La metodica De Rosa

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A mio figlio Antonio

Siam polvere di Stelle Schiva il fango, resisti alla tormenta, loda l’Arte e il Creato e sorridi all’Amore Se cadi, rialzati da solo: raccatta i tuoi sogni e, a fronte alta, riprendi la via. Pria che ti sorprenda la sera. E, quando si appresta la notte, foriera dell’Alba radiosa, ti rallegri il Divino lignaggio: seppur sembriamo sol polvere, siam polvere di Stelle. (da “Appunti di Viaggio” - Pellegrino De Rosa)

Pensiero e Azione. (G. Mazzini)

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colophon isbn diritti riservati

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Pellegrino De Rosa

LA GESTIONE DELL’AMBIENTE E DEL TERRITORIO E LA “METODICA DE ROSA”

Geopedologia - Ecologia - Selvicoltura e Ingegneria Naturalistica (Aspetti tecnico-scientifici e applicazioni pratiche)

EDIZIONI SIMPLE

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Palificata arborata “DE ROSA”

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Indice

Prefazione Introduzione

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1 1. 1 1. 2 1. 3 1. 4 1. 5 1. 6

Descrizione dell’area di riferimento Orogenesi e aspetti geopedologici Aspetti idrografici Aspetti idrologici Fenomeni carsici Aspetti naturalistici (habitat, flora, funghi, fauna) Aspetti climatici

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2 2. 1 2. 2 2. 3 2. 4

La conservazione del bosco e del suolo Le funzioni ecologiche ed economiche del bosco Aspetti agronomici e pedologici Effetti stabilizzanti degli apparati radicali delle piante Richiami sull’instabilità delle coltri piroclastiche

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Ingegneria naturalistica e “Metodica De Rosa”

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Lo studio integrato del territorio

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Esempio di valutazione di impatto ambientale

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Bibliografia

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Prefazione La gestione del territorio è un argomento talmente complesso da non poter essere certamente esaurito nelle poche pagine della presente pubblicazione o in quelle di altre singole trattazioni, seppur più corpose. E ciò perché gli aspetti da tenere in considerazione spaziano da quelli tecnicoambientali (di per sé già piuttosto complessi), a quelli di natura socioeconomica, a quelli connessi al becero opportunismo politico che, talora, vanifica quanto accuratamente pianificato dai tecnici del settore. Tuttavia, la presente pubblicazione ha il pregio di portare alcuni fattivi contributi tecnico-scientifici e alcuni personali punti di vista derivanti sia dalla specifica e approfondita formazione dell’autore sia dalla sua esperienza “sul campo”, entrambe di tutto rispetto. Egli, infatti, è in possesso della laurea magistrale in Scienze e Tecnologie Agrarie, dell’abilitazione all’esercizio della professione di Dottore Agronomo e Forestale senior, di alcuni ulteriori corsi di approfondimento in Scienze Forestali e Ambientali e di un Master in Gestione e Difesa del Territorio (geopedologia, geotecnica, cartografia GIS, ecologia) - titoli conseguiti tutti presso la prestigiosa Facoltà universitaria di Portici, facente capo alla Federico-II di Napoli. Ha poi svolto importanti lavori in ambito ambientale, collaborando sia con la Facoltà di Veterinaria di Napoli sia con il Dipartimento di Ingegneria Agraria e Agronomia del Territorio della Federico-II sia con il Dipartimento di Arboricoltura, Botanica e Patologia Vegetale di Portici (Na). Ha, inoltre, partecipato alla progettazione preliminare di estesi interventi per conto della Comunità Montana Vallo di Lauro e Baianese, riguardanti la prevenzione del rischio frane. Ha fatto parte, ancora, del tavolo di concertazione della Provincia di Avellino per i P.I.R. (Programmi Integrati Rurali) e ha partecipato a uno studio sulla fauna venatoria, per l’A.T.C. (Associazione Territoriale Caccia), di Avellino. Tra l’altro è stato anche Amministratore e Direttore Tecnico di un cooperativa per la gestione e manutenzione del verde. Infine, i suoi studi, le sue osservazioni e le sue ricerche lo hanno portato a proporre una innovativa tecnica di Ingegneria Naturalistica, denominata “Metodica De Rosa”, da utilizzarsi nei suoli vulcanici, e a pubblicare i volumi: “L’assestamento forestale e l’ingeneria naturalistica nei suoli con coperture piroclastiche”; “La via dei mestieri”, per la Comunità Montana Vallo di Lauro e Baianese, e - per la Regione Campania 7


“Le erbe alimurgiche del Baianese e del Lauretano”. Consapevole del fatto che, affinché un territorio possa essere tenuto in buone condizioni, c’è bisogno della presenza continua dell’uomo, e che questa è possibile solo se la popolazione può ricavare un reddito soddisfacente dalla sua attività sul territorio, ha condotto alcuni studi sperimentali sulle razze suine locali (oggetto della sua tesi di laurea sui salumi di Mugnano del Cardinale, frutto di una ricerca da lui svolta presso il Dipartimento di Scienze Zootecniche e Ispezione degli Alimenti di Portici) e sulle possibili applicazioni del selviturismo (argomento questo “trasferito” agli operatori locali, attraverso alcune lezioni da lui tenute per conto dello Stapa-Cepica di Avellino). La passione scientifica ed ecologica dell’autore è, altresì, evidente sia nella sua attività giornalistica (è giornalista-pubblicista) e divulgativa (ha tenuto lezioni, come esperto esterno, sia a Master universitari su tematiche geopedologiche e ambientali sia in numerosi progetti PON nelle scuole medie superiori statali) sia in quella letteraria (ha pubblicato il romanzo techno-thriller “Metamorfer - La gemma di Darwin”, acquistabile anche on-line pesso i più importanti bookstore -ibs.it, bol.it - in cui, tra l’altro, partendo dall’osservazione degli insetti mimetici, espone una sua originale interpretazione delle “forze” induttrici dell’evoluzione delle specie viventi) e arriva a suggerire una teoria evoluzionistica (il plasticismo) che avrebbe in sé gli elementi per superare l’annoso dualismo tra evoluzionismo su base darwiniana e creazionismo. A testimonianza della validità e della benemerenza delle sue molteplici attività, l’autore è stato insignito, di recente, dell’alta onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana. Per quanto fin qui esposto, sono convinto che questo testo potrà essere utile sia agli studenti degli Istituti Tecnici e Professionali (presso i quali l’autore insegna da circa un lustro), sia a tutti gli operatori del settore, sia - semplicemente - a chi voglia avere un’idea più precisa delle complesse problematiche connesse con la tutela del territorio. (Enzo Pecorelli - Giornalista)

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Introduzione La presente pubblicazione ha lo scopo di fornire agli studiosi di problematiche ambientali una ulteriore occasione di riflessione su alcuni particolari aspetti della gestione delle risorse naturali di un territorio. In particolare, con essa si vuole suggerire alcuni metodi utili alla conservazione della “risorsa suolo”. E ciò con particolare riferimento ai suoli piroclastici (cioè, quei suoli formatisi per azione dei fattori della pedogenesi sulla matrice litoide di origine vulcanica) e ai suoli forestali. Si indicherà, anche attraverso il filmato allegato al presente volume, un possibile modo di studiare il territorio - preliminarmente alla progettazione dell’intervento - utilizzando i software di cartografia tematica e di simulazione (ad. es. Arcview e le sue estensioni) e si suggerirà l’adozione delle tecniche di ingegneria naturalistica e di riforestazione più idonee ai suoli piroclastici. Quando necessario saranno effettuati alcuni richiami teorici e si farà riferimento a un territorio reale (l’area del Baianese) e a studi e progettazioni realmente eseguiti dall’autore. Verranno descritte le caratteristiche geopedologiche, climatiche e naturalistiche del territorio di riferimento, ed evidenziate alcune caratteristiche geomeccaniche e agronomiche dei suoli piroclastici, che influenzeranno la scelta del tipo di intervento più adatto. Saranno posti in evidenza alcuni aspetti dell’interazione (biologica, ma anche meccanica) tra le radici delle piante ed il terreno e verrà indicato di quali fattori ambientali ed edafici tener conto - quando si voglia intervenire su un territorio con tecniche di mitigazione “verdi” - e di come distribuire i lavori nel corso delle stagioni per non interferire con i cicli naturali di vegetazione e fauna. Infine, verrà presentata una innovativa tecnica di ingegneria naturalistica e fornito un esempio di Valutazione di Impatto Ambientale. Per il momento, si vuole solo sottolineare che, quando si debba intervenire in un ambiente naturale, sarebbe preferibile che a coordinare gli interventi sia un esperto di quel settore, un “ruralista” (un dottore agronomo e forestale), così come in ambiente antropizzato si ricorre a un “urbanista” (ingegnere o architetto). Inoltre, è ormai evidente che, in entrambi gli ambiti, è ormai necessario un approccio multidisciplinare in cui professionisti di diversa formazione possano interagire produttivamente tra di loro. Ciò, per la verità, non sempre avviene e - addirittura - manca ancora un linguaggio comune. 9


Un semplice esempio può forse chiarire meglio il concetto: prendiamo il caso della definizione di “degradato” o “alterato” riferita al suolo, e di come essa - all’interno di una relazione tecnica - possa assume un significato diverso a seconda della formazione professionale di chi scrive. Un geologo definirà, presumibilmente, il suolo come uno “strato di alterazione” (sottintendendo, della roccia madre) mentre un agronomo - al contrario - considererà “alterato” (o “degradato”) un suolo sul quale l’azione erosiva abbia asportato lo strato di terreno fertile lasciando esposta la roccia nuda (quella, cioè, che per il geologo non è degradata!). Ad alcuni urbanisti, d’altro canto, potrà capitare di usare il termine “degradato” per indicare, grossolanamente, un terreno di periferia invaso dalle erbacce, e proporlo per un suo “recupero” urbanistico, destinandolo come suolo edificatorio, ignorando - come capita nell’hinterland napoletano - che quel particolare tipo di andosuolo (il più fertile del pianeta) ha impiegato circa 13.000 anni per formarsi e in condizioni (presenza di foreste e di praterie) non facilmente riproducibili! Un altro esempio potrebbe essere quello della definizione stessa di suolo. Esso, di volta in volta e in relazione ai diversi punti di vista, potrà essere definito “materiale incoerente”, “sistema poroso trifasico”, “substrato per la vegetazione“, e così via. Ma nessuna di queste definizioni, da sola, è esaustiva: il suolo non è semplicisticamente l’una o l’altra cosa, ma racchiude in sé tutti gli aspetti innanzi ricordati. Inoltre, dovrebbe sempre essere tenuto presente che si tratta di una risorsa limitata e rinnovabile solo con estrema lentezza; pertanto, il pianificatore dovrebbe fare il possibile per salvaguardarla.

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1) Croce puntone; 2) Ciesco Bianco; 3) Torretiello; 4) Toppola grande; 5) Valle Fredda; 6) Acquaserta; 7) Ciesco Alto; 8) M. Spadanfora; 9) Bosco di Arciano; 10) M. Campimma; 11) Montevergine.


1. Descrizione dell’area di riferimento 1.1. Orogenesi e aspetti geopedologici La valle del Baianese si apre a ventaglio, in direzione del golfo di Napoli, tra due dorsali, o catene montuose, carbonatiche, disposte secondo il tipico andamento appenninico (NordOvest-SudEst). Quella dei Monti di Lauro (1.104 metri slm) a Sud e quella dei monti di Avella a Nord. La cima più alta dei Monti Avella (1.598 m) si trova in vicinanza di Ciesco Bianco (1.589 m) e sopravanza di oltre 100 metri la non lontana Montevergine (1.493 m) o Monte Partenio. Le “pieghe” che hanno dato origine ai rilievi sono del tipo monoclinale. Questi rilievi si ribassano a gradinata verso la fossa tettonica della piana Campana (Graben). Le fratture e le faglie che interessano i nostri rilievi sono generalmente raggruppate in due sistemi: il primo con andamento appenninico, parallelo ai rilievi (di forma allungata) e alle valli ed il secondo pressoché perpendicolare al precedente. I rilievi sono costituiti prevalentemente da rocce calcaree (CaCO3), dolomitiche [CaMg(CaCO3)2] e aragonitiche (MgCO3), formatesi nell’era Mesozoica o Secondaria (compresa all’incirca tra 225 e 65 milioni di anni fa). Presumibilmente, nel secondo (Giurassico) e nel terzo periodo (Cretacico) di tale era geologica: all’epoca dei dinosauri, tanto per intenderci. Quando cominciarono a diffondersi le angiosperme (piante con fiori), affiancandosi alle conifere o gimnosperme (piante con seme nudo) e alle felci (piante vascolari). Incluse in alcune fessurazioni del calcare troviamo il Flysch terziario (costituito da materiali terrigeni come marne, argille e arenarie), che funge, idrologicamente, da tampone e consente al calcare di trattenere come in un immenso serbatoio le acque sotterranee. Esistono zone - come quella della “panoramica” di Avella, quella del Colle del Seminario (al confine tra Avella, Roccarainola e Tufino), quella di Ponte di ferro, a Sirignano - in cui è possibile trovare fossili di paleorganismi Rudiste (molluschi fossili) inglobate in una roccia calcarea rinvenuta a Sirignano (Av)

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marini come molluschi, gasteropodi, lamellibranchi e coralli. Essi testimoniano che centinaia di milioni di anni fa “le porche”(i monti) di Avella si trovavano sotto il livello del mare e andavano a costituire il fondale marino. Lo strato mesozoico, di cui fanno parte anche questi depositi, raggiunge


presumibilmente lo spessore di circa 4.500 metri, ma esso non è interamente visibile a causa delle notevoli complicazioni tettoniche intervenute successivamente. In realtà non si ha la totale certezza di cosa vi sia più sotto e quanto sia spessa, sotto i nostri piedi, la crosta terrestre. In linea generale gran parte degli studiosi concorda che essa possa raggiungere anche i 60 Km sotto i continenti e che misuri solo pochi chilometri sotto il fondo degli oceani. Vale, comunque, il concetto generale che la crosta terrestre con le sue catene montuose “galleggia” su di uno strato fluido-plastico, a “maggiore densità” (principio dell’isostasia, cfr. figura a fondo pagina). Il sistema è in equilibrio quando gran parte della massa è immersa nel fluido. Qualcosa di simile accade per gli iceberg, i giganteschi blocchi di ghiaccio che si staccano dalla calotta polare nella stagione più calda e la cui parte emergente è circa un settimo della massa totale. Quindi, sotto una catena montuosa (antiradice), normalmente c’è una radice grande alcune volte la parte emersa. Questa regola generale presenta, peraltro, numerose eccezioni, in quanto occorre tener presenti anche i movimenti delle zolle ed altri complessi meccanismi tettonici. Sulle sommità dei rilievi spesso la roccia è affiorante ma altrove è ricoperta da materiale piroclastico “da caduta” (ceneri, pomici e lapilli) proveniente, in gran parte, dall’attività eruttiva del complesso Monte Somma-Vesuvio e, più limitatamente, dall’attività dei Campi Flegrei e di altri siti attualmente sepolti nella piana Campana. Come verrà detto più estesamente in seguito, proprio la presenza di queste stratificazioni piroclastiche, unitamente alla presenza di argille plio-pleistoceniche particolarmente instabili, costituirebbe la causa principale dei movimenti franosi che hanno funestato Sarno e Quindici (1998) e Cervinara (1999), e che hanno interessato anche i Monti di Avella, per fortuna senza vittime. I versanti particolarmente a rischio risultano essere quelli compresi tra una pendenza di 35° e 50°. L’acqua piovana infiltrandosi attraverso lo strato poroso piroclastico del suolo, spesso messo a nudo da disboscamenti e da incendi che a volte interessano anche la stessa coltre erbosa, raggiunge il bedrock calcareo (ovvero la roccia viva) e vi forma un vero e proprio piccolo fiume di acqua che solleva il terreno e lo fa slittare fino a valle.

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A quote più basse, si possono riscontrare paleosuoli e sedimenti alluvionali mentre, in superficie, c’è l’attuale suolo agrario o montano. Nell’era Mesozoica dovevano emergere, presumibilmente, solo le cime dei rilievi mentre l’attuale pianura doveva essere completamente sommersa dal mare. Solo nell’era Neozoica o Quaternaria e, più precisamente, nel periodo detto Pleistocene (o Diluvium) superiore (150.000 – 10.000 a.C.) il “golfo”, che arrivava fino a questa valle, comincerà a colmarsi, sia per azione erosiva e conseguente accumulo di detriti, sia per gli apporti piroclastici dovuti alle attività effusive ed eruttive dei vari apparati vulcanici. Questo periodo geologico fu caratterizzato da ben quattro glaciazioni. Nel corso dell’ultima di queste (Wurm: da 70.000 a 10.000 anni fa) il mare si abbassò di oltre 100 metri, rispetto al livello attuale, e l’isola di Capri si congiunse alla terraferma. Il primitivo Homo sapiens del Paleolitico, quindi, se avesse voluto, avrebbe potuto raggiungere Capri a piedi. Per avere un’idea di quanto il vulcanesimo abbia influito sulla formazione del nostro territorio si consideri che solamente Capri, tra tutte le isole e gli isolotti del golfo, è di natura non vulcanica ma calcarea (come i nostri rilievi) e per questo viene anche chiamata isola bianca. Nel bel mezzo del Wurm, circa 33.000 anni fa, vi fu una terrificante eruzione di tipo ignimbritico, che modificò radicalmente il territorio della depressione Campana e depositò uno spessore enorme di “Tufo Grigio Campano”. Grandi fessure, attualmente sepolte nell’area Nord di Napoli, emisero dense e ciclopiche nuvole eruttive ad altissima temperatura che giunsero fino ai nostri monti e secondo alcuni studiosi (ma qui i pareri sono discordi), risalendo i valichi, arrivarono fino al cuore dell’Irpinia, dove esistono imponenti depositi di tufo. Lo strato che ne derivò in alcune zone superò i 30 metri (come nelle cave di tufo di Casamarciano) mentre raggiunse solo alcune decine di centimetri alle pendici Ovest delle nostre dorsali montuose. Questa eruzione fu talmente devastante da risultare sicuramente una delle più violente di tutto il bacino del mediterraneo. E’ provato che le ceneri di questo evento giunsero fino all’isola di Cipro, infatti depositi di materiale vulcanico riferibili a tale impressionante eruzione sono stati riportati alla luce da recenti saggi (carotaggi) colà effettuati. Successivamente, l’erosione e l’accumulo di detriti alluvionali contribuirono a conferire alla vallata la conformazione attuale. Altri e impressionanti fenomeni vulcanici interessarono, nelle epoche successive, l’area baianese, questa volta, prevalentemente ad opera del complesso vulcanico Monte Somma-Vesuvio. I numerosi eventi eruttivi hanno portato ad accumuli di materiale vulcanico che in alcuni siti supera i 15 metri di spessore e che, quasi ovunque, interessa l’intero strato del terreno coltivato. 15


Rappresentazione di alcune isopache, indicanti le aree di caduta e lo spessore, del materiale piroclastico sparso da alcuni eventi eruttivi del complesso Monte Somma-Vesuvio.

Profilo pedologico tipico dell’area baianese 1) Suolo attuale 2) Strato di pomici (eruzione di Pollena) 472 d.C. 3) Paleosuolo di Pollena (con suoli di aratura sepolti) 4) Prodotti piroclastici “da caduta” (ceneri, lapilli e pomici) relativi ad eventi eruttivi databili tra l’evento di Avellino e quello di Pollena 5) Paleosuolo 6) Pomici relativi all’evento di Avellino (3.500 BP)9 7) Paleosuolo eneolitico-bronzo antico 8) Fall di pomici dell’eruzione di Mercato (8.000 BP) 9) Paleosuolo 10) Strato di Tufo grigio campano (33.000 BP) 11) Limo ed argille (forse di un laghetto paleolitico montano?) 12) Strato di prodotti piroclastici da caduta relativo ad un evento sconosciuto 13) Paleosuolo 14) Bedrock calcareo (cretacico superiore) 3500 BP= Before present = 3500 anni fa

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1.2. Aspetti idrografici

La valle del Baianese (denominata pure Conca Avellana) non presenta corsi d’acqua perenni. Essa è chiusa a Nord dal bacino del Clanio e a Sud dai torrenti Acqualonga e Gaudo-Sciminaro. Il Clanio (Clanis) sorge col nome di Fiume di Avella da una serie di sorgenti, la maggiore delle quali si chiama Bocca dell’acqua, nel territorio di Sirignano. Tra le minori ricordiamo: Fontana di Sambuco, del Monaco, di Pianura, delle Fontanelle (poco sopra l’ultimo dei vecchi quattro mulini funzionanti un tempo) e della Peschiera. L’acqua veniva usata, oltre che per i mulini, per innaffiare gli orti e per far macerare la canapa nelle Fusare che un tempo si trovavano, in Avella, nei pressi del quartiere San Pietro e della Piazza. Si tratta, in realtà, di un corso d’acqua a regime torrentizio. Asciutto per gran parte dell’anno. In passato, con ogni probabilità, esso doveva avere un flusso più continuo e più consistente, in quanto l’acqua delle sorgenti non gli era stata ancora sottratta per essere adoperata per fini idropotabili e, verosimilmente, il clima doveva essere più piovoso. Andando ancora indietro nel tempo, non è escluso che il “fiume” Clanio potesse essere addirittura navigabile (beninteso solo in alcuni tratti e solo tramite piroghe, canoe o rudimentali zattere). Infatti le incisioni e i detriti che esso ha lasciato lungo il Vallone Serroncello (Avella), farebbero pensare ad una portata d’acqua ben più importante dell’attuale, misero, rivolo d’acqua. Probabilmente, inoltre, le sue acque venivano utilizzate, oltre che per gli usi prima menzionati, anche per allagare l’anfiteatro romano di Avella e potervi rappresentare spettacoli di battaglie navali. Accresciuto dalle acque che scendono dai monti circostanti, e attraversata Avella, il fiume continua il suo percorso scorrendo fra Risigliano e Tufino e fra Cutignano e Camposano, continuando col nome di Canale di Bosco Fangone e, dal Ponte dei Fusari, assumendo più propriamente il nome di Regi Lagni. 17


Dopo aver ricevuto numerosi altri corsi d’acqua il Clanio1 (o Regi Lagni) raggiunge la pineta di Castelvolturno dove si divide in duplice corso, andando a sfociare l’uno nel Tirreno e l’altro nel Lago di Patria. In definitiva il corso del Clanio si può dividere in tre sezioni: alto, medio e basso. L’alto Clanio, dalla sorgente a Marigliano (zona di confluenza delle acque provenienti dal Vallo di Lauro e dalle colline nolane con quelle della Mefite e del Monte Somma). Il medio, da Marigliano a Ponte Rotto (punto di confluenza delle acque delle Valli Caudine e di Maddaloni e dei Monti Tifatini). Il basso, da Ponte Rotto alla foce. L’asta principale dei Regi Lagni inizia in agro di Marigliano e procede per altri 46,300 Km fino al mar Tirreno. Il bacino idrografico dei Regi Lagni è uno dei più importanti della Campania, con i suoi 110.000 ettari di territorio. Comprende una vasta rete di canali artificiali, creata nei secoli scorsi per bonificare quella parte della fascia pianeggiante che dal Lago di Patria si addentra verso est per circa 60 Km, sino alle pendici dei Monti di Avella. Criterio fondamentale di tale bonifica fu quello di separare le acque di pioggia provenienti dalla zona montana (acque alte), da quelle che cadono e ristagnano nella piana (acque basse). Nella rete di canali esistenti si distinguono, quindi, canali di acque alte che immettono direttamente nel lagno centrale e canali di acque basse che trovano recapito in lunghi controfossi affiancati a destra e a sinistra del lagno centrale, da cui sono separati tramite argini in terra. Più a monte sono presenti alcune “vasche di compensazione”, come la vasca, detta di Sperone (che in realtà si trova nel territorio di Avella), che in origine aveva la funzione di contenere i flussi di piena e di far rallentare le acque in maniera che vi si depositassero terriccio e particelle sospese. Successivamente tali siti, com’è ampiamente noto, sono serviti da discariche abusive di materiale da risulta e, si mormora, anche di sostanze tossiche. Inoltre, i corsi dei lagni hanno subìto un grave degrado. In alcuni casi sono intasati da frane, in altri casi vengono coltivati o, addirittura, vengono cementificati o trasformati in strade. Il Clanis ha rappresentato, fin dalla preistoria, la vita e la morte per le vecchie popolazioni indigene. E’ accertato, infatti, che alcune tribù preistoriche si siano stanziate lungo il Vallone Serroncello (nel territorio di Avella), dove trovarono acqua e selvaggina abbondanti e anfratti naturali in cui proteggersi dalle fiere e dalle intemperie. Quando, però, il violento torrente straripava, provocava inondazioni, morte e allagamenti. Nella pianura nolana l’acqua ristagnava in una vera e propria palude, maleodorante e malsana. Epidemie di varia origine e malaria mietevano intere popolazioni. Sicuramente, le popolazioni locali si adoperarono per regimentare il flusso dei vari torrenti e “lagni” (dal greco “làginos”, vaso, ricettacolo di acque) ma la situazione subì un netto peggioramento agli inizi dell’anno mille. In quell’epoca , com’è noto, le popolazioni depresse e impaurite dalla fine millennio, si ritirarono sui monti ad aspettare la fine del mondo. Abbandonarono, perciò, le normali attività compreso la cura degli argini e la sistemazione dei terreni. 1

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1.3. Aspetti idrologici

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Nella tabella riportata nella pagina precedente sono indicati i principali recapiti sorgivi dell’area baianese. I suoli sono caratterizzati, nel complesso, da una buona permeabilità primaria e secondaria (per carsismo e fratturazione) che gli consentono l’infiltrazione di gran parte dell’acqua di precipitazione. L’acquifero (il “sebatoio d’acqua” sotterraneo) che riveste maggiore importanza strategica è quello, carbonatico, detto “idrostruttura dei Monti di Avella-Montevergine-Pizzo d’Alvano”, alle cui propaggini meridionali ed occidentali si individuano le principali scaturigini. All’interno di questa idrostruttura si individuano due faglie inverse che generano una sorta di alto idrico all’interno della struttura dei Monti AvellaMontevergine, con deflussi orientati, in parte, verso le sorgenti Mofito (o Mefite) e Calabricito (portata media annua pari a circa 1,3 m3/s) e, in parte, verso il gruppo sorgivo di Sarno (portata media annua pari a circa 9,0 m3/s). Nel territorio dei paesi del baianese non esistono significativi recapiti sorgivi dell’idrostruttura carbonatica (profonda) descritta, ma solo recapiti di falda sospesa (più superficiale). Esse hanno portate modeste e, spesso, a carattere temporaneo o stagionale. Alcune di esse alimentano reti acquedottistiche locali di importanza secondaria (come ad esempio, quella dell’acqua vecchia, a Mugnano del Cardinale). Avella, Baiano e Sperone, riuniti in consorzio, riescono ad essere quasi autosufficienti per l’approvvigionamento idrico, grazie all’acqua proveniente da alcune di queste sorgenti e a quella da essi captata dai pozzi artesiani appositamente scavati.

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1.4. Fenomeni carsici

“La Fossa” di Mugnano del Cardinale. Ortofoto scattata da 6000 metri, nel 1997. (1)Fossa, (2) Gesù e Maria, (3) San Pietro a Cesarano, (4) Cimitero, (5) autostrada A-16.

“La Bocca del vento” di Avella (sulla strada Panoramica, nei pressi di Piano delle mandrie). A destra si possono osservare i depositi di calcite, di forma ondulata, prodotti dalla condensazione del vapore saturo di carbonato di calcio. Dalla fessura al centro della foto esce, quasi sempre, un flusso d’aria. Per cui, lanciando delle foglie verso di essa queste vengono respinte all’indietro. Probabilmente la “Bocca del Vento” è un’apertura di un esteso sistema di grotte carsiche non ancora esplorato.

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La “fossa” di Mugnano del Cardinale in una elaborazione tecnica dell’autore.

Per fenomeni carsici si intendono l’insieme di processi di corrosione chimica provocati dalle acque su rocce solubili (calcari e dolomie, nel nostro caso, e, altrove, gessi e depositi salini). Avviene che l’anidride carbonica contenuta nell’acqua trasforma il carbonato di calcio delle rocce, insolubile, in bicarbonato di calcio, solubile, che viene disciolto e asportato. Questa asportazione, nel corso dei secoli, dei millenni e delle ere geologiche, provoca la formazione di campi solcati, lapies, doline, cavità, inghiottitoi, caverne e grotte in cui sono frequenti stalattiti (che pendono dalla volta), stalagmiti (che vanno dal basso verso l’alto) e colonne (dalla fusione di stalattiti e stalagmiti) che a volte vanno a costituire complessi di grande interesse speleologico e turistico. Questi fenomeni vengono detti “carsici” perché sono più evidenti e sono stati maggiormente studiati nella regione del Carso (zona alpina orientale, comprendente le Alpi istriane, triestine e dell’ex Jugoslavia), ma sono diffusi nel Massiccio del Gran Sasso, nel Gargano, nelle Murge, nelle Madonie. Il termine “carso” è serbo-croato e significa “roccia”. Il carsismo superficiale è ben rappresentato nella zona oggetto di studio e la formazione più spettacolare è, sicuramente, la cosiddetta Fossa di Mugnano del Cardinale. Questa caratteristica depressione, estesa circa un ettaro, è una “dolina” formatasi da una originaria piccola depressione in cui avrebbe continuato ad infiltrarsi l’acqua che, sciogliendo la roccia calcarea ha prodotto prima una cavità e, poi, il crollo della volta e la conseguente formazione del caratteristico affossamento del terreno. 22


Tra le maggiori formazioni carsiche della zona vanno senz’altro annoverate le tre grotte di Avella: la grotta di San Michele, la grotta delle Camerelle di Pianura e la grotta degli Sportiglioni. La grotta di San Michele è situata nella parte mediana del Vallone Serroncello-Fontanelle. E’ costituita da tre cavità o ambienti separati. Non è molto importante sotto l’aspetto scientifico ma riveste notevole importanza dai punti di vista artistico e religioso. La grotta di Camerelle di Pianura è la più importante dal punto di vista speleologico. Si apre alla quota di 900 metri sul fianco orientale del Vallone S. Egidio, in prossimità della Fontana di Pianura, sviluppandosi per quasi 150 metri nelle direzioni S-N e W-E. Vi si accede tramite una “buca” nel terreno. Superato il salto iniziale di quasi 5 metri, ci si inoltra in una serie di grossi ambienti, in cui, fin dall’inizio, sono ben visibili pittoresche formazioni colonnari, più imponenti nella seconda sala. Dalla parete meridionale del tratto W-E, si accede a un ramo inferiore piuttosto ampio. La morfologia della grotta depone a favore di un’origine dovuta a una serie di crolli in cavità già allargate dall’azione chimica delle acque. La Grotta degli Sportiglioni, riveste una particolare importanza dal punto di vista biologico. In essa, infatti, sono state riscontrate ben quattro specie endemiche: l’acaro Rhizoalyphus sportilionensis, l’isopodo Haplophthalmus mengei legrecai, il collembolo disparrhopalites patrizi e il coleottero Bathisciola partenii, tutti a regime alimentare saprofago (si nutrono di materiale vegetale o animale in decomposizione). La grotta si estende per circa 120 metri. Si trova nel vallone Serroncello a poche centinaia di metri, salendo, dopo la grotta di San Michele e sullo stesso lato di questa, nascosta dalla vegetazione.

Grotte di San Michele

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Grotta delle Camerelle

sezione

pianta

sezione

Grotta degli Sportiglioni

pianta

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1.5. Aspetti naturalistici

1.5.1. La flora La coltura che predomina alle quote più basse è il nocciòlo (Corylus avellana) cui, salendo di quota, subentrano, nell’ordine, l’olivo (Olea europaea), il castagno (Castanea Sativa) e, oltre i 1000 metri, il faggio (Fagus Silvatica). Più sopra ancora si trovano alcune specie di pino, tra cui ricordiamo il Pinus Laricio . In passato, soprattutto in pianura ma anche in collina, si trovavano estesi vigneti, ciliegi, pomacee (meli e peri), e piante di gelso (le ceuze, in dialetto) le cui foglie costituivano il “foraggio” dei bachi da seta (Bombyx mori), un tempo allevati nei nostri paesini da quasi tutte le famiglie. Fra i 900 e i 1.500 metri, si trovano, fra i boschi di faggio, alcuni alberi di tasso (Taxus baccata). Si tratta di una pianta velenosa in tutte le sue parti per la presenza di un alcaloide chiamato “tassina”. Tra le altre specie diffuse sul territorio, sono presenti noci (Juglans regia), òntani napoletani (Alnus cordata), olmi (Ulmus glabra, Ulmus minor), il kaki (Diospyros Kaki), il sorbo (Sorbus aucuparia, Sorbus aria), le varie specie di acero (Acer lobelii, Acer platanoides, Acer pseudoplatanus, A. negundo, A. campestre, A. obtusatum), il carpino (Ostrya carpinifolia), l’orniello (Fraxinus ornus), il carpino bianco (Carpinus orientalis). Sono presenti anche le querce (Quercus), i lecci (Quercus ilex). Lungo le strade troviamo i platani (Platanus orientalis, P. Occidentalis), il pioppo nero (Populus nigra), il tiglio (Tilia cordata), il biancospino (Crataegus oxiacantha). Non tutti sanno che i nostri boschi sono ricchi di numerose specie di orchidee, come la Orchis morio subsp. Picta, Orchis mascula, Orchis pauciflora, presenti nelle località Piano del Pozzo e Piano Maggiore ai confini dei territori di Avella e Roccarainola (600-900 m slm). Mentre sulla collina delle Vallicelle (Mugnano del Cardinale e Quadrelle) sono presenti Orchis papilionacea, Orchis x gennari, Orchis purpurea, Orchis pauciflora ed altre. Nel sottobosco troviamo: pungitopo (Ruscus aculeatus), edera (Hedera helix), salvia (Salvia glutinosa), rosa selvatica (rosa sempervirens), fragola (Fragaria vesca), asparago (Asparagus acutifolius), origano (Origanum vulgare), e vari tipi di felci e di ginestre (Spartium iunceum, ecc.), graminacee da prato ed erbe officinali. Sono state censite oltre 700 specie vegetali diverse. 1.5.2. I funghi Esiste una buona varietà di funghi. Si trovano i chiodini (Armillaria mellea), detti ‘e semmentini, che si trovano vicino alle ceppaie di nocciòlo o di alberi da frutto e nei boschi di faggio e di castagno. Poi vi sono i porcini (Boletus edulis), detti comunemente amuniti, che si trovano, di 25


prevalenza, nei faggeti e nei castagneti (ma alcune specie si trovano anche sotto le querce e nelle pinete). Da menzionare i taurini, del gruppo dei porcini, ma velenosi, dal cappello più rossiccio e dalla “carne” (così si chiama il corpo dei funghi) che, se tagliata, ossidandosi a contatto con l’aria, diventa subito rossiccia o bluastra. Alcuni boscaioli di Monteforte Irpino li mangiano dopo averli ben bolliti, infatti la tossina è termolabile, ovvero, si distrugge con il calore. Sono presenti anche numerose specie di prataioli, spugnole, e “conocchie” o “mazze di tamburo” (Lepiota, Macrolepiota, Agaricus ecc..) che vivono sullo “strame” (materiale organico in decomposizione), da non tutti conosciuti e apprezzati. Se si è fortunati, è possibile trovare anche l’ Amanita cesarea (detta, in dialetto, pirozzola ‘e uovo, tuorlo d’uovo). I parenti velenosi, anzi letali, di questa specie e cioè l’Amanita muscaria (con sparse macchie bianche sul cappello rosso), e l’Amanita phalloides (dal cappello verde), sembra che da noi non siano presenti: comunque è meglio fare attenzione, non si sa mai. Altre specie nostrane sono i “lattari” (detti ‘e piesciuli) e i Cantharellus cibarius (detti ‘e gallinelle oppure‘e manolle). Infine, va menzionato il tartufo nero (Tuber aestivum) che cresce sotto terra e che viene cercato con l’aiuto di cani o di maiali addestrati allo scopo. Si trova nei faggeti, nei querceti e nei noccioleti. 1.5.3. La fauna Da rinvenimenti effettuati lungo il Clanio, nel territorio di Avella, si è potuto verificare che in epoca preistorica erano presenti l’orso (Ursus Arctos), il tasso (Meles meles), la martora (Martes martes), la tartaruga terrestre, il capriolo e il cervo (Cervius). Numerose ed interessanti sono le specie animali attualmente presenti. Tra gli anfibi appartenenti agli Urodeli (le specie provviste di coda anche da adulti), troviamo la salamandra pezzata (Salamandra salamandra gigliolii) dalle grandi macchie gialle nere, la salamandra dagli occhiali (Salamandra tergidata), risalente all’era quaternaria, e alcune specie di tritoni il cui habitat è costituito dalle acque stagnanti di cisterne e pozzi. Tra gli anfibi Anuri (le specie sprovviste di coda da adulti), troviamo il rospo comune (Bufo bufo spinosus) ed il rospo smeraldino (Bufo viridis). Nelle zone più umide, come l’alto corso del Clanio, si possono incontrare anche alcune specie di rane, come la rana greca (Rana graeca italica), appartenente alle “rane rosse”(lunga circa 6 cm e dalla caratteristica V capovolta sul dorso) e la Rana ridibunda, verde, lunga fino a 15 cm. Dei rettili ricordiamo la lucertola campestre (Podarcis sicula), presente ovunque, la lucertola muraiola (Podarcis muralis breviceps), comune in alta 26


montagna, e il ramarro (Lacerta viridis). Negli abitati frequenti sono i gechi. Molto particolare è la luscengola (Chalcides chalcides). Questo sauro, somigliante ad un serpente, in realtà è una via di mezzo fra le lucertole e i serpenti. Lungo fino a 40 cm, di colore verde scuro o bronzeo, presenta lunghe strisce dorsali chiare. La sua caratteristica distintiva è che presenta piccole zampette provviste di tre dita che, durante la fuga, vengono retratte in apposite cavità presenti lungo il corpo. Fra i serpenti ricordiamo il cervone (Elaphe quattuorlineata) che, come dice il nome, presenta quattro linee longitudinali scure su corpo chiaro. Lungo fino a 2,60 m è un serpente costrittore: soffoca la vittima fra le sue spire e poi la ingoia; riesce ad ingoiare anche piccioni e conigli. E’ uno dei serpenti più timidi d’Europa. Esso, conosciuto dagli allevatori del Campo di Summonte col nome dialettale di “impastoia-vacche”, è ghiotto di latte, come del resto tutti i serpenti. Esso si porta sotto le mammelle delle vacche e vi succhia il latte. La vacca, che prova sollievo perché si alleggerisce del latte, addirittura ritorna allo stesso posto dove è stata “munta” la prima volta dal serpente e lo aspetta, ed esso, puntualmente, arriva. Diffusi nel territorio sono altresì la biscia dal collare (Natrix natrix), il colubro liscio (Coronella austriaca) e il biacco (Coluber viridiflavus). Un discorso a parte merita l’aspide o vipera comune (Vipera aspis), l’unico serpente velenoso presente nel nostro territorio. Si distingue dagli altri serpenti locali, innocui, per avere testa triangolare, muso dall’apice rivolto verso l’alto e pupilla verticale (come quella dei gatti). Il colore del corpo è variabile dal grigio, al rosa, al bruno con quattro strisce scure più o meno estese ai lati del corpo, la punta della coda è rosa, la parte addominale va dal giallo chiaro al rosso scuro. E’ lunga circa 70-80 cm. Passando agli uccelli, segnaliamo oltre a quelli più comuni, presenti nelle zone urbane e nelle campagne circostanti come le colombe, le tortore, i passeri, i fringuelli, le rondini, le cince e i merli, anche quelli meno comuni come le beccacce, le quaglie, l’upupa, il pettirosso, l’usignolo, la poiana, il picchio, la civetta, il barbagianni, il gufo, la capinera, il cardellino, la gazza, la pica. In zone di montagna, nella parte più alta dei Monti Avella, se si è fortunati, si possono avvistare anche l’astore, il falco pellegrino, il corvo imperiale e, forse, anche lo sparviere (più comune nell’altro versante dei Monti Avella, nei boschi di Pannarano e Cervinara). I fagiani sono presenti -normalmente- solo per poche ore; dal momento del “lancio” da parte delle associazioni venatorie, al momento della loro “fucilazione” da parte dei cacciatori: passano in poche ore dalla gabbia alla pentola. I mammiferi, sono presenti con quasi 30 specie. Oltre ai vari tipi di topi, ratti e arvicole, ricordiamo i pipistrelli o “chirotteri” (con otto specie diverse), le talpe (presenti con due specie), il ghiro (Myoxus glis), presente 27


anche nelle faggete, e il moscardino (Muscardinus avellanarius). E’ presente anche il riccio (Erinaceus europeanus), che è insettivoro. Due specie di mammiferi, introdotte per scopi venatori dalle associazioni di cacciatori, la lepre (Lepus capensis) e il cinghiale (Sus scrofa), si sono ambientate molto bene e diffuse su tutto il territorio. I mammiferi carnivori sono rappresentati dalla volpe (Vulpes vulpes), dalla martora (Martes martes) e dalla faina (Martes foina), che sono poco diffuse. Ancor meno diffuso, ma presente, per “erratismo” (cioè, di passaggio) è il lupo (Canis lupus italicus). Alcuni anni fa un esemplare femmina venne ucciso nel territorio di Avella. In passato doveva essere molto più frequente (non a caso Irpinia proviene dal termine latino hirpus, cioè lupo). I carnivori più pericolosi sono rappresentati, comunque, da branchi di cani randagi e rinselvatichiti. Non ce ne sono tantissimi, ma sono presenti, come ci assicura chi maggiormente frequenta le campagne, i boschi e le montagne vicine. Essi possono aggredire il viandante isolato e possono trasmettere (come anche le volpi) pulci e rabbia silvestre. Sulla presenza del gatto selvatico (Felis Silvestris), più grande del gatto domestico, i pareri sono discordi. Alcuni giurano di averlo avvistato, altri ritengono che siano presenti solo gatti domestici rinselvatichiti. Comunque, esso è sicuramente presente nella catena del Partenio. Vi sono, poi, centinaia -se non migliaia- di specie di insetti, facenti parte dei vari e complessi ecosistemi forestali, montani ed agricoli. Agli insetti autoctoni si è purtroppo aggiunta, la temibile zanzara tigre, proveniente dal Nord Africa. Ricordiamo, infine, i molluschi con alcune specie di lumache. Il nostro ambiente, come dimostrò anni fa una sperimentazione della Comunità Montana, è particolarmente adatto al loro allevamento (elicicoltura).

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1.6. Aspetti climatici

Il clima risente sia della relativa vicinanza dal mare (circa 25 Km) che della presenza dei rilievi. Secondo la classificazione di Pavari e De Philippis, che mette in relazione clima e flora, il nostro clima si trova a cavallo tra il Lauretum (maggiore di 19°C) e il Fagetum (inferiore ai 10°C). Sui rilievi la piovosità raggiunge punte di 2.200 mm di pioggia. Secondo misurazioni effettuate ad Avella, con una stazione posta a 198 metri slm, la media degli ultimi trent’anni si aggira attorno ai 1.100 mm. La più evidente caratteristica climatica dell’area baianese rimane, in ogni caso, il forte, secco e gelido vento di tramontana che non di rado giunge ad una velocità di venti o trenta nodi, con punte di cinquanta nodi.

mm t

G

F

M

A

M

G

L

A

S

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N

D

Climatogramma di Walter e Lieth che mette in relazione la temperatura e la piovosità. v e n t o

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2. La conservazione del bosco e del suolo 2.1. Le funzioni ecologiche ed economiche del bosco

Fustaia

ceduo

Da sinistra a destra: 1) Struttura del bosco. 2) Stadi evolutivi di boschi coetani. 3) Rinnovazione di una fustaia: (A: taglio di sementazione, tendente a favorire lo sviluppo delle chiome delle piante restanti e la germinazione dei semi caduti. B e C: tagli secondari. E: taglio di sgombero).

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La selvicoltura moderna ha il duplice obiettivo di preservare e valorizzare sia gli aspetti strettamente produttivi sia le innumerevoli funzioni ambientali degli ecosistemi forestali. Volendo tentare una classificazione sommaria dei prodotti e dei servizi offerti dai complessi boscati, possiamo effettuare la seguente schematizzazione: a) Funzione produttiva Produzione di legname da costruzione, di energia (legna da ardere, pellettati, carbonella), di cellulosa, di prodotti alimentari (selvaggina, frutti, funghi, erbe aromatiche ed officinali, miele), di resine e di sostanze medicamentose. b) Funzione protettiva Riduzione dell’erosione e del dilavamento superficiale, regolazione del ciclo idrologico dell’acqua, mitigazione degli eventi alluvionali e siccitosi, azione di riduzione del rischio frane. c) Funzione ecologica Il bosco svolge una vera e propria funzione di filtraggio dell’aria. Inoltre, produce ossigeno (un albero adulto ne produce mediamente 4 chilogrammi nelle 24 ore) e fissa anidride carbonica19 . Esso, inoltre, rappresenta un importante serbatoio di biodiversità costituendo l’habitat naturale per numerosi organismi vegetali ed animali. d) Funzione estetico-paesaggistica-culturale La fruizione del bosco ai fini venatori, ricreativi, educativi, turistici, etnografici, didattico-naturalistici, può garantire un flusso di reddito per le popolazioni montane, favorendone la permanenza e contribuendo a ridurre i rischi di un degrado ambientale conseguente all’eventuale abbandono della montagna. Per i motivi innanzi esposti, la moderna pianificazione di un complesso forestale in grado di erogare beni e servizi di molteplice natura deve tener nel giusto conto le sue diverse attitudini e funzioni, superando la tradizionale visione meramente produttivistica, soprattutto quando la pianificazione riguardi i demani pubblici. 33


2.2. Aspetti agronomici e pedologici

Il suolo è la parte più superficiale della crosta terrestre. E’ un sistema trifasico, comprendente una fase solida, una fase liquida e una fase gassosa. E’ un fondamentale componente dell’ambiente come l’aria e l’acqua ma poco percepito come tale e, pertanto, non è specificatamente tutelato. In realtà è una risorsa esauribile e solo molto lentamente rinnovabile (per formare 30 cm di suolo,a seconda del tipo di roccia madre, del clima e dei fattori delle modalità d’azione dei fattori della pedogenesi, occorrono da un centinaio a svariate migliaia di migliaia di anni). I fattori che determinano la sua formazione (pedogenesi) sono riassunti nella cosiddetta formula di Jenny:

Del suolo vanno valutate: le qualità agronomiche, dalle quali dipende la capacità di produzione di biomassa pr l’alimentazione degli uomini e degli animali, la produzione di fibre, di legname e di altri materiali utili; le qualità ecologiche, dalle quali dipende la funzione di filtro biologico, azione tampone e di trasformazione di materiali diversi, taluni dei quali potenzialmente inquinanti; le qualità idrologiche, dalle quali dipende la regolazione della stabilità dei paesaggi e dei bacini imbriferi; le qualità naturalistiche, dalle quali dipende la biodiversità della micro e macroflora e della micro e macro fauna; le qualità ingegneristiche, fonte di approvvigionamento di materie prime (minerali, sabbia, argilla, ghiaia, torba, ecc.) e le caratteristiche di adeguatezza alle utilizzazioni per insediamenti umani, insediamenti produttivi e alla realizzazione di attività ricreative. 34


Secondo la celeberrima schematizzazione di Tsukamoto e Kusakabe2, di seguito riportata, le possibili interazioni albero-suolo dal punto di vista dell’effetto stabilizzante delle radici possono essere riassunte nei seguenti quattro casi: Caso A: il terreno è poco profondo e le radici lo permeano completamente esercitando un meccanismo di rinforzo, ma non si ancorano alla roccia sottostante. L’interfaccia terreno-roccia resta dunque un piano di minore resistenza lungo il quale può avvenire lo slittamento. Caso B: le radici penetrano nella roccia e vi si ancorano, stabilizzando così il complesso terreno-roccia. Caso C: le radici non raggiungono la roccia ma si ancorano a strati di terreno sottostanti ed a maggiore resistenza di quelli superficiali, esercitando comunque un effetto stabilizzante. Caso D: le radici non raggiungono la roccia perché il terreno è profondo e non esercitano un’apprezzabile azione stabilizzante.

2 Tsukamoto, Y., e Kusakabe, O., 1984. Vegetative influences on debris slide occurrences on steep slopes in Japan. Proc. Symp. “Effects of forest land use on erosion and slope stability”. Environment and policy institute. Honolulu, Hawaii.

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Appare evidente come il suolo rappresentato nella figura sopra, ampiamente diffuso nei suoli perivesuviani, e caratterizzato dalla presenza di uno o più strati pomicei (in bianco), non attraversabili dalle radici, non sia stato preso in considerazione. Questo quinto caso di interazione suolo-pianta (che ho definito Caso E) , costituente l’oggetto del presente lavoro, sarebbe forse degno di ulteriori studi e approfondimenti in considerazione del fatto che molti dei suoli interessati dalle frane campane sono ascrivibili proprio a questa particolare tipologia pedologica. Da alcune considerazioni sul comportamento agronomico e geomeccanico di questi particolari tipi di suolo possono, poi, conseguire una serie di implicazioni operative del tipo di quelle proposte nelle pagine successive (suggerimenti selvicolturali ed adeguamento di alcune strutture di ingegneria naturalistica). Numerose osservazioni agronomiche e pedologiche effettuate in terreni agrari e suoli forestali hanno posto in evidenza come la gran parte delle specie vegetali incontri insormontabili difficoltà ad approfondirsi in presenza di strati pomicei. Infatti, in corrispondenza di questi orizzonti, caratterizzati da elevata macroporosità ma da microporosità e capacità di ritenzione idrica pressoché nulle, gli apparati radicali subiscono una vera e propria “autopotatura”. Questo fenomeno, noto non solo ai fisiologi vegetali ma anche a vivaisti e fiorai (che lo sfruttano, tramite l’utilizzo di appositi vasi forati, per controllare lo sviluppo radicale), si verifica perché le radici non trovano nello strato pomiceo né acqua né sali disciolti ma solo aria. 36


Il risultato è che, in tali suoli, viene a formarsi superficialmente uno stretto reticolo di radici che pur rendendo il terreno particolarmente stabile nei confronti dei fenomeni di erosione superficiale non riesce ad ancorarlo al suolo sottostante o alla roccia. Perciò, i versanti di questo tipo sottoposti ad un carico eccessivo, dovuto ad esempio all’appesantimento causato da un bosco invecchiato (fattore predisponente), qualora dovesse verificarsi una diminuzione della resistenza degli strati inferiori, dovuta all’aumento delle tensioni neutre conseguenti a piogge copiose (fattore scatenante), possono slittare rovinosamente a valle. Stratificazione tipica dell’area oggetto di studio: (da sotto) bedrock calcareo, paleosuolo, depositi piroclastici (in chiaro), suolo agrario.

Lo strato di pomici non viene attraversato dalle radici delle piante che, pertanto, non possono ancorarsi allo strato (di roccia o di terreno) inferiore, concausa questa dell’instabilità dei pendii.

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2.3. Effetto stabilizzante degli apparati radicali delle piante

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L’effetto stabilizzante degli apparati radicali, di piante erbacee, arbustive ed arboree ha costituito l’oggetto di numerosi studi3, che hanno messo in relazione l’equilibrio statico, con il bilancio idrologico e con l’effetto delle radici:

Tali studi hanno messo in evidenza, per esempio, che l’apparato radicale del castagno (l’albero tipico dei boschi dell’area oggetto di studio) in un terreno profondo giunge mediamente fino a circa 5,8m, con una resistenza alla trazione attorno ai 30 Megapascal, per diametri compresi fra 5 e 60 mm. Sono poi stati effettuati dei test di resistenza a rottura del terreno permeato di radici a confronto con terreno nudo. Il rinforzo del terreno ad opera delle radici è stato calcolato in maniera analoga ai calcoli di rinforzi delle terre armate, in base alla quantità di radici presenti nel terreno ed alla loro resistenza a trazione. In accordo con la letteratura dominante (Wu4, Waldron5 , Gray e Leiser6) è stata considerata l’area delle sezioni delle radici per unità di sezione del terreno. I modelli adottati si basano sull’equazione di Coulomb per la φ resistenza al taglio del terreno: S = c + σNtanφ Il contributo delle radici viene quantificato come incremento della coesione, φ per cui si ha che: S = c + ΔS + σNtanφ Dove: S = resistenza al taglio del terreno c = coesione apparente del terreno σΝ =sforzo normale al piano di rottura φ = angolo di attrito

3- Analisi del sistema suolo-vegetazione del comune di Napoli in relazione alle dinamiche di instabilità dei versanti e definizione di linee-guida di intervento - Stefano Mazzoleni, Mariana Amato, Antonio Di Gennaro, Fabrizio Cembalo, Virginia Lanzotti. Gaetano di Pasquale, Paolo di Martino, Donato Maria Giordani, Paolo Abalsamo, Francesco Cona, Maria Bellelli, Sandro Strumia, Antonello Migliozzi, Livia Vitelli - C.U.G.Ri- Dipartimento di Arboricoltura, Botanica e Patologia Vegetale- Università di Napoli Federico-II, 2001. 4- Wu, T.H., 1976. Investigation of Landslides on Prince of Wales Island. Geotechnical Engineering Report 5, Civil Engineering Depertment, Ohio State University, Columbus, Ohio, U.S.A. 5- Waldron, L.J., 1977. Tshear resistance of root-permeated homogeneous and stratified soil. Sci. Soc. Am. J. 41. 6- Gray, D. H., and Leiser, A.J., Biotechnical slope protection and erosion control. Van Nostrand Reinhold, New York.

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2.4. Richiami sull’instabilità delle coltri piroclastiche

I fenomeni che interessano le coperture piroclastiche prendono origine nelle zone acclivi dei versanti su superfici inclinate di 35°-50°, lungo versanti aperti o nelle zone di testata dei fossi7 . Il coefficiente di sicurezza F, definito come rapporto fra la resistenza media al taglio disponibile e la resistenza media mobilitata, è dato dalla relazione:

Il movimento iniziale della massa è generalmente di tipo traslativo (Soil o debris slides) ma, favoriti anche dalle pendenze dei versanti, i fenomeni si evolvono in flussi, caratterizzati da notevoli velocità e capacità erosiva, lungo i versanti ed i canali di scorrimento. E’ da evidenziare che non mancano casi di inneschi per crolli di masse calcaree in specifiche condizioni morfologiche8. Facendo riferimento alla classificazione proposta da Cruden e Varnes9, con il nome di debris flow (lett. flusso di detriti) si intende un tipo di frana conosciuta come “colata rapida”, in cui il materiale coinvolto è costituito fino all’80 per cento da granelli aventi diametro inferiore a 2 mm con un tipo di movimento del flusso non assimilabile a quello di un corpo rigido (rotazione e/o traslazione) ma simile a quello di un fluido, con velocità alquanto diverse tra punti differenti della massa in movimento. Inoltre, il materiale mobilitato nella parte alta del versante tende ad incrementare il proprio volume a causa dell’erosione e dell’abrasione dei materiali presenti sul fondo e ai fianchi dei canali: si viene quindi a generare un fenomeno di autoalimentazione simile a quello che si verifica nel caso delle valanghe. 7

Guadagno F.M., 1991. Debris flow in the Campanian vulcanoclastic soil (Southern Italy). Proc. International Conference on “Slope stability engineering developements and applications”, Inghilterra. De Rosa Pellegrino. 2005. L’assestamento forestale e l’ingegneria naturalistica nei suoli con coperture piroclastiche. Atti del Master in Gestione e Difesa del Territorio. Portici (Na) 8 Civita, citato da Guadagno [29]. 9 Cruden D.M. & Varnes D.J., 1996. Landslide types and Processes. In “Landslides: Investigation and Mitigation”. Ed. Turner A.R. e Shuster R.L. Sp. Rep. 247, Trasportation Research Board, National Research Council, National Academy Press., Washington D.C.

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Stadi della trasformazione di uno scorrimento (debris slide) in colata detritica (debris flow) [da Howard et alii, 1988]. Legenda: a) Scorrimento. b) Perdita di resistenza. c) Disgregazione dei blocchi e loro fluidificazione. d) Accelerazione della colata con incorporazione di materiale trovato lungo il cammino. e) deposito.

Il debris flow è caratterizzato da quattro momenti ben definiti: a) fase di innesco b) fase di dilatazione, imbibizione di acqua e rammollimento c) fase di veloce scorrimento all’interno di un canale, in cui le caratteristiche cinematiche del materiale proveniente da distacchi sommatali evolvono in quelle di colata d) fase di deposizione in lobi o lame di detriti in una zona dove il materiale può essere a sua volta soggetto ad erosione, trasporto, etc. Nel determinismo di una frana si distinguono dei fattori predisponenti e dei fattori innescanti. Per quanto riguarda i primi si osserva che un ruolo di primaria importanza è giocato dalle piogge e dalla loro modalità di infiltrazione di ritenzione nel terreno, anche se, come già evidenziato da Terzaghi nel 1950, è improbabile che essa debba considerarsi quale unica causa. 41


Altri autori10, infatti, mettono in evidenza sia l’effetto dell’acqua infiltrata sia di quella a contatto col substrato carbonatico poco permeabile. Per quanto concerne i fattori predisponenti vengono presi in considerazione innanzitutto gli aspetti giaciturali (pendenze) e l’assetto stratigrafico (la coltre piroclastica si presenta generalmente clinostratificata, con orizzonti di varia natura poggianti su un bedrock di natura carbonatica). Inoltre, si è potuto osservare come gran parte delle frane verificatesi sulle catene montuose di Avella-Cervinara, Quindici, Sarno e Siano, si siano prodotte in prossimità di tagli stradali, o per “scalzamento al piede” o per infiltrazioni di acqua dal piano del sentiero boschivo o in corrispondenza degli “strascini” di esbosco del ceduo.

Liquefazione e superficie di scivolamento (Sassa7)

Modello taglio-consolidazione (Sassa)

Inviluppo a rottura o di Stato Stazionario per terreni cineritici di alcuni versanti della Campania sottoposti a prove di tipo drenato (Picarelli e Olivares3)

Test di compressione isotropica (NCL) e test triassale di un suolo drenato e non drenato (Picarelli e Olivares3) 10

Cascini L., Guida D., Romanzi G., Nocera N. & Sorbino G., 1999. A preliminary model for the landslides of May 1998 in Campania region. Atti del II Convegno internatale “The Geotechnics of Hard Soils – Soft Rocks”, Napoli. Ottobre 1998. De Risio R., Calcaterra D., Santo A., 2001. Le frane percolata rapida in terreni piroclastici: esperienze sugli aspetti geologici in vari contesti campani. Celico P. Guadagno F.M., 1998. L’instabilità delle coltri piroclastiche delle dorsali carbonatiche in Campania: attuali conoscenze. Primo rapporto informativo dell’Unità Operativa 4/21N del C.N.R./G.N.D.C.I.

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Lo sradicamento è un altro degli indesiderabili effetti del ridotto approfondimento degli apparati radicali

Notevole attenzione meritano alcuni fenomeni di natura idrodinamica. E’ stato infatti osservato che le frane prendono origine prevalentemente laddove si creano particolari condizioni idrodinamiche consistenti in importanti flussi idrici sub-paralleli ai versanti e nell’instaurarsi di falde sospese effimere, sia nei calcari sia nella coltre piroclastica, e nella modifica delle pressioni neutre. Inoltre, deve essere tenuto presente che nell’orizzonte di molti suoli piroclastici sono presenti le argille allofaniche, dal singolare comportamento in caso di saturazione11. Le prove di tipo drenato sui terreni saturi mostrano che il comportamento dei terreni è sempre duttile e contraente e la sostanziale assenza di coesione conferma il fatto che i depositi sono del tutto privi di cementazione. In prove non drenate su provini saturati questi stessi terreni esibiscono un comportamento fragile. In effetti, nonostante l’elevato angolo di attrito, al crescere delle deformazioni indotte si verifica una forte riduzione di resistenza dovuta alle sovrappressioni neutre indotte. Normalmente questi fenomeni sono in relazione non solo con la quantità di pioggia caduta nelle ultime ore, ma anche con quella infiltratasi nel corso dell’intero anno idrologico. 11

La degradazione di minerali facilmente alterabili o di vetro vulcanico produce elevate concentrazioni di Ca, Mg, Al, Fe e silice in soluzione. Le soluzioni sono fortemente sovrassature e siccome non vi è tempo sufficiente per un’appropriata riorganizzazione in una struttura cristallina, Al, Fe e Si precipitano come componenti amorfe, quali allofane, imogolite, opale e ferridrite. La maggior parte dei cationi basici (CA, Mg,K, Na) e parte del H4SiO4 vengono rimossi dal drenaggio delle acque. Quindi, condizioni importanti per la loro formazione sono: presenza di minerali che si alterano velocemente e/o vetro vulcanico, condizioni di umidità (l’acqua favorisce l’alterazione), buon drenaggio che allontani i cationi. Condizioni climatiche ben definite e presenza di vegetazione che garantisca una certa umidità. La loro presenza può essere diagnosticata dall’analisi mineralogica: FTIR e raggi X, o dall’ analisi chimica, con le estrazioni selettive con ammonio ossalato. In campagna un indizio della loro presenza ci è dato dalla osservazione di un comportamento tixotropico del campione esaminato, ovvero della capacità di liquefarsi se sottoposto a pressioni o vibrazioni. Questa proprietà, tipica di alcuni Andosuoli, è dovuta all’espulsione di acqua dai micropori presenti nelle microstrutture ove vi siano minerali argillosi a basso ordine cristallino (allofane, protohalloysite).

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In seguito a tali considerazioni sono stati messi a punto alcuni modelli previsionali basati sulla definizione di una “soglia pluviometrica”, al superamento della quale diventa altamente probabile il verificarsi di fenomeni franosi. Attualmente si sta mettendo a punto il modello FLaIR (Forecasting of Landslides Induced by Rainfalls)12, la cui formulazione teorica si basa sulla definizione di una “funzione di mobilizzazione” dipendente in ogni istante dalla quantità di acqua infiltratasi nel sottosuolo prima dell’istante stesso ed avente la funzione di indicatore sintetico dello stato idrologico e del rischio di mobilizzazione che le piogge cadute nel passato inducono nel versante in studio.

EFFETTI DEGLI INCENDI SULLA PERMEABILITA’ DEL SUOLO

Versace P., 2001. La riduzione del rischio idrogeologico nei comuni colpiti dagli eventi del maggio 98 in Campania. Forum per il Rischio Idrogeologico in Campania. Napoli 22 giugno 2002. 12

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Cervinara: carta del rischio frane


Rischio frane: fattori predisponenti

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3. Ingegneria naturalistica e “Metodica De Rosa”

Come naturale conseguenza di quanto esposto nelle pagine precedenti deriva la considerazione, confermata dalle osservazioni in pieno campo, che molte opere di I.N. (ingegneria naturalistica) per risultare realmente efficaci sui suoli con stratificazioni piroclastiche, debbano essere in qualche modo “adattate” ad essi ed al tipo di vegetazione che vi alligna. Per comprendere meglio il settore, occorre premettere che esistono tanti modi di concepire l’I.N quanti sono i tipi di professionalità che, a vario titolo, se ne occupano. Si va dal produttore di gabbioni e di materiali sintetici, per il quale tutto è I.N. purché comprenda, oltre agli articoli da lui commercializzati, anche il solo episperma di un singolo seme, al naturalista purista, per il quale l’I.N. deve prevedere solo essenze vegetali e vegetanti. Tra questi due estremi esiste un variegato mondo di operatori che, a vario titolo, si interessano del settore. Un approfondimento di tali argomenti condurrebbe molto lontano, ben oltre i limiti e gli scopi del presente lavoro. Tuttavia, è possibile ed utile sottolineare due principi che, di solito, sono universalmente condivisi: a) che per poter essere definito “opera di ingegneria naturalistica” un intervento deve prevedere anche la presenza di piante vegetanti; b) che l’intervento di consolidamento, effettuato generalmente con paletti di castagno disposti secondo vari criteri, ha funzione solo temporanea, poiché dopo la loro naturale degradazione (o marcimento) il compito di garantire la stabilità meccanica dell’opera verrà svolto interamente dagli apparati radicali e dal fusto delle specie vegetali impiantate ed accresciutesi nel frattempo. 47


Pertanto, le validissime opere di contenimento effettuate solo con pietrame o le suggestive staccionate in paletti di castagno, pur svolgendo egregiamente le loro rispettive funzioni, non hanno -a rigor di logica- nulla a che vedere con le vere opere di I.N.. Inoltre, non è corretto definire opere di I.N. le semine di prati, i rimboschimenti e gli imboschimenti, sia perché essi non prevedono alcun manufatto, sia perché si tratta di interventi di natura agronomica e forestale, per la realizzazione dei quali sono richieste specifiche competenze. Infine, come indicato nella figura a pagina precedente, dovrebbe essere ben chiaro ad ogni progettista che l’I.N. non è sempre deontologicamente e tecnicamente applicabile. In ogni caso, egli deve tenere nel debito conto gli aspetti geopedologici, geomeccanici, idraulici, agronomici ed edafici del sito di intervento. Trascurare questi aspetti conduce, invariabilmente, alla progettazione di opere inefficienti sia dal punto di vista agronomico che, conseguentemente, da quello strutturale. A titolo di esempio, non sembra deontologicamente e tecnicamente corretto “fondare” una struttura (come si vede in taluni progetti esecutivi) con paletti di castagno che giungono, poniamo, fino a 1,5 metri, ben sapendo che le radici delle piante non riusciranno mai a giungere fino a quelle profondità, a causa dello strato piroclastico interposto. Per tali motivi, in molti casi, potrà essere utile l’adozione della “metodica De Rosa ©”. Essa consiste in un nuovo modo di interpretare l’Ingegneria Naturalistica (I.N.) quando si debba intervenire con essa sui suoli di natura vulcanica (come quelli, piroclastici, dell’area circumvesuviana della Campania) o su tutti gli altri suoli che presentino, per varie cause, degli strati meccanicamente, chimicamente o biologicamente inerti13 . Il dott. agronomo Pellegrino De Rosa, avendo constatato che gli apparati radicali delle piante non attraversano gli strati di pomici14 , ha fatto osservare come molte strutture realizzate secondo le tecniche di I.N. sui suoli piroclastici, se non opportunamente adeguate alle specifiche caratteristiche agronomiche e geopedologiche di tali terreni, finiscano per rivelarsi completamente inefficaci e per costituire esse stesse la causa di futuri e più pericolosi ed estesi dissesti. Gli interventi di I.N. (detti anche interventi “in verde”) prevedono l’uso integrato di materiali naturali e di piante vive. Semplificando molto il discorso, avviene che, solitamente, vengono usati paletti di legno (in castagno, di conifere, ecc..) per realizzare varie strutture di contenimento (es. palificate semplici o doppie, graticciate, viminate, ecc..) unitamente a talee di salice e piantine di specie autoctone (alle quali, oltre la funzione meccanica è demandata anche quella di “rinaturalizzazione” del sito). 48


Schematizzazione degli effetti stabilizzanti delle radici

La struttura in legno ha un effetto immediato di contenimento e di stabilizzazione ma, siccome con il tempo perderà le sue caratteristiche meccaniche (si seccherà oppure marcirà) è previsto che la sua funzione meccanica debba poi essere sostituita da quella delle piante, che nel frattempo saranno cresciute e che con il loro apparato radicale avranno raggiunto la profondità prevista dall’intervento (corrispondente, per lo meno, a quella alla quale sono stati infissi i paletti). Ebbene, ma cosa succede se i paletti sono stati ancorati a 1,2 metri di profondità su un terreno che presenta uno strato di pomici posto a 60 centimetri? Succede, semplicemente, che la struttura perde di efficacia, poiché le radici non potranno mai “approfondarsi” oltre lo strato pomiceo ed ancorarsi al suolo sottostante e, una volta che si sarà disfatta la struttura in legno, il sito diverrà pericolosamente instabile. Per questo motivo, in tali casi, il prof. De Rosa ha segnalato la necessità di effettuare in fase di piantumazione delle specie vegetali una trincea o una buca che oltrepassi lo strato inerte e che sia riempita di fertile terreno vegetale, costituendo in tal modo una via preferenziale per gli apparati radicali delle piante15, consentendo loro di ben ancorarsi al suolo più profondo e di svolgere in maniera ottimale la funzione biomeccanica loro richiesta. © Dalle osservazioni condotte è stata studiata una nuova struttura di I.N. denominata “agevolatore radicale”, per la quale è stata presentata domanda di brevetto industriale (AV2006A000003). «Ogni teoria dovrebbe essere la più semplice possibile, senza diventare semplicistica» (Albert Einstein). 13 La “metodica De Rosa” è stata presentata dall’autore alla fine dello stage da lui effettuato presso Scienze Forestali ed Ambientali (Direttore: Prof. Stefano Mazzoleni. Relatore: Prof. Antonio Saracino) e del Master in Gestione e Difesa del Territorio, da lui conseguito nel 2005 presso l’Università degli Studi di Napoli (Direttore: prof. Nunzio Romano) e al quale, negli anni successivi, ha tenuto delle lezioni sull’argomento, in forma di seminario, come “esperto esterno”. 14 Il fatto si osserva facilmente lungo i “tagli stradali” ed era già tradizionalmente noto ai corilicoltori di tutta l’area Baianese e del Vallo di Lauro. Siccome le pomici (presentanti elevata macroporosità ma ridottissima microporosità) non riescono a trattenere l’acqua, l’ambiente diventa inospitale per le radici (che all’aria si “autopotano” ), che preferiscono mantenersi nel suolo fertile ed umido più superficiale. 15 E’ noto che le piante vanno piantate a livello del colletto (zona del fusto appena sopra le radici) e che se piantate più in profondità muoiono. Secondo un detto popolare, infatti, “le radici devono poter sentire le campane”, ovvero devono trovarsi appena al di sotto del livello del terreno.

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Palificata doppia con grata arborata “De Rosa�

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1= strato inerte (costituito da depositi piroclastici o da altri materiali biologicamente o idrologicamente inerti) non attraversabile dalle radici 2= buca riempita di terreno fertile che costituisce una via preferenziale per gli apparati radicali

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4. Lo studio integrato del territorio.

Nella pratica professionale, dovendo progettare un intervento sul territorio occorre tener ben presenti tre ordini di questioni. In primo luogo, bisogna tener presente tutti i tipi di vincoli che gravano sul territorio: se vi siano aree protette (SIC o Siti di Interesse Comunitario, ZPS o Zone di Protezione Speciali, Parchi, etc.) e modulare gli interventi da progettare in conformità con i regolamenti o con le linee guide da essi previsti. La stessa cosa dicasi per quanto concerne le normative Regionali, le leggi nazionali e le direttive comunitarie, per le Autorità di Bacino (principalmente, per il rischio frane e per gli interventi sui corsi d’acqua) e per la Soprintendenza (vincolo paesaggistico). In secondo luogo, sarebbe preferibile usare tutti gli strumenti più moderni (ortofoto, stereofoto, GIS, modelli previsionali, banche dati, cartografia tematica, etc.) per valutare gli effetti dell’intervento sull’ambiente a scala di bacino. In terzo luogo, occorre difendere la propria deontologia professionale dall’invadenza di una classe politica, al contempo sempre più invadente, parassita e inetta, che tenta di manipolare i pareri e gli studi dei tecnici non per valutare concretamente quale siano gli interventi tecnicamente più corretti tecnicamente e realmente utili al territorio e alla comunità ma per avallare le sue “scelte politiche” che, troppo spesso, mirano solo al mantenimento del clientelismo e alle logiche di partito, quando, addirittura, non si giunga al vero e proprio peculato e al falso ideologico. I professionisti, generalmente i più validi, che non si piegano a queste logiche hanno spesso grosse difficoltà a completare le progettazioni o a riscuoterle o a farne delle altre. Ciò premesso, e restringendo le considerazioni al solo aspetto tecnico, il progettista che voglia attuare un intervento a basso impatto ambientale che, cioè, consenta di risparmiare il prezioso suolo fertile, di non inquinare la risorsa idrica, di salvaguardare gli ecosistemi e gli habitat deve eseguire preventivamente degli studi di carattere climatico, ambientale, pedologico e vegetazionale, integrandoli - preferibilmente - in un sistema di cartografia tematica georeferenziata associata ad una matrice di metadati (per esempio in un S.I.T. o Sistema Integrato Territoriale o GIS). Qui di seguito verranno riportate solo poche immagini relative a tale metodica di studio del territorio, mentre nel filmato presente nel cd allegato, verranno illustrate (sommariamente e solo ai fini didattici, poiché non sarebbe corretto rendere pubblico tutto il lavoro di progettazione effettivamente eseguito) le varie fasi di una caso reale di progettazione eseguito secondo questo “criterio integrato”. 51


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Alcune delle carte tematiche utili a un corretto inquadramento ambientale (altre sono quelle: geopedologiche, botaniche, delle precipitazioni, vegetazionali, delle pendenze, dell’acidità dei suoli, reticolo idrografico ecc...), talune indicate nel filmato allegato.

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Elevazione e reticolo idrografico

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Esempio di delimitazione di area protetta...

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...all’interno della quale prevedere lavori a basso impatto ambientale, distribuiti secondo criteri che tengano conto della flora e della fauna presenti e del periodo di riproduzione delle specie protette. Se, per esempio, nel sito sono presenti le seguenti specie protette di uccelli che nidificano nei mesi indicati... .

...e si vogliono realizzare i seguenti interventi:

è evidente che, nel definire il cronogramma dei lavori, bisognerà tenerne conto e indicare (anche a parte) i periodi durante i quali poter svolgere i lavori.

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5. Esempio di valutazione d’impatto ambientale

Si riporta, qui di seguito, un esempio (didattico e indicativo) di relazione di Valutazione di Impatto Ambientale. Per correttezza, sono stati omessi i dati della progettazione (che pure bisogna riportare, nella pratica).

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Note sull’autore

Pellegrino De Rosa è dottore agronomo, giornalista, saggista e scrittore. È laureato in Scienze e Tecnologie Agrarie, e ha un master in Gestione e difesa del territorio. Insegna materie scientifiche e tecniche presso le scuole medie superiori ed è istruttore di scacchi. Si interessa di progettazioni e di studi in ambito ambientale, botanico, zootecnico e di ingegneria naturalistica. Per contatti. Email: plasticismo@libero.it Facebook: Pellegrino De Rosa

Altre pubblicazioni dell’autore Piante alimurgiche (del Baianese e del Lauretano) Studio botanico ed etnografico su 74 specie di erbe selvatiche commestibili e sulla loro utilizzazione gastronomica. Stampato a cura della Regione Campania - Assessorato all’Agricoltura e alle Attività Produttive e con la prestiogiosa prefazione del prof. Antonio Saracino di Scienze Forestali e Ambientali di Portici (Na).

La gestione dell’ambiente e del territorio e la “Metodica De Rosa” Studio ambientale sulle areee interne a rischio di dissesto idrogeologico. Presentazione di una innovativa metodica di Ingegneria Naturalistica da adottarsi nei suoli piroclastici e in quelli presentanti orizzonti pedologici inerti per cause di natura fisica, chimica o biologica.

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ROMANZO Golfo di Napoli. Aria fresca, mare un po’ mosso, atmosfera sensuale. Subito un personaggio fosco e affascinante, Raf, assetato di vendetta. Subito una splendida giornalista, dai capelli color del grano maturo, Eva Nabokova. E subito una serie di misteriosi interrogativi: chi o che cosa ha folgorato il cane Avatar? chi ha sparato al delfino? chi ha fatto saltare in aria il campo nomadi di Ponticelli? e chi è la misteriosa creatura che Raf ha cercato di liberare portando con sé il chip della “gemma di Darwin”? Il romanzo di esordio di Pellegrino De Rosa non perde tempo: t’inchioda alla pagina fin dalle prime righe e ti tiene sulla corda fino all’ultimo e sorprendente capitolo, con il ritmo incalzante e avvincente dei migliori action-movie. E subito la storia principale si intreccia con tante altre storie: quella di un simpatico fotoreporter, donnaiolo incallito; quella di una sexy spia italo-americana; quella di una misteriosa e vecchia zingara napoletana; quella di un gruppo di “femminielli” e di un nostalgico boss della camorra, e di tanti e tanti altri personaggi, più o meno secondari, ma tutti descritti con cura e pathos. E, sullo sfondo, Napoli, i suoi vicoli, i suoi odori, le sue leggende e i suoi coloratissimi personaggi. Soprattutto, viene presentata una inedita ipotesi evoluzionistica (il Plasticismo Evolutivo) che mette in relazione l’evoluzionismo con le scienze quantistiche. Ma la complessità dell’argomento non appesantisce affatto la narrazione che, anzi, scorre via fluida, leggera e allegra, come l’acqua trasparente di un ruscello di alta montagna. L’autore, infatti, è riuscito a combinare - con stile gradevole e con sovrana leggerezza affreschi paesaggistici, battute napoletane, leggende popolari ed erotismo, con azione, mistero, scienza e filosofia. Finalmente un techno-thriller italiano che, per contenuti, suspense e humor, è in grado di competere degnamente con i colossi stranieri dello stesso genere e con una marcia in più: la scanzonata e fatalistica ironia napoletana. “Metamorfer. La gemma di Darwin” di Pellegrino De Rosa, Pag. 382. Edizioni Simple (ISBN:978-88-6259-399-1), acquistabile su http://www.ibs.it e sugli altri bookstore on-line.

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Pellegrino De Rosa

Plasticismo evolutivo Una nuova ipotesi evoluzionistica basata sulla biologia quantistica e sull’entanglement olografico

EDIZIONI SIMPLE


Evoluzionismo, Creazionismo o Plasticismo evolutivo? Il Plasticismo evolutivo: un’affascinante e nuova ipotesi evoluzionistica, presentata da uno studioso e scrittore italiano, che basandosi sui principi delle scienze quantistiche (universo olografico di Bohm) e su una serie di osservazioni naturalistiche (mimetismo) - vorrebbe conciliare evoluzionismo e creazionismo, supponendo una possibile funzione “plastica” della psiche dell’individuo e richiamando il monismo panteistico bruniano.

Farfalla “foglia secca” (Kallima inachus)

Insetto-foglia (Phyllium spp.)

ISBN: 9788862594165

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