Sperone appestata si trascinasse davanti alla miracolosa effige di Sant’Elia e, untasi con l’olio della lampada, subito si fosse risanata. Attualmente, Sperone è una moderna e linda cittadina. Essa può vantare un quartiere delle “case popolari”, insolitamente integrato, pulito e vivibile. Sperone vanta la vetta più alta dei Monti Avella (con 1.598 metri), sulla quale negli anni ‘40, nell’immediato dopoguerra un aereo da carico militare andò a “impattare” (a causa della fitta nebbia) per poi precipitare e sfracellarsi nel Campo di Summonte. Su tali monti, Sperone possiede una seconda fontana, l’Acqua delle Monache, posta a 1.020 metri sul livello del mare, con una buona portata d’acqua (1,50 litri al secondo). Per iniziativa del parroco don Elia Ferone e di un lodevole gruppo di giovani della Congregazione di Sant’Elia (antica associazione religiosa, risalente al 1888) è stato realizzato, nel dicembre 1999, un grazioso Museo della civiltà contadina (vedi foto in basso).

Sperone

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, che

L’Esagono

Fototeca

Anni ‘60.Chiesa congrega di Sant’Elia (Edificata nel 1888)

Selva Paradina e fontana

Un vecchio cortile

Il vecchio municipio

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Sperone


Il maio - L’opera di Sant’Elia

Benedetta Napolitano

Il folklore speronese Anche a Sperone c’è la tradizione della festa del maio. Essa si tiene, il 20 febbraio, in concomitanza della festa patronale dedicata a S.Elia Profeta. Due alberi vengono tagliati -la domenica precedente- sui monti dei paesi vicini, perché il Comune di Sperone non possiede boschi accessibili. Gli alberi tagliati vengono lasciati, poi, in un luogo sicuro sui monti. La sera prima dei festegiamenti, un gruppo di giovani speronesi, armati di piatti, grancassa, tamburi ed altri strumenti musicali ravvivano il clima in vista dei festeggiamenti del giorno successivo. La mattina successiva i mai vengono condotti in paese tra gli ormai canonici spari di tracchi e rauti. La tradizione più tipicamente speronese rimane, comunque, l’opera di Sant’Elia (vedi foto sopra). Questa, notoriamente, è una rappresentazione teatrale della vita del santo profeta, articolata in quattro atti e della durata di circa quattro ore. Essa viene recitata da attori dilettanti del posto, in occasione della festa patronale “estiva”, del 20 luglio. Tutti i partecipanti ci tengono a fare bella figura e a preparare bene la loro parte. In alcuni anni, addirittura, le prove iniziano già nel mese di gennaio. A proposito dell’Opera di Sant’Elia, si narra di un divertente episodio occorso ad uno degli “attori”. Tra gli altri “attori” vi era anche un giovane contadino che prese talmente sul serio la parte da non andare più nemmeno a lavoro col padre. Perché, diceva , doveva «preparare l’opera di Sant’Elia». Non si sa bene se fosse solo una scusa per non andare nei campi, oppure no. Resta il fatto che egli, alla domanda della regina Gezabele che gli chiedeva chi fosse, doveva semplicemente rispondere con sole tre parole: «io, sono Kaifas» e nient’altro. Ebbene, giunti al giorno della rappresentazione, successe che alla domanda della regina: «.. e tu, chi sei?», il nostro compaesano fu preso dal panico, improvvisamente vide tutto bianco, e cominciò a balbettare: «.. io sono…… io Sperone

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L’Esagono

Alcuni spassosi anedotti

sono…… io sono …». Finché disse la famosa frase: «.. io sono … ie songo nu strunzo!». Gli organizzatori chiusero repentinamente il sipario fra l’ilarità generale, mista a fischi ed applausi. Si narra, ancora, che agli inizi del secolo scorso, un burlone del luogo facesse notare ad alcuni altri speronesi come la Chiesa di Sant’Elia fosse ormai diventata troppo stretta per contenere i numerosi fedeli. Consigliò, quindi, di adoperare un metodo che -a suo dire- aveva visto usare altrove. Occorreva insaponare il pavimento e poi spingere contro le mura con la massima forza. Così facendo, gli uomini -scivolando sul pavimento- ebbero l’impressione che le solide mura della Chiesa si stessero effettivamente spostando per cui corsero subito in piazza esultanti, esclamando: «Ce l’abbiamo fatta. Abbiamo allargato la Chiesa col sapone!». Si racconta, inoltre, di un contadino -devoto ma sempliciottoche, trovandosi a passare davanti alla Chiesa di Sant’Elia Profeta, di ritorno dai campi, pensò bene di fare, a modo suo, un’offerta al Santo. Presi dal “panaro” alcuni fichi, cominciò a lanciarli, nell’oscurità, verso la facciata della Chiesa. Naturalmente, i fichi più maturi si spiaccicarono sul muro, mentre quelli acerbi, più sodi, rimbalzavano e tornavano indietro. «E’ bravo a Sant’Elia, osservò il contadino, ‘e buoni t’e pigli e ‘e tuosti m’e ttuorne». (Bravo S.Elia: i maturi te li prendi e quelli acerbi me li rimandi indietro). Un’altra storiella racconta di quando gli speronesi, per fare un dispetto agli avellani, misero un grosso lenzuolo lungo via Ferrovia, per impedire che il sole giungesse ad Avella. U’altra ancora, narra di quando gli speronesi legarono, al collo, un “ciuccio” (asino) e lo tirarono -strozzandolo- fin sul campanile della Chiesa per fargli mangiare l’erba che vi era cresciuta. Una storia realmente accaduta merita di essere ricordata: uno speronese, durante un comizio elettorale, anziché dire: «noi vogliamo pane e lavoro», preso dall’emozione si confuse e disse: «noi vogliamo pane e provolone». Inutile dire che, al malcapitato, venne affibbiato -seduta stante- il nomignolo di “pruvulone”.

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Sperone


Dati essenziali - Itinerari naturalistici

Benedetta Napolitano

SPERONE Abitanti: 3.185 Speronesi (al 21.10.2001) Superficie territoriale: 353 ettari Altitudine sul livello del mare (min/max): 159/1.598 m Altitudine sito casa comunale: 175 m slm Scuole:

Scuole Materne (statali e non statali) Scuole Elementari Statali Scuole Medie Inferiori Statali

Strutture sportive:

Stadio Comunale, Campo da Tennis/calcetto. Palestra scuole medie e scuole elementari.

Mezzi di informazione: Biblioteca comunale.

Attività economiche: Edilizia, Industria di trasformazione della frutta (ciliege solforate), commercio al minuto, agricoltura part-time (olivicoltura, corilicoltura), allevamento bovini (una sola azienda), cioccolateria, fabbrica artigianale di antiche armi. P.I.P. con numerose aziende di recente insediamento.

Cittadini illustri: * Luigi Napolitano, docente di cattedra di latino e greco. Autore del libro “Memorie storiche ed archeologiche di Avella”; * Ignazio D’Anna, Autore del libro “Avella illustrata”, pubblicato nel 1782.

Varie:

Per altri dati demografici e statistici P.I.P. moderna area di Insediamenti Produttivi. consultare il capitolo “aspetti demografici”

Risorse ambientali Porcola Prima Bellissima faggeta che si estende per circa 40 ettari, a 600m slm. Vi si accede tramite la strada panoramica di Avella. Serrone Bosco ceduo di castagno, di circa 20 ettari. E’ raggiungibile dalla strada della fontana di Sperone. Le Fornine Bosco di faggi di alto fusto, esteso circa 50 ettari, a 600m slm. Vi si accede dalla strada panoramica di Avella. Paradina Castagneto ceduo di circa 20 ettari, situato nei pressi dell’omonima fontana. Sperone

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L’Esagono

L’emigrazione

L’ultimo secolo “Che-mi-se-ri-e” lesse, a bassa voce, sillabando, il giovane emigrante italiano. “Che-miserie?” ripeté confuso, il suo infreddolito e incredulo amico, aguzzando gli occhi per leggere meglio la lontana insegna, a fosche lettere nere, posta sulla screpolata porta di quello che, a prima vista, sembrava essere un negozio. Non vi era alcun dubbio: nonostante il rollio del traghetto che -sballottato dalle onde- arrancava cercando di attraccare al porticciolo del piccolo paesino della Corsica. Nonostante la fioca luce dell’alba e gli spruzzi freddi e salati del mare straniero rendessero alquanto difficoltosa la lettura, la scritta era inequivocabile: c’era proprio scritto “Chemiserie”. «Anche in Corsica, quindi, c’era la miseria? Forse i francesi avevano messo quella scritta per avvertire gli immigrati di non farsi troppe illusioni?», pensarono i quattro giovani provenienti dal mandamento di Baiano. Per fortuna, il traghettatore -un vecchio marinaio côrso dalla faccia rósa dalla salsedine- visto l’effetto che quella equivoca scritta aveva sortito sul quartetto di italiani, si avvicinò al gruppetto con un sorriso e disse: «Non, non. Mes amis (No, no, amici miei). Non “Chemiserie”, “che miseria” si legge, ma “scemiserì”. Come dite voi? “Camiceria”, bien ?». Un urlo di gioia si levò dal gruppetto di emigranti. Erano intirrizziti dal freddo e bagnati fino al midollo, ma erano felici: lì non c’era la miseria! Si era trattato solo di uno stupido equivoco. Potevano, finalmente, lavorare e mandare i soldi a casa! Con questo episodio, che il Cav. Antonio De Rosa di Sirignano afferma essere realmente accaduto attorno agli anni ‘50, andiamo a dare uno sguardo alla storia con la “s” minuscola. Quella storia che parla della gente comune, delle loro usanze, tradizioni e superstizioni. Accenneremo, anche, alla descrizione di alcuni mestieri del passato e -in generale- alle disagiate condizioni di vita delle popolazioni locali nel corso della prima parte del XX secolo. Di tanto in tanto verrà messo in risalto, tra le righe, l’importante ruolo svolto dalle donne sia all’interno della famiglia che nella misera economia dei nostri paesini. L’emigrazione E’ noto che le condizioni di vita nel mandamento del Baianese, come nel resto dell’Italia, sono migliorate solo con il boom economico degli anni ‘60. Secondo il parere di molti analisti, i maggiori progressi sono stati ottenuti grazie alle rimesse dei nostri compaesani emigrati all’estero. Cioè grazie ai soldi guadagnati e risparmiati all’estero ed inviati periodicamente in Italia. 103

L’ultimo secolo


Il fondamentale ruolo della donna

Benedetta Napolitano

Il flusso migratorio del secondo dopoguerra era orientato, prevalentemente, verso i paesi europei (Corsica e altre regioni della Francia, Svizzera, Germania, Belgio e, in misura minore, Inghilterra). Le ondate migratorie precedenti avevano interessato, invece, soprattutto i Paesi posti oltreoceano (Usa, Canada, Argentina, Venezuela ed Australia). Chi emigrava così lontano generalmente non tornava più in patria. Mentre, chi era diretto verso le Nazioni europee, quasi sempre, tornava periodicamente al paese d’origine. In quest’ultimo caso, poteva capitare che emigrasse o il solo capofamiglia o l’intera famiglia, oltre che -naturalmente- i giovani (magari chiamati da amici o parenti, già all’estero). Frequenti -poi- erano i casi delle “vedove bianche”, cioè di quelle mogli che, pur regolarmente sposate, essendo rimaste al paese, vedevano il marito solo quando questi tornava dall’estero (generalmente una sola volta all’anno e per pochi giorni). Queste donne dovevano mantenere il decoro e un comportamento integerrimo, allevare i figli da sole e, in molti casi, far finta di non sapere che il proprio marito aveva una qualche compagna all’estero. In altri casi, come già detto, partiva l’intera famiglia che, in questo caso, faceva ritorno in Italia solo ogni due o tre anni. In tutti i casi, l’obbiettivo di tutti era comprare un pezzo di terra (‘a chianta ‘e casa) e costruirsi un’abitazione con un piccolo giardino. Molti di questi emigranti sono tornati dopo dieci o vent’anni. Altri, non avendo una prospettiva sicura in Italia, hanno preferito aspettare all’estero l’età della pensione. Ruolo della donna e condizione femminile Nell’economia e nella società preindustriale (ma anche in quella industriale e postindustriale) il ruolo della donna è stato sempre considerato, a torto, di secondo ordine. In realtà, senza voler nulla togliere all’importanza del capofamiglia e senza dimenticare i veri e propri sacrifici (duro lavoro, emigrazione, responsabilità) che esso doveva sopportare, mi sembra giusto valorizzare il ruolo della sua silenziosa e devota compagna che con lui condivideva le rare gioie e i più frequenti e numerosi grattacapi. E’ ampiamente noto che la nascita di una femminuccia non veniva accolta, L’ultimo secolo

Donna con sàrcina

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L’Esagono

La dote - Raccolta delle fascine e del fieno

generalmente, con lo stesso entusiasmo della nascita di un maschietto. E ciò non tanto, come a volte superficialmente si sostiene, perché la donna non fosse in grado di reggere il duro lavoro dei campi e dei boschi (poiché, come vedremo in seguito, essa aiutava gli uomini in tutte queste attività), quanto perché ella rappresentava “quella che andava via”, quella che -dopo essere ‘a ramma stata allevata con tanti sacrifici- quasi tradendo, andava a vivere (e a lavorare) in un altro gruppo familiare. Non solo, ma perché ella si potesse maritare, occorreva anche fornirla di una consistente dote (‘o curredo, ‘a ramma, ecc). Era pertanto consuetudine, fin quasi agli inizi degli anni ‘60, che il capofamiglia, alla nascita di una femminuccia, piantasse dei filari di noci o -laddove era possibile- di pioppi, che, con la loro vendita, potessero contribuire a costituire la dote per la futura sposa. Esistevano, comunque, delle attività tipicamente femminili, alle quali gli uomini partecipavano solo quando non vi erano alternative più “onorevoli”. Una di queste era la raccolta delle fascine (uso civico del legnatico), vendute ai panettieri o alle fornaci calcaree. Con i proventi di questo lavoro, in alcuni casi, le donne sostenevano intere famiglie. Un’altra attività tipicamente femminile era la raccolta del fieno per l’alimentazione del bestiame. Le donne e le ragazzine partivano per i campi (ad esempio, per “Fornino”, per la “Comuna di Sirignano”, per le “porche di Avella” e per il Campo di Summonte) all’una di notte. Dopo tre o quattro ore di marcia arrivavano al prato, impugnavano la “mussorra” (falce) e tagliavano il fieno che veniva lasciato sul posto a seccare. Raccoglievano, quindi, quello del giorno precedente e lo portavano a valle, dove giungevano verso mezzogiorno o l’una, per proseguire con il governo degli animali e con i lavori di casa. 105

L’ultimo secolo


La frequentazione della montagna

Benedetta Napolitano

Le persone intervistate raccontano che, all’epoca, era più facile incontrare gente in montagna che in paese, e tutti avevano grande familiarità con la montagna, a tal punto che alcuni luoghi venivano indicati facendo riferimento ad alcuni episodi che si riferivano al vissuto quotidiano. Un certo strapiombo, ad esempio, veniva indicato col “toponimo” (come dicono i dotti) di «’o butto ‘e Umberto», poiché in quel luogo il malcapitato Umberto fece un memorabile volo, dal quale uscì miracolosamente illeso. Altre mansioni tipicamente femminili erano la raccolta e la conservazione della frutta e dei prodotti del bosco. In passato, le nostre campagne erano ricche di piante da frutta e le forme di potatura rilevate in alcune vecchie piante (ad esempio di albicocco) da poco seccate, dimostrano come i nostri contadini avessero sviluppato una buona tecnica agricola. Venivano coltivate mele, pere, ciliegie e la vite (a Tipico elenco di un corredo Baiano si faceva anche una importantissima festa del vino). Grande importanza aveva la raccolta o la coltivazione e la conservazione (generalmente per essiccamento) di castagne, nocciole, origano, camomilla, asparagi selvatici, fichi, pomodori, zucchine, funghi, granturco, farro e ghiande. Queste ultime, dette “pipparelle” venivano utilizzate, oltre che per quella dei maiali, anche per l’alimentazione umana o, una volta tostate, come surrogato del caffè. In alcuni periodi, addirittura, veniva mangiato, previa L’ultimo secolo

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L’Esagono

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Elenco di un corredo

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Bachi da seta - Arcolaio - Conserve

Benedetta Napolitano

bollitura e prima della fioritura, anche il papavero (Papaver rhoeas, o rosolaccio, parente del più allucinogeno Papaver somniferum, o papavero da oppio). Le donne si occupavano anche di allevare bachi da seta (e ciò fino alla fine dell’800), che venivano posti in apposite mangiatoie (‘e tavote) insieme al loro foraggio, costituito dalle foglie di gelso (‘e ceuze). Successivamente elle ponevano i bozzoli in apposite pentole (‘e caurarelle) per liberarli dalla crisalide del baco. A Mugnano del Cardinale ancora esiste una via detta “delle caldarelle” (o “caurarelle”) perché, all’epoca, davanti a ogni casa vi era un pentolone utilizzato a tale scopo. Alcune di loro, inoltre, erano dedite alla filatura della lana, tramite arcolaio. Altra incombenza tipicamente femminile era, in tempi a noi più vicini, quella di fare “’e buatte”, ovvero, le conserve di pomodoro. Nel secondo dopoguerra, poi, con la nascita dei primi salumifici artigianali,

Quadrelle. Anni ‘50. Macellazione degli asini

Baiano. Anni ‘70. Raccolta noci e nocciole

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L’Esagono

Lavori di casa - Lavaggio stoviglie - ‘A culata

prima a Quadrelle e poi a Mugnano del Cardinale, si diffuse largamente il mestiere della suppressatara, nel quale le operaie si specializzarono talmente che la loro manualità (manodopera specializzata) costituisce tuttora uno dei più importanti fattori della tipicità del salame di Mugnano. Con la nascita delle industrie di trasformazione della frutta (ciliegie solforate, frutta sciroppata) e di produzione di sottaceti e sottolio (a Sirignano, Quadrelle, Mugnano ed Avella) molte donne del baianese intrapresero il mestiere della ciliegiaia. Oltre a coadiuvare i mariti nelle più svariate attività, le mogli erano dedite, in particolare, alla cura dei figli, degli animali (da stalla e da cucina) e -naturalmentedella casa. Il lavaggio delle stoviglie avveniva inumidendo un vecchio strofinaccio e passandolo nella cenere, ripulita in precedenza dei pezzetti di carbonella. Lo strofinaccio così intriso veniva passato sulle stoviglie, già immerse nell’acqua -ancora calda- della cottura della pasta. Le sostanze chimiche della cenere permettevano di sgrassare i piatti, quindi si procedeva al risciacquo. Le pentole di rame e le “conche” per l’acqua erano stagnate al loro interno, per evitare il prolungato contatto degli alimenti col tossico rame. Esse venivano pulite mescolando al loro interno aceto e sale e sfregando leggermente, in tale modo la “ramma” riacquistava il suo splendore. Era importante, tuttavia, fare in fretta poiché la miscela impiegata era corrosiva e poteva danneggiare il recipiente. Il paiolo (il pentolino o caurariello appeso al camino) dopo la pulizia veniva nuovamente riempito d’acqua e riappeso nel camino. Circa una volta al mese le donne di casa facevano la colata o culata. Riunitesi nella cortina lavavano la biancheria in una sorta di lavatoio comune in pietra o in muratura, oppure usavano alcune cupelle di legno. Si metteva a bollire una rammaiola (pentola) d’acqua e cenere di carbone o di legna, aggiungendo qualche foglia di lauro o qualche scorza secca di limone, per profumare. Nella cupella si mettevano i panni già lavati con il sapone, i più piccoli sotto e le lenzuola sopra. Il tutto veniva coperto con un panno molto resistente ma permeabile, il cinerino, che aveva la funzione di trattenere la cenere lasciando passare solo la parte liquida. La biancheria veniva lasciata in ammollo fino a sera, quando veniva aperto il foro inferiore della cupella, dal quale veniva fuori un liquido denso e oleoso (‘a lessìa), che veniva raccolto e utilizzato per lavarsi i capelli. 109

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Lavori nell’orto - L’acconciapiatti

Benedetta Napolitano

Poi, veniva tolto il cinerino e si sciacquava con acqua calda. Il mattino successivo, dopo aver svuotato (“spillato”) nuovamente la cupella, i panni venivano risciacquati e stesi ad asciugare. Ad Avella e a Quadrelle, rispettivamente lungo il Clanio e lungo il Rio Secco, le donne lavavano i panni anche direttamente nell’acqua dei torrenti. L’igiene della persona veniva curata anche usando il sapone di cóla (nda. di colatura), un sapone fatto in casa, utilizzando gli scarti del maiale e la poza dell’olio. Per poter amalgamare queste sostanze si usa oggi la soda caustica, nel sapone di cóla, invece, questa sostanza chimica era sostituita da un liquido ottenuto filtrando l’acqua calda attraverso un sacchetto di cenere accuratamente setacciata; cenere e sostanze grasse producevano un rudimentale processo di saponificazione. Un pezzetto di questo sapone era particolarmente prezioso; pare –infatti- che fosse indicato per la cura di alcuni tipi di eczema. I panni, poi, andavano stirati col ferro a carbone, e poteva capitare che qualche micciulo ‘e fuoco, uscito dai fori ai lati del ferro da stiro, bruciasse le lenzuola di lino o di canapa, o che le mani –distrattamente sporche di carbone- macchiassero la biancheria appena lavata. Le persone che avevano la fortuna di possedere un piccolo appezzamento di terra da coltivare, s’incamminavano di buon mattino per raggiungere il loro piccolo orticello (‘o cienzo), posto generalmente in collina. Portavano con sé qualche tozzo di pane e ‘o ummariello, di terracotta, pieno d’acqua da bere. Lungo il percorso non disdegnavano di raccogliere gli escrementi di asini e muli, per usarli come concime. Tornavano a casa all’imbrunire e davano da mangiare agli animali (vacca, galline, maiale), mentre la moglie preparava la cena. Si poneva un grosso piatto di creta al centro della tavola (‘a zuppiera) e ogn’uno mangiava al proprio posto. Da questa usanza sono nati, poi, i detti: «Erem’ frat’ quann’ magnavam’ r’int’ ‘o stess’ piatt’» (per dire: “eravamo fratelli quando mangiavamo nello stesso piatto”) e, per mantenere L’ultimo secolo

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L’Esagono

Attività quotidiane

le distanze, «Ij e tté nun amm’ mai mangiat’ r’int ‘o stess’ piatt’» (per dire: “io e te non abbiamo mai mangiato nello stesso piatto”). Se un piatto o –peggio- una zuppiera si rompeva, non veniva buttata via, ma i cocci venivano recuperati attentamente e si conservavano in attesa dell’aggiustapiatti (‘o cconciapiatt’). Costui, adoperando un trapano a mano, dopo aver praticato dei piccoli fori, cuciva letteralmente il piatto con dei fili di ferro, i quali –pur non contribuendo in alcun modo a combattere un’eventuale anemia- conferivano un gusto particolare alle pietanze. Le posate -in casa- erano di stagno, ma i boscaioli -quando erano al lavoro- usavano per forchette degli spruoccoli (rametti) appuntiti e biforcuti e, per cucchiaio, delle cortecce di albero o delle tacche di legno.Finito di mangiare si andava solitamente a letto senza nemmeno lavare i piatti o mettere un po’ d’ordine nella casa. Il letto, di ferro, aveva per reti delle tavole di legno. Il materasso (‘o saccone) era fatto da foglie e guaine di granturco che, al minimo movimento, producevano un enorme fracasso. Ma ciò non disturbava il “pesante” sonno dei nostri avi che, stanchissimi per il duro lavoro fisico, non soffrivano certo d’insonnia. All’alba, tutti svegli per cominciare una nuova giornata. Mentre la donna sparecchiava la tavola e lavava piatti e posate con l’acqua utilizzata la sera prima per cucinare, l’uomo andava in stalla per “governare” (accudire e dare da mangiare) gli animali. La brodaglia di lavaggio, con l’aggiunta dei residui della cena (briciole di patate, torsoli di frutta ed altri scarti), più qualche patata e qualche ghianda venivano dati in pasto al porco. Prima di andare a lavoro, tutti i membri della famiglia –anche per svegliarsi- si lavavano le mani e la faccia. In un angolo della casa, su un tripode di ferro, si trovava il catino (‘o vacill’), dove si versava dell’acqua che doveva servire a più di una persona, perché l’acqua corrente non l’aveva quasi nessuno: quella da bere si andava a prendere alla fontana pubblica; quella per lavarsi proveniva dalla cisterna, dal pozzo o da una botte di acqua piovana. Dove si faceva il bagno? «Chissà quanta gente non l’ha mai fatto», ci ha risposto qualche vecchietto. Comunque, di norma veniva utilizzata la stessa cupella usata per il bucato. 111

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Modi di vestire

Benedetta Napolitano

Per quanto riguarda l’abbigliamento (foto a pagina precedente), le donne portavano, sopra la sottoveste, un’ampia gonna coperta da un grembiule (‘o mantesin’), quest’ultimo generalmente di colore nero. Il busto era coperto da una camicia a maniche larghe, al di sopra della quale veniva indossato un rigido corpetto. Nei mesi più freddi l’abbigliamento prevedeva uno scialle di lana. Il capo era generalmente coperto d’ ‘o maccatur’, una stoffa di seta o di pezza, solitamente piegata a triangolo che giungeva fin sopra le spalle. Le gambe erano coperte da calze di lana e, quasi sempre, la pettinatura era abbellita da una pettenessa. Nei primissimi anni del secolo molte donne non portavano né mutande né reggiseno. Gli uomini erano vestiti con pantaloni lunghi (‘e cazuni) e una giacca, generalmente di fustagno, su una camicia di lino, di cotone o di tela (canapa). Era consuetudine “rivoltare” più volte gli stessi vestiti, mettendo all’esterno la stoffa meno danneggiata dall’uso e dal tempo. Gli indumenti venivano frequentemente rattoppati, anche con pezze di colore diverso, e –nella stessa famiglia- passavano di padre in figlio e da fratello a fratello. Per i neonati non erano disponibili i pannolini “usa-e-getta” e si usavano ‘e fasciatur’ (le fasce). Mettere ‘e fasciatur’ a un neonato richiedeva una certa abilità: innanzitutto andava messo ‘o fasciatur’ vero e proprio. Questo era costituito da un pezzo di stoffa rettangolare, piegato in due a mo’ di triangolo, posto sotto il sederino del neonato, la punta –rivolta in basso- si faceva passare tra le gambe del piccolo e, sull’ombelico, si allacciava con le altre due punte laterali. Poi si metteva ‘o sott’culill’, che rivestiva il sederino (da cui il nome) e le cosce del bimbo. Poi si aggiungeva un altro “strato”, ‘o savaniello, più resistente e disposto come il precedente. Poi si rivestiva il “malcapitato” con una fasciatura rigida che andava dal pancino fino alla punta dei piedi. Infine, l’inerme neonato veniva letteralmente “insaccato” dentro al sacchetiell’. La parte superiore del corpo veniva coperta dalla cammesella (camicia), a cui si sovrapponeva ‘o cacciamaniello (una sorta di gilet, che lasciava fuori le braccine, da cui il nome). D’inverno veniva aggiunta anche una maglietta. L’infasciatura dei neonati si praticava fino all’età di dodici mesi. Successivamente, veniva messo con le gambine libere, e vestito con pantaloncini e camicine. L’ultimo secolo

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L’Esagono

Capera - Vammana - Pia ricevitrice

Normalmente, sia i maschi che le femmine –quando non andavano scalziportavano ai piedi gli zoccoli (‘e zuoccul’) di legno o, più raramente, le pantofole (‘e papusci). Per il lavoro si usavano robusti scarponi e, per evitare che si consumassero subito, le suole e i tacchi erano ricoperti di chiodi dalla testa sporgente (‘e centrelle). Queste talora si staccavano e, se venivano inavvertitamente calpestate da qualche viandante scalzo, penetravano nel piede con una facilità impressionante e devastante. Le parrucchiere non c’erano ma, in compenso, c’erano le capere, che pettinavano le persone a domicilio, e che rappresentavano (insieme ai barbieri) i mass-media dell’epoca: sapevano tutto di tutti, e di tutto parlavano; a volte anche di quello che non sapevano. Guai ad inimicarsele: lo ‘nciucio non perdonava e poteva rendere zitella la più virtuosa delle ragazze. A volte queste avevano anche la funzione di sartine ruffiane e favorivano incontri amorosi e matrimoni. Trucco, belletti e profumi non venivano usati e, chi avesse avuto i soldi e l’ardire di adoperarli, veniva immediatamente etichettata come una “poco di buono”. Un altro personaggio tipico era la vammana, la levatrice. Costei era una figura molto temuta e rispettata: addirittura si sussurava, in segreto, che ella potesse dare «la vita e la morte». “Stranamente”, infatti, i neonati deformi nascevano sempre già morti! In realtà -quantomeno nel corso dell’800- essi venivano eliminati dalla vammana, non buttandoli da una rupe come nell’antica Sparta, ma soffocandoli appena dopo o durante il parto, spesso ad insaputa degli stessi genitori e con il tacito consenso delle donne più anziane. La vammana aveva anche la funzione di “presentare” il neonato agli uffici comunali e di dichiarare da quale donna l’avesse “raccolto”, e se fosse noto o meno il padre. Per una disposizione del Concilio di Trento del 1563, le registrazioni di nascite, battesimi, matrimoni e morti, erano riportate nei Registri Parrocchiali. Successivamente, con Real Decreto del Codice Napoleonico, del 29 ottobre 1808, vennero istituiti i Registri dello Stato Civile comunale. Un altro personaggio tipico dell’800 era la Pia Ricevitrice: una donna che ispezionava quotidianamente la “Ruota dei Proietti”, dove venivano abbandonati i neonati indesiderati o frutto di una “segreta colpa”. Questi bambini, detti ‘e figli r’a Maronna (figli della Madonna), venivano portati al comune, registrati ed affidati a qualche famiglia di buon cuore. Questa istituzione fu creata con Real Disposizione (napoleonica) del 10 giugno 1802.

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Corteggiamento

Benedetta Napolitano

Le donne, fin da bambine, trascorrevano una vita piuttosto ritirata e si occupavano dei fratelli più piccoli o andavano “alla maestra”(di cucito). Per le giovinette, rare erano le occasioni per conoscere coetanei dell’altro sesso. Fino agli anni ’60 erano pochissime le ragazze che andavano a scuola e le poche occasioni di socializzazione erano costituite, quasi esclusivamente, dalle feste patronali e dalle scampagnate in occasione della pasquetta e delle “passiate a Montevergine” (cfr. capitolo su Baiano). Più recentemente, i giovani potevano lanciarsi le prime occhiate anche in occasione della raccolta o della scucchiuliàtura r’e nucelle (pulitura delle nocciole dalla “cupola” verde) che, spesso, si faceva nella curtina insieme ai vicini. Le ragazze potevano farsi notare (e, a loro volta, notare) quando, la domenica, si recavano a messa o al cinematografo. A Sirignano già negli anni ’30 esisteva un cinematografo all’aperto, nella cosiddetta “strada” (nelle adiacenze del Castello). A Mugnano vi erano due sale cinematografiche (Cinema Partenio e Cinema Santa Filomena). A Baiano esisteva il Cinema Colosseo e il Cinema Sarno (chiuso nel 1993) e, ad Avella, la Sala Azzurra. Per una ragazza essere carina non bastava ad essere considerata un buon partito. Anzi, la cosa poteva rivelarsi un grave handicap. La saggezza popolare, infatti, raccomandava a chi volesse essere tranquillo: « né mugliera troppo bella, né robba ‘nmiezz ‘a via », poiché sia l’una sia l’altra gli potevano essere portate via. Meglio, perciò, una moglie robusta e “lavoratrice” (con o senza baffi). Inoltre, come consigliavano i vecchi proverbi, era preferibile scegliere «donne e buoi dei paesi tuoi», non trascurando di tener anche conto che «pari cerca pari, e pari prende». Spesso, come ci confermano le persone più anziane, i fidanzamenti e i matrimoni erano combinati dalle famiglie. Altre volte la ragazza riceveva ‘a ‘mmasciata (l’imbasciata) tramite un’amica o una parente. I giovanotti più intraprendenti “mandavano la serenata”. La ragazza, per capire se avrebbe sposato l’uomo che aveva pensato, prima di addormentarsi (ma dopo aver recitato una invocazione a “Sant’Elena Imperatrice”, seguita da tre Pater Noster, Ave e Gloria), L’ultimo secolo

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L’Esagono

I costumi morigerati

tendendo l’udito ai rumori della notte, attendeva il “responso”: era considerato positivo l’abbaiare dei cani e negativo il rumore di una porta che si chiudeva. Anche quando il falò (così era anche chiamato, scherzosamente, il fidanzato) era trasuto a casa (fidanzato in casa), ai due fidanzati non era consentito incontrarsi da soli. E ciò fino alla metà degli anni ‘60, come è testimoniato da una celeberrima canzone dell’indimenticato Renato Carosone che recita: «...ije, màmmeta e tu ... màmmeta annanze e sòreta arréte», per poi concludere, esasperato: « nun ci’a faccio cchiù ... iatevenne !» Guai a “sgarrare”, comunque. A Mugnano del Cardinale, come riferito dallo Studioso don Giovanni Picariello nel suo libro “La Valle munianense”: «… si tramanda ancora oralmente che una gentildonna mugnanese, per non aver saputo resistere alle “seduzioni dell’amore”, fu una notte svegliata dai suoi due fratelli e con un pretesto invitata a discendere giù in cucina, dove già ardeva un gran forno, e ce la infornarono, purificando così col fuoco l’onta arrecata al chiaro nome della famiglia. Il fatto, subito risaputosi, produsse una orribile impressione in tutt’i paesi della valle; ma i fratricidi non furono punto molestati dalla giustizia, forse in omaggio al nome medesimo».

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Le prime fogne - Le “zoonosi”

Benedetta Napolitano

Le condizioni igieniche Dalle nostre parti, alla caduta dell’impero romano seguì un lungo periodo buio dal quale i paesini del mandamento non riemersero che verso la fine del XIX secolo. Come è stato già detto altrove, solo dopo il 1806 -grazie alle leggi napoleoniche- si cominciarono a costruire i primi cimiteri fuori dei centri abitati. Le popolazioni rurali vivevano nella miseria più nera e in disagiatissime condizioni igieniche (cfr. il capitolo “Storia e destino comuni”) e solo agli inizi del XX secolo si costruirono i primi rudimentali acquedotti a cielo aperto e i primi abbozzi di reti fognarie. Ogni comune, inoltre, aveva la sua piccola discarica, posta -di norma- al confine con un altro comune (in alcuni casi, negli stessi siti dove -negli ultimi anni- si assiste a pericolosi cedimenti delle strade). Le stradine, quasi sempre in terra battuta, presentavano una pendenza verso il centro ove si formava un rivolo maleodorante nel quale venivano riversati liquidi (e non solo liquidi) di ogni genere. Ancora agli inizi degli anni ’70 qualche “nostalgica” vecchietta, memore delle antiche usanze, usava svuotare i vasi di notte (cantari o pisciaturi) in mezzo alla strada, Avella. Via Madonna delle Grazie. costringendo il preoccupato viandante -desideroso di evitare maleodoranti aspersioni- ad essere ben sveglio e vigile anche di buon mattino. Normalmente, codesti recipienti venivano svuotati in apposite latrine o cantarielli (asterisco nella foto sotto), o in “pozzi neri”, e successivamente gli escrementi venivano raccolti e portati nei campi, per essere utilizzati come concime. Frequenti erano le epidemie (soprattutto di tifo e di colera) e numerose le zoonosi. Con questo termine (dal greco zoon, animale) si indicano quelle malattie che possono essere trasmesse dagli animali all’uomo, come la tubercolosi, il tetano, la brucellosi (febbre maltese), il carbonchio * ematico e numerose parassitosi. L’agente del tetano si annidava soprattutto negli escrementi di cavalli, asini e muli che, con le piogge, venivano sparsi uniformemente in tutto il paeL’ultimo secolo

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I rimedi terapeutici

se, e poteva facilmente infettare gli uomini, penetrando attraverso piccole ferite. La tubercolosi aggrediva prevalentemente le mucche più debilitate. Il carbonchio e la brucellosi colpivano soprattutto le pecore e le capre. Non era raro che la gente, a valle, bevesse dallo stesso rivolo (l’acquedotto a cielo aperto dal quale, a monte, si erano abbeverate le bestie). Le parassitosi erano molto diffuse anche a causa dell’abitudine di concimare orti e campi con escrementi umani e animali. La gente del popolo, che non poteva permettersi gli incerti rimedi della medicina dell’epoca, sopravviveva nonostante la mancata assistenza dei medici o come ancora sostiene qualche arguto vecchietto- grazie proprio ai loro mancati interventi. La medicina, infatti, era ancora abbastanza empirica e dagli esiti incerti. Cataplasmi (di semi di lino) e salassi (con sanguisughe) costituivano i principali rimedi allora praticati. Non erano ancora disponibili gli antibiotici, che giunsero in Italia insieme all’esercito americano, verso la fine della seconda guerra mondiale, e la diagnostica era limitata all’intuito del medico. In tale situazione, le arretrate popolazioni rurali non potevano fare altro che ricorrere agli effetti placebo di guaritori e fattucchiere o ai rimedi erboristici. Contro il mal di denti veniva usato, soprattutto dai boscaioli, il Solanum nigrum, detto “erba morella” o “pummarulella servateca” (nella foto). Questa erba, dai bulbi commestibili e simili a piccole patate, presenta fusto, foglie e bacche velonose e dall’effetto sedativo sulle terminazioni nervose. Si schiacciavano le bacche su un pezzo di ovatta avvolto su uno “spruoccolo” (sottile rametto di legno). Si dava fuoco a questa piccola torcia e, a bocca aperta, si faceva in modo che il fumo giungesse al dente dolente o all’ascesso. A volte funzionava. Questa pianta, lasciata macerare nell’olio, forniva anche pomate antidolorifiche.

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La credulità del popolo

Benedetta Napolitano

Superstizioni e credenze popolari La fede -allora come oggi- sosteneva i malati e gli oppressi ma, purtroppo, il prete veniva considerato quasi alla stregua di uno stregone. La Santa Messa, celebrata in latino per persone che non conoscevano bene neppure l’italiano, incuteva riverenza e rispetto. Più che alla sostanza del messaggio evangelico si badava alla ritualità delle cerimonie e frequenti erano, nella gente del popolo ma non solo, evidenti confusioni e sovrapposizioni tra sacro e profano. La Chiesa lungi dal combattere le superstizioni, le alimentava. Antichi Autori riportano un esilarante ma sintomatico episodio, in cui si intrecciano la miseria e l’ignoranza del popolo con la fantasiosa “psicologia” del clero (solo di recente soppiantata da quella dei politici): «… nel 1631 eruttò il vicino Vesuvio con tanta violenza, da lanciare le sue ceneri fino in Dalmazia e nell’Arcipelago (Grecia), e le sue acque bollenti, miste ad alghe e a pesci cotti, fino ad Avellino e Atripalda; onde le campagne di questa valle ne furono così danneggiate, che per molto tempo non diedero frutto. Fu solo dopo cinque o sei anni che la vegetazione cominciò a risorgere, e prometteva un’abbondante raccolta, quando nel 1640 si scatenò su queste contrade una invasione di cavallette. La costernazione delle misere popolazioni rurali era al colmo. Per tutto [il circondaro .. vi furono] frequenti processioni penitenziali e scongiuri, tridui e pubbliche preghiere, inutili rimedi. La Curia vescovile di Nola, a calmare un po’ gli animi terrorizzati, escogitò di costituirsi solennemente, nel Duomo di quella città, innanzi ad un gran popolo in Alta Corte di Giustizia, il Vescovo presidente, il suo Vicario accusatore e il Decano difensore, allo scopo di fare il processo alle bestiole sterminatrici. L’accusatore, dopo una tremenda requisitoria, chiese la pena di morte; il difensore invece l’esilio sulla montagna di Somma; il Vescovo, prudente, fu per l’esilio; ma le cavallette non se n’andarono se non quando ebbero distrutto ogni cosa». Come è stato già detto nel capitolo di Baiano (a proposito dell’eremo di Gesù e Maria e di Sant’Alfonso dei Liguori), le fattucchiere erano diffuse in tutti i paesi del mandamento, in particolare ad Avella. Alcune massaie, per evitare che le fattucchiere potessero penetrare in casa, passando attraverso il buco della serratura, o sotto la porta, ponevano dietro l’uscio una scopa o una scupetta (spazzola): la strega prima di poter entrare era obbligata a contarne –senza sbagliare- tutti i fili, prima che arrivasse il mattino. In passato non esistevano né la televisione, né la radio, né Internet. Non tutti potevano permettersi di acquistare i libri. Inoltre, non tutti quelli che potevano acquistare un libro erano anche in grado di leggerlo. L’ultimo secolo

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I cunti e l’occulto

A questo proposito si narra di un padre che, avendo un figlio –ormai adolescente- che non si decideva a imparare alcun mestiere, decise di tenerlo chiuso in casa fino a che non avesse deciso cosa fare della sua vita. La gente del posto, accostando “discretamente” l’orecchio alla porta della loro abitazione sentiva l’uomo che –spazientito- intimava al figlio: «liéggie … liéggie», facendo seguire –taloral’inequivocabile schiocco di uno scapaccione ben assestato. Anche le più pettegole del paese non potevano fare a meno di parlare bene di cotanto padre che esortava continuamente il figlio a leggere. Ma le cose stavano in ben altro modo: non a leggere veniva esortato il giovane, ma a muoversi in maniera più leggera. Se, infatti, gli ingenui villici avessero potuto vedere attraverso le pareti, avrebbero potuto osservare il padre che insegnava al figlio come rubare un portafoglio senza farsene accorgere, raccomandandogli continuamente «…liéggie…».

Esisteva, perciò, la tradizione di tramandare oralmente i vari “cunti”. Nei paesini del mandamento vi erano alcuni anziani che, come gli antichi cantastorie, conoscevano a memoria tutte le opere di Torquato Tasso. Essi affascinavano i nostri padri, allora bambini, con le mirabolanti imprese di Orlando Furioso, Rinaldo e compagnia. Ma essi non si limitavano a declamare la sola letteratura. Spesso, davanti al fuoco del camino, si divertivano a terrorizzare i loro ascoltatori con racconti di spiriti e di fantasmi, che con minime differenze si narravano anche in paesi fuori del mandamento. Un racconto classico era quello della processione dei morti: «Era la novena dei morti, Uelà si era alzata prima dell’alba per andare alla messa. Uscita di casa vide giungere una processione di persone portanti ogn’una un cero acceso. Uelà si accorse in breve che le persone che passavano davanti ai suoi occhi pieni di stupore erano tutte persone trapassate. Vide anche una sua amica, morta da tempo, il cui cero si era spento: «dallo a me che te lo accendo» disse, commossa, rivolgendosi allo spirito dell’amica defunta. «Non posso aspettare, non ci possiamo trattenere», rispose mesta la defunta. Uelà strappò con forza il cero dalla mano dell’amica, entrò in casa e l’accese, ma quando ritornò in strada la processione era ormai scomparsa. Tornata in casa, perplessa, si accorse che il cero non era più un cero ma l’osso di un braccio. La sera successiva, aspettò che ripassasse la processione dei morti e, senza parlare, ridiede il braccio al fantasma della sua amica defunta». 119

Formula contro il malocchio. Farsi tre volte il segno della croce. Poi, facendo continuamente col pollice il segno della croce sulla fronte del malcapitato, si recita il seguente scongiuro: Uocchio e mal’uocchio ‘e perticell’ all’uocchio schiatt’n ‘e nnemmici e crépan ‘e mal’uocchi ‘a truvat p’a via libbera Sant’Antunin’ ‘a truvat p’a casa libbera Sant Tummas’ afujite uocchie smarilitt smaliric’ cu’ l’uocchie ‘e Gesù Crist’ afujite pe’ chillu vosc’ oscur’ addù stann’ sierp’ viper’ ‘e curzuni a nomm’ ‘e Santa Lena, chi t’’e fatt’ ‘o mal’ t’adda fa o bben’ a nomm’ ‘e Dio, stu male ne trova a via. sciò, sciò, sciò accompagnando con un movimento della mano.

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Fantasmi - Spiriti - ‘O munaciello

Benedetta Napolitano

Non era infrequente che la gente vedesse (o credesse di vedere) gli spiriti. I racconti terrificanti e l’assenza della corrente elettrica facevano facilmente leva sulle persone più suggestionabili. Ed ecco che i boscaioli, in montagna, dicevano di aver incontrato ‘a Signora r’’e piattini (il fantasma di una dama dal lungo vestito bianco e con l’ombrellino da sole). Altri raccontavano di essere stati vittima della malombra, un non meglio identificato spirito che confondeva i sensi e faceva in modo che il povero viandante si smarrisse, inspiegabilmente, in luoghi che conosceva perfettamente fin dalla nascita. E’ anche probabile che, in una civiltà più vicina ai ritmi e all’essenza della natura, alcune persone –più sensibile delle altre- sviluppassero (o che non soffocassero) alcune capacità medianiche. Si racconta (con nomi e cognomi ben precisi) che un certo ragazzino stava tornando a casa dai boschi con l’asino carico di legna, messa su dai suoi compaesani più grandi. Ad un certo punto l’asino finì con una zampa in una buca e si accasciò a terra. Occorreva scaricare la legna, rimettere in sesto l’asinello e ricaricare la legna. Il ragazzino non ce l’avrebbe mai fatta da solo. Per fortuna comparve suo padre, che lo rincuorò e lo trasse rapidamente d’impaccio. Niente di strano, se non per il fatto che il padre del giovane boscaiolo non fosse appena morto in un ospedale di Napoli, ove era ricoverato per una grave polmonite. Giunto al paese, dove nel frattempo era giunta la notizia del decesso, il ragazzino raccontò a tutti la sua storia, tra i pianti e l’incredulità delle comari, che si affrettarono a farsi più volte il segno della croce.

Un personaggio che, a detta delle persone più anziane, frequentava le case dei nostri avi era ‘o munaciello; cosiddetto perché era uno spirito -o un essere magicodi piccola statura, somigliante ad un bambino o a un nano, e vestito con un saio, come un monaco. ‘O munaciello non è uno spiritello tipicamente nostrano. Ne parlava già la scrittrice Matilde Serao nelle sue “Leggende napoletane”, pubblicate nel 1880. Anche Carlo Levi ne parla nel suo “Cristo si è fermato ad Eboli”, ove avverte che il folletto mira più di ogni altra cosa a rientrare in possesso del copricapo sottrattogli: «Per riavere il suo berretto rosso, senza cui non può vivere, il “monachicchio” ti prometterà di svelarti il nascondiglio di un tesoro; ma, appena riavrà il suo prezioso copricapo, fuggirà con un gran balzo, facendo sberleffi e folli salti di gioia, e non manterrà la sua promessa». ‘O munaciello, chiamato anche mazzamauriello (dallo spagnolo matamorillos) compare anche nella “Vaiasseide” (poema eroicomico in cinque canti – Napoli 1612) con il nome di scazzamauriello. Gli studiosi di fenomeni paranormali lo considerano affine ai fenomeni di “poltergeist” (nda. dal tedesco: spiriti chiassosi) che si riscontrano nelle case dove sia morto un bambino e dove si trovano adolescenti in crisi di crescita che fungono da “catalizzatori”. L’ultimo secolo

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Ancora sul munaciello

In passato, qui da noi, sembra che col munaciello ci giocassero, generalmente in soffitta, lontano dagli sguardi indiscreti degli adulti, intere “nidiate” di bambini. Si racconta pure che a Quadrelle, un certo “Pascalotto” aveva la sgradevole abitudine di andare a fare i suoi bisogni nella Chiesa. Una sera qui gli apparve ‘o munaciello che, evidentemente, vi abitava. Chiese a “Pascalotto” il favore di non sporcargli più quella che egli considerava la sua casa, promettendogli in cambio una moneta d’oro al giorno. A patto che non svelasse il segreto ad anima viva. La moglie di “Pascalotto”, insospettita dal fatto che suo marito avesse tutto quel denaro senza disporre di nessun lavoro, costrinse il reticente coniuge a svelargli il segreto. Ebbene, quando “Pascalotto” la mattina successiva ritornò in Chiesa per ricevere la sua moneta d’oro, invece del denaro trovò un puzzolente “pasticciotto” di cacca di munaciello. Macerazione della canapa da fibra in una “fusara”

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Il carbonaio

Benedetta Napolitano

Gli antichi mestieri Nei secoli XVIII e XIX le attività produttive più diffuse nei paesi del Baianese erano quelle legate allo sfruttamento dei boschi, dei pascoli e delle campagne per la produzione di quei beni richiesti dall’agricoltura, dalle industrie e dalle popolazioni (oggi diremmo dai consumatori) della metropoli partenopea e delle Puglie, con cui esistevano intensi scambi commerciali. Il carbonaio (‘o graunaro) Notevolissima importanza aveva la produzione di carbone. Non esistevano ancora né l’elettricità (i cui primi timidi tentativi di un serio utilizzo risalgono ai primi decenni del XX secolo) né il motore a scoppio (quello a benzina fu inventato solo nel 1882) e l’unica forza motrice disponibile era quella fornita dalle macchine a vapore, funzionanti a legna o a carbone. Navi, treni e macchine industriali necessitavano, perciò, di ingenti quantità di questo combustibile. Nessuna meraviglia, quindi, che sfogliando i vecchi registri dei vari comuni, quello del carbonaio risulti essere stato uno dei mestieri più diffusi del mandamento. E ciò anche in considerazione dell’abbondanza della materia prima, costituita dagli estesi boschi di ceduo. I più anziani ci raccontano della dura vita dei carbonai e delle tecniche da essi usate per produrre il carbone. Generalmente, la squadra dei carbonai era costituita da almeno tre o quattro persone. Talora erano presenti anche le mogli. Siccome l’intero lavoro (dalla costruzione della carbonaia al recupero del carbone) poteva richiedere anche una quindicina di giorni, essi costruivano innanzitutto una baracca (capanna), la cui porta era costituita da una fascina di rami o da frasche. Poi si costruivano i rastrelli in legno e le scarpe in legno di fico (che resiste alle alte temperature e isola dal calore). Poi si spianava la piazzola su un terreno il più possibile pianeggiante. Se il terreno era in pendenza si costruiva un’impalcatura (piattabanda). Si rimuovevano pietre, cespugli e “ceppe” di piante. Si appianavano i dislivelli con foglie secche e rami sottili, ricoperti con uno strato di terra e poi si dava il via alla costruzione della carbonaia vera e propria. Gli antichi mestieri

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L’Esagono

La costruzione del catuozzo

Si costruiva il castelletto centrale (vedi foto), che fungeva da “bocca” della carbonaia. Attorno a questo si faceva la catasta di tronchi e rami, disponendo i più piccoli in basso e i più grossi in alto. Poi si ricopriva il tutto con frasche (disposte verso il basso), su cui si appoggiava uno strato di zolle d’erba (‘e tempe) e di terra, in modo da non lasciar passare l’aria. Veniva lasciata aperta solo la parte superiore (bocca del castelletto), nella quale venivano posti due tronchetti disposti a croce (a mò di griglia). Sui tronchetti venivano accese delle frasche e, poi, della legna sottile. Man mano che la legna in cima bruciava si formava della cenere che cadeva nel castelletto e che provocava la combustione della parte inferiore. Quando il fuoco era ben avviato si lasciavano cadere i resti dei due tronchetti disposti a croce e si cominciava ad alimentare la fiamma accesa alla base del castelletto. Si aggiungevano corti pezzi di legno fino a riempire completamente il castelletto. A questo punto veniva chiusa la bocca, per essere riaperta ogni 12 ore per “dare da mangiare” alla carbonaia, aggiungendo altra legna nel castelletto. Il fuoco, all’interno del castelletto “catuozzo” (come veniva pure chiamata la carbonaia), non si spegneva perché alimentato dall’ossigeno presente nella legna fresca. Inoltre, venivano aperti dei fori di aerazione (a circa un metro dalla cima), attraverso i quali usciva del fumo, bianco perché ricco di vapore acqueo. Quando il fumo diventava acre e azzurrognolo i fori venivano richiusi e ne venivano aperti altri un metro più in basso e così via. Aerare troppo il “catuozzo” (cosa che poteva capitare a causa del vento o della formazione di qualche crepa nella struttura) significava, letteralmente, mandare in cenere tutta la legna. La carbonaia, perciò, andava “governata” (curata, vigilata e “nutrita”) ininterrottamente, anche di notte. Le dimensioni delle carbonaie erano variabili. Quelle più piccole misuravano 3-4 metri di diametro per un circa due metri di altezza. Ma, normalmente, erano molto più grandi. La resa era attorno al 40%. Cioè, da cento quintali di legna fresca si ottenevano circa 40 quintali di nero carbone. Ma essa variava in relazione al tipo di legna e del tipo di cottura subita. Alla fine della cottura, cioè, quando anche i fori alla base avevano smesso di emettere fumo azzurrognolo, si aspetta123

Gli antichi mestieri


‘A carcara

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va il raffreddamento del “catuozzo” (e ciò era in relazione alle dimensione dello stesso) e si rastrellava il carbone. Nerissimo, lucente, leggero e di una sonorità metallica. Questo veniva messo in appositi sacchi (più grandi del normale perché il carbone pesa di meno) e portati a valle, a dorso d’asino (tre per ogni animale). Alla fine del lavoro tutto era di colore nero. Si vedevano brillare solo gli occhi dei carbonai. Presumibilmente, l’espressione “te ne vai p’’o fummo”, che tradotto liberamente, significa “vai ad intuito”, deriva proprio dal mestiere dei carbonai che, come si è visto, in base al colore del fumo stabilivano se il catuozzo era cotto oppure no. Calcarea (‘o carcararo) Nella “fornace calcarea” o “carcara”, per cottura della pietra calcarea o “pietra viva”, veniva prodotta la calce viva, di aspetto e consistenza polverulenta. Questa, com’è noto, a contatto con l’acqua reagisce violentemente e comincia a ribollire (reazione esotermica) producendo la calce spenta, usata in edilizia, come legante della pietra e per gli intonaci, e come ammendante (correttore del Ph) e anticrittogamico, in agricoltura. Tutte le nostre montagne sono costituite da calcare, ad eccezione di qualche 1957 collinetta che presenta depositi di arenaria o di tufo. La materia prima, quindi, non mancava, e neppure il combustibile, costituito da fascine (sàrcine e sarcinelle), gusci di nocciòle, segatura, pannelli dei frantoi oleari e materiali simili. In molti casi, i proprietari delle carcare erano anche industriali boschivi. Ogni paesino aveva le sue fornaci calcaree. Addirittura, nel secondo dopoguerra, a Baiano, nel bosco di Arciano, vi era un cantiere-scuola del “Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale” (vedi foto sopra). La fornace calcarea era costituita da due ambienti sovrapposti, comunicanti tra loro attraverso un grosso foro centrale. Superiormente vi era la “fornace” vera e Gli antichi mestieri

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L’Esagono

Il duro lavoro del “carcararo”

propria e, sotto di essa, era posta la “camera di sgombero”, dalla quale veniva estratta la cenere. Attraverso il foro centrale cadeva la cenere e saliva l’aria. Su di esso veniva composta, ad ogni cottura, la “grata” costituita da grossi massi di pietra viva (che sarebbero stati cotti insieme a tutti gli altri), disposti a cupola (per poter reggere il carico) e appoggiati tra di loro tramite gli spigoli (lasciando così dei fori attraverso i quali poteva cadere la cenere e passare l’aria). L’intera struttura della fornace era costituita dallo stesso tipo di pietre che, cotte, si sarebbero trasformate in calce Mugnano viva. Per questo motivo, allo scopo di evitare di rifare la fornace ad ogni cottura, il suo interno veniva rivestito da una “fodera”, costituita da uno strato di calce e pietre di piccole dimensioni. Le pietre da cuocere venivano poste in circolo attorno al foro centrale, che rimane libero, e lasciando nel perimetro alcuni spazi (canne di tiraggio). Man mano che si sale le pietre convergono sempre più verso il foro centrale, per cui esse vengono ad assumere una conformazione a cono. Successivamente viene riempita l’intercapedine tra l’anello di pietre centrale e la “fodera”. Riempita tutta la fornace si versa sulla sommità un impasto di calce che ha la funzione di evitare le dispersioni di calore, lasciando liberi il foro centrale e i fori delle canne. Le fascine (o altro combustibile) vengono scaricate e accese nel cilindro centrale. Il lavoro di caricamento poteva durare anche un mese. La cottura delle pietre, ad una temperatura superiore agli 800 gradi centigradi, prosegue per circa 12 giorni. Nelle prime 24 ore la pietra diventa fragile come vetro. Successivamente, per la perdita dell’acqua, il suo peso si riduce a quasi la metà e comincia a diminuire anche il volume, mentre appaiono le prime lesioni. La cottura si considerava ultimata quando, spiando attraverso le “canne”, si verificava che le pietre avevano assunto un caratteristico colore giallo-oro. A detta dei vecchi carcarari, si trattava di un lavoro estremamente faticoso, tanto è vero che si tramanda il modo di dire “’e fatt a carcara”, per indicare una fatica sovrumana o come sfottò indirizzato verso qualche “sfaticato”. Anche il lavoro di vigilanza e di “cura” della “carcara”, consistente nell’aggiunta di altro combustibile e nella sottrazione di cenere e carbonella, era particolarmente dannosa per la salute perché esponeva gli operai a continui sbalzi di temperatura e, nei giorni più ventosi, a pericolosi ritorni di fiamma. 125

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Come si produceva il ghiaccio

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Neviera Le neviere, in epoche in cui non esistevano frigoriferi, rappresentavano l’unica possibilità di ottenere, nei periodi caldi, bevande o cibi freddi o di poter refrigerare e quindi conservare più a lungo cibi deperibili. Esse si trovavano sui monti Avella, a Summonte e al Campo di Montevergine. Erano costituite da semplici buche nel terreno, che giungevano fino a 510 metri di diametro e altrettanti di profondità. Durante l’inverno venivano riempite con neve fresca, trasportata con carriole e ceste e pressata con i piedi o con mazzuole e neviera piccoli tronchetti. Quando la profondità della neviera lo consentiva, si facevano più strati di ghiaccio, separati tra loro da frasche e foglie secche, che avevano funzioni isolanti. Questo sistema consentiva di mantenere freddo lo strato più profondo anche quando si estraeva il ghiaccio dagli strati più superficiali. Oggi delle neviere rimangono solo poche tracce, costituite da un avvallamento del terreno o da qualche pozzanghera che si forma dopo le piogge, in quanto, col trascorrere dei decenni sono state ricoperte dai detriti trascinati dallo scorrere delle acque superficiali. Era un mestiere prevalentemente femminile. A Mugnano del Cardinale, proprietario di importanti neviere situate a Summonte e al Campo di Montevergine, era un certo Santo Bellusci. Il ghiaccio, coperto da sacchi, veniva trasportato a valle o a dorso di muli oppure dalle donne, che lo tenevano in testa, portato in uno straordinario “equilibrio dinamico”, appoggiato al “curuogliolo” (una sorta di “turbante” di pezze). I blocchi di ghiaccio venivano poi posti in veri e propri depositi (uno di questi era situato nelle adiacenze del palazzotto Canonico, ora palazzo Guerriero), in località Cognulo a Mugnano del Cardinale. Altre importanti neviere si trovavano a Monteforte Irpino. La neve veniva conservata e pressata nelle grotte ricavate dall’estrazione del tufo (situate praticamente sotto l’autostrada, poco più in basso della fontana Carlo-III). Il ghiaccio, oltre che per la produzione di granite e gelati, veniva usato per la conservazione degli alimenti (venivano a comprarlo anche da Napoli) e negli ospedali. Gli antichi mestieri

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L’Esagono

Gli ultimi sportellari

Sportellaro Quello dello “sportellaro” è stato uno dei mestieri più importanti del mandamento baianese, che ha conservato una larga diffusione quantomeno fino ai primi anni ’70, quando, a somiglianza di quanto stava capitando per i bottai, ha conosciuto una rapida e inesorabile decadenza, a causa dell’avvento delle materie plastiche. All’epoca, i nostri paesini erano piuttosto “ritmici”. I principali “percussionisti” erano costituiti da ferracavalli, bottai, fabbri e sportellari che con i loro “strumenti” (di lavoro) facevano riecheggiare la tranquilla e laboriosa vallata di ritmici rintocchi -talora metallici e argentini, talora sordi e legnosi- intervallati, di tanto in tanto, dal raglio malinconico di qualche asinello o, nelle assolate giornate d’estate, dall’insistente canto delle cicale. Non era raro incrociare per la strada grossi carri (‘e traini), tirati da flemmatici cavalli, carichi fino all’inverosimile di traballanti file di “sporte”, a volte alte più di tre metri. Per la lavorazione venivano usati solo pochi strumenti (vedi foto a pag. seguente) e un forno a due piani: nello scomparto inferiore veniva acceso il fuoco e in quello superiore i pali da ammorbidire. Venivano usati pali di castagno con diametro da due (‘e vuccali) fino a sette od otto centimetri (‘e vaccele): i primi servivano per rinforzare il bordo superiore e per i manici, i secondi per ricavarne le strisce di legno da usare nell’intreccio delle “sporte” o dei “panari”. Ai pali di castagno vengono tagliate le estremità inferiori (perché poco flessibili e non adatte all’intreccio) e le punte. Poi vengono tenuti a bagnomaria per alcune settimane. Infine, vengono messi ad “ammorbidire” nel forno, per circa mezz’ora. Il legno ancora rovente viene, poi, spaccato longitudinalmente prima in due parti e, successivamente, in tante strisce di legno sottili. Una volta questa operazione veniva fatta, letteralmente, con i denti. Ciccio ‘e Limpiella di Mugnano, collaboratore di uno degli ultimi sportellari rimasti (il Sig. Stefano Napoletano, che ha il suo laboratorio nel quartiere Vesuni 127

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Le fuscelle

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di Baiano), ci precisa che è molto importante che le strisce abbiano un giusto e uniforme spessore: strisce troppo sottili sarebbero piĂš facili da intrecciare ma le sporte cosĂŹ ottenute risulterebbero troppo fragili. Le mani, rese ruvide dal contatto con il legno rovente, e nere, per il tannino contenuto nella corteccia e nel legno di castagno, testimoniano la dura fatica necessaria per produrre questi antichi ma ecologici contenitori. Le donne, soprattutto ad Avella, intrecciavano anche i sottili rametti di vimini (salix viminalis), di ginestre e di giunchi (spartium iunceum, altra specie di ginestra), per realizzare ceste per la frutta o “fuscelleâ€? per contenere la ricotta.

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L’Esagono

Il lavoro nei boschi

Il boscaiolo (‘o mannese) Mestiere diffusissimo nel Baianese, tra i nostri nonni e trisavoli. I boscaioli tagliavano la legna da ardere, la legna per gli sportellari, ‘e murcuni per fare le toghe delle botti, la legna per i carbonai, per gli scalari, per i falegnami (o masturasci, termine che proviene da “maestro d’ascia”), per l’agricoltura (‘e pertiche), per le costruzioni (‘e trav’ per i soffitti), per le traversine delle ferrovie e per le segherie. In passato il taglio degli alberi veniva effettuato con le accette e con le roncole (‘o runcino). Successivamente venne usato, per gli alberi di alto fusto, il segone a mano (‘o strungone) sostituito, solo attorno al 1960, dalla motosega. Anche le donne partecipavano a questo lavoro. Queste erano dedite ai lavori -si fa per dire- più leggeri, come la pulizia del sottobosco e la sramatura delle piante di alto fusto. Quando non erano disponibili i mulattieri (i proprietari dei muli), gli uomini, attaccate alcune funi ai grossi tronchi di castagno, dovevano anche tirare ‘e trav’ fino a valle. Quando i boscaioli andavano a lavorare fuori regione (Abruzzo, Lazio, Toscana, Lucania), poteva capitare che si dovesse spostare l’intera famiglia. In questo caso il gruppo di boscaioli viveva in gruppi di capanne costruite da loro stessi. Spesso il tetto era coperto dalle témpe (zolle di terra inerbite), altre volte da carta catramata o dalle bandone (lamiere ondulate) di zinco. Il boscaiolo costruiva anche una rudimentale stufa a legna, aprendo -in un bidone metallico- una porticina per infilarci la legna e un foro per collegarci la canna fumaria. Visto il tipo di lavoro, che richiedeva la collaborazione di tutti quanti, e il forzato isolamento del gruppo –che poteva protrarsi anche per svariati mesi- fra i boscaioli erano fortissimi i vincoli di solidarietà e di mutuo soccorso. Quando si usavano ancora ‘e strungun’ ‘a man’ (i segoni a mano), ad adoperarli erano le “paranze”, ovvero delle squadre costituite da due uomini. Essi dovevano lavorare in perfetta sintonia: quando l’uno spingeva, l’altro doveva tirare e viceversa. Inoltre, nessuno doveva fare il furbo e riposarsi facendo sforzare solo l’altro. Poteva, naturalmente, capitare che i due boscaioli litigassero tra di loro, magari per qualche banale motivo. Ebbene, anche in questo caso, i due amici (poiché in fondo rimanevano sempre amici) dovevano continuare a lavorare insieme, anche se non si parlavano: l’uno era indispensabile all’altro. Il già citato Cav. Antonio De Rosa, di Sirignano, narra il seguente episodio: «Due boscaioli di una stessa “paranza”, che momentaneamente non si parlavano, avevano perso ‘e zeppe. Queste sono dei cunei di ferro (ma ve ne erano anche di legno) che, inseriti –con la mazzetta- nella fessura del taglio operato dal segone, hanno la duplice funzione di orientare la caduta dell’albero e di impedire che il peso del fusto schiacciasse la lama della sega. Ritrovare le zeppe nello spesso strato di foglie era come cercare un

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Altri mestieri

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ago in un pagliaio e l’operazione poteva richiedere anche molto tempo. I due amicinemici, sempre senza parlarsi, si misero alla ricerca di buona lena. Quando uno di essi ebbe ritrovate le zeppe, tenute insieme da uno spago, ebbe il problema di comunicarlo all’altro, distante qualche decina di metri e –naturalmente- sempre senza parlare. Egli, perciò, cominciò a sbattere l’una contro l’altra le zeppe che, con i loro rintocchi metallici avvertirono l’altro uomo dell’avvenuto ritrovamento. I due amici, guardandosi dritti negli occhi e rendendosi finalmente conto di quanto fosse stato infantile il loro comportamento, scoppiarono in una sonora risata e fecero finalmente la pace».

Altri mestieri, che si ritrovano anche in alcuni soprannomi (stortanomme o scungicanomme) erano quello del funaro (che intrecciava corde di canapa), dello scalaro e tanti altri mestieri (come il sarto, il bottaio, lo zoccolaro ed altri) che, non essendo tipici della nostra zona, non verranno trattati. Una menzione particolare merita ‘o ferraro. Alcuni di essi, oltre a svolgere i normali lavori in ferro battuto, avevano sviluppato notevoli capacità metallurgiche ed erano diventati veri e propri maestri nell’arte di temperare i metalli (acciarià, ovvero rendere duro come l’acciaio).

Sirignano. Anni ‘50. Fabbrica di botti della famiglia Saveriano.

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I giochi dei nostri nonni

I giochi di una volta Oltre ai giochi praticati dai ragazzi ancora oggi, come la moscacieca, il nascondino, ‘a semmana, il tiro alla fune ed altri, vi erano alcuni giochi tipici della prima metà del secolo scorso. Qui di seguito verranno elencati i principali. Mazza e piùz’ Questo gioco aveva una certa somiglianza con il baseball americano. Si giocava con due legnetti: una mazza di circa mezzo metro e un piùz’di una quindicina di centimetri e con le estremità appuntite. L’attrezzo più corto veniva posto inclinato in una piccola buca, con un’estremità sollevata. Il “battitore” colpiva, dall’alto verso il basso, l’estremità sporgente del piùz’ che rimbalzava in aria. Subito dopo, come si fa con la palla del baseball, doveva colpirlo di nuovo per lanciarlo il più lontano possibile. Il “ricevitore”, una volta recuperato il piùz’, per conquistare la mazza e diventare “battitore”, doveva far giungere il piùz’ in buca (con uno o più lanci rasoterra) cercando di evitare che il “battitore” lo rilanciasse lontano prima che esso toccasse il suolo. In questo gioco era importante non solo “conquistare la buca” ma, com’è ovvio, anche evitare di essere colpiti in testa dal piùz’. ‘O carruocciol’ Ve ne erano di vari tipi. Il “modello” più antico (foto sotto) montava due ruote di legno posteriori e due su un corto asse sterzante anteriore. La versione più evoluta, in uso fino alla fine degli anni ‘60, portava l’asse sterzante anteriore molto più lungo e sterzabile anche con i piedi, che vi venivano appoggiati sopra. Le ruote di legno erano state sostituite dai grossi cuscinetti a sfera dei camion. Nei paesi più in pianura, come Sperone e Baiano, si procedeva grazie alla spinta di un compagno di giochi. Nei paesi con forti discese (Quadrelle, Sirignano e Mugnano) si tenevano vere e proprie gare di velocità (e di coraggio). Non sempre, infatti, era agevole frenare. I freni, ottenuti con mazze improvvisate, a volte si rompevano nel momento meno opportuno. I più abili, in caso di guai, si lasciavano cadere rotolandosi su di un lato. ‘O strummul’ (dal greco, stròbilos) Si trattava di una trottola di legno, a forma di cono rovesciato, con una punta di ferro e con delle scanalature sulle quali veniva arrotolato uno spago. Si lanciava tirando lo spago a sé, in maniera da conferire all’attrezzo un movimento rotatorio. Vinceva chi riusciva a far girare la trottola più a lungo degli altri. 131

I giochi di una volta


I giochi dei nostri nonni

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‘O chìrchio (dal greco kìrkos) I cerchi potevano essere di due tipi, o di legno o di ferro, entrambi usati nella costruzione delle botti. Il cerchio si guidava con una bacchetta di legno, seguendo un percorso dritto o con alcune curve. Vinceva chi arrivava prima al traguardo. Baiano. 1926. Il bimbo al centro è Silvino Foglia

‘O sciscaro (da: sciscare=fischiare) Era una sorta di flauto che, soprattutto i pastori, intagliavano a primavera dalla scorza di un rametto di pioppo. Veniva usato come uno zufolo.

Oltre a quelli menzionati, esistevano anche alcuni giochi molto pericolosi. Alcuni ragazzini erano abilissimi a costruire archi e frecce micidiali, con le quali andavano a caccia di bisce, lucertole, topi e uccelli. L’arco era ricavato da due fili di ferro degli ombrelli, tenuti insieme da fil di ferro o da una lenza (dei muratori). La corda era costituita da una lenza e la freccia da un ferro di ombrello appuntito. Era una vera e propria arma che, talora provocava ferite gravissime (anche la perdita di un occhio). Altri gioci pericolosi erano la “freccia” per lanciare le pietre (fatta con un ramo a forma di Y e con le molle ricavate da camere d’aria) e la fionda. Ma il gioco più diffuso era, forse, quello del calcio: il proprietario del pallone giocava sempre (naturalmente) e sceglieva la squadra. Il più timido finiva sempre per giocare in porta.

Campionato 1 divisione. Anno 1946/47. Napoli e Baiano in scuro. Vinse il Baiano 2-1

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L’Esagono

Filastrocche per nonni e bambini

Alcune filastrocche che ancora oggi si recitano Tarantella tarantella scinn ‘abbascia ‘a sta purtella ch’ è venuto ‘o cusutore e ‘a purtat’ la vunnella tutta nocche e zigarelle quann’ cammin’ par bell’ par bell’ e porta onore pappavall’ rint’ ‘a caiola sta caiola c’ ‘o fierro ‘o pèro tira tira ca se ne vene se ne vene ca puca r’ ‘o pesce e che puzza ‘e baccalà quann’ muglierema esce prena cumm’ riavul’ amm ‘a fà ce ne iamm’ ‘o mercatiello e l’accattam’ nu pazziariello e c’ ‘a ‘ncùnia e c’ ‘o martiello ce mettimmo a pazzià. Zi’ monaco, zi’preveto ten’ ‘na figlia e nun m’a vò ra’ e ie m’ mett’ a iastummà. Caruse, melluse ‘mpizze ‘a capa r’int’’o pertuse; ‘mpizzancella chiane chiane e nu’ fa male ‘o parrocchiane.

Sega sega, mastu Ciccio ‘na panella e ‘nu sasiccio. ‘A panella ci’ ‘a mangiammo e ‘o sasiccio ci’ ‘o stipammo ci’ ‘o stipammo pe’ natal’ quann venen’ ‘e zampugnari ci facimm na veppet’ ‘e vin’ e gloria gloria r’ ‘o bambino.

Arri arri ‘a Nola a truvà zi’ Nicole; zi’Nicole nun ce steva, ‘ce steva la mugliera ca cuceva li maccarun’ ‘e diciett rammenne dui; me ne riv’ nu piatt’ e o mettiva ‘ncoppo ‘o banco iva ‘o sorice tang tang e se mangiav tutti quant l’v uttai na rattacasa l’accuglietto na pacca e’ naso l’ menai nu lavanaturo l’accuglietto na pacca ‘e culo. Sega sega, nun voglio segà tenco na figlia ra ‘mmarità e carrozz’ anna scuccà chi tena ‘a mmiria addà crepà. Micia, micella, vatta, vattelle addò si gghiut? -addò ze’ Rosa che t’ha dato? -‘o ppane e ‘o case. fusta la casa, fusta la casa.

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I giochi di una volta


La formazione della “Valle Avellana” - Il Clanio - Idrologia

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L’ambiente naturale La valle del Baianese è delimitata da due dorsali carbonatiche: a Nord dai monti Avella, disposti secondo il tipico andamento appenninico (NordOvestSudEst) e a Sud dai Monti di Lauro (cfr. cartine a pag.20). I rilievi sono costituiti prevalentemente da rocce calcaree, formatesi tra Giurassico e il Cretacico, ma il ritrovamento -sui monti di Avella- di alcuni fossili di organismi marini (gasteropodi, lamellibranchi e coralli) databili a circa 125 milioni di anni fa, indica chiaramente che in quelle ere geologiche la catena montuosa delle “porche di Avella” ancora non esisteva e che, al suo posto, c’era un fondale marino. I primi rilievi cominciarono ad emergere, indicativamente, nel corso del Plesistocene superiore (150.000- 10.000 a.C.). La vetta più alta dei Monti di Avella si eleva fino a 1.598 metri; centocinque metri più in alto della stessa Montevergine. Sulla sommità dei rilievi spesso la roccia è affiorante ma, altrove, è ricoperta da materiale piroclastico da caduta (cenere, lapilli, pomici) proveniente in massima parte dall’attività eruttiva del complesso vulcanico Somma-Vesuvio (ma anche dai Campi Flegrei e da altri numerosi siti vulcanici). Nel corso dell’ultima glaciazione (Wurm, 33.000 anni fa) vi fu una terrificante eruzione ignimbritica e un vero e proprio mare di tufo fuso si riversò nella “depressione Campana”. Successivi accumuli di materiale erosivo e vulcanico colmarono ulteriormente la valle nei millenni successivi. Secondo i geologi, esisterebbero due “faglie inverse” (spaccature della crosta terrestre) che collegherebbero il nostro mandamento con il Vesuvio: un loro eventuale movimento (terremoto) potrebbe essere causato dall’attività vesuviana o, inversamente, contribuire a risvegliare il gigante di fuoco. La valle del Baianese non presenta corsi d’acqua perenni. Essa è chiusa a Sud dai torrenti Acqualonga e Gaudo-Sciminaro e a Nord dal torrente Clanio. Quest’ultimo, con la sua acqua ha consentito i primi insediamenti di uomini primitivi (si veda il capitolo “Storia e destino comuni”), ma ha anche contribuito a rendere la Piana Campana un vero e proprio acquitrino, che ha facilitato l’insorgere della malaria e di altre epidemie fino a quando, nel 1539, le sue acque non vennero finalmente regimentate con la costruzione dei “Regi Lagni”. Essi, dopo un percorso di circa 60 Km, si dividono in due rami che sfociano l’uno nel Mar Tirreno, presso Castelvolturno, e l’altro nel Lago di Patria. Dal punto di vista idrologico, il nostro comprensorio può essere considerato ben fornito di acqua. Esistono falde sospese che danno vita alle numerose piccole sorgenti presenti nelle nostre montagne (vedi tabella a pag.140), e un’importante idrostruttura profonda (comunicante, sembra, con l’acquifero di Sarno) che, sotL’ambiente naturale

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L’Esagono

Clima - Flora

to i nostri piedi, a una profondità media di circa duecento metri, costituirebbe un vero e proprio lago sotterraneo dello spessore di circa sessanta metri. E’ lecito pensare che il nostro sottosuolo sia ricco di imponenti formazioni carsiche ma, al momento, si conoscono solo le tre grotte di Avella (vedi foto a pag.41), la “fossa” di Mugnano del Cardinale e alcune “bocche del vento”. Il clima risente sia della relativa vicinanza dal mare (circa 25 Km) che della presenza dei rilievi. Secondo la classificazione di Pavari e De Philippis, che mette in relazione clima e flora, il nostro clima si trova a cavallo tra il Lauretum (maggiore di 19°C) e il Fagetum (inferiore ai 10°C). Sui rilievi la piovosità raggiunge punte di 2.200 mm di pioggia. Secondo misurazioni effettuate ad Avella, con una stazione posta a 198 metri slm, la media degli ultimi trent’anni si aggira attorno ai 1.100 mm. La più evidente caratteristica climatica del nostro ambiente rimane, in ogni caso, il forte, secco e gelido vento di tramontana che non di rado giunge ad una velocità di venti o trenta nodi, con punte di cinquanta nodi (per avere il valore in Km/ora moltiplicare per 1,852). La flora La coltura che predomina alle quote più basse è il nocciòlo (Corylus avellana) cui, salendo di quota, subentrano, nell’ordine, l’olivo (Olea europaea), il castagno (Castanea Sativa) e, oltre i 1000 metri, il faggio (Fagus Silvatica). Più sopra ancora si trovano alcune specie di pino, tra cui ricordiamo il Pinus Laricio . In passato, soprattutto in pianura ma anche in collina, si trovavano estesi vigneti, ciliegi, pomacee (meli e peri), e piante di gelso (le ceuze, in dialetto) le cui foglie costituivano il “foraggio” dei bachi da seta (Bombyx mori), un tempo allevati nei nostri paesini da quasi tutte le famiglie. Fra i 900 e i 1.500 metri, si trovano, fra i boschi di faggio, alcuni alberi di tasso (Taxus baccata). Si tratta di una pianta velenosa in tutte le sue parti per la presenza di un alcaloide chiamato “tassina”. Tra le altre specie diffuse sul territorio, sono presenti noci (Juglans regia), òntani napoletani (Alnus cordata), olmi (Ulmus glabra, Ulmus minor), il kaki (Diospyros Kaki), il sorbo (Sorbus aucuparia, Sorbus aria), le varie specie di acero (Acer lobelii, Acer platanoides, Acer pseudoplatanus, A. negundo, A. campestre, A. obtusatum), il carpino (Ostrya carpinifolia), l’orniello (Fraxinus ornus), il carpino bianco (Carpinus orientalis). Sono presenti anche le querce (Quercus), i lecci (Quercus ilex). Lungo le strade troviamo i platani (Platanus orientalis, P. Occidentalis), il pioppo nero (Populus nigra), il tiglio (Tilia cordata), il biancospino (Crataegus oxiacantha). 135

L’ambiente naturale


I funghi: “esseri” al limite tra il regno animale e il regno vegetale Benedetta Napolitano

Non tutti sanno che i nostri boschi sono ricchi di numerose specie di orchidee, come la Orchis morio subsp. Picta, Orchis mascula, Orchis pauciflora, presenti nelle località Piano del Pozzo e Piano Maggiore ai confini dei territori di Avella e Roccarainola (600-900 m slm). Mentre sulla collina delle Vallicelle (Mugnano del Cardinale e Quadrelle) sono presenti Orchis papilionacea, Orchis x gennari, Orchis purpurea, Orchis pauciflora ed altre. Nel sottobosco troviamo: pungitopo (Ruscus aculeatus), edera (Hedera helix), salvia (Salvia glutinosa), rosa selvatica (rosa sempervirens), fragola (Fragaria vesca), asparago (Asparagus acutifolius), origano (Origanum vulgare), e vari tipi di felci e di ginestre (Spartium iunceum, ecc.), graminacee da prato ed erbe officinali. Sono state censite oltre 700 specie vegetali diverse. I funghi Da noi esiste una buona varietà di funghi. Si trovano i chiodini (Armillaria mellea), detti ‘e semmentini, che si trovano vicino alle ceppaie di nocciòlo o di alberi da frutto e nei boschi di faggio e di castagno. Poi vi sono i porcini (Boletus edulis), detti comunemente amuniti, che si trovano, di prevalenza, nei faggeti e nei castagneti (ma alcune specie si trovano anche sotto le querce e nelle pinete). Da menzionare i taurini, del gruppo dei porcini, ma velenosi, dal cappello più rossiccio e dalla “carne” (così si chiama il corpo dei funghi) che, se tagliata, ossidandosi a contatto con l’aria, diventa subito rossiccia o bluastra. Alcuni boscaioli di Monteforte Irpino li mangiano dopo averli ben bolliti, infatti la tossina è termolabile, ovvero, si distrugge con il calore. Sono presenti anche numerose specie di prataioli, spugnole, e “conocchie” o “mazze di tamburo” (Lepiota, Macrolepiota, Agaricus ecc..) che vivono sullo “strame” (materiale organico in decomposizione), da non tutti conosciuti e apprezzati. Se si è fortunati, è possibile trovare anche l’ Amanita cesarea (detta, in dialetto, pirozzola ‘e uovo, tuorlo d’uovo). I parenti velenosi, anzi letali, di questa specie e cioè l’Amanita muscaria (con sparse macchie bianche sul cappello rosso), e l’Amanita phalloides (dal cappello verde), sembra che da noi non siano presenti: comunque è meglio fare attenzione, non si sa mai. Altre specie nostrane sono i “lattari” (detti ‘e piesciuli) e i Cantharellus cibarius (detti ‘e gallinelle oppure‘e manolle). Infine, va menzionato il tartufo nero (Tuber aestivum) che cresce sotto terra e che viene cercato con l’aiuto di cani o di maiali addestrati allo scopo. Si trova nei faggeti, nei querceti e nei noccioleti. L’ambiente naturale

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L’Esagono

Rinvenimenti preistorici - Anfibi e rettili

La fauna Da rinvenimenti effettuati lungo il Clanio, nel territorio di Avella, si è potuto verificare che in epoca preistorica erano presenti l’orso (Ursus Arctos), il tasso (Meles meles), la martora (Martes martes), la tartaruga terrestre, il capriolo e il cervo (Cervius). Numerose ed interessanti sono le specie animali attualmente presenti. Tra gli anfibi appartenenti agli Urodeli (le specie provviste di coda anche da adulti), troviamo la salamandra pezzata (Salamandra salamandra gigliolii) dalle grandi macchie gialle nere, la salamandra dagli occhiali (Salamandra tergidata), risalente all’era quaternaria, e alcune specie di tritoni il cui habitat è costituito dalle acque stagnanti di cisterne e pozzi. Tra gli anfibi Anuri (le specie sprovviste di coda da adulti), troviamo il rospo comune (Bufo bufo spinosus) ed il rospo smeraldino (Bufo viridis). Nelle zone più umide, come l’alto corso del Clanio, si possono incontrare anche alcune specie di rane, come la rana greca (Rana graeca italica), appartenente alle “rane rosse”(lunga circa 6 cm e dalla caratteristica V capovolta sul dorso) e la Rana ridibunda, verde, lunga fino a 15 cm. Dei rettili ricordiamo la lucertola campestre (Podarcis sicula), presente ovunque, la lucertola muraiola (Podarcis muralis breviceps), comune in alta montagna, e il ramarro (Lacerta viridis). Negli abitati frequenti sono i gechi. M o l t o particolare è la luscengola (Chalcides chalcides). Questo sauro, somigliante ad un serpente, in realtà è una via di mezzo fra le lucertole e i serpenti. Lungo fino a 40 cm, di colore verde scuro o bronzeo, presenta lunghe strisce dorsali chiare. La sua caratteristica distintiva è che presenta piccole zampette provviste di tre dita che, durante la fuga, vengono retratte in apposite cavità presenti lungo il corpo. Inoltre è vivipara (non produce uova che poi si schiudono ma “partorisce” come gli esseri umani). Fra i serpenti ricordiamo il cervone (Elaphe quattuorlineata) che, come dice il nome, presenta quattro linee longitudinali scure su corpo chiaro. Lungo fino a 2,60 m è un serpente costrittore: soffoca la vittima fra le sue spire e poi la ingoia; riesce ad ingoiare anche piccioni e conigli. E’ uno dei serpenti più timidi d’Europa. Esso, conosciuto dagli allevatori del Campo di Summonte col nome dialettale di “impastoiavacche”, è ghiotto di latte, come del resto tutti i serpenti. Esso si porta sotto le mammelle delle vacche e vi succhia il latte. La vacca, che prova sollievo perché si alleggerisce del latte, addirittura ritorna allo stesso posto dove è stata “munta” la prima volta dal serpente e lo aspetta, ed esso, puntualmente, arriva. Diffusi sul territorio sono altresì la biscia dal collare (Natrix natrix), il colubro liscio (Coronella austriaca) e il biacco (Coluber viridiflavus). Un discorso a parte merita l’aspide o vipera comune (Vipera aspis), l’unico 137

L’ambiente naturale


Uccelli - Mammiferi

Benedetta Napolitano

serpente velenoso presente nel nostro territorio. Si distingue dagli altri serpenti locali, innocui, per avere testa triangolare, muso dall’apice rivolto verso l’alto e pupilla verticale (come quella dei gatti). Il colore del corpo è variabile dal grigio, al rosa, al bruno con quattro strisce scure più o meno estese ai lati del corpo, la punta della coda è rosa, la parte addominale va dal giallo chiaro al rosso scuro. E’ lunga circa 70-80 cm. Passando agli uccelli, segnaliamo oltre a quelli più comuni, presenti nelle zone urbane e nelle campagne circostanti come le colombe, le tortore, i passeri, i fringuelli, le rondini, le cince e i merli, anche quelli meno comuni come le beccacce, le quaglie, l’upupa, il pettirosso, l’usignolo, la poiana, il picchio, la civetta, il barbagianni, il gufo, la capinera, il cardellino, la gazza, la pica. In zone di montagna, nella parte più alta dei Monti Avella, se si è fortunati, si possono avvistare anche l’astore, il falco pellegrino, il corvo imperiale e, forse, anche lo sparviere (più comune nell’altro versante dei Monti Avella, nei boschi di Pannarano e Cervinara). I fagiani sono presenti -normalmente- solo per poche ore; dal momento del “lancio” da parte delle associazioni venatorie, al momento della loro “fucilazione” da parte dei cacciatori: passano in poche ore dalla gabbia alla pentola. I mammiferi, sono presenti con quasi 30 specie. Oltre ai vari tipi di topi, ratti e arvicole, ricordiamo i pipistrelli o “chirotteri” (con otto specie diverse), le talpe (presenti con due specie), il ghiro ( Myoxus glis), presente anche nelle faggete, e il moscardino (Muscardinus avellanarius). E’ presente anche il riccio (Erinaceus europeanus), che è insettivoro. Due specie di mammiferi, introdotte per scopi venatori dalle associazioni di cacciatori, la lepre (Lepus capensis) e il cinghiale (Sus scrofa), si sono ambientate molto bene e diffuse su tutto il territorio. I mammiferi carnivori sono rappresentati dalla volpe (Vulpes vulpes), dalla martora (Martes martes) e dalla faina (Martes foina), che sono poco diffuse. Ancor meno diffuso, ma presente, per “erratismo” (cioè, di passaggio) è il lupo (Canis lupus italicus). Alcuni anni fa un esemplare femmina venne ucciso nel territorio di Avella. In passato doveva essere molto più frequente (non a caso Irpinia proviene dal termine latino hirpus, cioè lupo). I carnivori più pericolosi sono rappresentati, comunque, da branchi di cani randagi e rinselvatichiti. Non ce ne sono tantissimi, ma sono presenti, come ci assicura chi maggiormente frequenta le campagne, i boschi e le montagne vicine. Essi possono aggredire il viandante isolato e possono trasmettere (come anche le volpi) pulci e rabbia silvestre. Sulla presenza del gatto selvatico (Felis Silvestris), più grande del gatto domestico, i pareri sono discordi. Alcuni giurano di averlo avvistato, altri ritengono che siano presenti solo gatti domestici rinselvatichiti. Comunque, esso è sicuramente presente nella catena del Partenio. L’ambiente naturale

138


L’Esagono

Insetti e molluschi - Notizie geologiche

Vi sono, poi, centinaia -se non migliaia- di specie di insetti, facenti parte dei vari e complessi ecosistemi forestali, montani ed agricoli. Agli insetti autoctoni si è aggiunta, secondo numerose segnalazioni, la temibile zanzara tigre, proveniente dal Nord Africa. Ricordiamo, infine, i molluschi con alcune specie di lumache. Il nostro ambiente, come dimostrò anni fa una sperimentazione della Comunità Montana, è particolarmente adatto al loro allevamento (elicicoltura). disegno a sinistra

*

Le “faglie inverse” che collegano il mandamento di Baiano (*) con il Vesuvio. foto sotto La “fossa” di Mugnano del Cardinale: una depressione provocata dal crollo della volta di una grotta sotterranea, formatasi da una dolina. 1) fossa, 2) Gesù e Maria, 3) San Pietro a Cesarano, 4) Cimitero, 5) Autostrada A-16. La foto è stata scattata (col zoom) da 6000 metri di altitudine, nel 1997.

139

L’ambiente naturale


Dati idrologici

Benedetta Napolitano

Principali sorgenti ricadenti nell’ Alveo Avella

I dati provengono da uno studio dei Prof. Pietro e Fulvio Celico e del geologo Sabino Aquino. La Tabella è una rielaborazione dell’autrice.

1) Croce Puntone; 2) Ciesco Bianco; 3) Torretiello; 4) Toppola Grande; 5) Valle Fredda; 6) Acquaserta; 7) Ciesco Alto; 8) M. Spadafora; 9) Bosco di Arciano; 10) M. Campimma; 11) Montevergine.

L’ambiente naturale

140


L’Esagono

Popolazione di Avella e Baiano nell’anno 2000

Aspetti demografici

(E DATI STATISTICI)

Ave lla

M as chi

Fe mmine

Totale

re s ide nti al 1° ge nnaio 2000

3.555

3.170

7.265

nati vivi

55

39

94

de funti

27

27

54

s aldo naturale

28

12

40

is critti

69

76

145

cance llati

92

110

202

s aldo migratorio

-23

-34

-57

re s ide nti al 31-12-2000

3.560

3.688

7.248

famiglie anagrafiche

2.569

Fonte: ISTAT - La tabella è una realizzazione dell'autrice.

B aiano

M as chi

Fe mmine

Totale

re s ide nti al 1° ge nnaio 2000

2.360

2.399

4.759

nati vivi

22

26

48

de funti

17

22

39

s aldo naturale

5

4

9

is critti

73

60

133

cance llati

-2

2

0

s aldo migratorio

38

21

59

re s ide nti al 31-12-2000

2.363

2.405

4.768

famiglie anagrafiche

1.858

Fonte ISTAT - La tabella è una realizzazione dell'autrice. 141

Aspetti demografici


Popolazione di Mugnano e Quadrelle nell’anno 2000

Benedetta Napolitano

M ugnano

M as chi

Fe mmine

Totale

re s ide nti al 1° ge nnaio 2000

2.433

2.535

4.968

nati vivi

22

22

44

de funti

26

16

42

s aldo naturale

-4

6

2

is critti

99

83

182

cance llati

61

62

123

s aldo migratorio

38

21

59

re s ide nti al 31-12-2000

2.467

2.562

5.029

famiglie anagrafiche

1.727

Fonte: ISTAT - La tabella è una realizzazione dell'autrice.

Qua dre lle

M as chi

Fe mmine

Totale

re s ide nti al 1° ge nnaio 2000

753

767

1.520

nati vivi

13

11

24

de funti

5

6

11

s aldo naturale

8

5

13

is critti

35

39

74

cance llati

38

41

79

s aldo migratorio

-3

-2

-5

re s ide nti al 31-12-2000

758

770

1.528

famiglie anagrafiche

500

Fonte: ISTAT - La tabella è una realizzazione dell'autrice. Aspetti demografici

142


L’Esagono

Popolazione di Sirignano e Sperone nell’anno 2000

S irig na no

M as chi

Fe mmine

Totale

re s ide nti al 1° ge nnaio 2000

1.122

1.138

2.260

nati vivi

15

19

34

de funti

14

9

23

s aldo naturale

1

10

11

is critti

93

77

170

cance llati

35

34

69

s aldo migratorio

58

43

101

re s ide nti al 31-12-2000

1.181

1.191

2.372

famiglie anagrafiche

760

Fonte: ISTAT - la tabella è una realizzazione dell'autrice.

S pe ro ne

M as chi

Fe mmine

Totale

re s ide nti al 1° ge nnaio 2000

1.631

1.634

3.274

nati vivi

18

19

37

de funti

9

9

18

s aldo naturale

9

10

19

is critti

68

64

132

cance llati

61

51

112

s aldo migratorio

7

13

20

re s ide nti al 31-12-2000

1.647

1.666

3.313

famiglie anagrafiche

1.043

Fonte: ISTAT - la tabella è una realizzazione dell'autrice. 143

Aspetti demografici


residenti residenti totale femmine maschi residenti

e d ific i

industria

famiglie

abitazioni abitativi

altro uso

commercio

servizi

istituzioni

vani opifici

addetti

esercizi

addetti

attivitĂ

addetti

enti

addetti

Ave lla

3.872

3.790

7.662

2.599

1.679

161

2.579

9.261

36

186

99

176

132

277

27

878

Baiano

2.358

2.300

4.658

1.584

897

273

1.585

5.748

54

134

99

156

84

142

28

180

M ugnano

2.484

2.426

4.910

1.650

1.121

600

1.721

6.300

25

61

112

163

151

221

4

141

Quadre lle

793

781

1.574

522

342

92

522

1.774

15

42

14

17

28

37

4

147

Sirignano

1.173

1.193

2.366

740

400

57

738

2.868

8

12

19

25

19

21

6

73

Spe rone

1.616

1.569

3.185

1.029

520

55

1.020

3.492

21

195

72

105

53

88

8

33

F o n t e : U f f ic i c o mu n a li - L a t a b e lla è u n a r e a liz z a z io n e d e ll' a u t r ic e .

s e minativi

coltiv. le gnos e

orti familiari

prati pe rm.

pas coli

Comune Azie nde

ha

ha

Azie nde

ha

Azie nde

ha

Azie nde

4

1,19

4

3,35

-----

286 753,69

-----

-----

-----

-----

-----

M ugnano

164 13,53

368 269,81

-----

-----

-----

-----

Quadre lle

-----

-----

119

36,77

-----

-----

-----

Sirignano

35

2,19

263

115,9

2

0,1

Spe rone

------

------

142

188,9

-----

-----

Baiano

-----

ha

ha

10 58,89 905,04

bos chi Azie nde

ha

Arboric. da le gno

utilizzata

ha

ha

non

altra ha

41

1.147,8

5,64 210,36 28,42

----- 753,69

6

281,1

-----

1,7

-----

-----

----- 283,34

66

682,54

-----

0,52

3,48

-----

-----

-----

36,77

5

577,97

----

-----

-----

-----

-----

2

0,86

119,05

18

413,44

-----

15,34

0,3

-----

-----

-----

-----

188,9

8

43,3

-----

----- 11,19

144

Fonte: dott. Nicolangelo De Vita - Responsabile Centro di Sviluppo Agricolo di Baiano - La tabella è una realizzazione dell'autrice.

Benedetta Napolitano

731 830,91

Ave lla

12 10,70

Azie nde

SAU

Gli ultimi dati statistici disponibili

Aspetti demografici

dati al 21.10.2001


L’Esagono

Alcuni indicatori socio-economici

D is tribuzione de lla popolazione ce ns ita (1991) pe r titolo di s tudio Comune

Laureat i

D i pl omat i

Al fabet i zzat i

Li c. El emen. e Medi a Inf.

senza t i t ol o

Anal fabet i

Ave lla

150

824

3.739

1.256

506

Baiano

173

747

2.613

719

175

M ugnano

120

713

2.645

729

212

Quadre lle

28

169

790

218

43

Sirignano

29

244

839

280

78

Spe rone

52

381

1.521

408

127

Fonte: DATI ISTAT. La tabella è una realizzazione del'autrice.

(1991) Popolazione attiva e non attiva e tas s i di occupazione PO PO L A ZI O N E Comune Totale

Attiva (>14 anni)

N on attiva

TASSI D is occupaz.

Occupaz.

Attività

Ave lla

7.134

2.521

4.613

39,71

21,31

35,34

Baiano

4.811

1.799

3.012

37,41

23,40

37,39

M ugnano

4.823

1.957

2.866

35,46

26,19

40,58

Quadre lle

1.396

578

818

39,27

25,14

41,40

Sirignano

1.700

682

1.018

32,70

27,00

40,12

Spe rone

2.760

979

1.781

34,32

23,30

35,47

Fonte: DATI ISTAT. La tabella è una realizzazione del'autrice.

Fonte: ISTAT- La tabella è una realizzazione dell’autrice

145

Aspetti demografici


Benedetta Napolitano

Dati finanziari (1994) D e pos iti e d impie ghi bancari. (valori monetari espressi in milioni di lire e di euro)

Comune

s porte lli

de pos iti bancari pe r s porte llo

impie ghi bancari

bancari lire

e uro

lire

e uro

Ave lla

2

22.778

11,76

14.388

Baiano

1

29.577

15,28

9.751

7,43 5,04

M ugnano

3

22.782

11,77

31.770

16,41

Quadre lle

---

------

------

------

------

Sirignano

---

------

------

------

------

Spe rone

---

------

------

------

------

Fonte: ISTAT. La tabella è stata realizzata dall’autrice.

Fonte: DATI ISTAT. La tabella è una realizzazione del'autrice.

Fonte: ISTAT- La tabella sopra e il grafico sotto sono realizzazioni dell’autrice 40000

35000

30000

25000

20000

15000

10000

5000

0

Avella

Baiano

Mugnano

Quadrelle

Serie4

7318

7058

4544

1151

1927

Serie3

16053

12749

14038

3324

4978

Serie2

7160

4643

6605

1713

2044

Serie1

5650

4037

4180

1145

1277

Aspetti demografici

Sirignano

146


L’Esagono

Confronto tra varie serie di dati

Fonte: ISTAT- Le tabelle sono state realizzate dall’autrice

147

Aspetti demografici


Benedetta Napolitano

Confronto tra varie serie di dati

Fonte: ISTAT- Tabella e grafici sono realizzazioni dell’autrice ESTENSIONE TERRITORIALE IN ETTARI E IN PERCENTUALE DEI SEI COMUNI DELL’ESAGONO

353

625 Sirignano 9%

Sperone 5%

692 Quadrelle 10%

1.214

3.038 Avella 42%

Mugnano 17%

1.255

Baiano 17%

9000 8000

ANDAMENTO DEMOGRAFICO NEI SEI COMUNI dal 1898 al 2001

7000 6000 5000 4000 3000 2000 1000 0

A v e lla

B a ia n o

M ugnano

1898

3745

2646

3153

934

883

1980

6562

4988

4994

1046

1149

1991

7134

4811

4823

1396

1700

2000

6837

4767

4992

1530

2301

2001

7662

4658

4910

1574

2366

.

Aspetti demografici

Q u a d re lle

S irig n a n o

148


L’Esagono

Interpretazione dei dati relativi al comparto agricolo

(2001) Stima de ll'e s te ns ione (ha) de lle principali coltivazioni arbore e Comune Ave lla

Olivo

Albicocco

112

19

Cilie gio

Cas tagno Nocciòlo (da frutto)

10 ----------

750

Baiano

40 ----------

12

14

216

M ugnano

15 ----------

5

22

270

Quadre lle

48 ---------- ---------- ----------

25

Sirignano

35 ---------- ---------- ----------

42

Spe rone

4 ----------

3 ----------

170

Fonte: Ce.S.A. di Baiano - La tabella è una realizzazione dell'autrice. L’agricoltura nel territorio del Baianese (cfr. anche la seconda tabella a pag. 144). Secondo un’intervista rilasciataci dal dott. Nicolangelo De Vita, responsabile del Ce.S.A. di Baiano: «I dati dell’ultimo censimento dell’agricoltura (anno 2001), nei sei Comuni del Baianese, confermano il permanere del fenomeno della frammentazione e del basso livello della dimensione aziendale, che caratterizza fortemente –e negativamente- questa zona. Infatti, su 2.284 ettari di SAU (Superficie Agricola Utilizzata), svolgono la loro attività ben 2.142 aziende agricole, con una dimensione media aziendale di 1,07 ettari. Il 50% circa delle aziende ha una base fisica inferiore ad un ettaro, mentre solo il 25% è costituito da superficie sino a due ettari, speso con situazioni di spinta polverizzazione in più corpi. Prevale nettamente la conduzione diretta del coltivatore, con tendenza al part-time, mentre sono pressoché scomparse la mezzadria e la colonìa parziaria appoderata. L’ordinamento colturale prevalente è rappresentato dalla coltivazione del nocciolo. In totale, nel Baianese, sono investiti a noccioleti ben 1.473 ettari, che occupano circa il 64% della SAU complessiva. Segue la coltivazione dell’olivo con i suoi 254 ettari, quindi il castagno da frutto con 36 ettari, il ciliegio con 22 ettari e l’albicocco con 19 ettari.» Altre specie coltivate di una certa estensione, sono il noce, gli agrumi e le pomacee (meli e peri). Per una più agevole lettura dei dati si veda la tabella in alto, con l’avvertenza che i valori indicati sono valori derivati da stime, cioè ottenuti mettendo insieme le superfici di piccole estensioni (anche di poche piante). Per il castagno, infine, ci si riferisce ai soli castagneti da frutto, innestati su selvatico. Non sono considerati i castagneti cedui, usati normalmente per ricavarne legna da ardere e paletti. (Eventuali incongruenze riscontrate dipendono dalla diversa provenienza dei rilevamenti). 149

Aspetti demografici


Indagine sul campo: la situazione economica e sanitaria

Benedetta Napolitano

Considerazioni finali Chi ha conoscenze di biologia ha sentito sicuramente parlare di un famoso esperimento che ci consente di capire alcuni strani aspetti del comportamento umano. Se si mette una rana prima in un recipiente di acqua fresca e poi in uno di acqua caldissima, si osserva che la rana -con un balzo repentino- salta subito via. Ma se si riscalda il primo recipiente poco alla volta la rana non avverte il pericoloso innalzamento della temperatura e finisce per morire lessa. Metaforicamente, è quello che sta capitando nell’esagono dei sei comuni del comprensorio Avellano-Baianese. Una volta, vi erano delle fabbriche (Sud Forge, Vepi Sud), il Liceo Scientifico e il Poliambulatorio a Mugnano del Cardinale. Avevamo un ambiente a misura d’uomo, ora distrutto dalla cementificazione a dagli abusi edilizi. Le infrastrutture e la dotazione idrica non sono più in grado di servire l’accresciuta popolazione. Non ci sono serie occasioni di lavoro, a parte un incontrollato e ingiustificato proliferare di effimeri negozi. L’imperativo era quello di valorizzare le nostre risorse gastronomiche, ambientali, naturalistiche e archeologiche. Oggi esistono anche i mezzi per cimentarsi in questa impresa: il P.I.T. (Piano Integrato Territoriale), di cui Avella è comune capofila. Ma i politici hanno messo in evidenza un comportamento che in psicologia (o, meglio, in psichiatria) viene definito “dissonanza cognitiva”. Ovvero, pur capendo che una cosa è sbagliata si continua ugualmente a farla. Come si può incentivare, infatti, la produzione e la realizzazione di prodotti tipici, biologici, ogm free (nda. non geneticamente modificati) e macrobiotici se, a poca distanza dall’ipotetico campo coltivato è stata consentita l’installazione di un CDR potenzialmente pericoloso? Cosa si dovrebbe produre, pubblicizzare e commercializzare: la ricotta al profumo di discarica? La verdura ai metalli pesanti? Inoltre, pare ormai accertato che la nostra salute sia già abbastanza compromessa anche senza l’insediamendo del CDR. Dalle interviste e dalle ricerche effettuate nella fase preliminare alla stesura del presente libro, sono emersi -infatti- alcuni aspetti veramente inquietanti. Non disponendo di dati ufficiali, ai quali non è stato possibile accedere, verrà usato rigorosamente il condizionale. Sembra –comunque- che nel mandamento le neoplasie (tumori) abbiano un’incidenza molto superiore alla media nazionale. Inoltre, come precisano (in privato) alcuni medici interpellati su questa importante questione, potendo avere accesso ai dati non bisogna confondere la causa di morte indicata nel referto medico (che quasi sempre è un arresto cardio-respiratorio) con la patologia intermedia, vera causa di morte, che sempre più spesso è una patologia neoplasica. Qualcuno, sottovoce, suggerisce che la causa sia da ricercarsi nel presunto inquinamento prodotto dalle tipiche “fabbriche” locali. Altri, ritengono che essa vada ricercata nei pesticidi usati per decenni nella coltivazione del nocciòlo. Altri, ancora, puntano l’indice contro le “discariche abusive”: siti più o meno nascosti e più o meno noti (alcuni anche in terreni privati) dove sarebbero sotterrati rifiuti di ogni tipo (cfr pag. 19). Di certo un più accurato monitoraggio ambientale non potrebbe che portare dei vantaggi. Gli Enti locali dovrebbero occuparsi più seriamente di ambiente, sanità, lavoro e cultura. I cittadini tutti dovrebbero esortare gli amministratori locali intal senso. Altrimenti faremo tutti quanti la fine della rana. Considerazioni finali

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L’Esagono

L’Esagono visto dall’alto

Foto aerea di Mugnano, Quadrelle e parte di Sirignano

Bosco di Arciano e, in lontananza, i Monti di Lauro

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Appendice fotografica


L’Esagono visto dall’alto

Benedetta Napolitano

Monti di Avella, Vallone Serroncello, Sperone, Avella e Baiano

La Valle del Baianese o Conca Avellana

Appendice fotografica

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L’Esagono

L’arte e le tradizioni

A sinistra. Un quadro del Maestro mugnanese Michele Criscuoli (1881-1911) A destra. Il Maestro mugnanese Salvatore De Iudicibus, che mostra una sua opera. Gli artisti sono stati fatti conoscere al grande pubblico durante la manifestazione mugnanese “Arte sotto le Stelle”, grazie soprattutto all’impegno del prof. Stefano D’Apolito.

Il Maestro Saverio Mercogliano, di Sirignano (a sinistra) e il Mestro Fernando Masi, di Sperone (a destra) Filatura della lana col fuso

Famiglia contadina Baiano. Giugno 2002 - Vesuni in Festa: figuranti di antichi mestieri

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Appendice fotografica


Il “mandamento” Baianese o comprensorio Avellano-Baianese

Benedetta Napolitano

Piano Territoriale Comprensoriale Avellano-Baianese

1995. Da uno studio degli architetti Antonio Caruso e Domenico D’Avanzo Nonostante il suesposto “PTC Avellano-Baianese” sia probabilmente da rivedere, alla luce dei nuovi strumenti derivanti dalla recente legislazione sulle autonomie locali e dei vincoli insorti nel frattempo (Parco del Partenio, vincoli idrogeologici), esso testimonia che l’idea e la necessità di una più forte coesione tra i comuni dell’Esagono e di uno sviluppo sinergico e coordinato dei servizi, sono ormai argomenti che trovano concordi la maggior parte dei tecnici, dei cittadini e degli studiosi locali. Occorre che i politici ne prendano finalmente -e operativamente- atto. Baianese

Avellino

Appendice fotografica

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L’Esagono

155 A sinistra. Una delle tante sorgenti dei nostri monti. A destra. Campo di Summonte - San Giovanni.

Alcune bellezze nostrane

Appendice fotografica

Sopra. Foto Panoramica della Piazza Umberto I di Mugnano del Cardinale (14 luglio 2002).


Bibliografia (letture consigliate)

Benedetta Napolitano

BOCCIERO Orazio - VECCHIONE Antonio, “Il Maio di Baiano: la festa, la memoria, la gente...” CARAVITA Francesco, “Memorie di un uomo inutile”, Mondadori (1981). COLUCCI Galante, “I Mai del Baianese” (1998). COLUCCI Pasquale, “Un’oscura pagina del brigantaggio mugnanese” (2000) COLUCCI Pasquale, “I Mesi e la Zeza di Sirignano. Una tradizione carnevalesca da riscoprire e salvaguardare” (2000). COLUCCI Pasquale, “Il Feudo di Litto e Ponte Mignano fra XIII e XIV secolo” (1999). COLUCCI Pasquale, “Notizie sul “palazzo del principe” di Sirignano” (1999). Comunità Montana Vallo di Lauro e Baianese, “Piano di sviluppo socio-economico” (2001). CROCE Benedetto, “La Rivoluzione Napoletana del 1799” (1998). D’ANDREA Domenico, “Mugnano del Cardinale nella Repubblica Napoletana del 1799” (1999). D’ANNA Ignazio, “Avella illustrata - tomo primo e secondo” (1772). DE FALCO Enrico, “Baiano. Origine-Sviluppo e Vicende di un Casale di Avella” (1983) DE MATTEO G., “Brigantaggio e Risorgimento - legittimisti e briganti tra i Borbone e i Savoia” (Guida Editore-NA-2000). DE ROSA Pellegrino, “Caratteristiche reologiche del salame tipo Napoli ottenuto con l’impiego di tipi genetici suini autoctoni” (1999). DE ROSA Pellegrino, “Appunti sciolti: “Città del Baianese o Città di Avella?” (inedito). IAMALIO Antonio, “Atti della Società Storica del Sannio” (1925-1931). IAMALIO Antonio, “Su e giù per il Sannio Antico” (1911). MONTANILE Nicola, “Spaccato di Storia Avellana” (Vol. I,II e III). NAPOLITANO Benedetta - DE ROSA Pellegrino, “La Città del Baianese” (2000). NAPOLITANO Luigi, “Memorie archeologiche e storiche di Avella” (1922). PECORELLI ENZO, “Aforismi e racconti editi ed inediti” (1996). PICARIELLO Giovanni, “La valle munianense”, (A cura di) (1986). PICARIELLO Giovanni, “Mugnano del Cardinale nel tempo”, (1993). PICARIELLO Giovanni, “Appunti per un libro...”, (inediti). TERRITORIO-AMBIENTE (Avella), “Avella dalle origini al periodo romano”(1996).

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L’Esagono

Indice

PRESENTAZIONE

3

INTRODUZIONE

4

STORIA E DESTINO COMUNI

7

Paleolitico - Osci - Volsci - Sanniti - Etruschi - Hyria - Novla - Campania Felix Romani - Ville Prediali - Abella romana - Visigoti - Vandali - Turchi - Bizantini Bagliva - Via Regia delle Puglie - Cenobio di San Pietro a Cesarano - Editto di Saint-Cloud - Epidemie - Brigantaggio - Giacobini e Sanfedisti - Società segrete Il brigantaggio nel Bainese - Emigrazione - Nascita del “mandamento” Circumvesuviana - Fascismo - Gli sfollati - Seconda guerra mondiale - DopoguerraVoto alle donne - Primo sciopero del Baianese - I gruppi musicali - Le radio privateTele Baiano - I giornali locali - Il Baianese oggi - Città del Baianese - Provincia di Nola - CDR. AVELLA

21

Origine del nome - La citazione nell’Eneide - Gli insediamenti umani preistorici Il torrente Clanio - Gli antichi popoli - Abella romana - Il Cippus Abellanus L’anfiteatro romano - I mausolei - Il castello medioevale - Il cippo onorario L’acquedotto romano - Il santuario di Ercole - La pipa etrusca - Il vescovato di Avella - Il Papa di Avella - I beni architettonici - Il folklore (‘O laccio d’ammore - Il maio - Il fucarone - I battenti) - Scheda riassuntiva (dati essenziali) - Itinerari naturalistici (risorse ambientali). BAIANO

42

Origine del nome - Insediamenti preistorici - Invasioni barbariche - Bagliva - Epidemie - Suicidio delle suore - Affrancamento da Avella - Brigantaggio Circumvesuviana - ‘E Vesuni - Lastricatura del corso - Il miracolo del 1700 Le varie chiese -L’eremo di Gesù e Maria - Sant’Alfonso dei Liguori - Il folklore (Il maio - ‘E passiate a Montevergine - ‘E messe ‘e notte - Lo spartito di Oi Stefanì -Le carabine - ‘O fucarone - Battenti - Fontana Vecchia - Festa del vino carri - Scheda riassuntiva (dati essenziali) - Itinerari naturalistici (risorse ambientali). MUGNANO DEL CARDINALE Origine del nome - Il castello del Litto - La Villa Caesarana - Ponte Mianum Camillanum - Rione Archi - Pupianum - Il Procaccia - La sosta di San Gennaro 1799: scontro tra Giacobini e Sanfedisti - Il Santuario di Santa Filomena - Maria Cristina di Savoia - Papa Pio IX - Il post-terremoto - Il salame di Mugnano - Il folklore: (‘E vattient’ ‘e Santa Filumena - Il maio - ‘O fucarone - Gesù e Maria - Il presepe - Arte Sotto le Stelle - Il brigante Turri Turri - Scheda riassuntiva (dati essenziali) - Itinerari naturalistici (risorse ambientali).

157

60


QUADRELLE

Benedetta Napolitano 79

Le origini del nome - Le prime citazioni - Da grancia a Comune - Il Giardino Pagano - I primi “fuochisti” - I primi salumifici - Il folklore (Maio - Vient’ ‘e terra - ‘O fucarone - Cumanna patrò - Scheda riassuntiva (dati essenziali) - Itinerari naturalistici (risorse ambientali). SIRIGNANO

86

Le origini del nome - San Celiesto - I primi riferimenti storici - I Prìncipi di Sirignano - “Memorie di un uomo inutile” - I coreani - Il folklore (Natale Piccirillo - Il maio - ‘O fucarone - ‘A zeza - ‘E Misi - I battenti - Scheda riassuntiva (dati essenziali) - Itinerari naturalistici (risorse ambientali). SPERONE

96

Le origini del nome - Sperone: un quartiere di Avella - Le antiche popolazioni - Il distacco da Avella - Il museo della civiltà contadina - La Paradina - il PIP - Il folklore (L’opera di Sant’Elia - Il maio - I battenti) - Spassosi aneddoti - Scheda riassuntiva (dati essenziali) - Itinerari naturalistici (risorse ambientali). L’ULTIMO SECOLO

103

L’emigrazione - Il fondamentale ruolo della donna - La dote - Raccolta delle fascine e del fieno - La frequentazione della montagna - Un “contratto” di un corredo Bachi da seta - Arcolaio - ‘E buatte - Lavori di casa - Culata - Lavoro negli orti L’acconciapiatti - La vita di tutti i giorni - I modi di vestire - ‘A capera - ‘A vammana - La Pia Ricevitrice - Il corteggiamento - Le condizioni igieniche e i “rimedi miracolosi” - I cunti e l’occulto - ‘O munaciello GLI ANTICHI MESTIERI

122

Il carbonaio - La “carcara” - La neviera - Lo sportellaro - Il boscaiolo - ‘O ferraro - ‘O vuttaro - ‘O funaro I GIOCHI DI UNA VOLTA

131

Mazza e piùz - ‘O carruocciol’ - ‘O strummul’ - ‘O chirchio - ‘O sciscaro ‘E frecce - Le filastrocche per i bimbi e per i nonni. L’AMBIENTE NATURALE

134

Formazione della valle - Il torrente Clanio - Le sorgenti - Le formazioni carsiche - La flora - la fauna - i funghi - il clima ASPETTI DEMOGRAFICI (e statististici)

141

CONSIDERAZIONI FINALI APPENDICE FOTOGRAFICA BIBLIOGRAFIA

150 151 156

158


L’Esagono

Della stessa autrice «La Città del Baianese»

Una splendida idea-regalo Per chi studia Per chi è all’estero Per tenersi informati 352 Pagine 214 Foto B/N 85 Foto a colori Citato in decine di Tesi di Laurea, è disponibile presso le principali Biblioteche Il libro può essere acquistato presso i negozi del Gruppo De Rosa a Sirignano-AV «Questo libro, come una pietra miliare, segna il passaggio dal vecchio al nuovo. Lo consiglio a tutti: studenti, insegnanti e tecnici. Un testo di piacevole lettura e ricco di informazioni inedite». (Enzo Pecorelli. Giornalista) Mugnano. Settembre 2000. Presentazione del libro “La Città del Baianese”. Da sinistra: il dott. Pellegrino De Rosa; la giornalistapubblicista Benedetta Napolitano; il Sindaco di Mugnano, prof. Giovanni Colucci; lo storico locale e scrittore don Giovanni Picariello; il giornalista Enzo Pecorelli. Sirignano. Marzo 2002. Convegno sulle prospettive della Città del Baianese. Da sinistra: il Sindaco di Avella, dott. Salvatore Guerriero; il politico speronese dott. Franco Vittoria; il Presidente della Comunità Montana “Vallo di Lauro e Baianese”, prof. Salvatore Isola; il Sindaco di Sirignano, prof. Antonio Napolitano; i due autori, insieme al piccolo Antonio De Rosa. Numerose altre foto del Baianese saranno inserite in futuro sul Portale Internet http://www.tuttobaianese.it

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Benedetta Napolitano

Finito di stampare nel mese di settembre 2002

dalla litotipografia Artemis Casalnuovo - Napoli Tel. 0818426000

Web Video Engineering del dott. Pellegrino De Rosa

Via G. Fiordelisi, 38 - 83020 - Sirignano-AV

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