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Scuola di “Nuove Tecnologie dell’Arte” Corso di diploma accademico di secondo livello in “Arti Multimediali e Tecnologiche” indirizzo “Arti Visive Multimediali” Documentare la Crisi: Da Walker Evans al Coronavirus RELATORE Prof. Attardi Andrea CANDIDATO Michele Maria Varone Matr.16488 a.a. 2019/2020
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Scuola di “Nuove Tecnologie dell’Arte” Corso di diploma accademico di secondo livello in “Arti Multimediali e Tecnologiche” indirizzo “Arti Visive Multimediali”
Documentare la Crisi: Da Walker Evans al Coronavirus
RELATORE
CANDIDATO Michele Maria Varone Matr.16488
Prof. Attardi Andrea
a.a. 2019/2020
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Introduzione
Pag.8
La Fotografia Documentaria
Pag.10
La Svolta Fotografica
Pag.10
Le Origini
Pag.10
La Farm Security Administration
Pag.11
Dorothea Lange
Pag.11
Fotografia
Pag.11
Walker Evans
Pag.17
Let Us Now Praise Famous Men
Pag.17
Straight Photography
Pag.18
August Sander
Pag.23
Artisti Progressivi
Pag.25
La Germania Di Sander
Pag.26
La Repubblica di Weimar
Pag.26
Le Ragioni Del Crollo
Pag.27
Magnum Photos
Pag.36
Etica Dell’Agenzia
Pag.37
Fondazione
Pag.37
Robert Capa
Pag.38
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La Fotografia Di Capa
Pag.39
Autentico o Non Autentico?
Pag.45
Contro l’Autenticità
Pag.45
A Favore dell’Autenticità
Pag.46
Henri Cartier-Bresson
Pag.47
I Documentari: “Spagna’36” e “Le Retour”
Pag.49
Tra Arte e Documentario
Pag.56
Documentare Per Immagini
Pag.56
Documentare Il Coronavirus
Pag.57
Luigi Ghirri
Pag.58
Il Progetto: Identikit
Pag.60
Progetti Fotografici Durante La Pandemia
Pag.64
Il Contributo Di Giuseppe Tornatore
Pag.72
“Distanze” e “Documentare il Covid-19”
Pag.75
Conclusioni
Pag.110
Ringraziamenti
Pag.111
Bibliografia
Pag.112
Sitografia
Pag.114
Videografia
Pag.116
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“Bambini che giocano alla guerra”, 1915. Fotografia di August Sander
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INTRODUZIONE L’etica tocca temi e situazioni in cui l’essere umano sviluppa un comportamento che dovrebbe andare nella direzione opposta: mostrare contenuti che infondano fiducia nell’uomo, una positività che aiuti a guardare il futuro in modo costruttivo. Le narrazioni presenti in queste mostre sono invece ancora una volta, in tal senso, povere di coraggio, descrittive, timide e non basta la discrezione del fotografo nel compiere il proprio lavoro a far sì che si tratti di lavoro “etico”. “L’etica è l’etica”. Non credo che esista un’etica specifica del giornalismo, con una sotto-etica del fotogiornalismo”. Sono parole di Ferdinando Scianna, uno tra i nomi più grandi della fotografia italiana, di cui Electa pubblica per la collana pesci rossi, un saggio sul concetto di etica nel fotogiornalismo. Scianna comincia a fotografare negli anni Sessanta mentre studia Lettere alla Facoltà di Palermo, dal 1967 lavora come fotoreporter per L’Europeo, diventa poi corrispondente da Parigi dove conosce un altro grande maestro della fotografia come Henri Cartier-Bresson e nel 1982 entra a far parte dell’agenzia Magnum Photos. “La fotografia mostra e non dimostra”, vale a dire che l’immagine fotografica documenta, è traccia di un brano di realtà, la cui lettura dipende però dal contesto all’interno del quale essa è comunicata. Non si può parlare di documentazione senza conoscerne la storia. Dalla Farm Security Administration alla Magnum Photos, Da Walker Evans a Cartier-Bresson passando per Dorothea Lange, August Sander e Robert Capa. In questa cornice di artisti, fotoreporter, si cercherà di capire le modalità della documentazione classica e capire come, in epoca di coronavirus, come adattarsi ai cambiamenti sia del mestiere, sia del “modus operandi”. Iniziando prima di tutto da uno studio dettagliato della fotografia documentaria.
Il ruolo della documentazione fotografica è alla base della formazione della cultura e conoscenza dell’uomo. Immagini delle guerre mondiali, dei campi di sterminio nazisti, della povertà del terzo mondo e delle isole di plastica del pacifico creano una coscienza in chi le guarda. Il mondo della fotografia documentaristica e riesce a catturare istantaneamente la realtà, imprigionando anche la luce, le sensazioni che fanno da contorno alla scena fotografata, catturando quindi l’attivo così come viene percepito. Guardando al passato, la fotografia documentaria ha fatto la storia. È stato il mezzo più veloce ed immediato per comunicare alle masse la verità in tempi difficili. La fotografia documentaria è in parti uguali giornalismo socialmente impegnato e abilità fotografica. Il giornalista presuppone di non sapere nulla e si pone le domande chiave: chi, quando, dove, come e perché? Il fotografo esprime le risposte per immagini e trascina lo spettatore nella storia per farlo immergere, arche se per pochi attimi, nella vita dei protagonisti. L’avvento della pandemia, ormai un anno fa, causata da un nuovo tipo di coronavirus denominato Sars-Cov 2 ha stravolto il mondo intero in tutte le sue sfaccettature e ha costretto l’uomo a fermarsi, forse veramente per la prima volta nella sua storia. Vedere immagini come quelle a cui ormai siamo abituati di infermieri e operatori con le tute anti-contagio che crollano sotto il peso del lavoro causato dall’emergenza come questadi Francesca Mangiatordi che rappresenta una infermiera esausta dopo un turno di lavoro estenuante e infinito passato a lottare contro un nemico invisibile, ovvero il coronavirus. Ci fa capire fino a che livello di profondità la nostra normalità è stata spazzata via dal virus. Un aspetto non meno fondamentale della fotografia documentaria è sicuramente la questione etica.
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© Francesca Mangiatordi, “La vita al tempo del coronavirus”, Festival della Fotografia Etica, Lodi 2020.
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LA FOTOGRAFIA DOCUMENTARIA
LA SVOLTA FOTOGRAFICA
La fotografia documentaristica (o documentaria) ha fatto la storia della fotografia. Era, ed è ancora, il mezzo per far conoscere alle masse la realtà delle cose. È stato il mezzo più veloce ed immediato per comunicare alle masse la verità in tempi difficili, è stato un modo di esporre scene inquietanti al fine di aumentare la consapevolezza di un qualcosa che spesso era ignorato come la povertà e la fame. È stato un mezzo per rimodellare il parere dell’opinione pubblica. L’obiettivo della fotografia documentaristica si può trovare nell’opera di Dorothea Lange “La fotografia documentaria” risalente al 1940 ed è quello di registrare la situazione sociale contemporanea, che documenta per la posterità. Il suo soggetto è l’uomo nei suoi rapporti con l’umanità.
Gli anni Trenta sono stati indubbiamente fertili dal punto di vista della fotografia documentaria, anche a causa delle numerose situazioni di crisi e di emergenza. Ma non bisogna pensare che vi è un legame diretto tra l’emergere del movimento e la crisi che Europa e Stati Uniti attraversarono in quel periodo. Questo perché lo stile documentario è effettivamente molto in voga negli Stati uniti per descrivere gli effetti della Depressione ma accadrà solo successivamente, solo nel 1935.
LE ORIGINI La parola “documentario” compare nella terminologia fotografica alla fine degli anni Venti, ma già esisteva comunque un’idea. Più precisamente si inizia a parlare del termine documentario nel 1926, in un articolo scritto da Grierson sul film “Moana” di Flaherty.
“La bambina e l’avvoltoio”, Kevin Carter
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Ovviamente l’idea di documento fotografico è molto più antica. Il termine compare già nel XIX secolo come stessa sostanza del medium ma, in nessun caso appare, per ora, una estetica definita o un genere artistico fondato sul documento. Nella letteratura specializzata il termine “arte” e il termine “documento” risultano ancora come due cose completamente diverse e staccate tra loro. Questo comporta che prima degli anni Venti, il documentario è ancora la negazione di un genere artistico. Acquista grande rilevanza a partire dagli anni Trenta, quando Beaumont Newhall osserva che un certo numero di giovani fotografi come Walker Evans, Ralph Steiner, hanno colto il valore artistico di quei documenti fotografici, Cominciando a formare le basi di una estetica della fotografia. In breve, i due termini arte/documento diventarono indissociabili e “l’arte documentaria” iniziò a godere di grande prestigio. Rimane comunque una notevole incertezza nella definizione di questa nuova arte. Ogni fotografo ha il proprio approccio o “atteggiamento” documentario. Un solo tratto risulta unire in maniera inequivocabile le diverse accezioni, ovvero la volontà di fotografare il mondo “così come è” e le cose “così come sono”. Il documentario pretende di tornare a confrontarsi, dopo anni di fotografia artistica, ritratti allestiti e sperimentazioni delle avanguardie, in maniera non mediata con la nuda e cruda realtà.
LA FARM SECURITY ADMINISTRATION La Farm Security Administration (FSA) era un centro di committenza fotografica, fondato nel 1935 allo scopo di documentare la recessione agricola dilagante nel Paese. La FSA si trasformò in una fucina collettiva di istantanee di povertà: operò fino al 1943, suscitando nel mondo fotografico la nascita di una vera e propria corrente di fotoreporter: Dorothea Lange e Walker Evans furono solo alcuni tra i
grandi fotografi che collaborarono al progetto. I negativi sono attualmente conservati in un grande archivio presso la Library of Congress di Washington. Negli anni ‘60 e ‘70, Garry Winogrand e Lee Friedlander raccolsero l’eredità di Evans e setacciarono New York alla ricerca di elementi del quotidiano che fossero caratterizzanti, nell’ottica di una nuova fotografia sociale che cedeva il passo alla frenetica vita di quegli anni. Accanto alla tradizione statunitense, la fotografia documentaria trova un’espressione di impronta più europea nell’agenzia fotografica Magnum Photos, fondata nel 1947 da Robert Capa e Henri Cartier-Bresson, che ha ampliato l’orizzonte di indagine all’America Latina, all’Africa e all’Asia, con un’attenzione alle specificità culturali dei singoli continenti oggetto del reportage, oltre che accogliendo stili fotografici fortemente originali. Tra le numerose attività dell’agenzia abbiamo gli storici scatti di Robert Capa e Cartier-bresson sulla Guerra Civile spagnola. Tra il 1935 e il 1943 si svolse negli Stati Uniti un’enorme e organizzata campagna fotografica promossa dal Department of Agriculture. Nel pieno della grande depressione fu messa in atto una potente operazione mediatica che attraverso le immagini, aveva lo scopo di mostrare ai cittadini le condizioni di tremenda indigenza in cui versavano gli agricoltori. In questo modo il governo voleva legittimare gli sforzi economici per il riassetto agricolo in un periodo in cui erano tanti i settori che necessitavano e si contendevano i finanziamenti. Gli agricoltori (circa trentatré milioni di persone ovvero un quarto della popolazione) costituivano culturalmente lo zoccolo duro dell’americanismo più tradizionale, sulle cui fatiche si basava la fondazione degli Stati Uniti. Il sociologo Roy Stryker farà leva proprio su questo sentimento per coinvolgere l’opinione pubblica. Rimane in ogni caso inestimabile il valore dell’archivio di immagini che fotografi del calibro di Dorothea Lange, Walker Evans, Arthur Rothstein, Carl Mydans, Ben Shahn e
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molti altri hanno contribuito a costruire. Tale archivio è stato reso di dominio pubblico proprio dalla Library of Congress.
DOROTHEA LANGE “La donna che fotografava la gente”
si sposò, ebbe due figli. Le sue fotografie, in questo primo periodo, si concentravano sui ritratti di persone famose, ma ben presto si rese conto che la fotografia doveva essere diretta, senza filtri, e concentrarsi su soggetti realistici, fornendo una testimonianza di come vivevano i ceti più poveri, più emarginati. La Grande Depressione rappresentò, per la giovane fotografa, un’occasione irreperibile: immortalò i disoccupati e i senzatetto della California, i contadini che avevano abbandonato le campagne perché non più coltivabili e che si spostavano di paese in paese. La Lange considerava la macchina da presa un’estensione del suo occhio: le sue foto, semplicemente, “registravano” quello che lei trovava davanti a sé, che fossero povere madri con i loro figli emaciati al seguito o uomini nascosti dai loro usurati cappelli in attesa alla mensa popolare. Negli Anni 30 realizzò moltissimi reportage, sempre sulla condizione di immigrati, braccianti e operai. La carriera di Dorothea Lange
FOTOGRAFIA
Dorothea Margaretta Nutzhorn nacque nel 1895 in una città dello Stato del New Jersey da una famiglia borghese di origini tedesche. A soli sette anni contrasse la poliomielite, che le causò un handicap alla gamba destra con cui dovette convivere tutta la vita. Il padre abbandonò la famiglia quando Dorothea aveva 12 anni e da quel momento decise di usare il cognome della madre. Questi eventi non frenarono la determinazione di questa ragazza, che cominciò presto a interessarsi alla fotografia e a collaborare con diversi studi fotografici newyorkesi. La passione per la fotografia la portarono a intraprendere un viaggio, ma i soldi finirono presto e fu costretta a fermarsi a San Francisco, che ben presto divenne la sua casa. Qui aprì uno studio fotografico
potrebbe essere riassunta in una sola fotografia. Come donna con una profonda coscienza sociale, nella seconda metà degli anni Trenta partecipò ad una missione del Farm Security Administration. In questa occasione, dopo aver attraversato in lungo ed in largo la California e gli Stati Uniti Sud Occidentali, in un accampamento di raccoglitori di verdura incontrò una giovane donna con la sua famiglia. La donna, il cui nome rimane un mistero, raccontò alla Lange che per sopravvivere nutriva i tre figli solo con verdure congelate. La forza di questa fotografia risiede nella composizione e nello sguardo deciso della madre, che trasmette una volontà incrollabile. La donna ha solo 32 anni, ma il viso è già segnato dalle difficoltà della vita. Tuttavia, non è un’immagine dolorosa: in mezzo a tutta la sofferenza, risaltano l’orgoglio e la
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dignità, la sensazione che in qualche modo la donna e la sua famiglia ce la faranno, ed avranno una vita migliore. Questa foto è divenuta una vera e propria icona del ‘900, un simbolo della sofferenza e della lotta per la sopravvivenza affrontata dalla gente comune durante la Grande Depressione. Questa foto fu anche utilizzata dalla Farm Security Administration per scopi propagandistici e, a quanto pare, uno dei figli gli fece causa per incassare una parte delle royalties derivanti dall’utilizzo di quest’immagine. ¹https://www.grandi-fotografi.com/dorothea-lange
Lange, D., photographer. (1936) Destitute pea pickers in California. Mother of seven children. Age thirty-two. Nipomo, California. United States Nipomo San Luis Obispo County California Nipomo, 1936. March. [Photograph] Retrieved from the Library of Congress, https://www.loc.gov/item/2017762891/.
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Lange, D., photographer. (1937) Water supply: an open settling basin from the irrigation ditch in a California squatter camp near Calipatria. Imperial County Calipatria. California Calipatria United States, 1937. Mar. [Photograph] Retrieved from the Library of Congress, https://www.loc.gov/item/2017769801/.
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Lange, D., photographer. (1936) Farmers in the fields. Nipomo, California. United States Nipomo San Luis Obispo County California Nipomo, 1936. March. [Photograph] Retrieved from the Library of Congress, https://www.loc.gov/item/2017762891/.
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Lange, D., photographer. (1937) Drought refugee living in a ditch bank camp. Imperial County, California. United States Imperial County Imperial County. California, 1937. Mar. [Photograph] Retrieved from the Library of Congress, https://www.loc.gov/ item/2017769833/.
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WALKER EVANS L’artista è un collezionista di immagini che raccoglie le cose con gli occhi. Il segreto della fotografia è che la macchina assume il carattere e la personalità di chi la tiene in mano. La mente lavora attraverso la macchina Cit. Walker Evans
tare uno scrittore, decise di dedicarsi alla fotografia. Nel 1933 fece un reportage a Cuba per documentare la rivolta popolare contro il dittatore Machado. Nel 1936 iniziò a collaborare con James Agee. Quest’ultimo preparò dei testi da associare alle foto di Evans nel libro “Let us now praise famous men ” (1941), frutto di un viaggio nel sud rurale degli Stati Uniti e testimone di una profonda e diffusa povertà. Fu un pioniere della “straight photography” e della fotografia in bianco e nero, ma non disdegnò l’uso del colore e la sperimentazione artistica.
LET US NOW PRAISE FAMOUS MEN
Nasce a Saint Louis nel 1903 e muore a New Haven nel 1975. Immortalò la crisi economica degli Stati Uniti degli Anni Trenta. La sua fu una fotografia di denuncia, sociale e documentaria. Il suo sguardo è rivolto tanto verso la condizione umana, tanto verso la condizione strutturale. I suoi soggetti erano spesso i volti della gente, così come le case e i paesaggi in cui abitavano. . Nel 1930, dopo i tentativi di diven
Let Us Now Praise Famous Men è un libro con testo dello scrittore americano James Agee e fotografie del fotografo americano Walker Evans, pubblicato per la prima volta nel 1941 negli Stati Uniti. Il lavoro documenta la vita dei fittavoli impoveriti durante la Grande Depressione. Sebbene sia in linea con il lavoro di Evans con la Farm Security Administration, il progetto non è stato avviato dalla FSA ma dalla
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rivista Fortune. Il titolo deriva da un passaggio della Saggezza del Siracide (44: 1) che inizia: “Lodiamo ora uomini famosi e i nostri padri che ci hanno generati”. Agee, che scrive con modestia e autocoscienza sulla sua posizione privilegiata nella creazione del libro, appare a volte come un personaggio stesso nella narrazione, come quando si tormenta per il suo ruolo di “spia” e intruso in queste umili vite. Altre volte, come quando elenca semplicemente il contenuto della baracca di un mezzadro o gli scarsi capi di vestiario che devono indossare la domenica, è del tutto assente. Lo strano ordinamento di libri e capitoli, i titoli che vanno dal banale (“Clothes”) a “radicalmente artistico” (come ha detto il New York Times), gli appelli diretti di Agee affinché il lettore ne veda l’umanità e la grandezza vite orribili e la sua sofferenza al pensiero che non può portare a termine il compito assegnato, o non dovrebbe, per la sofferenza aggiuntiva che infligge ai suoi soggetti, fanno tutti parte del carattere del libro .
que cosa in grado di alterare la fotografia rende automaticamente meno puro lo scatto e, quindi, meno vero. Il pittorialismo, intorno alla fine del XIX secolo viene unanimemente rifiutato, per lo meno in Germania e negli Stati Uniti. Nella seconda metà nel decennio questo rifiuto diventa persino una convenzione che accomuna i movimenti più disparati. Tutti sono d’accordo nel condannare come anti-fotografici e impuri la simulazione del flou impressionista. la pesante manipolazione, il ritocco a pennello, l’impiego di gomme bicromate, pigmenti e patine, e nel fare appello a un’arte fotografica specifica, che sfrutti le proprietà intrinseche del medium. Si formulano così un’infinita e contraddittoria gamma di definizioni di questa “purezza” fotografica. In particolare, sulle due sponde dell’atlantico si aprono due strade che prima della fine del decennio hanno tra loro pochi contatti: in due modi diversi, la fotografia artistica flirta, senza appropriarsene davvero, con l’idea di documento.
STRAIGHT PHOTOGRAPHY La straight photography4 (“fotografia diretta”) è una tendenza del linguaggio fotografico che nasce nella prima metà del Novecento in opposizione alla corrente del pittorialismo e in generale a ogni forma di manipolazione dell’immagine estranea alle specificità linguistiche del mezzo, o a quelle che venivano riconosciute come tali che minavano la realtà dell’immagine. La locuzione compare per la prima volta nel 1904, sulla rivista fondata da Alfred Stieglitz, Camera Work, in un articolo del critico d’arte Sadakichi Hartmann. Ebbe il suo centro nevralgico negli Stati Uniti, in relazione alla diffusione della fotografia documentaria, alla nascita della figura del fotoreporter e alla crescente attenzione di matrice giornalistica nei confronti delle grandi questioni sociali. In questo senso si inserisce la poetica straight photography: qualun-
² https://en.wikipedia.org/wiki/Let_Us_Now_Praise_Famous_Men# 3
Agee, James; Evans, Walker (1969). Let Us Now Praise Famous Men: Three Tenant Families. Houghton Mifflin. 4
https://cinemaescuola.files.wordpress com/2020/05/07a.-straight-photography.pdf
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Evans, W., photographer. (1936) Laura Minnie Lee Tengle. Alabama, 1936. [Summer] [Photograph] Retrieved from the Library of Congress, https://www.loc.gov/item/2007675778/.
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Evans, W., photographer. (1936) Schoolhouse, Alabama. United States Alabama. Alabama, 1936. [Photograph] Retrieved from the Library of Congress, https://www.loc.gov/item/2017762375/.
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Evans, W., photographer. Circus poster, Southeastern U.S. Southern States. United States Southern States, None. [Between 1935 and 1942] [Photograph] Retrieved from the Library of Congress, https://www.loc.gov/item/2017762395/.
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Evans, W., photographer. (1936) Sunday Singing. Alabama, 1936. [Summer] [Photograph] Retrieved from the Library of Congress, https://www.loc.gov/item/2007675777/.
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AUGUST SANDER Herdorf, 17 novembre 1876 – Colonia, 20 aprile 1964
In questo contesto si inserisce August Sander. Il libro “Antlizt Der Zeit” (Volti dei nostri tempi) contiene un passaggio molto importante che certifica il ruolo che deve avere la fotografia nei contesti di difficoltà e crisi;
“Qui la fotografia ha compreso e compiuto il ruolo che le spetta: ha documentato, con serietà, l’essenza dell’epoca, ha creato “documenti”, sine ira et studio, documenti che soltanto essa può creare5”
In Germania, all’inizio degli anni Venti, nasce la corrente artistica chiamata Nuova Visione (Neue Sehen) che segna la rottura con la tradizione artistica precedente e che porta la speranza di una fotografia nuova e pura. Non si tratta solamente di una evoluzione tecnica e stilistica, la Nuova Visione si pone come obiettivo l’estensione e la liberazione della visione umana attraverso un supporto, una “protesi” tecnologica concepita come “strumento” per vedere di più e meglio. L’apice si raggiunge con la mostra “ ” del 1929. Però, l’ascesa del movimento coincide con il suo stesso declino, in quanto, il generale entusiasmo per la tecnologia ha presto,prestissimo, lasciato il posto a una disillusione dovuta al fatto che le novità portate dal movimento furono ben presto viste come una versione moderna di pittorialismo.
Raggiunge la notorietà relativamente tardi (54 anni) e ha un passato da ritrattista professionista per l’alta borghesia ma, nel 1930, rimasto a corto di clientela, decide di dedicare i propri servizi alle famiglie contadine del Westerwald. Il Westerwald6 è una regione tedesca appartenente al Massiccio scistoso renano. Il nome “Westerwald” (in italiano: Bosco occidentale) è registrato per la prima volta in un documento del 1048, riferito in origine alle foreste attorno alle tre chiese di Bad Marienberg, Rennerod ed Emmerichenhain a occidente del recinto reale di Herborn. Attualmente il Westerwald è una regione di circa 2500 km² situata immediatamente a nord del Taunus, nel punto d’incontro dei Bundesländer Renania-Palatinato, Renania Settentrionale-Vestfalia e Assia. I suoi confini sono identificabili in quattro valli fluviali: quella della Lahn a Sud, del Reno a Ovest, della Sieg a Nord e della Dill, un tributario della Lahn, a Est. Dal punto di vista altimetrico, come peraltro tutto il Massiccio scistoso renano, l’altitudine è alquanto modesta; la vetta più elevata, Fuchskaute, è alta appena 656 metri sul livello del mare. Il 40 per cento del Westerwald, approssimativamente 1000 km², è boschivo. Il Westerwald è conosciuto principalmente per le sue cave di basalto e per l’artigianato della ceramica con caratteristiche decorazioni sfarzose di
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colore blu cobalto. Le prime lavorazioni in ceramica risalgono a metà del XVI secolo, allorché giunsero nel Westerwald dei vasai provenienti da Raeren, in Belgio. Questo cambiamento sociale corrisponde a un cambiamento formale. Egli abbandona la fotografia d’arte per tornare a una fotografia più convenzionale. Ma di certo non più semplice, in quanto grazie a questa rivoluzione nel suo stile comincia a nascere l’idea di ritrarre uno spaccato della società contemporanea. Ciò avvenne non si concretizzerà prima degli anni Venti quando si lega al gruppo degli Artisti Progressisti di Colonia.
I lavoratori
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GLI ARTISTI PROGRESSIVI Il gruppo degli Artisti Progressivi7 di Colonia era guidato da Franz W. Seiwert e Heinrich Hoerle, pittori di estrema sinistra, marxisti. Il loro intento era proprio quello di realizzare opere che rivelino la struttura della società a loro contemporanea e che mettano a punto un “costruttivismo figurativo” in cui le figure umane, stilizzate quasi a diventare pittogrammi, simboleggino i diversi gruppi sociali racchiusi in chiare composizioni geometriche. Tutto questo per permettere il superamento dell’opera d’arte capitalista borghese a vantaggio di un’arte libera e di ispirazione collettiva.
La guerra dei contadini tedeschi
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Nei primi anni Venti Sander cominciò a pianificare un catalogo della società contemporanea attraverso una serie di ritratti. Nel 1927 Sander, insieme allo scrittore Ludwig Mathar, viaggiò per la Sardegna per tre mesi, scattando circa 500 fotografie. Comunque, un diario dettagliato dei suoi viaggi non fu mai completato. Il primo libro di Sander Face of our Time fu pubblicato nel 1929. Contiene una selezione di 60 ritratti tratti dalla serie People of the Twentieth Century (Ritratti del Ventesimo Secolo). Sotto il regime nazista, il suo lavoro e la sua vita personale furono pesantemente limitati. Suo figlio Erich, che era un membro del partito di sinistra Sozialistischen Arbeiterpartei Deutschlands (SAP), fu arrestato nel 1934 e condannato a 10 anni di prigione, dove morì nel 1944, poco prima della fine della sua condanna. Il libro di Sander Face of our Time fu sequestrato nel 1936 e le lastre furono distrutte, in quanto l'uomo proposto dal fotografo non corrispondeva al modello proposto dal regime nazista. Durante il decennio successivo il lavoro di Sander fu rivolto primariamente alla natura e alla fotografia di paesaggio. Quando esplose la Seconda guerra mondiale lasciò Colonia e si trasferì in campagna, permettendo così di salvare la maggior parte dei suoi negativi. Il suo studio fu distrutto nel 1944 durante un bombardamento. Il lavoro di Sander comprende paesaggi, natura, foto di architettura e street photography, ma è famoso soprattutto per i suoi ritratti, come esemplificati dalla serie Uomini del Ventesimo Secolo. In questa serie egli cerca di offrire un catalogo della società tedesca durante la Repubblica di Weimar. La serie è divisa in sette sezioni: i Contadini, i Commercianti, le Donne, Classi e Professioni, gli Artisti, le Città e gli Ultimi (homeless, veterani, ecc.).
LA GERMANIA DI SANDER “Face of our time”, il capolavoro di Sander e protagonista di questo capitolo, fu pubblicato in un periodo molto particolare della storia mondiale. Il crollo di Wall Street del 1929 segnò l'inizio della Grande depressione. Le conseguenze della crisi economica mondiale toccarono anche la Germania, dove la situazione deteriorò rapidamente. Nel luglio del 1931 fallì una delle più grosse banche tedesche, la Darmstätter und Nationalbank, e nel 1932 il numero di disoccupati arrivò a toccare quota sei milioni (che al tempo consisteva al 10 per cento della popolazione). Il nuovo declino economico, combinato con i ricordi dell'iperinflazione del 1923 e l'opposizione nazionalista derivante dalle condizioni draconiane del Trattato di Versailles, minarono il governo di Weimar. Spianando la strada all’ascesa politica di Adolf Hitler.
LA REPUBBLICA DI WEIMAR Deve il suo nome alla città di Weimar, dove si riunì l'assemblea nazionale che redasse una nuova costituzione dopo la sconfitta tedesca nella Prima guerra mondiale. Il primo tentativo di stabilire una democrazia liberale in Germania fu un periodo di grande tensione e di conflitto interno, nonché di grave crisi economica, che si concluse con l'ascesa al potere di Adolf Hitler e del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori nel 1933. Anche se tecnicamente la costituzione del 1919 non venne mai revocata del tutto fino a dopo la Seconda guerra mondiale, le misure legali prese dal governo nazista nel 1933, comunemente note come Gleichschaltung, in effetti distrussero tutti i meccanismi forniti da un normale sistema democratico ed è quindi comune segnare il 1933 come la fine della Repubblica di Weimar8.
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LE RAGIONI DEL CROLLO La Repubblica di Weimar ebbe alcuni tra i più gravi problemi economici mai sperimentati nella storia di una democrazia occidentale. L'iperinflazione rampante, la massiccia disoccupazione e il grave abbassamento della qualità della vita, confrontati con il periodo precedente alla Prima guerra mondiale, furono i fattori principali del collasso. Con la grande depressione degli anni Trenta, le istituzioni della Repubblica in quanto tali vennero incolpate da molti per i problemi economici; questo è evidente nei risultati elettorali, dove i partiti politici che volevano lo smantellamento completo della Repubblica, sia a destra che a sinistra dell'arco costituzionale, resero impossibile la formazione di una maggioranza stabile in parlamento. In questo contesto, il Trattato di Versailles era considerato dal popolo tedesco come un documento punitivo e degradante, che costringeva la nazione a cedere aree ricche di risorse e a pagare somme enormi a titolo di riparazione di guerra. Queste riparazioni punitive non solo danneggiarono pesantemente l'economia tedesca, ma causarono anche grande costernazione e risentimento da parte della popolazione. Oggi molti storici concordano che molti industriali identificarono la Repubblica con i sindacati e i socialdemocratici, poiché furono questi che stabilirono le concessioni sociali del 1918 e del 1919. Ma anche se alcuni videro Hitler come un mezzo per abolirle, la Repubblica era instabile ancor prima che certi industriali iniziassero ad appoggiare Hitler. A parte ciò, anche chi sostenne la nomina di Hitler non voleva il nazismo nella sua interezza e considerava Hitler solo come una soluzione temporanea nella propria ricerca dell'abolizione della Repubbli-
ca. Certamente, il supporto dell’industria non è sufficiente da solo a spiegare l’appoggio a Hitler da parte di consistenti fette della popolazione, che comprendevano molti operai che si erano allontanati dai partiti di sinistra. L’appoggio a Hitler dalle parti socialmente più deboli della popolazione fu guadagnato dal Führer grazie a una politica economica fortemente espansiva, totalmente contraria rispetto a quella di Bruning, in cui grazie all’aumento della spesa pubblica e di interventi statali mirati si ridusse notevolmente il tasso di disoccupazione e di povertà, creando lavoro per molti e avvicinandosi a livelli da piena occupazione. L’abuso del signoraggio da parte del governo della repubblica di Weimar tra il 1922 e il 1923 causò una drammatica spirale iperinflattiva.
”Lo stile documentario in fotografia”, Olivier Lugono, cap. A.Sander
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https://it.wikipedia.org/wiki/Westerland_(Sylt)#Geografia_fisica
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https://ilfotografo.it/news/august-sander-il-piu-importante-ritrattista-tedesco-del-xx-secolo/ 7
https://www.treccani.it/enciclopedia/repubblica-di-weimar/
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Copertina del libro “Face of our time”
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Soldato tedesco, 1940. (August Sander, Die Photographische Sammlung/SK Stiftung Kultur – A.Sander Archiv)
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Pugili, 1929. (August Sander, Die Photographische Sammlung/SK Stiftung Kultur – August Sander Archiv)
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Pasticcere, 1928. (August Sander, Die Photographische Sammlung/SK Stiftung Kultur – A. Sander Archiv)
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Giovani agricoltori, 1914. (A. Sander, Die Photographische Sammlung/SK Stiftung Kultur – A. Sander Archiv)
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La basilica di san Gereone,1946. (A. Sander, Die Photographische Sammlung/ SK Kultur– A. Sander Archiv)
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Minatore disabile, 1927. (A. Sander, Die Photographische Sammlung/SK Kultur – A. Sander Archiv)
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Contadina, 1912. (A. Sander, Die Photographische Sammlung/SK Kultur – August Sander Archiv)
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MAGNUM PHOTOS L'agenzia nacque da un'idea di Robert Capa, che la comunicò ai colleghi quando s'incontravano al ristorante del Museum of Modern Art (MOMA) di New York. Il 22 maggio 1947 Capa, William e Rita Vandivert e Maria Eisner sancirono la fondazione del sodalizio. Il nome Magnum fu scelto sia perché i convenuti amavano accompagnare le loro discussioni con una bottiglia di vino francese, sia perché un nome espresso in latino conferiva forza mista a grandezza. Henri CartierBresson, David Seymour e George Rodger erano assenti alla riunione del 22 maggio ma furono considerati ugualmente membri fondatori. I fondatori appartenevano a cinque nazionalità diverse (Capa ungherese, Cartier-Bresson francese, Seymour polacco, Rodger inglese, i Vandivert e Maria Eisner statunitensi) ed avevano acquistato grande sensibilità negli anni della Seconda guerra
mondiale, densi di avvenimenti sconvolgen ti. La Magnum Photos nacque con due sedi, a New York e Parigi, a cui in seguito si aggiunsero Londra e Tokyo, per meglio organizzare le missioni dei fotografi. I membri della cooperativa s’impegnarono sin dagli esordi a pretendere dagli editori il controllo della messa in pagina delle immagini e la verifica delle didascalie. Inoltre, decisero di detenere la proprietà dei negativi, fatto nuovo per l’epoca. Ogni fotografo poteva decidere dove, come e per chi lavorare. La libertà d’azione significava anche poter concedersi reportage di ampio respiro, più personali, in cui l’autore potesse raccontare meglio, di più e in profondità. I fondatori si divisero le rispettive sfere d’influenza: CartierBresson scelse l’Asia (con lunghi viaggi in Cina, India, Birmania e Indonesia), Seymour si concentrò sull’Europa, Rodger sull’Africa, mentre Robert Capa
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dall’America, rimase pronto a partire per ogni dove. Le forti personalità dei fondatori attirarono l’interesse di coloro, colleghi, che comprendevano la portata di un simile modo di pensare, da uomo e da fotografo, il proprio lavoro. I servizi della Magnum si imposero subito per la capacità fresca e nuova di essere nel mondo e sulla notizia. Il circolo Magnum andò allargandosi, in cinque anni, aveva aggiunto giovani di talento come René Burri, Elliott Erwitt ed altri, acquisendo una fisionomia sempre più riconoscibile. Nessun fotografo è uguale all’altro e la forza del gruppo nasce proprio dalla diversa creatività e dalle imprese individuali di ognuno. Poiché questi reportage non trovano spesso spazio sufficiente sulle riviste, per molti autori la dimensione per esprimersi diventa quella più pensata e autonoma del libro o quella più libera e creativa della mostra. I risultati furono esperimenti, allora nuovi, di un modo di comunicare e vivere la fotografia, senza limiti e confini. Grazie a questa politica incentrata sulla tutela del fotografo, sia legalmente che professionalmente, l’agenzia Magnum ha raccolto intorno a sé molti dei migliori fotografi, permettendogli di esprimere il personale significato di fotografia e il loro rapporto con il mondo documentato. Magnum è la prima agenzia cooperativa creata dagli stessi fotografi o piuttosto, come afferma Henri Cartier-Bresson, da un gruppo di “avventurieri che erano mossi da un’etica”. Deve la sua notorietà alla qualità dei suoi membri che hanno saputo non derogare mai al principio fissato dai fondatori: solidarietà nel rispetto dell’individualità. Ma ciò che caratterizza questi fotografi è la stessa concezione del giornalismo e lo sguardo calorosamente umano che hanno verso il mondo.
ETICA DELL’AGENZIA L'etica professionale di Magnum prevede che le immagini scattate rimangano di proprietà del fotografo Magnum e non delle riviste dove esse vengono pubblicate, permettendo all'autore di scegliere soggetti, temi e orientare la produzione verso uno stile più aderente a quello del fotografo e libero da vincoli. Crearono Magnum fondamentalmente per un motivo, per autenticare la propria natura indipendente, sia come fotografi sia come fotoreporter sia come individui. Questa individualità indipendente è ancora la peculiarità che continua anche oggi a caratterizzare l’esistenza di Magnum. Cartier-Bresson confidava in un’intervista su “Le Monde” che “al momento della liberazione, dopo che il mondo era stato distrutto anche nelle strutture mentali, la gente viveva nuove curiosità”. Con Magnum nacque la necessità di raccontare le storie.
LA FONDAZIONE Fu lo stesso Capa, vero capo dell’agenzia, a convincere Cartier-Bresson a “conservare il surrealismo nel suo piccolo cuore” e diventare fotogiornalista. Sicuramente una componente importante della nascita e dello sviluppo di Magnum fu proprio la lungimiranza di Robert capa che aveva visto nella rivoluzione tecnologica del secondo dopoguerra, ovvero l’invenzione delle macchine più piccole e portabili, delle pellicole più sensibili e luminose. Capa riconobbe la grandiosa qualità e innovazione delle macchine di piccole dimensioni e soprattutto, vide la perfetta combinazione tra piccole macchine fotografiche e grandi menti che fotografano. Ovviamente non parliamo di fotografi che hanno passato la loro carriera e la loro vita chiusi in uno studio fotografico. Loro stessi hanno contribuito a far passare alla storia un modo di fotografare nuovo, basato su ciò che accade nel
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mondo che non è per forza bello. Fotografare le difficoltà, ciò che di brutto accade nel mondo come le crisi, le guerre, la povertà toglieva quella patina di “finzione” che, chi non vive determinate situazioni non vede. Mi concentrerò maggiormente su Robert Capa e Henri Cartier-Bresson che sono le figure più importanti della Magnum. Cartier-Bresson aveva passato gran parte della guerra come prigioniero dei tedeschi e dopo il terzo tentativo di fuga si unì alla resistenza francese anche se il suo interessa era più rivolto verso la ricerca di ciò che egli chiama “istante decisivo4” e l’esistenza di una coerenza visiva che chiamava “la coordinazione organica degli elementi visti dall’occhio”. Capa, il cui nome fu sinonimo di fotografia di guerra sin dalla Guerra Civile Spagnola, è stato l’autore delle nebbiose e viscerali fotografie dell’invasione del D.Day che divennero poi il suo simbolo. I fondatori e i loro seguaci credevano che i fotografi dovessero avere nel loro immaginario un punto di vista particolare che trascendesse ogni formula di registrazione degli eventi contemporanei. Cartier-Bresson, in una intervista a Popular Photography nel 1957 a Byron Dobell, disse che “Noi spesso fotografiamo eventi chiamati news, ma non tutti hanno un approccio con gli eventi che è evocativo di una verità, molto spesso chi racconta news ha un approccio abbastanza banale, pochi riescono a evocare una realtà della vita”. n una nota memorabile del 1962, indirizzata “a tutti i fotografi”, Cartier-Bresson tentò di ricordare il loro ruolo nel mondo: “Vorrei ricordare a tutti che Magnum è stata creata per consentirci e di fatto obbligarci, a testimoniare il nostro mondo e gli eventi contemporanei, seguendo ognuno la propria capacità e la propria interpretazione”5. Oggi molti si stupiscono di come tanti fotografi, tutti molto diversi tra loro, siano riusciti a convivere all’interno di una agenzia, con le loro personalità e le loro idee non per forza identiche. Molte poche cooperative sono riuscite a esistere e lavorare così a lungo.
Ma in fondo, non era proprio Cartier-Bresson a terminare la sua lettera ai fotografi con “Vive la révolution permanente…9”
ROBERT CAPA
"Se le tue foto non sono abbastanza buone, significa che non sei abbastanza vicino." Cit. Robert Capa Robert Capa nasce a Budapest nel 1913. Il suo vero nome era Endre Ernő Friedmann, che fu costretto a cambiare durante un periodo di clandestinita’ in Francia. E‘ considerato il primo e piu’ famoso fotografo di guerra, e documento’ cinque diversi conflitti: la guerra civile spagnola (1936-1939), la seconda guerra sino-giapponese (che seguì nel 1938), la Seconda guerra mondiale (1941-1945), la guerra arabo-israeliana (1948) e la prima guerra d'Indocina (1954). Studio’ Scienze all’Universita’ di Berlino fra il 1931 ed il 1933, quando dovette lasciare la Germania nazista a causa delle sue origini ebraiche. Autodidatta, iniziò come assistente di laboratorio e iniziò a fare il fotografo freelance quando si trasferì a Parigi. La sua fama esplosa durante la guerra civile spagnola, grazie alla famosa foto “Il miliziano colpito a morte”, di cui ancora oggi si di-
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scute l’autenticità. Robert Capa si interessò anche di cinema. Nel 1936 girò alcune sequenze per il film di montaggio “Spagna 36” diretto da Jean Paul Le Chanois e prodotto da Luis Bunuel. La relazione con l’attrice Ingrid Bergman permise a Capa di scattare alcune foto sul set del film “Noto-
rious” (1946) di Alfred Hitchcock. Nel 1947 assieme a Henri Cartier-Bresson, David Seymour, Georges Rodger e William Vandivert fonda l’agenzia fotografica “Magnum Photos”. Come la storica compagna Gerda Taro, morì facendo il suo lavoro, saltando su una mina in Vietnam nel 1954.
LA FOTOGRAFIA DI ROBERT CAPA Robert Capa è stato il prototipo del fotografo di guerra: la sua fu una vita spericolata, fatta di donne, grandi bevute, ed attrazione fatale per il pericolo. Era consapevole del fascino del proprio personaggio, che attraeva allo stesso tempo belle donne ed approfittatori. Le sue foto erano però meno improntate al “glamour”: raccontavano di sofferenza, miseria e caos. La sua carriera coincise con uno dei periodi più bellicosi della storia, e Capa non perse mai l’occasione di essere al fronte, pronto ad affrontare la morte per raccontare la guerra. Il suo sguardo è completamente immerso nella realtà che vuole rappresentare, cerca di limitare al minimo i filtri e le barriere tra fotografo e soggetto. Si fa contaminare dalla vita e dall’uomo. "Se le tue foto non sono buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino", recita la sua frase più famosa: “L’importante è stare dentro le cose”. Paradossalmente, la sua foto più famosa è anche la più controversa. “Il miliziano colpito a morte” rappresenta una vera icona del secolo scorso, ma tutt’ ora si dibatte sulla sua autenticità. Secondo alcuni, la foto sarebbe infatti preparata ad arte da Robert Capa, e le circostanze dello scatto riportate dal fotografo non sarebbero veritiere. Robert Capa, in un’intervista radiofonica datata 1947, racconta come riuscì a realizzare lo scatto: “Ho scattato la foto in Andalusia - racconta - mentre ero in trincea con 20 soldati repubblicani, avevano in mano dei vecchi fucili e morivano ogni
minuto. Ho messo la macchina fotografica sopra la mia testa, e senza guardare ho fotografato un soldato mentre si spostava sopra la trincea, questo è tutto. Non ho sviluppato subito le foto le ho spedite assieme a tante altre. Sono stato in Spagna per tre mesi e al mio ritorno ero un fotografo famoso, perché la macchina fotografica che avevo sopra la mia testa aveva catturato un uomo nel momento in cui gli sparavano. Si diceva che fosse la miglior foto che avessi mai scattato, ed io non l'avevo nemmeno inquadrata nel mirino perché avevo la macchina fotografica sopra la testa10". Documentò la anche la Seconda guerra mondiale, lasciando immagini memorabili delle attività militari degli americani in Sicilia e dello sbarco in Normandia. 9
https://www.magnumphotos.com/about-magnum/history/
https://saramunari.blog/2016/06/29/robert-capa-intervista-radio-del-1947/ 10
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Robert Capa, [Sicilian peasant telling an American officer which way the Germans had gone, near Troina, Sicily], August 4-5, 1943. © International Center of Photography/Magnum Photos (2935.1992)
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© ICP, Internation Centre of Photography
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© ICP, Internation Centre of Photography
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Capa, R., photographer. (1944) Omaha Beach near Colleville-sur-Mer, Normandy, France. France Mer Sur Normandy Colleville, 1944. June 6. [Photograph] Retrieved from the Library of Congress, https://www.loc.gov/item/2009632158/.
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The Falling Soldier, Robert Capa, 1936, https://www.museunacional.cat/en/war-robert-capa-work
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AUTENTICO O NON AUTENTICO? La guerra civile spagnola è avvenuta negli anni tra il 1936 e il 1939 in conseguenza al colpo di Stato del 17 luglio 1936, che vide contrapposte le forze nazionaliste guidate da una giunta militare, contro le forze del governo legittimo della Repubblica spagnola, sostenuta dal Fronte popolare, una coalizio-
ne di partiti democratici che aveva vinto le elezioni nel febbraio precedente. Robert Capa fotografò durante la guerra la sua opera più famosa e discussa, ovvero la foto de “Il miliziano colpito a morte”(a pag.44). La foto è stata al centro di una lunga diatriba in merito alla sua presunta non autenticità.
CONTRO L'AUTENTICITÀ In base al lavoro svolto dallo storico della fotografia Ando Gilardi, che ha analizzato, nei primi anni '70, i negativi originali di Capa, il quotidiano di Barcellona "El Periodico de Catalunya" avrebbe accertato che la celebre foto fu scattata nei pressi di Cordova, in Andalusia, nel villaggio di Espejo, e non nella località di Cerro Muriano, come affermato da Robert Capa. Il quotidiano, inoltre, precisa che le due località si trovano a 50 km di distanza, con il decisivo particolare che ad Espejo, nei giorni in cui venne scattata la foto, non si sarebbe svolto alcun combattimento tra i miliziani repubblicani e le forze fasciste agli ordini di Francisco Franco. La foto di Capa sarebbe stata scattata ai primi di settembre del 1936, quando Espejo era ancora nelle mani delle forze repubblicane, mentre una battaglia era invece in corso a Cerro Muriano. Solo a fine settembre si registrò qualche scontro isolato ad Espejo, peraltro senza vittime. A metà degli anni '90 si diffuse, poi, la notizia che il miliziano ritratto da Capa fosse un anarchico, tale Federico Borrell García, il quale sarebbe morto effettivamente in combattimento, ma non in campo aperto come nella celebre foto, bensì dietro un albero. A sostegno della tesi dell'inautenticità c’è anche un libro dello studioso José Manuel Susperregui, Sombras de la fotografia (Ombre della fotografia),
in cui si afferma che l'immagine sarebbe stata scattata con una Rolleiflex appartenuta a Gerda Taro, mentre Capa in quel periodo fotografava probabilmente con una Leica ed in seguito con una Contax. I negativi prodotti da questi due apparecchi non sono compatibili con la Rolleiflex, apparecchio medio formato che impiega una pellicola in formato 120/220 su cui imprime immagini quadrate di dimensioni 56×56 mm (formato detto anche 6x6). Leica e Contax sono invece apparecchi piccolo formato che impiegano una pellicola in formato 35mm su cui imprimono immagini rettangolari di dimensioni 24x36mm e rapporto altezza/base pari a 2:3. Ancora a sostegno di questa tesi, esistono anche video che sarebbero frutto di ricerche digitali e geo-morfologiche, effettuate per un documentario tedesco sulla figura di Capa. Di per sé, l'eventuale inautenticità della foto nulla toglierebbe al valore storico che essa ha acquisito come simbolo dei soldati lealisti morti durante la guerra civile spagnola.
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A FAVORE DELL'AUTENTICITÀ A favore dell'autenticità vi sono d'altro canto lunghe ricerche storiche condotte dal biografo di Capa, Richard Whelan. Il miliziano sarebbe, in effetti, l'unico morto quel giorno, Federico Borrell Garcia - morto effettivamente a Cerro Muriano, nei pressi di Cordova, nel 1936 - e la notizia sarebbe registrata negli archivi ufficiali. A sgombrare definitivamente il campo da questa lunga diatriba, nel 2013 il Centro Internazionale di Fotografia ha scoperto e diffuso un'intervista radiofonica, risalente all'ottobre del 1947, in cui Robert Capa spiega esattamente cos'è successo. "Ho scattato la foto in Andalusia - racconta - mentre ero in trincea con 20 soldati repubblicani, avevano in mano dei vecchi fucili e morivano ogni minuto". La foto è stata scattata mentre i soldati con cui viaggiava correvano ad ondate verso una mitragliatrice fascista per abbatterla. Al terzo o quarto tentativo di assalto dei miliziani "ho messo la macchina fotografica sopra la mia testa - continua nell'intervista - e senza guardare ho fotografato un soldato mentre si spostava sopra la trincea, questo è tutto. Non ho sviluppato subito le foto, le ho spedite assieme a tante altre. Sono stato in Spagna per tre mesi e al mio ritorno ero un fotografo famoso, perché la macchina fotografica che avevo sopra la mia testa aveva catturato un uomo nel momento in cui gli sparavano. Si diceva che fosse la miglior foto che avessi mai scattato, ed io non l'avevo nemmeno inquadrata nel mirino perché avevo la macchina fotografica sopra la testa". A chi poneva domande su quella foto, Capa rispondeva: "Per scattare foto in Spagna non servono trucchi, non occorre mettere in posa. Le immagini sono lì, basta scattarle. La miglior foto,
la miglior propaganda, è la verità." La mostra di fotografie di Robert Capa e Gerda Taro che s'è tenuta alla Fondazione Forma di Milano, dal 28 marzo al 21 giugno 2009, ha presentato ulteriore materiale a sostegno dell'autenticità della foto. Molte delle foto di Capa della Guerra civile spagnola furono, per molti decenni, ritenute perdute, ma riemersero a Città del Messico alla fine degli anni 1990. Mentre fuggiva dall'Europa nel 1939, Capa aveva perso la raccolta, che nel tempo fu soprannominata la "valigia messicana". La proprietà della raccolta fu trasferita alla Capa Estate, e nel dicembre 2007 passò all'International Center of Photography, il museo fondato dal fratello minore di Capa, Cornell, a Manhattan.
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HENRI CARTIER-BRESSON guerra nel 1940, fuggì al suo terzo tentativo nel 1943 e successivamente si unì a un'organizzazione clandestina per assistere prigionieri e fuggitivi. Nel 1945 fotografa la liberazione di Parigi con un gruppo di giornalisti professionisti e poi gira il documentario “ ” (Il ritorno). Nel 1947, con Robert Capa, George Rodger, David “Chim” Seymour e William Vandivert, ha fondato Magnum Photos. Dopo tre anni, trascorsi in viaggio in Oriente, nel 1952, torna in Europa, dove pubblica il suo primo libro, “Images à la Sauvette” (pubblicato in inglese come The Decisive Moment). Ha spiegato il suo approccio alla fotografia in questi termini:
Nato a Chanteloup-en-Brie, Seine-et-Marne, Henri Cartier-Bresson ha sviluppato presto un forte fascino per la pittura, e in particolare per il Surrealismo. Nel 1932, dopo aver trascorso un anno in Costa d'Avorio, scoprì la Leica - la sua macchina fotografica preferita da quel momento - e iniziò una passione per la fotografia per tutta la vita. Nel 1933 tiene la sua prima mostra alla Julien Levy Gallery di New York. Nel 1936 lavora nel cinema come assistente del regista francese Jean Renoir in “La vita è nostra”, film nel quale è presente l’ispirazione politica del “Fronte popolare” e, nel 1937, firma personalmente il film “Return to life”. E negli anni successivi si reca in Asia. Intanto, nel 1934, conosce David Szymin, un fotografo e intellettuale polacco, che più tardi cambierà nome in David Seymour (1911–1956). Sarà Szymin a presentare al giovane Bresson un fotografo ungherese, Endré Friedmann, che verrà poi ricordato col nome di Robert Capa. Prigioniero di
“Per me la macchina fotografica è un album da disegno, uno strumento di intuizione e spontaneità, il maestro dell’istante che, in termini visivi, si interroga e decide simultaneamente. È con l’economia dei mezzi che si arriva alla semplicità di espressione11.“ Dal 1968 inizia a limitare la sua attività fotografica, preferendo concentrarsi sul disegno e sulla pittura. Nel 1979 viene organizzata a New York una mostra tributo al genio del fotogiornalismo e del reportage. Nel 2000, assieme alla moglie Martine Franck ed alla figlia Mélanie crea la Fondazione Henri Cartier-Bresson, che ha come scopo principale la raccolta delle sue opere e la creazione di uno spazio espositivo aperto ad altri artisti; nel 2002 la Fondazione viene riconosciuta dallo stato francese come ente di pubblica utilità. Cartier-Bresson ha ricevuto un numero straordinario di premi, riconoscimenti e dottorati onorari. Morì nella sua casa in Provenza il 3 agosto 2004, poche settimane prima del suo 96 ° compleanno.
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Nella sua carriera ha ritratto personalità importanti in tutti i campi; Balthus, Albert Camus, Truman Capote, Coco Chanel, Marcel Duchamp, William Faulkner, Mahatma Gandhi, John Huston, Martin Luther King, Henri Matisse, Marilyn Monroe, Richard Nixon, Robert Oppenheimer, Ezra Pound, Jean-Paul Sartre ed Igor' Fëdorovič Stravinskij. Per versatilità e discrezione le macchine Leica sono le preferite di Bresson, dato che gli consentivano di scattare come amava: velocemente e senza dare nell'occhio, cogliendo il soggetto in tutta la sua naturale mobilità. Strenuo avversario della "messa in scena", preferirà sempre l'immediatezza, alla ricerca di
quello che amava chiamare "l'stante decisivo". Anche la scelta del bianco e nero va in questa direzione, aggiungendo, a suo dire, un elemento emotivo di "astrazione" dalla realtà capace di evidenziare forma e sostanza. I suoi lavori sono caratterizzati da realismo e immediatezza, da una ricerca dell'armonia in un attimo spontaneo e irripetibile e della continua osservazione dell'essere umano che si relaziona con ciò che gli sta intorno. La finalità della foto non è solo raccontare, ma cogliere un momento e renderlo eterno, è un'estensione dell'occhio del fotografo capace di mostrare come questo vede il mondo12.
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Questa immagine (a pag.48) descrive un gruppo di bambini sia come individui viventi che come forme dispiegate contro le forme frastagliate di muri fatiscenti, e la sua vitalità nasce dalla relazione reciproca tra questi due modi di guardare il mondo. Solo due dei ragazzi sono in movimento, ma il vigore del suo motivo grafico infonde all'intero quadro l'antica energia della giovinezza. Cartier-Bresson ha coniato un termine per indicare l'istante in cui l'interazione tra significato umano e forma fotografica può produrre una tale sorpresa. Lo ha definito "il momento decisivo13" .
I DOCUMENTARI:”SPAGNA 36” E “LE RETOUR” Capa e Cartier-Bresson si interessarono anche al cinema. Capa nel 1936 girò alcune sequenze per il film di montaggio "Spagna 3614" diretto da Jean Paul Le Chanois e prodotto da Luis Bunuel. Esso rievoca gli anni della vittoria del Fronte popolare in Spagna; analizza l'inizio della rivolta reazionaria dei generali fascisti; mostra la mobilitazione operaia e popolare; ricostruisce le drammatiche fasi della guerra che per tre anni sconvolse la Spagna. Mette in risalto la solidarietà internazionale dei popoli di tutto il mondo in difesa della libertà e della democrazia, espressa anche con la partecipazione diretta alla lotta da parte delle Brigate Internazionali, e sottolinea le responsabilità derivanti dal mancato sostegno dei governi dei paesi democratici alla Repubblica spagnola; mostra l'appoggio politico e militare dato dalla Germania nazista e dall'Italia fascista al generale Franco; si conclude con le immagini di questa sconfitta della democrazia, della libertà e del socialismo, che - anche se temporanea - peserà a lungo sul destino della Spagna e dell'Europa intera. Cartier-Bresson è stato anche regista, tra le sue opere c’è “Le Retour15”, un suo famosissimo documentario dell’immediato dopoguerra scattata al campo di Dessau nel 1945 e altro non è che la “foto di scena” che illustra uno straordinario documento, un film che racconta il ritorno a casa dei reduci alla fine della guerra dai vari fronti europei. Sarà proprio questo, la cui regia è firmata oltre che da Cartier Bresson anche da G. Krimsky e
Ri-chard Banks, l’acquisto dell’Archivio Carlo Montanaro nel 1992. In “Le Retour” l’occhio indagatore del fotografo-regista riesce a cogliere l’afflato di speranza che unisce i sopravvissuti alle tragedie della guerra. 11 https://www.magnumphotos.com/photographer/henri-cartier-bresson/
“L’eternità in un attimo”, Henri Cartier-Bresson, su La Capanna del Silenzio, 3 agosto 2020 12
https://www.ninjamarketing.it/2012/12/05/henri-cartier-bresson-e-il-momento-decisivo/ 13
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http://patrimonio.aamod.it/aamod-web/film/detail/ IL8600001154/22/spagna-1936. 15
https://www.youtube.com/watch?v=30N6_i7TGh4&ab_channel=HenryChimler
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Spagna ‘36, frame video, min. 14:42
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Le Retour, frame video, min. 6:58
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TRA ARTE E DOCUMENTARIO Inizierai questo paragrafo con una frase di Roland Barthes: “La Fotografia è violenta: non perché mostra delle violenze, ma perché ogni volta riempie di forza la vista, e perché in essa niente può sottrarsi e neppure trasformarsi16”. La fotografia documentaria è ancora più violenta nel far vedere la realtà, solo la realtà e nient’altro che la realtà. Il confine tra arte e fotografia documentaria è poco definito e anche molto soggettivo aggiungerei. Walker Evans, Dorothea lange, Sander, Capa e Cartier-Bresson sono tutti grandi fotografi, grandi artisti profondamente diversi tra loro, nelle idee e nelle tecniche. C'è una frase di Walker Evans: "Documentaria è la fotografia della polizia scattata sul posto di un delitto. Quello è un documento. Vedi bene che l’arte è senza utilità, mentre un documento ha un’utilità. Per questo l’arte non è mai un documento, ma può adottarne lo stile. È quello che faccio io17" Howard Saul Becker18 esplora diversi approcci alla fotografia. Egli afferma che: "La sociologia visiva, la fotografia documentaria e il fotogiornalismo, qualsiasi cosa debbano o vogliano dire, nel loro uso quotidiano come lavoro fotografico, sono pure e semplici costruzioni sociali19". Queste costruzioni si basano su convenienza organizzativa e sui precedenti storici e offrono i loro miti associati. Così il medesimo lavoro fotografico può essere etichettato in modo diverso a seconda della finalità e delle applicazioni, non a causa della sua natura intrinseca. Alludendo alla confusione creata dall'uso di etichette, commenta che opere documentarie "combinano uno stile giornalistico ed etnografico con un autocosciente e deliberato scopo artistico20". Per Olivier Lugon lo “stile documentario” è una pratica fotografica cui l’artista fa un passo indietro per permettere alla realtà di mostrarsi incondizionata.
L’esigenza è di mostrare il mondo così come è, senza influenzare il soggetto che si presenta davanti la macchina fotografica. Poi possono esserci le varie ideologie di ogni singolo artista. Per August Sander, il suo stile documentario opera una ricerca sociale al fine di tracciare uno spaccato della società tedesca durante la crisi. In poche parole, l’arte non è mai un documento, ma può adottarne lo stile. 16 “La camera chiara”, Roland Barthes, Einaudi, 2003 17 hippolytebayard.com 18 Howard Saul Becker (18 aprile 1928) è un sociologo statunitense che ha dato un grande contributo alla sociologia della devianza, alla sociologia dell'arte e alla sociologia della musica. 19 Becker, H. S. 1995, Visual Sociology, Documentary Photography, and Photojournalism: It's (Almost) All a Matter of Context, in Visual Sociology 10 20 Becker, H. S. 1974, Photography and Sociology, in Studies in the Anthropology of Visual Communication 1, 3-26.
DOCUMENTARE PER IMMAGINI Non si può documentare senza immagini. Cito Susan Sontag che nel suo scritto “Sulla fotografia”, indica chiaramente il ruolo e la potenza dell’immagine: “L’umanità si attarda nella grotta di Platone, continuando a dilettarsi, per abitudine secolare, di semplici immagini della verità. Ma esser stati educati dalle fotografie non è come esser stati educati da immagini più antiche e più artigianali: oggi sono molto più numerose le immagini che richiedono la nostra attenzione; l’inventario è cominciato nel 1839 e da allora è stato fotografato quasi tutto, o almeno così pare; questa insaziabilità dell’occhio fotografico modifica le condizioni di prigionia in quella grotta che è il nostro mondo; insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare; la
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conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di immagini; nelle fotografie l’immagine è anche un oggetto, leggero, poco costoso, facile da portarsi appresso, da accumulare, da conservare. Le fotografie sono forse i più misteriosi tra gli oggetti che formano, dandogli spessore, quell’ambiente che noi definiamo moderno. Esse sono in realtà esperienza catturata, e la macchina fotografica è l’arma ideale di una consapevolezza di tipo acquisitivo. Fotografare significa infatti appropriarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza, e quindi di potere21”. Attraverso le fotografie, il mondo si trasforma in una collezione di fotogrammi, a sé stanti, perché è una visione del mondo, nega la connessione e la continuità temporale della realtà conferendo ad ogni momento il carattere di mistero. Susan Sontag afferma, in tal senso: “La suprema saggezza dell’immagine fotografica consiste nel dire: Questa è la superficie. Pensa adesso, o meglio intuisci, che cosa c’è da là da essa, che cosa deve essere la realtà se questo è il suo aspetto“. La fotografia non rappresenta dunque, la fotografia cattura immagini. E la cattura dell’oggetto vuole conservare, la memoria di quello che si è fotografato. La conoscenza raggiunta attraverso la fotografia, sostiene Susan Sontag, sarà sempre una forma di sentimentalismo, cinico o umanistico. Sarà una conoscenza a prezzi di liquidazione, un’apparenza di conoscenza, un’apparenza di saggezza; come l’atto di fare una fotografia è un’apparenza di appropriazione. 21 “Sulla fotografia, Realtà e Immagine nella Nostra Società”, Susan Sontag, Einaudi, 2018
DOCUMENTARE IL CORONAVIRUS Nella prima parte abbiamo visto, analizzando il lavoro di tanti artisti fotoreporter, cosa vuol dire “approccio documentario22”. Ora, a causa della pandemia da nuovo coronavirus, il genere umano è stato costretto a fermarsi, reinventarsi e tentare di ripartire. La nostra normalità è stata minata dalla presenza del virus, anzi, è stata completamente distrutta. Si parla di “nuova normalità23” , come se la normalità che avevamo prima non tornerà più, oppure tornerà, ma sicuramente almeno nel breve periodo non sarà la stessa. Probabilmente la nostra era una normalità “sbagliata”, probabilmente come si sente spesso dai media abbiamo “tirato troppo la corda” e ora ne subiamo le conseguenze. La parola chiave di questo periodo sembra essere “reinventarsi” e la capacità più importante in questo periodo è la capacità di adattamento, il cosiddetto “adattamento edonico24”, la nostra tendenza a adattarci emotivamente in breve tempo ai cambiamenti, positivi o negativi, delle nostre condizioni, e a tornare al nostro livello base di ottimismo o pessimismo. Il modo di fotografare è profondamente cambiato anche in base alle regole portate dal coronavirus. Ciò ha causato un danno notevole alla categoria. Vilma Pillon afferma che Il Coronavirus colpisce anche il mondo della fotografia:
“Dovremo essere bravi a reinventarci. Il Coronavirus può però anche essere preso come spunto per reiventare il lavoro del fotografo, per adeguarlo al momento e ai tempi che cambiano. Nonostante in tanti abbiano attivato lo smart working, magari per completare le post-produzioni di lavori lasciati in sospeso prima del lockdown, e proceduto alla sanificazione degli ambienti, ad oggi permane in ogni caso la necessità di trovare strategie diverse per andare incontro all’evoluzione del mercato25” In
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un primo momento della pandemia, in particolare il primo lockdown “duro”, i fotografi erano chiusi in casa come tutti. Per un artista dover rimanere chiuso in casa potrebbe significare in qualche modo tappare la propria creatività, vivere in “cattività” artisticamente parlando. Questo non risulta vero, fortunatamente, proprio perché il mestiere del fotografo è un mestiere versatile, che deve sempre essere in continuo aggiornamento e al passo con i tempi. Cito il fotografo Luigi Ghirri che, nel 1979, all’interno del suo studio, ha creato un progetto dal titolo “Identikit”.
LUIGI GHIRRI
22 Introduzione a “Lo Stile Documentario in Fotografia”, Olivier Lugon, Mondadori Electa 23 internazionale.it/opinione/oliver-burkeman/2020/06/22covid19 cambiamenti-normalita 24 psychologytoday.com/us/basics/hedonic-treadmill 25 trevisotoday.it/attualita/coronavirus-fotografia-vilma-pillon-maggio-2020
Luigi Ghirri nasce il 5 gennaio 1943 a Scandiano, vicino a Reggio Emilia. Il clima del dopoguerra, la ripresa economica e il fermento culturale degli anni ’60, sono elementi forti che accompagnano lo sviluppo di una personalità sensibile ai mutamenti, estremamente curiosa e motivata dal desiderio di conoscenza. Parallelamente a una formazione tecnica, la passione per la lettura e per la musica, la scoperta del Rinascimento italiano e lo studio della storia dell’arte, come pure il gusto per gli oggetti e per le immagini trovate, sono senz’altro aspetti fondamentali di un percorso che lo conduce naturalmente alla fotografia come strumento per guardare dentro e oltre alle cose. l’assidua frequentazione del gruppo degli artisti concettuali modenesi, lo sguardo costante verso lo scenario internazionale dell’arte contemporanea e l’amore dichiarato per alcuni fotografi come Eugène Atget, August Sander, Walker Evans, Robert Frank, Lee Freedlander o William Eggleston, gli fanno concepire il suo lavoro come una ricerca espressiva. Nel 1970 realizza le sue prime fotografie durante le vacanze estive o i fine settimana, raggruppandole all’interno di un nucleo che più
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avanti chiamerà “Fotografie Del Periodo Iniziale”. Parallelamente, realizza anche immagini con soggetti inanimati, in cui è assai frequente il ricorso al ready-made26 o l’attenzione per l’objet trouvé27 sviluppando così una prima ricerca a cui dà il titolo “Paesaggi di cartone”. Nel 1971–72 conosce l’artista Franco Vaccari e con lui approfondisce alcune fondamentali riflessioni intorno al ruolo della fotografia nell’ambito dell’arte contemporanea. Il 1972 è l’anno in cui lo stesso Vaccari realizza alla Biennale di Venezia l’Esposizione in tempo reale n. 4. E’ anche l’anno in cui a Modena, presso la hall del Canalgrande Hotel – circolo Sette Arti Club, presenta la sua prima mostra personale intitolata Luigi Ghirri. Fotografie 1970-71, frutto di una selezione realizzata insieme a Franco Vaccari, autore dell’introduzione al catalogo. Nel 1975 visita a Parma la mostra dedicata alla Farm Security Administration28, dove può confrontarsi direttamente con la fotografia americana da lui molto apprezzata, scoprendo interessanti punti di contatto. Egli trova molti punti in comune e si rende conto che parlava delle stesse cose. L’idea era simile: comprendere, trascrivere, raccontare del nostro orizzonte visibile, parlare dell’esistente. Per me era la sfida della contemporaneità e del presente. In effetti, per lui questo è un momento di grosse verifiche ma anche di riscontri molto importanti. Viene scelto da “Time-Life” come “discovery” dell’anno e un ampio portfolio è pubblicato nel prestigioso Photography Year29. Partecipa alla mostra collettiva Art as Photography – Photography as Art di Kassel, che nello stesso anno è portata a Chalon-sur-Saône. Sempre a Chalon-sur-Saône, espone nella collettiva dal titolo Photographie Italienne presso il Musée Nicéphore Niépce. Realizza la mostra Luigi Ghirri. Colazione sull’erba presso la Galleria Civica d’Arte Moderna di Modena: il catalogo presenta testi di Massimo Mussini e Roberto Salbitani.
Espone una personale dal titolo Il Sistema dell’assenza alla Canon Photo Gallery di Amsterdam: il catalogo pubblica un testo di Arturo Carlo Quintavalle. Realizza una personale dedicata al lavoro “Atlante” a Torino. Nel 1979 accade un evento importantissimo per quanto riguarda la sua ricerca. Viene scelto per un’importante mostra antologica del suo lavoro presso la sede espositiva dell’Università di Parma, a cura di Arturo Carlo Quintavalle e Massimo Mussini. Con il titolo “Vera Fotografia”, viene elaborato un progetto ambizioso che raccoglie tutti i progetti realizzati sino a quella data, offrendo al pubblico la visione di circa 700 fotografie organizzate in 14 sequenze narrative: Fotografie del periodo iniziale (1970); Kodachrome (1970-78); Colazione sull’erba(1972-74); Catalogo (1970-79); Km 0.250 (1973); Diaframma 11, 1/125, luce naturale(1970-79); Atlante (1973); Italia ai lati (1971-79); Il paese dei balocchi (1972-79); Vedute (1970-79); Infinito (1974); In scala (1977-78); Identikit (197679); Still-Life (1975-79). Il libro pubblicato in questa occasione presenta una prefazione di Arturo Carlo Quintavalle, un testo e schede critiche di Massimo Mussini e, per ogni sezione, uno scritto prodotto dallo stesso autore, che lo concepisce come momento di indispensabile messa a fuoco della propria riflessione teorica. La sua ricerca è ormai definitivamente impostata per progetti monografici, nati spesso per gemmazione l’uno dall’altro. Si spegne nella sua casa di Roncocesi il 14 febbraio 1992. 26 libreriamo.it/arte/marcel-duchamp-linventore-del-ready-made/ 27 mam-e.it/dizionari/dizionario-arte/dizionario-objet-trouve/ 28 Farm Security Administration (La Fotografia Sociale Americana Del New Deal), Aa.Vv. (Quintavalle, Arturo Carlo), MareMagnum, Parma, 1975 29 Aa.Vv. Photography Year 1975, Time-Life Books, New York
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IL PROGETTO: IDENTIKIT “In questo lavoro ho voluto evidenziare che la mia casa è esercizio quotidiano, oltre che di gesti e comportamenti già ampiamente scontati e risaputi, dell’elaborazione del mio lavoro. Ho delegato per questo autoritratto gli oggetti (libri, dischi, etc) che testimoniano di un rapporto di conoscenza, di cultura, della mia fantasia, del passare del mio tempo: la lettura, l’ascolto della musica, progettare viaggi. Identikit, diventa così continuazione ideale del mio lavoro eseguito e di quello che andrò ad eseguire30”. La casa è la sfera privata di ognuno di noi, un piccolo mondo privato che, durante il periodo di lockdown, siamo stati costretti a riscoprire. Lo sguardo poetico e ideologico si è spostato dal fuori di noi al dentro noi stessi. La vita scorreva molto più lenta rispetto alla frenesia che caratterizzava la vita “fuori”, “normale”. A volte però la lentezza porta a riscoprire i dettagli, le cose piccole, le cose dimenticate e non solo, induce anche a scoprire cose nuove, magari cose a cui prima non si aveva abbastanza tempo da dedicare e che ora, chiusi nel mondo privato della casa, si ha voglia di approfondire. Molti artisti in questo periodo hanno riscoperto quell’impulso “voyeur31” che ha spostato lo sguardo poetico verso il “fuori” della sfera privata, curiosando, attraverso la finestra, i piccoli mondi privati attorno a loro. Citare Alfred Hitchcock è d’obbligo, il suo film “La finestra sul cortile” è una perfetta fotografia di quel periodo. Nel film un fotoreporter di successo L.B. “Jeff” Jeffries è costretto su una sedia a rotelle da quasi due mesi a causa di una frattura alla gamba sinistra riportata in un incidente di lavoro. Il gesso è prossimo alla rimozione ma deve attendere ancora una settimana. Annoiato per la forzata e lunga inattività, Jeff inizia a osservare i suoi vicini di casa, servendosi di un
binocolo e della propria macchina fotografica con teleobiettivo. A causa dell’afa persistente tutti gli abitanti del quartiere tengono le finestre spalancate giorno e notte e ciò permette a Jeff di guardare ciò che succede all’interno dei loro appartamenti. 30 archivioluigighirri.com/artworks/identikit 31 finestresuartecinemaemusica.blogspot.com/2017/12/il-voyeur-alla-finestra
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Identikit 1979
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Identikit 1979
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Identikit 1979
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PROGETTI FOTOGRAFICI DURANTE LA PANDEMIA Durante la quarantena, il progetto di Gabriele Galimberti, artista visuale e fotografo, documenta la situazione degli abitanti di Milano, una delle città più colpite dal virus. Il progetto si chiama “Inside/Out”:
“Per le prime due settimane di crisi del coronavirus in Italia ho scelto di continuare a lavorare fotografando e intervistando (insieme alla mia amica Gea Scancarello) persone rinchiuse nelle loro case di Milano, nel rispetto della quarantena imposta dal governo per combattere COVID- 19. Ho lasciato le luci fuori dalle finestre, disinfettandole prima. I soggetti li portano dentro e dall'esterno dirigo come posizionarli. Per scattare queste foto, abbiamo rispettato tutte le regole necessarie32”. Quando è cominciato il lockdown in giro per il mondo, molte redazioni hanno chiesto ai giornalisti di lavorare da casa. Il telefono e le videochiamate hanno sostituito molto del lavoro sul campo. Anche i fotografi hanno dovuto seguire le restrizioni e tanti hanno smesso di spostarsi dentro e fuori dal proprio paese, cercando un nuovo modo di documentare quello che stava e sta succedendo. C’è chi ha raccontato la propria quarantena o è entrato negli appartamenti di amici e conoscenti attraverso la videocamera del computer. Graziano Panfili ha trovato un modo alternativo di viaggiare, estrapolando immagini dai video delle telecamere di sorveglianza in giro per il mondo. Paolo Pellegrin, da reporter di guerra, ha ruotato la macchina fotografica verso la sua famiglia. Gabriele Galimberti, già citato, ha fotografato le persone affacciate alle finestre nelle prime settimane di quarantena a Milano. Alberto Giuliani e Andrea Frazzetta hanno ritratto i
volti dei medici e degli infermieri impegnati nella lotta contro il covid-19. Le foto delle città vuote, scattate all’inizio di marzo, sono diventate una metafora visiva della pandemia, la negazione del movimento, l’impossibilità di condividere lo spazio. Anche chi sta dall’altra parte, ovvero chi sceglie le foto da pubblicare sul giornale, ha visto un mondo nuovo fatto di ritratti in cui si vedono solo occhi perché i volti sono coperti dalle mascherine, paesaggi desolati e reparti di terapia intensiva. Ha inoltre dovuto tenere in considerazione la sicurezza dei fotografi a cui commissionare i lavori. Per il reportage “The great empty33” il New York Times ha chiesto a fotografi e fotografe di tutto il mondo di ritrarre le loro città svuotate: “Per molti il lavoro nasce dalla prossimità con le persone o all’azione. In questo caso, invece, dovevano evitare di stare troppo vicino o in spazi troppo stretti”, ha scritto Emily Palmer. Tracy Grant, del Washington Post, ha raccontato che il quotidiano statunitense fornisce i dispositivi essenziali di sicurezza ai giornalisti e ai fotografi con cui lavora.
32 Statement progetto Inside/Out, gabrielegalimberti.com/insideout/ 33 nytimes.com/interactive/2020/03/23/world/coronavirus-greatempty
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Inside/Out, 2019
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Inside/Out, 2019
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Inside/Out, 2019
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The Great Empty, Parigi, 2019
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The Graet Empty, San Paolo, 2019
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The Graet Empty, New York, 2019
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The Graet Empty, Monaco, 2019
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IL CONTRIBUTO DI GIUSEPPE TORNATORE Anche il regista Giuseppe Tornatore ha voluto dare il suo contributo rispetto alla situazione attuale realizzando il primo di quattro piccoli “corti”. Il primo si intitola “La stanza degli abbracci”. Il primo 'corto', dal titolo 'La stanza degli abbracci' è girato all'interno di una Rsa, tra i luoghi più colpiti dall'emergenza sanitaria provocata dalla pandemia. Nel filmato che dura circa due minuti e mezzo le protagoniste sono un'anziana signora e la figlia, divise da un telo di plastica trasparente. Alla madre che le domanda se ha deciso di vaccinarsi, la donna risponde di avere molti dubbi. "I dubbi aiutano, devi volerti bene", risponde quindi l'anziana, col vento che solleva il telo di plastica
sul finire dello spot. "L'idea era di evitare una dimensione didascalica, informativa o didattica", ha spiegato Tornatore: "Abbiamo puntato sul concetto di trasmettere attraverso un clima emotivo alcune riflessioni. Per esempio, le persone che sono ancora incerte, o che dicono di non volersi sottoporre al vaccino, non vanno colpevolizzate ma comprese e aiutate34". Secondo il regista nel primo spot "c'è il tema del presagio della fine di tutto, con la plastica che sembra aver avvolto la nostra vita".
34 lastampa.it/spettacoli/tv/2021/01/17/news/giuseppe-tornatoreregista-per-lo-spot-sui-vaccini-contro-il-coronavirus-1.39785150
La stanza degli abbracci 1, min. 1:24
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La stanza degli abbracci 1, min. 1:58
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La stanza degli abbracci 1, min. 2:15
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IL PROGETTO: “DISTANZE” E “DOCUMENTARE IL COVID-19” Trattare un argomento così variegato come quello della documentazione è stato sicuramente un moto anche a livello personale per guardare veramente la realtà. Le difficoltà causate dal virus sono grandi e manifeste e, come già detto, hanno stravolto la nostra vita. L’idea per questo progetto è divisa in due parti: una prima parte consiste in un libro fotografico, intitolato “Distanze”. In questo libro voglio rappresentare frammenti di questa realtà in tempo di pandemia. Il libro consiste in un alternarsi di presenza e di assenza, riportando alla mente in un primo momento i luoghi pubblici che sono stati per periodo “chiusi” a causa proprio della circolazione sfrenata ancora attuale del virus. In alternanza i primi piani di persone qualsiasi con le loro differenze sociali che provano, nonostante tutto, ad avere una vita quasi normale. Il libro è in formato A4 (29,7x21cm) e comprende 28 foto. 14 foto ritraggono persone, altre
14 foto ritraggono luoghi deserti. Le foto sono state scattate con una Canon Eos 200d con due obiettivi, uno Canon 18-55 f4 e un altro Canon 75-300 f4. “DISTANZE”
Il coronavirus ha gradualmente cambiato le nostre abitudini e il nostro stile di vita. Il distanziamento sociale, le mascherine, le mascherine personalizzate sono solo pochi degli enormi cambiamenti della “nuova normalità”. Tutto ciò che vediamo attorno a noi e contornato dalle nuove regole anti-contagio. Sedili alternati, mascherine, flaconi di igienizzanti sparsi qua e là per le strade, per la metropolitana, agli ingressi dei negozi. Il distanziamento però è più che un carattere prettamente fisico, diventa sempre di più un carattere psicologico, in un alternarsi di vuoti.
COPERTINA
Retro
Fronte
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Morlupo, Roma, 2020
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Lago Albano, Roma, 2020
77
Garbatella, Roma, 2020
78
Terrazza del Pincio, Roma, 2020
79
Lungotevere, Roma, 2020
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Basilica San Paolo, Roma , 2020
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Piramide, Roma, 2020
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Piramide, Roma , 2020
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Ladispoli, Roma, 2020
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Lago Albano, Roma, 2020
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Morlupo, Roma, 2020
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Piazza del Popolo, Roma , 2020
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Morlupo, Roma, 2020
88
Bufalotta, Roma, 2020
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Morlupo, 2020
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Piazza di Spagna, Roma, 2020
91
Morlupo, 2021
92
Via Ostiense, Roma, 2021
93
Basilica San Paolo, Roma, 2021
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Basilica San Paolo, Roma, 2021
95
Via Ostiense, Roma, 2021
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Via del Corso, Roma, 2021
97
Ostiense, Roma, 2021
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Piazza della rotonda, Roma, 2021
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Il DOCUMENTARIO La seconda parte del mio lavoro consiste nella realizzazione di un documentario che racconti la situazione italiana di convivenza con il virus. Dopo un anno di pandemia, in cui abbiamo vissuto sicuramente una situazione difficile, mi sono chiesto cosa pensasse la gente di questa situazione e sicuramente questa mia curiosità, in relazione a tutto il percorso teorico, è il motore di questo lavoro. Per poter avere un’idea più chiara della situazione, ho creato un form di domande inerenti la situazione attuale, le differenze con la vita pre-covid, il cambiamento delle situazioni lavorative e molto altro. Il tutto in un form (anonimo) di 16 domande che ha ricevuto 52 risposte. Queste risposte mi hanno
permesso di capire meglio cosa dovevo fare e cosa docevo ricercare nella mia personale “indagine”. Studiando Il concetto di archivio della fotografia documentaria della vita e degli eventi vissuti dall’uomo mi ha portato, frutto di un naturale processo, a intraprendere questa strada. Il documentario è stato girato in formato FullHD 1920x1080 px con una Canon Eos 200d, il comparto audio è stato registrato in presa diretta con un registratore Tascam Dr-05x
1/16-PROFESSIONE Personale Scolastico
Liberi Professionisti 5,7%
15,4% Casalinghe
Pensionati 9,7%
1,9% Dipendenti
Disoccupati
26,9%
5,9% Personale Sanitario
Impiegati 5,8%
7,7%
Lavoratori precari
Studenti
3,8%
13,4% Avvocati 3,8%
100
2/16-COME È CAMBIATO IL SUO LAVORO POST COVID-19? Grazie allo smart-working ho avuto la possibilità di iniziare a lavorare
Abbastanza 25%
3,8%
Non è cambiato nulla 19,2% Il lavoro è cambiato drasticamente, sono avvocato, la giustizia in italia è ferma
Ho trovato impiego in una scuola al fine di fronteggiare l’emergenza 1,9% Mutato in smart-working
3,8% Non ho più lavorato, la gente ha paura dei contatti sociali
5,8% Crollo delle richieste 5,8%
3,8%
Molto più stressante
Il Covid-19 mi ha fatto perdere il lavoro
9,6%
5,8% L’insegnamento è stato stravolto, la scuola italiana non è mai stata pronta
Non trovo lavoro 5,8%
5,8%
3/16-COSA NE PENSA DELLO SMART-WORKING? Non mi piace
Manca il rapporto umano con i colleghi 15,4%
Buonissima idea
1,9% Da adottare anche post-pandemia
42,3% Soluzione occasionale
3,8% Meglio alternare presenza/online
11,5% Magari avessi possibilità di farlo
5,8% Non adatto a tutti i lavori 13,5%
5,8%
101
4/16-PREFERISCE LO SMART-WORKING O IL LAVORO IN PRESENZA? In presenza
Dipende dal tipo di lavoro 57.7%
3,8%
Smart-working
Una efficace alternanza
19,2%
7,7%
Non ho preferenza 11,5%
5/16-COME PASSAVA IL TEMPO LIBERO? (PRE-COVID) Dipendeva dalle giornate
Quasi come ora
13,5%
3,8%
Uscendo, facendo passeggiate, incontrando amici e uscendo la sera
Coltivavo i miei interessi e le mie passioni 15,4%
36,5%
Dedicavo il tempo libero per stare in famiglia
Facendo sport
5,8%
15,4%
Viaggiavo molto
Rilassandomi
3,8%
5,8%
102
6/16-COME LO PASSA ORA? Allo stesso modo di prima
Dedico più tempo a ciò che ho lasciato incompiuto
13,5%
7,7%
Stando a casa
Vivo la quotidianità con molte più restrizioni 1,9%
28,8% Vedo serie tv
Rilassandomi
9,6%
5,8%
Passo molto tempo su internet
Non ho più tempo libero
1,9%
7,7% Riuscendo ancora a fare sport
Lettura/Studio
13,5%
5,8%
Portando avanti progetti personali in quanto le uscite con gli amici si sono notevolmente ridotte 5,8%
7/16-HA FIGLI? Si
No 73,1%
26,9%
103
8/16-VANNO A SCUOLA? Si
No 67,3%
23,1%
Senza risposta 9,6%
9/16-COSA NE PENSA DELLA DAD? (DIDATTICA A DISTANZA) Non a favore
Favorevole 40,4%
7,7%
Soluzione momentanea
Funziona ma deve essere organizzata meglio
19,2%
17,3%
Non funziona completamente 15,4%
10/16-HA AVUTO SUCCESSO LA DAD? (DIDATTICA A DISTANZA) Si
No 30,8%
Non so 19,2%
40,4% A livello universitario bene, permette di gestirsi meglio 9,6%
104
11/16-QUANTE VOLTE, MEDIAMENTE, ESCE PER FARE ACQUISTI? (PRE-COVID) Dipende
Tutti i giorni 7,7%
1/2 volte a settimana
53,8% Il fine-settimana
25%
5,8%
Raramente 7,7%
12/16-QUANTE VOLTE COMPRA ONLINE? (PRE-COVID) Mai
Spesso 28,8%
Poco
26,9% Occasionalmente
21,1%
7,7%
Raramente 15,4%
13/16-QUANTE VOLTE COMPRA ONLINE? (PRE-COVID) Poco
Più di prima del covid 32,7%
Lo stretto necessario
7,7% Come prima del covid
19,2% Limito il più possibile
7,7% CIrca una volta al giorno
15,4%
17,3%
105
14/16-QUANTE VOLTE COMPRA ONLINE IN QUESTO PERIODO? Mai
Raramente 30,1%
9,6%
Spesso
Solo le volte in cui conviene 30,1%
9,6%
Sempre
Compro online per evitare contatti 13,5%
5,8%
15/16-QUANTO IL CORONAVIRUS HA CAMBIATO LE SUE ABITUDINI? Tanto
Tantissimo, abbiamo perso molti raporti sociali 32,7%
25%
Provoca in me un senso di disagio e ansia
Tanto, mi sta rovinando molte opportunità
3.8%
9,6%
Radicalmente
Ci sta impedendo di vivere la nostra vita normale 11,5%
17,3%
16/16-COSA LE MANCA DI PIÙ DELLA VITA PRE-CORONAVIRUS? Abbracciare e stare senza mascherina
I viaggi
25% La serenità
19,2% Il poter socializzare
15,4% Gli affetti e le uscite con gli amici
9,6% La spensieratezza
19,2%
11,5%
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FRAME/ANTEPRIMA DOCUMENTARIO
107
FRAME/ANTEPRIMA DOCUMENTARIO
108
FRAME/ANTEPRIMA DOCUMENTARIO
109
CONCLUSIONI: Questo percorso porta a capire l’importanza della documentazione fotografica. L a prova incontrovertibile che un evento è accaduto, o che non è accaduto, passa per la fotografia. Vedere significa sapere e, grazie alla fotografia, la pandemia di Covid-19 passerà alla storia. C’è però un profondo cambiamento nella documentazione attuale rispetto alla documentazione delle guerre e degli avvenimenti nefasti del passato: Oggi, rispetto al passato, le fotografie di piazze vuote e paesi deserti suscitano sentimenti diversi, forse nuovi, perché l’umanità è stata profondamente segnata da questa pandemia. Il profondo cambiamento è sicuramente nelle modalità del lavoro che il fotografo deve attuare per poter realizzare un lavoro di documentazione. Le difficoltà che il mondo della cultura sta attraversando sono innegabili e non possono non essere prese in considerazione, ma il mondo dell’arte non si è fermato. Documentare la situazione di un paese colto da una epidemia non è la stessa cosa che documentare una guerra o una carestia, il nemico non si vede, le armi in gioco sono i dispositivi anti-contagio, mascherine, guanti e quant’altro… Bisogna mantenere le distanze, rispettare le regole per poter continuare a lavorare in sicurezza. Grazie al progetto che ho realizzato che ha permesso di potermi calare nel ruolo di un fotoreporter che documenta la realtà di un paese scosso da una pandemia, ho potuto constatare che è stato un passo importante e fondamentale nella mia evoluzione personale. Ho visto tantissime persone, tutte completamente diverse tra loro, con le loro innumerevoli storie e situazioni personali ma con un’unica volontà, tornare ad avere una vita normale. Tentando di stare sempre un passo indietro rispet-
to alla realtà mi sono reso conto veramente dell’importanza di qualcosa che, da un giorno all’altro, viene persa, la normalità. In conclusione, a seguito della mia personale ricerca, posso affermare che, nonostante tutte le difficoltà che si possono incontrare, ci si può adattare al cambiamento, avendo sempre in mente ciò che la storia ci ha insegnato e sapendosi sempre, “reinventare”.
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RINGRAZIAMENTI: Ringrazio innanzitutto il professor Attardi, il suo aiuto e la sua direzione è stata importantissima e fondamentale per la riuscita di questo mio progetto. Dopodiché ringrazio tutti i professori che ho incontrato durante questo percorso, soprattutto per quello che, in questi ormai cinque anni di accademia, mi hanno insegnato. Ringrazio tutti i miei compagni, colleghi e amici di questo lungo percorso fatto insieme. Ringrazio anche la mia famiglia per avermi spronato e insegnato a dare sempre il massimo in qualunque situazione. Un pensiero va anche alla mia nipotina Aurora. Questo lavoro è anche per lei! Infine, ringrazio soprattutto Dalila per avermi supportato, e sopportato, in questi mesi intensi di prerarazione e studio.La ringrazio per avermi stimolato ed essere riuscita a farmi credere di più in me stesso e nelle mie idee. Grazie, grazie, grazie!
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112
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