"Il green Marketing e i social media per migliorare la relazione tra brand e consumatore"

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"IL GREEN MARKETING E I SOCIAL MEDIA PER MIGLIORARE LA RELAZIONE TRA BRAND E CONSUMATORE.

CASE HISTORY : TIM TRIBÙ E IL PROGETTO “COME SUONA IL CAOS”.

STUDENTE : Micaela Fiorito

RELATORE: Chiarissimo Prof. Tony Gherardelli CORRELATORE: Chiarissimo Prof.Alberto Maximo Zevi A.A. 2008‐2009 1


"I am convinced that the future of humanity can be assured only through a balance of scientific progress and spiritual depth." Kazuo Inamori Founder of the Kyoto Prize 2


Indice Introduzione

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CAPITOLO 1

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SCENARIO DI UNA RIVOLUZIONE ANNUNCIATA

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1.

Lo scenario della Green Economy, e le opportunità per uscire dalla crisi economica internazionale 11 1.1 Il movimento ambientalista e le associazioni non governative .

2.“Gli strumenti per un cambiamento radicale” 2.1 I sistemi di gestione dell’impatto ambientale dettati dalla regolamentazione Europea

18 20 20

2.2 Il Life Cycle Management e l’ Eco‐design : i concetti guida per la produzione di prodotti e servizi. 23 2.3 Cosa sono I prodotti ecologici?

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2.4 Cosa sono I servizi ecologici?

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3. L’impresa tra CSR, triple bottom line e sviluppo sostenibile.

26

3.1 Le opportunità dello Sviluppo Sostenibile

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3.2 I benefici di una politica di Responsabilità Sociale d’impresa.

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CAPITOLO 2

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IL MARKETING NELLO SPECCHIO DEL “GREEN”

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1.

La CBBE e i nuovi approcci di marketing suggeriti dalle nuove tecnologie.

1.1 Dalla CBBE alla Reputazione 1.2 Dal marketing al societing per un mercato sostenibile 2.La matrice del successo: il green marketing , le imprese e le persone

35 39 42 45

2.1 Verde, più verde, verdissimo

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2.2 Il greenwashing e il boicottaggio

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3.Il consumatore “critico”: dati e ricerche per un insight sul target “green”

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3.1 Il punto di vista dei giovani

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3.2 Il paradosso del “consumatore green”

68 3


CAPITOLO 3

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I SOCIAL MEDIA COME CANALE PREFEREZIALE PER LO SVILUPPO DELLA RELAZIONE TRA BRAND E CONSUMATORE

72

1.

Comunicazione e marketing: evoluzioni graduali al vaglio della postmodernità.

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1.1 Il brand e le tribù dei consumatori

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1.2 Dal Brand DNA al Viral DNA

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1.3 Il valore della comunicazione virale: dagli “influencers” alla diffusione di massa.

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2 Le opportunità offerte dal web per la comunicazione ambientale .

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2.1 Il mercato come conversazioni : gli strumenti e gli usi dei social media

88

2.2 .Come trarre vantaggio dai social media

94

3 I social media e il green marketing : un innovativo binomio strategico 3.1

Esempi all’incrocio tra social media e sostenibilità

99 100

CAPITOLO 4

105

CASE HISTORY: TIM Tribù e “Come suona il caos?”

105

1.

2.

Il contributo del settore delle TLC nella creazione di nuove prospettive di Sostenibilità Ambientale 105 1.1

VODAFONE ITALIA

107

1.2

3 ITALIA

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1.3

TELECOM ITALIA

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Tim Tribù e “ Come suona il caos?”

113

2.1 Il seeding e lo sviluppo della campagna

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2.2 I risultati acquisiti dalla campagna: monitoraggio e misurazione

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2.3 La competizione tra due progetti di comunicazione: “Come suona il caos?” versus “Come suonano i sogni” 125 3.Tim Tribù e “Come suona il caos?” e la matrice di Grant

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Conclusioni

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Bibliografia

130

Sitografia

136 4


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Introduzione

Nell’ultimo decennio abbiamo assistito all’espressione, sempre più apprezzabile da parte della società, di nuove istanze nei confronti del territorio e dell'ambiente. Molti di noi, nella nostra dimensione pubblica e privata, manifestano sempre più spesso l’esigenza di tutelare e preservare l’ecosistema naturale in cui viviamo, per poter consegnare alle generazioni future un ambiente migliore ‐ o almeno non peggiore ‐ di quello che abbiamo trovato quando siamo arrivati in questo mondo. I dubbi su un progresso tecnologico incondizionato e una crescita economica illimitata, già presenti in realtà sin dagli anni ’60‐70 del secolo scorso, al giorno d’oggi esplodono in una serie di deprimenti certezze, spianando la via ad una domanda sempre più forte ed articolata di sviluppo sostenibile . I problemi di inquinamento e tutte le problematiche ambientali di carattere più generale sono questioni complesse che necessitano interventi di carattere internazionale. Ed è per questo motivo che gli Stati sono chiamati ad unirsi in un impegno collettivo affinché tutelino e ottemperino i diritti fondamentali dei loro cittadini. La ratifica del “Protocollo di Kyoto”, accordo internazionale in materia ambientale entrato in vigore il 16 febbraio 2005, è stato il primo strumento di attuazione della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, che ha vincolato i Paesi firmatari alla riduzione delle emissioni dei gas serra del 5,2% nel periodo 2008 – 2012 rispetto alle emissioni del 1990. Il processo di ratifica del protocollo è stato guidato dalle prospettive climatiche dei prossimi 25 anni: infatti numerosi istituti di ricerca a livello internazionale da tempo concordano nell’affermare che i consumi energetici aumenteranno del 45%, sostenuti particolarmente dallo sviluppo di Cina e India. Il progresso scientifico sta indicando concrete prospettive per la configurazione di un pianeta alimentato da nuove risorse energetiche come quella solare, eolica, ed altre fonti alternative. È diffusa la convinzione che nell’immediato futuro,tuttavia, gli idrocarburi resteranno la risorsa principale per soddisfare bisogni energetici sempre crescenti, e in tal modo, si potenzia il rischio di non riuscire a raggiungere gli obiettivi prefissati dal Protocollo di Kyoto. In questa cornice si colloca l'attività delle imprese. L'industria e le aziende che stanno gradualmente prendendo coscienza degli impatti ambientali derivanti dalle loro attività devono impegnarsi per uno sviluppo sostenibile senza però dimenticare la finalità del profitto economico. Ovunque, chi è a capo di istituzioni ed aziende si trova davanti ad una opportunità unica: trasformare il mondo e il modo in cui funziona il mercato. E la crisi dei mercati finanziari ci ha dato un segnale d’allarme sulla natura e i rischi di un mondo complesso e globalizzato. Altri segnali si sono succeduti negli ultimi anni in relazione ai cambiamenti climatici, all’energia, alle filiere alimentari, alla sanità:tutti grandi temi legati alla realtà dell’integrazione globale. Ecologia ed economia diventano quindi un binomio legittimo ed idoneo ad ispirare la strategia e la gestione delle imprese. 6


Nel primo capitolo di questo lavoro viene presentato lo scenario di una rivoluzione industriale e culturale pregnante, dettata dall’emergenza ambientale e dalla diffusa inefficienza (intesa come spreco di risorse naturali, energetiche ed economiche) dei sistemi produttivi occidentali. Vengono introdotti i concetti di Corporate Social Responsibility, Triple Bottom Line, Life Cycle Assessment, Ecolabel, e numerosi altri strumenti legislativi e manageriali che contribuiscono a reindirizzare le politiche economiche degli attori di mercato. Nel secondo capitolo viene ripercorsa una sequenza di concetti della letteratura di marketing che attengono ai tradizionali metodi di costruzione della brand equity: dalla piramide della Customer Based Brand Equity (Keller, 2005) al valore della reputazione del brand, dal marketing tradizionale al societing (Fabris,2008)‐ che esalta il protagonismo del consumatore rispetto alle strategie di business e la dimensione sociale in cui avvengono le pratiche di consumo ‐ fino al green marketing, come panacea del marketing quanto mai attuale. Per affrontare il tema del green marketing mi sono ispirata al lavoro di John Grant, esperto mondiale di marketing verde, e consulente indipendente per Ikea, Sony Ericsson, Lego e Unilever. Nel suo libro, "Green Marketing Manifesto"(2009) 1 , l’autore ha espresso i criteri per orientare le strategie di marketing in una nuova direzione (quella del nuovo marketing appunto), ed adattare le politiche aziendali ad una rinnovata visione dell'economia, del consumatore e dei prodotti. Il libro propone il tema del “green marketing” come un'opportunità creativa, un'innovazione che fa la differenza e al tempo stesso raggiunge il successo economico. Grant delinea tre approcci principali per questo nuovo marketing verde: 1. Green (verde): in cui società e mercati danno l'esempio, sviluppano prodotti eco‐sostenibili e stabiliscono nuovi standard produttivi, ponendo molta attenzione alla comunicazione delle loro attività; 2. Greener (più verde): consiste nel stimolare la nascita di brand tribali che mirino a sviluppare nuove abitudini d'uso dei prodotti, in questo caso sviluppati in collaborazione con i consumatori; 3. Greenest (verdissimo): consiste nel cambiare gradualmente l'assetto dell'economia, attraverso la creazione di nuovi business concept e brand che assolvono alla funzione di “cavalli di troia”; questo approccio punta all'innovazione e al ri‐modellamento della cultura d'impresa. L'urgenza di autodisciplina delle organizzazioni rispetto ai danni ambientali derivanti dalle loro attività produttive, le spinge a cogliere l’istanza della sostenibilità ambientale investendo in programmi di comunicazione che evidenzino l'approccio etico dei vertici amministrativi. Spesso però queste iniziative si rivelano chimere utili solo a dare un tocco di verde all’immagine del brand, e meno frequentemente rispecchiano un impegno serio e sostanziale. Questo è ciò che si intende quando si parla di “greenwashing”, ed è purtroppo un’etichetta attribuita alle imprese da associazioni e/o consumatori attivisti sul fronte ambientalista, per evidenziare i goffi tentativi di aumentare il valore delle loro iniziative commerciali.

1

J. Grant, “Green Marketing Manifesto”, Brioschi Editore, 2009

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E i consumatori, come descritti da numerose ricerche citate all’interno del secondo capitolo, dimostrano di essere sempre più consapevoli ed attenti alle scelte e alle politiche delle imprese presenti sul mercato, premiando con la loro preferenza e fedeltà, quelle che hanno saputo meglio evidenziare l’adozione di un approccio responsabile e sostenibile sincero. Le tematiche ambientali non sono però i soli vettori che stanno cambiando i parametri per la conquista di un vantaggio competitivo sul mercato: le imprese devono oggi fare i conti anche con la sempre maggiore apertura dei canali di comunicazione operata dalle nuove tecnologie. Il web 2.0 (fenomeno esploso nel 2001, all'indomani della bolla delle "dot com")infatti, sta veicolando nuovissime modalità di interazione tra brand e consumatore, condizionando il management a ri‐focalizzare gli asset strategici sulla reputazione e la credibilità delle imprese. Il terzo capitolo ci introduce all’esplorazione dei nuovi canali di comunicazione abilitati da internet e dal web collaborativo, mostrando strumenti(blog,forum,wiki,RSS,tag, social network, community ecc) , peculiarità (a cosa servono?) ed opportunità (come contribuiscono ai risultati dell’impresa?) offerte da queste tecnologie ai fini del marketing, in un’ottica di valorizzazione della relazione con il consumatore e dell’innovazione dei processi produttivi. Sulla constatazione del fenomeno delle community intese come tribù di consumatori appassionati e fidelizzati dal brand, viene evidenziato anche l’approccio del marketing tribale promosso da Bernard Cova, sul quale, con una chiave di lettura molto pertinente alle dinamiche del web, Alex Giordano e Mirko Pallera hanno rielaborato e riadattato le strategie di marketing non convenzionale . Internet e i social media rivelano il loro altissimo potenziale come strumenti atti a favorire la costruzione della relazioni e dell’affinità con i consumatori, trasformando radicalmente l’approccio del marketing e suggerendo all’impresa di aprire le porte della propria reggia e agevolare la comunicazione diretta con i consumatori. Le conversazioni (buzz) che gli utenti sviluppano intorno a brand, prodotti e servizi (spesso al di fuori della loro supervisione), diventano affari delicati e di estrema importanza per le imprese, che si ritrovano strette tra imprevedibili comunicazioni di crisi, o sul podio del mercato, nell'arco di tempo di una pausa pranzo. In questo capitolo viene inoltre esposto il metodo di lavoro di una delle più importanti società di consulenza nel settore delle tecnologie, ovvero la Forrester Research, che proprio nel 2008 ha per prima sistematizzato ed elaborato degli strumenti di gestione molto utili per le iniziative di social media marketing . Nel quarto capitolo infine, vengono brevemente presentate le attività svolte dai tre competitor italiani del mercato delle telecomunicazioni ‐ Vodafone Italia, 3Italia e il Gruppo Telecom Italia ‐ per evidenziare la profondità dei loro contributi e i differenti approcci possibili rispetto al green marketing. Il focus sul settore delle Telecomunicazioni non è una scelta casuale: infatti, fonti autorevoli individuano l’industria delle telecomunicazioni come potenzialmente più adatta a stimolare la riduzione di emissioni di Co2 attraverso la diffusione delle infrastrutture di rete e di servizi orientati alla riduzione della mobilità (videoconferenze, processi di dematerializzazione, etc.). Si consideri, inoltre, che l’industria delle telecomunicazioni rappresenta il motore delle innovazioni tecnologiche (mi riferisco in particolar modo al contesto Italiano) ed il core business che le distingue ‐ e che abilita noi cittadini all’adozione di nuove modalità di comunicazione ‐ è il frutto di una visione imprenditoriale che fa della connettività tra gli individui la sua missione originaria. 8


Nell’ultimo capitolo viene descritta la case history della campagna di comunicazione “Come suona il caos?”, promossa da Tim Tribù all’interno del progetto Street Academy. La campagna web di questa iniziativa è stata curata dall’agenzia di comunicazione Ninjamarketing, che ha elaborato una strategia integrata di viral e buzz marketing per la sensibilizzazione sul tema del riciclo dei rifiuti. La campagna è di particolare interesse non solo perché rappresenta una delle campagne web italiane più valide ed efficaci nel settore della comunicazione ambientale degli ultimi anni, ma anche perché coinvolge il target dei teenager, che hanno particolare affinità con il mezzo internet e risultano essere particolarmente sensibili alle tematiche ambientali. Il cuore della campagna “Come suona il caos?” è costituito dallo sviluppo di un format di edutainment diffuso sulle principali piattaforme di social networking, realizzato attraverso 25 video‐lezioni sulla creazione di strumenti musicali da materiali di riciclo. Le lezioni hanno visto come protagonista il musicista Capone, che è diventato testimonial ufficiale del progetto. La documentazione della case history è completata dalla presentazione dei risultati della campagna web, il cui monitoraggio è stato curato dell’agenzia anglo‐italiana Viral Beat e dell’agenzia italiana Ninjamarketing (che hanno gentilmente concesso la visione del report finale della campagna), a cui vanno i miei più sentiti ringraziamenti per lo spirito collaborativo e la disponibilità dimostrata. I contributi citati in questo capitolo dimostrano che le imprese scelgono modalità differenziate per affrontare la “triple base” della sostenibilità, e affrontano le tematiche del cambiamento climatico, dell’inclusione e dello sviluppo sostenibile proponendo soluzioni peculiari e affini alla propria identità. Il Gruppo Telecom Italia e TIM, hanno dimostrato meglio dei loro concorrenti di mercato, di saper cogliere le opportunità della green economy e guardare al futuro con un approccio responsabile e innovativo. .

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CAPITOLO 1 SCENARIO DI UNA RIVOLUZIONE ANNUNCIATA

1. Lo scenario della Green Economy, e le opportunità per uscire dalla crisi economica internazionale Osservando il mainstream dei media , la stampa economica e la blogosfera – emerge in modo evidente che il tema dell'eco‐compatibilità delle pratiche commerciali ha raggiunto un punto critico di rilevanza. Il martellamento quotidiano di notizie, iniziative e campagne pubblicitarie “green” è infatti cresciuto notevolmente negli ultimi anni. Difficilmente passa una settimana, senza aver notizia dell’impegno di una azienda, di una nuova tecnologia , di una nuova partnership per affrontare le sfide ambientali, o una nuova scoperta da un organo governativo, o dei progressi compiuti da un laboratorio universitario o di ricerca. Bisognerebbe però fare attenzione alla distinzione tra sviluppo e progresso, due concetti tendenzialmente vicini tra loro, ma distanziati da una sottile, seppur decisiva differenza. Per questo motivo sarebbe giusto chiedersi: “ cosa sta succedendo realmente?” “tutti questi cambiamenti impatteranno come una svolta epocale nel mondo degli affari, o servono semplicemente a lavarsi la coscienza? E , cosa più importante: tutto questo può fare la differenza per l'ambiente? Non ci sono dati sufficienti per mostrare come le aziende stanno mettendo in atto questo cambiamento, a livello aggregato, per spostare l'ago su questioni come il cambiamento climatico, la riduzione di sostanze tossiche, la conservazione dell'acqua e l'efficienza delle risorse In alcuni casi, è quasi impossibile dire se gli indicatori dei progressi si stanno muovendo in avanti o indietro. Le imprese stanno agendo secondo parametri di sostenibilità ed efficienza, ma solo in modo incrementale, e buona parte dei loro guadagni sono compensati da un'economia in costante crescita. Così, mentre le emissioni di gas ad effetto serra possono essere tagliate, vendute o compensate, lo sviluppo economico porta comunque a considerare queste emissioni sostanzialmente invariate. Nonostante i risultati siano ancora evidentemente contrastanti, potremmo comunque salutare con spirito ottimistico l’inizio di un nuovo periodo di profondi cambiamenti per l’industria e per le società che si rendono maggiormente consapevoli rispetto alle emergenze ambientali globali. “Potremmo comparare ciò che sta accadendo oggi al pianeta alla crescita di un bambino nel grembo materno; è un sottosistema della madre, totalmente dipendente da lei. La nascita

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rappresenta il momento in cui il bambino ha raggiunto il limite di accoglienza da parte della madre. Una ulteriore crescita all’interno dell’utero mette in serio pericolo la vita di entrambi.” 2 Similmente, l’economia globale dipende completamente dalla natura per le materie prime, l’energia, e servizi indispensabili come l’acqua e la purificazione dell’aria, la fertilità del suolo, e l’assorbimento dei rifiuti. Quando l’economia raggiunge una certa dimensione, una ulteriore crescita metterebbe a rischio sia il sistema che il sottosistema. Nel linguaggio dell’economia questo significa che la crescita è diventata “non economica”. In casi estremi, una economia che cerca di crescere oltre una certa dimensione che la biosfera può sopportare, può semplicemente distruggerla. Per questo motivo l’economia deve correre ai ripari e cercare una nuova scala su cui dimensionarsi. Le aziende da un lato, e gli individui (consumatori) dall’altro, stanno lentamente integrando questa nuova consapevolezza nelle loro pratiche quotidiane, le prime, allineando i valori “green” alle strategie di impresa e quindi ai loro obiettivi di bottom‐line, e i secondi, ponendo maggiore attenzione ai loro acquisti e ai loro comportamenti all’interno delle proprie comunità. Temi come le energie rinnovabili, i prodotti eco‐compatibili e l’eco‐sostenibilità del sistema produttivo, che al giorno d’oggi occupano l’agenda dei media, fino a qualche anno fa erano preoccupazioni di pochi idealisti e sognatori riuniti nella lotta per la difesa dell’ambiente. La questione green infatti non è una querelle di nuovo approdo. Già durante gli anni ‘60 e ‘70 diversi lavori contribuirono ad allargare il dibattito sulle tematiche di sostenibilità, sia offrendo nuovi impianti teorici per l’analisi, sia divulgando idee e proposte all’opinione pubblica internazionale. Basti ricordare il “ Rapporto sui limiti dello Sviluppo”, meglio noto come “Rapporto Meadows”, redatto dal Club di Roma 3 e pubblicato nel 1972, il quale lanciava l’allarme sulla limitata disponibilità di risorse naturali ‐ specialmente petrolio – e la capacità di assorbimento delle sostanze inquinanti da parte del pianeta , come variabili che avrebbero dovuto contenere la crescita economica futura. La crisi petrolifera del 1973 attirò ulteriormente l'attenzione dell'opinione pubblica su questo problema.

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Gary Gardner and Thomas Prugh, “State of the world” (pag 9) Worldwatch Institute, 2008 Il Club di Roma fu fondato nell'aprile del 1968 dall'imprenditore italiano Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese Alexander King, insieme a premi Nobel, leader politici e intellettuali, fra cui Elisabeth Mann Borgese. Il nome del gruppo nasce dal fatto che la prima riunione si svolse a Roma, presso la sede dell'Accademia dei Lincei alla Farnesina. Il Club di Roma è un think thank , un’associazione non governativa, non‐profit, che riunisce scienziati, economisti, uomini d'affari, attivisti dei diritti civili, alti dirigenti pubblici internazionali e capi di stato di tutti e cinque i continenti. La sua missione è di agire come catalizzatore dei cambiamenti globali, individuando i principali problemi che l'umanità si troverà ad affrontare, analizzandoli in un contesto mondiale e ricercando soluzioni alternative nei diversi scenari possibili. L’impianto teorico de I Limiti dello Sviluppo è basato sulle ricerche di un gruppo di studiosi di dinamica dei sistemi del MIT (Massachusset Institute of Technology). Sito internet del Club di Roma: http://www.clubofrome.org/eng/home/ 3

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Nel 1979 viene pubblicato “Gaia. A New Look at Life on Earth”, scritto da James Lovelock 4 , un biologo britannico che proponeva di considerare le diverse componenti geofisiche del pianeta (l’atmosfera, gli oceani, la crosta terrestre) come parti di un complesso sistema interagente: un unico grande organismo che Lovelock chiama Gaia, dal nome della divinità greca rappresentazione della Terra. Le teorie di Gaia vennero criticate da più parti, sia perché considerate come una sorta di religione new age, sia perché il fatto che Gaia sarebbe stata in grado di fare fronte a ogni modificazione imposta dall’esterno (e quindi anche dall’uomo) avrebbe giustificato qualsiasi azione distruttiva nei confronti degli ecosistemi. Allo stesso tempo però, fu recepita in numerosi ambienti accademici e non, come dimostra la Dichiarazione di Amsterdam del 2001 in occasione della Global Change Open Science Conference che riuniva i grandi progetti di ricerca internazionale nel campo della sostenibilità. La Dichiarazione cita infatti tra i punti fermi della ricerca scientifica il seguente: “Il sistema Terra funziona come un unico sistema autoregolato comprendente componenti fisiche, chimiche, biologiche e umane”. Insieme a queste ricerche, potrei citarne numerose altre, che hanno contribuito a consapevolizzare i decisori pubblici, i governi, i cittadini e gli imprenditori sui temi dell’emergenza ambientale, ma non credo sia questa la giusta sede per argomentare i profondi cambiamenti demografici e geologici che investono il nostro pianeta. Le preoccupazioni sorte negli anni ’70 sono state recentemente confermate da numerosissimi studi in campo internazionale, tra cui forse il più noto sono i report prodotti dall’ Intergovernmental Panel sui Cambiamenti Climatici 5 , organo di ricerca patrocinato dal l’UNEP (United Nation Environment Programme) e dal World Metereological Organization (WMO). Inoltre alcuni tra i lettori di questa tesi probabilmente ricorderanno il documentario “An Inconvenient Truth” 6 (Una verità scomoda, 2006 ), che vede l’ex vicepresidente degli Stati Uniti, Al Gore, spiegare come il riscaldamento globale stia cambiando il volto del nostro pianeta e quali sono i rischi ambientali che le attività industriali e le pratiche di consumo stanno generando a danno della comunità mondiale. L’emergenza ambientale è dunque una realtà che nessuno stakeholder di mercato, né tantomeno i cittadini possono continuare ad ignorare, pena la probabile distruzione di un ecosistema che ci ospita da millenni, e di cui spesso ci siamo appropriati in modo incosciente e sconsiderato.

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si vedano le tesi di J.Lovelock, “La rivolta di Gaia”, Rizzoli Editore‐ Secondo la teoria di J.Lovelock, la terra sarebbe un super‐organismo in grado di autoregolamentarsi attraverso meccanismi di feedback in modo da mantenere le condizioni adatte al proseguimento della propria vita. Cio’ sarebbe dimostrato dalla relativa costanza attraverso i secoli di variabili fondamentali alla vita come la temperatura, la salinita’ dei mari e la composizione chimica dell’atmosfera. 5 INTERGOVERNMENT PANEL ON CLIMATE CHANGE AND WATER : http://www.ipcc.ch/ 6 Sito ufficiale del documentario “An Inconvenient Truth” http://www.climatecrisis.net/

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Fig.1 : Mappatura dei possibili danni derivanti dall’aumento della temperatura sulla Terra.

Fonte: Met Office ‐ UK’s National Weather Service http://www.metoffice.gov.uk/climatechange/guide/effects/high‐ end.html

Gli effetti della crisi mondiale hanno spinto governi ed imprese ad abbracciare la causa ambientale considerandola l’unica vera strada per uscire da una situazione di stallo dei mercati e del sistema economico nel suo complesso. E sono sempre di più le aziende che cominciano a scoprire la valenza strategica dell’investire in tecnologie che in qualche modo liberino il mondo dalla dipendenza del petrolio, sfruttino al massimo le cosiddette energie rinnovabili e diano un contributo significativo alla salvaguardia dell’ambiente. C’è da dire che non si tratta di mero filantropismo o di eco‐sensibilità, gli imprenditori annusano nell’aria (pulita) una concreta profittabilità nell’investire in questi settori. Ecco per quali motivi, dunque,ha preso il via questa corsa alla cosiddetta “Green‐Economy”. Con questo termine ci si riferisce ad un paradigma manageriale e commerciale che privilegia l’impatto ambientale come indicatore imprescindibile della genuinità delle operazioni messe in atto da imprese ed organizzazioni. L’ambiente però non è l’unica piattaforma con cui bisogna confrontarsi. Certamente cresce la necessità di rendere l’economia più armonica con l’ecosistema, ma farlo comporta una meravigliosa creatività, conoscenza specialistica, e l’allargamento della partecipazione di tutti gli individui. I comportamenti umani e I lavoratori non possono essere ancora ingranaggi del meccanismo dell’accumulazione, sia che esso sia capitalista o socialista. Lo sviluppo sostenibile richiede anche un progresso culturale e l’estensione della democrazia, perché le trasformazioni sociali ed economiche sono fenomeni strettamente correlati. La Green economy enfatizza la creazione di alternative positive in tutti i settori dell’economia e della vita. Il settore pubblico e privato devono essere trasformati in modo tale da consentire al 14


mercato di esprimere valori sociali ed ecologici, e che lo stato incominci ad avvicinarsi ai network di innovazione creata dal basso, delle community (locali o virtuali). Gli USA, responsabili del 29% di emissioni globali di CO2 (dati diffusi dal World Resources Institute 7 ), dove la scampata crisi del petrolio, insieme alla campagna elettorale del Presidente Barack Obama , che ha fatto dell‘eco‐sostenibilità uno dei suoi cavalli di battaglia ed anche l’oggetto dei suoi primi interventi come presidente per il sostegno all’ industria automobilistica americana 8 , hanno dato un notevole slancio all’adozione di nuove politiche produttive.

"So we have a choice to make. We can remain one of the world's leading importers of foreign oil,or we can make the investments that would allow us to become the world's leading exporter of renewable energy. We can let climate change continue to go unchecked, or we can help stop it. We can let the jobs of tomorrow be created abroad, or we can create those jobs right here in America and lay the foundation for lasting prosperity." USA President Obama, March 19, 2009

Si sta verificando quindi, non solo oltreoceano, ma, ciò che più ci interessa, anche in Europa, una sovrapposizione, apparentemente inedita, tra esigenze economiche ed ecologiche che potrebbe generare un meccanismo virtuoso di re‐assessment delle imprese e dei modelli di governance. Analizzando lo scenario informativo relativo alla “green economy”, si nota un crescente parallelismo con la politica di interventismo pubblico americana che a seguito della grande crisi del ’29, spinse il presidente Franklin Roosevelt a pianificare una serie di riforme economiche e sociali che vanno sotto il nome di “New Deal”, e che adesso sono modello di riferimento, adeguatamente rivisitato e tarato sulle esigenze ambientali , per la politica internazionale. È possibile quindi parlare del “Green New Deal” 9 come un orientamento politico ed economico, rivolto ad investire su tecnologie “pulite” e modelli produttivi ecologicamente efficienti: partendo dai sistemi di energia rinnovabile, fino alla creazione di nuovi posti di lavoro (i cosiddetti “green jobs”) proprio nei segmenti industriali che contribuiranno maggiormente alla risoluzione delle emergenze ambientali. Contrariamente a quanto argomentano alcune voci, in merito ad una bolla speculativa ecologica simile a quella determinata dalla “New Economy”, numerose fonti statistiche supportano oggi il processo di affermazione della Green Economy, confermando i fenomeni emergenti dal mercato. Innanzitutto viene documentata la domanda di beni e servizi ecosostenibili (tendenza presente anche nei paesi del BRIC) , tra cui la generazione di energia “pulita” basata sulle tecnologie rinnovabili, in sostituzione di quella basata sui combustibili fossili, e il risparmio energetico che

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Dati diffusi dal World Resource Institute : http://earthtrends.wri.org/text/climate‐atmosphere/variable‐779.html Dal sito della White House: http://www.whitehouse.gov/issues/energy‐and‐environment 9 Rapporto della GREEN European Foundation “A Green New Deal for Europe. Towards a green modernization in the face of crisis” : http://www.greens‐ efa.org/cms/default/dokbin/302/302250.a_green_new_deal_for_europe_towards_gree@en.pdf 8

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scaturisce dal miglioramento dell’efficienza. Ma tocca anche settori tradizionali come la produzione di automobili, con la riduzione nelle emissioni di CO2, l’introduzione di combustibili alternativi come il metano, in cui l’Italia è leader mondiale, la ricerca sull’idrogeno e la diffusione di auto elettriche. A tal proposito, la ricerca Ispo 10 , condotta in Italia su un campione rappresentativo di 800 persone, indica in maniera chiara l’accresciuto livello di sensibilità ambientale tra i cittadini. Dalla ricerca emerge che l'86% del campione intervistato afferma di utilizzare a casa prodotti ecologici ‐ come lampade a basso consumo ‐ e adottare comportamenti sostenibili – come spegnere le luci, evitare di lasciare scorrere l'acqua e non eccedere con i riscaldamenti. Il report afferma che la percentuale dei virtuosi scende al 50% quando si tratta di spostamenti urbani a corto raggio, dove l'auto resta preferita, anche se il 60% cerca anche di guidare ecologico. Italiani attenti all'ambiente, poi, anche quando si parla di shopping: oltre il 50% degli intervistati dichiara di voler conoscere le modalità di produzione dei beni e di preferire prodotti ecologici, soprattutto nel settore dell'automobile, dove l'86% afferma di "voler tenere in considerazione" gli aspetti legati all'ambiente. I giovani e i laureati sono i più consapevoli del ruolo e della funzione della formazione, e ben nove italiani su dieci (92% degli intervistati) ritengono necessario integrare economia con ambiente, soprattutto investendo nelle tecnologie. L’ecologia viene quindi percepita come un valore proprio del vissuto comune. C’è quindi una sensibilità già spiccata su cui lavorare, ma molto resta ancora da fare. E soprattutto bisogna lavorare per far sì che le scelte eco‐ compatibili siano sempre più compatibili sia con i bilanci aziendali che con quelli familiari. Il secondo punto riguarda la consapevolezza del sistema politico, sociale e industriale. La Green Economy non è una delle scelte possibili, ma è l'unico modello praticabile per lo sviluppo dei prossimi venti anni. Puntare sulla Green Economy è un imperativo condiviso a tutti i livelli, è un dato di fatto , e non un argomento su cui scontrarsi, è una priorità di tutti. Qualunque sia il paradigma economico che si vuole adottare, l’economia ecologica è una prerogativa che non prescinde dall’industria, nonostante ne riconosca i danni fatti nel passato e nel presente. La Green Economy quindi non è la fine dell’industria, bensì un cammino di riconversione che conduce alla sostenibilità ambientale e sociale dell’industria. Esempi degli orientamenti politici italiani , sono gli incentivi alla rottamazione delle auto, finalizzati alla diminuzione dei consumi e delle emissioni di CO2, oppure gli incentivi alla produzione di energia elettrica da fonti alternative già esistenti da tempo nel nostro Paese. Oppure, ancora, lo sforzo che è in corso da alcuni anni nelle pubbliche amministrazioni affinché si proceda ad acquisti eco‐compatibili (il cosiddetto “green procurement”). Le nuove opportunità di business verde stanno già generando nuovi posti di lavoro (siamo a 3,5 milioni solo in Europa) e tutti gli osservatori ritengono che questa tendenza potrà incidere positivamente sull’economia mondiale. Acquista terreno anche un nuovo lessico, nuove parole per nuove pratiche ed opportunità: clean energy, clean technology, green banking, green buildings, carbon trading, e molti altri. Il sogno verde che sta attraversando l’economia mondiale fiaccata dalla recessione, insomma, non è un’ipotesi ma una realtà che genera profitti. Tutti, quindi, dobbiamo lavorare per far crescere reddito e occupazione grazie all’energia pulita e alla conversione industriale.

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E’ possibile consultare online il report della ricerca “La green economy e gli italiani” condotta da ISPO: http://www.greenvalue.it/public/estratto_green_economy.pdf

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Per quanto riguarda la situazione italiana, l’ultimo Rapporto Annuale del Censis, pubblicato all’inizio di dicembre 2009, sottolinea che la green economy rappresenta una delle poche speranze di ripresa dalla crisi economica che sta attraversando il nostro paese. Nel rapporto si legge che “sebbene non sia possibile calcolare nel dettaglio il valore di questo complesso sistema, disperso in svariati segmenti di business, le stime sul fatturato complessivo della green economy italiana si aggirano già attorno ai 10 miliardi di euro, e decisamente positive sono le previsioni sull’impatto nel mercato del lavoro: fonti diverse stimano da qui a dieci anni un potenziale occupazionale che varia da 100 mila a un milione di nuovi addetti, a seconda dei comparti presi in considerazione nella valutazione.” 11 La ripresa dell’economia italiana punta ,in particolare, su una forte spinta proveniente dal settore dell’energia rinnovabile (secondo i dati raccolti da Terna e dal Gestore Servizi Elettrici, nel 2008 l’energia prodotta da fonti rinnovabili ha coperto il 16,5% del consumo nazionale, e la produzione è aumentata del 24,5% in soli cinque anni). Altrettanto positivo il quadro fornito dalle stime di Nomisma Energia: il fatturato dei principali comparti delle nuove rinnovabili è aumentato in cinque anni del 191% ,e nel 2008 supera i 5 miliardi di euro, mentre l’occupazione diretta e dell’indotto è cresciuta del 220% e sono più di 20.000 i posti di lavoro creati dallo sviluppo delle energie verdi. La Comunità Europea orienta e dirige questa conversione attraverso numerosissime direttive e programmi speciali, partendo dalle ECOLABEL, all’EMAS 12 , agli incentivi fiscali e tutte le misure di sanzione per i paesi che non lavorano adeguatamente per il raggiungimento degli obiettivi di Kyoto 13 . I contenuti del Protocollo di Kyoto, sono infatti intesi a modificare il comportamento delle industrie che inquinano, ma è anche opinione largamente condivisa, che attraverso il modello del carbon emission trading 14 il protocollo fornisca una scappatoia per continuare ad inquinare, pagando una tassa, senza affrontare il problema reale sottostante, ovvero la necessità di un reale e duraturo cambiamento dei comportamenti che provocano l’inquinamento.

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CENSIS, “Rapporto Annuale . I soggetti economici dello sviluppo” 2009”‐pag 7, cit. vedi http://www.censis.it/277/280/339/6954/cover.asp 12 EMAS (l’acronimo sta per Environmental Management and Audit Scheme) è un sistema comunitario di eco‐gestione e audit, al quale possono aderire volontariamente le organizzazioni, al fine di valutare e migliorare le proprie prestazioni ambientali e fornire informazioni ai soggetti interessati. EMAS è stato introdotto nell’ordinamento comunitario con il Regolamento CE n. 1836/1993. La revisione del regolamento , ora Regolamento CE n. 761/2001 si rivolge a tutte le organizzazioni che possono avere attività con un impatto ambientale, e quindi anche alle imprese operanti nel settore dei servizi e alle pubbliche amministrazioni. L’obiettivo di EMAS consiste nel promuovere miglioramenti continui delle prestazioni ambientali, mediante: 1. l’analisi degli effetti ambientali delle attività dell’organizzazione; 2. l’introduzione di un sistema di gestione ambientale; 3. la valutazione dell’efficacia del sistema di gestione ambientale attraverso cicli di audit; 4. la diffusione delle informazioni inerenti le prestazioni ambientali dell’organizzazione e l’instaurazione di un dialogo aperto con il pubblico ed altri soggetti interessati; 5. la partecipazione attiva dei dipendenti dell’organizzazione e una formazione che renda possibile l’implementazione del sistema di gestione ambientale. 13 L'UE ei suoi Stati membri hanno ratificato il protocollo nel maggio 2002 – Per ulteriori informazioni in merito ai contenuti del Protocollo di Kyoto, si consulti il sito ufficiale del Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici: http://unfccc.int/kyoto_protocol/items/2830.php 14 Per approfondimenti sul meccanismo del Carbon Emission Trading, si consulti http://unfccc.int/kyoto_protocol/mechanisms/emissions_trading/items/2731.php

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Ecco dunque la necessità dell'adozione di processi sostenibili da parte delle imprese, quali cardine centrale delle loro strategie di business, in modo tale da contemplare anche il raggiungimento di vantaggi commerciali, che bilancino di gran lunga i costi sostenuti per implementarli. 1.1 Il movimento ambientalista e le associazioni non governative .

Sulla spinta degli effetti inquinanti dello sviluppo industriale, negli anni sessanta nacquero i primi dibattiti politici. Nel 1962 Rachel Carson pubblicò il libro “Silent Spring ” (Primavera silenziosa), che criticava l’uso indiscriminato di pesticidi, destando notevoli polemiche ma anche molto interesse fra la gente comune, e stimolando il dibattito sulla necessità non più posticipabile per una legislazione ‐ fino ad allora inesistente ‐ orientata alla tutela dell’ambiente. Il contributo che accademici, artisti, e più di tutti, i movimenti non governativi hanno dato allo sviluppo di una cultura ambientalista e pro‐sostenibilità è indiscusso. Ricordo quando ero giovanissima (inizi anni ‘90), con quale diffidenza in Italia si guardava alle azioni degli attivisti di Greenpeace che in giro per il mondo facevano sentire la loro voce, la loro denuncia contro i disastri ambientali creati dalle corporations. Onestamente ricordo che le loro attività erano giudicate come un retaggio nostalgico della cultura sessantottina rivoltosa e anticapitalista, e in pochi ringraziavano gli attivisti per la forza delle loro denuncie e il rischio che assumevano durante le loro missioni. Probabilmente questa percezione era solo italiana, o forse solo “meridionale”, ma è certo che in Italia, la consapevolezza delle emergenze ambientali è cresciuta lentamente e in ritardo rispetto agli altri paesi europei. Sappiamo che i primi movimenti ambientalisti cominciarono ad organizzarsi politicamente negli anni settanta 15 . Il primo Partito Verde della storia nacque in Australia nel 1972, mentre in Europa il primo Partito ambientalista fu fondato in Gran Bretagna nel 1973 (dapprima denominato People, poi Ecology Party ed infine Green Party). La coscienza ambientalista ricevette una spinta propulsiva dopo la pubblicazione, nel 1972, del rapporto sui limiti dello sviluppo a cura del Club di Roma, che prediceva pessime conseguenze sull’ecosistema terrestre e sulla stessa sopravvivenza della specie umana e causa della crescita della popolazione mondiale e dello sfruttamento di risorse correlato. Il colore più usato dagli ambientalisti è il verde, che fu utilizzato dai “Grünen” il partito dei verdi, nato in Germania negli anni ottanta. In Italia il partito dei verdi fece la sua comparsa nel 1985 trasformandosi, dopo varie vicissitudini, in Federazione dei Verdi, pur senza potersi dire effettivamente rappresentante delle associazioni ambientaliste. Nel 1986 si formò poi Greenpeace Italia 16 , impegnata nell’intervento diretto e nelle manifestazioni ad effetto, che tenta di sfruttare le tecniche di opinion making e di guerriglia non violenta più avanzate ai fini della promozione della coscienza ambientale e di intervento in casi di necessità. Da menzionare ancora il fatto che, a partire dal 1978, vennero fondate anche associazioni ecologiste di destra: i Gruppi di Ricerca Ecologica, espressione del MSI, e poi nel 1987 Fare Verde e Azione Ecologica, legate soprattutto al tema della nostalgia comunitaria e di un Foglie di fico. Luci e ombre del movimento ambientalista, Apuzzo S., 2004, Kaos Edizioni

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Sito web: http://www.greenpeace.org/italy/

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ritorno a una diversa relazione con la natura, vista nel rispetto di certe condizioni di vita tradizionali. Alla fine degli anni ‘90, con l’apertura del dibattito sulla globalizzazione, come fenomeno industriale, prima ancora che culturale, abbiamo osservato l’emergere del movimento comunemente noto come “No Global” 17 , rappresentato da un’insieme eterogeneo (dal punto di vista politico) di organizzazioni non governative ed associazioni a livello internazionale, accomunate dalla critica al sistema economico neoliberista promosso dai paesi aderenti al Forum G8 18 (dal 2009, G14) . Diversi autorevoli saggi critici hanno ispirato il movimento anti‐globalizzazione. Molti ricorderanno il libro della giornalista canadese Naomi Klein “No logo”, con il quale che si criticavano i metodi di produzione delle multinazionali e l’aggressività delle attività di marketing, ma tra gli altri, anche l’autorevolissima voce del linguista americano Noam Chomsky (le cui affermazioni vicine al movimento anti‐globalizzazione possono essere ritrovate in molte sue opere 19 ) o l’opera di Vandana Shiva 20 , ecologista indiana che ha supportato attivamente il movimento ambientalista. Nel 2007 infine, Paul Hawken (ecologista, imprenditore ed autore di spicco sui temi della Green economy) nel suo Libro “Blessed Unrest” 21 ha esposto una dinamica evolutiva dei vari movimenti sia ecologisti che per la giustizia sociale. Ripercorrendo la storia del pensiero (americano) ambientalista e dei movimenti per i diritti civili, l’autore individua un movimento permanente più generale che è sotteso a tutti i vari movimenti in azione nelle varie epoche, e di cui il movimento no global, rappresenta una ulteriore evidenza (l’esser formato da reti di movimenti e il carattere assolutamente non ideologico lo hanno infatti reso molto più popolare di tesi accademiche ed elitarie). L’universalità di questi movimenti, la capacità di contaminare ogni bacino culturale e persino la loro frammentarietà sembra infatti configurarsi come una risposta immunitaria socio‐ culturale al degrado ambientale, alla degenerazione economica e alla corruzione sociale. Un movimento che non avendo capi, ideologie e strutture non può vincere direttamente niente, ma che al contempo è imprendibile e indomabile, riemerge quando vuole, muta di dimensione, forma e obiettivi a seconda delle specifiche situazioni. La tesi di Hawken rivela i legami impliciti ed espliciti tra i movimenti di tipo ambientalista, i movimenti dei diritti civili e di giustizia sociale ed i movimenti di liberazione dei popoli indigeni: un filo comune che collega il creativo metropolitano al contadino sino all’ultima tribù indigena nelle foreste dell’Amazzonia e che emerge progressivamente dal conservazionismo ambientale e dalla critica più radicale del sistema economico e culturale moderno. Ed in modo simile avviene lo stesso cammino convergente dei movimenti per i diritti civili e per la giustizia sociale verso il riconoscimento della visione ecologista. Al di là dunque, delle particolarità locali e delle specifiche ideologie che giustificano e legittimano i movimenti ambientalisti nel mondo, dobbiamo ammettere che negli anni hanno contribuito non

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Definizione tratta da Wikipedia : http://it.wikipedia.org/wiki/Movimento_no‐global Per consultazione, si veda il G8 Information Centre dell'Università di Toronto: http://www.g7.utoronto.ca/what_is_g8.html 19 Si veda N. Chomsky , “La fabbrica del consenso”,Marco Tropea Editore; “Due ore di lucidità” Baldini e Castoldi,2003 20 Vandana Shiva ha ricevuto numerosi riconoscimenti a livello internazionale per la sua opera di ricerca e attivismo – si veda : http://en.wikipedia.org/wiki/Vandana_Shiva 21 P. Hawken , “Moltitudine inarrestabile”, Edizione Ambiente, 2009 ‐ http://www.moltitudineinarrestabile.it/ 18

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solo all’orientamento dell’agenda setting di matrice green, ma soprattutto al raggiungimento di grandi risultati nelle politiche ambientali, come la creazione dell’Ufficio Europeo dell’Ambiente, l’applicazione di norme sulla protezione ambientale, l’introduzione di sistemi di tassazione dei rifiuti o emissioni, e inoltre l’adozione di due importanti protocolli: quello di Montreal 22 per la protezione dello strato di ozono e quello di Kyoto per combattere il riscaldamento globale. Infatti le associazioni e le organizzazioni non governative si sono messe in gioco monitorando l’opera delle imprese e dei governi, e hanno denunciato puntualmente le ipocrisie di uno sviluppo incondizionato, e dei progetti di compensazione delle esternalità che servono solo a “lavare la coscienza” ma lasciano irrisolti i problemi sostanziali (si veda nel capitolo 3 – “il greenwashing”).

2.“Gli strumenti per un cambiamento radicale”

Ritengo corretto procedure ora attraverso l’analisi degli strumenti che questa rivoluzione epocale sta incominciando a generare come modalità di adattamento ad un contesto in rapido e imprescindibile mutamento. Numerosi sono gli attrezzi del mestiere già esistenti nel campo del management, della giurisprudenza, dell’economia , della comunicazione e del marketing, per fare fronte alle istanze emergenti dal mercato e dall’ambiente: in questo paragrafo passerò in rassegna alcuni dei concetti chiave legati alla Green Economy, per avere un quadro non esaustivo (perché in continuo aggiornamento) ma certamente chiarificatore della terminologia, dei processi e delle teorie sottostanti questa “rivoluzione verde”. 2.1 I sistemi di gestione dell’impatto ambientale dettati dalla regolamentazione Europea

L’uso delle etichette ecologiche o dei metodi di certificazione è abbastanza comune nel green marketing. Sia che siano basati su sistemi internazionali (ISO) , sia che si basino su standard di settore (come per esempio il Forest Stewardship Council), o su programmi interni creati dalle compagnie stesse, queste possono migliorare notevolmente la credibilità di un’impresa. È utile e necessario, però, fare una distinzione tra le ecolabel sviluppate e attribuite da enti terzi indipendenti ed istituzioni, da quelle create dalle imprese stesse. Il diritto di utilizzare le prime è garantito sulla base di scale di valutazione trasparenti, sviluppate per i diversi settori e gruppi industriali. Al contrario, le etichette sviluppate internamente alle aziende sono sviluppate sulla base di criteri specifici decisi solo da loro ed applicate solo alle loro attività. Chiaramente le ecolabel istituite da enti terzi sono più affidabili per il consumatore , ma anche queste, per via della loro proliferazione, spesso inducono il consumatore a confonderne i significati.

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Dal sito dell’ISPRA : http://www.apat.gov.it/site/it‐ IT/Temi/Protezione_dell'atmosfera_a_livello_globale/Ozono_stratosferico/Protocollo_di_Montreal_e_normativa/

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Figura 1: Marchio di qualità ecologica – Comunità Europea

I sistemi di etichettatura possono essere suddivisi in obbligatori o volontari. Le etichettature obbligatorie nell’Unione Europea vincolano produttori, utilizzatori, distributori e le altre parti in causa ad attenersi alle prescrizioni legislative. Le etichettature obbligatorie si applicano ai seguenti gruppi di prodotti: sostanze tossiche e pericolose, elettrodomestici (energy label), prodotti alimentari, imballaggi (packaging label), elettricità da fonti rinnovabili(certificati verdi). Nel caso delle etichette volontarie, i fabbricanti, gli importatori o i distributori, possono decidere se aderire al sistema di etichettatura, una volta verificata la rispondenza dei prodotti ai criteri stabiliti da quel sistema specifico. Rientrano in questa categoria l’Ecolabel europeo, i marchi nazionali più diffusi quali Blauer Angel(Germania), White Swan(Danimarca Svezia Finlandia Islanda), Green Seal(Stati Uniti), NF Environment(Francia), Milieukeur(Paesi Bassi), Umweltzeichen(Austria), i marchi che identificano prodotti derivanti da agricoltura biologica, il Forest Stewardship Council(FSC) che attesta la rintracciabilità dei prodotti da foreste gestite in maniera sostenibile. Esistono inoltre le etichette ISO Tipo II‐ISO 14020, che sono autodichiarazioni ambientali da parte dei produttori, non certificate da un organismo indipendente. In Europa, la gestione dell’Ecolabel è affidata al Comitato dell’Unione Europea per il marchio di qualità ecologica (CUEME), con il sostegno della Commissione Europea, di tutti gli stati membri, dello Spazio economico europeo (SEE) , delle associazioni ambientaliste e di consumatori. L’ecolabel, che indica non solo le qualità ecologiche ma anche prestazionali dei prodotti/sevizi certificati, può essere assegnato a 23 gruppi di prodotti e servizi, tra cui sono compresi i prodotti per la detersione, prodotti cartiari, tessili, calzature e le infrastrutture turistiche. Oltre le ecolabel, esistono due importantissime certificazioni: l’ EMAS 23 e l’ UNI EN ISO 14001 24 , che vengono rilasciate alle imprese che adottano, su base volontaria, un sistema di Gestione Ambientale (SGA) rispettando standard di gestione ambientale riconosciuti a livello comunitario nel caso del primo, a livello internazionale nel caso del secondo. Il Sistema di Gestione ambientale è uno strumento di analisi e controllo delle prestazioni ambientali dell’azienda e si inserisce nel sistema di gestione complessivo di quest’ultima, acquisendo e coordinando le eventuali procedure e responsabilità ambientali preesistenti. L’EMAS, (come già anticipato nel precedente paragrafo), istituito con Regolamento (CEE) 761/2001, è uno strumento di politica ambientale ed industriale che sta raccogliendo in Europa un 23 24

EMAS : http://www.emas‐certificazione.it/index.asp ISO 14001 : http://www.tc207.org/faq.asp?Question=7

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generale consenso. Il miglioramento delle prestazioni ambientali e dei rapporti con il pubblico e le istituzioni, le maggiori garanzie in termini di sicurezza, la razionalizzazione dei processi di produzione e dell'intero sistema di gestione dell'azienda legati all'EMAS aumentano infatti il vantaggio competitivo delle imprese che vi aderiscono. Una pratica che sta lentamente prendendo piede è inoltre l’adozione dell’EPD (Enviromental Product Declaration) o Dichiarazione Ambientale di Prodotto 25 , una certificazione volontaria (nata nel 2006) che rientra fra le politiche ambientali comunitarie, e non prevede modalità di valutazione, criteri di preferibilità o livelli minimi che la prestazione ambientale debba rispettare. La EPD è uno strumento per comunicare informazioni oggettive, confrontabili e credibili relative alla prestazione ambientale di prodotti e servizi. Le prestazioni ambientali devono basarsi sull´analisi del ciclo di vita mediante utilizzo del Life Cycle Assessment e delle norme della serie ISO 14040. Tale strumento (come si vedrà nel prossimo paragrafo) consiste nella valutazione del ciclo di vita di un prodotto, e ne analizza l'impatto ambientale "dalla progettazione allo smaltimento finale”. Esistono inoltre il Sustainable Porcurement e il Green Procurement 26 , strumenti promossi dalla comunità europea con le direttive 2004/18/EC) e 2004/17/EC del Parlamento Europeo . Per "Green Procurement" si intende la pratica di acquisto, da parte delle Amministrazioni Pubbliche (Green Public Procurement GPP) o anche di operatori privati, di materiali e beni con forti requisiti di eco‐sostenibilità, e quindi basso impatto ambientale. Un primo importante strumento che può essere utilizzato nella fase di scelta di prodotti ecocompatibili è , anche in questo caso, il "Life Cycle Assessment" . Molto comune sulle tavole degli europei è il bollino blu dell’Organic Farming, ovvero dei prodotti derivanti da Agricoltura Biologica. Il marchio europeo, il cui rilascio è certificato secondo il Regolamento N. 834/2007 della Comunità europea del 28 giugno 2007 27 . La Commissione Europea affiancata dal 28 comitato consultivo per l'“Agricoltura Biologica” e da un gruppo di esperti per la promozione dell’agricoltura biologica, stabilisce le regole per la produzione biologica applicabile alla produzione vegetale, animale e di acquacoltura, vino compreso. Il comitato consultivo riunisce rappresentanti dei vari gruppi tecnici ed economici di interesse quali IFOAM 29 , ed altri. Questo facilita lo scambio di esperienze e di pareri su vari argomenti relativi alla produzione biologica, al fine di promuovere il continuo aggiornamento della normativa biologica. Da qualche anno, l’Europa ha adottato anche il marchio Energy Star (Europa 30 e USA), un’etichetta che indica l’efficienza energetica applicabile alle apparecchiature per uffici. Introdotto dall’ Agenzia statunitense per la protezione dell'ambiente (EPA 31 ) nel 1992, è stato adottato dall’Europa attraverso un accordo con il governo degli Stati Uniti. Il marchio compare oggi su

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Per conoscere le aziende italiane che hanno ottenuto la EPD si veda: http://www.environdec.com/pageID.asp?id=105&menu=4,14,0 26 Dal sito della Comunità Europea – “Buying Green! A Handbook on environmental public procurement” : http://ec.europa.eu/environment/gpp/pdf/buying_green_handbook_en.pdf 27 Legge europea per l’agricoltura biologica : http://eur‐ lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2007:189:0001:0023:IT:PDF 28 http://ec.europa.eu/agriculture/organic/eu‐policy/legislation_it 29 IFOAM, International Federation of Organic Agriculture Movements : http://www.ifoam.org/ 30 ENERGY STAR: http://www.eu‐energystar.org/it/ 31 Environmental Protection Agency‐ EPA : http://www.epa.gov/

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molte periferiche e prodotti informatici segnalando, oltre a minori consumi energetici anche minori produzioni di gas serra da parte delle centrali elettriche. Per quanto riguarda invece, le certificazioni nate dalla collaborazione volontaria di un settore industriale , è significativa per esempio la Certificazione LEED 32 , elaborata dall’US GBC, ovvero dal Green Building Council americano, e attualmente adottata in 40 paesi al mondo. Gli standard LEED indicano i requisiti per costruire edifici eco‐compatibili, capaci di funzionare in maniera sostenibile ed autosufficiente a livello energetico; in sintesi, si tratta di un sistema di rating (Green Building Rating System) per lo sviluppo di edifici “verdi”. Di minore rilevanza, ma forse più conosciuto dai consumatori, il marchio internazionale “WashRight” 33 , frutto di un accordo tra i produttori di detergenti europei, è utilizzato per dare ai consumatori alcune informazioni su come gestire l’impatto sull’ambiente nel lavaggio di tessuti (riducendo la temperatura di lavaggio, utilizzando le dosi corrette di detersivi). Certificazioni, etichette, consorzi e regolamenti sono manifestazioni concrete di un movimento culturale e manageriale orientato sempre più all’armonizzazione delle prassi umane con l’ecosistema economico e ancor di più, naturale. 2.2 Il Life Cycle Management e l’ Eco‐design : i concetti guida per la produzione di prodotti e servizi.

Come abbiamo visto fin qui, la sostenibilità ambientale passa dunque non solo attraverso la comunicazione delle “buone opere”, ma anche e soprattutto si sostanzia di un cambiamento radicale dei processi produttivi, dall’ideazione del prodotto, alla sua introduzione sul mercato. A seguito della Dichiarazione di Malmo (2000), il 28 aprile 2002 l’UNEP e il SETAC 34 (Society for Environment Toxicology and Chemistry) hanno lanciato la Life Cycle Initiative 35 , un programma di partnership internazionale sul Life Cycle nato per stimolare i produttori di tutto il mondo a mettere in pratica delle strategie di produzione sostenibili. L’iniziativa contribuisce al quadro decennale di programmi volti a promuovere il consumo sostenibile e nuovi modelli di produzione, come richiesto in occasione del Summit mondiale sullo Sviluppo Sostenibile di Johannesburg (2002). Nel piano di attuazione del Summit è possibile leggere: "Dobbiamo sviluppare politiche di produzione e di consumo per migliorare la fornitura di prodotti e servizi, riducendo al tempo stesso l’impatto sull'ambiente e sulla salute, utilizzando,dove possibile, approcci scientifici , come l'analisi del ciclo di vita".

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Certificazione LEED, “Leadershio in Energy and Environmental Design”: http://it.wikipedia.org/wiki/Leadership_in_Energy_and_Environmental_Design 33 WASHRIGT : http://www.washright.com/it/index.html 34 SETAC: http://www.setac.org/ 35 Lyfe Cycle Initiative : http://jp1.estis.net/builder/includes/page.asp?site=lcinit&page_id=9FDF7FDF‐261F‐4F0E‐ A8E3‐5FF4E16B33C2

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Alla base della Life Cycle Initiative c’è il concetto di Life Cycle Thinking , ovvero la possibilità di integrare le attuali strategie di consumo e di produzione, evitando approcci discontinui. L’approccio del Lyfe Cycle serve infatti ad evitare che i problemi si spostino da uno stadio del ciclo ad un altro, da una zona geografica all'altra e da una componente ambientale ad un altro. I bisogni umani dovrebbero essere soddisfatti fornendo prodotti e servizi di prima necessità, come il cibo, la ricettività e la mobilità, attraverso sistemi di produzione e di consumo ottimizzati, che siano contenuti nei limiti della capacità degli ecosistemi. L’iniziativa ha sviluppato tre strumenti formali per l’implementazione dei programmi : 1) il Life Cycle Management (LCM) , progetti integrati per la gestione del ciclo di vita totale dei prodotti e dei servizi , verso modelli di consumo e di produzione più sostenibili; 2) il Life Cycle Impact Assessment (LCIA) , uno strumento analitico per la valutazione sistematica degli aspetti ambientali di un prodotto o un sistema di servizi attraverso tutte le fasi del suo ciclo di vita; 3) il Life Cycle Inventory (LCI), un database in costante aggiornamento che raccoglie guide metodologiche e dati sui LCIA, per fornire dati validi e trasparenti di supporto al LCM. A questa iniziativa internazionale, c’è da aggiungere la spinta proveniente anche dal mercato verso l’adozione di pratiche più sostenibili: i consumatori infatti sono sempre più attenti alla protezione dell’ambiente, e di conseguenza chiedono ai produttori di progettare e realizzare prodotto eco‐ compatibili. I produttori devono quindi riuscire in una sfida non facile, ovvero conciliare l’innovazione del design e dei processi con l’efficienza economica. Questa tendenza suggerisce ai produttori di poter progettare i prodotti sulla base dei bisogni dei consumatori, mirando ad offrire sul mercato quei beni e servizi green che il mercato è pronto ad accogliere, senza far pagare un premium price al consumatore (seppure si verificasse una buona flessibilità della domanda di mercato rispetto al prezzo). Tecnicamente, affrontando il tema del green design, ci si troverà di fronte ad un panorama realmente rivoluzionario per le aziende: esiste infatti un criterio di valutazione della qualità produttiva, che và sotto il nome di Green Quality Function Deployment (GQFD) ed è sviluppato sulla base del ciclo di vita del prodotto (LCA) e di 6 categorie , ovvero: 1) Materiali naturali, 2) manifattura, 3) assemblaggio, 4) trasporto, 5) finalità di utilizzo, 6) la smaltimento Dallo studio delle casistiche prodotte da questa matrice, si rileva che le migliori alternative derivano proprio dal processo di collaborazione tra consumatore e produttore. Inoltre, è stato provato che quando cresce da parte dei consumatori la domanda di prodotti sempre più rispettosi dell’ambiente, e questi sono anche disposti a pagare un prezzo più alto per questo, i produttori (in possesso del know how e delle tecnologie adeguate) possono migliorare dinamicamente le loro performance di GQFD. 24


Per questo motivo, è importante parlare di Eco‐design e coglierne il senso profondo attraverso la sua evoluzione e il suo adattamento agli sviluppi tecnologici e culturali. La storia dell’Eco‐design nasce infatti negli anni ’60 36 , quando per la prima volta, venne introdotto nelle pratiche industriali con riferimento a metodologie e strumenti che venivano classificati in due approcci principali: il product‐oriented ed il system‐oriented. Da allora, numerose imprese e governi hanno introdotto principi, metodologie, leggi e regolamenti legati all’eco‐design e allo sviluppo sostenibile. Negli anni ‘70 si è diffuso il concetto di “eco‐balance” o di “accounting ecologico” 37 per indicare l’impatto di prodotti ed imprese sull’ambiente. Alla fine degli anni ’70, in Europa e in Nord America, furono introdotti quelli che ancora oggi sono i tre pilastri concettuali dell’ eco‐design, ovvero “Resource Productivity”, il “Natural Step”, e l’Ecologia Industriale . Negli ultimi anni del XX secolo lo sviluppo dell’eco‐design ha visto fiorire numerose metodologie e strumenti: il World Business Council per lo Sviluppo Sostenibile (WBCSD) ha introdotto nel 1992 il concetto di “eco‐efficiency” 38 , e l’Europa e l’Asia dal 1994 hanno introdotto i concetti della “produzione pulita”, dell’ ”impatto zero” e della “produttività green” , seguendo l’esempio degli USA nella prevenzione dell’inquinamento atmosferico. Infine, tra il 1996 e il 1999, sono stati proposti numerosi concetti “system‐oriented” come la serie di certificazioni ISO14000, l’economia funzionale, e la triple bottom line. Contemporaneamente, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), in collaborazione con alcuni scienziati olandesi, ha pubblicato la prima guida per l’eco‐design, all’interno del progetto “Promise”. All’inizio del XXI secolo infine, l’Europa e i paesi dell’ OECD hanno introdotto il Sistema di Armonizzazione Globale (Globally Harmonized System‐ GHS ) per gestire in modo adeguato la classificazione , l’etichettatura e lo smaltimento delle sostanze chimiche. 2.3 Cosa sono I prodotti ecologici?

I prodotti ecologici sono quei prodotti realizzati secondo i criteri e i principi dell’eco‐design e che hanno caratteristiche di eco‐compatibilità (talvolta i prodotti derivano da processi di riciclo o da biomasse). Il ciclo di vita e l’ingegnerizzazione dei processi produttivi giocano un ruolo decisivo nella fase di sviluppo del prodotto, inoltre tutta la filiera produttiva ottimizza le risorse energetiche e riduce a valori minimi l’emissione di CO2. Il circolo virtuoso non riguarda però solo la produzione, ma anche il consumo: i prodotti eco‐ compatibili possono , e devono, produrre una riduzione nei consumi di energia ed acqua, ridurre il conseguente fabbisogno di trattamento dei rifiuti, e assicurare la possibilità di riciclare i materiali e i componenti con cui sono stati prodotti..

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Vedi Rachel Carson, “Silent Spring”, Boston Houghton Mifflin, 1962 Vedi Eco‐Products Directory 2005 – Asian Productivity Organization: http://www.apo‐tokyo.org/gp/e_publi/e‐ books_gp/2005EcoProductsDirectory.pdf 38 Il termine Eco‐efficiency si riferisce ad una strategia manageriale che combina performance economiche ed ambientali attraverso processi di produzione più efficienti , la creazione di prodotti e servizi migliori e al contempo la riduzione dell’impiego di risorse, di rifiuti e inquinamento lungo tutta la catena del valore. Definizione tratta da “The Business Case for Sustainable Development”, WBCSD: http://www.resourcesaver.org/file/toolmanager/O16F20281.pdf 37

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2.4 Cosa sono i servizi ecologici?

I servizi ecologici (largamente intesi – che cioè non si riferiscono strettamente ai servizi di gestione dei rifiuti , per esempio) sono progettati per trasformare i business tradizionali dalla produzione e vendita di beni fisici, verso la produzione e vendita di servizi che incontrano i bisogni dei consumatori. Questi servizi garantiscono non solo la considerazione delle istanze ambientali, ma promuovo l’eco‐efficienza delle attività dei consumatori. I servizi ecologici possono essere classificati in base agli scenari attuali, ma non esistono ancora degli standard entro cui far rientrare la pluralità di tipologie esistenti. Possiamo pensare comunque a sei grandi famiglie di servizi: 1) servizi legati al prodotto, inclusa la manutenzione, il miglioramento, la riparazione, etc. ; 2) servizi legati al riuso e al riciclo; 3) servizi per il consumatore, come il leasing, l’affitto o la condivisione di un prodotto (es. il car sharing); 4) servizi di outsourcing, come quelli proposti da alcune aziende sotto la formula del “pay‐ per‐use”, il trattamento dei rifiuti, la manipolazione dei prodotti chimici, etc.; 5) i servizi legati alla gestione, come la consulenza, la certificazione , la diagnosi, etc. ; 6) e altri servizi che non rientrano nelle categorie sopracitate.

3. L’impresa tra CSR, triple bottom line e sviluppo sostenibile.

Gli approcci del Marketing e della Comunicazione si sviluppano attraverso il contatto e con le attività e le aspettative degli attori del mercato. I principi di Responsabilità Sociale d’Impresa, e le domande relative alle modalità attraverso cui comunicarli, rappresenta una sfida per le imprese – perché devono rispondere alle pressioni degli attori sociali e politici in merito ai temi della sostenibilità e della comunicazione – ma sono anche delle opportunità , nella misura in cui possono contribuire in modo significativo all’aumento della credibilità e delle potenzialità delle imprese . I casi di business legati alla sostenibilità sono costantemente pubblicizzati dalle imprese più potenti in giro per il mondo e dalle organizzazioni che le rappresentano . Anche nella sua forma più semplice, la sostenibilità può portare a significativi risparmi sui costi. Le imprese possono, quindi, cogliere i frutti dei loro sforzi ad esempio in tema di gestione differenziata dei rifiuti e di efficienza energetica. Inoltre, poiché i consumatori diventano sempre più consapevoli della necessità di proteggere l'ambiente, si rivolgono sempre di più verso le imprese fornitrici di prodotti e servizi che dimostrano di avere una precisa consapevolezza delle tematiche ambientali, e questo è un fattore positivo dal punto di vista delle vendite e della percezione del marchio da parte del mercato. L’espressione sviluppo sostenibile diventa popolare negli anni ’80 ma le problematiche a cui essa si riferisce erano diventate argomento di discussione già vent’anni prima. Infatti, come visto nel precedente paragrafo, negli anni ’60 alcuni problemi ambientali assunsero dimensioni tali da provocare forti reazioni dell’opinione pubblica mondiale e la creazione di movimenti ambientalisti, che proponevano una radicale revisione del paradigma della crescita 39 .

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si vedano le tesi di J.Lovelock, “La rivolta di Gaia”, Rizzoli Editore

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La percezione del problema diventò poi comune con la crisi petrolifera. Il problema della sostenibilità ambientale entrò ufficialmente nell’agenda internazionale nel 1972, quando le Nazioni Unite promossero la Conferenza ONU sull’ambiente umano, conosciuta anche come Conferenza di Stoccolma, grazie alla quale iniziò il processo di creazione dell’UNEP (United Nations Environmental Programme. Nel 1987 poi, venne pubblicato il Rapporto Brundtland 40 , conosciuto anche con il titolo “Our Common Future”, che aveva il compito di analizzare le possibilità di armonizzazione tra sviluppo sociale ed economico e protezione dell’ambiente. In esso è contenuta la definizione “ufficiale” di sviluppo sostenibile: “Lo sviluppo è sostenibile se soddisfa i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere le possibilità per le generazioni future di soddisfare i propri bisogni.” Il concetto di sostenibilità ambientale , nel suo lungo percorso evolutivo, si è sempre più coniugato con la valorizzazione dell’interconnessione tra sfera economica, politica e sociale. La crescita economica ha perso però gradualmente la sua centralità a favore di una visione dello sviluppo come processo che deve adattarsi al contesto, rispettando i modelli di sviluppo locali, ottimizzando l’allocazione delle risorse e garantendo alle generazioni future uguali opportunità di godimento e sfruttamento delle risorse naturali. Alla luce di questi mutamenti, è evidente notare la necessità di ridisegnare il rapporto tra soggetti pubblici e privati, che dovrebbe essere basato sempre più sulla complementarietà piuttosto che sulla competizione. Con questo si intende affermare, infatti,la necessità di un approccio specifico che sia in grado di incorporare formazione ed educazione non solo verso i lavoratori, ma anche verso la comunità. Come si è detto, le scelte del consumatore informato, responsabile e consapevole contribuiscono al raggiungimento della sostenibilità attraverso il mercato in tre modalità principali: migliorando la qualità della vita dei consumatori, riducendo gli impatti sociali ed ambientali, ed aumentando la quota di mercato delle aziende orientate alla sostenibilità. Questi tre concetti definiscono ciò che in ambito manageriale viene considerata la triple bottom line: people (persone) ,planet (pianeta) ,e profit(profitto) Il termine Triple Bottom Line, è spesso attribuito a John Elkington 41 , il co‐fondatore di "SustainAbility” (società di consulenza specializzata in sostenibilità), il quale scelse questo linguaggio proprio affinché potesse essere compreso dai manager aziendali. Man mano il termine è stato utilizzato dalle organizzazioni per numerose finalità ed è giunto ad una diffusione e condivisione internazionale, così come testimonia il Libro Verde 42 prodotto dalla Commissione Europea. Ulteriori riferimenti alla Triple bottom line (fig.2) possono essere rintracciati nelle linee guida per il reporting della sostenibilità, un documento realizzato dal Global Reporting Initiative 43 (Istituzione indipendente, fondata dalla Coalition for Environmental Responsible Economies in partnership con l’United Nations Environment Programme), al fine di rendere la rendicontazione della performance ambientale e sociale delle imprese rigorosa, confrontabile e verificabile, al pari dei rendiconti finanziari ed economici.

40

Si consulti anche http://www.un‐documents.net/wced‐ocf.htm Elkington, J. ,“Cannibals with Forks: The Triple Bottom Line of 21st Century Business”, New Society Publishers, 1998 42 Libro verde – Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese: http://eur‐ lex.europa.eu/LexUriServ/site/it/com/2001/com2001_0366it01.pdf 43 GRI – Why Sustainable Reporting? : http://www.globalreporting.org/aboutgri/faqs/faqsustainabilityreporting.htm 41

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Così, nel lessico quotidiano della business community internazionale, con TBL si indica una metodologia di approccio integrato che rendiconta le prestazioni aziendali sotto tre profili. Le imprese sviluppano investimenti sostenibili e decisioni societarie partendo dalla base (bottom) perseguendo simultaneamente i tre obiettivi (triple – line), che sono: ‐ il profitto economico, ‐ la qualità ambientale, ‐ l’equità sociale. Secondo gli esperti, l’incoraggiamento allo sviluppo della Corporate Social Responsibility dovrebbe portare addirittura ad una crescita aziendale, che compensa l’apparente incremento dei costi dovuti agli “investimenti di qualità” . I principali aspetti positivi che l’impresa registrerà sono: la trasparenza delle proprie attività, la miglior immagine sociale (con una ripercussione anche sulle possibilità di ottenere finanziamenti), il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’impiego ottimale delle risorse umane (che consente prestazioni migliori o minor assenteismo). Fig. 2: Schema ‐ Triple Bottom line

PEOPLE

RESPONSABILITA’

EQUITA’

SOSTENIBILITA’

PLANET

ECO‐

PROFIT

EFFICIENZA

Fonte: elaborazione dell’autore

Per quanto riguarda l’Italia, recentemente sono stati presentati i risultati di una ricerca 44 condotta da Fondaca (Fondazione per la Cittadinanza Attiva), responsabile della segreteria tecnica del Global Compact Network Italia 45 (legato all'iniziativa internazionale promossa dalle Nazioni Unite

44

Risultati presentati durante il workshop "La dimensione globale e locale della cittadinanza d'impresa: esperienze a confronto", Roma,12 giugno 2009 – vedi www.globalcompactnetwork.it 45 Il Global Compact Network Italia è la declinazione italiana del Global Compact delle Nazioni Unite – riferimenti anche nel capitolo 2, pag

28


che unisce governi, imprese, agenzie internazionali, organizzazioni sindacali e della società civile con lo scopo di promuovere su scala globale la cultura della cittadinanza d'impresa)‐ su 112 aziende appartenenti al network per monitorare lo stato dell’arte in merito alla comunicazione della CSR. Di queste 112 aziende italiane, di cui 48 grandi imprese e 64 PMI, l’analisi ha svelato che solo 50 (32 grandi e 18 PMI) producono sufficiente comunicazione sociale per una adeguata analisi dei programmi e delle attività di cittadinanza d'impresa. “In particolare, nelle grandi aziende, l'area organizzativa che se ne occupa è in un caso su tre le Relazioni esterne & Comunicazione, seguita dall'area Finanza & Controllo. Nelle PMI, invece, tale responsabilità è affidata nel 60% dei casi al presidente o all'amministratore delegato (o Chief Executive Officer). Ancora, solo il 46% delle imprese include i temi della cittadinanza d'impresa nella mission aziendale e, soprattutto, produce una mappa degli stakeholder, strumento raramente utilizzato dalle PMI (lo adottano solo 2 su 18). Poche anche le aziende che esplicitano il processo e i criteri di individuazione degli stakeholder: tali informazioni sono rintracciabili solo nel 35% delle grandi aziende. Ad ogni buon conto, le modalità di coinvolgimento degli stakeholder sono essenzialmente finalizzate ad informare (82%) o ad avviare una consultazione (64%). I tre principi maggiormente rendicontati afferiscono la sfera dei diritti umani (alle imprese è richiesto di promuovere e rispettare i diritti umani universalmente riconosciuti nell'ambito delle rispettive sfere di influenza), dell'ambiente (alle imprese è richiesto di sostenere un approccio preventivo nei confronti delle sfide ambientali) e del lavoro (alle imprese è richiesto di sostenere la libertà di associazione dei lavoratori e riconoscere il diritto alla contrattazione collettiva).” 46 La strada per la CSR in Italia è quindi ancora tutta da spianare, e soprattutto dovrebbe mirare ad ampliare le attività (fig 3) che impattano non solo sulla sfera economica dell’impresa, ma anche su quella ambientale e sociale (presso gli stakeholder interni ed esterni all’impresa) per ottenere il massimo risultato da uno strumento come la Corporate Social Responsibility, che sembra al momento ancora in gran parte da esplorare.

46

Alessia Sabbatino per Fondaca www.fondaca.org/file/rassegnaStampa/il_denaro.pdf

29


Figura 3 : Sintesi delle aree di CSR 47

Fonte:Istituto per i valori d’impresa, a cura di Mario Molteni ‐ Primo rapporto sulla RSI in Italia

3.1 Le opportunità dello Sviluppo Sostenibile

Come si è potuto osservare fin ora, la strada verso una crescita economica sostenibile, e la coniugazione di questo processo con le istanze sociali ed ambientali, non risultano essere chimere, ma vere opportunità, e anzi, anche impliciti doveri da parte delle imprese. “La sostenibilità – scrive Grant – è più di un semplice movimento di riforma interna…che nel movimento per la sostenibilità convivono due anime opposte. Una ritiene fondamentale il mantenimento di alti livelli di crescita economica in tutti i paesi: è la posizione chiamata della “crescita sostenibile”, quella sostenuta per esempio da David Cameron … Secondo l’altro approccio la crescita è necessaria nei paesi in via di sviluppo per sollevarli dalla povertà, mentre sono i paesi occidentali devono puntare al consolidamento: vivere esistenze più soddisfacenti grazie a un uso migliore di quello che abbiamo.” 48

47

Fonte:Istituto per i valori d’impresa, a cura di Mario Molteni ‐ Primo rapporto sulla RSI in Italia http://www.isvi.org/Rapporto%20RSI/1‐%20Introd%20‐%20Il%20motore.pdf

48

Grant J. (2009) “Green Marketing Manifesto”, Brioschi editore, 2009, pag 39 – cit.

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Poiché, come ci lascia intendere Grant 49 , l’impresa non può essere snaturata dalla sua specifica finalità di profitto, e resta comunque un attore sociale importantissimo nella regolazione della vita di una comunità, le sue azioni potranno generare vantaggio competitivo o essere penalizzate dai cittadini (che possono ricoprire contemporaneamente il ruolo di consumatori, promotori, opinion leader, etc). Nel momento in cui ci soffermiamo sugli esiti positivi generati dalle attività volte allo sviluppo sostenibile, possiamo notare vantaggi nelle seguenti aree: 1) la Reputazione : il valore di un’impresa dipende dalla sua performance commerciale, ma anche dalla sua reputazione. A livello mondiale, si stima che il 35% del valore finanziario di un’impresa sia ora determinato dalla sua reputazione 50 . In un report sui temi della CSR, prodotto dalla società di consulenza Arthur D. Little 51 , si cita uno studio secondo il quale la quota di valore di un’azienda derivante dai suoi assetti intangibili (o intangibile assets) è cresciuta da un 17% del 1981 al 71% nel 1998. Numerosi studi hanno inoltre mostrato che il consumatore dà molta importanza alla reputazione dell’impresa . Un report del 2005 realizzato dalla Cooperative Bank sul Consumismo Etico, indica per esempio, che il 62% dei rispondenti di nazionalità inglese dichiara di aver scelto un prodotto o un servizio più di una volta in un anno sulla base della reputazione dell’impresa rispetto alla responsabilità sociale, ed il 58% di questi ha dichiarato di aver deciso di non comprare un prodotto o un servizio per più di una volta in un anno per la mancanza di una buona reputazione da parte della compagnia. Proteggere o migliorare la reputazione è diventato una priorità per le imprese. In questo contesto rappresenta un serio vantaggio competitivo e allo stesso tempo diventa una strategia di lungo termine, dalla quale dipende la sua sopravvivenza. Come suggerisce John Peloza 52 , molti manager sviluppano le loro iniziative di CSR dal loro punto di vista, ovvero investono in queste attività considerando il meccanismo della reputazione come una fonte e una protezione per il vantaggio competitivo . In questa ottica, la buona reputazione dell’impresa costituisce una sorta di “garanzia assicurativa” contro possibili eventi negativi o contro i periodi di crisi che talvolta possono colpire le imprese. I benefici di una reputazione positiva influiscono anche nella creazione e nel mantenimento di buone relazioni con I suoi stakeholders. Quando infatti queste relazioni sono basate sulla fiducia e sulla credibilità, viene allontanato il rischio di boicottaggio, per esempio . Inoltre sembra che giochino un ruolo positivo rispetto ai risultati economici e sociali delle imprese: per esempio uno studio 53 condotto da due docenti di Havard e durato 11 anni, ha rilevato che le imprese che avevano intrattenuto buone relazioni con i loro stakeholder , avevano visto quadruplicare il loro fatturato , rispetto a quelle che avevano focalizzato le loro attenzioni prettamente sugli azionisti.

49

Grant J. (2009) “Green Marketing Manifesto”, Brioschi editore Keefe J.F. (2002). “Five Trends: The Rise of Corporate Reputation and CSR” , NewCircle Communications 51 Arthur D. Little, Inc. ‐ The Business Case for Corporate Citizenship ‐ http://www.bitc.org.uk/resources/publications/cr_business_case.html 52 Peloza, J. (2005) « Corporate Social Responsibility as Reputation Insurance », Centre for Responsible Business, working paper n°24, University of California, Berkley 53 Arthur D. Little, Inc. ‐ The Business Case for Corporate Citizenship ‐ http://www.bitc.org.uk/resources/publications/cr_business_case.html 50

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2) Rispondere alle aspettative dei consumatori: anche questa rappresenta un’opportunità per le imprese, che si trovano a dover fare i conti con consumatori sempre più attenti alle emergenze ambientali e alla responsabilità sociale. Questa è una delle maggiori esigenze commerciali, e quella che diventerà la più attraente man mano che scompariranno le istanze sull’eticità del consumo . Infatti, come sottolinea J. Ottman 54 , in alcuni settori di mercato, i prodotti green sono già percepiti di qualità migliore rispetto ai prodotti tradizionali. 3.2 I benefici di una politica di Responsabilità Sociale d’impresa.

Inoltre, i benefici di una politica di Responsabilità Sociale d’impresa e di un’appropriata comunicazione sono molteplici: strategici,economici, sociali,politici, e rafforzano le attività di molte imprese. 1)Benefit di differenziazione e posizionamento I vantaggi strategici della Responsabilità Sociale e della sua comunicazione sono analizzati in termini di differenziazione e di protezione del posizionamento di mercato. Il successo delle imprese pioniere nello sviluppo sostenibile si basa su un importante fattore di differenziazione: la loro identità e i loro prodotti/servizi testano interamente ancorati ai valori e ai principi della sostenibilità. L a Sostenibilità sta diventando una necessità per un numero sempre maggiore di imprese che vorranno raggiungere il vantaggio competitivo attraverso un posizionamento più genuino. Potremo incominciare a vedere l’inizio di un nuovo circolo virtuoso nel quale solo i brand capaci di innovare si differenzieranno davvero agli occhi dei consumatori e lo faranno puntando su una crescente condivisione degli sforzi compiuti verso lo sviluppo sostenibile. Non solo per motivi di filantropia, non solo in funzione della Responsabilità Sociale, ma perché questo è ciò che i consumatori vogliono e quindi il motivo per cui i brand devono impegnarsi . 2)Benefit economici e finanziari Numerosi studi accademici 55 hanno postulato l’esistenza di un legame tra le iniziative sociali delle imprese e la loro performance finanziaria 56 . Questo legame sembra manifestarsi su più livelli: dai risultati commerciali, agli investimenti, al valore finanziario, allo sviluppo di nuovi mercati e alla riduzione dei costi operativi. a) Risultati commerciali Le imprese la cui identità e I cui prodotti/servizi si basano sul concetto di sostenibilità, spesso raggiungono successi commerciali evidenti: ‐ Natura per esempio è diventata leader di mercato in Sud America con il 19% della quota di mercato e il valore delle vendite è cresciuto del 32% dal 2002 al 2004

54

Ottman J. (1993). Green Marketing: Challenges and Opportunities for the New Marketing Age, Lincolnwood: NTC Business Books 55 Vedi ‐ Friedman M. (1970) « The Social Responsibility of Business is to Increase its Profits », New York Times Magazine, September 13 : 32‐33, 122, 124, 126 McGuire J. B., Sundgren A. & Schneeweis T. (1988) « Corporate Social Responsibility and Firm Financial Performance, » Academy of Management Journal, 31 (6), 854‐72 56 Vedi ‐ Tsoutsoura M. (2004) « Corporate Social Responsibility and Financial Performance », Centre for Responsible Business, Working paper no. 7, University of California, Berkeley. http://escholarship.org/uc/item/111799p2

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American Apparel, (che produce solo negli States) ha incrementato il suo fatturato del 900% tra il 2000 e il 2004 rispetto ad altri brand leader del settore dell’abbigliamento negli USA, come Gap ed H&M

b) Investimenti Gli investimenti in Responsabilità Sociale stanno diventando sempre più consistenti, benché rappresentino ancora una piccolo quota del mercato rispetto agli investimenti tradizionali. Uno studio condotto da Business in the Community per la Arthur D. Little 57 , mostra che un terzo degli analisti finanziari ora siano convinti che le istanze ambientali stiano influendo notevolmente sul valore dei loro investimenti. La performance di specifici indici finanziari come il Dow Jones Sustainability Index (DJSI), un indice di borsa che classifica le migliori imprese nello sviluppo sostenibile rispetto agli indici tradizionali, come per esempio il Dow Jones Global Index (DJGI), mostrano questo fenomeno: durante i cinque anni precedenti all’agosto 2001, il Dow Jones Sustainability Index aveva superato il Dow Jones Global Index, il primo rispettivamente con una redditività annuale del 15.8% e il secondo del 12.5% in quel periodo (WBCSD 2001) 58 . c) Benefici di lungo termine Percorrere la strada dello sviluppo sostenibile come un’opportunità finanziaria significa anche adottare un approccio di lungo termine rispetto alla creazione di valore, in particolare rispetto al capitale, e questo richiede una evoluzione costante attraverso i cicli di produzione di vendita d) Nuovi mercati La domanda sociale di Sviluppo sostenibile può generare l’emergere di nuovi mercati e stimolare l’innovazione industriale (riciclo, gestione dei rifiuti, trattamento di materie prime riusabili, trasporti, etc.) e) Riduzione dei costi operativi Contrariamente all’opinione comune, queste pratiche consentono di risparmiare sui costi operativi . A.D. Little cita, per esempio, il caso di un’impresa manifatturiera americana operante nel settore del riciclo della carta, che aumentando il tasso di recupero della fibra, è riuscita a risparmiare l’equivalente di 20,000 tonnellate di rifiuti di carta e a raggiungere il più basso costo di produzione nel mercato. Mentre molti studi hanno cercato di dimostrare questo legame tra CSR e performance finanziaria, altri come Friedman 59 invece, non concordano con queste teorie, affermando che entrano in gioco numerose variabili che contribuirebbero , e che non è una correlazione diretta tra i due elementi di valutazione. Arthur D. Little, Inc. ‐ The Business Case for Corporate Citizenship ‐

57

http://www.bitc.org.uk/resources/publications/cr_business_case.html 58 World Business Council for Sustainable Development (2002), The Business Case for Sustainable Development. http://www.wbcsd.org/plugins/DocSearch/details.asp?MenuId=ODU&ClickMenu=&doOpen=1&type=DocDet&ObjectI d=Mjc1 59 Friedman M. (1970) « The Social Responsibility of Business is to Increase its Profits », New York Times Magazine, September 13 : 32‐33, 122, 124, 126

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3) Benefici sociali e politici Le attività di sostenibilità promosse dall’impresa migliorano l’immagine dell’azienda in modo efficace anche all’interno dell’azienda. Infatti sembra che le imprese responsabili abbiano maggiore capacità di attirare risorse umane qualificate, ma anche il clima aziendale sia migliore e conseguentemente anche la produttività. In molti settori (specialmente nel settore energetico, dei trasporti e degli alimentari) , le iniziative di CSR producono benefici di natura più prettamente politica, intesa come modalità per prevenire regolamentazioni restrittive. Il dibattito, scrive Fabris, che segna vistosamente questa transizione d’epoca, sull’impresa cittadina – la corporate citizenship – non è soltanto sinonimo della social responsibility ma un coerente ampliamento di questa, sino a proporre uno statuto assimilabile a quello, appunto, di un cittadino della comunità in cui vive ed opera, con il relativo corollario di diritti e di doveri. 60 Sfruttare la comunicazione per raggiungere obiettivi nel settore del consumo costituisce un’altra sfida, ed opportunità anche per le istituzioni pubbliche . Lo sviluppo sostenibile infatti delinea i principi per una migliore gestione collettiva delle comunità, e il primo requisito consiste nel supporto informativo e nella partecipazione dei cittadini. Con il coinvolgimento attivo delle autorità pubbliche, si intende lo sforzo comunicativo e ci mediazione che le istituzioni devono essere capaci di attuare rispetto a tutte le fasi di progetto e agendo come strumenti per la loro realizzazione. Informare,sensibilizzare, influenzare percezioni e comportamenti, mobilitare, sono attività che legittimano le politiche pubbliche di comunicazione istituzionale e di sviluppo sostenibile.

60

Cit. ‐ G.P. Fabris, “Societing. Il marketing nella società postmoderna”, Edizioni Egea 2009 – pag 56

34


CAPITOLO 2 IL MARKETING NELLO SPECCHIO DEL “GREEN”

1. La CBBE e i nuovi approcci di marketing suggeriti dalle nuove tecnologie. Nel primo capitolo abbiamo osservato il fenomeno della green economy analizzando lo scenario politico, ideologico e legislativo che sta condizionando e stimolando il cambiamento radicale dell’industria a livello internazionale, soffermandoci anche sui concetti di sviluppo sostenibile, triple bottom line e Corporate Social Responsibility come principi guida per lo sviluppo di pratiche commerciali più consone per rendere concrete le promesse dei player di mercato. Chi però, all’interno delle imprese, è responsabile dell’attuazione dei piani industriali e delle strategie di marketing ‐ e che per questo deve garantire l’efficienza economica ed il raggiungimento del profitto – non può certo credere di poter affrontare le nuove sfide poste da questo scenario con gli strumenti elaborati su misura della cosiddetta old economy. La globalizzazione e il progresso tecnologico hanno reso i mercati molto più competitivi, rendendo così anche le imprese molto più attente alle strategie di branding. Hanno notato infatti che le preferenze dei consumatori sono diventate più omogenee grazie anche alla diffusione delle tecnologie, con particolare riferimento ad internet, come canale in cui i consumatori si incontrano e scambiano opinioni sui prodotti/servizi e sulle attività di comunicazione dei brand. Inoltre, durante la sua vita, il consumatore attraversa periodi diversi, che cambiano le sue preferenze insieme con i bisogni da soddisfare. Gli attributi del brand e le sue caratteristiche devono conseguentemente adeguarsi a queste oscillazioni affinché i consumatori mantengano una relazione permanente con i brand. Il flusso di comunicazione bidirezionale che le nuove tecnologie hanno abilitato è foriero di una nuova cultura d’impresa, una nuova modalità di attuazione dei programmi di marketing che considerano il consumatore non solo come un target a cui vendere un prodotto, ma come un esperto del prodotto che può collaborare con l’impresa per lo sviluppo di nuovi concept o anche semplicemente per suggerire nuove esigenze. Non si tratta solo di spostare il focus delle strategie imprenditoriali da un approccio push (di messaggi, prodotti e servizi) verso il consumatore ad un approccio consumer‐centrico che riconosca il nuovo ruolo del consumatore nella partita del mercato. La comprensione del cambiamento epocale introdotto dalle nuove tecnologie verso la definizione di una nuova dialettica tra impresa e consumatore è infatti imprescindibile per poter pianificare le strategie di marketing in modo efficace. Ed il marketing ha già da tempo cercato di cogliere questi cambiamenti attraverso la riflessione sul marketing relazionale e sui nuovi doveri a cui l’impresa deve adempiere per sviluppare un vantaggio competitivo sul mercato. 35


ll modello CBBE (Customer–based brand equity) elaborato da Kevin Lane Keller nel 1993 61 fornisce un punto di vista unico sul valore del brand e sulle modalità con cui costruirlo, misurarlo e gestirlo nel tempo. Il concetto di CBBE si definisce come l’effetto differenziale che la conoscenza della marca (brand knowledge) esercita sulla risposta del consumatore alle azioni di marketing della marca stessa. L'autore afferma che, nella prospettiva del cliente, le basi attraverso cui si crea il valore di marca sono fondamentalmente due: 1.la consapevolezza della marca o brand awareness; 2.l'immagine di marca o brand image. Il concetto di consapevolezza della marca a cui Keller fa riferimento indica la capacità del brand di essere ricordato e riconosciuto, capacità che deriva dal processo cognitivo con cui il consumatore lo identifica. In base alla profondità della conoscenza della marca da parte del consumatore esistono due livelli di consapevolezza: il primo, la brand recognition, descrive la capacità del cliente di riconoscerle la marca conseguentemente ad una serie di stimoli esterni. Il secondo, brand recall, è invece la capacità di ricordare la marca perché fortemente presente nella mente del consumatore, indipendentemente dagli stimoli esterni. In sintesi, la consapevolezza del brand si alimenta accrescendone la familiarità attraverso un’esposizione ripetuta (per facilitarne il riconoscimento) e promuovendo associazioni forti con la categoria di appartenenza o le più idonee situazioni di acquisto o consumo (per favorire il richiamo). La brand image , invece, è la percezione dei valori associati alla marca da parte dei consumatori. Questa percezione è determinata dall'attribuzione di valori e di significati peculiari al sistema d’offerta dell'impresa. Nel modello si descrivono i tipi di associazioni da sviluppare e le caratteristiche che queste ultime devono avere (forza, unicità, capacità di essere vantaggiose e positive). Le associazioni al brand si distinguono in: 1. Attributi del sistema d'offerta, ovvero gli elementi di base o distintivi che compongono i sistemi d'offerta; 2. Benefici percepiti dai consumatori distinti in: a. benefici funzionali, correlati alla performance e agli attributi del prodotto; b. benefici simbolici, riferiti agli attributi non correlati alla performance di prodotto; c. benefici d'esperienza, connessi all'uso del prodotto e alla successiva soddisfazione/insoddisfazione seguita; 3. Atteggiamento generale che il consumatore ha maturato nei confronti della marca. Questa parte del modello può essere considerata come la componente fiduciaria dell'immagine, base del potenziale di differenziazione che consente di perseguire strategie di estensione della marca (brand extension). La creazione di un brand forte avviene attraverso lo sviluppo di operazioni di marketing che agiscano rispettivamente su sei blocchi: la prominenza del brand, la performance e l’immagine, i giudizi e le sensazioni ed infine la risonanza. 61

Keller, Busacca, Ostilio, “La gestione del brand ‐ Strategie e sviluppo”, Egea 2005

36


Nel momento in cui le strategie di marketing vengano condotte con successo, il brand acquisirebbe un notevole vantaggio competitivo, e quindi godere di: 1. Maggiore loyalty; 2. Minore vulnerabilità competitiva; 3. Maggiori margini; 4. Maggiore sensibilità a riduzioni di prezzo; 5. Minore sensibilità ad aumenti di prezzo; 6. Maggiore efficacia ed efficienza delle comunicazioni; 7. Opportunità di licensing ; 8. Opportunità di Brand extension ; 62 Figura 1: “La creazione di un brand forte:le fasi di costruzione”

RELAZIONE Fedeltà intensa e attiva

RISONANZA

REAZIONI GIUDIZI

SENSAZION

SIGNIFICATO PERFORMANC

IMMAGIN

PoP e PoD

PROMINENZA IDENTITA’ Fonte: elaborazione dell’autore, Piramide CBBE di K.L. Keller

La prominenza del brand fa riferimento alla consapevolezza (brand awareness) che i consumatori hanno della marca, ovvero alla capacità dei consumatori di riconoscere la marca, capire quale sia la categoria di beni o servizi cui appartiene, e quali bisogni è in grado di soddisfare. Un brand 62

Consultazione slide del corso di Bran Management, A.Rea, Facoltà di Scienze della comunicazione, Università La Sapienza di Roma, a.a. 2007‐2008

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molto prominente gode di una consapevolezza profonda e ampia al tempo stesso, per cui i clienti pensano sempre alla marca in una serie di possibili situazioni di utilizzo consumo. La prominenza del brand costituisce un primo passo importante nella costruzione del valore del brand, ma generalmente non è sufficiente. La performance del brand fa riferimento alle proprietà intrinseche della marca in termini di caratteristiche inerenti al prodotto/servizio. Esistono 5 attributi che identificano la performance del brand: 1. 2. 3. 4. 5.

ingredienti primari e caratteristiche supplementari; affidabilità, durevolezza e funzionalità del prodotto; efficacia, efficienza ed empatia del servizio; stile e design; prezzo.

L’immagine del brand , invece, fa riferimento alle caratteristiche più intangibili, in cui sono comprese le modalità in cui la marca cerca di soddisfare i bisogni psicologici o sociali dei clienti. Le associazioni relative all’immagine possono formarsi direttamente attraverso l’esperienza, o indirettamente attraverso la pubblicità e il passaparola. Il significato del brand contribuisce a creare la risposta al brand stesso, ovvero la reazione dei consumatori all’attività di marketing e alle altre fonti di informazioni. Si possono distinguere 2 diversi tipi di risposte, a seconda che provengano dalla sfera cognitiva o affettiva: 1. i giudizi: opinioni e le valutazioni personali sulla marca e dipendono dal modo in cui i

consumatori collegano le diverse associazioni alla performance e all’immagine della stessa. Ci sono 4 tipi di giudizi fondamentali ai fini della costruzione del valore della marca: a. b. c. d.

qualità; credibilità; considerazione; superiorità;

2. le sensazioni sulla marca, ovvero le reazioni emotive dei clienti al brand. Queste spesso

dipendono dal credito sociale evocato dalla marca. Si possono definire 6 importanti tipologie di sensazioni sulla marca: a. calore; b. divertimento; c. eccitazione; d. sicurezza; e. approvazione sociale; f. autostima. I giudizi e le sensazioni che i consumatori hanno rispetto al brand possono incidere favorevolmente sul comportamento d’acquisto solo se questi interiorizzano o elaborano reazioni positive in seguito all’incontro con la marca. 38


Il blocco finale per la costruzione della CBBE si concentra sulla risonanza del brand facendo riferimento alla natura della relazione che si instaura con il consumatore e alla misura in cui questi si sentono in sintonia con la marca (sono brand con elevata risonanza: Harley‐Davidson, Apple, e‐ bay). La risonanza è definita sia dall’intensità, relativa alla profondità del legame psicologico del cliente con il brand, sia dal livello di attività che ne risulta, rappresentato dal tasso di ripetizione dell’acquisto e dallo scambio informativo o dalla collaborazione con il brand, sui relativi eventi o con altri clienti fedeli. Più precisamente, il concetto di risonanza della marca è scomponibile in 4 dimensioni: 1. Fedeltà del comportamento, definita dall’acquisto ripetuto e dal volume percentuale attribuito alla marca nell’ambito della relativa categoria di prodotto; 2. Senso di attaccamento; 3. Senso della comunità, laddove l’identificazione con una comunità della marca potrebbe riflettere un rilevante fenomeno sociale; 4. Impegno attivo. 1.1 Dalla CBBE alla Reputazione L’immagine del brand, ovvero le percezioni del suo ruolo sociale (rispetto a dipendenti, azionisti e collettività) soprattutto nel caso in cui ci riferiamo ad un’azienda, ancor più che ad un prodotto, è un elemento particolarmente rilevante nelle decisioni di acquisto dei consumatori. Come si legge sul testo di Keller 63 , “l’unico vero vantaggio competitivo di qualunque azienda è la sua reputazione”. Come afferma Aaker 64 , sia i consumatori che le aziende sono molto attenti alla brand reputation di ciò che acquistano o vendono. Ogni brand rappresenta valori distintivi, crea un profilo unico nella mente dei consumatori in base anche ai valori e alle politiche che promuove. Quindi la brand reputation è l’immagine di una qualità superiore e di un valore aggiunto, che giustifica anche un eventuale premium price . Una buona reputazione è un asset forte, che contribuisce non solo ad un alto livello di fedeltà alla marca, ma anche ad ottenere una certa stabilità per le vendite future. Un brand è anche frutto della relazione tra reputazione e promessa. Inoltre la reputazione è un insieme di aspettative che il brand genera attraverso la comunicazione dei suoi valori e la sua credibilità, ed il tipo di esperienza a cui i consumatori sanno di poter accede attraverso il brand. Se la promessa verrà mantenuta, i consumatori saranno soddisfatti e questo li predisporrà positivamente per la reiterazione dell’acquisto di quello specifico brand. La brand reputation implica che l’atteggiamento di acquisto del consumatore possa essere rappresentata su un continuum che va dalla sensazione di incertezza rispetto al riconoscimento

63 64

Cit. Keller, Busacca, Ostilio, “La gestione del brand ‐ Strategie e sviluppo”, Egea 2005, pag 305 Aaker D. A, “Brand Equity: la gestione del valore della marca”. Franco Angeli, 2006

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del brand sul mercato, alla convinzione che sia il “numero 1” nella categoria di prodotto. Questo continuum può essere rappresentato dai diversi livelli di brand reputation che viene riconosciuta dal mercato. La brand reputation può essere buona o cattiva, forte o debole, ma in ogni caso cristallizza la modalità in cui le persone percepiscono il brand sulla base delle informazioni che hanno a riguardo. Potremmo abbracciare la tesi di Covey 65 sul ruolo chiave giocato dalla credibilità nella nuova economia globale, in cui l’abilità di stabilire lo sviluppo, l’estensione e la ricostruzione della fiducia presso gli stakeholder, i consumatori, i partner di mercato, gli investitori e i dipendenti, diventa per l’impresa l’elemento più importante per la costruzione della sua leadership. Infatti, come suggerisce Sacconi 66 , “la reputazione rappresenta un asset intangibile che accresce il valore e sostiene la crescita dell’impresa nel tempo. L’importanza della reputazione deriva dal fatto che essa consente l’instaurarsi di rapporti di fiducia tra l’impresa e i suoi stakeholder, sia interni (i collaboratori e il management), sia esterni (i fornitori, i clienti, gli investitori, le comunità locali, la pubblica amministrazione, i partner, ecc.). La reputazione rappresenta in primo luogo un riconoscimento della “licenza di operare” senza la quale nessuna impresa può prosperare. Inoltre essa fa sì che le transazioni fra l’impresa e i suoi stakeholder si svolgano in maniera più efficace, abbassando i costi di contrattazione e di governo”. Ritornando alla nostra riflessione iniziale, le imprese che vogliono intraprendere la via della green economy, come tutte le altre, dovranno rispettare questi modelli di branding,e anzi evolversi sempre più verso lo sviluppo di una relazione con il consumatore che elimini le possibili ombre sull’operato dell’azienda e apra le porte alla trasparenza e alla cooperazione. A luglio del 2008, Deloitte & Touche LLP hanno presentato i risultati di un’ indagine 67 condotta via web negli USA, chiamata “Sostenibilità: Una nuova era per il valore dell’impresa?”. Quasi 800 dirigenti hanno risposto al questionario, e i dati emersi hanno confermato non solo che le iniziative di CSR sono sempre più rilevanti nel quadro delle attività di comunicazione delle imprese, ma anche che molte imprese approcciano a questa scelta come strategia per migliorare la reputazione del brand.

65

S.M.R. Covey , “La sfida della fiducia.Velocità ed efficacia nelle relazioni di business e nella vita privata”, Franco Angeli Editore, 2008 – vedi anche http://www.coveylink.com/about‐coveylink/how‐we‐define‐trust.php 66 L. Sacconi, “Guida critica alla responsabilità sociale e al governo di impresa” , Bancaria editrice, 2005 67

Steve Wagner Eric Hespenheide , Kate Pavlovsky , “The Responsible and Sustainable Board” Deloitte Review, gennaio 2009 : http://www.deloitte.com/view/en_US/us/Insights/Browse‐by‐Content‐Type/deloitte‐ review/article/f0e649642dff0210VgnVCM100000ba42f00aRCRD.htm Una delle domande della survey realizzata da Deloitte chiedeva di indicare la ragione principale per cui la propria impresa era impegnata in attività di CSR : “Qual’ è (o dorrebbe essere) il principale obiettivo degli sforzi in termini di sostenibilità della tua compagnia?” (Risposte ricevute: 773) • • • • • •

Aumentare I profitti 19.9% Migliorare la brand reputation 24.1% Osservare I requisiti legali e regolatori 20.2% Attrarre/mantenere consumatori sensibili ai temi ambientali 5.3% Diventare più attraente per I risultati 3.0% E’ la cosa giusta da fare 27.8%

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Una crescente tensione sta emergendo tra l’emancipazione dei consumatori e dei dipendenti da un lato, e il loro disorientamento in un mare di informazioni e prodotti dall’altro. È in questo crocevia che la reputazione assume un ruolo sempre più importante come assetto intangibile dell’impresa e come segnale di orientamento per la società. Questo perché, ormai da lungo tempo, le strategie di prodotto e di prezzo non sono più fattori decisivi nel gioco competitivo di mercato. Infatti, nella battaglia per la fiducia degli stakeholder, il focus si è spostato progressivamente sulla competenza, l’integrità e l’attrattività dell’impresa. Si pensi allo scenario evidenziato dalla ricerca Edelman Trust Barometer 2009 68 (compiuta su un campione di 4.475 individui compresi tra i 25 e i 64 anni, in 20 paesi a livello globale), in cui si nota una crescente diffidenza dei cittadini nei confronti delle imprese. In questo trend globale, il 62% del campione italiano ha dichiarato di avere meno fiducia nelle imprese (registrando un calo del 14% rispetto al2008). In generale, lo studio delle Edelman ha registrato che a livello globale, i cittadini attribuiscono maggiore credibilità alle associazioni non governative, rispetto alle imprese, ai media e al governo, e che i cittadini desiderano un intervento dei governi per regolare l’operatività delle imprese (65% dei rispondenti a livello globale),pur condividendo la responsabilità,insieme alle imprese per quanto concerne i problemi della crisi finanziaria, dei problemi ambientali, delle politiche di salute pubblica e del costo dell’energia (fig. 4) Fig 4: I governi e le imprese condividono la responsabilità per aver determinato le crisi a livello globale

Fonte : Edelman Trust Barometer, 2009

Alla luce di ciò che è stato detto fin ora, potremmo quindi considerare la brand reputation come valore generato a favore della brand equity di un’impresa. Mark Eisenegger 69 propone un modello 68

Edelman Trust Barometer 2009 – vedi http://www.edelman.com/trust/2009/ M.Eisenegger,K.Imhof –saggio “The true, The Good and the Beautiful” in A. Zerfass, B. van Ruler, K. Sriramesh “Public Relations Research: European and International Perspectives and Innovations”, Edizioni Springer 2008, pag 125 ‐ 141

69

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di analisi della reputazione che a differenza delle precedenti teorie (Fombrun & Riel 70 , Schwager 71 ) ed è possibile distinguere una Reputazione funzionale – legata ad aspetti come la performance finanziaria dell’organizzazione, la qualità dei prodotti/servizi offerti sul mercato – Reputazione sociale, risultato delle attività di CSR, della vision, leadership e cultura organizzativa 72 in cui i dipendenti di un’organizzazione si trovano ad operare, ed infine la Reputazione espressiva, frutto dell’appeal emotivo che il brand costruisce intorno a sé e che lo differenzia in modo unico dai suoi competitor. Come scrive Eisenegger 73 , definendo con uno slogan “the true, the good, the beautiful” gli aspetti funzionali, sociali ed espressivi – tra queste variabili è evidente che il rischio maggiore risieda nella componente sociale della reputazione d’impresa. Nella società dell’informazione infatti, la denuncia di condotte non etiche genera più attenzione della celebrazione di pratiche socialmente responsabili. In particolare, le imprese che nelle attività di comunicazione esterna, esaltano la loro “veste pura”, sono molto più soggette a cadere nella “trappola etica”: gli stakeholder infatti si sentiranno autorizzati a verificare le credenziali vantate, e molto probabilmente troveranno delle falle che non esiteranno ad evidenziare. Una ulteriore osservazione dell’autore in merito alla formazione della brand/corporate reputation attraverso il sistema dei media è l’ ”effetto Davide‐Golia”, ovvero la possibilità per le piccole imprese di sviluppare un vantaggio competitivo sulla reputazione sociale perché godono di un contatto diretto con la comunità in cui operano. Al contrario di queste, invece, le grandi imprese subirebbero un deficit di credibilità nonostante la grande attrazione che esercitano sui media. Sembra infatti che la forza dell’ ”effetto Davide‐Golia” sia proporzione diretta dell’ampiezza della quota di mercato delle imprese: ecco perché Mc Donald e non Burger King, o Microsoft e non Apple, sono bersagli di attacco per i movimenti anti‐globalizzazione. Possiamo in via definitiva affermare che la migliore ricetta per gestire la reputazione d’impresa sembra quindi consistere in un impegno sociale credibile, costruito sui fatti, e non sulle parole.

1.2 Dal marketing al “societing” per un mercato sostenibile

La nuova società in rete , la forte competitività sui mercati, la mondializzazione, l’affinamento delle tecnologie di gestione manageriale hanno forzato la mutazione degli approcci di marketing realizzando uno shift paradigmatico e discontinuo, ben rappresentato dalle panacee del nuovo

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C. J. Fombrun, C. Riel,“Fame and Fortune: How Successful Companies Build Winning Reputations”,Prentice Hall, 2003 M. Schwaiger, "Components and parameters of corporate reputation – an empirical study", Schmalenbach Business Review, 2004 72 Il concetto di cultura organizzativa è qui inteso secondo il contributo di E.H.Shein , che definisce la cultura di un’organizzazione come “ un insieme di assunti di base – inventati, scoperti o sviluppati da un determinato gruppo quando impara ad affrontare i propri problemi di adattamento con il mondo esterno e di integrazione al suo interno – che si è rivelato così funzionale da essere considerato valido e, quindi, da essere indicato a quanti entrano nell’organizzazione come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi”. – Cit. Edgard H. Shein, “Cultura d’azienda e leadership”, Edizioni Angelo Guerini e Associati , 1990 73 Cit. Mark Eisenegger, saggio “Trust and Reputation in the age of globalization” in J. Klewes, R.Wreschniok, “Reputation Capital”, Springer‐Verlag Berlin and Heidelberg GmbH & Co. K, 2009, pag 11 71

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marketing evidenziate da Cova, Badot e Bucci 74 . È prassi ormai riconoscere l’evoluzione dell’impresa moderna in quattro fasi: dal marketing di product‐oriented , al sales‐oriented (all’indomani della crisi del ‘29), all’orientamento al marketing (che inizia negli anni ’50) fino a giungere all’orientamento al consumatore (favorito dalla rivoluzione digitale). La centralità del consumatore è diventata vettore di una trasformazione profonda, che pone al centro dell’attenzione la costruzione di relazioni durature tra brand e consumatore, e che prevede una reale apertura all’ascolto delle esigenze di quest’ultimo. A tal proposito, Fabris 75 descrive la marca come “un motore semiotico che veicola un insieme di segni distintivo, coerente con la sua cultura, credibile, emozionalmente coinvolgente, socialmente rilevante, capace di intercettare le dimensioni più rilevanti dello Zeitgeist. Il costante fine tuning per adeguarvisi diviene condizione imprescindibile per assicurare alla marca una cittadinanza di successo nel nuovo scenario. “ Molti brand sono infatti scomparsi o diventati marginali perché non hanno saputo intercettare, leggere ed adeguarsi ai nuovi trend sociali. Il management ha però degli strumenti che facilitano l’armonizzazione della marca con l’evoluzione dei valori sociali, ed il vettore principale consiste proprio nell’aprire la propria azienda alla relazione con i suoi consumatori. Fabris ci avvisa però che, nonostante sia sempre più evidente la necessità di un cambiamento radicale degli approcci del marketing (come proposto in “Rethinking Marketing” 76 ), e contrariamente alla tesi di intelligenza camaleontica caratteristica del marketing proposta da Collesei 77 , i veri segni di questa evoluzione, sono di là da venire. “Occorre – scrive Fabris ‐ porre davvero il consumo al centro del sistema con il mondo della produzione rivolto a soddisfarlo. Nessuna ingenua e improbabile subordinazione di quest’ultima,nessuno sconfinamento ad un ruolo di servizio, ma solo la rivendicazione di una rapporto tra pari dove il consumatore non è il contraente debole, ma uno stakeholder di rilievo, che disponga di tutele,diritti, potere contrattuale simmetrico rispetto alle grandi corporation.” 78 Il consumo non può più essere relegato ad agire economico, ma deve essere inteso come agire sociale (come serbatoio da cui l’individuo attinge per costruire ed esprimere la propria identità) per poterne comprendere le implicazioni generate nella società, una realtà in cui le dimensioni psicologiche, culturali e sociosemiotiche hanno ormai un peso determinante tra i driver del consumo. Il termine “societing”,proposto da Badot,Bucci e Cova 79 ad indicare un paradigma alternativo al marketing e più coerente con le evoluzioni della società dei consumi, sembra nella green economy ancora più pregnante ed efficace per affrontare con successo le sfide di mercato.

74

B. Cova, O. Badot, A. Bucci, “ Beyond Marketing: In Praise of Societing” , VisionMarketing 2006 – vedi: http://visionarymarketing.com/_repository/societing/societingcovabadotbucci.pdf 75 . G.P.Fabris, “Societing, il marketing nella società postmoderna”, Edizioni Egea 2009 – pag 64 , Cit 76 D.Brownlie, M. Saren, R. Wenley, R. Whittington, “Rethinking Marketing”, Edizioni Sage 1999 77 Saggio di U. Collesei. “Dal marketing dei beni al marketing dei servizi” in “Nuovi orientamenti negli studi di marketing” , Firenze University Press,2006 ‐ vedi http://www.fupress.com/Archivio/pdf%5C2602.pdf 78 G.P.Fabris, “Societing, il marketing nella società postmoderna”, Edizioni Egea 2009 – pag 218, Cit. 79 B. Cova, O. Badot, A. Bucci, “ Beyond Marketing: In Praise of Societing” , VisionMarketing 2006 – vedi: http://visionarymarketing.com/_repository/societing/societingcovabadotbucci.pdf

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Gli autori sottolineano che più che un paradigm shift che va dalla transazione alla relazione, dal prodotto al servizio, dal prodotto/servizio all’esperienza, alla soluzione, dalla creazione alla co‐ creazione, dall’individuo alla tribù, dal mercato al network, dal consumatore allo stakeholder, l’adozione del termine “societing” consente di tenere conto di tutti questi cambiamenti in modo responsabile: la sfera di attività non è più quella del mercato, ma della società, con tutte le conseguenze che ne derivano 80 (si pensi ai possibili sviluppi del capitalismo, e il rifiuto dell’over‐ marketing 81 ). L’orientamento al consumatore che postula il primato della soddisfazione dei bisogni del consumatore è l’unica risposta possibile a fronte di una manifestazione crescente non solo della sua competenza sui prodotti/servizi, ma anche dell’impazienza di vedersi riconosciuto un nuovo ruolo. “Il marketing relazionale può costituire la risposta più coerente con la transizione d’epoca – scrive Fabris ‐ una nuova concezione del marketing rivolta a costruire relazioni, a modificare l’attuale asimmetria tra domanda ed offerta, ponendosi nei confronti del cliente, in un’ottica di rapporto di lungo periodo.” 82 Portare il consumatore all’interno dell’impresa, significa coinvolgerlo nella co‐creazione del prodotto/servizio, porsi in una prospettiva di apprendimento verso i “veri proprietari della marca” e consentire al consumatore di diventare attore, partner dell’impresa. Questa strategia sembrerebbe poter sanare, di fatto, una realtà in cui il consumatore dimostra di sopportare sempre meno le comunicazioni top‐down e la mole di messaggi commerciali recapitati con strategie push ed invasive. 83 Proprio in questi anni infatti si sta verificando una progressiva disaffezione nei confronti del marketing: in una ricerca di Yankelovich 84 da cui risulta che il 60% dei consumatori ha un’opinione più negativa sul marketing e la pubblicità rispetto solo a qualche anno fa; il 61% ha l’idea che la crescita delle azioni di marketing e pubblicitarie sia sfuggita a qualche controllo; il 65% si sente costantemente bombardata da un eccesso di marketing e pubblicità. A questa sfiducia nei confronti del marketing, si aggiunga che internet, e l’interattività crescente abilitata dal web 2.0 stanno contribuendo alla formazione di nuove pratiche di acquisto e hanno costruito nuove vie per poter finalmente abbattere la condizione di subalternità del consumatore rispetto al dominio delle imprese. (si veda il capitolo 3)

80

B. Cova, O. Badot, A. Bucci, “ Beyond Marketing: In Praise of Societing” , VisionMarketing 2006 – vedi: http://visionarymarketing.com/_repository/societing/societingcovabadotbucci.pdf 81 J.K. Johansson, “In your face. How American Marketing Excess Fuels Anti‐americanism”, Edizioni Pearson, 2004 82 G.P.Fabris, “Societing, il marketing nella società postmoderna”, Edizioni Egea 2009 – pag 238, Cit. 83 A tal proposito, sono interessanti le intuizioni di Sheth Godin in “Permission Marketing”, Simon & Schuster, 1999 84 J. Walker Smith, Presidente della Yankelovich Partners , presenta i risultati della “Yankelovich Marketing Receptivity Survey”, 2004 : http://www.commercialalert.org/Yankelovich.pdf

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Sembra corretto a questo punto chiedersi come le imprese stanno interpretando questi segnali di mercato, quanto sono pronti ad affrontare l’arena della rete con un approccio paritario e innovativo? Si tratterà , come vedremo nei prossimi paragrafi, non solo di capire quali sono le strategie migliori per sviluppare la relazione tra brand e consumatore, ma anche di ripensare il classico modello del processo di acquisto alla luce dei nuovi media interattivi (nello specifico i social media). Infatti, se nella tradizione del marketing, un’esperienza negativa di consumo viene condivisa dal consumatore con una media di 10 altri individui, attraverso il web oggi questa dinamica viene amplificata notevolmente, perché il consumatore potrebbe raggiungere potenzialmente migliaia di altri utenti in rete. Questo meccanismo però torna a favore dell’impresa anche nei casi in cui il consumatore sia soddisfatto del prodotto/servizio e senta spontaneamente il desiderio di condividere questa esperienza attraverso le piattaforme del web 2.0.

2.La matrice del successo: il green marketing , le imprese e le persone Tra i metodi usati per comunicare la sostenibilità ambientale, possiamo notare almeno quattro aree di applicazione, che differiscono tra loro in termini di obiettivi strategici, e sono: 1) la Corporate Communication, che mira a formare un’immagine del brand responsabile e civico , e può essere sostanzialmente attuata con due modalità: a. Corporate Social Responsibility,ovvero una strategia di lungo termine che si basa su pratiche a favore dell’ambiente e della società e sul dialogo con i vari stakeholder dell’impresa (come abbiamo visto nel capitolo 1), b. Cause branding, che si riduce spesso ad operazioni singole, in cui puntualmente l’organizzazione sostiene una causa sociale e sono generalmente realizzate in partnership con organizzazioni esterne che conferiscono supporto di credibilità al messaggio della campagna; 2) il Social marketing ovvero incoraggiare I consumatori nell’acquisizione di comportamenti responsabili. In questo caso le imprese adottano un approccio educativo o didattico, dimostrando concretamente il loro impegno sui temi sociali, e andando spesso a sostituire o a sovrapporsi al ruolo delle autorità pubbliche. Le campagne di social marketing, per lo più veicolate sui mass media (tv, radio,stampa, pubblicazioni), sono affini alle campagne informative e usate talvolta dalle imprese per allertare l’opinione pubblica per temi rilevanti il core business(si pensi a The Body Shop e le campagne contro i cosmetici testati sugli animali). Sono molto utilizzate nei settori che sono più attinenti alla salute (alcohol,tabacco, alimentazione)all’ambiente(settore automobilistico ed energetico) o in quelli più incompatibili con i criteri di sostenibilità (i grandi retailers); 3) il Responsible marketing , cioè l’adozione di un codice di condotta per la comunicazione. L’obiettivo è quello di prevenire gli eccessi del marketing e di sostanziare questo impegno pubblicando informazioni sulle politiche di marketing/comunicazione e sulle altre iniziative sociali ed ambientali messe in atto dall’organizzazione. 45


Molte compagnie si sono dotate di specifici principi di marketing, ma le politiche non ne sono sempre una conseguenza sistematica e i risultati raramente pubblicati. Il management della comunicazione responsabile opera su più livelli: la formulazione di una politica specifica o l’adesione a standard esistenti (norme ISO), l’applicazione di policy interne alla compagnia, la successiva pubblicazione dei risultati. Questo tipo di approccio è diventato sempre più rilevante nel settore della salute e del cibo (si veda il gruppo Danone France e il programma “Danone Way”, 2002 – oppure il codice di condotta per le attività di marketing sviluppata da Carlsberg, 2002); 4) il Green marketing ovvero lo sviluppo di messaggi basati su argomentazioni etiche che esprimono le qualità materiali e simboliche del prodotto/servizio (proprietà intrinseche e benefici ambientali che ne derivano). Questo approccio si può realizzare in varie modalità: a. un’alternativa più attenta all’ambiente rispetto ai prodotti standard b. una garanzia di sicurezza per i consumatori (le certificazioni, le ecolabel ecc.) c. un impegno day‐by‐day verso comportamenti responsabili per il consumatore (come nel caso di prodotti innovativi – es. Toyota Prius) d. l’adesione a valori o il supporto a specifiche cause sociali (ad es. America Apparel e le politiche rispettose per i dipendenti e per l’ambiente). Per introdurre il contesto e la definizione delle attività di green marketing, è sufficiente osservare che i settori industriali che investono maggiormente nelle attività di comunicazione sono gli stessi che producono la maggior parte delle emissioni di CO2 nell’ambiente: mi riferisco a settori quali il trasporto, l’alimentazione e l’energia. A ben guardare, le industrie petrolchimiche e automobilistiche investono notevoli risorse in advertising. In alcuni settori, inoltre, solo una o poche compagnie investono generalmente più della metà dell’advertising. Uno studio condotto da Utopies(società di consulenza francese) 85 che ha analizzato le campagne pubblicitarie pubblicate su Newsweek dal 1997 al 2005 ha dimostrato che la quota di investimento pubblicitario di Shell 86 rappresenta oltre il 60% sul totale investimento del settore petrolchimico, e Opel e Toyota rappresentano insieme oltre il 50% dell’investimento pubblicitario del settore automobilistico. Mentre queste distinzioni hanno il vantaggio di offrire un quadro complessivo della pratiche possibili, I confini tra queste attività sono spesso molto sfumati: ogni impresa nel momento in cui decide di lanciare e promuovere un prodotto green spera anche di avere un ritorno positivo in termini di reputazione. Nel 1970 importati esponenti del marketing come Philip Kotler e Gerald Zaltman 87 evidenziavano che il concetto di social marketing era un concetto rilevante nella disciplina del marketing. Il social marketing venne definito come “l’applicazione di concetti e tecniche di marketing a diverse cause a beneficio della società. Piuttosto che prodotti/servizi in senso commerciale.” Questa definizione include implicitamente i concetti di preservazione, conservazione, e protezione dell’ambiente fisico come una componente del social marketing.

SustainAbility, UNEP & Utopies, “Talk the walk ‐ Advancing Sustainable Lifestyles through Marketing &

85

Communications”, 2005 : http://www.talkthewalk.net/ Shell e l’ iniziativa “The New Energy Future” – vedi http://www.shell.com/home/content/responsible_energy/nef/

86 87

Ph. Kotler, G Zaltman –“ Social marketing: an approach to planned social change”, Journal of Marketing, 1971

46


Sulle tesi del social marketing, Henion e Kinnear 88 hanno offerto una definizione di marketing ecologico: ...”il marketing ecologico è legato a tutte le attività di marketing: (1) che possono in qualche modo contribuire a risolvere il problema ambientale, e (2) che offrono un rimedio ai problemi ambientali. Per questo motivo, il marketing ecologico è lo studio degli aspetti positivi e negativi delle attività di marketing sull’inquinamento, l’impoverimento delle fonti energetiche. Più recentemente Mintu e Lozada 89 hanno definito green marketing come “l’applicazione degli strumenti di marketing per facilitare scambi che soddisfano gli obiettivi individuali e dell’organizzazione tenendo in alta considerazione la preservazione, la protezione e la conservazione dell’ambiente”. Con questa definizione Mintu e Lozada sottolineavano che il marketing va oltre la costruzione dell’immagine del brand. Tra le diverse panacee del nuovo marketing individuate da Cova, Badot e Bucci 90 , anche gli autori hanno rilevato la presenza di un cluster specifico del marketing, a cui hanno attribuito il nome di “market environment”, che si focalizza sul contesto socioculturale in cui si sviluppa il mercato e su gli attori esterni che vi agiscono. A questo cluster appartengono, secondo la loro classificazione il Cause Related Marketing, l’Ecomarketing, il Green Marketing, il Network Marketing, il Trend Marketing, ecc. Si può intuitivamente notare che i primi tre degli approcci appena citati afferiscono al marketing etico, ovvero quell’insieme di tecniche e strategie per mezzo della quali un’azienda, consapevole del suo ruolo economico, politico e sociale intende mettere in atto dei comportamenti congruenti ai principi etici socialmente condivisi. Fabris evidenzia come il marketing etico sia diventato uno strumento strategico per l’impresa, soprattutto alla luce delle pressioni esercitate dagli stakeholder, e in primis dai consumatori, verso una progressiva eticizzazione dei comportamenti d’impresa, e dal capillare diffondersi del dibattito sulla responsabilità sociale d’impresa. 91 In pratica, argomentazioni etiche possono essere incluse in ogni stadio di sviluppo di una strategia di marketing – la piattaforma sulla quale un prodotto è posizionato, l’insight (ovvero la formulazione di un problema o di specifiche aspettative alle quali il prodotto dovrebbe rispondere), i benefici pratici o simbolici del prodotto e la descrizione delle sue proprietà intrinseche per dimostrare quali aspettative può soddisfare realmente e dargli credibilità (quella che in termini pubblicitari chiameremmo la “reason to believe”). Su queste premesse dovrebbe basarsi l’interpretazione della corrente del marketing che viene definita appunto “Green”. Con la locuzione Green Marketing si intende quindi definire un marketing che lavora costantemente per offrire sul mercato soluzioni , siano esse prodotti o servizi, che soddisfino le esigenze dei consumatori a prezzi ragionevoli e che al contempo siano ecologiche, sviluppate cioè valutando il loro impatto ambientale. 92 Al green marketing eravamo però già arrivati nel 1989, con quello che all’epoca veniva chiamato il “bandwagon del 88

Karl E. Henion II and Thomas C. Kinnear, “Ecological Marketing” , American Marketing Association, 1976 A.T. Mintu and H.Lozada ,"Green Marketing Education: A Call for Action," Marketing Education Review, Fall 1993 90 B. Cova, O. Badot, A. Bucci, “ Beyond Marketing: In Praise of Societing” , VisionMarketing 2006 – vedi: http://visionarymarketing.com/_repository/societing/societingcovabadotbucci.pdf 91 G.P.Fabris, “Societing, il marketing nella società postmoderna”, Edizioni Egea 2009 92 J.A.Ottman, “Green Marketing”, Edizioni Il Sole24 Ore, 1995 89

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consumatore verde” 93 , indicando una tendenza cui la gente partecipava semplicemente perché altri lo avevano già fatto, e non volevano restarne tagliati fuori. Le preoccupazioni degli anni ’80 scaturivano da una serie di catastrofi di origine naturale e antropica in diversi luoghi del pianeta. “The Green Consumer Guide” 94 pubblicato nel 1988 vendeva un milione di copie, ma come afferma Joel Makower, mancava di sostanza: i primi prodotti ecologici furono un puro fallimento in termini qualitativi, e ben presto il fenomeno cadde in una triste e arrendevole svalutazione. “In passato ‐ scrive Grant ‐ uno dei maggiori ostacoli era stata la fretta di sfruttare l’agenda ambientale per fini commerciali” 95 ;ma il primo passo verso un green marketing sostenibile consiste proprio nel capire che i problemi ambientali esigono un salto di qualità, e non sono sufficienti restyling di immagine. Il Green Marketing è legato ai temi dell’ecologia industriale, della sostenibilità ambientale come estensione della responsabilità dei produttori, all’analisi del ciclo di vita dei prodotti, ai flussi delle risorse e l’uso delle materie prime, all’eco‐efficienza, ma anche alle modalità di realizzazione della comunicazione e della pubblicità. Hector R. Lozada (fig 5) 96 , infatti, le fasi di sviluppo dei prodotti/servizi dovrebbero seguire la seguente prescrizione . Come si intuisce, disciplina del green marketing è molto ampia e comporta notevoli implicazioni per la strategia dell’impresa e la sua politica pubblica. L’efficacia dei sistemi di management per la conversione dei processi e dei prodotti verso il green, diventerebbe anche difficile da quantificare qualora non fosse accompagnata dalla misurazione delle performance. È necessario quindi stabilire degli indicatori che possano essere facilmente monitorabili e compresi per poter verificare e rendere credibili le dichiarazioni sull’impatto ambientale comunicate dal management. Si presume infatti che i consumatori potrebbero prendere in considerazione queste imprese se potessero accedere e interpretare in modo semplice queste informazioni. In quest’ottica, sincerità, trasparenza, coerenza, analisi e credibilità diventano i vettori di una comunicazione efficace e sono declinabili su strumenti e metodologie che coniugano marketing e prospettive sociali. Sincerità e trasparenza sono elementi cruciali che legittimano e donano rilevanza alla comunicazione: questo risulta evidente quando l’organizzazione sceglie di impegnarsi sia rispetto agli standard legali obbligatori che a quelli volontari. L’idea è infatti quella che il marketing e la comunicazione debbano evitare qualsiasi tipo di strumentalizzazione dell’approccio etico legato alla sostenibilità, altrimenti rischierebbero di subire severe sanzioni non solo dai consumatori, ma dalla società civile in generale.

93

Grant J. (2009) “Green Marketing Manifesto”, Brioschi editore – pag 21, cit. J. Elkington, J. Hailes, “The Green Consumer Guide:From Shampoo to Champagne – High street shopping for a better environment”, Victor Gollancz Edizioni ,1988 – poi tradotto in “Guida verde del consumatore”, Longanesi, 1992 95 Grant J. (2009) “Green Marketing Manifesto”, Brioschi editore – pag 23, cit. 96 Hector R. Lozada, “Ecological sustainability in Marketing Strategy:Review and Implications”, Seton Hall University,1999 94

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Fig 5 : Fasi di sviluppo di un prodotto/servizio

STAGE 1

STAGE 2

STAGE 3

STAGE 4

Fase di sviluppo. Tradizionalmente caratterizzata dall’acquisizione delle materie prime, componenti, e sub‐assemblati. L’approccio alternativo qui suggerito incoraggia i produttori nel 1) controllare i programmi ambientali dei fornitori, 2) richiede input di packaging minimali, e 3) di considerare le fonti dei materiali che potrebbero essere facilmente riempiti o possono essere riciclabili. Fase della Produzione. Le imprese di produzione sono incoraggiate a ridurre le emissioni, la tossicità, e i rifiuti e di preservare acqua ed energia. Le imprese sono anche incoraggiate a cercare e sviluppare usi alternativi per i prodotti di scarto (per es. i processi di recupero dei rifiuti), di revisionare i processi produttivi per minimizzare la generazione di rifiuti, di minimizzare l’uso di energia, e/o di trovare fonti di energia alternativa. Fase d’uso/consumo. Minimizzazione del packaging, conservazione dell’energia, e minimizzazione dei rifiuti dalla manutenzione dei prodotti/ servizi sono fortemente raccomandati. Inoltre le imprese potrebbero promuovere la conservazione dell’energia e dovrebbero offrire informazioni sulla riciclabilità o il riuso del packaging o del prodotto. Fase dello smaltimento. Il green marketing introduce i concetti di riuso e riciclabilità, oltre al concetto di riduzione dei rifiuti.

Fonte : Hector R. Lozada, “Ecological sustainability in Marketing Strategy:Review and Implications”, Seton Hall University,1999 – pag 3

L’efficacia della comunicazione passa anche attraverso la coerenza. Questo significa che l’organizzazione si deve impegnare in iniziative che siano vicine al suo core business e che implichino una certa proattività, anziché reattività ai temi della sostenibilità. Qualora infatti la comunicazione avvenga solo in caso di un periodo di crisi, la sua efficacia sarebbe decisamente inferiore rispetto ad un approccio costante. Infine questa coerenza deve investire tutte le aree dell’organizzazione , deve essere uno specchio della cultura dell’impresa e riflettersi quindi sia all’interno (formazione interna) che all’esterno (pr, lobbying, pubblicità). La conoscenza del target , delle percezioni e dei comportamenti dell’audience offre generalmente una solida base su cui progettare le operazioni di comunicazione: per esempio consente all’impresa di identificare gli ostacoli all’adozione dei prodotti green che possono essere legati alla categoria di prodotto (in merito a prezzo e qualità) o la sua posizione in un settore il quale valore simbolico prevale sui benefit sociali ed ambientali. L’analisi in questi casi rende possibile determinare il livello di legittimità ascritto all’organizzazione della comunicazione (dell’impresa o dell’istituzione) in relazione ad un dato set di temi e di pratiche specifiche (pubblicità, marketing sociale, green marketing, ecc.) Infine , ma non per rilevanza, c’è da considerare la credibilità della comunicazione o dell’azione di marketing come frutto di un lavoro attuato su più livelli: è necessario per esempio che una strategia integrata di sostenibilità a livello operativo sia connessa ai messaggi espressi all’esterno dall’organizzazione; che l’organizzazione sviluppi partnership con organizzazioni indipendenti e 49


pertinenti (NGOs, organizzazioni internazionali); che siano utilizzate etichette (ecolabel) assegnate da enti indipendenti o referenze a specifici codici di condotta, soprattutto nel contesto del green marketing. “Il punto che differenzia le strategie proposte in questo libro – scrive Grant – dalla maggior parte del lavoro di responsabilità sociale d’impresa è che non ci limitiamo a preoccuparci delle conseguenze negative, ma perseguiamo le opportunità positive. … Ecco perché dobbiamo aggiungere gli esiti culturali come terzo criterio di un marketing “verdissimo”: 1 risultati commerciali 2 risultati ambientali 3 Risultati culturali ” 97 2.1 Verde, più verde, verdissimo

Giungiamo dunque al cuore di questo mio lavoro, il seme da cui è scaturita l’intera riflessione sulle sfaccettature di un nuovo marketing (come chiamato da Fabris, da Cova et al.), postmoderno se vogliamo, che pone al centro delle sue attenzioni un consumatore critico. Nel testo di Grant, “Green Marketing Manifesto”, l’autore presenta una matrice composta di nove riquadri, con una struttura 3x3x2 (fig.6) , che rappresentano una tassonomia degli obiettivi di green marketing fin oggi documentati.. questi obiettivi sono : a. Verde. Stabilire nuovi standard per i prodotti, le politiche e i processi responsabili. In questa colonna si evidenzia che la funzione della comunicazione è quella di promuovere le aziende sostenibili, le credenziali di un marchio e i pregi di un prodotto mantenendosi il più possibile aderenti alla verità fattuale ed agendo con integrità. Questa colonna della matrice evidenzia un rinnovato interesse da parte dei consumatori verso i prodotti ecologici e quindi la loro disponibilità ad ascoltare le storie che l’organizzazione ha da raccontare in merito alle iniziative intraprese. b. Più verde. Condividere la responsabilità con i clienti. Questo obiettivo segna un passaggio importantissimo nello sviluppo di una società sostenibile: la collaborazione tra impresa e consumatore può generare un impatto molto più importante e consistente sugli obiettivi di sostenibilità. Questa prospettiva , agevolata dalle nuove tecnologie e dal web 2.0, consente di coinvolgere e aggregare le persone intorno ad interessi condivisi, sfumando la separazione tra commercio ed hobby. Come in tutte le scelte però, l’organizzazione potrebbe correre il pericolo di trasformarsi in spettatore che approva vagamente gli attivisti nelle battaglie che conducono contro le multinazionali anche a nome loro: non resta altro quindi, in questo caso che incominciare a rivedere e modificare innanzitutto i comportamenti dell’impresa, onde evitare atti di ipocrisia che verrebbero scoperti e puniti dal pubblico dei consumatori. c. Verdissimo. Sostenere l’innovazione: nuove abitudini, nuovi servizi, nuovi business model. Sullo sfondo di una crisi economica che sta destrutturando le certezze del marketing e dell’industria e che sembra potersi risolvere anche grazie al settore dell’energia solare, è

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Grant J. (2009) “Green Marketing Manifesto”, Brioschi editore – pag 43

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sempre più pregnante la necessità di un cambiamento culturale, che passi attraverso l’innovazione (tecnologica, manageriale, di stili di vita). A questi obiettivi corrispondono tre livelli in cui qualsiasi tipo di marketing può operare: a. Pubblico (aziende come fonte credibile. Leader o partner culturale) b. Sociale (significati del marchio/istinto dell’orda/tribù/comunità) c. Personale( prodotto/vantaggi/singolo acquirente) Fig 6: Matrice dimensione‐obiettivi‐ approcci del green marketing proposta da John Grant

Fonte:elaborazione di Sara Magnolia una blogger italiana 98 che ha recensito il libro di John Grant e ne ha gentilmente voluto condividere lo schema proposto

L’autore individua per ogni quadrante le strategie di marketing che si possono adottare e li supporta con esempi e case history. Procediamo quindi nella presentazione delle alternative percorribili. A1 –VERDE, PUBBLICO Æ DARE L’ESEMPIO Questo quadrante include gli esempi di aziende che si pongono come esempio nella società, adottando politiche green. L’autore sottolinea la necessità di porsi innanzitutto una domanda del tipo: “è davvero necessario comunicare il proprio impegno sulla CSR? In generale si possono distinguere tre approcci che corrispondono ad altrettante culture nazionali: 1. se l’avete fatto,ostentatelo: America. Negli USA,infatti, il carbon offsetting è stato un fenomeno di grido che ha permesso alle grandi imprese di rafforzare le proprie credenziali 98

Sara Magnolia,” The Green Marketing Manifesto di John Grant” – book review sul blog Terra e nuvole – Wordpress.com, 18 ottobre 2009 ‐ http://www.terraenuvole.com/the‐green‐marketing‐manifesto‐di‐john‐grant/

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ecologiche e di lanciare offerte promozionali sul mercato; 2. è importante che la gente veda che state facendo la vostra parte (per esempio Marks &Spencer) : Regno Unito; 3. fatelo e non ditelo in giro (per esempio Ikea): Scandinavia. In Svezia, aziende come Tetrapack sono carbon neutral ma non intendono divulgarlo perché non ci sono standard convenzionali, e perché ritengono che essere ecocompatibili significhi semplicemente assumersi una responsabilità imprenditoriale e non una virtù da sbandierare. A questi stili comunicativi possono essere aggiunti un approccio framing o un approccio pointing. Nel primo caso, le strategie di marketing e comunicazione punteranno a rendere familiari, intuitive e semplici le politiche di innovazione, o proporre uno scenario alternativo ad un altro estraneo e minaccioso. L’approccio pointing invece, consiste nell’offrire esempi specifici, come ad esempio General Electric con il progetto Ecomagination (1,5 miliardi di dollari di investimenti in ricerca per tecnologie pulite, l’obiettivo di ridurre del 30% l’intensità dei gas serra entro il 2008) o il caso DuPont, che ha tagliato i gas serra del 75% a partire dal 1990, o ancora il caso BASF, (che ha progettato una casa a energia quasi‐zero con un’efficienza dell’80% superiore alle case tradizionali). A2 – VERDE, SOCIALE Æ AVERE PARTNER CREDIBILI Si tratta in questo caso di conquistare i consumatori che vogliono acquistare in modo più sottilmente emotivo perché si identificano con l’immagine,i valori e l’identità dell’offerta. Per non rischiare di cadere però nel greenwashing, l’autore suggerisce di percorrere la strategia di affiancamento ad un marchio che possa donare di riflesso credenziali di sostenibilità. Questa proposta sembra essere del tutto in linea con il cambiamento di strategia di costruzione dei brand, avvenuto in anni recenti, che conduce da strategie di suggestione (ad esempio l’utilizzo di testimonial per creare associazioni emotive) a strategie di partnership (in cui la collaborazione tra organizzazioni punta a generare qualcosa di veramente nuovo e diverso. In questo quadrante troviamo descritti gli approcci : • approccio certificazione, che comprende appunto tutte le pratiche volte ad acquisire e comunicare le credenziali di qualità ed eco‐efficienza dell’organizzazione (nel capitolo 1 abbiamo descritto le numerose possibilità di certificazione e gli enti che ne curano il rilascio). Gli effetti positivi prodotti da questo approccio intervengono non solo su produttori e rivenditori (spingendolo ad acquisire comportamenti responsabili) ma creano anche una scelta laddove prima non c’era (il consumatore potrebbe tenere in maggiore considerazione i prodotti dotati di certificazione ambientale). Di contro, il consumatore che acquista un prodotto certificato potrebbe sentirsi piuttosto virtuoso e tralasciare l’impatto che i restanti prodotti o i suoi comportamenti hanno sull’ambiente; • cause‐related marketing , che permette di collegare un marchio all’idea di “fare la cosa giusta” tramite il rapporto con un’organizzazione non profit e le sue finalità. Si pensi ad un esempio su tutti: il marchio (RED)® 99 , che ha venduto licenze di utilizzo per un valore di 18.7 bilioni di dollari (e di cui viene messa in dubbio la reale capacità di raccolta rispetto a

99

Il marchio (RED) è stato creato nel 2002 dal The Global Fund, una partnership tra governi, società civile, enti privati e comunità per raccogliere fondi da destinare alla ricerca su AIDS, tubercolosi e malaria ‐ vedi http://www.joinred.com

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quanto i marchi aderenti abbiano speso per il suo marketing). Il punto debole del CRM sembra essere che la sua efficacia possa essere direttamente proporzionale alla popolarità della causa promossa, ma rimane uno strumento molto efficace per la costruzione del brand e della loyalty. A3 – VERDE, PERSONALE Æ SOTTOLINEARE I VANTAGGI COLLATERALI L’autore evidenzia come la USP (Unique Selling Proposition) tradizionalmente utilizzata nelle campagne pubblicitarie per risaltare la proposta distintiva del prodotto x rispetto agli altri prodotti della stessa categoria (in mercati con poche reali differenziazioni) non sia più adeguata ad affrontare la sfida del green marketing, che al contrario, dovrebbe puntare ad evidenziare i vantaggi collaterali che l’uso del prodotto/servizio comportano (vantaggi sociali,economici,politici – dal risparmio alla resistenza, alla genuinità). All’interno di questo quadrante è possibile individuare due specifici approcci: • approccio meno, che punta ai valori della convenienza, della praticità ed altri vantaggi di base simili (si veda l’esempio di Muji,un’azienda che negli ultimi dieci anni è crescita fino a totalizzare circa 285 punti vendita in giro per il mondo, e che vende prodotti semplici a prezzi contenuti, ‐ anche se di fatto in Europa risultano essere più cari ‐con materiali e soluzioni attenti all’ambiente). • approccio più, spesso legato al lusso, che lavora sulle sfumature e su una visione più raffinata dei brand come parte di una certa qualità della vita (si veda l’esempio di Green &Black’s 100 , produttore di alimenti biologici, poi acquisito da Cadbury, che lanciò la prima linea di cioccolato biologico di alta qualità, distribuendo campioni omaggio con le principali riviste di cucina. Attualmente il brand , distribuito anche da Harrods, fattura al dettaglio 50 milioni di sterline e cresce del 50% annuo) I prodotti green spesso sono più costosi all’interno della categoria a cui appartengono. Per esempio i prodotti “organici” costano mediamente dal 13% al 30% in più dei prodotti tradizionali. Nel caso del “commercio equo e solidale”, il prezzo dei prodotti può addirittura raddoppiare. dettaglio adottano diversi approcci al pricing dei prodotti che rientrano nella categorie sopracitate: per esempio Sainsbury, la catena di supermercati inglese, insieme ad altri distributori, rifiutano di promuovere i prodotti organici sulla base del prezzo perché i costi di produzione sono oggettivamente alti. Al contrario, altre compagnie cercano di incoraggiare i consumatori abbattendo la barriera del prezzo: Ahold’s Albert Heijn , in Olanda, offre riduzioni di prezzo dal 5% al 35% su una selezione di 25 prodotti organici. In Francia, Auchan ha abbassato i margini di profitto sul commercio equo e solidale o “fair trade” che dir si voglia, ben del 25%. Molto spesso inoltre accade che nonostante il potenziale e l’attrattività dell’offerta, il lancio di prodotti green si riveli un fallimento commerciale soprattutto per la barriera del prezzo: un esempio è stato il lancio della Volkswagen 3L Lupo, che nonostante vantasse la migliore performance di mercato sulle emissioni ci CO2, ha subito notevoli difficoltà a livello commerciale; o ancora il caso della Toyota Prius, la macchina ibrida più venduta al mondo, ha avuto una performance finanziaria molto modesta rispetto alla sua popolarità.

100

Green & Black’s Organic Chocolate – si veda http://www.greenandblacks.com/uk/home.html

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B1 – Più VERDE, PUBBLICO ÆSVILUPPARE IL MERCATO In questo quadrante troviamo le strategie di quelle organizzazioni che sviluppano il mercato dei prodotti compatibili ed etici, cioè che collaborano con i clienti per ampliare/accelerare la domanda per le aziende che si convertono alla sostenibilità. L’ingrediente fondamentale di queste strategie è di fatto l’entusiasmo, la condivisione della passione per il prodotto/servizio con i clienti, che consente di elevare gradualmente lo status del consumatore da disinteressato ad interessato, da interessato ad attivo, da attivo ad informato, da informato e riformato. Questa scala, come si può notare, conduce al consumo etico, inteso come consumo responsabile, in cui le percezioni dei consumatori sono correte e gli consentono di formare in prima persona dei giudizi sui temi ambientali e i legami con il consumo (si pensi alla diatriba tra prodotti locali e biologici) All’interno di questo macro obiettivo, abbiamo due vie di implementazione delle strategie: • approccio educativo , che comprende campagne informative ed è ovviamente più attuabile anche da parte dei giornalisti, portali e altri media. Si consideri l’esempio di BSkyB, la rete televisiva di Murdoch, che ha realizzato l’iniziativa “The Bigger Picture”, un programma di comunicazione che coinvolgeva sia l’azienda (con la riduzione dell’emissione di CO2) che il pubblico dei telespettatori, offrendo una serie di contenuti educativi ed informativi sull’impatto degli stili di vita attuali sulle emissioni di co2, l’energia rinnovabile ecc. (il format “Green Britain” , 2007 101 ) • approccio militante, in cui le aziende sono portatrici di valori politici. Esempi di questo approccio sono The Body Shop con Anita e Gordon Roddick, o di Benetton quando Oliviero Toscani era responsabile della pubblicità (1982). La criticità di questo approccio consiste nella possibilità di pensare ad una grande azienda, intesa come distinta dai suoi leader, come depositaria di un sistema di valori politici. E soprattutto, qualora le imprese vogliano comunicare dei valori politici, le scelte dovrebbero essere presentate in maniera accessibile e normalizzante. B2 – Più VERDE, SOCIALE Æ BRAND SOCIALI/TRIBALI Questo tipo di marketing si basa sulla collaborazione con i clienti per creare il brand. La leva principale consiste nel desiderio di appartenenza ad una tribù o comunità e la conferma della propria identità come membro di questi gruppi. I brand fondati sull’aggregazione e sul senso di appartenenza sono diventati infatti sempre più importanti, anche per i marchi verdi, ma parallelamente più fluidi e mescolabili. In questo quadrante troviamo due approcci fondamentali: • approccio invidia (esclusivo) , che spesso ricorre al reclutamento di celebrità seducenti per rendere apprezzabile lo stile verde alla maggioranza. Questo approccio gioca sulla stratte connessione tra cultura consumistica moderna e l’invidia, o il suo omologo – l’esclusività. Un esempio è stata la strategia impiegata per promuovere la Toyota Prius, un prodotto verde cresciuto grazie alla sua adozione da parte delle star di Hollywood (Cameron Diaz, Brad Pitt, Kirsten Dunst et al.) • approccio empatia (inclusivo), dove il brand‐ icona viene veicolato da una style‐tribe. In genere questo processo (anche in questo caso generosamente agevolato dal web 2.0) parte con il lancio di un magazine su internet che definisca una tribù; poi si passa all’offerta

101

“Green Britain”, BSkyB, 2007 – esempio format ‐ vedi http://news.sky.com/skynews/Home/video/Green‐Britain‐ Britains‐Greenest‐ School/Video/200701214160914?lid=VIDEO_14160914_Green%20Britain:%20Britain%27s%20Greenest%20School&lp os=searchresults

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di prodotti nati sulla stessa filosofia. Un esempio di questo approccio è l’azienda Real Simple 102 , che cura una rivista per il target delle donne “yummy mummy” (definizione inglese) e punta a semplificare la vita del cliente, facendo spesso richiamo anche al riuso dei prodotti e delle confezioni di scarto. Il dilemma principale dell’approccio inclusivo consiste nelle reazioni delle community nel momento in cui i marchi vengono ceduti o acquisti da altre imprese, più spesso multinazionali, provocando una sensazione di tradimento da parte del bran( perché il pubblico si ritiene davvero padrone del marchio dell’azienda.

B3‐ PIU’ VERDE, PERSONALE ÆCAMBIARE LE ABITUDINI D’USO In questo quadrante si esamina la possibilità di chiedere al cliente come si comporta e quali reazioni avrà dopo l’acquisto. Coinvolgere le persone in questo processo porta benefici culturali nei termini in cui riesce ad attivare “la disponibilità dei consumatori a fornire il proprio contributo, rende normale vivere secondo uno stile sostenibile, si espande per contagio da un’attività all’altra.” 103 Possiamo modificare i nostri comportamenti, ad esempio lavando a 30° il bucato come ci suggerisce Ariel, oppure possiamo abbandonare consumi dannosi. Non è però una strategia di semplice implementazione per diversi motivi, tra cui la mancanza di idee intelligenti su azioni fattibili per le persone e pertinenti ai marchi. Anche all’interno di questa categoria ci sono due approcci distinti: • approccio convertire, cioè stimolare comportamenti più compatibili garantendo di minimizzare costi (anche se sono ammessi leggeri sovraprezzi),fatica e sacrificio. Queste alternative possono essere usate per differenziare un servizio aumentandone l’attrattività agli occhi di chi ha motivazioni etiche ed ambientali. Un esempio di questa strategia è la società londinese di taxi, Green Tomato, che usa solo le Toyota Prius (disponibili anche a noleggio) e compensa così le emissioni di CO2. • approccio tagliare, ovvero ridurre gli acquisti e l’uso delle merci. Una proposta alquanto strana vista dalla prospettiva del marketing, eppure applicata già con successo da alcuni pionieri. Ne è un esempio la catena Sainsbury, che ha realizzato la campagna Bags For Life, per invogliare e sensibilizzare i clienti sull’uso delle buste di plastica; o ancora Mercedes, che in un classico spot televisivo invogliava a lasciare l’automobile in garage per i viaggi brevi, utilizzando la bicicletta. C1 – VERDISSIMO , PUBBLICO ÆCREARE NUOVI BUSINESS CONCEPT In questo quadrante Grant affronta la possibilità di creare nuovi business concept che mirino nono solo ad ottimizzare la dinamica tra domanda ed offerta di mercato, ma anche a diminuire l’impatto ambientale. Tutta l’argomentazione è incentrata sul ruolo giocato dal web nel consentire alle persone di ritornare alla dimensione di villaggio ‐ community(condizione persa con l’avvento della modernità) con modalità nuove e probabilmente inaudite. In seno ai marchi tradizionali le piattaforme web di software connettivo e collaborativo hanno portato al coinvolgimento del cliente nel processo di produzione (ad esempio le recensioni dei lettori di Amazon, o la Fabbrica di Lego con kit progettati dagli utenti). Si tratta di cogliere al meglio l’opportunità insita nel 102 103

“Real Simple” magazine – vedi http://www.realsimple.com/ Grant J. “Green Marketing Manifesto”, Brioschi editore, 2009 – pag 157

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prosumer 104 , il suo entusiasmo, nella sua competenza rispetto ai prodotti. Esistono due approcci fondamentali: • approccio produzione sociale, la cui innovatività dovrebbe essere fonte di ispirazione per chi progetta nuovi business. Al successo di questo approccio contribuiscono, soprattutto se implementato via web – le seguenti condizioni: 1. la presenza si un software applicativo ben definito, e che non tema rivali; 2. Entusiasmo condiviso; 3. Utility e piattaforme intuitive e di facile utilizzo; 4. Stimolare la creatività delle masse; 5. Favorire i contributi degli utenti; 6. Community e advocacy; 7. Legare ciò che accade nel web con la vita reale. Si veda il successo generato da progetti come Linux, il popolare sistema operativo open source gratuito e sviluppato con il contributo volontario di numerosissimi esperti di informatica e programmazione ; o anche Freecycle.com, la community dedicata al baratto e al riciclo che conta 4.700 comunità locali sparse per il mondo; • approccio profit, spesso la tipica conseguenza che deriva dalla crescita delle iniziative di produzione sociale, perché richiedo notevoli costi di gestione . Si considerino un esempio le donazioni che riceve Wikipedia e che servono alla manutenzione dei server che hostano i dati prodotti dagli utenti. O ancora l’iniziativa PerkUp YourLife, promossa da Starbucks in collaborazione con la Banca del Tempo e la compagnia assicurativa Royal &Sun Alliance: i gruppi locali possono organizzare (dal web al punto vendita Starbucks)incontri e richiedere finanziamenti fino a 1000 sterline per realizzare progetti nella zona. C2 – VERDISSIMO , SOCIALE Æ IDEARE CAVALLI DI TROIA Questa strategia riflette la possibilità di usare la tradizione o la moda come modalità per contribuire alla creazione di nuovi prodotti,servizi,aziende e stili di vita. Anche in questo quadrante abbiamo due vie: • approccio tradizionale, ovvero far sembrare normale ciò che è green per creare senso di familiarità e favorire l’adozione di nuovi schemi di vita. Un esempio evidentissimo è il social network Facebook.com, che attualmente è leader della suo settore, gestendo ben oltre 350 milioni di utenti 105 , e che è iniziato con il semplice obiettivo di mettere in contatto in modo semplice vecchi compagni di scuola. • approccio cool, mirato a creare fenomeni di tendenza, di moda, che per definizione verranno copiati da molti individui. C3 – VERDISSIMO , PERSONALE ÆAGIRE SUGLI STILI DI CONSUMO In questo approccio, l’ultimo quadrante della matrice, viene messo in discussione quello che fin ora è stata la tendenza consumistica dell’occidente, che –secondo Grant ‐ ci ha condotti ad un

104 105

A. Toffler, “La terza ondata”, Sperling &Kupfer, Milano 1987 Dati comunicati da Facebook.com ‐ vedi http://www.facebook.com/facebook?ref=pf#/press/info.php?statistics

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iper‐consumismo che influenza le nostre scelte e le nostre abitudini. Le osservazioni presentate in questo passaggio sembrano un po’ la summa di tutto ciò che è stato presentato fin ora, ed allo stesso tempo il principio base che renderebbe efficaci tutte le altre strategie. Per raggiungere qualunque obiettivo verde di un certo rilievo bisogna colpire queste abitudini consumistiche ed agire su due fronti: uno stile di vita migliore e un modo per renderlo culturalmente accettabile. • approccio tesaurizzare, ovvero il prolungamento della vita media dei prodotti di uso comune. Questo approccio, in netta contrapposizione con lo spirito del consumo moderno e con il concetto di moda, può servirsi di diverse modalità per restituire senso ai prodotti: vengono qui introdotti come esempi il collezionismo ,i pezzi unici (personalizzati o singolari), prodotti di nicchia(per esprimere la propria identità),ricordi, retrò(che evocano nostalgia , come i taccuini Moleskine), classici, lo‐fi (recupero di vecchi prodotti di qualità), definitivi, resistenti al futuro (prodotti che consentono un upgrading), fai da te (i prodotti realizzati personalmente sono quelli da cui ci si stacca con maggiore difficoltà), tesaurizzare (avere poche cose ma buone) • approccio condividere, uno tra i più difficili da implementare perché suscita resistenze su larga scala. Infatti il concetto di possesso e proprietà privata è un pilastro della cultura capitalista e anche un principi odi regolazione dei diritti di un individu0o nella società civile. Il radicamento di tali assunti potrebbe essere attenuato solo nel momento in cui i vantaggi in termini economici e pratici fossero così lampanti da non suscitare ulteriori critiche all’adozione. Si pensi al possibile risparmio derivante dal car sharing (pratica che si sta diffondendo sempre di più da 10 anni a questa parte), o dalla possibilità di avere un nuovo sistema di condivisione per le biblioteche pubbliche.

2.2 Il greenwashing e il boicottaggio

“Greenwashing è un termine nato nel movimento di lotta alle mutinazionali, ma ce ne sono stati anche casi denunciati da attivisti del brand consumer marketing: • aziende che descrivono i propri prodotti come naturali, quando di fatto sono geneticamente modificati o, nel caso di animali di allevamento, nutriti ad antibiotici; • nomi di marchi e affermazioni fuorvianti, come quello della linea Herbal Essences, che fanno balenare un’esperienza biologica integrale mentre sono zeppi di chimica inorganica” 106 Il “Greenwashing” è percepito come un tentativo di minimizzare le conseguenze sociali e ambientali delle principali attività delle imprese. Il termine è usato quando un’organizzazione prova a costruire un’immagine responsabile in modo artificiale o abusivo strumentalizzando questioni e principi etici. Nello specifico, il termine greenwashing fa riferimento a pratiche di comunicazione opache o illegittime nella forma di un advertising fuorviante o falso, l’offuscamento di pratiche che sono contrarie alle regole e agli standard internazionali,l’ostentazione di buone pratiche che sono spesso minori rispetto alle sue principali attività, o la strumentalizzazione di parti terze legittimate.

106

Grant J. (2009) “Green Marketing Manifesto”, Brioschi editore – pag 70

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Il concetto di bluewashing è stato costruito sullo stesso modello. Il termine deriva dal colore della bandiera delle Nazioni Unite ed è usato per segnalare le compagnie che hanno aderito al Global Compact 107 ma che non rispettano i principi costitutivi dell’iniziativa. Shell, Nike e Nestlè sono spesso citate. La promozione attiva di approcci volontari per prevenire misure legali è indicate spesso come “deep greenwashing”. La condanna delle pratiche di greenwashing è legata non solo alla mancanza di una posizione etica, ma anche all’incompatibilità con le teorie economiche che legano l’equilibrio di mercato con la circolazione delle informazioni. Trasmettendo un’immagine falsa del brand o dell’organizzazione, il greenwashing interromper il flusso di informazioni che gli individui usano per fare scelte razionali e questo tende a minare l’equilibrio di mercato. Il rischio di essere attaccati per greenwashing può essere particolarmente alto, specialmente nei settori che hanno un maggiore impatto sociale ed ambientale (industrie inquinanti, settore automobilistico, dell’energia, ecc.) e per le organizzazioni e i brand che hanno una presenza pubblica molto forte e diffusa. Negli ultimi dieci anni alcune organizzazioni ambientaliste e di attivisti hanno sviluppato degli strumenti per valutare la genuinità della comunicazione d’impresa quando questa è basata su argomenti etici o evoca un impegno in comportamenti responsabili. Alcuni esempi sono: • Greenpeace, che ha sviluppato il “greenwashing detection kit” 108 strumento di valutazione che si basa su alcuni indicatori specifici, come: il core business “non sostenible” ma non dichiarato tale, la pubblicizzazione di buone pratiche e la dissimulazione si problemi irrisolti, la mancanza di investimenti in tecnologie eco‐sostenibili, di attività di lobby per iniziative volontarie e contro la regolamentazione; • Il “Greenwash awards” 109 di Corpwatch (organizzazione non governativa di stampo ambientalista che monitora costantemente gli scenari del consumo e della produzione) che negli USA è stato assegnato a numerose compagnie, tra cui Ford, Shell, General Motors, per aver sviluppato campagne di comunicazione e pubblicitarie fuorvianti (soprattutto rispetto alle loro generali attività di lobby). Oltre questi esempi, legati alle NGO, spicca il lavoro condotto da EnviroMedia Social Marketing (agenzia pubblicitaria americana specializzata in green marketing) in collaborazione con la Scuola di Giornalismo dell’Università dell’Oregon (USA). Insieme hanno realizzato il progetto Greenwash Index 110 , una piattaforma web che raccoglie le campagne pubblicitarie green realizzate a livello internazionale, e consente agli utenti visitatori di assegnare un rating positivo o negativo alle campagne proposte. In tal modo la valutazione dell’advertising avviene in modo non mediato e spontaneo, e restituisce un feedback del gradimento del messaggio pubblicitario. Da quando è stato creato il sito web, consumatori da 138 paesi hanno postato o assegnato un rating alle campagne per segnalare le attività di greenwashing delle imprese. 107

Il Global Compact Network è un’iniziativa lanciata nel 1999 dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, e diventata operativa nel luglio del 2000. Il Global Compact è un’iniziativa politica strategica che promuove una cittadinanza di impresa responsabile, basata su 10 principi universalmente condivisi nell’area dei diritti umani, del lavoro,dell’ambiente e anti‐corruzione per far sì che il mondo del business trovi soluzioni alle sfide poste dalla globalizzazione e dagli obiettivi di sostenibilità. – si veda http://www.unglobalcompact.org/

108

Greenpeace Greenwashing Detection Kit ‐ vedi http://archive.greenpeace.org/comms/97/summit/greenwash.html Greenwash Award di Corpwatch – vedi http://www.corpwatch.org/article.php?list=type&type=102 110 The Greenwash Index – vedi http://www.greenwashingindex.com/ 109

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L’advertising, e la comunicazione d’impresa in generale, dovrebbero aiutare i consumatori facilitando il loro processo d’acquisto e informandoli sulle alternative possibili. Nel recente report sulla Sostenibilità del mercato del World Business Council for Sustainable Development (WBCSD), vengono indicate 7 chiavi di successo per le organizzazioni che vogliono affrontare il mercato della sostenibilità: 1. innovare, 2. perseguire l’eco‐ efficienza, 3. muoversi dal dialogo con gli stakeholder alla partnership per il progresso, 4. offrire informazioni e alternative al consumatore, 5. migliorare la struttura del mercato, 6. stabilire il valore della Terra, 7. fare in modo che il mercato sia agibile per tutti. 111 Chiaramente l’advertising gioca un ruolo fondamentale soprattutto nel supportare l’innovazione (la prima chiave di successo) e nel fornire informazioni al consumatore. Comunicando messaggi su prodotti, servizi, comportamenti dei consumatori, imprese, programmi sociali, e priorità governative ad una audience estesa, l’advertising può contribuire a migliorare la qualità della vita. Per questi motivi le imprese dovrebbero considerare il green marketing e la comunicazione ambientale con molta serietà, ed evitare di cadere nel greenwashing, che lederebbe non solo la reputazione del brand, ma in generale la credibilità dell’organizzazione, con una conseguente riduzione della brand equity. Inoltre, il consumo responsabile si riflette in scelte comportamentali diverse: nella sua forma “positiva” consiste nell’acquisto di prodotti o servizi percepiti come pertinenti con i principi di sostenibilità (carta riciclata, caffè “fair trade ecc. ), ma esiste anche una forma “negativa”, generalmente legata al boicottaggio, ovvero il tentativo di penalizzare i prodotti/servizi considerati come prodotti o venduti in modalità contrarie ai principi di sostenibilità. Una serie di studi internazionali hanno dimostrato che la maggioranza dei consumatori in molti paesi ha scelto di cambiare brand per ragioni connesse con le politiche di CSR:più dell’80% in Australia, il 75% negli USA, il 54% in Germania, il 66% a Singapore, il 68% in Inghilterra, il 72% in Spagna, il 42% in Francia e il 43% in Italia. A dimostrarlo, una ricerca condotta da Weber Shandwick Worldwide nel 2002 112 su un campione di 8000 consumatori in tutto il mondo. Lo studio ha rilevato che due terzi di tutta la “alpha class” (ovvero alta formazione/alto profitto) ha considerato di cambiare brand proprio sulla base dei problemi di responsabilità sociale dell’impresa. I primi casi di boicottaggio risalgono agli anni ’70 e ’80, con il boicottaggio dei prodotti provenienti dal Sud Africa (a causa del movimento Anti‐apartheid). Altre campagne di boicottaggio venivano realizzate contro le multinazionali che avevano relazioni commerciali con i paesi del Sud Africa (un esempio clamoroso fu il caso della Barclays Bank). Successivamente, tra le campagne più note ricordiamo quelle contro il gigante Nestlè, accusato di promuovere il suo latte liofilizzato nei paesi in via di sviluppo anche se i problemi di accesso all’acqua potabile in alcune regioni rendevano pericoloso l’utilizzo del prodotto.Più recentemente Nike è stata soggetta a campagne di boicottaggio supportate da numerose organizzazioni non governative sparse per il mondo, a causa delle condizioni di lavoro degli operai manifatturieri (impiego di forza lavoro minorenne) nel Sud Est dell’Asia. WBCSD, “Sustainability Through the Market” – vedi http://www.wbcsd.org

111 112

’ McCann‐Erickson / UNEP, Studio citato in “Can Sustainability Sell?”. – vedi http://www.uneptie.org/pc/sustain/reports/advertising/can‐sustainability‐Sell .pdf

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3.Il consumatore “critico”: dati e ricerche per un insight sul target “green”

A partire dalla fine degli anni ’80, sono stati prodotti una serie di studi per misurare lo stato dell’opinione pubblica sui temi ambientali,e più recentemente sullo sviluppo sostenibile e la CSR. Il consumo responsabile è inoltre diventato un tema rilevante nei sondaggi e nelle ricerche di mercato. Molte imprese stanno investendo ingenti cifre per comprendere il profilo del consumatore responsabile e per identificare i potenziali ostacoli all’integrazione dei principi di sviluppo sostenibile nella vita dei consumatori. Ma per affrontare l’argomento del consumo sostenibile, è necessario innanzitutto definire cosa significa questo termine in modo tale da essere rappresentativo almeno di un nucleo semantico largamente condiviso. La definizione più classica e completa di “consumo sostenibile” è stata elaborata per la prima volta durante il Simposio di Oslo organizzato dai paesi dell’OECD nel 1994 113 e definisce il fenomeno come “l’uso di servizi e relativi prodotti che rispondono a bisogni di base e comportano una migliora qualità della vita mentre minimizzano l’uso di risorse naturali , di materiali tossici e riducono le emissioni di gas serra e l’inquinamento lungo il ciclo di vita del servizio o prodotto in modo tale da non pregiudicare i bisogni delle future generazioni”. Le ricerche sembrano mostrare che l’opinione pubblica, a livello internazionale, abbia sviluppato specifici valori e aspettative, e queste rilevazioni si rispecchiano anche nelle considerazioni politiche che hanno maturato: ad esempio l’88% dei cittadini europei crede che i politici dovrebbero tenere in maggiore considerazione i problemi ambientali per la pianificazione delle politiche pubbliche (Commissione Europea, Eurobarometro 2005) Inoltre queste ricerche tendono a sottolineare la crescente attenzione collettiva all’ambiente e al consumo di massa, ma sistematicamente falliscono nel tentare di dare una spiegazione dell’incongruenza tra il bisogno di responsabilità di cui parlano le persone, ed il modo in cui attualmente agiscono come individui. I temi del riscaldamento globale e dell’energia sono diventati familiari per gli individui, e hanno aumentato le loro preoccupazioni.: • in due studi internazionali condotti da GlobeScan, una media del 90% dei rispondenti considera il cambiamento climatico un problema serio (30 paesi – 2006), mentre la maggioranza ritiene che il modo in cui il mondo produce e consuma energia danneggi l’ambiente e il clima destabilizzando l’economia globale e generando conflitti (19 paesi – 2006); • il 66% degli americani pensa che il cambiamento climatico abbia conseguenze rilevanti, e una maggioranza crede che gli USA debbano ridurre le emissioni di gas serra (New York TimesPoll 2006). Questo dato è riscontrabile ogni 2 persone su tre in India (The India Polling Organization 2005). In Giappone il cambiamento climatico è temuto dall’88,4% della popolazione (Sei‐Kasu 2005). Diversi studi condotti da istituti di ricerca ed università mostrano come si sia formata ormai una posizione definitiva in relazione all’iper‐consumismo e al materialismo, che al giorno d’oggi sono associati a valori negativi, specialmente per gli impatti drammatici che provocano a livello ambientale. 114 In particolar modo, in Occidente, il consumo tende ad essere considerato eccessivo

113

OECD( Organization for Economic Co‐operation and Development) ‐ The Oslo Symposium 1994 ‐ vedi ‐ http://www.oecd.org/document/27/0,3343,en_2649_34331_2397339_1_1_1_1,00.html 114 Belk R., Devinney T. & Eckhardt G. (2005) “Consumer Ethics Accros Culture”, Centre for Responsible Business, ,

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ed è frequentemente ritenuto un’aspirazione che va contro la responsabilità individuale e collettiva. Una ricerca commissionata dalla Fondazione Cariplo e condotta dall’Iref nel 2005 ha analizzato le diverse aree in cui si articola il consumo responsabile in Italia. Lo studio, condotto su un campione di 1000 persone (stratificato su variabili socio‐demografiche come età, area geografica e ampiezza del comune di appartenenza ha rivelato che il fenomeno del consumo responsabile riguarda il 36% del campione: fra questi, il 55,6% fruisce di prodotti da commercio equo e solidale, il 51% adotta stili di vita sobri, mentre il 29,2 % ha dichiarato di adottare pratiche di consumo critico vero e proprio, che incorpora anche il boicottaggio e altre forme di attivismo. Un terzo degli intervistati dichiarò di adottare due o più comportamenti responsabili, e per questo sono stati considerati “consumatori etici”. Questo segmento è caratterizzato da un alto livello di scolarizzazione (54% con diploma di scuola superiore e il 17,8% è laureato) e anche la professione costituisce un indicatore importante (il 29,9% sono insegnanti e impiegati e il 13,8% sono imprenditori e liberi professionisti). I consumatori etici valutano i loro acquisti verificando la sostenibilità ambientale della catena produttrice del bene o del servizio, si preoccupano del successivo smaltimento,mostrano preoccupazione sulla possibilità di riciclare la confezione, e compiono un’attenta raccolta delle informazioni disponibili tramite internet (perché la comunicazione pubblicitaria è ritenuta ingannevole dal 47,4% del campione) 115 . Molte persone oggi credono che il consumo responsabile sia un dovere personale (1 persona su 2 in Francia 116 , per esempio ‐ Ethicity/Carat), e la misura largamente condivisa ne sono le pratiche quotidiane e i comportamenti di acquisto : • l’Eurobarometro 2005 della Commissione Europea mostra che i cittadini europei sono pronti acambiare la loro gestione dei rifiuti e il loro uso dell’energia(il 72% “dividere i rifiuti per riciclarli” e il 39% “ridurre il consumo di energia). Per quanto concerne il comportamento d’acquisto, quasi un terzo (32%) considera di poter ridurre i rifiuti comprando grandi volumi o prodotti più concentrati o evitando prodotti con eccessivo packaging, mentre quasi la stessa percentuale (31%) prende in considerazione l’acquisto di prodotti eco‐friendly anche se questo può comportare il pagamento di un sovraprezzo. Quindi, l’idea di pagare di più per prodotti etici sembra aver raggiunto un’accettazione molto estesa, anche se questa intenzione è condizionata da numeroso fattori associati con le principali determinazioni d’acquisto. • In Inghilterra il 61% degli individui si dice pronto a pagare un po’ di più per prodotti e servizi che rispettano l’ambiente 117 (ICM 2006). Inoltre, secondo uno studio del 2006 realizzato da AccountAbility insieme al National Consumer Council (NCC) 118 la qualità rimane il principale criterio d’acquisto per il 75% dei rispondenti, seguito dal servizio clienti (71%) e dalla sicurezza del prodotto (70%), anche i criteri etici ottengono buoni risultati (integrità del management 66%; trasparenza 65%; ambiente 51%; marketing responsabile 35%, beneficienza 23%) Working paper no. 23, University of California, Berkeley 115 B. Cova,A. Giordano,M. Pallera , “Marketing non convenzionale”, Il Sole24Ore, 2007 116 Ethicity & Tagaro (2006) Tendances Editoriales et Créatives des rapports RSE du CAC 40 117 Institute for Crisis Management, “ Annual Crisis Report” , 2006 118 AccountAbility e National Consumer Council, Report “What assured Consumers?”, 2006 – vedi http://www.accountability21.net/publications.aspx?id=572

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Uno studio commissionato nel 2009 da Green Seal e EnviroMedia Social Marketing 119 (condotto dalla Opinion Research Corporation) su un campione di 1000 americani per scoprire le loro opinioni e attitudini verso i prodotti green e le dichiarazioni di eco‐sostenibilità ha rivelato alcuni interessanti dati: • metà delle 1000 persone intervistate dichiara di comprare più prodotti green oggi, che prima della crisi economica, mentre il 19% afferma che compra prodotti green, e il 14% dichiara di comprare pochi prodotti eco‐sostenibili; • Il 21% dei consumatori affermano che la reputazione del prodotto è il fattore più importante nel loro processo d’acquisto, seguito dal passaparola (19%) e dalla fedeltà verso la marca (15%). Solo il 9% del campione ha dichiarato di essere influenzato dall’advertising “green”; • Un consumatore su tre dice di non saper riconoscere se una dichiarazione di eco sostenibilità di un prodotto green sia vera o falsa, e uno su 10 consumatori crede nei claim green; • Il 24% dei consumatori verifica i claim green legggendo il packaging e il 17% cercando informazioni online. • Mentre l’87% delle persone intervistate afferma di praticare il riciclo dei rifiuti,i dati dell’EPA (Environmental Protection Agency, USA) riportano che sono il 33% dei rifiuti viene separato dai rifiuti organici. Valerie Davis, CEO di EnviroMedia ha dichiarato che sembra esserci un’ottima opportunità per le imprese che intendono impegnarsi seriamente per l’ambiente, ma devono essere molto attente nell’enunciare i benefici dei loro prodotti e assicurarsi che la loro strategia di comunicazione sia coerente ed integrata sui diversi canali (tv, web, ecc.). “Sta diventando sempre più evidente‐ afferma Klaus Töpfer, Direttore esecutivo dell’UNEP ‐ che i consumatori sono interessati a conoscere il mondo che si nasconde dietro i prodotti che comprano. Oltre il prezzo e la qualità, vogliono sapere come, dove e con cosa è stato realizzato il prodotto. Questa aumentata consapevolezza sui temi ambientali e sociali è un segno di speranza. I governi e l’industria devono lavorare su questo.” Inoltre, la mancanza di informazioni sembra essere uno degli ostacoli principali alla pratica di acquisti responsabili: il 74% dei consumatori in Inghilterra afferma che prenderebbe in considerazione un acquisto sulla base del profilo etico, sociale e ambientale di un’impresa, laddove gli vengano rese disponibili le informazioni. Mentre il 39% dei consumatori in Francia affermano che la mancanza di informazioni è il principale motivo per cui non acquistano prodotti provenienti da “commercio equo e solidale”. Questo scenario suggerisce che l’enorme potenziale che hanno il marketing e l’advertising nel contribuire ad incoraggiare il consumo sostenibile deve focalizzarsi sul valore informativo della comunicazione. Inoltre lo studio mostra che altre barriere al consumo sostenibile come la percezione del prezzo e la funzionalità, potrebbero entro certi limiti essere alzati grazie ad altre leve di marketing, diverse a seconda della barriera rilevata. 120 All’interno del report sviluppato dall’UNEP, in collaborazione con il Global Compact e Utopies

119

Green Seal and EnviroMedia Social Marketing,“National Green Buying Research”, 2009 – vedi ‐ http://www.greenseal.org/resources/green_buying_research.cfm 120 United Nations Environment Programme, UN Global Compact e Utopies,” Talk the walk. Advancing Sustainable Lifestyles through Marketing and Communications”, 2005, pag 45, cit.

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vengono dispensati alcuni consigli su come il marketing può affrontare le barriere del consumo responsabile (fig.7): per esempio, nel caso in cui venga percepita dai consumatori una mancanza di Fig. 7: Ridurre le barriere dei consumatori al consumo sostenibile. Fonte :Utopies/identificazione delle barriere basato sull’indagine MORI (Inghilterra), Carrefour e NCC

informazioni e consapevolezza, si potrà agire non solo con i tradizionali strumenti di comunicazione (advertising, sito web, comunicazione sul punto vendita) ma anche preparando in modo adeguato la forza vendita, o sfruttando al meglio le indagini di benchmarking. È stata posta molta attenzione allo studio delle modalità in cui il consumo responsabile funziona praticamente, e alle peculiarità della categoria di consumatori che sono più disposti a praticarlo. Le indagini d’opinione mirano a costruire il profilo del consumatore responsabile, noto anche come “consumatore alternativo” o “consumatore “green”. Qui di seguito riporto la descrizione riportata dall’UNEP 121 , e basata sul lavoro condotto dagli istituti di ricerca insieme a numerosi specialisti del settore della sostenibilità. All’interno del report si legge:“il Consumatore responsabile: una ristretta nicchia di consumatori attivisti o a conoscenza del problema della sostenibilità ambientale e preparati a seguirla attraverso i loro principi. UNEP, “Sustainability Communications. A Toolkit for Marketing and Advertising Courses”, 2008

121

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• Questi consumatori sono sinceri nelle loro intenzioni e comportamenti e hanno un impegno costante nello sviluppare uno stile di vita più responsabile. • Sono “realisti ottimisti” (definizione coniata da Utopies), e vorrebbero che la società si evolvesse in modo differente e sostenibile. • Vogliono imparare; cercano informazioni, leggono le etichette dei prodotti, si rispecchiano in una moda abbastanza generale, guardano ai mass media e all’advertising in modo distaccato. Questi consumatori si attendono che i prodotti offrano benefici simbolici e pratici tradizionali, non sono pronti a fare dei sacrifici maggiori nelle loro decisioni d’acquisto • Credono di essere mal informati sui principali problemi dell’ambiente e potrebbero sentirsi incompetenti nel valutare informazioni scientifiche sull’impatto che i prodotti hanno sull’ambiente. • Tendono a giudicare le loro pratiche in modo severo in termini di impatto ambientale, ma spesso sovrastimano il numero di prodotti green che usano, o il numero di azioni che compiono quotidianamente per proteggere l’ambiente. Probabilmente provano di essere forti consumatori di alcuni prodotti, sui quali spendono più della media: cibo, viaggi, oggetti per la casa e auto. •

I consumatori responsabili non si aspettano necessariamente che i comportamenti dell’impresa vengano rimproverati, ma sono sensibili alle iniziative concrete che riflettono una vera determinazione verso il miglioramento. Ciononostante esprimono un certyo livello di sfiducia verso le imprese che vantano le loro credenziali ambientaliste, a meno che non siano accompagnati da procedure di certificazione di enti indipendenti

Il gruppo più reattivo: i giovani adulti e le donne sono i più sensibili ai prodotti green. Queste persone tendono a vivere la città e ad essere attivi, con un buon livello di educazione. I consumatori green più coinvolti hanno un forte potere d’acquisto.”

Una ricerca condotta da Gfk Roper Consulting e pubblicata a marzo 2009 122 , ha rivelato che i consumatori non solo sono consapevoli dei problemi ambientali, ma anche nell’attuale periodo di crisi cercano delle modalità per essere eco‐friendly e risparmiare. Lo studio, compiuto in Nord America su un campione di 2000 adulti (dai 18 anni in su) attraverso il GfK Consumer Panel, ha individuato sei cluster di consumatori segmentati per attitudini e comportamenti: 1. I “Genuine Greens” , i green genuini (17%) – attivisti ambientalisti, pensano che non ci siano alcune barriere per agire in modo green. 2. I “not me greens” (21%) – questo segmento ha attitudini consolidate, l’unica pratica è il riciclo dei rifiuti, credono che il problema ambientale sia troppo grave e che il loro contributo non sia rilevante; 3. I “go‐with the flow greens”, i “green ‐via col vento” (16%) – un gruppo moderato in termini di attitudini e comportamenti, più incline al riciclo, ma meno consapevoli dei problemi ambientali e del riscaldamento climatico. 4. I “dream greens” , i “green sognanti” (13%) – mentre tendono ad avere comportamenti green limitati, le loro attitudini eco‐sostenibili sono più forti del resto della popolazione. La barriera più grande affinché questo gruppo diventi “più green”, è la mancanza di informazioni.

122

GfK Roper Releases , “Green Gauge Study”, 2008 – vedi http://www.gfk.com/imperia/md/content/presse/internationalstudies/gfk_green_gauge_final___march_09.pdf

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5. I “business first green” , i green “prima il business”(21%) – generalmente meno preoccupati dei problemi ambientali, i loro comportamenti sono molto più deboli rispetto al resto del campione. Questo gruppo non crede che l’industria necessiti di compiere un salto per migliorare l’ambiente. 6. I “means green”, i “green strumentali” (11%) – questi americani sono cinici ed apprensivi rispetto ai temi ambientali. Tendono a pensare che il movimento ambientalista sia una facciata per gli interessi dei gruppi politici. Uno studio di recente pubblicazione, condotto in sette paesi –USA, Inghilterra, Cina, Brasile, India, Germania e Francia – indica che molte convinzioni e comportamenti sono condivisi da differenti culture, mentre altri variano notevolmente. In generale, i consumatori in US, UK, Germania e Francia tendono ad allinearsi nelle loro attitudini, mentre i consumatori in Brasile, India, e Cina hanno visioni divergenti, e sono particolarmente inclini a cercare i prodotti green e a favorire le imprese che considerano green. La ricerca, chiamata Image Power Green Brands 123 condotta dalle agenzie WPP (NASDAQ e WPPGY) ,Cohn & Wolfe, Landor Associates e Penn, Schoen & Berland Associates (PSB) in collaborazione con la società di consulenza Esty Environmental Partners, ha identificato alcuni trend critici sui quali i consumatori concordano. I consumatori in tutti e sette i paesi credono che I prodotti green costino più dei prodotti non – green, e indicano anche che pianificano di spendere più soldi sui prodotti green nei prossimi anni. Brasile, India, e Cina hanno mostrato un significativo supporto all’aumento di spesa: il 73% dei consumatori cinesi dice che spenderà di più, il 78% degli indiani e il 73% dei brasiliani prevedono di spendere maggiormente in prodotti green. La percentuale di rispondenti che indica la volontà di spendere il 30% o più sui prodotti green, varia da un 8% in Inghilterra al 38% del Brasile. Brasile, India, e Cina infatti sono più attente al controllo delle emissioni di gas serra a causa dell’attenzione posta sulle loro politiche produttive nel quadro del riscaldamento climatico globale, e dallo studio risultano giustamente essere più orientate a comprare da imprese impegnate sui temi ambientali. I consumatori nei sette paesi concordano sulla primaria necessità che le imprese dimostrino il loro “essere verdi” riducendo la quantità di sostanze tossiche e dannose nei loro prodotti e nei processi di produzione. I consumatori si attendono che le imprese riciclino I rifiuti, che usino le risorse energetiche in modo efficiente, che riducano gli imballaggi, e che propongano innovazioni green. Così, per ottenere la fedeltà dei consumatori, le strategie ambientali delle organizzazioni devono essere ampie e includere tutti questi aspetti. La ricerca mostra anche le aree in cui I paesi o gruppi di paesi, differiscono. Per esempio, i consumatori in Inghilterra, Francia e Brasile credono che la direzione dello stato dell’ambiente sia sbagliata, mentre in Us, Germania ,Cina ed India credono che si stia andando nella giusta direzione, L’indagine ha esplorato anche gli aspetti della comunicazione del green, rivelando che la televisione ed internet sono le fonti primarie di informazione sui temi ambientali in ogni paese. Ma i consumatori sono divisi sui fattori che influenzano le loro decisioni d’acquisto: le esperienze passate con il prodotto sono più influenti in Francia, Germania ed India, mentre le 123

WPP , Cohn & Wolfe, Landor Associates e Penn, Schoen & Berland Associates, Esty Environmental Partners ,“Image Power Green Brands” settembre 2009 – vedi http://www.landor.com/index.cfm?do=thinking.article&storyid=749&bhcp=1

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raccomandazioni degli amici sono più efficaci in USA e in Cina, e in Inghilterra e Brasile sono più influenti i giornali. Tutti I paesi concordano nel dichiarare che gli intellettuali (docenti o autori) o gli attivisti siano i relatori più credibili per il cambiamento climatico. Questo significa che, man mano che aumenta la domanda di informazioni relative al green, anche le organizzazioni devono affinare le loro tecniche di comunicazione, puntando su trasparenza e credibilità.

3.1 Il punto di vista dei giovani

Sulla base di ciò che è stato esposto finora, la scelta che i giovani devono compiere – se avere, o meno, stili di vita e comportamenti ispirati ai principi del consumo sostenibile – è più che mai importante. È necessario tenere a mente anche la responsabilità delle giovani generazioni, che sono la futura generazione di adulti e rappresentano una sorta di “promessa”. Da un punto di vista più strettamente sociologico, non dovremmo dimenticare che storicamente e socialmente i giovani si sono sempre distinti attraverso la promozione di valori nuovi e innovativi, spesso generando movimenti sociali collettivi che hanno dato inizio a trasformazioni culturali e sociali di rilievo. Questo ci aiuta a capire perché dovrebbero essere considerate come un naturale primario target per le ricerche, le champagne di comunicazione, le azioni e le decisioni politiche , le iniziative culturali direttamente e indirettamente legate al consumo sostenibile e alla protezione dell’ambiente. Molto interessanti sono, a tal proposito, i risultati di uno studio condotto nel 2001 da McCann‐ Erickson, con il programma Pulse 124 , mirato ad ottenere un migliore insight su come i giovani percepiscono il Consumo Sostenibile. La ricerca prendeva in considerazione 28 paesi tra Europa, Asia Pacifica, nord e Sud America, e ha rivelato l’esistenza di una generale confusione sul termine “consumo sostenibile”, a cui però si aggiungeva un profondo interesse da parte dei giovani in merito ai temi della sostenibilità. Questo interesse riguardava tre aree principali: la protezione dell’ambiente, il test dei prodotti sugli animali e lo sfruttamento dei paesi in via di sviluppo. Lo studio evidenziava all’interno del panel una netta dicotomia tra l’edonismo e l’idealismo che caratterizza i giovani consumatori: vogliono un pianeta sostenibile,ma anche i loro brand favoriti. La generazione “tutto e subito”, allo stesso tempo ha il sogno di un mondo meraviglioso in una dimensione privata. Non sono ben coscienti delle conseguenze dei loro comportamenti d’acquisto, e c’è una sottile sensazione di non poter cambiare il mondo, anche se vorrebbero che cambiasse. Molti giovani non sono a conoscenza delle opportunità che esistono per cambiare lo stato delle cose, soprattutto nell’area dell’ambientalismo. Non sanno dove comprare i prodotti eco‐friendly, ritengono che il riciclo sia una seccatura e la loro conoscenza su come aiutare l’ambiente non va molto oltre il riciclo dei rifiuti. Non riescono a figurarsi il legame esistente tra l’acquisto di determinati prodotti e i benefici che ne derivano su scala globale; soprattutto tendono ad essere scettici sulla destinazione dei loro soldi. In alcuni paesi come la Turchia e l’Argentina, che vivono in condizioni di povertà, il consumo sostenibile e la beneficienza sono visti come un lusso che non

124

McCann‐Erickson World Group e UNEP, “Can Sustainability sell?” , 2001 – vedi http://www.eaca.be/_upload/documents/ResponsibleAdvertising/Sustainabiblity_Brochure.pdf , pag 19

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possono concedersi. In sostanza, i giovani oggi credono con convinzione nella forza della responsabilità individuale rispetto al tema della sostenibilità, ma non agiranno fin quando non sarà dato l’esempio; inoltre credono che la gerarchia della responsabilità parta dai governi, passi attraverso le imprese e i media e infine dagli individui. Dal loro punto di vista è doveroso che i governi diano il buon esempio educando e fornendo regole per proteggere l’ambiente e gli individui. Per quanto riguarda i media, i giovani credono che dovrebbero mobilitare e avere un ruolo proattivo ed informativo per spingere le persone ad agire. Non dimentichiamo però, che buona parte dei giovani, nativi digitali, utilizza le nuove tecnologie come strumento quotidiano di comunicazione: blog, social network e community sono infatti i principali luoghi di aggregazione virtuale dei giovani nati a partire dal 1980. Uno studio condotto nel 2008 dal Forum per gli Investimenti Sociali in Inghilterra (UKSIF) 125 ,e focalizzato sull’opinione dei teenager in merito alla spesa sociale del loro paese, ha rivelato una particolare attenzione da parte dei giovani ai temi sociali e ambientali. Dalla ricerca, condotta su 1000 cittadini inglesi tra i 15 e i 19 anni, è risultato che sette giovani su dieci rifiutano di lavorare per imprese che non hanno comportamenti etici (71%) o che rovinano l’ambiente (79%); tre quarti del campione (75%) vorrebbe avere una casa con basse emissioni di CO2, e un’auto ecologica (46%); più della metà dei rispondenti (54%) spenderebbe i suoi soldi ed investirebbe su imprese che hanno comportamenti etici e responsabili. Quasi due terzi del campione (65%) ha affermato che i loro genitori non hanno usato il loro potere d’acquisto per influenzare la risoluzione dei problemi sociali ed ambientali, e quasi la metà dei rispondenti(47%) ha dichiarato che i loro genitori hanno fallito nelle loro responsabilità sociali. Inoltre, sembra che i giovani inglesi siano pronti a fare del loro meglio per influenzare il cambiamento,facendo pressioni sui loro familiari per ridurre il consumo di energia in casa (84% del campione),acquistando prodotti “fair trade” (48%), e diventando membri di associazioni ambientaliste (34%). Un’altra ricerca pubblicata ad aprile del 2009 126 , condotta da Generate Insight, l’unità di ricerca della società Generate di Santa Monica (California) , ha offerto un’ulteriore conferma dei risultati fin qui presentati. Lo studio, condotto su un campione di 400 “millenials”(temine che definisce il target socio‐demografico dei nativi digitali), ovvero giovani tra 13 e i 29 anni, ha confermato che in realtà i giovani pur essendo i più preparati sui problemi dell’ambiente, spesso non agiscono, non sono attivi in cause ambientaliste, e non scelgono quali brand acquistare sulla base delle loro credenziali green. Nello specifico, il 69% dei rispondenti ha espresso un genuino interesse per l’ambiente, ma ha anche ammesso la mancanza di un coinvolgimento personale nelle attività ambientaliste. I millenials sono uno tra i segmenti demografici meglio educati sui temi legati all’ambiente, e inoltre, raccolgono la maggior parte delle informazioni via web (il 79% del campione): questo significa che esiste un’ampia opportunità per i brand di coinvolgere i loro consumatori attraverso i media digitali e in modalità interattiva.

125

UKSIF, My Generation:Social Spending Power”, 2008 – vedi http://www.henderson.com/content/sri/publications/sripressreleases/neiw08consumerresearchpf.pdf 126 J. Gaudelli per Generate Insight, “The greenest generation” vedi http://www.generatela.com/blog/2009/04/the‐ greenest‐generation‐advertising‐age‐feature‐by‐janis‐guadelli‐generate‐insight/

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Il 76% del campione della ricerca ha enfatizzato l’importanza di sviluppare una coscienza ecologica per i brand. Questa generazione di consumatori vorrebbe che i brand fossero più responsabili a livello ambientale, e devolvono parte dei loro guadagni per supportare i movimenti ambientalisti che sembrano più credibili ai loro occhi. Rispetto alla flessibilità del prezzo di prodotti green o brand che contribuiscono alla causa ambientalista, i giovani hanno dimostrato reazioni differenti: il 64% dei millenials tra i 18 e i 29 anni affermano di essere disposti a spendere di più per prodotti che in qualche modo aiutano l’ambiente, mentre il 71% dei ragazzi tra i 13 e i 17 anni ha dichiarato di scegliere brand e prodotti più economici. Mentre il prezzo è un criterio importante per i millenials più giovani,emerge in modo evidente la nozione di gratificazione immediata. Inoltre, l’atteggiamento mentale del “tutto e subito” che contraddistingue alcuni teenager, influenza anche la loro percezione rispetto ai movimenti ambientalisti e ai limiti entro i quali si sentono attivamente coinvolti. Il 48% del campione ha infatti dichiarato che non esiste una soluzione immediata al problema ambientale,e che per questo motivo il loro contributo non sia rilevante. Ciò che emerge con forza da questi studi è che i brand devono porre molta attenzione al loro target, perché le strategie di marketing non possono chiaramente essere uguali in tutti i segmenti di età. Inoltre, per capitalizzare ciò che emerge da questi studi, i brand dovrebbero dirigere e supportare questa generazione nelle azioni a favore dell’ambiente, creare linee di prodotti green a prezzi competitivi oppure con packaging eco‐sostenibili, e in generale allineare il marketing alla responsabilità sociale. 3.2 Il paradosso del “consumatore green”

Nonostante, però, le dichiarazioni rilevate dagli studi fin qui citati (e da numerosi altri) in merito ai principi di eco‐sostenibilità che orienterebbero gli acquisti dei consumatori, il consumo responsabile resta tutt’oggi appannaggio di una netta minoranza della popolazione a livello globale. Il mercato dei prodotti/servizi eco‐sostenibili costituisce solo il 2% di tutto il mercato : i prodotti green occupano una quota di mercato (media internazionale) che oscilla tra l’1% e il 4%; e la spesa media sul commercio equo e solidale in Francia, per esempio, è di circa 1.13 euro per anno! È importante quindi rilevare una netta discrepanza tra principi e comportamenti. Alcuni esempi: • la maggior parte degli americani negli USA vorrebbe che il governo collaborasse con gli altri paesi per migliorare l’ambiente, ma non sono pronti a pagare di più per il petrolio, per combattere il riscaldamento globale; • in molti paesi, la maggioranza della popolazione dice di opporsi al test sugli animali nel settore cosmetico, ma le vendite dei cosmetici orientati alla certificazione “Human Cosmetic Standard” (HCS) faticano ad aumentare. Il test sugli animali dovrebbe essere bannato dalla Comunità Europea entro il 2013; • negli Stati Uniti, ci sono state numerosissime iniziative volte a promuovere l’uso di energia da finti rinnovabili. In questo caso, gli studi hanno dimostrato che dal 52% al 95% degli americani era preparato a pagare di più per avere energia generata con tecnologie verdi 127 ,

127

K.A., Brekke , S. Kverndock & K. Nyborg “An Economic Model of Moral Motivation”, Journal of Public Economics, 2003

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ma dopo il lancio dei prodotti (turbine eoliche o solari) nel mercato, solo l’1% dei proprietari di una casa ha investito nelle fonti di energia rinnovabili, ad un costo medio di sei dollari al mese 128 • Sotto la pressione delle organizzazioni non governative, nel 2001 Starbucks ha iniziato a vendere caffè “fair trade”, ma la domanda dei clienti è rimasta molto bassa, anche in Europa, dove il commercio equo e solidale è un tema più rilevante rispetto agli USA. 129 Un’indagine condotta nel 2005 in Inghilterra dall’istituto Ipsos‐MORI afferma che i consumatori molto attenti ai temi ambientali ( chiamati “deep green”) sono tra il 5% e il 10%. Comunque gli individui che vorrebbero fare scelte etiche quando hanno l’opportunità di farlo ammontano all’incirca ad un 45% dei consumatori, una proporzione che è ben lontana dall’ipotesi di una nicchia di mercato 130 . Resta dunque necessario comprendere il paradosso del consumatore responsabile, che vede opinioni e dichiarazioni d’intenti distaccarsi nettamente dal comportamento d’acquisto. Una motivazione potrebbe essere data dalla pressione sociale esercitata dall’agenda dei media per generare attenzione ai temi dell’ambiente, ma ciononostante il mercato dei consumi di massa per i prodotti green sarebbe ancora tutto da sviluppare. Molti studi hanno contribuito a minare la teoria della scelta razionale, che riduceva le motivazioni individuali al semplice calcolo razionale degli interessi, senza però tenere in considerazione gli aspetti socio‐economici, culturali e simbolici che caratterizzano l’atto d’acquisto. Teorie più recenti considerano il comportamento di consumo come determinato da tre variabili fondamentali: • variabili socio‐economiche e culturali: basti pensare alla cultura materialista americana (che giustifica il consumo come premio per il duro lavoro),o rumena (privata dei beni più semplici per anni, a causa del comunismo), o turca (si sentono liberi di consumare di più per soddisfare i bisogni della famiglia e dei bambini). Gli occidentali invece credono di non essere materialisti perché hanno buon gusto e spendono i loro soldi su prodotti di alta‐ qualità. 131 • la relazione consumatore e prodotto e • la relazione tra brand e consumatore. Queste tre variabili sarebbero fortemente interconnesse tra loro e formano le condizioni di ricezione dei messaggi che le imprese comunicano al consumatore. Nel green marketing però, ciò che sembra determinare la volontà del consumatore ad acquistare prodotti eco‐friendly, più degli aspetti demografici, è la sensazione di poter agire sui problemi ambientali. Il prodotto trasferisce una sorta di empowerment al consumatore 132 .

128

R. Wiser, M. Bolinger , E. Holt & B. Swezey , “ Forecasting the Growth of Green Power Markets in the US”, Lawrence Berkeley National Laboratory, Berkeley, California, 2001 129 P. A Argenti, ”Collaborating with activists: How Starbucks works with NGOs”, California Management Review 47, 2004 130 Acona Limited , “The Customer Assumption. Are you missing the biggest opportunity of Corporate Responsibility?”, 2006 131 Belk R., Devinney T. & Eckhardt G., “Consumer Ethics Accros Culture”, Centre for Responsible Business, Working paper no. 23, University of California, Berkeley, 2005 132 J. Ottman , “ Green Marketing: Challenges and Opportunities for the New Marketing Age”, Lincolnwood: NTC Business Books, 1993

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APPENDICE AL CAPITOLO 2 Linee guida strategiche per comunicare la sostenibilità 133 Queste linee guida sono una sintesi dei diversi strumenti proposti dagli autori, dagli attori istituzionali (UNEP, la commissione europea e l’Istituto Internazionale per lo Sviluppo Sostenibile), le imprese , (WBCSD) o i consorzi, e dalle agenzie di consulenza che operano nel settore della sostenibilità.

1. Goal, rischi ed opportunità • Porsi obiettivi realistici, identificare i rischi e le opportunità Gli studi sulle opinion e gli audit di marketing offrono una modalità per conoscere le audience e I target e per capire le percezioni e I comportamenti e lo stato simbolico di una questione, un settore, un prodotto. Nel caso del green marketing, è anche necessario capire le leve di mercato e la segmentazione (per e. sociale,economica, politica, tendenze culturali e tecnologiche che strutturano il mercato.

2. Messaggio Costruire un messaggio pertinente rispetto agli obiettivi di sosteniblità evitando atteggiamenti passivi e angelici; Registro: renderlo semplice e rassicurante • In formare ed educare, concentrandosi sui fatti e su idée semplici evitando linguaggi tecnici; • Essere chiari sui temi sociali ed ambientali inclusi nell’oggetto della comunicazione; • Fornire evidenza (grafici e illustrazioni) Motivazione: domande e incoraggiamento • Favorire messaggi personali in marketing e advertising ; • Mostrare i benefici e i vantaggi, individuali e collettivi, individual and collective; • Enfatizzare cosa potrebbe essere perso non agendo; • Bilanciare messaggi forti con consigli concreti;

3. Posizioni credibili Immagine: essere realistici e attivi • Rimanere umili e non non suscitare aspettative irrealistiche; • Ammettere gli errori e mostrare come l’organizzazione o I suoi prodotti vengono migliorati; • Essere proattiva e innovativa Visibilmente coinvolti nel dialogo : • Stabilire partnership con NGOs specializzate , alter compagnie, istituzioni o gruppi di ricerca; • Nel contesto delle Pubbliche Relazioni sviluppare programmi di community che vedano coinvolta l’organizzazione e il suo settore di attività, i ricercatori e gli esperti in discussioni con i media e non solo comunicazione specialistica, preparare e gestire le informazioni. • Rendere disponibili più informazioni (sito web, report sulla sostenibilità, ecc.) Scenografia • Evitare immagini idealizzate di natura; • creare sorpresa e confondere le aspettative e offrite contemporaneamente delle risposte concrete: schock e immagini fuori contesto, tono ironico, etc.

133

UNEP, “Sustainability communications in practice”, Module III, 2008, pag 17

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CAPITOLO 3 I SOCIAL MEDIA COME CANALE PREFEREZIALE PER LO SVILUPPO DELLA RELAZIONE TRA BRAND E CONSUMATORE

1. Comunicazione e marketing: evoluzioni graduali al vaglio della postmodernità. La progressiva evoluzione degli approcci del marketing può essere considerata come il frutto di un interessante commistione interdisciplinare tra le teorie susseguitesi, sin dagli inizi del XX secolo, nel campo della comunicazione,della sociologia,dell’antropologia, della psicologia e dell’economia. Ben lungi dal voler affrontare in questa sede la letteratura afferente alle diverse discipline citate, mi soffermerò all’enunciazione di quelli che credo essere i tasselli più importanti della costruzione dell’attuale approccio di marketing secondo la prospettiva della comunicazione. Spostandosi dalla concezione meccanicistica degli effetti della comunicazione (sia questa politica o commercial), basata sull’idea della propaganda e della manipolazione (H. D. Lasswell 1927; S. Tchakhotine 1939), alle teorie degli “effetti indiretti” (P.F. Lazarsfeld & E. Katz 1955), alle “comunità interpretative” e ai più recenti concetti legati all’etnografia della ricezione, è possibile notare come questi approcci abbiano sviluppato visioni contraddittorie dell’individuo, in un dibattito che sembra destinato ad evolversi continuamente. È , però, il concetto di reti e di interazione che ha contribuito maggiormente ad abbattere le tesi, predominanti fino agli anni ’60, sugli “effetti diretti” della comunicazione di massa (la teoria dell’”ago ipodermico”, per esempio) sui comportamenti degli individui. L’idea di individui isolati e vulnerabili che subiscono passivamente i messaggi dei media, è stata superata dal lavoro di Lazarsfeld , con la teoria del ”flusso della comunicazione a due stadi”, che introdusse l’idea degli opinion leader come “filtri sociali” dell’influenza diretta dei mass media. Negli anni ’60 e ’70, inoltre, prese piede la teoria dell’ audience attiva (E. Katz, J.G. Blumber & M. Gurevitch 1974), che postulava il concetto di un individuo che usa i media in modo selettivo, a seconda dei suoi bisogni psicologici. Negli anni ’80, sotto l’influenza del filone dei “Cultural Studies”, si è iniziato ad utilizzare il termine “comunità interpretative”, e i gruppi socioculturali a cui appartengono le persone sono diventati fattori determinanti nella selezione dei media,nel processo di esposizione e nella conseguente interpretazione dei messaggi, sostituendo in questo i fattori psicologici. Il merito della Scuola di Birmingham e della corrente dei Cultural Studies è stato determinante anche nella trasformazione dell’approccio all’analisi dei consumi: la consapevolezza che il consumatore mette nel rapporto con i beni tutta la sua personalità, e dunque anche le componenti affettive,edonistiche ed emozionali, ha comportato la necessità di ricorrere al contributo di nuove discipline come la ricerca etnografica, la psicoanalisi, la semiotica ecc.

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Dallo studio del “consumer behavior” si è passati così al “consumption studies” 134 basato sull’analisi delle relazioni tra i diversi consumatori, anziché del singolo. Successivamente a questi studi sono fiorite numerose teorie per descrivere e analizzare gli “effetti indiretti” dei mass media: ancora abbondano teorie e visioni contraddittorie sui fattori che determinano i comportamenti individuali (scelta, razionalità, determinismo) contro l’idea, ora dominante, che la comunicazione abbia solo “effetti limitati” sulle audience. Il concetto che sottende questa visione è che l’interpretazione dei messaggi e i loro effetti sugli individui siano il prodotto di una moltitudine di fattori (l’appartenenza ad una classe sociale, ad una community culturale, le aspettative individuali e le motivazioni, ecc.). Ed infatti, proprio perché l’interpretazione dei messaggi è molto differenziata tra gli individui – radicata in fattori sociali, culturali e psicologici allo stesso tempo – il marketing dovrebbe puntare ad enfatizzare la “relazione” con il consumatore, in particolar modo dal punto di vista della comunicazione A queste considerazioni si aggiunga il rinnovato panorama culturale generato dalla società dell’informazione e dalle tecnologie della comunicazione contemporanee. Nel 2006, Forrester Research pubblicò un report chiamato “Social Computing” 135 in cui si evidenziava la crescente diffusione di un trend sociale in base al quale le persone usavano le tecnologie per procurarsi ciò di cui hanno bisogno le une dalle altre, invece che dalle istituzioni tradizionali come le grandi imprese I fenomeni scatenati dalla tecnologia – fra cui blog,i wiki,i social network, il file sharing, le votazioni degli utenti, il citizen journalism e così via – fanno parte di questo unico trend (gli autori hanno chiamato questo trend “onda anomala”)., indirizzato all’interazione tra le persone e all’instaurazione di un rapporto di dipendenza reciproca fra di esse. In base al report, per prosperare nell’era del social computing le aziende avrebbero dovuto abbandonare le tattiche top‐down di management e comunicazione, integrare le community nei loro prodotti e servizi, usare i dipendenti e i partner come agenti di marketing ed entrare a far parte di un tessuto vivente di clienti fidelizzati ai loro marchi. L’economia dell’informazione in rete ha consentito, inoltre, l’emergere di una cultura più critica ed autoriflessiva. Negli ultimi dieci anni, alcuni studiosi nel campo della giurisprudenza come Niva Elkin Koren, Terry Fisher, Larry Lessig, e Jack Balkin, hanno iniziato ad esaminare internet come strumento per la democratizzazione della cultura. Il lavoro di questi studiosi ci ha fatto comprendere che gli ambienti informativi in rete ci offrono un sistema di produzione culturale più attraente, per due distinti motivi: (1) rendono la cultura più trasparente, e (2) più flessibile. Questo significa che stiamo assistendo all’emergere di una nuova cultura popolare, dove molti di noi (certamente in numero maggiore rispetto all’era industriale) partecipano attivamente nel creare cambiamenti culturali e nella ricerca di senso del mondo intorno a noi. Queste pratiche renderebbero gli individui più abili nell’interpretazione della propria cultura e più autoriflessivi e critici rispetto al contesto culturale in cui sono inseriti. 136

134

P. Østergaarde C.Janzen , “Shifting Perspectives in Consumer Research:from Buyer behavior to Consumption Studies”, in S. Beckmann e R.H.Elliott, “Interpretive Consumer Research: Paradigm , Methodologies & Applications, Copenhagen Business School Press, 2000 135 Forrester Research, “Social Computing: How Networks erode institutional power, and what to do about it”, 2006 – vedi http://groundswell.forrester.com 136 Y. Benkler , “The wealth of Networks. How social production transform markets and freedom.”, Yale University Press, 2006

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1.1 Il brand e le tribù dei consumatori Da Marcel Mauss, passando per Levi Strauss, Mary Douglas,Appadurai e Kopytoff, gli studi sulla società di massa hanno sviluppato man mano una definizione del consumo sempre più legata alla funzione simbolica, psicologica e culturale che comporta per gli individui. 137 Le teorie della comunicazione non sono , quindi, le sole ad aver contribuito alla trasformazione del marketing, ed in questa sede mi piacerebbe evidenziare anche il ruolo dell’antropologia e della psicologia dei consumi nella formulazione di una nuova consapevolezza, da cui oggi sarebbe grave prescindere per agire efficacemente sul mercato. Un altro esempio, a tal proposito, sono gli studi condotti da Robert Merton 138 , che nel 1959 affermava l’appartenenza dell’individuo a diversi gruppi sociali contemporaneamente. I gruppi d’appartenenza, secondo Merton, svolgono per l’individuo non solo la funzione di socializzazione (perché attivano il processo di apprendimento di sistemi di valori, norme e modelli di comportamento) ma consentono anche lo sviluppo del concetto di Sé. Le persone infatti mantengono o modificano il loro concetto di sé in base alle interazioni sociali di cui fanno esperienza, perché ciò che pensano di se stessi è influenzato dalle reazioni degli individui con cui condividono dei valori. La necessità di sentirsi partecipe di un gruppo sociale viene spesso rimarcata dal possesso di determinati beni, ed è per questo motivo che il consumo tende a conformarsi agli standard stabiliti dal gruppo di appartenenza (sia per paura di subire la sanzione del gruppo, sia per l’interiorizzazione delle norme del gruppo). Maffesoli 139 nel 1988 incominciava ad evidenziare il crescente bisogno di nuovi legami sociali, nuove comunità e tribù come frutto del processo di frammentazione delle società occidentali: gli individui tenderebbero infatti a contrastare questa tendenza aggregandosi in micro‐gruppi sociali composti da individui eterogenei tra loro (in termini di età,reddito, ecc.) ma uniti dalla condivisione di una passione, un’emozione o comunque momenti particolarmente intensi. Questi gruppi sarebbero quindi molto diversi dai segmenti di mercato che il marketing solitamente prende in considerazione, e soprattutto sono diversi dai gruppi sociali tradizionali, che aggregavano le persone (sulla base, per esempio, della professione o di un progetto comune). A questi nuovi gruppi si aggiungono quelli formati sulla base della fedeltà di tutti i membri ad una certa marca, ovvero le “comunità di marca”: ne sono un esempio la comunità dei fan dell’Harley Davidson, o quella dei proprietari dei computer Apple, marche che sono state recentemente studiate proprio per la loro capacità di dare vita a comunità che condividono esperienze, rituali, modelli di comportamento. La prospettiva del “marketing tribale” è stata invece sostenuta soprattutto da Bernard Cova 140 e presuppone che lo studio del consumatore debba considerare quest’ultimo non più come un soggetto che cerca di soddisfare un bisogno, ma come qualcuno che cerca di costruire esperienze e, attraverso queste, delle relazioni sociali fondamentali per la sua esistenza. Secondo Cova, la tribù non si limita a coltivare la passione per un prodotto o per una marca, ma attraverso questi, costruiscono e rafforzano i legami tra gli individui. Le ricerche condotte da Cova hanno messo in luce la presenza di una scala relativa all’intensità dei legami comunitari, evidenziandone quattro principali tipologie: 1. I legami flash, in cui il desiderio di entrare in relazione non corrisponde necessariamente alla volontà che questo legame sia durevole;

137

V. Codeluppi, “Manuale di Sociologia dei consumi”, Carocci Editore, 2005 R. Merton , “Teoria e struttura sociale”, Il Mulino, 1959 139 M. Maffesoli, “Il tempo delle tribù.Il declino dell’individualismo nelle società di massa”, Armando Edizioni, 1988 140 B. Cova, “Il marketing tribale. Legame, comunità,autenticità come valori del Marketing Mediterraneo”, IlSole24Ore, 2003 138

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2. I piccoli mondi: in cui i membri desiderano contribuire e partecipare a poche relazioni interconnesse, senza strutturazione, né ruoli rigidi; 3. Le tribù clan, in cui i partecipanti desiderano partecipare ad un gruppo organizzato attorno ad un oggetto di culto; 4. L’immaginario comunitario, ovvero un gruppo formato sul desiderio degli individui di sentirsi parte di un insieme immaginario in cui condividono la stessa identità attraverso il consumo dello stesso prodotto mitico. “Attive ed entusiaste ‐ scrivono Cova,Kozinets e Shankar – nel loro agire di consumo, le tribù forniscono un palinsesto di identità,pratiche,rituali, significati e persino cultura materiale. Riscrivono le regole,capovolgono i significati e girano le spalle ai produttori e ad altre tipologie di consumatori mentre elaborano, e impongono, le proprie strategie di differenziazione. Le tribù accettano ma anche resistono a offerte preconfezionate, a significati di marche e prodotti messi a punto dal marketing …” 141 “È improbabile –scrive Fabris ‐ pensare che le tribù si costituiscano intorno a commodity, a prodotti o marche banalizzati/indifferenziati: più probabilmente nascono intorno a prodotti di nicchia o a quelle particolari categorie di prodotto che si definiscono come “di culto”: quelle che diventano oggetti di venerazione, di cui esistono i fedeli, i luoghi dedicati, i riti e i miti” 142 . Negli ultimi anni,inoltre, la crescita di internet e del web 2.0 ha implicato, per il consumatore postmoderno e tribale,un’ampia serie di possibilità che fino a qualche anno fa non aveva :può per esempio, condividere informazioni sulle imprese che realizzano i prodotti che compra, e può informare un’ampia audience sui comportamenti illegittimi di un’organizzazione. Le community possono sorgere spontaneamente o possono essere promosse dalla marca, ma in entrambi i casi il brand dovrà essere una presenza discreta e porre particolare attenzione all’ascolto di ciò che gli utenti/consumatori dicono e vivono con la marca. Inoltre,in qualità di interlocutore privilegiato, dovrà farsi carico di creare le infrastrutture necessarie perché la comunità possa vivere anche offline. Il fattore più importante per le imprese non è più , quindi, solo il prodotto che realizzano, o la sua distribuzione,ma anche una sana relazione con le tribù con cui il loro brand ha affinità, in un’ottica che comprende la caducità dei prodotti e pone al centro dei suoi processi di marketing la costruzione del valore (per i consumatori e per l’impresa)

1.2 Dal Brand DNA al Viral DNA L’emergere di questa nuova cittadinanza del brand trasforma inevitabilmente anche la sua comunicazione. Nel passato le comunicazioni erano punto a punto, oggi sono circoli virtuosi di valore, azioni, presenza, coinvolgimento, dialogo, relazioni ed esperienza. È avvenuto un fondamentale cambiamento nella fiducia del consumatore e anche le imprese devono introdurre dei sostanziali cambiamenti per tenere testa all’onda anomala e spesso indomabile che le tecnologie hanno abilitato. “In una società così mutevole, post materialista, ‐ scrivono Giordano e Pallera ‐ basata sul continuo scambio di informazioni, in cui le persone sono anche evoluti produttori di contenuti e simboli, il

141 142

B. Cova, R.V. Kozinets, A. Shankar, “Consumer tribes”, Oxford Elsevier, 2007 cit. G.P. Fabris, “Societing”, Egea Edizioni, 2009, pag 379 cit.

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marketing non può più basarsi sui classici modelli di branding, incentrati prevalentemente sul sistema industriale televisivo…” 143 Oltre alla quantità e qualità dell’offerta per cui oggi è davvero difficile produrre qualcosa di realmente differente e sorprendente, si possono individuare motivazioni relative al consumatore e al suo modo di reagire alle idee delle aziende. Se da un lato, come detto, la possibilità di scelta tra prodotti e brand è oggi pressoché illimitata (nel 2006 esistono in Italia circa 400.000 referenze nel largo consumo) e la quantità di messaggi di marketing è una massa informe entropizzante (si stima che un consumatore medio sia esposto a circa 3.000 messaggi di marketing al giorno), dall’altro lato il tempo a disposizione dell’individuo si è ridotto drasticamente. L'avvento e la diffusione della rete Internet, del digitale e delle reti cellulari di nuova generazione ‐ solo per citare gli esempi più eclatanti ‐ hanno portato a dei cambiamenti epocali nella velocità e nelle modalità di diffusione di tali informazioni commerciali, rendendo oltremodo attuale ed importante il passaparola su prodotti e servizi Una parte non trascurabile delle conversazioni relative a nuovi prodotti e servizi ha preso infatti la strada della rete, creando nuove opportunità (ma anche nuove minacce) alle aziende, che percepiscono sempre di più la possibilità di diffondere, indirizzare, e sotto certi aspetti controllare, la diffusione in Internet delle comunicazioni relative ai propri prodotti e servizi. In un contesto in cui l’attenzione ai messaggi pubblicitari scema, soprattutto nelle fasce della popolazione più affluenti e giovani, e dove cresce la rilevanza del passaparola a scapito della parola dell’azienda/brand, le strategie di massa non sono quindi più opportune. Le aziende devono ridefinire i core values del brand e cambiare prospettiva di osservazione rispetto al target, che ora più che mai non è un obiettivo da bombardare con messaggi e promozioni, ma diventa un partner di comunicazione e di produzione. Ciò che sembra questionabile in questo approccio è la capacità del brand non solo di entrare nelle vite dei consumatori, ma di sviluppare quell’universo simbolico che arricchisce l’esperienza del consumo e rende il prodotto un oggetto di culto per la tribù dei suoi consumatori. Nei principi del marketing non convenzionale proposti da Giordano e Pallera, si fa riferimento alla necessità di progettare un brand o prodotto stra‐ordinario, “in grado di ispirare le persone e attecchire nel sistema culturale”. 144 Questo rappresenta una base imprescindibile, soprattutto se inquadrata in un’ottica di green marketing: i prodotti eco‐sostenibili non solo ,infatti,dovrebbero nascere come risposta pertinente ad una domanda di mercato, ma anche interpretare lo spirito del tempo, di una società che riflette sugli eccessi dell’industria e del progresso cieco; prodotti che siano il tessuto connettivo delle relazioni interindividuali e intergruppi, forieri di una nuova cultura del consumo sostenibile. Prodotti straordinari come Google, Skype o Apple hanno basato il loro successo sulle loro proprietà intrinseche e non su investimenti milionari in pubblicità. L’entusiasmo delle persone ha infatti prodotto un naturale passaparola (word of mouth)all’interno di una tribù, in questo caso quella degli internauti, che hanno promosso questi strumenti ad oggetti di culto, soluzioni a problemi adattivi rispetto al contesto in cui la tribù opera. Quando il passaparola è particolarmente intenso,viene generato l’effetto buzz (ronzio) da cui il termine di buzz marketing.

143 144

B.Cova, A. Giordano, M. Pallera , “Marketing non convenzionale”, Il Sole24Ore, 2007, pag 60, cit. Ibidem ,pag 61 cit.

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“Il passaggio di informazioni che avviene spontaneamente da una persona all’altra è infatti in grado di influenzare il comportamento d’acquisto più di qualsiasi annuncio pubblicitario. Oggi tutto il marketing contemporaneo si fonda sul ritorno alla centralità del valore del passaparola, cioè sulla trasmissione di informazioni,considerazioni, opinioni sul prodotto o su un brand che avviene da persona a persona in modo informale. Tipicamente considerata una forma di comunicazione verbale, il passaparola è oggi potenziato dal web (blog, forum, e‐mail), diventando sempre più word of mouse” 145 . Una ricerca condotta nel 2007 da Nielsen su un panel globale di 26,312 utenti internet (dai 15 anni in su) individuati su 47 mercati, inclusa Europe, Asia, USA , America Latina e Africa, mostra come ben il 78% degli intervistati prediliga le raccomandazioni di altri consumatori come fonte attendibile per la valutazione degli acquisti (fig.1). Fig 1 : I consumatori si fidano degli altri consumatori.

Fonte: Nielsen Global Online Consumer Survey,2008

Questa tendenza è supportata anche dall’evidenza italiana della ricerca condotta da Nielsen 146 nel periodo compreso tra dicembre 2007 e dicembre 2008, che conferma il prioritario ruolo di internet come fonte di ricerca delle informazioni per il 21% della popolazione (fig.2) . Inoltre la ricerca evidenzia una crescita dal 18% del 2007 al 23% del 2008 del numero di consumatori che si recano nel punto vendita per avere evidenza fisica di un prodotto, ma poi effettuano l’acquisto su internet. Nel quadro generale delle modalità d’uso di internet in Italia scopriamo che il 27% dei

145 146

B.Cova, A. Giordano, M. Pallera , “Marketing non convenzionale”, Il Sole24Ore, 2007, pag 62, cit. Nielsen Online, Osservatorio Multicanalità , 2008

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consumatori legge opinioni di altri consumatori su forum e blog, il 10% partecipa attivamente alle discussioni sui prodotti/servizi, ed il 15% dichiara di non comprare un prodotto dopo aver letto un giudizio negativo su internet. Fig 2: Internet è la principale fonte di informazione sia per i consumatori che per gli operatori professionali.

Fonte: Nielsen Consumer, Osservatorio Multicanalità,2008

Occorre dunque che le imprese osservino e ascoltino, che siano disponibili al dialogo, perché la tecnologia, anche se è un fattore abilitante, non può da sola guidare il new deal della relazione. “In un tale contesto, se si desidera che il proprio prodotto si diffonda in maniera epidemica, bisogna progettare la natura virale prima di ogni cosa” – scrivono Giordano e Pallera. Ed è in base a questi presupposti che prende corpo la loro definizione di viral marketing, che è “finalizzato alla realizzazione di prodotti, servizi o comunicazioni commerciali che abbiano in sé la propensione a diffondersi spontaneamente tra le persone come virus.” 147 Il primo utilizzo del termine Viral Marketing si fa risalire ad un intervento di Tim Draper in una

newsletter di Netscape8 del 1997, nella quale venne definito come “network‐enhanced word of mouth”, sottolineando la derivazione dal tradizionale passaparola e l'importanza delle reti digitali. Per il marketing si tratterà di pianificare un’operazione che veicoli un messaggio in modo rilevante per le persone: l’estetica della viralità suggerisce di rendere il messaggio enjoyable(gradevole), valuable (cioè che apporti un beneficio tangibile) e meaningful (ovvero simbolicamente pregnante, capace di rafforzare il legame con la comunità perché riprende argomenti e valori che appartengono alla dimensione tribale e psicologica.) (fig 3).

147

B.Cova, A. Giordano, M. Pallera , “Marketing non convenzionale”, Il Sole24Ore, 2007, pag 63, cit.

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Fig. 3: Estetica della viralità

ENJOYABLE

VALUABLE

MEANINGFUL

Fonte: elaborazione dell’autore sulla base delle teorie di Cova,Giordano e Pallera sul Viral Marketing

Dopo la fase di progettazione, Giordano e Pallera indicano di procedere all’identificazione delle persone potenzialmente interessate al contenuto progettato, e alla promozione di questo attraverso strategie di seeding, ovvero di inseminazione dei contenuti nelle reti sociali individuate come più adatte alla maturazione del progetto. “Nel caso di un’operazione di marketing virale ben progettata, i mittenti ottengono la propria ricompensa generando conversazioni e utilizzando la storia inseminata dall’azienda per rafforzare le proprie relazioni. È questa la ragione per cui le azioni di seeding nono devono limitarsi alla pubblicazione di materiale virale, ma devono andare oltre, stimolando l’utilizzo sociale dei concept virali.” 148 Si immagini quindi quale contributo apporterebbero le tecniche di viral marketing al classico piano media su cui le imprese investono per le campagne di brand: la strategia vincente risulta però considerare il buzz non come un canale addizionale per la veicolazione dei messaggi, ma come DNA di tutte le attività di marketing. 1.3 Il valore della comunicazione virale: dagli “influencers” alla diffusione di massa. Per questo è oggi cruciale comprendere quali siano i veri attori e attivatori dell’adozione delle novità e idee di marketing, comprendere il loro profilo, da cosa siano attratti e perché: l’azienda può indirizzare una naturale attitudine di pochi, in proprio vantaggio economico e minimizzare i rischi di insuccesso, perché questi, se attratti, diventeranno i migliori venditori della nostra idea. Inoltre, in un mondo in cui il word of mouth diventa la principale fonte di informazione per la scelta tra prodotti e brand, comprendere il gruppo di persone responsabili di tali flussi di informazione e comunicazione diventa ancor più strategico. La letteratura evidenzia numerose tipologie di soggetti coinvolti nel passaparola, due delle quali sono particolarmente importanti nella diffusione esponenziale di un messaggio commerciale:

148

B.Cova, A. Giordano, M. Pallera , “Marketing non convenzionale”, Il Sole24Ore, 2007, pag 67, cit.

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coloro che agiscono come “evangelisti” e talvolta creano il buzz e coloro che si adoperano per passare il messaggio all'interno della propria rete di conoscenze 149 . Diversi autori hanno ipotizzato l'esistenza di una o entrambe le categorie attribuendo loro, di volta in volta, titoli e caratteristiche diversi. In “Unleashing the IdeaVirus”, Seth Godin 150 fa riferimento a due gruppi, i cosiddetti Powerful Sneezers, leader di opinione di chiara fama e al di sopra di ogni sospetto di connivenza con l'azienda latrice del messaggio e i Promiscuous Sneezers, individui che si fanno diffusori di idee e messaggi di loro interesse. Questi ultimi possono essere estremamente efficaci nel far circolare un messaggio e, al contrario del primo gruppo, possono essere pagati per farlo, anche se raramente sono tenuti in considerazione dai soggetti più influenti. Gladwell 151 invece distingue tra i Mavens che operano come banche dati nella trasmissione dei messaggi e i Connectors che funzionano da “collante sociale” diffondendo il messaggio; l'autore ipotizza inoltre la presenza di una terza categoria, i cosiddetti Persuaders che hanno la funzione di persuasori in presenza di dubbi sulla veridicità del messaggio. Emanuel Rosen 152 distingue tra Mega Hubs, in genere giornalisti, celebrità, analisti, politici e leader di opinione e Regular Hubs, persone normali, attive nel loro network sociale ma difficilmente individuabili dalle aziende. Nel libro “The Buzz” 153 si fa riferimento alle categorie degli Alphas e dei Bees; i primi sono soggetti influenti, generalmente propensi al rischio, interessati alle novità e agli stimoli ma non particolarmente sociali, i secondi sono invece spinti dal desiderio di comunicare e condividere con gli altri, traducono le idee e i messaggi degli Alphas, in messaggi più facilmente diffondibili dalla maggioranza o Mainstream; lo stile di vita dei Bees è improntato all'imitazione e al bisogno di conferme sociali. Il buzz marketing punterebbe a conquistare proprio i segmenti di innovatori/influencers e adottatori precoci (considerati in questo caso come opinion leader o evangelizzatori), in quanto sono persone disposte a diffondere idee e novità anche rispetto a nuovi prodotti e servizi. Questo assunto postulerebbe quindi che le attività di comunicazione acquistino maggiore valore all’inizio del ciclo di vita del prodotto, ovvero quel punto in cui , come suggerito dagli studi di Everett Rogers, i prodotti vengono diffusi nel segmento degli early adopters e della early majority (i primi adottanti) 154 . Il modello di diffusione proposto da Rogers ,Shoemaker e Floyd rappresenta un tentativo ambizioso di applicare un modello scientifico all'area della pianificazione sociale del cambiamento. Il modello di diffusione suggerisce che nel tempo, il processo di diffusione segue una curva di frequenza a forma di campana. Sulla base del momento del loro ingresso in questa curva di frequenza i consumatori sono divisi in cinque categorie: innovatori, primi adottanti, prima maggioranza, tarda maggioranza e ritardatari.

149

P. Bonetti, “Il marketing virale nella diffusione delle nuove tecnologie”, consultabile online ‐ vedi www.economia.unipr.it 150 S. Godin, “Unleashing the IdeaVirus, 2001 151 M. Gladwell, “The Tipping Point”, Little Brown, 2000 152 E. Rosen, “Passaparola. Come costruire con poco una campagna di marketing vincente”, Il Sole24Ore, 2009 153 M. Salzman,,I. Matahia ,A. O'Reilly,” Buzz: Harness the Power of Influence and Create Demand”, Wiley, 2003 154 E. Rogers, “Diffusion of Innovations”, New York: The Free Press , quinta edizione , 2003

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Fig. 4 :Curva di diffusione delle innovazioni di Everett Rogers

Fonte: www.dangerouslyirrelevant.org/Rogers01_small.jpg

Analizzando il vasto corpo di approfondite ricerche condotte in questo campo, Rogers, Shoemaker e Floyd 155 identificano alcune caratteristiche delle diverse categorie di adottanti. Queste caratteristiche comprendono valori, caratteristiche socio‐economiche, variabili della personalità e comportamenti comunicativi. Secondo il lavoro degli autori appena citati, possiamo quindi avere le seguenti categorie di adottanti: 1. Early Adopters (gli innovatori), ovvero i primi ad adottare l’innovazione, sono curiosi, bene informati sulla categoria in oggetto e sui nuovi lanci prima ancora che questi siano effettivamente avvenuti nel loro paese. Il ruolo degli Early Adopters è quello di rendere l’innovazione visibile e anche fruibile al segmento della “early majority”, attraverso indottrinamenti più o meno espliciti. 2. Early Majority. (i primi adottanti) , caratterizzati da un alto livello d'istruzione ed elevato status sociale, sono meno dogmatici, meno fatalisti, più razionali e orientati all'ottenimento dei risultati , più aperti verso il credito, il cambiamento, il rischio, lo studio e la scienza. Inoltre, i rappresentanti di questo segmento hanno un grado di partecipazione sociale più elevato, sono più cosmopoliti, hanno più contatti con gli assistenti tecnici e accesso alle informazioni, hanno un'elevata conoscenza delle innovazioni e un maggior livello di opinion leadership . Pur non essendo pionieri, sono attenti alle novità del mercato, gli attribuiscono in genere una funzione d’uso (emotiva o intrinseca di prodotto che sia) che le permette diffusione su larga scala. 3. Late Majority.(tarda maggioranza):adottano la novità del mercato solo dopo essere stati rassicurati da almeno metà della popolazione, sono infatti in genere scettici e necessitano di prove altrui per potersi fidare della novità. La tarda maggioranza è costituita da individui razionali, ponderati, di sostanza e comprano un nuovo prodotto solo quando l’uso esplicitato da molti altri li rassicura. 155

E.Rogers, M . Shoemaker, F. Floyd , “ Communication of Innovations: A Cross‐Cultural Approach” . New York: The Free Press , 1971

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4. Laggards (ritardatari), ovvero quel segmento che compra la novità solo quando di novità, ormai , non si parla più. Il processo di pianificazione delle campagne di marketing non convenzionale, quali possono essere quelle generate con l’approccio virale, sfrutterebbe quindi le categorie degli early adopters, come sneezer (letteralmente coloro che starnutiscono, diffondendo l’epidemia) 156 a cui proporre i concept virali (fase di seeding) per diffondere il messaggio del brand . Se infatti, il contenuto della campagna viene accolto positivamente da questi segmenti, si darà avvio alla diffusione del messaggio attraverso un virtuoso passaparola che raggiungerà gradualmente l’audience di massa. La velocità di propagazione di un’ideavirus, come la definisce Godin 157 , aumenta spaventosamente grazie alle interconnessioni fra le persone rese possibili dai nuovi network sociali online 158 : a differenza infatti dei network sociali offline, sulla rete del web non esistono limitazioni geografiche e temporali, o condizionamenti legati alle dinamiche di ruolo, status e classe sociale. Le campagne non convenzionali quindi, generano un flusso di comunicazione che parte dai segmenti dei trensetter e degli influencers per diffondersi prima attraverso le conversazioni con i nodi deboli, poi questi ultimi diffonderanno a loro volta il messaggio . una volta generato una massa critica già sensibile al messaggio, la diffusione sui mainstream media riesce ad innescare nei pubblici fenomeni di narrazione rispetto al marchio mettendolo al centro delle conversazioni delle persone. Questo flusso sarà stimolato ed alimentato nel tempo per il semplice fatto che vuole raccontare una storia (lo storytelling della marca 159 ) e rendere partecipi gli utenti dei suoi sviluppi. Il flusso delle campagne di marketing convenzionale ha , al contrario, sempre individuato nei mass media il canale preferenziale,il trampolino di lancio per l’introduzione dei prodotti sul mercato, al quale segue un andamento scendente, conseguenza della pressione pubblicitaria che tende a diminuire con il finire della pianificazione.

2 Le opportunità offerte dal web per la comunicazione ambientale . Si consideri a questo punto il ruolo fondamentale giocato dal web e dai social media nella fase di progettazione, realizzazione e monitoraggio delle campagne di comunicazione e di quale ricchezza informativa possa rendersi portatore agli occhi dei responsabili marketing, grazie alla raccolta delle opinioni spontanee che emergono dagli utenti in rete. Prima di addentrarci in questa esplorazione, è necessario definire il fenomeno dei social media e del web 2.0 per comprendere quali sono le possibilità offerte da queste tecnologie, e quali limiti l’impresa e il brand devono tenere in considerazione per utilizzarle in modo efficace.

156

Cova, Giordano Pallera, “Il marketing non convenzionale”, Il Sole24Ore, 2007, pag 196, cit. . S. Godin, “Unleashing the IdeaVirus, 2001 158 “Con il termine social network si intende definire i più diversi tipi di aggregazione di persone, per grandezza o per finalità, temporanei o duraturi nel tempo, che possono andare da un gruppo di amici sempre in contatto a frequentatori di forum tematici” – Cova, Giordano Pallera, “Il marketing non convenzionale”, Il Sole24Ore, 2007, pag 195, cit. . 159 K. Fog, C. Budtz –B. Yakaboylu, “ Storytelling: Brand in practice” , Springer 2005 157

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I social media possono essere definiti come una tecnologia basata su internet e la comunicazione mobile, che consente agli utenti di creare e condividere contenuti testuali,immagini,video e audio. Un esempio sono Google,MySpace, Fcaebook, LinkedIn , i blog , Twitter, YoutUBE, Flickr, Second Life, Wikipedia e molti altri ancora. Questa definizione coincide in parte con la definizione condivisa di Web 2.0, laddove ci si riferisce ad “un’attitudine alla collaborazione e condivisione di contenuti, abilitata da sistemi software sviluppati per supportare l’interazione in rete.” 160 Si tratta di fenomeni in costante sviluppo sia dal punto di vista dell’adozione che da quello tecnico, ma soprattutto, vista la loro portata (bacino di utenti) e le possibilità a cui danno accesso, dovrebbero essere tenute in considerazione come un prezioso strumento nelle mani del marketing. I social media non sono che un altro canale per raggiungere e coinvolgere i propri stakeholder, e man mano che il fenomeno si diffonde, aumenta anche l’interesse verso la sostenibilità. I social media tendono ad abbattere le barriere tra i manager e gli stakeholder, forzandoli a conversazioni più trasparenti. Ma mentre molte di queste conversazioni non si realizzeranno negli ambienti digitali, i social media si rivelano essere catalizzatori del cambiamento nelle modalità di costruzione e mantenimento di relazioni durature con i vari stakeholder. Per quanto riguarda l’Italia, il Rapporto Annuale del Censis 161 svela che la dieta mediatica degli italiani è caratterizzata da due fenomeni di rilievo. Si può per prima cosa osservare che il numero delle persone che entrano in contatto solo con fonti audiovisive è rimasto stabile negli ultimi anni: era il 28,2% nel 2006 ed è il 26,4% nel 2009. Questo significa che è difficile parlare di vero pluralismo delle fonti in presenza di un quarto della popolazione italiana che entra in rapporto con il mondo solo attraverso il filtro della televisione, specie se si considera che questa quota arriva a sfiorare la metà (il 42,1%) tra le persone che hanno più di 65 anni. Il secondo campanello d’allarme riguarda il ruolo sempre più marginale che vanno assumendo i media a stampa, un fenomeno che si può definire come press divide: le persone estranee all’uso dei mezzi a stampa sono aumentate dal 33,9% del 2006 al 39,3% nel 2009, ma questo fenomeno è stato determinato dagli utenti di Internet, che hanno più che raddoppiato la loro disaffezione per la carta stampata (erano al 5,7% nel 2006 e sono al 12,9% nel 2009) Secondo i dati Audiweb 162 , gli utenti del web a livello globale, (ovvero prendendo in considerazione Austria,Brasile,Repubblica Ceca, Danimarca,Francia,Italia,Inghilterra, USA) sarebbero circa 362 milioni, con un tempo medio giornaliero di esposizione al mezzo di circa 1 ora e 1 minuto, 2209 circa di pagine visitate al mese e 46 sessioni al mese. A questi dati si aggiunga lo specifico panorama italiano 163 , caratterizzato da 22 milioni di utenti, un’esposizione media di 53 minuti al giorno (+27% rispetto al 2008), 2092 circa di pagine visitate per persona al mese (+27% rispetto al 2008); inoltre due terzi degli internauti italiani hanno dai 18 ai 49 anni(il 12% sono minori di 18 anni, il 31% hanno tra i 18 e i 34 anni, il 34% hanno tra i 35 e i

160

La prima definizione del termine Web 2.0 risale al 2005, quando Dale Dougherty, vicepresidente della O’Reilly Media la ufficializzò nella prima Web 2.0 Conference. – vedi http://www.xyz.reply.it/web20 161 Censis, “Rapporto Annuale. Comunicazione e Media”, 2009 – vedi http://www.censis.it/277/280/339/6954/cover.asp 162 Audiweb powered by Nielsen Online, “Panel casa e ufficio”, maggio 2009, Global Index 163 Audiweb powered by Nielsen Online, Panel casa e ufficio”, maggio 2009, Italia

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49 anni, il 19% hanno tra i 50 e i 64 anni e il restante 4% è formato da utenti che hanno più di 65 anni) , e la classificazione per genere ci dice che il 55% degli utenti è rappresentato dagli uomini ed il 45% dalle donne. Il panorama dei dati ci consegna la mappatura di un’Italia ancora differenziata dal punto di vista geografico con le regioni del nord ovest e nord est con rispettivamente un tasso di penetrazione del 46% e del 37%, e le regioni del centro e del mezzogiorno rispettivamente con un tasso del 32% (si consideri anche la presenza dei grandi centri urbani come Roma) e 35%. I dati del rapporto Annuale del Censis, ci indicano anche che Il digital divide è prima di tutto un problema generazionale, visto che l’84,2% dei giovani utilizza Internet, cosa che fa − anche solo occasionalmente − appena il 12,2% degli anziani. Il web rimane ancora uno strumento a cui hanno accesso diretto prevalentemente alcune fasce privilegiate della popolazione, cioè i giovani (80,7%) e i soggetti più istruiti (67,2%). Ulteriori rilevazioni effettuate da Audiweb 164 svelano anche che i siti internet che in Italia registrano più visite sono i social network (trend che accomuna anche il Brasile e la Spagna) come Facebook (12 milioni di utenti, +51,4% rispetto al 2008), Youtube (9,7 milioni di visitatori, +11.7% rispetto al 2008), e il portale Virgilio (11,2 milioni di visitatori, +10,2% rispetto al 2008). In questo scenario, gli strumenti web che hanno registrato la crescita più alta tra il 2007 e il 2008 a livello globale (+5,4%), sono le Member community (fig 5) (categoria che comprende blog,community e social network) che seguono l’utilizzo dei siti di search, dei portali generalisti e dei siti dei produttori di software, ma precedono nella classifica quantativa, l’utilizzo delle e‐mail

164

Ibidem. – Audiweb è un Joint Industry Committee che vede la partecipazione di tutti gli operatori del mercato: Fedoweb, UPA, Assap Servizi.La uite dei servizi viene realizzata con Nielsen Online partner statistico e tecnologico di Audiweb per le rilevazioni panel e i relativi servizi di elaborazione.

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Fig 5. Le Member Communty continuano a crescere anche a livello mondiale Fonte: Nielsen Online, Panel Casa e ufficio – Dicembre 2008, Global Index

Oltre questi dati, grazie alle rilevazioni effettuate dall’istituto Forrester con il metodo Technographic (metodologia simile alla demografia, ma centrata sui comportamenti associati alla tecnologia) 165 , sappiamo che le modalità di partecipazione da parte degli utenti alle attività online, sono piuttosto differenziate, e che sulla base di questi possono essere distinti sei profili : 1. I creatori, ovvero coloro che tengono un blog, gestiscono un proprio sito web, pubblicano video di propria creazione, pubblicano contenuti di propria creazione, scrivono e pubblicano articoli e racconti; 2. I critici: gli utenti che inseriscono votazioni e recensioni di prodotti e servizi, inseriscono commenti sui blog degli altri, contribuiscono ai forum, inseriscono contenuti su un wiki o modificano quelli esistenti; 3. I collezionisti, coloro che ricorrono ai feed rss, che associano i tag a isti web e fotografie, votano online per i siti web; 4. I socievoli, gli utenti che hanno un profilo su un sito di social networking e che visitano i siti di social networking; 5. Gli spettatori, ovvero i lettori dei blog, chi guarda video creati da altri utenti, ascolta podcast, consulta i forum, legge votazioni e recensioni di altri utenti; 6. Gli inattivi, la quota più marginale degli utenti, che non compie nessuna di queste attività. 165

Charlene Li, J. Bernoff, “L’onda anomala”,RCS Libri 2008 , Vedi ‐ http://www.forrester.com/Groundswell/index.html

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Fig. 7 La scala Social Technographics – Groundswell, 2009

Per quanto concerne l’Italia, sappiamo che gli utenti “creatori” raggiungono la maggiore diffusione nella fascia d’età dei 18‐24 anni (44%) e dei 25‐34 anni (28%) rispetto al totale del campione indagato, ma complessivamente il nostro paese ha una media del 52% di utenti “spettatori” (media calcolata sul totale del campione). 86


Fig 8‐9 : Social Technographics, Groundswell, Italia, 2009

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Un altro studio condotto negli USA nel 2007 dalla Jupiter Research 166 , che vedeva coinvolti su 2.091 teenager tra i 13 e i 17 anni, ha rivelato che il 38% dei rispondenti si ritiene attento ai temi dell’ambiente, mentre il 15% è molto attento (ed è questa la quota effettivamente misurata del cluster green). Sottolineo che in questa ricerca, l’attenzione per l’ambiente non era la sola dimensione di definizione dei “green teens”, ma una tra le altre, che aiutava ad identificare il gruppo. Considerato questo, i responsabili marketing hanno un altro canale tramite cui inviare comunicazioni a questo target. Dalla ricerca è emerso che i teenagers online che si auto‐ identificano come molto attenti alle tematiche ambientali tendono ad essere più ricettivi all’advertising online e ad avere più influenza sui loro coetanei. Altre caratteristiche del gruppo “green teens” vengono svelate: il trend è prevalentemente femminile (57% del cluster), il 45% di loro afferma che gli piacerebbe testare per primo i nuovi prodotti, sono molto più interessati alla musica rispetto alla media dei teenager online, sono più inclini ad essere in cima alle mode correnti, e questo li rende cool, o leader, e per questo motivo più attivi nelle attività delle community o a scuola. Un altro dato importante è che mentre i comportamenti online dei “green teens” era relativamente simile a quello degli altri teenager online, il 29% di loro afferma di aver compito un acquisto in un punto vendita tradizionale negli ultimi 12 mesi, e il 19% ha fatto un acquisto online ( dati che, comparati con il 22 % e il 13% di tutti i teenager online, dimostrano una maggiore ricettività all’advertising online). Questi ragazzi non solo sono più coinvolti, ma sono anche più influenti: infatti i “green teens” sono più attivi dei loro coetanei, postano opinioni e interagiscono con il mondo online, piuttosto che frequentare i social network. Inoltre, rispetto alla media dei teenager online, sono punti di riferimento per i loro coetanei, che li contattano per avere consigli su vari prodotti. Comunque internet non è la sola fonte informativa per i giovani: infatti molti teenager spendono molto meno tempo degli adulti online. La dieta mediatica dei giovani tra i 13 e i 17 anni è ancora prevalentemente composta da tv e musica, per cui la pianificazione di una campagna pubblicitaria dovrebbe essere improntata alla multimedialità. Inoltre, in termini di attività online, Jupiter ha rilevato che: il 18% usa servizi per foto digitali (contro il 12% di tutti i teenager), il 24% visita siti internet dal cellulare (contro la media totale del 18%), il 22% partecipa alle chat room (contro il 17% totale), e il 31% visita i siti dedicati ai film (contro il 24% totale)

2.1 Il mercato come conversazioni : gli strumenti e gli usi dei social media

Lo sviluppo delle tecnologie digitali, unito all’evoluzione dei media e delle reti di telecomunicazione, sta accompagnando rapidamente la nostra società verso la cultura della partecipazione. “I media classici – scrive Prunesti ‐ hanno determinato per lunghi anni un flusso di comunicazione unidirezionale, imponendo dall’alto le scelte di consumo in un mercato molto diverso da quello attuale. Lo sviluppo di internet e la crescente diffusione delle sue applicazioni sta generando in questi ultimi anni un nuovo approccio alla comunicazione di tipo partecipativo, dove

166

D.Card per Jupiter Research, divisione di Forrester Research, “Green Teens”, 2007 – vedi ‐ http://www.forrester.com/rb/Research/green_teens/q/id/52051/t/2

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ai contenuti tradizionali si sovrappongono quelli generati, condivisi e diffusi dagli stessi utenti in base a nuove regole di appartenenza sociale.” 167 “Il passaggio ad una visione più umanistica del marketing, che metta al centro del discorso sulla marca le persone – non più considerate solamente come dei segmenti obiettivo – è quanto auspicato dalle 95 tesi del Cluetrain Manifesto, testo rivoluzionario lanciato in rete nel 1999 da un gruppo di comunicatori con in testa Rick Levine, già consulente di IBM.” 168 La prima delle 95 tesi esposte nel Manifesto è proprio “i mercati sono conversazioni” 169 . E infatti , da tutto ciò che è stato esposto in questo lavoro e grazie all’esperienza diretta che facciamo tutti noi quotidianamente con le pratiche di consumo e di interazione con i media, è possibile rendersi conto dell’incredibile e radicale capovolgimento che si sta verificando a favore dell’empowerment del consumatore:ora prosumer 170 (neologismo nato dai termini producer e consumer) e anche cosciente e sensibile ai problemi della sostenibilità ambientale. Il consumatore usa internet per cercare informazioni attendibili per le sue decisioni d’acquisto, chiede di essere coinvolto anche nella fase di progettazione dei prodotti, prende gradatamente le distanze dal prodotto anonimo, standardizzato, massificato; e richiede in maniera insistente, prodotti non pensati per “un volto nella folla” ma progettati sulla base delle sue esigenze. (prodotti taylor made). Si pensi che è di recente diffusione anche l’adozione di processi di crowdsourcing non solo per lo sviluppo di nuovi concept di prodotto, ma persino per la progettazione delle campagne di comunicazione. In questo scenario la maggior parte degli attori del mercato teme di poter perdere il controllo sulla veicolazione del messaggio e sull’immagine del brand in generale e quindi guardano al web 2.0 più come ad una minaccia che un’opportunità. Ogni strumento nel panorama dei social media porta con sé una specifica modalità di utilizzo, o per meglio dire, ha vocazione per funzioni sociali distintive, che comportano minacce ed opportunità sia per le imprese che scelgono di essere presenti online, sia per quelle che rifiutano di aprire questo canale di comunicazione. Blog, podcast 171 e contenuti generati dagli utenti (ugc), per esempio,sono strumenti che abilitano l’autoespressione in una dimensione pubblica e incoraggiano i fruitori a formulare commenti. Gli autori di un blog leggono e commentano quelli degli altri, si citano a vicenda e questi link incrociati istituiscono un rapporto tra i blog e i loro autori , dando vita alla blogosfera. La blogosfera crea un “effetto eco”, nel senso che per ogni argomento esiste una sorta di commentario in continuo sviluppo. Lo scambio di link all’interno dei post fa sì che questi ultimi acquistino una posizione più alta nei risultati di ricerca di Google, per esempio, e in questo modo risultano più rilevanti per gli utenti che navigano in rete. I blog sono uno strumento prezioso, non solo per comunicare con il mondo ma anche per ottenere feedback. Le imprese dovrebbero leggere i blog che parlano del/i

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A. Prunesti, “Social media e comunicazione di marketing”, Franco Angeli, 2009, pag 13, cit. Cova, Giordano Pallera, “Il marketing non convenzionale”, Il Sole24Ore, 2007, pag 79, cit. 169 R. Levin, C. Locke, D. Searls, D.Weinberger, , “The Cluetrain Manifesto”, Basic Books, 10° edizione, 2009 – vedi http://www.cluetrain.com/book/95‐theses.html 170 A. Toffler, “The Third Wave”, Bnatam, 1984 171 Podcasting – per una definizione vedi http://www.youtube.com/watch?v=wfUee_fcUuc 168

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loro brand e verificare cosa sta dicendo la gente, per poi pianificare una modalità di intervento su quegli stessi blog, o crearne uno per l’azienda. Alcuni esempi di blog italiani dedicati ai temi dell’ambiente e della sostenibilità sono Marrai a Fura (www.marraiafura.com – fig. 10) o Terranauta (www.terranauta.it ) che offrono notizie e approfondimenti su clima, bioarchitettura, politica,energia rinnovabile e molto altro ancora. Fig.10: Marraiafura, home page ‐ www.marraiafura.com

I social network e i mondi virtuali si occupano invece di facilitare i rapporti interpersonali attraverso le tecnologie:mettono in contatto le persone che la vita hanno fatto allontanare, ma anche quelle che vivono gomito a gomito (come per esempio gli studenti universitari) che li usano per mantenersi aggiornati. Inoltre aiutano a creare nuovi rapporti e sono pieni di sottocomunità o tribù (come le definirebbe Cova). I siti di social networking, però, sottraggono grande quantità di tempo alle altre attività; il 22% dei teenager ,per esempio, si connette almeno una volta al giorno, con un tempo di navigazione che può essere anche molto competitivo rispetto agli altri media. Molte aziende hanno creato profili in uno o più social network e possono accomunare “amici” come qualunque altro partecipante, e comunicare in modalità one‐to‐one a costi bassissimi. Si 90


vedano per esempio le numerose “pagine fan” sorte su Facebook a nome di aziende o prodotti specifici (Toyota Prius con 46,792 utenti fans , o la pagina “The art of travel” di Louis Vuitton, che conta ben 759,446 utenti fans), o alcuni interessanti progetti realizzati su Second Life (ad esempio l’isola di InToscana, il consorzio turistico della Regione Toscana, e molti altri), o ancora i social network creati dalle stesse imprese, come per esempio YouImpact (www.youimpact.it ‐ fig 11) , progetto italiano realizzato da Radio Lifegate, e mirato a raccogliere i contributi creativi dei suoi iscritti sui temi della sostenibilità, del rispetto per l’ambiente e per la musica . Un altro esempio molto interessante è Zoes (www.zoes.it – fig 12) , un social network che favorisce l’incontro tra persone che hanno l’interesse per l’ambiente e per realizzare progetti di sostenibilità ambientale. Fig. 11 YouImpact – home page www.youimpact.it Fig 12: Zoes – home page – www.zoes.it

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I wiki 172 , ovvero i siti che supportano la partecipazione di più persone che condividono la responsabilità di creare e mantenere aggiornati i contenuti, tipicamente centrati sui testi e le immagini. Il più grande e conosciuto è Wikipedia, l’enciclopedia non profit prodotta dalla gente comune, che comprende oltre 2 milioni di voci. Nei wiki i contributi collettivi rappresentano una visione consensuale, basati su un set condiviso di regole convenzionali. Dal momento che le pagine di Wikipedia (secondo la classifica Alexa l’8° sito più visitato del web) appaiono ai primi posti tra i risultati delle ricerche online, ciò che dicono è importante. Le imprese dovrebbero monitorare attentamente le pagine che le descrivono o che ne presentano i prodotti. Ma il wiki è uno strumento che potrebbe essere usato anche internamente alle aziende, come strumento collaborativo per la creazione di conoscenza e la condivisione del know how tra i dipendenti. Un esempio di wiki dedicato al tema dell’ambiente è il progetto americano GreenWiki (http://green.wikia.com/wiki/Wikia_Green ) che raccoglie informazioni su prodotti, aziende, tecnologie e lifestyle. I forum, le votazioni e recensioni sono strumenti che consentono agli utenti di esprimere in modo rapido le loro opinioni in merito a specifici argomenti. Fondamentalmente i forum di discussione equivalgono a una conversazione “al rallentatore” – nella definizione di Charlene Li e Bernoff 173 ‐ nell’ambito della quale gli individui possono rispondersi a vicenda tramite internet. Se un acquirente ha avuto problemi con un prodotto di consumo, metterà in evidenza il problema attraverso questi strumenti, e per questo motivo votazioni,recensioni e forum risultano essere molto istruttive per le imprese. Anche i tag e il social bookmarking 174 sono strumenti altrettanto importanti: gli utenti infatti utilizzano questo strumento per organizzare le informazioni, dando vita ad una tassonomia dei contenuti realizzata dal basso, ovvero, con il termine coniato da Thomas Vander Wal 175 , creano la folksonomy, cioè una classificazione creata dalla gente comune, e non da esperti. Si può ricorrere a questo strumento per classificare le proprie informazioni e i siti internet di interesse per l’utente, ma in ogni caso possono nascondere delle minacce per l’impresa. I tag attribuiti dall’utente infatti possono essere anche critici rispetto al contenuto che stanno “taggando”: nel libro “L’onda anomala” viene riportato l’esempio di un’azienda produttrice di attrezzature agricole che decide di classificare la scheda di un prodotto con il termine “bestiame”, ma qualcun altro potrebbe classificarla come “crudeltà verso gli animali” e contribuire a far rintracciare quella pagina internet con questo termine, provocando un danno di immagine per il brand. A questo punto, la prima cosa da fare per l’impresa è controllare, attraverso specifiche piattaforme che abilitano questi servizi (come digg.com o del.icio.us), quali sono i tag associati all’indirizzo del proprio sito internet. Le informazioni ottenute dal controllo possono essere sfruttate per pianificare l’acquisto di specifiche parole chiave sui motori di ricerca ,e possono suggerire all’impresa il linguaggio utilizzato dai consumatori quando si riferiscono ai loro prodotti/servizi. Infine, ma non per ordine di importanza, i social media annoverano tra i loro strumenti anche i Feed RSS 176 (really simple syndication)e i widget. Questi strumenti facilitano la fruizione dei contenuti presenti in rete: la RSS è un trasmettitore che genera un feed, ovvero un elenco di tutti i contenuti provenienti da un determinato sito, e lo pubblica all’interno della piattaforma di 172

Wiki – per una definizione vedi http://www.youtube.com/watch?v=1zi6yXyAFdo Charlene Li, J. Bernoff, “L’onda anomala”,RCS Libri 2008 174 Social Bookmarking – per una definizione vedi http://www.youtube.com/watch?v=4AyBNVCh0fo 175 T. Vander Wal , “Folksonomy”, post del 2 febbraioi 2007 pubblicato su www.vanderwal.net 176 Feed RSS – Per una definizione vedi http://www.youtube.com/watch?v=nJZVJoTSDyw 173

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gestione specifica per la lettura dei feed, invece i widget sono mini applicazioni connesse ad internet (e stanno acquistando sempre più rilevanza per le loro potenzialità di distribuzione dei contenuti). Gli utenti che fanno ricordo ai feed RSS possono monitorare più siti contemporaneamente e in generale restare più in contatto rispetto a chi invece non li usa, mentre i widget hanno più marcatamente un carattere sociale in quanto si diffondo a macchia d’olio e possono essere installati facilmente su molte piattaforme di blogging e di social networking . La RSS e i widget possono essere eccellenti strumenti di marketing, specie quando si tratta di erogare contenuti aggiornati periodicamente ai clienti di un’impresa. Questo significa che il blog istituzionale, i comunicati stampa, il catalogo prodotti e tutto ciò che viene aggiornato periodicamente dovrebbero essere consultabili attraverso questa tecnologia. Un esempio brillante di come possano essere usate le tecnologie dei social media, è rappresentato dall’EPA, l’Environmental Protection Agency degli Stati Uniti (http://www.epa.gov/ ‐ fig 13), che ha sapientemente combinato tutti gli strumenti appena citati per migliorare la comunicazione con i cittadini, ampliare la brand awareness facilitando la condivisione dei contenuti, e contemporaneamente sensibilizzare sui temi dell’ambiente e della sostenibilità una audience che si estende ben oltre i confini degli USA Fig. 13 : EPA, Environmental Protection Agency, USA ‐ home page, http://www.epa.gov/

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2.2 .Come trarre vantaggio dai social media Nel 2007, la società di consulenza Forrester Research ha presentato ufficialmente un metodo di approccio efficace affinché le imprese possano affrontare il fenomeno del web 2.0 con maggiore consapevolezza e successo: il metodo POST 177 , un acronimo che significa persone, obiettivi, strategia e tecnologia, rappresenta uno strumento sistematico volto allo sviluppo di un piano. La prima fase del metodo consiste proprio nella comprensione delle attitudini dei clienti(compresi i prospect) dell’impresa e delle loro modalità di utilizzo dei social media (come visto precedentemente coni il profilo technographics), con la finalità di tarare le iniziative sulle loro abitudini ; la seconda fase è invece la determinazione degli obiettivi, che possono variare da quelli di marketing alla mobilitazione dei clienti, al migliorare la collaborazione dei dipendenti (un esempio interessante è la piattaforma Lotus Greenhouse di IBM); la terza fase è la formulazione della strategia, che definisce le modalità in cui cambierà la gestione della relazione con i clienti e di come saranno misurati i risultati delle iniziative (in termini economici ; ed infine la quarta fase è la scelta della tecnologia adatta al raggiungimento degli obiettivi. Ogni fase, all’interno del metodo, merita adeguata attenzione, ma il passaggio più delicato è sicuramente la determinazione degli obiettivi, sulla base dei quali sarà possibile valutare il successo o l’insuccesso delle attività intraprese. Forrester Research indica le cinque grandi famiglie di obiettivi entro le quali rientrano le opportunità di utilizzo dei social media: 1. Ascoltare, per fare ricerca (incrementando l’esaustività), per capire meglio cosa rappresenta il brand, i clienti ,per trovare le fonti che influenzano il mercato dell’impresa, per gestire le crisi legate alle pubbliche relazioni, per trovare nuove idee di prodotto e di marketing (obiettivi molto importanti soprattutto per la funzione di Ricerca delle imprese). In tutti i casi,l’ascolto porterà alla luce gli aspetti insensati dell’azienda, perché quando i clienti sono in condizioni di reclamare per il modo in cui l’impresa gestisce il suo business, anche il marketing è in grado di misurare e quantificare i loro reclami. Inoltre l’ascolto è la modalità più semplice per interagire con il fenomeno del web 2.0;in quanto comporta rischi, nel senso che non è necessario che l’impresa prenda parte alle conversazioni. Ascoltare il web e le conversazioni che gli utenti generano online può essere molto utile al fine di proteggere e valorizzare la propria corporate o brand reputation (si veda anche il capitolo 2), per conoscere meglio i propri consumatori (alimentare la propria marketing intelligence), aumentare le vendite (intercettando i consumatori nel momento dell’acquisto, migliorare il supporto post‐ vendita (aprendo un canale diretto di ascolto e migliorare la comunicazione (istituzionale e di prodotto). In particolar modo le diverse funzioni aziendali beneficeranno di questi strumenti: il reparto marketing e comunicazione potrà effettuare un’analisi più ampia dei bisogni del consumatore e del suo linguaggio di comunicazione, chi cura le Pubbliche relazioni potranno controllare la reputazione dell’azienda e individuare gli opinion leader, si otterranno dati migliori per le analisi di mercato e per lo studio dei competitor, si individueranno eventuali problemi su prodotti e servizi ,

177

Forrester Research, “Objectives:The key to social strategy” , post del 9 ottobre 2007, vedi www.groundswell.forrest.com

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si potrà ottimizzare il CRM curando la relazione con gli utenti consumatori, ed infine, potrebbero essere facilitate le attività di recruitment, employer branding, e le attività dei dipendenti. La fase di ascolto inizia con la mappatura delle fonti e delle community online da monitorare, si procede all’acquisizione delle conversazioni rilevanti e all’analisi sintattica e semantica dei risultati per poi, infine,classificare e organizzare le opinioni ed elaborare le informazioni conoscitive di cui ha bisogno l’impresa. Durante la fase di ascolto si configurano due scenari: a. L’analisi della reputazione online, che consiste nel presidiare i canali a più alta visibilità e rilevanza (motori di ricerca e fonti a più alta visibilità); b. L’analisi delle conversazioni online, che avviene attraverso il presidio dei canali dove avvengono le conversazioni più significative (dove i consumatori abitualmente esprimono le loro opinioni) Entrambe le attività vengono svolte attraverso l’analisi dei database creati con i software di tracciamento (l’uso dei cookie, dei log files, il page tagging , ecc.) in grado di identificare le fonti sulla base di criteri pre‐definiti. È spesso necessario concentrare l’ascolto su fonti rilevanti, e per questo motivo è necessario utilizzare un indicatore della qualità dei canali ascoltati: a tale scopo è stato sviluppato il concetto di Indice di Rilevanza del Word Of Mouth (IR WOM) 178 , che definisce la rilevanza di un messaggio pubblicato online su un blog,forum e newsgroup e viene calcolato sulla base di dimensioni quantitative e qualitative relative alla fonte di provenienza (audience del canale, visibilità e autorevolezza, numero medio dei commenti per post o messaggi prodotti al mese) o all’autore(notorietà, autorevolezza, vitalità autore, ovvero frequenza di pubblicazione dei contenuti). Non tutti gli strumenti hanno le stesse caratteristiche, e nel web 2.0 ogni canale ha una specifica potenzialità di fruizione per gli utenti. (fig 14)

178

BlogMeter, “Misurazione dei social media e analisi della Reputazione Online”, settembre 2009 – vedi www.blogmeter.com

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Fig. 14 Classificazione dei Social media sulla base della capacità di penetrazione, del potenziale di viralità, della fiducia percepita e della rilevanza dei contenuti

Fonte: Blogmeter, agenzia specializzata in web marketing

2. Parlare, ovvero rendere più interattiva la relazione con i propri stakeholder , evitando di gridare il proprio messaggio ad un pubblico sempre meno sensibile alla comunicazione broadcast. La pubblicità tradizionale infatti colpisce il segno grazie alla ripetizione (i due indicatori principali sono infatti il reach e la frequenza), e le pubbliche relazioni mirano ad ottenere visibilità sui media raccontando con i loro comunicati stampa ogni singola partnership istituita e ogni singolo risultato ottenuto dai loro clienti a giornalisti che abbiano influenza o siano interessati a scrivere un articolo a riguardo. Nella teoria tradizionale del marketing, i consumatori vengono spinti ad entrare nell’imbuto (fig 10) grazie alle attività che stimolano la notorietà, come la pubblicità, e ad attraversare le fasi successive fino a trasformarsi in acquirenti. Fig.15: L’imbuto del marketing tradizionale

Fonte:Forrester Research

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Le nuove tecnologie del web 2.0 hanno reso, invece, questo processo molto più complesso, abilitando i clienti ad esprimere le loro opinioni su prodotti e servizi attraverso commenti e recensioni su blog,forum e social network. Per questi motivi le fasi intermedie di “presa in considerazione”, “preferenza” e “azione” sfuggono spesso al controllo degli operatori di marketing, ma è proprio qui che possono concentrare parte dei loro sforzi ed influenzare gli utenti che si trovano nel mezzo di questo imbuto, attraverso il dialogo. Quattro tecniche, secondo la società Forrester, risultano particolarmente efficaci per parlare con gli utenti: a. Pubblicare video virali, molto utili per migliorare la notorietà di un brand, ma critici dal punto di vista della creatività (devono avere un contenuto che possa accomunare una tribù – vedi paragrafo 1.2 di questo capitolo); b. Prendere parte ai social network e ai siti basati sul contenuto generato dagli utenti. I social network rappresentano la soluzione ideale per i problemi legati al passaparola (fondamentale nei settori dell’abbigliamento,dei film, dei prodotti televisivi e per tutti i prodotti “di moda”); c. Entrare nella blogosfera aprendo un corporate blog: rappresenta una buona soluzione ai problemi di complessità,ovvero quando l’azienda ha molti target diversi, oppure vende prodotti o servizi complessi, che i consumatori non acquistano d’impulso. In questi casi i blog possono essere di aiuto non solo nella fase di pre‐ acquisto, ma anche nel dopo acquisto,rassicurando i clienti con contenuti pregnanti. Inoltre, spesso i post vengono ripresi dai media tradizionali e appaiono tra i risultati di ricerca, incrementando la notorietà relativa ai prodotti complessi ; d. Creare una community: strumento utile per risolvere problemi di accessibilità, ovvero quando il proprio target si riveli molto propenso alla collaborazione con altri utenti, con conseguente scarsa attenzione alle comunicazioni dell’impresa. La cosa migliore da fare in questo caso, potrebbe essere offrire a questi clienti, un luogo dove poter dialogare tra loro della marca. . Per raggiungere la massima efficacia, questi strumenti devono permettere alle persone di interagire, aiutare le persone a diffondere il messaggio dell’impresa e misurare i risultati ottenuti. 3. Mobilitare, individuando i clienti più entusiasti ed accentuando la potenza del loro passaparola. Il passaparola infatti, amplifica efficacemente le operazioni di marketing in quanto è credibile( le testimonianze dirette dei clienti sono più credibili di qualsiasi fonte mediatica), si rafforza da sé, e si diffonde da sé (se vale la pena usare il prodotto, il passaparola associato genera un ulteriore passaparola con un effetto a cascata esponenziale). Come ha dimostrato il primo grafico presentato in questo capitolo (fig 1), le opinioni degli amici ed egli utenti sono la prima referenza che i consumatori controllano prima di acquistare un prodotto/servizio. Fred Reichheld, nel suo ultimo libro 179 , ha messo

179

F. Reichheld , “Buoni e cattivi profitti”, Etas, 2007 – vedi http://www.theultimatequestion.com/theultimatequestion/home.asp

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a punto un indicatore in grado di evidenziare il potenziale di passaparola che il brand è in grado di generare:l’indicatore è costruito sulla base dei risultati ottenuti chiedendo ai clienti “Quanto è probabile che raccomandiate [nome azienda/prodotto] a un amico o un collega?”. I clienti rispondono indicando un numero compreso tra 1 e 10. Introducendo il Net Promoter Score (NPS) 180 , Reichheld ha offerto un metodo per valutare implicitamente anche lo stato di salute della propria impresa e la sua potenzialità di crescita, tanto è vero che l’indicatore è composto dal rapporto tra i promotori (quelli che hanno risposto da 9 a 10) e i detrattori (quelli che hanno risposto da 0 a 6). Inoltre la ricerca condotta da Reichheld dimostra che il NPS è correlato positivamente con la crescita sostenibile per le aziende che operano in numerosi settori. Charlene Li e Bernoff 181 indicano tre tecniche di base per entrare in contatto con i clienti entusiasti di un brand o prodotto specifico: a. Far leva sull’entusiasmo dei consumatori offrendo loro l’opportunità di votare e pubblicare recensioni; b. Creare una community allo scopo di mobilitare i clienti (molto efficace se i clienti nutrono una vera passione per il prodotto e sono legati da un’affinità); c. Partecipare alle community create dai clienti appassionati del brand e mobilitarli. In ogni caso, la mobilitazione dei clienti è un’attività che comporta rischi decisamente maggiori rispetto alle attività di ascolto e al dialogo, perché conduce l’impresa a relazionarsi con persone che parleranno del suo brand. La mobilitazione deve essere considerata un’attività di lungo termine, che comporta un notevole impegno da parte dell’azienda, non è adatta a tutti i settori di mercato (soprattutto per le imprese che producono prodotti che non suscitano un attaccamento al brand o un legame emotivo),e soprattutto non è adatta a tutti i tipi di clienti (se il proprio target non è costituito da utenti della rete –socievoli,critici,creativi ecc. – è molto probabile che le iniziative rimarranno deserte). 4. Supportare, sviluppando strumenti per aiutare i clienti a supportarsi a vicenda (obiettivo pregnante per il Servizio Clienti), come wiki e forum. La possibilità di aiutare i clienti a supportarsi a vicenda li renderà soddisfatti, probabilmente farà risparmiare e fornirà una serie di informazioni e suggerimenti, ma richiederà anche un grande sforzo da parte dell’impresa, che dovrà impegnarsi non solo nella creazione di contenuti, ma anche nel mantenere un forte orientamento al cliente.

180

NET PROMOTER SCORE – per approfondimenti vedi ‐ http://www.netpromoter.com/netpromoter_community/index.jspa 181 Charlene Li, J. Bernoff, “L’onda anomala”,RCS Libri 2008

98


5. Accogliere, integrando i clienti nei propri processi di business, ad esempio ricorrendo alla loro passione e alla loro conoscenza dei prodotti per progettare nuovi concept e nuove soluzioni (obiettivo che può interessare la funzione Sviluppo).

3 I social media e il green marketing : un innovativo binomio strategico Esiste , ed è palese, una naturale intersezione tra le modalità di comunicazione dei social media e le operazioni di CSR, in quanto entrambe, per essere efficaci, necessitano autenticità, credibilità e coinvolgimento con i loro pubblici (fig.16). Il potere dell’influenza resi possibili coni social media abilitano le imprese a migliorare il dialogo intorno alla responsabilità sociale d’impresa, conducendola ad un nuovo e più alto livello di coinvolgimento e trasparenza. Fig. 16: Valori comuni alla base delle attività di CSR e Sostenibilità e dell’uso dei Social media

AUTENTICITà

SOCIAL MEDIA

CREDIBILITà

SOSTENIBILITA’

ENGAGEMENT TRASPARENZA

e CSR

Fonte: elaborazione dell’autore

Mentre gli stakeholder chiedono alle imprese di aumentare la loro trasparenza, e i consumatori (organizzati in tribù o in community) diventano sempre più esperti conoscitori dei prodotti che acquistano e di cui fanno esperienza, i social media e il marketing relazionale emergono con maggiore evidenza quali strumenti di cooperazione potenti ed efficaci. Come si è visto fin ora, la categoria del green viene definita da specifici consumatori, caratteristiche dei prodotti e dei brand che possono trarre pieno vantaggio dalle potenzialità del web 2.0. 99


Innanzitutto, “green” è una categoria di prodotto emergente, i consumatori non hanno ancora molta familiarità con i prodotti disponibili oggi, esistono pochi standard e ogni giorno vengono immessi sul mercato nuovi prodotti e soluzioni. Per questi motivi gli attori di mercato hanno l’opportunità si sfruttare le funzionalità del web 2.0 per aiutare i consumatori nel navigare la categoria dei prodotti, facilitare l’educazione alla sostenibilità e guidare lo sviluppo dei prodotti attraverso gli ambienti collaborativi e community. Un esempio emblematico è la campagna “Green my apple” 182 realizzata da Greenpeace nel 2007, che evidenziava le attività ambientaliste della Apple,e mirava a stabilire dei nuovi standard per l’attivismo attraverso un uso sofisticato di internet, della sensibilizzazione online e dei social media. La campagna ottenne il risultato di spingere Apple alla riduzione dell’uso di sostanze tossiche e alla creazione di prodotti più green. In secondo luogo, molti consumatori non sono ancora sufficientemente impegnati nelle pratiche green: le attitudini si stanno evolvendo , i comportamenti d’acquisto sono ancora inconsistenti e le percezioni su alcuni brand devono ancora formarsi. I responsabili marketing hanno in questo caso l’opportunità si influenzare questa evoluzione attraverso una partecipazione trasparente nei dialoghi online, incoraggiando il word of mouth e facilitando l’engagement del consumatore online. Terzo. È importante ricordare che per molti , green non descrive solo l’ attributo di un prodotto, ma una causa sociale: questo apre le porte alla possibilità da parte del brand di attivare i consumatori più appassionati della categoria. Qui la sfida per le imprese consiste nell’agire in modo tale che si percepisca la genuinità delle sue azioni e non semplicemente il greenwashing. Per le imprese che colgono la sfida della green economy, i social network offrono un canale appropriato per comunicare con i consumatori che hanno maggiore affinità con i temi green o che sono almeno abbastanza open‐minded da ascoltare. Oggi questi utenti possono essere rintracciati in un’ampia varietà di social network, inclusi quelli generalisti e quelli verticali che connettono chi è interessato alla responsabilità sociale o all’ambiente. 3.1 Esempi all’incrocio tra social media e sostenibilità

Le strategie di branding online possono variare notevolmente a seconda del core business dell’impresa e dei valori che il brand comunica. Possiamo così osservare 1. communty e blog focalizzati sull’impresa, come MyStarbucksIdea (mystarbucksidea.force.com), il blog di Chevrolet (fastlane.gmblogs.com ) o di Wal‐Mart (checkoutblog.com), scritto da un gruppo di esperti e focalizzato sulle ultime novità di mercato relative a giochi, gadget, e sostenibilità.

2. Blog e microblog orientati al customer service, come Get Satisfaction (www.getsatisfaction.com), un sito che offre assistenza clienti per le auto a diverse

182

Campagna realizzata da Greenpeace ‐ “Geen my Apple” – vedi http://www.greenmyapple.org/

100


compagnie automobilistiche, o come Comcast, che ha creato un profilo sulla piattaforma di Twitter.(@comcastcares) per offrire il servizio di assistenza clienti; 3. Community e social network sul tema della sostenibilità e dell’ambiente sponsorizzati dalle imprese, come JustMeans, il social network promosso da Timberland (www.timberland.justmeans.com/) in cui le persone possono discutere con le imprese in merito al loro impatto ambientale e sociale. O ancora, Greenopolis (greenopolis.com), il sito promosso da Waste Management per incoraggiare il dialogo tra individui, associazioni no‐profit e imprese in merito alle pratiche green , dare agli utenti uno strumento per condividere idee e stimolare le persone ad introdurre sempre più cambiamenti positivi nella loro vita quotidiana. Altri esempi di questa categoria sono il social network Mission Zero (www.missionzero.org) promosso da Interface con l’obiettivo di raccogliere il supporto di milioni di persone che possono contribuire alla correzione dell’attuale condizione ambientale, e l’iniziativa di Dell con ReGeneration Movement (www.regeneration.org), un luogo dove poter radunare un gruppo di persone interessate a sostenere l’ambiente e la natura.

Sul blog Marketing Green , il suo autore, David Wigder (consulente ed editorialista dell’Harvard Business Publishing ) ha riportato una interessante classificazione dei social network che hanno maggiore affinità con il concetto di green in sei grandi gruppi (fig.17): 1. Siti interattivi che connettono gli utenti online per facilitare le interazioni offline. Per esempio gli utenti possono conoscere altri individui con simili valori per incontrarsi o socializzare su siti come Care2, Earthwise Singles, dharmaMatch, Green Drinks, Green Passions, Green Party Passions, Planet Earth Singles e VeggieDate. In alternativa, gli utenti possono trovare informazioni su eventi green e azioni sociali come il sito di Leonardo Di Caprio, 11th Hour Action, Do Something,Meetup, Step It Up, TakingITGlobal, e WorldCoolers. Altri siti consentono ai loro membri di trovare altri utenti con cui per esempio fare “carpooling “, come accade su GishiGo, GoLoco, pooln e WorldCarShare (di Yahoo Groups), o per ottenere un credito (come in Zopa), o ancora per riciclare i prodotti (il caso di freecycle ) 2. Siti di Committment (impegno) che abilitano l’utente ad impegnarsi personalmente per vivere una vita in modo eco‐friendly. Su questa tiplogia di siti gli utenti possono anche collaborare tra di loro per supportarsi ed incoraggiare gli altri in queste azioni. Esempi di questa tipologia sono Actics, Low Fly Zone, Make Me Sustainable, PledgeBank, The Carbon Diet, Who On Earth Cares , Yahoo Green , I Am Green (un’applicazione di Facebook) 3. Siti di Utilità, che consentono ai consumatori di connettersi e condividere con altri utenti affini la passione per il green lifestyle . Esempi di questi siti sono Facebook, MySpace, Tribe and Yahoo Groups (focused on green), as well as vertically focused networks such as beTurtle, Care2, Common Circle, Dianovo, ecoMetro, Eco‐munnity, Good Tree, Green Bin, Holistic Local, Lime, Neutral Existence, rethos, TheNag , Zaadz, Zelixy , e Baagz, un sito considerato un’applicazione anticipatrice del web 3.0 (perchè lavora sui principi del web semantico) 4. Siti di Shopping, che consentono agli utenti si connettersi e condividere con altri consumatori i loro acquisti green e le loro recensioni sui prodotti. Alcuni esempi sono FiveLimes e Sustainlane, che si aggiungono ad altri tradizionali siti di shopping come Kaboodle, StyleHive, ThisNext e Wists , che includono un’ampia gamma di prodotti eco‐ 101


friendly. O ancora, oggi Facebook consente di integrare i loro acquisti preferiti sulla propria pagina personale attraverso l’applicazione"My favorite Things”, (arricchisce il profilo e consente agli utenti di connettersi sulla base anche delle loro preferenze di shopping) 5. Siti di Engagement, che offrono la possibilità di condividere idée e collaborare a nuovi progetti. Questi social network tendono ad attrarre i membri dei settori verticali. Alcuni esmpi includono le community locali come .ecoTreadsetters (Yokohama Tire), Gusse e Transition Towns (UK); siti dedicati all’innovazione come Green Building Forum (UK), Sustainability Forum e wattwatt; e forum dedicati al business come OpenEco (Sun) e OPEN Forum (dell’American Express) . 6. Siti di Attivismo, che consentono di collaborare e promuovere il cambiamento attraverso l’attivismo politico e sociale. Alcuni esempi sono : 2People, Care2, Change,, Do Something, GreenVoice, idealist, just cause, Razoo, TakingITGlobal, tree‐nation, Wiser Earth e Youth Noise. Fig. 17 : Mappatura delle tipologie di social network “green”

COLLABORAZIONE

Committment

Engagement

Benefici personali

Shopping Utilità CONDIVISIONE

Interazione

Attivismo

CONNESSIONI Benefici sociali

Fonte: Elaborazione dell’autore su modello di David Wigder, Marketing Green

Per le imprese, alcuni social network offrono un’ottima opportunità per raggiungere i consumatori che hanno un’affinità con il green. Oggi esistono tre modalità principali per comunicare con i consumatori attraverso questi canali: 1. La ricerca : i brand e le imprese possono puntare su keyword (parole chiave di ricerca) che sono contestualmente rilevanti all’interno dei social network, e offrire contenuti rilevanti e coinvolgenti sulle landing page (pagine di atterraggio, generalmente le pagine linkate ai link sponsorizzati) collegate; 102


2. Conoscenza ed Engagement: le imprese possono coinvolgere I consumatori creando un profilo aziendale all’interno dei social network, facilitando la creazione dei contenuti user generated attraverso il viral marketing. Gli utenti si connettono ad un brand o ad una causa per esprimere la loro identità online; inoltre, la semplice connessione con un profilo personale può essere un canale per aumentare la conoscenza del brand anche all’interno del network esteso dell’utente (offrendo di fatto un endorsement del brand attraverso una fonte credibile); 3. Targeting: le imprese possono puntare ai consumatori di un particolare social network attraverso il posizionamento diretto dell’advertising, dove possibile e appropriato. Facebook per esempio ha stabilito delle policy per la gestione della presenza delle imprese all’interno del suo social network e consente di pianificare la visualizzazione della pubblicità sulla base dei dati, delle attitudini e dei comportamenti degli utenti. I social media sarebbero dunque un importante canale di comunicazione per sviluppare le strategie di branding. Quotidianamente incontriamo esempi che dimostrano come le imprese stanno modificando il loro modo di comunicare con gli stakeholder attraverso I social media. Ma la generazione di un dialogo significativo è solo una parte del puzzle della nuova comunicazione. Le imprese devono focalizzarsi sui contenuti oltre che sui linguaggi, e proporli in modo pertinente, autentico e credibile. Come abbiamo letto in questo capitolo, Charlene Li e Bernoff suggeriscono 183 che prima di entrare sulle piattaforme del web 2.0, le imprese dovrebbero comprendere quali sono le attività che i propri consumatori compiono sui social media, decidere quali sono gli obiettivi da raggiungere con la partecipazione,pianificare la modalità in cui cambierà la relazione con i consumatori, e solo infine, decidere quali tecnologie usare. Le imprese dovrebbero inoltre stabilire se i social media possono essere usati come punto di partenza per promuovere il dialogo sulla loro responsabilità sociale e quali sono i metodi migliori per supportarla. È importante che le imprese si assicurino che la strategia sia adatta ai gruppi di stakeholder (sia nel B2B, che nel B2C) che si vogliono raggiungere. Si consideri infine, che il valore di una buona relazione con i propri clienti non dovrebbe mai essere sottostimato. In Join the Conversation, Joseph Jaffe 184 afferma che le imprese dovrebbero impegnarsi con i loro stakeholder perché questi già parlano dell’impresa, anche fuori dal suo controllo. Indipendentemente dalle attività che l’impresa vorrà realizzare con i social media (sia che si intenda usarli per la comunicazione istituzionale, che per il marketing, o per migliorare il servizio clienti, o le attività di CSR) , dovrà riflettere sulla sua capacità di affrontare questa opportunità, in termini culturali ed organizzativi.

183 184

Charlene Li, J. Bernoff, “L’onda anomala”,RCS Libri 2008 Joseph Jaffe, “Join the Conversation”, John Wiley & Sons, Inc, 2007

103


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CAPITOLO 4 CASE HISTORY: TIM Tribù e “Come suona il caos?”

1. Il contributo del settore delle TLC nella creazione di nuove prospettive di Sostenibilità Ambientale

Come suggerisce la letteratura sulla Sostenibilità ambientale, occorre prendere atto che i problemi ambientali sono multidimensionali, interconnessi, interattivi e dinamici. Dalle azioni quotidiane di ogni singolo individuo alle politiche di gestione e di mercato delle imprese multinazionali, gli effetti di ogni scelta si manifestano in modo concreto ed interconnesso. La questione della crisi energetica e dell’inquinamento atmosferico risulta aggravata, per i paesi occidentali, anche dalla prospettiva della perdita degli approvvigionamenti energetici, in un'epoca in cui Cina e India stanno aumentando le richieste di petrolio, gas, e combustibili di ogni tipo, indispensabili per alimentare le proprie industrie e sempre più assetate di risorse energetiche. Come molti settori industriali – anche se in misura ridotta rispetto ad altri – quello delle telecomunicazioni utilizza energia per alimentare le reti, per raffreddare e riscaldare gli edifici, proteggere le infrastrutture e per i trasporti. Attualmente, infatti,uno studio condotto dalla società di consulenza Gartner afferma che il settore ICT rappresenta il 2% delle emissioni mondiali di CO2 185 e, se non si intervenisse tempestivamente su questo fronte, il consumo energetico dell’Unione Europea potrebbe aumentare anche del 25% entro il 2012, con il conseguente aumento delle emissioni nonostante gli obiettivi fissati per le energie rinnovabili. Anche la Commissione europea ha difatti deciso di puntare sui prodotti e i servizi ICT sottolineando l’importanza di produrre tecnologie eco‐compatibili e il ruolo – importante ‐ di queste ultime nel miglioramento dell’impatto umano sull’ambiente, con particolare riferimento all’emissione di CO2. 186 È necessario comprendere il nuovo ruolo dell'Information Technology nelle aziende ,quale fattore abilitante non solo di innovazione, ma anche di efficienza ed economicità dell'azienda. E mai come

185

Gartner , “Gartner Estimates ICT Industry Accounts for 2% of Global CO2 Emissions” blog post , 2007 – vedi http://www.gartner.com/it/page.jsp?id=503867 186 Gartner, “Green IT :The new Industry shock wave” , 2008 ‐ Vedi‐ http://download.microsoft.com/download/E/F/9/EF9672A8‐592C‐4FA2‐A3BF‐ 528E93DF44EA/VirtualizationPublicSafety_GreenITWhitepaper.pdf

105


oggi, le aziende hanno a disposizione tecnologie avanzatissime per ridurre i consumi e i costi energetici delle proprie attività produttive e distributive. “Il problema sostanziale quindi è di tipo culturale e la sua soluzione si basa anche sull'adozione di un processo di formazione/informazione delle risorse umane dedicate al settore tecnologico. Al responsabile IT deve essere affidato un nuovo compito, che comporterà un radicale ripensamento della sua stessa funzione. Egli deve assumere la veste dell'artefice dello sviluppo sostenibile, di colui che grazie all'adozione di tecnologie innovative e metodologie avanzate di IT management, sarà in grado di garantire la riduzione dei consumi energetici, dell'emissione di gas nocivi e soprattutto della riduzione dei costi riconducibili all'infrastruttura IT che gestisce.” 187 Servizi ad alto valore aggiunto, come le videoconferenze, il telelavoro, la telemedicina, rappresentano un’alternativa reale all’utilizzo di supporti fisici (carta, videocassette, cd) e di mezzi di trasporto; concorrono tra l’altro a “dematerializzare” la produzione di valore, riducendo i consumi di carta e di combustibili, la produzione di rifiuti e le emissioni in atmosfera di gas nocivi indotti da un uso non ottimale delle fonti energetiche. A questi vantaggi si aggiunga l’enorme risparmio energetico di cui potrebbero godere le imprese di telecomunicazione con l’utilizzo di fonti di energia rinnovabile per alimentare i sistemi di erogazione dei servizi di comunicazione verso i propri clienti e per il fabbisogno energetico interno. Alcuni noti casi sono le iniziative di British Telecom in Inghilterra, di IdeaCellular in India, di Maroc Telecom in Marocco 188 , e Telecom Italia 189 , che hanno scelto di convertire parte delle loro reti di approvvigionamento energetico con fonti eoliche e solari. Da questo punto di vista l’informazione diffusa rappresenta, infatti, un ulteriore vettore per lo sviluppo sostenibile: energia pulita e a basso costo sociale, di cui le telecomunicazioni moltiplicano gli effetti positivi, limitando l’impatto delle modalità tradizionali di interazioni produttive sull’ambiente. Al tempo stesso, questi servizi migliorano la quantità e la qualità delle comunicazioni tra tutte le fasce della popolazione, riducendo le distanze tra gli individui. Sullo sfondo di questa consapevolezza ho scelto quindi di esaminare il contributo che sta dando il settore delle telecomunicazioni in Italia rispetto agli obiettivi di sostenibilità ambientale e di responsabilità sociale. Vodafone Italia, 3Italia e il Gruppo Telecom infatti, hanno attuato strategie diverse che sottendono modalità diverse nell’orientamento al problema ambientale e approcci di green marketing altrettanto variabili. Dall’analisi delle attività di queste imprese è possibile rilevare la profondità del loro impegno verso le comunità in cui operano, e allo stesso tempo la capacità di innovare il tradizionale modo in cui opera la comunicazione d’impresa , e racconta gli sforzi compiuti nella direzione della responsabilità sociale.

187

A.Teti, Il Sole24Ore, Management –cit. vedi

http://www.professionisti24.ilsole24ore.com/art/Professionisti24/Management/2009/09/MANAGEMENT_NOTEBOOK_2_GREEN_I T.shtml 188

Telecomreport ,”The Green Show” – Part 1,2,3 (iniziative internazionali nel settore delle Tlc): BT (UK)‐ http://www.youtube.com/watch?v=uQaqsBRs9Zs ; Idea Cellular (India) ‐ http://www.youtube.com/watch?v=yN‐ AJGfm8y0 ; Maroc Telecom (Marocco) ‐ http://www.youtube.com/watch?v=hKAUHA8cUkw 189

Ericsson e Telecom “ Italian trial Innovative solar site solution”, http://www.youtube.com/user/ericssonpress#p/u/10/GCp8XeSFwtI

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1.1 VODAFONE ITALIA

Vodafone Italia, primo operatore privato dei telefonia mobile in Italia, presente sul mercato dal 1995 con il nome di Omnitel, fa parte del Gruppo Vodafone, il più grande gruppo internazionale di comunicazioni mobili al mondo. Vodafone Italia, che conta oltre 30 milioni di clienti mobili e più di 7.000 punti vendita, nel 2006 ha lanciato la banda larga mobile (HSDPA) che oggi copre l’80% della popolazione.. Il Gruppo Vodafone si e’ impegnato per il raggiungimento di un obiettivo importante, quale la riduzione delle emissioni di CO2 del 50% entro il 2020, e ha deciso di perseguirlo innanzitutto attraverso pratiche ambientali d’eccellenza, come l’adozione di tecnologie innovative per l’efficienza energetica, che ha già permesso di ridurre i consumi, sia degli impianti di rete che degli uffici. Queste scelte, nate all’interno dell’azienda ‐ come la recente decisione di innovare la propria flotta introducendo veicoli ibridi tra i veicoli aziendali ‐ si traducono in iniziative ambientali che coinvolgono i clienti, come la raccolta dei telefoni che, dal 2000 ad oggi, ha consentito di raccogliere oltre 30 tonnellate di materiali destinati al riuso e al riciclo. La coerenza e l’efficacia delle politiche nei riguardi dell’ambiente è stata riconosciuta dal mensile Fortune, che ha collocato Vodafone al primo posto della top 100 CSR (Corporate Social Responsibility). 190 Nel 2009 Vodafone ha lanciato il progetto My Future: “Il tuo telefonino ha ancora tanta energia” (fig 1) con l’obiettivo di raccoglie le iniziative a tutela dell’ambiente (fig 2). La proposta è vincente: rottamare i vecchi cellulari e contribuire alla realizzazione di impianti fotovoltaici per le scuole. Un modo intelligente sia per liberarsi del vecchio telefonino dimenticato in fondo ad un cassetto, sia per contribuire attivamente a generare energia rinnovabile. In otto anni Vodafone ha raccolto circa 1.600.000 telefonini. L’anno scorso, grazie alla campagna “Il tuo telefonino ha ancora tanta energia”, sono stati raccolti ben 20 mila terminali (non solo Vodafone). Il ricavato dalla loro rigenerazione, unito al contributo di Vodafone, ha permesso di finanziare l’installazione dei pannelli solari forniti da Enel.si in sei scuole individuate con il supporto di Legambiente, nelle città di Palermo, Agrigento, Grosseto, Pesaro, Comacchio e La Spezia. A supporto dell’iniziativa, Vodafone ha ideato EcoRicarica, un programma di marketing che prevede la devoluzione di un euro per ogni ricarica acquistata, al fine di sostenere le attività di MyFuture e generare energia pulita. Inoltre ha attivato un servizio di fundraising via sms (Eco SMS),e ha messo in vendita gli shopper Vodafone realizzati dal riciclaggio delle affissioni delle campagne pubblicitarie. Inoltre, sul fronte della trasparenza e della cooperazione, Vodafone ha realizzato il progetto Vodafone Lab, una piattaforma di social media dedicata ai clienti e ispirata ai principi di condivisione, sperimentazione, passione e conoscenza. Vodafone Lab è un’iniziativa che comprende un corporate blog, un wiki, un forum,i podcast , e una community per gli sviluppatori delle applicazioni per mobile, e può essere considerato un ottimo esempio di marketing tribale e di come Vodafone abbia saputo interpretare correttamente il fenomeno del web 2.0. All’interno di Vodafone Lab però sono presenti solo marginalmente i riferimenti alle attività di sostenibilità ambientale comunicate attraverso il sito web istituzionale, ma è auspicabile che prima o poi questo tema assumi maggiore rilevanza anche nelle conversazioni con i loro clienti.

190

Vodafone Italia, comunicato stampa del 25 maggio 2009 , vedi ‐ http://www.myfuture.vodafone.it

107


Fig 1 : Vodafone Ecoricarica 2009

Fonte: http://www.myfuture.vodafone.it

Fig.2 Obiettivi Futuri , Vodafone My Future 2009

Fonte: http://www.myfuture.vodafone.it

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1.2 3 ITALIA

3Italia, la Mobile Media Company del Gruppo Hutchison Whampoa, primo operatore al mondo a lanciare il servizio UMTS su scala commerciale e che vanta oggi quasi 9 milioni di clienti, nel 2009 ha confermato la sua vocazione di “azienda verde” attraverso un progetto sviluppato in collaborazione con AzzeroCO2, per compensare l’emissione di 10.000 tonnellate di gas ad effetto serra con l’acquisto di 10.000 crediti di emissione generati dal progetto di teleriscaldamento a biomassa in Valtellina, azzerando completamente le proprie emissioni di CO2 e diventando il primo operatore italiano di telecomunicazioni ad aver azzerato l’impatto delle proprie emissioni di gas serra. 3 Italia è da sempre sensibile alle tematiche ambientali e sostiene i principi dettati dal protocollo di Kyoto sul monitoraggio e riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Fin dal 2005 si rifornisce di energia proveniente da fonti rinnovabili e tiene sotto controllo le proprie emissioni di CO2 ( attraverso un sistema di carbon management) ed ha ottenuto , sempre nel 2005, la certificazione ISO 14001 per tutte le proprie attività, sedi, negozi e infrastrutture di rete presenti sul territorio nazionale. Questa politica di attenzione ambientale aveva portato 3 Italia ad abbattere, già nel 2006, oltre l’80% delle sue emissioni di anidride carbonica, grazie all’utilizzo di energia verde. Nel Giugno 2007, lanciando l’offerta Rigenerazione 3, 3 Italia ha iniziato la commercializzazione dei primi videofonini ecologici rigenerati e a impatto zero permettendo non solo di allungare la vita dei terminali UMTS, ma anche, in un’ottica di maggior rispetto per l’ambiente, di contribuire al progetto Parchi di Kyoto per la forestazione dei parchi urbani. Per compensare le circa 2.000 tonnellate di anidride carbonica emesse per rigenerare i telefonini, 3 Italia ha contribuito alla piantumazione di 3400 alberi al Parco Nord di Milano. 191 3Italia ha scelto di adottare un approccio silenzioso(quello che Grant definisce come “approccio scandinavo),dando per scontato il dovere di contribuire in modo efficace a risolvere i problemi dell’impatto ambientale della propria attività di business. Infatti le iniziative di sostenibilità ambientale non vengono pubblicizzate in modo diretto, ma sono un background sul quale il gruppo Hutchison Whampoa opera, e sul quale è impegnato già da qualche anno. La politica di green marketing adottata da 3Italia potrebbe essere collocata all’interno della matrice proposta da John Grant, nel quadrante A2, ovvero rappresenta una strategia green mirata a stabilire nuovi standard attraverso partner credibili, adottando contemporaneamente l’approccio della certificazione e l’approccio cause‐related. Il carbon offsetting sarebbe, di fatto, una forma di cause related marketing che, da sola, dà grande visibilità e ottimi risultati commerciali, mentre in generale non fa molto per il problema effettivo. “Questo meccanismo suscita chiare riserve in alcuni ambienti – scrive Grant –per essere stato fin troppo rapidamente adottato come panacea di tutti i mali … L’opinione più equilibrata tra i commentatori verdi sembra quella che prevede l’utilizzo della compensazione all’interno di un sistema di misure per la riduzione delle emissioni, conosciuto come carbon management, piuttosto che in maniera isolata come soluzione rapida.” 192 La combinazione di entrambi gli approcci, garantisce infatti a 3Italia una maggiore efficacia dal punto di vista dell’impatto ambientale, ma allo stesso tempo,evidenzia la possibilità, da parte dell’impresa, di avere ancora molto da fare per raggiungere livelli più alti di qualità e di sostenibilità .

191 192

3Itlaia, comunicato stampa del 1 ottobre 2009 J. Grant , “Green Marketing Manifesto”, Brioschi editore, 2009, pag 165, cit.

109


1.3 TELECOM ITALIA

Come si legge dal sito istituzionale del gruppo Telecom, la Sostenibilità è ritenuta dall’impresa non solo un valore,ma anche uno strumento di programmazione, gestione e controllo. Il Gruppo Telecom Italia, già dal 2004, è impegnato nell'attuazione di politiche di responsabilità d'impresa tese alla soddisfazione di tutti i portatori di legittimi interessi, a conferma dell'impegno a promuovere ed attuare i 10 principi base del Global Compact dell'ONU che riguardano il rispetto dei diritti umani e degli standard di lavoro, a garantire la tutela dell'ambiente e a sostenere la lotta alla corruzione. Il sistema di gestione della Sostenibilità è ispirato,infatti,non solo ai principi del Global Compact, allo standard del Global Report Iniziative (GRI), e ai principi dell'International Labour Organization (ILO) per il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori, ma si è adeguata anche allo standard della Social Accountability 8000 (SA8000) finalizzato a favorire il rispetto dei diritti umani e delle condizioni di lavoro da parte di fornitori e subfornitori, e al metodo di misurazione degli investimenti nella Comunità previsti dal London Benchmarking Group (LBG) . Le linee guida per l’attuazione delle politiche di sostenibilità finalizzate al miglioramento delle performance, si dipanano su sei aree di intervento principali 193 : Clean Energy

Clean Air

Sperimentazione di sistemi ed apparati per la produzione e l'impiego di energia "pulita" da fonti alternative. Ricerca e sperimentazione di tecnologie innovative finalizzate al controllo dell'inquinamento dell'aria e alla riduzione di CO2 nell'atmosfera

Gold Waste

Progetti innovativi per la riduzione dei rifiuti da conferire in discarica e dell'uso di sostanze potenzialmente pericolose e per la valorizzazione dei rifiuti "nobili".

Health Care

Ricerca e sperimentazione di nuovi materiali e applicazioni per la cura della salute e la bioinformatica

Inter‐etnic City

Attività di studio e formazione sull'impatto delle nuove tecnologie di comunicazione sull'urbanistica e sulla qualità della vita nelle aree metropolitane ad elevata presenza multietnica. Supporto e attività di ricerca tese e ridurre le asimmetrie derivanti dall'allargamento della UE ai 10 Paesi già ammessi ed a quelli candidati.

East ‐ West

Inoltre Telecom Italia è stata confermata in entrambe le categorie di indici di Sostenibilità del Dow Jones: il Dow Jones Sustainability World Indexes (DJSI World), e il Dow Jones STOXX Sustainability Indexes (DJSI STOXX) 193

Gruppo Telecom Italia e Sostenibilità, http://www.telecomitalia.it/tiportal/it/corporate/sostenibilita.html

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Il Gruppo Telecom vanta anche l’inclusione nelle classifiche più rilevanti in ambito di business etico, come negli indici del Financial Times Stock Exchange for Good (FTSE4Good), nel Ethibel Sustainability Indexes (ESI), nel Advanced Sustainable Performance Index (ASPI) Eurozone, nel KLD Sustainability Indexes, nel E.Capital Partners Indexes (ECPI) e nella classifica Axia.

Le attività di sostenibilità del Gruppo Telecom Italia comprendono anche l’abbattimento del digital divide, attraverso il raggiungimento annuale di specifici obiettivi di “digital inclusion” con l’estensione sul territorio italiano dei servizi di connettività via Adsl, IPtv, Umts e Hsdpa . La qualità dell’impegno di Telecom Italia nel settore della Responsabilità sociale, e la sua capacità di comunicare questo impegno sul web, ha permesso al gruppo di classificarsi al secondo posto (dopo Eni) nella graduatoria italiana stilata dalla società Lundquist per i CSR Online Awards 2009. 194 Dall’esplorazione del sito internet istituzionale del Gruppo Telecom Italia, è infatti possibile notare non solo l’ampiezza degli strumenti (fig. 3) attraverso i quali si realizza la strategia di comunicazione delle iniziative di sostenibilità, ma anche l’accuratezza delle informazioni e degli approfondimenti forniti al pubblico degli utenti. Un esempio rappresentativo di quanto fin ora riportato è il blog “A voi comunicare” 195 , il cui progetto editoriale si focalizza sui temi della cultura, dell’integrazione, dell’ambiente e della sostenibilità. Il blog è dotato di tutte le principali funzioni tecniche che agevolano la condivisione di contenuti attraverso il web ( posizionamento dei link a StumbleUpon.com, Delicious.com), ed è collegato ai profili creati su altri siti di social networking (Facebook.com, Twitter.com, Youtube.com), dove viene stimolato l’engagement degli utenti e c’è maggiore possibilità di viralizzare i contenuti proposti dalla redazione, un team di giovani talenti del mondo della comunicazione che hanno molta affinità con gli strumenti del web 2.0 e con il target di comunicazione del blog. Si consideri l’entità dell’impegno che il Gruppo Telecom Italia attua anche attraverso le imprese che fanno capo a Telecom Italia Media (tra cui emittenti televisive come La 7 ed Mtv), che operano rispettivamente nell’osservanza dei principi di sostenibilità e responsabilità dettati dalla holding, a cui contribuiscono con il loro staff , le loro linee editoriali e i loro progetti. La strategia di green marketing del Gruppo Telecom Italia è un esempio brillante di come possano essere integrati diversi approcci: in questo caso, non è possibile collocare l’impresa all’interno di un unico quadrante della matrice di Grant, ma si osserva la sapiente combinazione tra iniziative e canali di comunicazione utilizzati per coinvolgere ed informare i clienti e tutti i suoi stakeholder. Un’azienda come Telecom Italia, rilevante non solo per le quote di mercato che possiede, ma anche per la mission dell’impresa, non si limita a dare l’esempio comunicando l’adozione di standard qualitativi internazionali, ma si spinge oltre, sostenendo l’innovazione (si vedano le iniziative come “Working Capital”, “Capitale digitale”, il progetto “Tocca a te” – anche se non sono esplicitamente green), ponendosi obiettivi culturali, educando i suoi clienti (come ha fatto per esempio con “Come suona il caos?”) e agendo in tal modo anche sugli stili di consumo.

194

Lundquist , “CSR Online Award‐ Itlay”, 2009 – vedi ‐ http://www.lundquist.it/media/files/lundquist_csr_online_awards_2009_italy_executive_summary.pdf 195 Telecom Italia – “A voi Comunicare”‐ vedi http://www.avoicomunicare.it/

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Fig.3: Telecom Italia – sito web istituzionale, sezione Sostenibilità

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2. Tim Tribù e “ Come suona il caos?”

TIM (acronimo di Telecom Italia Mobile) è il brand con cui Telecom Italia commercializza i servizi di telefonia cellulare in Italia e in Brasile. Attualmente infatti Telecom Italia è il primo operatore di telefonia cellulare in Italia con 31.900.000 di linee mobili attive, e una quota di mercato del 38,6% circa, seguita da Vodafone, e 3 Italia. Nel 2005 l'azienda presentò Tim Tribù 196 , la prima mobile community italiana, che offre una tariffa vantaggiosa fra coloro che hanno attiva la tariffa(fig. 4). Fig 4 : Tim Tribù , sito web ufficiale – www.timtribu.tim.it

Il nome dell’offerta lascia immediatamente cogliere lo spiccato senso di aggregazione sociale che sottende la sua ideazione: una scelta sicuramente vincente in un’epoca che rimarca la tendenza degli individui a ricercare una nuova dimensione di comunità, un nuovo senso di appartenenza che fa proprio del concetto di tribù il suo seme di rinascita. 196

Telecom Italia ‐ Tim Tribù – vedi http://timtribu.tim.it/

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Oltre il sito internet istituzionale dell’offerta, Tim Tribù aveva sponsorizzato, nel 2008, la creazione della community “Street Academy” 197 : come si legge nella mission del progetto, Street Academy è una factory creativa, un hub di sperimentazione e divulgazione artistica e culturale, uno spazio di espressione cui accedere per confrontarsi e contribuire ad animare e a far evolvere la scena della street art in tutte le sue forme. La community Street Academy (fig.5) inoltre organizza periodicamente iniziative e incontri dentro e fuori il web, che vedono coinvolti gli esponenti più rappresentativi e riconosciuti e i giovani di talento del mondo dell’arte urbana. Il progetto, spiccatamente rivolto al target dei giovani tra i 15 e i 25 anni, ha contribuito alla creazione, alla condivisione e alla diffusione dell’universo semantico, di significati e simboli che ruotano intorno al brand, e in pochi mesi ha aggregato un buon pubblico di appassionati, che sono stati coinvolti anche nella progettazione del sito internet, e nella proposta dei contenuti. Fig 5 : Street Academy, sito web ufficiale

Nel 2009 ,Tim Tribù ha scelto di intraprendere un’innovativa operazione di green marketing al fine di ampliare il livello di brand awareness presso il target dei giovani, e di sensibilizzare i suoi clienti alla pratica del riciclo dei rifiuti. 197

Street Academy, sponsorizzata da TimTribù – vedi http://www.streetacademy.it

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Attraverso “Street Academy”, TimTribù ha così lanciato il progetto “Come Suona il Caos?”: un laboratorio virtuale di street sound diretto dal Maestro Capone, a cui era legata anche la realizzazione di TimTribù Village(il 24 luglio 2009), un concerto dal vivo che si è tenuto presso l’Arenile di Bagnoli, a Napoli (alle spalle del mostro ecologico delle ex acciaierie riconvertite in spiaggia). Il laboratorio di street sound ha previsto la realizzazione di 24 video tutorial incentrati sulla costruzione degli strumenti ottenuti da materiali di recupero. Gli utenti erano invitati a partecipare all’iniziativa inviando la propria video performance, che sarebbe stata pubblicata e video‐commentata dallo stesso Capone. Inoltre i migliori creativi hanno avuto la possibilità di suonare insieme a Capone e la band BungtBangt all'evento Tim Tribù Village. È stata quindi creata una connessione tra online ed offline, mirata a rinforzare il senso di identità ed aggregazione che accomunava la community di Street Academy: tecnicamente potremmo intendere questa operazione come ciò che Luigi Canali De Rossi definisce un x‐event 198 , ovvero un “evento esteso”, che attraverso l’integrazione intelligente degli strumenti interattivi online e degli eventi offline, supera e armonizza il limite temporale e fisico dei diversi canali di comunicazione. L’evento (fig. 6), realizzato in partnership con l’associazione ambientalista Lega Ambiente, prevedeva il coinvolgimento nella raccolta differenziata dei rifiuti presenti sulla spiaggia dell’Arenile 199 , un workshop pomeridiano per imparare a realizzare gli strumenti musicali dai rifiuti raccolti, e infine il concerto dal vivo della band Capone & Bungbangt insieme ad altri artisti. Fig.6: Locandina dell’evento “Come suona il caos?”

198

Luigi Canali De Rossi, in arte Robin Good, esperto internazionale di editoria multimediale – “Cosa sono gli x‐events” – blog post del 23 settembre 2008 –vedi ‐ http://www.masternewmedia.org/it/2008/09/23/organizzazione_eventi_combinare_gli_eventi_fisici_con.htm 199 Come Suona il Caos?‐ Il servizio di Uno Mattina(tv, canale RaiUno) sulla pulizia della spiaggia realizzata da Capone&BungtBangt e dagli utenti di "Come suona il Caos?" in collaborazione con Lega Ambiente, 24 luglio 2009 Arenile di Bagnoli – vedi ‐ http://www.youtube.com/watch?v=uD6r3CqFs6w

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Grazie a Come Suona il Caos? il Maestro Capone, un musicista che opera da alcuni anni su questo fronte, ha condiviso e messo a disposizione di tutti l’arte del riciclo creativo, permettendo agli utenti di esprimere la propria creatività attraverso una forma d’arte del tutto unica nel suo genere. Come Suona il Caos? non solo ha insegnato a fare musica riciclando, ma, grazie all’uso strategico del Web 2.0, ha dato inizio ad una virtuosa condivisione di valore, mettendo gli utenti in condizione di insegnare ad altri le proprie tecniche artistiche e di riciclo. 2.1 Il seeding e lo sviluppo della campagna Uno dei principali strumenti tecnici di cui si avvalgono le agenzie che adottano correttamente gli approcci di viral marketing sul web è il “viral seeding” (letteralmente semina virale), e “rappresenta una variabile fondamentale del processo di propagazione in tempi brevi e funzionali alle politiche di marketing” 200 . Infatti, come introdotto già nel secondo capitolo, il marketing virale si occupa non solo di progettare il Viral‐DNA del prodotto/servizio/comunicazione, ma identifica le persone potenzialmente interessate ad esso, lo inserisce nei network sociali di riferimento (seeding) e ne agevola la diffusione incoraggiandone la condivisione. Per la campagna di promozione di “Come suona il caos?” l’agenzia Viral Beat, in collaborazione con Ninjamarketing hanno elaborato una strategia di pianificazione focalizzata sull’utilizzo dei principali social media online, coprendo otto aree di intervento: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Social network (Facebook.com, MySpace.com, Flickr.com, Youtube.com, Quobb.tv); Svago e tempo libero (RealityTv , etc); Creatività, coolhunting, design; Musica (Radiokaos etc.); Evento (Napoli Bloglandia etc.) Riciclaggio (Forum Metaforum, etc) Studenti Street culture

Il grafico (fig.7) rappresenta i siti web che ospitano le opinioni su Come Suona Il Caos?. I siti web sono rappresentati da bolle, caratterizzate per dimensione e colore. La dimensione delle bolle indica il numero di opinioni espresse dagli utenti in quel determinato portale. Il colore indica il grado di positività delle opinioni dichiarate in un quel portale, con una gradualità di valore positivo che va dal grigio, ovvero dove si rilevano maggioranza di opinioni non positive, all’azzurro intenso che rappresenta una maggioranza di opinioni positive I siti sono posizionati sul grafico sulla base di due fattori, rappresentati dai due assi: l’asse delle ordinate riporta i valori indicati da Alexa Reach 201 rispetto al numero di ricerca effettuate in tutta la rete mondiale per quel determinato sito; invece sull’asse delle ascisse è rappresentato il grado di viralità dei siti internet.

200

Mirko Pallera, “Master of Viral Marketing:il seeding questo sconosciuto”‐blog post su Ninjamarketing.it , 6 marzo 2009 ‐ cit, vedi http://www.ninjamarketing.it/2009/03/06/master‐of‐viral‐marketing‐il‐seeding‐questo‐sconosciuto/ 201 Alexa Reach – vedi http://www.alexa.com/topsites

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Per grado di viralità di un sito internet si intende un indicatore che prende in esame il ruolo degli utenti attivi (che propongono,assecondano, contraddicono), ed esprime il grado di possibilità di diffusione che un processo ha tra i diversi opinanti, in un determinato sito. Maggiore è il numero di opinanti che propongono e/o assecondano uno specifico argomento, maggiore sarà la possibilità che esso si propaghi in maniera virale tra gli utenti della rete Fig 7 Mappa tridimensionale dell’attività di seeding

Fonte: Agenzia Viral Beat, Report 23 settembre 2009

Per quanto riguarda i social network, su Facebook.com (il terso sito più visitato in Italia, che raccoglie il 55% dei navigatori italiani, secondo Nielsen Online 202 ) è stato creato il profilo personale di Artista Urbano e il gruppo di Street Academy, che sono stati veicoli di comunicazione preferenziali per aggiornare il loro network di “amici” con notizie relative alle attività del progetto “Come suona il caos?”(gli aggiornamenti sulle video lezioni di Capone) e luogo di interazione sui temi dell’ambiente, del riciclo e della musica. Su Myspace.com ( la community orientata al tempo libero e alle attività artistiche) è stato creato il profilo di Street Academy e le interazioni si sono focalizzate sulla musica, sugli eventi nazionali di interesse della community di “amici” e sul progetto “Come suona il caos?”.

202

Nielsen Onlie, “Panel casa Ufficio”, Italia 2009

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Su Youtube.com (il secondo sito al mondo per numero di ricerche online) è stato creato il canale di Street Academy”, che è diventato il serbatoio dei contenuti multimediali creati per il progetto “Come suona il caos?”: è possibile infatti trovare circa 64 video tra le lezioni di Capone su come poter realizzare gli strumenti musicali dai rifiuti e altri contributi sull’evento finale (il concerto dal vivo tenutosi all’Arenile di Bagnoli) del progetto. Su Flickr.com, il social network dedicato alla condivisione di fotografie, è stato creato il profilo di Street Academy, dove sono state caricate e condivise le immagini degli eventi legati alla community e al progetto “Come suona il caos?”. Inoltre sono stati selezionati blog, forum e altre community (come Qoob tv e YouImpact) che sono serviti per veicolare i messaggi e ampliare il conversation seeding della campagna di promozione del progetto sponsorizzato da TimTribù. Complessivamente, l’agenzia Viral Beat ha stimato che il totale di visite uniche mensili presso i siti pianificati sia stata di circa 16.700.000 utenti:questo dato indica il pubblico a cui potenzialmente sono stati esposti i messaggi (post,articoli,contenuti multimediali) riguardanti “Come suona il caos?”. È importante evidenziare che l’adozione di una strategia di pianificazione che pone i social network in testa alla priorità di presidio dei canali online, dimostra da parte di TimTribù non solo la capacità di cogliere questi canali per ascoltare le opinioni spontanee del target dei giovani a cui si rivolgono le iniziative di marketing, ma anche la volontà di aprirsi ad una comunicazione bidirezionale coraggiosa. La scelta di offrire l’endorsement al progetto Street Academy e “Come suona il caos?” lascia percepire una mediazione tra il brand TimTribù e le iniziative, tale per cui il target di comunicazione percepisce il tono della comunicazione meno formale, e più trasparente rispetto alla modalità generalmente più chiusa e istituzionale del Gruppo Telecom Italia. Inoltre, questi canali di comunicazione si sono rivelati i più pertinenti anche rispetto ai valori di cui è portatore TimTribù, ovvero il bisogno di aggregazione e di socialità che contraddistingue le persone. Questi valori risultano essere molto rilevanti soprattutto per i teenager 203 , come confermato da un recente studio condotto da Eurisko nel 2009, su un campione di 2000 interviste dirette ai giovani tra i 13 e i 24 anni. La stessa indagine dimostra anche che internet e le associazioni non governative segnalano un trend di crescente fiducia da parte di questo target, rispetto non solo agli altri media (radio, giornali e tv) ma anche rispetto alla scuola: e questo dato giustifica ancora di più la scelta dell’utilizzo di questi media e della partnership creata con Lega Ambiente per la realizzazione dell’evento di musica dal vivo di Come suona il caos?”. 203

Gfk Eurisko, “Indagine sui teenager “2009”

118


Fig. 8: I profili di Artista Urbano e di Street Academy creati sui principali social network online

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2.2 I risultati acquisiti dalla campagna: monitoraggio e misurazione

Seppur con toni leggeri , il progetto ha assolto inoltre funzioni sociali (integrando diverse risorse, istanze e figure sociali) e culturali (sensibilizza all’eco‐sostenibilità: ha impegnato gli utenti a riflettere su una problematica attuale e gravosa, ha avuto la capacità di rendere potenzialmente chiunque un musicista creativo (approccio empatia,inclusivo) anche e soprattutto chi è sprovvisto di competenze e strumentazioni musicali. Come Suona il Caos? è stato molto efficace nello stimolare gli utenti, sia da un punto di vista pratico che intellettuale:ha accolto i bisogni identitari di distinzione e auto‐espressione degli utenti mettendo a loro disposizione una tecnica artistica unica ed originale e spazi per video e live performance. Il report prodotto dall’agenzia Viral Beat 204 ,con strumenti di monitoraggio della brand reputation online avanzati e potenti, ha rivelato dati molto interessanti sul profilo degli utenti che hanno generato buzz della campagna, sui referrals (ovvero la locazione delle conversazioni) e sul sentiment (ovvero la valutazione qualitativa dell’impatto sulle opinioni del pubblico) espresso dagli utenti in modo spontaneo, in giro per la rete, sulla campagna Come Suona il Caos? e/o su aspetti ad essa associati. L’analisi è stata svolta sui siti inclusi nel piano di comunicazione, e copre il periodo di seeding che si è svolto nei periodi di Gennaio/Giugno 2009 per la comunicazione dell’iniziativa e Luglio 2009 per la comunicazione dell’evento finale. Al termine della campagna a supporto del progetto Come Suona il Caos?, l’analisi ha rilevato la presenza di 246 referenze (thread ed articoli) che costituiscono i commenti espressi spontaneamente dagli utenti della Rete a seguito delle nostre segnalazioni e/o generatosi per effetto di Word of Mouth, innescato dall’attività di Seeding Conversation. Dalle 246 frasi sono state estratte, attraverso un’accurata analisi semantica, 370 opinioni che rappresentano i giudizi espressi sui diversi aspetti dell’iniziativa, del marchio e/o dei prodotti. Anche il grado di positività è relativamente alto con il 87.3% di opinioni positive, registrando 17.5 punti al di sopra del grado di positività del settore. L’andamento delle opinioni lungo tutto il periodo di svolgimento della campagna, mostra un movimento crescente dei pareri positivi, con una curva di positività alta per tutta la durata della campagna, tranne nel mese di giugno, in cui si registra uno 0% di opinioni, e un leggero calo nel mese di agosto, mese in cui è continuata l’analisi delle conversazioni ma non l’attività di Seeding Conversation (fig 9).

204

Il report è stato gentilmente concesso da Viral Beat Agency,‐ vedi www.viralbeat.com

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Fig. 9 : Grado di positività delle conversazioni generate online sull’iniziativa Come suona il caos?

Fonte: Agenzia Viral Beat, Report 23 settembre 2009

Per delineare nella maniera più accurata possibile il profilo degli opinanti l’agenzia ha scelto di distinguere gli internauti attivi ( utenti che hanno commentato) nelle seguenti categorie: • Possibile Partecipante Evento (rappresentati dal 9,3% del totale degli utenti che hanno espresso opinioni sul progetto); • Possibile Partecipante Concorso (il 2,5%, ovvero gli utenti che hanno manifestato la volontà o la possibilità di partecipare all’iniziativa inviando i propri video); • Partecipante Concorso (lo 0,6%, ovvero gli utenti che hanno manifestato la volontà o la possibilità di assistere al Workshop finale); • Partecipante Evento (lo 0.3%, ovvero gli utenti che hanno manifestato la volontà o la possibilità di assistere al concerto finale); • Altri, ovvero l’87,6% degli utenti opinanti ha espresso pareri sulla campagna e su aspetti ad essa connessi (video tutorial, Capone, BungtBangt, ecc), non manifestando espressamente l’adesione all’iniziativa. Tuttavia, anche se non è dichiarata non si può escludere la loro concreta partecipazione al concorso e/o presenza all’evento finale. Gli opinanti vengono inoltre distinti per il ruolo ricoperto attraverso l’espressione delle loro intenzioni di Assecondare, Contraddire quanto viene detto nelle molteplici conversazioni attivate sulla campagna e di Proporre autonomamente argomenti di discussione ad essa riferiti. 121


La maggior parte degli utenti Asseconda (59.9%) ciò che viene detto sul progetto, a partire da quanto espresso nelle nostre segnalazioni.; il 31.8% degli opinanti Propone nuovi spunti di argomentazione , e l’ 8.5% Contraddice i pareri precedentemente espressi. Il grafico (fig 10) mostra l’andamento delle opinioni (espresse dai diversi utenti,suddivisi per ruolo) nel tempo. Le opinioni di chi Asseconda e Propone hanno prevalentemente un movimento crescente, con punte molto alte nei mesi di Aprile e Maggio. L’andamento delle Contraddizione, invece,è generalmente sempre molto basso. Fig.10: Andamento delle opinioni espresse (nov.2008 – agosto 2009)

Fonte: Agenzia Viral Beat, Report 23 settembre 2009

Il grado di positività delle opinioni è molto alto per tutti i canali in cui l’agenzia ha effettuato il seeding (come descritto nel precedente paragrafo): la totalità delle opinioni positive si è registrato soprattutto sui canali dedicati agli eventi, dove sono stati inclusi siti dedicati agli eventi locali (Napoli e dintorni) e nazionali per la comunicazione dell’evento dal vivo.(fig 13) Fig 11: Grado di positività delle opinioni espresse nei diversi ambiti di intervento della campagna

Fonte: Agenzia Viral Beat, Report 23 settembre 2009

122


L’ 87.3% delle opinioni espresse sull’iniziativa o su aspetti ad essa correlati risulta sostanzialmente positivo,e dal confronto con un database che archivia circa un milione di opinioni, l’agenzia Viral Beat ha rilevato che la campagna ha registrato 17,5 punti al di sopra del grado di positività del settore. Il successo in termini di percezione positiva dell’evento segnalato in rete è dovuto anche ad un monitoraggio costante delle conversazioni che gli utenti svolgevano online, ed ha consentito di intervenire con un’ azione correttiva nelle discussioni che avrebbero potuto, potenzialmente, generare un buzz negativo. Il monitoraggio in “real time” delle campagne di comunicazione e in genere dell’impatto che le attività di promozione online è un vantaggio che distingue nettamente internet dai tradizionali canali di comunicazione, e che consente non solo di ottimizzare l’investimento, ma anche di avere feedback di gradimento proprio dal target (o meglio, dalle persone) che si voleva raggiungere. Dall’analisi delle affiliazioni ai profili attivati sui social media, risulta particolarmente apprezzata la presenza del brand e dell’iniziativa sui Social Network (Fig.12) , in particolare su Facebook dove gli utenti (gli “amici” globalmente coinvolti si stima siano stati 1.929.964), accettano i contenuti pubblicati e cercano in maniera spontanea il contatto con il profilo di Artista Urbano, che anche attualmente riceve in media circa 15 richieste di amicizia al giorno (estende costantemente la sua rete di contatti in rete, diventando un influencer nella categoria della street art). Attualmente gli amici del profilo Facebook di Artista Urbano sono 2.252 (dato riferito a settembre 2009), e per le stesse logiche di utilizzo di Facebook, che consente a qualsiasi “amico” di vedere su una determinata pagina come l’utente titolare di quel profilo interagisce con gli altri suoi contatti, bisogna considerare, per una stima più dettagliata dei contatti attivati sul Social Network, anche gli amici di “secondo livello” (amici degli amici). Difatti, qualsiasi modalità di interazione fra un utente e Artista Urbano (i like it , o commenti a video e post) diventa potenzialmente visibile, attraverso le notifiche che appaiono sulla bacheca dell’utente e nelle homepage di tutti i suoi amici, anche a quest’ultimi, seppure non direttamente amici di Artista Urbano. Su un campione casuale semplice (senza ripetizione) di 200 Amici di Artista Urbano si è rilevato che in media ogni amico di Artista Urbano ha a sua volta circa 857 amici (il numero apparentemente alto, è dovuto al fatto che fra gli amici di Artisti Urbano sono presenti molti artisti, musicisti e cantanti che hanno ovviamente un alto numero di amici). Al numero di utenti “amici” di Artista Urbano ,vanno aggiunti: 71.766 iscritti ai vari gruppi Facebook sui quali è stato segnalato l’evento finale del 24 luglio e quindi raggiunti dalla notizia del live concert e del progetto; 419 iscritti al gruppo Street Academy, creato come supporto alla Factory di Street Academy e utilizzato per tutti i progetti dell’iniziativa; 276 iscritti al gruppo dedicato all’evento Come Suona il Caos? Live Concert; 2.017 utenti invitati all’Evento creato su Facebook per il Come suona il Caos? Live Concert. L’agenzia ha stimato che l’attività di seeding online ha consentito di raggiungere sui social network circa due milioni di utenti: un ottimo risultato per l’ampliamento della brand awareness di TimTribù. Anche sulle altre piattaforme di social networking sono stati raggiunti ottimi risultati di visibilità: su Youtube.com sono state contate circa 89.443 visualizzazioni su 64 video caricati; su Myspace.com il profilo ha ottenuto 1.080 connessioni con “amici” e 2.667 visualizzazioni, su Flickr.com sono state caricare circa 559 fotografie che hanno generato 2.824 visualizzazioni, e su Qoob (la webtv legata al progetto Mtv) sono state generate 1800 visualizzazioni. 123


Fig. 12 Risultati raggiunti al termine della campagna, settembre 2009

Fonte: Agenzia Viral Beat, Report 23 settembre 2009

La buona percentuale di conversazioni generatesi in seguito alle segnalazioni sull’evento finale di Come Suona Il Caos? dimostra che gli utenti hanno trovato molti spunti di discussione e di dibattito sulle caratteristiche, sul concept e sulle finalità della giornata conclusiva dell’evento. L’attività di segnalazione in forum, community, blog e portali ha inoltre determinato un evidente incremento dei risultati nella SERP (Search Engine Results page) sul motore di ricerca Google.com (utilizzato dall’80% degli utenti in rete, secondo l’istituto Nielsen Online) sulle keyword: “Come Suona Il Caos?”, “Street Academy”, “TIM”, “TimTribù” etc … Questo significa che l'attività di social media marketing svolta dall’agenzia ha portato ad aumentare il numero di pagine esistenti in Rete (e indicizzate dai motori di ricerca) che parlano dell’iniziativa e del brand, e nel caso specifico si è, inoltre, generata un’affinità semantica tra il marchio ed alcuni concetti legati al progetto (riciclaggio, riciclaggio creativo, street sound, Capone e BungtBangt) Questi risultati rappresentano delle tracce che restano in rete, e che vanno a costituire lo storico del marchio all’interno del database di Google: l’utente che effettuerà ricerche online utilizzando le keyword nei principali motori di ricerca troverà, dunque, diversi contenuti positivi riguardanti il marchio (persistenza dell’opinione positiva), con un notevole impatto sull’immagine e sulla reputazione del brand TimTribù. Il successo di questa campagna è stato confermato non solo dai dati contenuti nell’accurato report di analisi effettuato dall’agenzia Viral Beat, ma anche dai riconoscimenti ottenuti in Italia in alcuni dei più rilevanti premi di settore. Il 26 Giugno 2009 TIMTribù ha ricevuto il premio TP Comunicare la Sostenibilità promosso dall’Associazione Italiana Pubblicitari Professionisti, grazie al progetto “Come suona il caos?”. Un riconoscimento che ha premiato la volontà di Telecom Italia che con “Come suona il Caos?” ha testimoniato la sua attenzione per l’ambiente, attraverso un’idea creativa basata sul riutilizzo in maniera originale del materiali di recupero Il 16 Luglio 2009 TIMTribù ha ricevuto il prestigioso Premio Web Italia, che ha visto la partecipazione delle più importanti web agency e dei maggiori talenti del design italiano. Il Progetto “Come suona il caos?”, tra più di 2.300 candidature presentate, si è aggiudicato il premio per la categoria Copy‐Writing per “l`originalità, la simpatia e il valore dei contenuti”. Un risultato importante per “Come suona il Caos”: il Premio, 124


Il progetto “Come suona il Caos?” è stato insignito anche del 10° Interactive Key Award 205 , il premio di Media Key dedicato al mondo del web e della comunicazione interattiva. Infatti il sito www.comesuonailcaos.it legato a TIMtribù ha vinto il Primo premio come “Miglior web site per la categoria Media ed education, pubblica amministrazione e sociale”. 2.3 La competizione tra due progetti di comunicazione: “Come suona il caos?” versus “Come suonano i sogni”

Negli ultimi mesi di svolgimento del progetto Come Suona il Caos?, in particolare in prossimità dell’evento finale, il brand TIM è stato oggetto di molteplici conversazioni negative generatesi in maniera del tutto spontanea tra gli utenti della rete. Questo buzz negativo ha avuto origine con la messa in onda degli spot TimTribù aventi protagonista la Tband. Infatti a maggio 2009 Tim Tribù aveva lanciato la serie di nuovi spot televisivi ‘Come suonano i sogni’, che portano la firma del regista Gabriele Muccino, e che raccontavano le vicende di una giovane band musicale, la Tband. Nel loro viaggio pieno di sogni e di passione i tre ragazzi della band erano alle prese con un piccolo problema da risolvere: la rinuncia all’ultimo minuto, del loro tastierista. Ritroviamo Marco, Alan e Luca nel furgoncino rosso e blu, appena giunti al pub dove devono esibirsi, e dove conoscono Fiammetta, la ragazza che suonerà con loro. L’elemento centrale dello spot è l’importanza dell’appartenenza a un gruppo, quello che si forma sul palco e quello, molto numeroso, che ascolta il concerto, si diverte, scatta foto coi cellulari e condivide emozioni. Evidentemente però la campagna non è riuscita a trasmettere con sincerità e trasparenza i veri valori della community e , nella naturale commistione tra i canali mediali, il web ha fatto emergere le opinioni spontanee e questa volta molto contraddittorie relative alla campagna tv. Le conversazioni si sono generate soprattutto sui Social Network (Facebook, Youtube) dove la dimensione di aggregazione intorno a cause comuni e di condivisione di pensieri ed atteggiamenti è molto sviluppata. Nonostante però, ci fossero alcuni aspetti comuni tra l’iniziativa Come Suona il Caos? e gli spot Tband non c’è stato alcun trasferimento semantico e il buzz negativo, non ha coinvolto l’iniziativa.

3. “Come suona il caos?” e la matrice di Grant Il progetto Street Academy e l’iniziativa “Come suona il caos?” sono un esempio brillante di come un marchio come TimTribù sia stato in grado di cogliere meglio dei suoi competitor l’opportunità di comunicare l’impegno nella responsabilità sociale e nella lotta ai problemi ambientali. 205

Come suona il Caos? “Premiazione Interactive Key Award”, 28 settembre 2009 , Università IULM di Milano – vedi ‐ http://www.youtube.com/watch?v=9V7TGcV0saE

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TimTribù ha sviluppato un piattaforma in cui i suoi clienti e i suoi prospect hanno potuto dialogare e condividere significati, simboli, passione, senza rinunciare per questo a ricordare quanto sia importante l’impegno quotidiano di tutti gli individui per cambiare le sorti del nostro pianeta. Un messaggio comunicato seguendo le regole e i codici della tribù dei giovani, che sono padroni del brand ma anche padroni del loro futuro: il tono dell’iniziativa è rimasto infatti sempre piuttosto informale, senza pretese, sincero e originale. Le attività di promozione dei progetti sono riuscite a coinvolgere gli utenti e a guadagnarne la loro fiducia e rinforzando la percezione di affinità valoriale. La strategia di green marketing di TimTribù potrebbe essere dunque giustamente collocata all’interno di più quadranti della matrice di Grant: se da un lato infatti il brand ha lavorato sulla creazione di un progetto in partnership con partner credibili (come Lega Ambiente,e Impatto zero) e in tal modo ha anche concesso la piantumazione di ben 315 metri quadri di foresta; dall’altro ha anche proposto un approccio di condivisione della responsabilità, invitando l’audience dei giovani a prendere parola in merito all’iniziativa e a contribuire con la loro creatività alla diffusione di un nuovo utilizzo dei prodotti. Inoltre, ciò che fa ancora più onore a questa campagna è stata la sperimentazione di un approccio verdissimo che ha puntato al rimodellamento della cultura dei giovani, attraverso l’azione sugli stili di consumo: la possibilità di prolungare il ciclo di vita dei prodotti, tesaurizzando gli oggetti di consumo quotidiano per creare strumenti musicali. Come Suona il Caos? è riuscito a proporre un’immagine

nuova, un’alternativa percorribile e cool per sensibilizzare e cambiare l’agire quotidiano dei suoi sostenitori: dalla spazzatura all’arte, grazie ad un guizzo creativo. Seppure qualsiasi esperienza riservi sempre ampi spazi di miglioramento, sembra che complessivamente il successo dell’iniziativa promossa da TimTribù sia stata efficace e profittevole non solo dal punto di vista degli obiettivi di responsabilità sociale ed ambientale, ma anche di creazione di una maggiore affinità tra il brand e il consumatore e di miglioramento della reputazione del marchio agli occhi di tutti i suoi stakeholder.

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Conclusioni

Il punto di partenza di un marketing ambientale che recepisca questa nuova,insistente domanda non può che essere la cultura d’impresa. “le imprese vogliono attuare il green marketing devono innanzitutto prepararsi adeguatamente, lavorando all’interno per comprendere a fondo tutte le problematiche riguardanti il consumatore finale, oltre che i temi di carattere ambientale, economico e politico che influenzano direttamente la propria attività, e affrontarli nella loro globalità.” 206 Ciò può significare il ricorso ai classici sistemi di audit ambientale, corsi di formazione per manager e management, un approccio proattivo alla problematica, un’adeguata comunicazione interna, e così via. Assicuratosi il supporto di tutta l’organizzazione, l’azienda rivede le caratteristiche e il processo di produzione del prodotto in sé. Tra le problematiche da affrontare ritroviamo i processi di approvvigionamento e lavorazione della materie prime, la fabbricazione e la la distribuzione, l’imballaggio e l’utilizzo del prodotto, e il post‐consumo e lo smaltimento. Così come il marketing tradizionale, anche il green marketing si snoda lungo il percorso 1)analisi del micro e macro ambiente di marketing (analisi del consumatore, individuazione dei confini e delle potenzialità del mercato verde, etc); 2) analisi swot; 3) definizione degli obiettivi in funzione del livello di espansione della domanda di prodotti ecologici e dei costi che l’impresa deve sostenere per essere competitiva sul mercato; 4) definizione della strategia (livello di performance ambientale da raggiungere) ; 5) budgeting, controllo dei risultati e implementazione. Nel momento in cui scrivo queste conclusioni, si è appena concluso a Copenhagen il congresso COP15 207 (7‐18 dicembre 2009), un evento monumentale che ha riunito 20.000 delegati ufficiali da 192 paesi, e che puntava a riconoscere e risolvere le tante questioni ambientali in fatto di clima e riduzioni di emissioni. Purtroppo da ciò che è possibile leggere sulle principali fonti informative online ed offline, il lavoro di questo congresso è stato in gran parte deludente rispetto alle aspettative di attivisti, esperti, scienziati e cittadini. L’obiettivo della COP15 era originariamente di istituire un trattato vincolante sul clima e di farlo entrare in vigore entro il 2012 quando il protocollo Kyoto scade. La maggior parte dei soggetti che hanno siglato l’accordo sostengono che Kyoto non ha funzionato e che sia necessaria una chiara definizione e sanzioni vincolanti per i paesi che non concludono il proprio impegno sottoscritto. I negoziatori dovranno in qualche modo essere d’accordo su chi controlla e fa rispettare il trattato. Già nella fase di preparazione alla conferenza i leader mondiali avevano considerato questo trattato globale sul clima troppo vincolante e ambizioso e avevano dichiarato di volersi invece concentrare su come creare un accordo meno specifico.

206 207

J.A.Ottman, “Green Marketing”, Il Sole 24Ore, 2005, cit. COP15, http://www.en.cop15.dk/

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Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia del WWF Italia, ha commentato i risultati della conferenza sottolineando che “la società civile è stata quasi completamente esclusa dalle ultime fasi dei negoziati e questa assenza si è fatta sentire durante i giorni conclusivi del vertice.” 208 Questa esclusione dal dialogo è forse uno dei maggiori errori commessi dai paesi che hanno partecipato ala conferenza: il coinvolgimento della popolazione che vive e consuma i prodotti delle imprese avrebbe potuto contribuire significativamente al miglioramento della percezione dei rischi legati al cambiamento climatico e avrebbe potuto stimolare una domanda di mercato significativa per la green economy. Per non parlare del mancato ascolto di una realtà sempre più diffusa tra la popolazione mondiale rispetto all’emergenza ambientale, e di cui i giovani si rendono protagonisti : persino in Italia, una ricerca condotta da GfK Eurisko 209 (composta da una fase qualitativa e da una quantitativa basata su un campione di 2000 giovani tra i 15 e i 24 anni ) aveva svelato la crescente preoccupazione sul degrado ambientale

(affermazione che riguarda bel il 47% del campione), preceduto solo dalla paura di un futuro da precariato ( per il 55% dei giovani rispondenti). Non ci sono progetti “forti”, miti condivisi; il mondo per i giovani è ad un “bivio”già tracciato, il cambiamento possibile sta nel percorso individuale più che collettivo, nella speranza della capacità individuale di smarcarsi, di scalare la piramide, di realizzarsi. In molti casi però i giovani incominciano a temere di essere di fronte ad “un mondo e un domani più ostili, difficili”. Chiudo questo percorso di indagine del fenomeno del green marketing con la speranza che possa al più presto generarsi un circolo virtuoso di cooperazione intergenerazionale, per risolvere le emergenze che si sono affacciate all’inizio del nuovo millennio e cogliere tutte le opportunità che un mondo sempre più interconnesso e avanzato può offrire. Questa prospettiva si riflette anche sul ruolo che le imprese e i governi giocano nell’orientamento delle scelte individuali e collettive, e sulla stessa forza che hanno dimostrato nello sviluppo di una società civile e di mercato propensa al consumo. Mi auguro che il marketing, e tutti i raffinati strumenti che ha a disposizione, possano in questo senso contribuire al cambiamento delle abitudini di consumo e alla formazione di una diffusa sensibilità verso un mondo più sano, più responsabile, ed efficiente, nell’ottemperanza dei principi di tutela e rispetto verso l’ambiente e le future generazioni che popoleranno il nostro pianeta.

208

100Ambiente, blog post “Cop15: Copenhagen si è chiuso sull’orlo del fallimento”, 20 dicembre 2009, http://www.100ambiente.it/index.php?/archives/560‐COP15‐Copenaghen‐si‐e‐chiuso‐sullorlo‐del‐fallimento.html 209 Gfk Eurisko, “Indagine sui teenager “2009”

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