Pausa Caffè_© metroadv.it

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#luoghi

archeologia, Messapi, Magna Grecia, ceramica a figure rosse/nere, trozzelle, Zeus di Ugento, mappa di Soleto, Veneri di Parabita, Porto Badisco, Apani, fornaci di ceramica

#passioni

la terra rossa, le masserie, lo Ionio, l’Adriatico, le torri d’avvistamento, il barocco, i castelli, i muretti a secco, la valle della memoria, Santa Caterina d’Alessandria, Finibusterrae

CONOSCI ILL #SALENTO

#scritture

Rina Durante, Maria Corti, Carmelo Bene, Vittorio Bodini, Lucio Romano, Antonio Verri, Aldo Vallone, Donato Moro, Pietro Siciliani, Ernesto De Martino

i turchi, i Borboni, I Bizantini, i Monaci Basiliani, Idrusa, il tabacco, i contadini, morsi e rimorsi, Raimondello Orsini, Maria D’Enghien, i Templari, Gioacchino Toma, i carbonari , Cesira Pozzolini, Pietro Cavoti

#storie

Il gusto autentico per una lettura che forgia sempre l’animo di chi la incontra, tra autori emergenti e visioni del mondo nuove. Partendo da Sud-Est.

GALATINA - Via Vittorio Emanuele II, 31 fiordilibro@tiscali.it


EDITORIALE Un momento da dedicare alla cultura, alla curiosità, allo svago. Attimi di tempo libero in cui fantasticare, concedersi un piccolo viaggio in una breve lettura rilassante, date da ricordare, immagini e parole in cui cercare compagnia. “Pausa Caffè” racchiude tutto questo. E’ un opuscolo, nato in stretta collaborazione con la libreria Fiordilibro, in cui ci sono scritti inediti o brani tratti da testi noti e meno conosciuti, un veicolo tascabile per qualcosa, come la ricchezza che può derivare da una poesia, una riflessione, un racconto, che spesso si mette da parte, lasciando spazio a una routine non sempre interessante. Con l’aggiunta di alcuni appuntamenti da non perdere dell’estate salentina, “Pausa Caffè” diventa anche quasi un’agenda, da conservare e consultare, in spiaggia, al bar, in fila a uno sportello, su una panchina al parco. Un ringraziamento particolare a tutte le aziende che hanno voluto sostenere l’iniziativa.

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ha riaperto il ristorante alla carta. Un angolo di pace E sapore da godere a pranzo E a cena.

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SOMMARIO 3. Editoriale 6. Primo Sorso (M.P. Romano) 8. Eventi e Sagre in Salento 14. Don Erminio Macario e lu Musciu (A. Micati) 18. Il Piccolo Principe 20. Istruzioni per il...Riuso 22. “Desidera?” (L. Ruggio) 30. Nino Di Matteo 32. Il mare perchè corre (L. Romano) 36. Abita lì (V.Chittano) 40. Coppia di donne (A. Viva) 48. Un vecchio racconto russo (G. Resta) 52. Il congelamento delle pensioni (F. Fuortes) 56. Il frullo della mano (G. Alemanno)

Selezione degli autori e dei testi a cura di Fiordilibro - Galatina. Progetto grafico e fotografia a cura di MetropolitanAdv - Galatina E’ vietata la riproduzione anche parziale del mezzo.

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PRIMO SORSO Maria Pia Romano

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Il mare è quello che ti resta quando non hai più niente da perdere. Questo pensava lo zingaro in rotta verso la vita. Una vita di sbalordimenti sotto il livello del mare. Una fuga dalla sua esistenza di uomo qualunque, con un lavoro monotono e una quotidianità di pane senza sale. Una corsa contromano iniziata prima che avesse il tempo di capirci qualcosa. Perché sono i rapimenti strani della mente che fanno andare a rotoli la vita ordinaria che ci siamo fatti cucire addosso. La nostra vita inizia quando iniziamo a scegliere. E non sai mai se sia stato un bene o un male, ma intanto hai fatto il salto e indietro non si torna. Non sarò io a trattenerti se senti che questa non è più casa tua. Quello che c’è stato è stato vero. Non dubitarne mai. Anche quando farà male. E voltò le spalle a chi lo amava ancora, gettando via l’anello per andare incontro a un’altra vita. Non c’è egoismo più grande dell’amore, aveva pensato chi era rimasto solo. Non c’è amore più grande della libertà, aveva pensato lui mentre faceva il salto. Nessuno dei due sapeva dove si nascondesse la felicità, ma allo zingaro piaceva pensare che la stesse cercando. Il mare è quello che ti resta quando non hai più niente da


perdere. Lui continuava a navigare verso mari solo suoi, con la leggerezza vigliacca e incosciente di chi crede di saper ricominciare. Consolazione e libertà. Che si spalmavano nei suoi occhi di mare. Un blu inopportuno su quella faccia da moro: un volto spaccato in due dal sole, sul quale ti saresti aspettato di veder spuntare due iridi d’ebano. E invece no. Due gocce di mare. da “L’anello inutile”, Besa editrice Tempo di lettura 3 minuti

... appunti


LUGLIO 2014

eventi e sagre SALENTO 21/07 - Sagra dell’Anguria - Melpignano 22/07 - Sagra della Puccia - Ugento 29/07 - Sagra dell’Uva Cardinale - Guagnano 30/07 - Sagra te la Purpetta - Tuglie

AGOSTO 2014 8

02/08 - Sagra te lu Purpu - Melendugno 04/08 - Festa Madonna della Neve - Neviano 04/08 - Sagra della “Piscialetta” - Surbo 05/08 - La Notte della Taranta - Corigliano D’O. 06/08 - La Notte della Taranta - Castrignano dei G. 06/08 - Festa di San Donato - San Donato di Lecce 06/08 - Festa di San Donato - Montesano Salentino 07/08 - La Notte della Taranta - Zollino 09/08 - Sagra te li ciceri e tria - Ugento 09/08 - La Notte della Taranta - Cursi 09/08 - Sagra du vinu e te le cose noscie - Parabita 09/08 - San Vito - Tricase


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10/08 - Sagra della municeddhra - Cannole 10/08 - La Notte della Taranta - Sternatia 11/08 - La Notte della Taranta - Martignano 12/08 - La Notte Bianca - Specchia 12/08 - La Notte della Taranta Carpignano Salentino 13/08 - Festa dei Santi Martiri Idruntini - Otranto 13/08 - La Notte Bianca - Calimera 14/08 - Festa dell’Assunta - Martano 14/08 - Festa e Fiera di San Rocco - Ruffano 14/08 - La Notte della Taranta - Lecce 15/08 - Sagra della Madonna dell’Assunta Santa Maria di Leuca


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15/08 - Sagra del pesce spada - Gallipoli 16/08 - Sagra del pesce “a sarsa” - Castro 16/08 - La Notte della Taranta - Alessano 17/08 - I Love 80 Party - Galatina 17/08 - La Notte della Taranta - Soleto 18/08 - La Notte della Taranta - Cutrofiano 19/08 - Galatone in pentola - Galatone 19/08 - Sagra della ‘mpilla - Sannicola 19/08 - Festa Gastronomica - Cutrofiano 19/08 - La Notte della Taranta - Galatina 20/08 - La Notte della Taranta - Martano 20/08 - Sagra te la pittula e te lu purpu - Gallipoli 22/08 - Sagra della pasta fresca e del pesce Marina di Alliste 23/08 - La Notte della Taranta Concerto Finale - Melpignano 24/08 - Festa di Sant’Oronzo - Lecce 27/08 - I Vitelloni Bier Fest - Galatina 27/08 - Sagra Friseddhre, Purpette e Vinu Sogliano C. 29/08 - Sagra della Bruschetta - Soleto

SETTEMBRE 2014 09/09 - Alex Britti in concerto - Sannicola


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Don Erminio Macario e lu musciu (Gatto) - 1955 Edoardo Micati I leccesi, almeno quelli amanti del varietà, erano in fermento: il Teatro Apollo avrebbe ospitato il prossimo giovedì la compagnia di rivista del comico Erminio Macario, l’eterno ragazzo col ricciolo sulla fronte, lanciato nel mondo dello spettacolo da Wanda Osiris, la divissima, con l’ultima sua commedia musicale: Tutte donne meno io, le sue incantevoli 40 soubrette, le ragazze con le gambe più belle del mondo. Mercoledì mattina. 14

- Edoardo, ti offro caffè e pasticciotto, forza, esci da questo negozio. - Gaetano, è la prima volta che… Ah, ecco, ora capisco, hai vinto alla lotteria? - Non fare lo spiritoso, usciamo, dai. Poco dopo, nel Sebastiano Bar: - Allora, dimmi, cosa c’è sotto, perché sprechi tanti soldi in una sola botta, sputa tutto! - Macario! Domani sera c’è Macario con la sua rivista all’Apollo, non possiamo perdercela !- E chi ti dice che intendo andarci? - L’ho saputo da mesciu Pippi, la maschera, so che gli hai chiesto due biglietti, hai forse intenzione d’invitarmi? - Errore, sono per i miei genitori, è un regalo di noi tre figli, io ci vado gratis. -


- Magnifico, ti accompagno, e poi lu Pippi…. - Ti sbagli, il direttore si piazzerà accanto a lui e da quella porta passeranno solo gli attori .- E tu? Per quale motivo tu entri gratis?- Serviva del tulle per gli scenari, sai per le nuvole, e noi glielo abbiamo fornito… - Allora è fatta, sosterrai che sono un tuo commesso… - Manco per idea! Il direttore conosce i commessi. Mi dispiace ma questa volta o paghi o rimani fuori. - Pago? Cu quali sordi? Sempre che tu… - Non se ne parla proprio! - Forse se gliene parli tu a mesciu… - Gaetano, il solito capotosta! Da quella porta solo attori, pompieri e questurini. Tu sei uno che non veste una divisa... - N’idea me l’hai data, mi travesto, mi travesto da… da - Già, così se ti scoprono poi...poi andrai a finire in galera per vilipendio… - Tu credi che io mi travesta da questurino? Non sono scemo... mi vesto da… da Macario! - Allora si scemu veramente! Di Macario hai solo l’altezza, non il fisico, e poi ti rendi conto che pesi almeno il doppio? - Non ti preoccupare, però tu mi devi dare tre cose: un cappotto di pelo di cammello, il migliore del negozio, un cappello tipo caciotta, marrone o verde muschio, e nu musciu. - Nu musciu, un gatto? - Si, Don Erminio cammina sempre cu nu musciu fra le braccia! -

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- Per le prime due non ci sono problemi, per il gatto pensaci tu. Dovrai truccarti bene, ma per il ricciolo come farai, tu che sei quasi spennato davanti? E gli occhi? Fosse anche che Macario avesse una sciarpa attorno al viso sarebbe riconosciuto per gli occhi rotondi! - Non preoccuparti, so come fare. – Giovedì sera, ingresso degli artisti. Tanti ad aspettare: maniaci a caccia d’autografi, gente smaniosa di vedere da vicino girl e attori, tutti squattrinati che mai sarebbero entrati in un teatro.

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- Direttore, c’è Edoardo. - Fallo passare Pippi. A proposito, preparati, sento già il clacson del pullman di Macario, sarà a circa due isolati dal teatro, segno che ha difficoltà a procedere per la ressa degli ammiratori. All’improvviso ci fu un gran vociare, tutti cominciarono ad applaudire. - Direttore, ma è Macario, a piedi, forse ha lasciato la corriera. Cappotto di cammello, cappello calato sugli occhiali scuri, in braccio un gatto nero che, miagolando irritato, mandava stilettate con gli artigli. Pippi capì subito che si trattava di Gaetano che, previdente, s’era dotato di robusti guanti di pelle e attorno al viso una sciarpa di lana blu tessuta ai ferri. - Scostatevi, fate passare don Erminio, allargatevi… Gridava Pippi. - Veramente nun me pare lu Macario, quistu ete lu doppiu.


- Disse uno dei presenti. Pronto replicò mesciu Pippi:- Ma tu, don Erminio, da quanti anni non lo vedi? - So tutto di lui, puru che è innamorato de li gatti bianchi. - Continuò l’altro. - Si vede che sei male informato, quelli bianchi se li tiene a casa, quando viaggia usa quelli scuri. In giro non può stare sempre a lavarli! Beh, smamma, libera lu passaggiu. - Veramente Pippi quello non sembrava Macario, piuttosto un certo… - Direttore che volete da me, andate a vedere in camerino, mi sarò forse sbagliato? - Chiunque sia ti ha preso per scemo, ma è stato bravo e, forse, quel tipo so chi è. Dimmi, non è quello che vende macchine da scrivere, quel Gaetano? - Avete ragione, mi sa che è proprio lui… ma quando l’acchiappo… Non ebbe il tempo di finire la frase perché fra i suoi piedi, fulmineo, passò un gatto nero. Nel frattempo era sopraggiunto il pullman dal quale, acclamato, scese il vero Macario. Indossava un lungo cappotto color cammello, cappello tipo caciotta, occhiali neri e… gatto nero fra le braccia. Trionfante Pippi si rivolse al nostrano:- Menu male che conoscevi don Erminio! - Lo conosco e come, infatti, quello che è entrato prima era un altro! - Sì, ma era uguale, scemo! Stesso cappotto, cappello e musciu niuru, scemo! Manco li “veri” falsi sai riconoscere! Tempo di lettura 5 minuti

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[...] “Anche i fiori che hanno le spine?” “Si. Anche i fiori che hanno le spine” “Ma allora le spine a che cosa servono?” Non lo sapevo. Ero in quel momento occupatissimo a cercare di svitare un bullone troppo stretto del mio motore. [...] “Le spine a che cosa servono?” Il piccolo principe non rinunciava mai a una domanda che aveva fatta. Ero irritato per il mio bullone e risposi a casaccio: “Le spine non servono a niente, è pura cattiveria da parte dei fiori” - “Oh!” Ma dopo un silenzio mi gettò in viso con una specie di rancore: “Non ti credo! I fiori sono deboli. Sono ingenui. Si rassicurano come possono. Si credono terribili con le loro spine...” Non risposi. In quel momento mi dicevo: “Se questo bullone resiste ancora, lo farò saltare con un colpo di martello”. Il piccolo principe disturbò di nuovo le mie riflessioni. “E tu credi, tu, che i fiori...” “Ma no! Ma no! Non credo niente! Ho risposto una cosa qualsiasi. Mi occupo di cose serie, io!” Mi guardò stupefatto. “Di cose serie!” Mi vedeva col martello in mano, le dita nere di sugna, chinato su un oggetto che gli sembrava molto brutto. “Parli come i grandi!”

Da “Il Piccolo Principe, cap. VII Tempo di lettura 2 minuti


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Prendi un vaso con tappo a vite e un dispencer di un vecchio detergente Fissa il tappo su una superficie piana con dello scotch e pratica un foro al centro con il trapano


... RIUSO

Infila il dispencer nel foro del tappo e sigillalo con della colla a caldo

Carica il dispencer con detergenti, saponi, detersivi, oppure utilizzalo come contenitori per alimenti (es. senape, ketchup..)

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“Desidera?” Luisa Ruggio

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“It Had To Be You” (Billie Holiday)

Ero in anticipo, mancavano un paio d’ore al prossimo treno, il tabellone delle partenze si rimodulava producendo un bel rullo di tessere, mi ricordava il suono delle fiches su un enorme tavolo da gioco. Decisi di gironzolare un po’ nella vecchia stazione, una solida balena gigante che lasciava filtrare la luce dorata del primo pomeriggio. La libreria era aperta e cominciai col dare un’occhiata agli scaffali, c’erano troppi libri che desideravo leggere. Può una persona convivere così, con un desiderio del genere? Sì, può, ed è proprio questo il problema. Imboccai l’uscita sul retro e trascinai la mia valigia fino al bar, spifferi di vento freddo facevano volare via gli scontrini lasciati sul bancone dai viaggiatori di passaggio. Guardai verso un punto imprecisato in mezzo al viavai e davanti ai miei occhi l’aria si rimodulò, proprio come il tabellone delle partenze, ma queste tessere potevo vederle soltanto io. Ero sola insieme alla mia visione. Mi era venuto in mente un quadro che avevo visto in una galleria di New York, non ricordavo più il nome del pittore però, né quello dell’opera. Raffigurava una strada di notte, all’incrocio di un vecchio palazzo di arenaria, le vetrine dei bar accese come braci irradiavano una bella luce calda nelle pozzanghere. Ero rimasta a fissarlo a lungo, da tutte le angolazioni,


cercando di immaginare come sarebbe stato camminarci dentro, attraversare quella strada, entrare in quel locale e magari ordinare qualcosa da bere ascoltando un po’ di musica. Avevo attraversato l’Oceano in cerca dei quadri di Hopper, e avevo trovato le atmosfere cupe e autunnali di uno sconosciuto. Non avevo mai letto niente sul suo conto e pensavo che ci doveva essere molta gente in gamba, chissà dove, nel mondo, che aspettava soltanto un mio sguardo. Qualcuno mi tirò per la manica, portandomi fuori dalla mia visione. Era una vecchia signora, indossava un cappotto troppo grande che la faceva sembrare una stufa di ghisa. Stringeva un sacchetto di plasticaccia pieno d’acqua, sul fondo c’erano delle monetine di rame, mi fece segno di dargliene delle altre e mi frugai le tasche per cercarne. Ne trovai soltanto tre e feci per dargliele, ma proprio in quel momento una ragazza giapponese che correva verso un treno in partenza mi urtò. Le monetine volarono via al rallentatore, ma nessuno se ne accorse. Non caddero, finirono a stagnare insieme alle altre nel sacchetto della vecchia, non so come. - È acqua piovana, - mi disse. - Come, scusi? - Non faccia la vaga, ha capito benissimo. In effetti, avevo capito. Feci per andarmene, avevo voglia di mangiare qualcosa e bere un tè bollente, c’era un mucchio di gente accalcata nei bar e mi guardai intorno in cerca di un posto tranquillo. Ma la vecchia mi fermò, stavolta senza tirarmi per la manica, disse soltanto: - Se vuoi, posso farti parlare con Yul. -

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Dal sibilo che uscì dalla mia bocca, dovette accorgersi che mi era scappato un punto esclamativo, galleggiava nell’aria intorno a me adesso, ormai vagabondo. Quando ero bambina avevo un amico immaginario, si chiamava Yul - gli avevo dato io questo nome - e sapeva riparare i meccanismi, per l’esattezza era specializzato in grammofoni e in baci mai dati. Qualche volta la maestra mi sgridava perché durante la ricreazione non andavo a giocare con gli altri bambini. “Non startene lì tutta sola,” mi diceva, ma io non ero mai sola, c’era Yul con me, ed era il più divertente, era un professionista. Di qualche anno più grande di me, si trattava di un ragazzo, un giorno sarei cresciuta e lo avrei baciato. Questo bacio accadeva spesso nei miei sogni a occhi aperti. In quei sogni, io e Yul eravamo in un quartiere in riva all’Oceano, il vecchio quartiere arrugginito dove finivano i baci mai dati e gli amori immaginari perduti, con un luna park fuori uso, saloon western, un cinema minuscolo, un caffeuccio, un negozio di giocattoli a manovella e la sua bottega piena zeppa di meccanismi da riparare e sembianti del cuore umano, molti dei quali difficili da riconoscere. Pettinini, pattini a rotelle, scatole di fiammiferi, cappelli sgualciti, tazze sbeccate; c’era davvero di tutto lì dentro e soprattutto barattoli pieni di baci mai dati, Yul se ne prendeva cura. Lo ricordo ancora perfettamente il suo nome pronunciato da quella vecchia, come faceva a sapere di lui? Le ragioni che spingono un individuo a provare un affetto reale per il suo amico immaginario possono essere diverse, ma comunque sono sfumature in confronto alla veridicità


di certi sogni. Gli amici immaginari esistono, ed esistono un certo tipo di persone che hanno la fortuna di sentire che non si tratta di una metafora. D’altra parte, il mondo si divide in due grandi categorie: quelli che hanno bisogno a tutti i costi di spiegazioni e quelli che non ne hanno bisogno. Questi ultimi sanno come si ascolta una storia: senza interrompere. Naturalmente, non ho mai parlato a nessuno del mio amico immaginario, né avrei mai potuto descrivere il nostro quartiere in riva all’Oceano, piccolo e lucente sotto un cielo zafferano. - Anche Yul vuole rivederti - mi incalzò la vecchia, mi voltai a guardala mentre i passeggeri sciamavano intorno a noi, in cerca ognuno del proprio treno. - Ma allora non è sparito? - chiesi, la vecchia ridacchiò e si accese una piccola pipa dal cui fornello salì un sottile ricciolo di fumo azzurrognolo. - Lui mi ha fatto la stessa domanda, in tutti questi anni credeva che tu fossi sparita. Sparita, io? Be’, era trascorso un po’ di tempo dall’ultima volta che avevamo giocato insieme, ma di tanto in tanto, nel bel mezzo di una conversazione, durante una passeggiata, nei dormiveglia, Yul mi ha portato via, nel nostro quartiere, tra i baci mai dati. La vecchia mi fece segno di seguirla attraverso cunicoli di persone in arrivo e in partenza, voci, odori. Prese la scala mobile, scese giù e nel seminterrato svoltò per i bagni pubblici dove la gente era in fila davanti alle porte automatiche. C’erano tre porte, la terza però era fuori uso e lei si avvicinò proprio a quella, ripescò le tre monetine che le avevo dato dal sacchetto di acqua piovana e le inserì nel

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cursore rotto. Subito le porte si azionarono e ci lasciarono passare, una signora dai capelli stinti si mise a borbottare contro di noi – “Furbe, quelle” - ma la vecchia sembrò non farci caso. Tirò dritto fino allo sgabuzzino, proprio in fondo a un corridoio pieno di scritte scurrili, disegnini e numeri di telefono di improbabili femmine fatali. Aprì la porta e mi fece cenno di entrare per prima in quel groviglio buio, pieno di ramazze e detersivi. Mi spinse dentro e chiuse la porta, ero al buio. Ho sempre avuto paura del buio e afferrai subito la maniglia, volevo uscire da lì al più presto. Nonostante i miei timori, la vecchia non mi aveva chiuso dentro, tant’è che la porta si aprì, ma i bagni pubblici della stazione erano spariti. Al loro posto slargava il lungomare bordato dai saloon western, un caffeuccio, il negozio dei giocattoli a manovella e la bottega di Yul, piena di grammofoni, meccanismi inceppati, baci mai dati e amori immaginari. Quello era il nostro quartiere in riva all’Oceano, piccolo e lucente sotto un cielo zafferano. E c’era un elemento nuovo, si trattava di un palazzo di arenaria, con le luci accese che si riflettevano nelle pozzanghere, proprio lo stesso del quadro che avevo visto in quella galleria di New York. Improvvisamente mi ricordai il nome dell’opera e del suo autore. Charles Burchfield, Rainy night, 1930. Yul doveva essere lì dentro, nell’aria si sentiva la voce di Billie Holiday cantare It had to be you. Da bambina mi interrogavo spesso sul significato di quella canzone. Dovevi essere tu, diceva, dovevi essere tu. E poi un giorno, di colpo, avevo capito. “Ecco cosa significa diventare


grandi,” mi ero detta, “tutto qui”. Seguii la musica, passai accanto alla bottega dei grammofoni e mi avvicinai al palazzo di arenaria del quadro, il mare era calmo, ma si sentiva ugualmente il suono dell’acqua, minuscole onde lente lambivano il bagnasciuga e poi si ritiravano lasciando una scia d’oro sulla sabbia. Entrai nel locale e Yul era lì, mi dava le spalle, in piedi dietro il bancone dei liquori, vidi i suoi occhi sorridermi attraverso lo specchio. Sugli scaffali, al posto delle bottiglie, c’erano tanti barattoli e ognuno conteneva un bacio mai dato. - E’ stato bello - disse voltandosi. - Che cosa? - Il bacio che non mi hai mai dato, è stato bello, Billie Holiday continuava a cantare quella canzone, era un vinile, girava su uno di quei grammofoni che Yul era riuscito a far funzionare. - Dovevi essere tu, - mormorai avvicinandomi al bancone. - Già, - disse - lo hai capito quando hai visto quel quadro a New York, vero? Annuii, lui si mise a lucidare un barattolo, con molta delicatezza, i baci mai dati sono fragilissimi, svaporano con niente. - Guarda quanti, - disse Yul - li colleziono da anni, e vengono tutti dal tuo mondo. - Chissà a chi erano appartenuti, chi li aveva desiderati, sognati, smarriti. - In tutto questo tempo, ho cercato di non perderne nemmeno uno - feci io. - Ma è accaduto anche a te, - disse Yul - era inevitabile.

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Ne hai persi tre, guarda. - Mi indicò tre barattoli pieni di acqua piovana, proprio come quella del sacchetto di plasticaccia in cui la vecchia teneva le monetine. Acqua piovana, dunque era quella la forma dei baci mai dati. Guardai attentamente, fino a vedere i tre desideri, tre momenti precisi della mia vita. Il primo riguardava Yul, il secondo era un segreto, il terzo riguardava uno sconosciuto. - Quest’ultimo, - disse - guardalo bene, - ed io lo guardai. Era un bacio stupendo, in effetti, un bacio sotto la pioggia battente, sottilissima. Mi misi a sedere su uno sgabello alto, coi gomiti sul bancone tirato a lucido. - Forse dovresti visitarmi, Yul, - gli dissi - forse mi si è inceppato qualcosa - C’è solo un modo per scoprirlo - Ne sei proprio sicuro? - In effetti i modi sarebbero tre, ma essendoci io qui farò a modo mio - quindi oltrepassò il bancone, mi prese il viso tra le mani e mi baciò. Fuori cominciò a piovere, l’acqua di uno dei barattoli si prosciugò tutta, le minuscole onde lì fuori restarono sospese a metà, la musica si fermò. Chiusi gli occhi per un lunghissimo istante. Quando li riaprii ero vicino al binario numero tre, una ragazza giapponese si era voltata per chiedermi scusa, urtandomi aveva fatto volare via le monetine che stavo per dare a una vecchia, ora erano sparse tra centinaia di piedi in movimento. Le raccolsi e cercai la vecchia lì intorno, ma era sparita. Mancavano ancora due ore al mio treno, vidi un posticino meno affollato e trascinai la mia valigia fino


a lĂŹ. Dlindlon fece la porta quando entrai, mi avvicinai al bancone, c’era un ragazzo intento ad asciugare i bicchieri, aspettando le ordinazioni ascoltava una stazione radio che trasmetteva una vecchia canzone - It had to be you, cantava Billie Holiday, dovevi essere tu... - lasciò lo strofinaccio e si rivolse a me sorridendo: - Desidera? Tempo di lettura 10 minuti

... appunti


“L’Unità” (20 Luglio 1992) - Tratto da Segni dei Tempi di F. Santilli

30 “Mi chiedo spesso se è giusto andare avanti. Se lo è per la mia famiglia. A pensarci razionalmente forse no, ma poi un insieme di emozioni e di ricordi mi trascina a una sola risposta: ne vale la pena, è giusto così. Chi si occupa da tanto tempo di queste vicende deve mettere in conto che l’organizzazione mafiosa possa desiderare o organizzare la sua eliminazione fisica. Certo non sarei credibile se dicessi di essere indifferente alla cosa…Ricordo le parole di Paolo Borsellino: il coraggio non è non avvertire la paura, sarebbe da sciocchi. Il coraggio sta nel far prevalere la consapevolezza di voler andare avanti a testa alta e senza subire condizionamenti. Quello che spero e cerco di fare” 2014, Nino Di Matteo, magistrato impegnato a far luce sulla presunta trattativa Stato-Mafia


Creare con i colori, con le trasparenze, giocando con la luce e con le forme. Francesca Sabella dal 1994 alimenta ogni giorno “l’albero di Iside” con la passione e l’estro dell’artista che nelle gemme, di origine animale, vegetale o minerale, vede tutte le sfaccettature della bellezza. Preziosi manufatti tutti da indossare.

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Il mare perché corre Livio Romano

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-Com’era Iolanda? -Chi se ne fotte di Iolanda? Ha fatto cinque figli e ancora campa con quella faccia verdastra da fava. Sei mesi prima delle nozze ho incontrato Nela, davanti a una fontana dell’acquedotto pugliese. A maggio in paese avevo sentito qualcuno parlare degli ebrei a Santa Maria. Ero fuori di me per la felicità. Stava succedendo qualcosa. Non sapevo bene cosa. Sentivo che il mondo stesse passando anche da noi. Così convinco mia madre a darmi ‘sta cazzu de bicicletta, arriviamo il primo giorno a mare e niente, non si vede nessuno. Ci ritorniamo il secondo giorno e mentre scendevo a velocità pazza per la discesa verso la piazzetta mi supera una jeep inglese che si ferma davanti alla fontana e fa scendere un ragazzo quanto me, in anfibi neri e pantaloni militari ma con una canottiera bianca di sopra. Aveva tutti questi capelli crespi per aria. Potrei imitare, se ti fermi, l’andatura che aveva. -Tu sei pazzo. Mo’ che finalmente abbiamo trovato un furgone targato Verona da seguire tu mi fai scendere per imitare la camminata di un riccioluto… -Aveva le gambe un po’ arcuate, gli occhi infossati su un viso furbo. E questa fronte ampia, segno di intelligenza. Fece un vago cenno di imprecazione verso i militari inglesi e si mise a camminare fiero verso Santa Caterina. Quando si accorse del nostro arrivo si fermò. Si portò i palmi


sulla fronte a proteggersi dal sole. Io scesi dalla bicicletta, camminai con mio fratello nella cassetta verso di lui ma mi fermai dieci metri prima. Lui era ancora là ad aspettare che lo raggiungessimo. Ci venne incontro. Ci strinse la mano, ci presentammo. Naturalmente lì per lì non capii che fosse una specie di guru di tutta la comunità che avrei poi conosciuto e che s’era sistemata nelle case estive dei ricchi del posto. Tremila persone non son poche, Piero. E allora questo tipo mi stringe la mano, fa dei buffetti a Mario e poi, forse per superare il mio sbigottimento, parlando un italiano stentato ma corretto, ci invita a una festa che avrebbero fatto quella stessa sera davanti alla sinagoga che avevano allestito in uno stanzone nella piazzetta. I pescatori di Santa Maria avevano pescato una big big turtle, ci disse. Ci sarebbe stata carne da mangiare per tutti. “La gente qui –e volteggiò gli indici- è molto ospitale, al contrario di quelli”, disse riferendosi agli inglesi. Poi ci sorrise e riprese a camminare verso Santa Caterina. Non potei fare a meno di seguirne il cammino. Con passo svelto eppure dinoccolato arrivò all’altezza di una villa signorile e sparì dietro al cancello. E chi si perdeva un’occasione così? Facemmo il bagno io e mio fratello. Mangiammo le uova sode e il pane con le olive che avevamo nel fazzoletto. Intanto sulla spiaggia a duecento metri da noi -c’eravamo tuffati dalla scogliera a fianco- si distinguevano delle figure umane dalla pelle bianchissima che prendevano la rincorsa e si gettavano in acqua. Si sentivano anche risate e gridolini. Era davvero un’altra epoca e io ero così provinciale e ottuso perché potessi anche solo immaginare che fossero delle donne, Piero. Non ci badai. Pensai a un

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gioco di bambini. Ma poi nuotando al largo strabuzzai gli occhi. Erano ragazze, Piero. Molto molto magre, certo. Ma bianche bellissime ragazze seminude che si rinfrescavano nell’acqua cristallina di Santa Maria in quella mattinata torrida. Neanche alle quattro del pomeriggio, completamente bagnato di sudore, ero di nuovo a Galatina a consegnare il fratellino e prepararmi a rifare i venti chilometri per correre alla festa degli ebrei. Alla fontana pubblica tolsi via la sabbia e il sale solo dal corpo e dalla faccia. Lasciai i capelli arruffati come quelli del tizio a mare. Oh, non so se hai presente. Noi di nostro portavamo i capelli leccati all’indietro con la brillantina. Io li lasciai ribelli e pieni di salsedine: ero totalmente innamorato dell’ebreo incontrato a Santa Maria. -Poi sarei io quello che fuma le sigarette da frocio… -Ma dai! Ero innamorato del mondo che immaginavo rappresentasse. Della Storia che si presentava a pochi chilometri da casa, del mistero di quelle fanciulle meravigliose che nuotavano libere in acqua mentre le nostre donne entravano ancora in vestaglia se non proprio col baldacchino di legno intorno. Arrivai al mare al tramonto nonostante mia madre me l’avesse proibito. Sai che bello a ventitré anni una che ti proibisce di uscire? Le dissi che andavo al cinema e che avrei guardato tutti gli spettacoli a rotazione fino a mezzanotte e mezza. Mio fratello Mario aveva l’ordine tassativo di non fare parola degli incontri del mattino. Mentre pedalavo giù per la discesa delle agavi, tutto il golfo di Gallipoli era infuocato da un tramonto rosso, di una bellezza da


mettersi a piangere. Filavo e guardavo il cielo e, all’altezza dell’incrocio prima dell’ultima curva, mi resi conto che almeno venti o trenta altri giovani del posto, chi in bicicletta chi a piedi chi a bordo di automobili a manovella, stavano pure raggiungendo il luogo della festa, lo si capiva dal vestito della domenica che indossavano, quasi sempre adattato da fratelli maggiori o padri con i pantaloni immancabilmente troppo corti. Non c’era nessuno che non avesse con sé qualcosa da regalare agli stranieri. Borse di legumi, secchi di melanzane e pomodori, forme di formaggio di capra. Mi fermai a trenta metri dalla sinagoga a osservare questi giovani. Era incredibile quanto cibo fosse saltato fuori in quei tempi di fame maledetta. Sembravano un po’ tutti già pratici del posto e piuttosto intimi con gli ospiti. Sacramentai per il fatto di non avere anch’io un dono, di non averci pensato. Regalare quei pochi spiccioli che avevo in tasca mi pareva fuor di luogo, offensivo. Mi fermai a bere alla fontana di ghisa. Guarda là: Legnago. da “Il mare perché corre”, Fernandel 2011 Tempo di lettura 5 minuti

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Abita lì Valentina Chittano

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Non avevo scarpe adatte alla neve. Non ero nemmeno abituata a vederla, la neve. E allora mi ha dato le sue. Erano di quelle che nessuno della mia età comprerebbe mai, di quelle che è più semplice trovare sotto il letto della nonna. Erano dure, sdrucite. Eppure in quel momento mi sembravano le più belle che io avessi mai visto, infiocchettate da quel sorriso così vero che solo occhi realmente puliti possono accompagnare. Ho scoperto così la sincera gratuità dell’amore, ho riacceso così la speranza in chi nel segno della croce non abbandona una sterile ritualità, ma lascia un cuore in cui attecchiscono preghiere di salvezza anche per un mondo lontano. Dio, che sembrava essersi perso tra odori troppo intensi di incensi stantii, in canoniche troppo buie e oratori troppi vuoti di città stancamente frenetiche e distratte, abita senza dubbio tra quei colli dove il silenzio è sinonimo di presenza. E’ una pace viva, che accoglie, insegna, parla il linguaggio della condivisione. Non l’avevo mai respirata in quel modo, mai avvertita sulla pelle come sensazione di benessere. Ti senti parte di qualcosa di immenso, in cui anche il tuo pensiero ha un peso specifico non indifferente se è legato all’attenzione agli altri.


La povertà diviene ricchezza e ciò che si dà per scontato attimo di meraviglia. Dietro una parola un intero racconto, dietro una lacrima un abbraccio, dietro un imbarazzo la certezza di un perdono. Lì sporcarsi le mani è la prima cosa che si ha voglia di fare. Imbrattarle di muschio e brina, della polvere del sentiero, di terra, di cuoio da forgiare, di minestra da scaldare. Il sole disegna il suo richiamo alla libertà sui fili d’erba che incorniciano luoghi in cui quella libertà un tempo è stata negata, affossata a suon di fucilate. E su quel sangue, che ha macchiato quella via crucis, oggi sorge la possibilità di un riscatto per l’uomo che vuole sradicare il male. Non è un luogo magico e fuori dal tempo, ma in me ha creato un incantesimo e del tempo me lo ha regalato. Tempo da dedicare a quello che sono, a quello che vorrei, a quello che posso e devo fare, alla persona che sogno di diventare. Che sappiate il suo nome o le sue coordinate non importa. Esiste. E ha spazi in cui continuerò a saltare. Tempo di lettura 3 minuti

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è solo questione di qualitĂ

Galatina (le) via ippolito De Maria, 37 tel. 0836.561881 fax 0836.561560 info@editricesalentina.com www.editricesalentina.com


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“Salento, L’Arte del produrre” di Antonio Monte, Edizioni Grifo, 2012 Letture inconsuete, che parlano di storia. La nostra.


Coppia di donne Annavera Viva

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Sono accecato dal verde, la luce che batte sul panno è diventata abbagliante, vedo riverberi verdi ovunque, il silenzio è quello di sempre, attende. I tonfi del cuore spingono forte il sangue nella testa e le tempie pulsano dolorosamente. Le mani, invece, sono ferme, non tremano, niente di me si muove, solo le palpebre calano lentamente sugli occhi di tanto in tanto, e mi separano per pochi istanti dalla mia follia. “Apro” Accarezzo le carte, con un tocco leggero le faccio scivolare lontane una dall’altra. Una coppia di donne, potrebbe trasformarsi in qualunque punto, o in niente. Le donne con me è più facile che si trasformino in niente. “Ahahah”. Rido forte dentro di me, che cattivo presagio, che brutta metafora. “Gioco” Fanculo, sfidiamo la sorte, magari è la volta buona per rifarmi, sto perdendo veramente troppo, da troppo. Questo non mi rende lucido, non riesco a concentrarmi, vago tra ricordi e superstizioni. Forse con due donne non avrei dovuto giocare, ma sono le ultime mani, se non recupero adesso, potrei non averne più l’occasione. Per noi giocatori non esiste la capacità di pensare che possa


esserci un altro tavolo, un’altra sera, tutto il nostro mondo è racchiuso in queste tre ore, tutto inizia e finisce qui, non riusciamo a vedere altre possibilità. Oltre. “Rilancio” Ecco. Mario sta partendo con un punto più alto del mio, o è il solito bluff ? Lui è bravo a bleffare, ed è prudente nello stesso tempo, i suoi avversari cerca di farli uscire subito, prima che diventino un pericolo. Io ho solo queste due cazzo di donne, ma non mi fido, non voglio farmi buttare fuori, lui ha già davanti quasi tutta la mia paga di questo mese, non posso andar via. Dio, fa che queste donne non siano un altro fallimento. “Vedo” Letizia l’amavo davvero, lo dico ora, prima non l’avrei mai ammesso, neanche a me stesso. Soprattutto. Troppi impegni, troppa fragilità, comporta un’ammissione così, ed io sono già fragile di mio. Dimenticava subito tutto quello che aveva da rimproverarmi e ricominciava con entusiasmo e allegria a credermi, ad amarmi, a farmi sentire vivo. Così vivo da non pensare ad altro. Almeno per un po’, almeno fino alla prossima volta. Quando se ne è andata l’ha fatto nello stesso modo, tristemente, ma senza recriminazioni. Non ho provato a fermarla, non che non volessi, lo desideravo con tutto me stesso, ma sapevo che sarebbe stato inutile, le donne come lei ti danno mille possibilità, poi è finita e non si voltano più. Lei è sempre rimasta per me la donna di cuori. “eh eh” La mia deformazione di giocatore mi ha sempre fatto associare un seme a ognuna di loro. “Tre carte “

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Provo il tutto per tutto, mi tengo la mia coppia e tento la fortuna. Mi va male da troppo, ma la sfortuna si sconta sul tavolo da gioco, non posso sperare, che smettendo di giocare per un periodo, si dimentichi di me. Ritornerei a giocare e a perdere. Per far cambiare la sorte, devo continuare a giocare e aspettare che si esaurisca, cercando, fin che dura, di limitare i danni il più possibile. Ecco, è di questo che non sono capace, non so limitare i danni. Questo è anche il rimprovero che mi ha fatto mia figlia, quando sua madre se l’è portata via, me l’ha gridato piangendo, non ho risposto, era vero, che potevo dire. Distruggo, smantello, sono sempre affiancato dalla catastrofe, neanche’io so il perché, potessi trovarla una giustificazione, ma niente, non ne ho. Con Maria mi ero sposato giovanissimo, lei era incinta ed io non l’amavo, ma sono un gentiluomo e i miei debiti li pago, l’ho sempre vista come la donna di picche, mi rendeva triste, senza stimoli. Per tutto il tempo che siamo rimasti insieme, ho pensato che la cosa migliore della mia vita l’avevo avuta per caso e dall’ultima persona che avrei scelto, se avessi potuto scegliere. “Servito” Mario è servito. Una scala, un full, un colore? Ma no è un bluff, lo sento, non ha nulla, crede di spaventarmi, pensa che la paura di perdere ancora mi fermerà. Giovanni e Sergio cambiano chi due, chi una carta, sono tranquilli, entrambi hanno economie solide e non si sbilanciano mai eccessivamente, forse Sergio è quello che azzarda di più, ma Giovanni non l’ho mai visto vincere o perdere più di quanto non sia ragionevole per una serata piacevole tra


amici. Guardo Mario, sta accendendo l’ennesima sigaretta, calmo, pacato, fuma solo lui, ma siamo tutti in una nuvola. Io non fumo ma non mi dà nessun fastidio, non me ne accorgo quasi, non mi accorgo di niente, sento solo le cinque carte nelle mie mani e mi chiedo che troverò oltre le due donne. “Parola al servito” Martina mi piaceva molto, ma era servita solo per provare a colmare il vuoto cosmico lasciato da Letizia, esperimento malriuscito, le mancava l’allegria e la capacità di distaccarsi dai problemi anche per poco, in più, non resisteva alla sindrome della crocerossina, mi trattava come un malato, aveva deciso di curarmi. S’impegnava, ma più faceva, più mi sentivo mancare l’aria. Mai avuto dubbi che fosse una donna di fiori. Basta l’ha detto lei, mentre io cercavo, già da un pezzo, le parole per mandarla via. Dio che sollievo. Seria seria, col suo cappottino blu, scendeva le scale meditando sul perché non fosse riuscita a salvarmi. Io aspettai di essere fuori dalla sua vista e richiusi la porta, tutto sommato mi sentivo triste. “ Dieci volte il piatto” Mario ha parlato. Un rilancio assurdo, al di fuori della mia portata, Giovanni conta il piatto, la cifra è già alta così. Mi guardano, lo sanno tutti che è molto più di quanto possa permettermi, non gli importa niente, non in questo momento, adesso siamo tutti privi di qualunque sentimento, vogliono solo sapere che farò. Sergio e Giovanni parleranno dopo di me e sono più che sicuro che usciranno, questo piatto è sempre stato in ballo tra me e Mario. Non ho ancora visto le carte, pensandoci

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non potrebbero influire sulla mia decisione, è solo il mio grado di curiosità quello che mi spingerà o no a vedere, alla fine è sempre la curiosità, l’azzardo, il non sapersi fermare, che fa di un giocatore un perdente. Di un uomo, un fallimento. Di una vita, una disfatta. Ma ora, non importa niente neanche a me. Quindi se decido che sta bleffando lo vado a vedere con qualunque punto mi sia entrato. Ora ho tutto il tempo che voglio per pensare, nessuno mi metterebbe fretta. Continuo ad accarezzare le carte, sono indeciso se vedere senza neanche guardarle, vorrei farmi il calcolo esatto di quanto sto rischiando, non in termini economici, quello lo so, in termini di vita, diciamo. Allo stato dei fatti non mi è rimasto nient’altro da distruggere, tutto quello che potevo l’ho già perso, non è rimasto neanche niente di pignorabile, qualche carta degli avvocati in più e qualche telefonata isterica di Maria quando non le potrò mandare l’assegno per l’ennesima volta, questo è quanto rischio stasera, seccature alle quali sono abituato. È ai sensi di colpa che non mi sono mai abituato, mi stringono alla gola, mi sbarellano il cuore, non mi fanno respirare. Ma non bastano a fermarmi. Penso che potrei dirle: “Mi dispiace è stato per colpa di una coppia di donne”, “ahahahah” rido ad alta voce, tutti mi guardano perplessi, ma sto immaginando che lei sicuramente non capirebbe e s’incazzerebbe ancora di più. Questa visione mi dà la spinta giusta, non riesco a smettere di ridere: “Vedo”


Mario posa la sigaretta, e lentamente gira un sei, un sette, un otto, un nove e un dieci. “Scala” Sento che si trattiene dal sogghignare, ha notato che io non ho guardato le carte, ha intuito tutto, sa, che quasi sicuramente, ha vinto. Lo so anch’io. Lentamente giro la prima carta, un sette. C’è qualcosa che dallo stomaco sta venendo su, come una fitta che s’irradia fino alla gola. Giro un’altra carta, donna di picche, l’avevo di mano insieme a quella di fiori, infatti, è la successiva che scopro. Ora il dolore è più intenso, ma penso solo che una carta che non sia una donna o un sette deciderebbe da subito l’esito, sto sudando qualcosa di ghiacciato, le dita sono rigide mentre cerco di scoprire la carta, Donna di quadri. La mia bambina, bionda, acuta, determinata, con la forza dei vincenti, si è visto da subito. Mi ama con tutta se stessa, e nonostante ciò, ha scelto di orbitare lontano dalla mia follia. Il dolore è diventato lancinante, non sento bene, mi pare di udire dei bisbigli, delle domande, qualcuno mi chiama per nome, io veleggio tra dolore e immaginazione. Non è una carta, quella che giro, magari una speranza, un ricordo, lo specchio di una svolta che non ho saputo dare, e che ora non serve a niente, se non a vincere questo piatto. No, non è vero, non sono onesto, mi dà quel brivido che inseguo da sempre, quello per cui ho rinunciato a tutto il resto, quel balzo al cuore, quella scossa al cervello, quel picco di gioia, quell’emozione impareggiabile che non ho trovato pari in nient’altro, che non ho potuto amare in

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nient’altro. Ogni rimpianto, ogni senso di colpa, è un falso. Una sovrastruttura creata per adeguarmi a quella che è la mentalità comune. In realtà, nel mio intimo so di aver vissuto esattamente come volevo, e lo rifarei ancora. “Poker” È stato Mario a parlare, ha la voce roca, sorpresa, confusa. Il mio malessere, il punto che non si aspettava, li ho scombussolati tutti stasera. Un’emozione fortissima. Mi sono accasciato su un lato, sto morendo lo so, tra una fitta e l’altra nel tramestio che ora sento intorno a me, riesco ancora a ragionare, stringo forte nella mano le mie quattro donne, mi sto godendo il mio ultimo brivido, è violento. “Guardate” gli dico, accarezzandole “guardate se ne valeva la pena”. “Guardate che gran finale”. Tempo di lettura 10 minuti


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Galatina Corso Garibaldi 7 tel. 0836.564301 Aperto tutti i giorni pranzo e cena


Un vecchio racconto russo Giuseppe Resta

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Era un inverno lungo, spietato e assassino quello. Lì nella taiga il branco dei lupi non trovava più prede. Niente più lepri, conigli, topi. I richiami della fame erano forti e sonori. Il capobranco ruppe gli indugi e si avvicinò al villaggio degli uomini. Ma anche questi erano ben chiusi in casa, sparavano, avevano grossi cani che davano l’allarme. Così i lupi spiavano dal folto della vegetazione e vedevano i loro cugini cani sfamati con caldi fumanti papponi e pezzi di carne secca. Il ventre schiacciato dei lupi del branco si doleva a vedere tutto questo, le loro fauci salivavano per il desiderio. Rimanevano lì uggiolando a soffrire. Così un lupo, il più intraprendente, giovane e senza remore lasciò il branco e sgattaiolò, ventre a terra, quasi strisciando, coda nelle gambe e orecchie basse rivolte sul davanti, verso il piccolo villaggio di boscaioli. Mostrò tutti i segni della resa, della pace, della paura. Lasciava il branco per un pezzo di carne secca. Ma la fame era tanta. Il capobranco lo guardò con gli occhi lucidi dal freddo. Annusò la paura del suo compagno, uggiolò, ululò per fermarlo. Ma il lupo giovane non ascoltò. Dalla izba, la casa di legno, qualcuno si accorse del lupo che si avvicinava nella radura e uscì, bel protetto da giacconi di pelosissima pelliccia, imbracciando un fucile con una mano e un grosso randello con l’altra, per allontanare il lupo. Gridò l’uomo, agitò il randello, sparò un colpo di fucile in aria che echeggiò fra i dritti


e sottili stronchi degli alberi imbiancati, si levarono in volo corvi gracchianti, ma il lupo non si mosse. Si fermò un attimo e poi ricominciò ad avvicinarsi lentamente. L’uomo rimase stupito. Si avvicinò al lupo correndo per quanto possibile visto che affondava nella neve alta. Il lupo rimase fermo. Poi, all’avvicinarsi dell’uomo, si dispose a pancia all’aria, come un cucciolo inoffensivo e sottomesso chiudendo gli occhi a fessura e schiacciando le orecchie sul davanti. L’uomo si avvicinò guardingo, brandendo il randello e imbracciando un fucile. Ma il lupo continuò a manifestare tutto il suo repertorio di segni di resa. Così l’uomo si avvicinò tantissimo. Trasse dalla tasca un pezzo di pane e pancetta e l’avvicinò al lupo. Questi prontamente si avvicinò senza remore e la mangiò. Uggiolando di contentezza, scodinzolando, e guardando a bocca aperta con la testa piegata l’uomo. Che ripeté l’operazione somministrandogli un altro pezzo di pane e pancetta. Poi l’uomo sorrise sotto il baffo imperlato di ghiaccio, voltò le spalle e si diresse verso la casa, dove, dalle piccole finestre, altri occhi curiosi vedevano la scena straordinaria. Il lupo lo seguì trotterellando pacifico. L’uomo entrò nella izba calda e illuminata di luce gialla per uscire un attimo dopo con un pezzo di carne secca e delle ossa. Il lupo guaì contento scodinzolando. Da quel giorno il lupo rimase vicino alle case. Tutti contribuivano a dare qualcosa per sfamarlo. E il lupo si nutriva degli scarti degli uomini. Così, in primavera, cominciò a seguire l’uomo a caccia, e riportava la selvaggina sparata in cambio di resti, di piccoli bocconi. Aveva preso a dormire in un pagliaio, il lupo, al caldo, scavandosi una tana nella paglia. Ben

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coperto ed isolato. Così il fiero lupo della taiga per fame era diventato un cane, servo fedele, assoggettato, succube dell’uomo. Non era più cacciatore libero, ma serviva il cacciatore uomo. Il lupo s’era ormai scordato del branco, della libertà, delle corse in cerca di conigli, degli attacchi ai piccoli delle alci, o alle renne fatti in gruppo, con perfetta sincronia. S’era scordato tutto, tranne di ululare alla luna piena quando la fredda aria polare la faceva risplendere sulla foresta ghiacciata. Dopo due anni era proprio un cane. Si faceva perfino legare ad un palo e poi seguiva gli uomini a caccia. Aveva perfino imparato ad abbaiare, copiando gli altri grossi cani del villaggio. E se abbaiava troppo veniva bastonato. E sopportava guaendo. Un giorno di autunno, in mezzo ad un panorama colorato dai toni mortali della stagione, tra l’odore delle foglie marce, seguiva il suo padrone, succube ma contento e abbastanza sazio. Gli scarti non mancavano mai. Bei pezzi di carne fresca e sanguinosa ormai non ne vedeva da un pezzo, ma non soffriva mai più molto la fame. Il padrone puntò qualcosa che si muoveva in un cespuglio su di una piccola collina rocciosa. Puntò e sparò. Lo sparo gracchiante echeggiò nella taiga silenziosa riproducendosi in mille echi. Il lupo scattò come una molla prima che l’eco fosse terminato dirigendosi sull’altura. Si fermò. Sentì odore di cane bagnato e sangue. Un odore dolciastro e nauseante. Dietro al cespuglio una macchia nera giaceva su un manto di foglie dai colori rossastri, bagnate e sporche. Ascoltò un flebile affannato sospiro. Lo vide: era il suo capo branco. Colpito ad un fianco, perdeva sangue e dalle ferite venivano bolle e schizzi di sangue ad ogni respiro.


Giaceva con le lunghe zampe senza forza, disposte sulla terra come delle grandi V di pelo. Si avvicinò guaendo. Il Capobranco, testa a terra su di un fianco, aprì gli occhi leggermente e lo guardò. Gli sorrise leggermente inarcando le fauci aperte. Strinse gli occhi. – Sei tu? - Gli disse guaendo - Fai il cane da caccia dell’Uomo... Che brutta fine. Per non aver sopportato un inverno spietato ti sei venduto all’uomo. Hai perso la libertà per un mucchio di avanzi, ti sei svenduto fierezza e libertà per niente. Hai tradito gli amici del branco, i tuoi fratelli, i tuoi cugini, le tue femmine per legarti ad un despota, per diventarne il suo attrezzo da caccia. Hai perso la dignità per la fame… – Il lupo asservito lo guardava a capo chino, piegando lo sguardo. – Che brutta fine hai fatto, ero venuto a dirtelo, hai disonorato il branco, la razza, i lupi del mondo. Muoio, mi hai ucciso. Muoio disperato per come ti sei comportato. Ma sono felice…. Per averti potuto mostrare come un lupo non si vende. Non si sottomette. Conserva fierezza e dignità. A costo della vita. Se è lupo. Se non è cane servo. Se è lupo è libero, ha orgoglio, fierezza e dignità…- spirò. Con un ultimo flebile gorgoglio di sangue nero che schizzò dal fianco ferito. Tempo di lettura 5 minuti

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Il congelamento delle pensioni Federico Fuortes

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Sonia si era trasferita ben volentieri al Pago Pago dato che pur conoscendo Morena non la catalogava fra le proprie amicizie; anzi era stata felicissima di mettersi al riparo dai suoi sproloqui. Se ne sarebbe accorto, Raimondo, di che bell’affare aveva fatto sedendosi accanto a quella... Inoltre era piena di rancore nei confronti di Morena, che, entrata da Regali e non solo... appena qualche minuto prima di lei, aveva scelto dalla lista di nozze quel bel leopardo di porcellana (be’, di plastica, ma anche al tatto sembrava proprio porcellana) a grandezza naturale, il cui manto non aveva la consueta, banale, maculazione, ma riproduceva con colori ancor più vividi di quelli originali Il bacio di Klimt. Era stata costretta a ripiegare su di un più costoso moro veneziano di legno (be’, di plastica, ma anche al tatto sembrava proprio legno) che cantava “O sole mio” appena qualcuno entrava nel raggio del sensore incastonato nell’occhio sinistro. In omaggio alla fede sportiva di Clorindo, e anche per far capire di non aver badato a spese, lo aveva poi impreziosito mettendogli addosso una maglietta di Del Piero. Sonia era, diciamo così, quel tipo di ragazza che non è migliore di come dovrebbe essere. I suoi studi si erano interrotti in coincidenza con la pubertà e viveva della pensione e dell’indennità di accompagnamento della mamma, invalida da molti anni. Arrotondava poi il magro


assegno accompagnando, più che la mamma, generosi commercianti e professionisti a fiere e congressi. Qualche mese prima, di ritorno da una delle sue trasferte, aveva trovato mamma che, serenamente come era vissuta, durante il sonno aveva reso il suo spirito al Padre. Come chiunque in quella situazione, Sonia, ormai sola al mondo, iniziò a disperarsi. Lo strazio del simultaneo addio alla mamma, alla pensione e all’indennità di accompagno era troppo forte anche per il suo animo temprato da una sorte non sempre benigna. Donna dalle mille risorse, non tardò a riprendersi e iniziò a valutare le possibilità riservatele dal futuro. La più allettante era quella di trovarsi un marito facoltoso. Ma contro questa possibilità remavano la sua età e quel passaparola maschile – fatto di allusioni più o meno sottili e di riscontri a volte grossolani – che aveva fatto da tempo il giro dei pochi facoltosi single del circondario. La seconda consisteva nello svuotare il grande congelatore, solo un po’ ammaccato su di un lato, regalatole da un commerciante di elettrodomestici. Quel freezer avrebbe potuto accogliere decorosamente le spoglie di mamma in attesa di un miglioramento delle sue finanze. Nel frattempo faceva conto di raggranellare qualche soldo in più dai suoi viaggetti, accettando, ora che mamma era autosufficiente, anche quelli di medio periodo. Sonia, che da anni incassava la pensione grazie alla sua delega, decise di congelare la situazione; tanto mamma non riceveva più visite da molto tempo e non usciva mai di casa. Depostala nel suo provvisorio loculo – in cui, grande com’era, sarebbe rimasto spazio anche per i surgelati – aveva

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cominciato subito a guardarsi in giro, senza lasciarsi abbattere dai primi deludenti risultati. Indossato il suo abito migliore, si era recata con pensiero positivo al matrimonio di Floriana, che nulla sapeva, ovviamente, delle tre o quattro volte in cui lei aveva accompagnato Clorindo nei suoi viaggi di lavoro. Erano ormai passate quasi tre pensioni dalla dipartita di mamma quando Sonia prese posto al tavolo Pago Pago accanto ad Oronzino. Tratto da “ La Ricetta del merlo sottosale� Tempo di lettura 4 minuti

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Il frullo della mano Giuseppe Alemanno A Mimmo Modugno

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Io vivo in una casa come tante altre. Niente di speciale. Il mio papà spesso non c’è, la mia mamma spesso è distratta. Sempre troppe cose da fare. Sempre un’altra camicia da stirare, sempre un’altra stanza da pulire, sempre qualcosa da mettere a posto. Lei pulisce, stira e mette a posto canticchiando delle canzoni che vengono da un mangianastri un po’ rotto. Sono canzoni italiane abbastanza sdolcinate dalla melodia semplice e orecchiabile. Quando le canta, a volte, mia madre si interrompe per dirmi che l’interprete è il tale o il tal altro e che la canzone si intitola così e così. Quando papà è in casa è quasi come quando è assente. Dice poche parole e ha sempre la faccia cupa. Anche la mamma parla meno e non canta, quando papà è in casa. Quando papà è in casa guarda la televisione. A volte, ma è una cosa molto rara, usciamo tutti insieme. Papà prende la macchina e andiamo verso il centro. È uno spasso quando papà si arrabbia con gli altri automobilisti. Con tutti! Sembra che tutte le auto complottino contro di lui. E lui urla, sbraita, fa le facce brutte. Madonna, che combina! La mamma gli dice sempre di non comportarsi così davanti al bambino (che poi sarei io) perché si impressiona. Mi impressiono? Ma se io mi diverto come un pazzo! Quando papà poi si mette alla ricerca di un parcheggio è l’apoteosi. Non ce la faccio a spiegare con le parole quello


che combina. Cerca di entrare in tutti i buchi, in tutti gli spazietti più angusti, in tutti i modi, a muso in su e a muso in giù, con le gomme davanti sul marciapiede e quelle di dietro sull’asfalto, o tutto all’incontrario. Oppure alla sghimbescio, alla come viene-viene. In qualche modo, alla fine, riusciamo a fermarci e a scendere dalla macchina. Mamma e papà girano per il centro e guardano le vetrine. Leggono i prezzi. Li confrontano. Per un po’ ne parlano poi, io me ne accorgo, a papà viene fuori una certa ruga e i discorsi finiscono lì. È una ruga che ho imparato a conoscere. Parte da sotto l’occhio sinistro e, verticale, arriva all’angolo sinistro della bocca fino a piegarlo in giù. Allora passeggiamo soltanto per il paese. Papà e mamma smettono di guardare le vetrine e rimangono zitti. È quello il tempo delle mie parole. Racconto della scuola, dei miei amici, degli avvenimenti della classe, di qualche buffo supplente sul quale si può dire qualche sciocchezza in più perché, tanto, a fine anno va via. Mamma e papà mi guardano prima un po’ sorpresi. Ci mettono un certo tempo ma poi ridacchiano anche loro con me. Mi danno corda. Io a volte fornisco delle risposte intelligenti, a volte sorprendenti, a volte stupidissime. Faccio quasi il pagliaccio. Gli faccio passare la serata. Lotto contro i numeri delle vetrine. Non so se vinco o perdo, ma per lottare, lotto. Quella era la normalità della nostra vita familiare. Le cose cambiarono. Sulle prime non capii cosa fosse accaduto, percepivo solo qualcosa di negativo. Poi capii. Papà aveva perso il lavoro. Probabilmente per colpa sua.

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Aveva fatto qualcosa di grave. Non so cosa, ma qualcosa aveva combinato. Io sono piccolo ma difficilmente sbaglio nelle opinioni che mi faccio. Di papà avevo una ottima opinione. Se qualche colpa aveva era imputabile a debolezza, non certo ad indole delinquenziale. Ma la mia era una opinione partigiana. Come potevo avere una opinione negativa di chi mi aveva fatto saltare sulle ginocchia, accompagnato i miei primi passi, riso alle mie prime sillabe, passato notti insonni a guardia delle mie febbri infantili? E poi, chi lo ha detto che ogni papà deve essere per forza un eroe senza macchia e senza paura? Io, al mio, gli volevo bene così com’era, giusto o sbagliato che fosse. La situazione economica di casa mia, che non era stata mai buona, drammaticamente precipitò. La cupezza di papà divenne un abisso ed anche mia madre scoppiò. La casa divenne un inferno. Tremavo quando tornavo da scuola. Il tempo del pranzo (sempre più arrangiato) ospitò il festival delle urla, delle accuse, delle offese. A volte il pranzo (sempre più arrangiato) si concludeva con l’esibizione dei piatti volanti. Il pranzo (sempre più arrangiato) era diventato un incubo. Fu allora che sentii parlare per la prima volta di avvocati, cause, udienze, giudici, condanne, appelli. Non so bene cosa significassero quelle parole ma avevo capito che erano termini che nascevano tutti dall’esercizio della giustizia. Un giorno che la mamma non c’era chiesi delle spiegazioni a papà. Era meglio chiedere quando la mamma era assente altrimenti rischiavo una riedizione del festival dello strillo


e che la squadriglia dei piatti volanti si rimettesse in azione. - Papà… - Eh? - Senti papà… - Dimmi. - Ma che sta succedendo dentro casa? Fece un cenno vago, come un frullo della mano nell’aria. - Allora - È un periodo così. E che caspita di risposta era questa? Ma forse ero stato io ad aver fatto male la domanda. Forse avevo preso papà dal verso sbagliato. - Papà… - Eh? - Che cosa è la giustizia? Niente ‘frullo’ questa volta. Mi guardò dritto negli occhi. - Io non so che cosa è la giustizia. - E la verità, papà, che cos’è? - Non credo che sia una ‘cosa’, e non credo neanche che esista. - Come papà, non esiste la verità? - Secondo me non esiste UNA verità. - E quante ce n’è? Come risposta rifece il gesto del ‘frullo’. - Quante verità ci sono, papà? - Ti faccio un esempio… Mi piaceva quando papà mi faceva dei ragionamenti. Era uno che, quando voleva, ci sapeva fare con le parole. - Ammettiamo che tu esca mentre piove. Che fai?

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- Mi bagno. - Bene, però tu hai un ombrello. Che fai? - Lo apro! - E che succede? - Che non mi bagno più. - Allora? Quale è la verità? Piove o non piove? - Bhè…- risposi – piove, ma sotto l’ombrello non piove. - Perfetto, tu col tu ombrello aperto vai fino alla macchina e ci sali dentro. Che succede ora? - Che fuori piove e in macchina no. - Giusto, ora tu parti con la tua automobile ed entri in una galleria. E mò? - In macchina non piove e fuori non piove. Però piove… - Ecco, sei arrivato. Quale è la verità? Piove o non piove? Quale è la VERITA’ GIUSTA: quella tua, prima piccola quanto un ombrello e poi grande come una galleria, ma comunque tua, parziale, privata, o quella grande, generale, di tutti, cioè che PIOVE? Rimasi senza parole. Quale era la verità? Cosa era giusto? Pioveva o non pioveva? Ebbi il presentimento che papà parteggiasse per la pioggia e che fosse rimasto invischiato in un complotto ordito da gente asciutta. Il tempo passò. Papà per raddrizzare la sua e la nostra vita andò a lavorare nel Nord Italia. I problemi con la giustizia secca si stemperarono, si allungarono, divennero un ricordo. Forse anche la giustizia dei tribunali aveva preso un po’ di umidità. Così papà tornò.


Anche il rapporto familiare tornò ad essere accettabile. Solo ogni tanto c’era la riedizione del festival squarciagola ma la squadriglia dei piatti volanti era stata messa a riposo. La mamma ogni tanto rideva e cantava (ma anche lei, come i pranzi di una volta, si arrangiava). Avevamo ripreso ad uscire. I problemi di viabilità e di parcheggio erano sempre gli stessi. Ma ora i numeri delle vetrine sembravano avversari contro cui qualche volta si poteva pure vincere. Io frequento ancora la scuola. Studio abbastanza da essere tra i primi della classe senza essere antipatico a nessuno. Ho imparato ad ascoltare le canzoni che canticchia la mamma. Ce n’è una che mi piace particolarmente. La canta un signore dai baffetti sottili e la faccia da simpatico malacarne. Non so come si chiami questo signore, né so come si intitoli la canzone. Ma è una canzone bella soprattutto quando fa: “…MA PIOVE, PIOVE, SUL NOSTRO AMOR…” Tempo di lettura 7 minuti

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- Vigliacchi, due contro uno, voi siete due guardie e noi un corteo solo! “Il Candido� (4 novembre 1969)


(F. De Andrè)

P OT PH OTO OR Raaff ffae aeelll a Ca aell C ls l o

“..per esempio i pescatori, che hanno la faccia solcata da rughe che sembrano sorrisi e, qualsiasi cosa tu confidi loro, l'hanno già saputa dal mare..”

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