2013 speciale selinunte storia di una (1)

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speciale • selinunte

selinunte storia di una cittĂ greca di sicilia

Per i primi coloni che sbarcarono nel VII secolo a.C. era la terra del selinon. oggi, la piú occidentale delle fondazioni elleniche torna alla ribalta, grazie a nuovi scavi, condotti dalla missione della new york university, e all’istituzione di un grande parco archeologico

di Stefania Berlioz; con contributi di Clemente Marconi, Caterina Greco e Mimmo Cuticchio


«Q

uesta città, abitata dalla sua fondazione per un periodo di 242 anni, fu dunque conquistata». Con queste parole Diodoro Siculo conclude la sua memorabile descrizione della presa di Selinunte da parte dei Cartaginesi, nel 409 a.C. (Hist., XIII, 54-59). Una frase lapidaria, che sintetizza ciò che, agli occhi di uno storico greco del I secolo a.C., era fondamentale sapere – e trasmettere ai posteri – sulla storia dell’antica colonia dorica di Sicilia: la sua nascita e la sua fine. Per quanto impossibile possa sembrare, volgendo lo sguardo alle sue rovine, cosí imponenti da sembrare opera di giganti, o contemplando le straordinarie testimonianze della sua cultura figurativa, della storia di Selinunte conosciamo assai poco. Le fonti antiche sono avare di notizie: qualche dettaglio sulla sua fondazione; i nomi – e poco altro –

dei due, forse tre tiranni che si imposero sulla scena politica locale nel corso del VI secolo a.C.; i rapporti conflittuali con la vicina Segesta, sfociati in epoca classica in conflitti di portata «internazionale».

Lacune e interrogativi Un quadro storico generale per noi prezioso, perché consente di ancorare la storia della città ad avvenimenti e date precise, ma che lascia ampie lacune, soprattutto per le epoche piú antiche: quali le cause che portarono alla fondazione di Selinunte? Quale l’impatto dei nuovi coloni con le popolazioni locali, indigene e non? Quando e in che modo è stato organizzato il territorio, come sono state distribuite le terre, pianificati gli spazi urbani? A queste domande contribuisce a rispondere l’archeologia, con il linguaggio che le è proprio: fornendo un quaSelinunte. I resti del tempio F. Creduto in passato opera del 550-540 a.C., l’edificio sembra invece databile, sulla base dei risultati acquisiti grazie alle ricerche piú recenti, al 520 a.C.

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dro concreto – che per Selinunte, come vedremo, si fa sempre piú ampio e articolato – all’interno del quale interrogarci sui dati offerti dalla tradizione storiografica e letteraria relativamente alle prassi delle fondazioni coloniali greche in Occidente. Nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., con la fondazione di Cuma sul golfo di Napoli (757 a.C.) e di Nasso (Naxos) sulla costa orientale della Sicilia (734 a.C.), prende avvio uno dei piú avvincenti e complessi capitoli della storia greca, a cui si dà il nome convenzionale di «colonizzazione d’Occidente». Per iniziativa di singole città greche (della Grecia propria, d’Asia Minore e poi delle stesse colonie), nell’arco di circa 250 anni vennero fondate colonie in tutto il bacino del Mediterraneo occidentale: in Italia meridionale e in Sicilia; lungo le coste meridionali della Francia e quelle orientali della Penisola iberica; in Libia, nome con cui i Greci indicavano il territorio a ovest dell’Egitto.

«Fuori di casa» Un fenomeno cosí ampio nello spazio e nel tempo da non poter essere analizzato globalmente: ogni fondazione, quanto a cause, sviluppi interni ed esiti finali, ha una storia a sé, che va ricostruita sulla base del contesto «di partenza» da cui mossero i coloni, ovvero la madrepatria, e al contesto «di arrivo», il luogo dello stanziamento della nuova comunità. Alla partenza allude la parola apoikía (letteralmente «fuori di casa»), termine con il quale le fonti greche di epoca classica indicano l’allontanamento di un gruppo di cittadini da una polis, una città, e il loro successivo insediamento in nuove terre. L’accento posto sul distacco dalla metropolis – la città madre – indica l’irreversibilità dell’evento: di fatto, al momento della partenza, la comunità assumeva piena autonomia politica e amministrativa. Sulla base della tradizione antica è possibile ricostruire, in linea generale, le tappe organizzative di un’impresa coloniale. Una volta presa la decisione politica di fondare una colonia, la comunità metropolitana provvedeva alla scelta dell’ecista (il fondatore), generalmente di estrazione aristocratica, e al reclutamento del primo nucleo di coloni, cittadini di tutti i mestieri e appartenenti a tutti i ceti sociali. Raggiunta la meta, i coloni provvedevano all’organizzazione razionale del territorio: venivano fissati i luoghi destinati al culto degli dèi; delimitati gli 76 a r c h e o

quel profumo di sedano selvatico...

Didramma di Selinunte al cui dritto è effigiata una foglia di selinon, pianta da cui probabilmente trae origine il nome della città, mentre al rovescio si osserva una partizione in dieci spazi dell’incuso, cioè dell’area che, come accade di frequente nella monetazione delle colonie magno-greche, si presenta incavata, invece che a rilievo. L’emissione è databile al 480-460 a.C. Collezione privata.

spazi a uso comunitario; suddiviso in lotti il resto del territorio (sia urbano che rurale) da distribuire, secondo un criterio di sostanziale uguaglianza, ai privati cittadini.

La madrepatria Selinunte è quella che si definisce una «sottofondazione», cioè un abitato sorto per iniziativa diretta di una colonia, Megara Iblea (Megara Hyblaea), a sua volta fondata, nel 728 a.C., da Megara, città greca presso l’istmo di Corinto. La data precisa della fondazione di Selinunte è controversa: Diodoro Siculo la pone al 651 a.C., 242 anni prima della conquista della città, avvenuta nel 409 a.C.;Tucidide al 628 a.C., cento anni dopo la fondazione di Megara Iblea. La questione, da molti decenni al centro di un acceso dibattito, non è mai stata definitivamente risolta, ma vedremo come i recenti scavi condotti sulla

fondazione calcidese

Materiali appartenenti a corredi funerari recuperati nella necropoli presso il torrente Santa Venera, a Nasso (Naxos). IV sec. a.C. Giardini-Naxos, Museo Archeologico Regionale. La città venne fondata da coloni calcidesi nel 736 a.C., sulla costa orientale dell’isola, in un’area di precedenti insediamenti neolitici, eneolitici e della prima Età del Ferro.


Cuma (1) Neapolis (15) Pithecusa Posidonia (2) Cartina nella quale sono indicate le piú importanti colonie di fondazione greca in Italia meridionale e Sicilia. In grassetto sono le città che, a loro volta, diedero vita a «sottofondazioni», come nel caso di Megara Iblea con Selinunte. La numerazione indica la provenienza dei coloni: 1. Calcide ed Eretria; 2. Acaia; 3. Focide; 4. Locride; 5. Colofone; 6. Mileto; 7. Rodii e altri; 8. Megara; 9. Corinto; 10. Thera; 11. Sparta.

Taranto (11)

Metaponto (2) Siri (5)

Elea (3)

Laus (2) Sibari (2)

Mar Tirreno

Crotone (2) Terina (2)

Hipponium (4) Medma (4)

Lipari (7)

Zancle (1)

Caulonia (2) Metauro (4)

Milazzo (1)

Locri Epizefiri (4) Reggio (1)

Nasso (1)

Imera (1)

Mar Ionio

Catania (1)

Selinunte (8)

Lentini (1) Agrigento (7)

Gela (7)

Megara Iblea (8) Akrai (9)

Siracusa (9)

Casmene (9)

Eloro (9)

Camarina (9)

N 0

100 Km

colonie greche in sicilia

Madrepatria

Colonia

750 a.C. 700 a.C. 650 a.C. 600 a.C.

Calcide Corinto Cuma e Calcide Naxos Megara Zancle Rodii e Cretesi Siracusa Megara Iblea Zancle Siracusa Siracusa Gela Cnido

Nasso (734) Siracusa (733) Zancle (730) Lentini e Catania (729) Megara Iblea (728) Milazzo (716) Gela (688) Akrai (663) Selinunte (651 o 628) Imera (649) Casmene (643) Camarina (598) Agrigento (580) Lipari (580-576)

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dalle origini alla distruzione 651-650 580-570 570 ca. 511-510

510 ca.

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Fondazione di Selinunte da parte di Megara Iblea (628 secondo la tradizione tucididea). Con un colpo di Stato, Terone, figlio di Milziade, instaura un regime tirannico a Selinunte. Fondazione della sub-colonia di Minoa. Spedizione in Sicilia dello spartano Dorieo. Cacciato dai Cartaginesi si rifugia a Minoa che, in memoria dell’avvenimento, muta il nome in Eraclea Minoa. Aiutati dallo spartano Eurileonte, i Selinuntini si liberano del tiranno Peitagoras e poi dello stesso Eurileonte, proclamatosi a sua volta tiranno. Nella battaglia di Himera, che vede contrapposta la grecità coloniale alla potenza cartaginese, Selinunte non partecipa alle azioni belliche, assumendo un atteggiamento filo-punico. Il filosofo Empedocle guida la bonifica dei fiumi della città. Segesta chiede aiuto ad Atene per risolvere

415-413

410

409 407

397

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una controversia territoriale e giuridica con Selinunte. Spedizione ateniese in Sicilia, a cui si oppone tutto il fronte greco-coloniale, con l’eccezione di Agrigento. Segesta, dopo il fallimento della spedizione ateniese, chiede aiuto ai Cartaginesi contro Selinunte. Dopo un assedio di nove giorni Selinunte viene conquistata e distrutta dai Cartaginesi. Il siracusano Ermocrate riconquista la città; alla sua morte (406) Selinunte torna in mano punica. Dionigi il Vecchio, tiranno di Siracusa, conquista Selinunte; nei successivi trattati con Cartagine la città è posta sotto controllo punico. Selinunte si allea alle altre colonie siceliote fautrici della venuta di Pirro in Italia. Definitiva distruzione di Selinunte da parte cartaginese, nel corso della prima guerra punica.

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collina detta «dell’Acropoli» sembrino avvalorare la datazione «alta», al 651. Nella seconda metà del VII secolo a.C. Megara Iblea, sulla costa orientale della Sicilia, è una città fiorente e in piena espansione. Non mancano certo i problemi, primo fra tutti la mancanza di terra: la popolazione è in continuo aumento ma, contestualmente, si è innescato un processo di accentramento delle terre disponibili nelle mani di una ristretta cerchia di possidenti, i pachéis, i grassi. L’entroterra di cui la colonia dispone è assai vasto, ma non suscettibile di ulteriori ampliamenti: a nord è il (segue a p. 82) 78 a r c h e o

Tempio e Dedicato a Era, l’edificio, rispecchia oggi la fisionomia assunta intorno alla metà del V sec. a.C. Le fronti della cella del tempio erano ornate con metope figurate realizzate con calcarenite locale e con marmo, utilizzato per le parti nude delle figure femminili. È una delle realizzazioni piú significative della grande stagione vissuta dall’architettura templare selinuntina all’indomani della vittoria riportata dai Greci sui Cartaginesi nel 480 a.C. a Himera; una stagione che si protrae sino alla prima distruzione della città, nel 409 a.C.


dolce come il miele

Strutture comprese nel recinto sacro dedicato a Zeus Meilichios («dolce come il miele»), appellativo che connotava il padre degli dèi come divinità infera. Il complesso si trova nei pressi del santuario di Demetra Malophoros («portatrice di frutti»).

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Santuario di Demetra Malophoros

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Area dell’antica Città

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Necropoli

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Baglio Florio (Antiquarium)

Marinella di Selinunte

Tempio G Tempio F Tempio E

Piazzale Iole Bovio Marconi

1

Acropoli Necropoli

Foce del Fiume

Ingresso Parco Archeologico

Tempio D 3 Tempio C Tempio B Tempio A Porto Tempio O (interrato) Torre Polluce Foce del Fiume

Stazione Piazza Stesicoro

P.le Martiri Selinuntini Piazzale Dune delle Metope

Piazzale Efebo

Piazza Empedocle

Mar Mediterraneo

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tempio c I resti del tempio C,

uno dei primi innalzati a Selinunte, e oggetto di una parziale ricostruzione nel 1924-26. È uno dei piú antichi esempi di architettura templare dorica esistente, essendo datato intorno alla metà del VI sec. a.C.

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la città tra due fiumi Disegno ricostruttivo ipotetico della città di Selinunte, cosí come potremmo immaginarla prima del 250 a.C.,

anno della sua distruzione da parte dei Cartaginesi, nel corso della prima guerra punica.

In un periodo collocabile tra il IV e il III sec. a.C., il santuario dedicato a Zeus Meilichios viene ri-consacrato a Tanit e Baal Hammon, divinità del pantheon cartaginese.

Sul lato meridionale, l’acropoli di Selinunte era lambita dal mare: era stata perciò cinta da mura poderose e le porte disponevano di apprestamenti difensivi molto avanzati, cosí da poter resistere anche ad assedi portati a oltranza.

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L’abitato si sviluppò in due comprensori principali: il primo nella zona immediatamente a ridosso del porto e il secondo, piú vasto, nell’altopiano compreso tra i corsi del Modione e del Gorgo Cottone.

L’ampia disponibilità di terre coltivabili fu una delle motivazioni che indussero i coloni di Megara Iblea a scegliere il sito di Selinunte per la fondazione del nuovo insediamento.

Innalzato nella zona piú settentrionale della collina orientale di Selinunte, il tempio G è uno dei piú grandi dell’antichità classica. Le dimensioni colossali inducono a ritenere che fosse dedicato a Zeus.

All’indomani della conquista cartaginese di Selinunte, nel 409 a.C., l’area orientale della città fu abbandonata.

Per la divinità titolare del tempio F sono state avanzate diverse proposte di identificazione: Atena, Dioniso o forse anche Fobo, demone della religione greca personificante la paura.

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territorio della colonia calcidese di Lentini (Leontinoi), a sud quello della potente Siracusa, città di fondazione corinzia; a ovest, a chiudere la piana costiera su cui è stanziata Megara, sono gli insediamenti dei Siculi. Non c’è possibilità di espansione, se non attraverso un pericoloso intervento militare. Ma i nuovi coloni, che a ondate continuano a sopraggiungere dalla madrepatria greca, si aspettano l’assegnamento di un lotto di terra. È un loro diritto, lo dice la legge, il sacro e inviolabile principio dell’isomoira, «l’uguaglianza nel possesso». Cresce il malcontento popolare, foriero, come sempre succede, di disordini sociali e instabilità politica. Una nuova impresa coloniale potrebbe essere una soluzione, una vera e propria valvola di sfogo: la madrepatria si alleggerirebbe di qualche problema

due acropoli per la città madre Centro politico della Megaride, piccola regione della Grecia centrale posta fra Attica, Beozia e l’Istmo di Corinto, la città di Megara conosce la sua massima fioritura tra l’VIII e il VI secolo a.C. Insieme alle città euboiche di Calcide ed Eretria, e alla vicina Corinto, riveste un ruolo di primo piano nella piú antica fase della colonizzazione greca, indirizzando i suoi interessi in Sicilia e in Propontide. Il contrasto fra la documentazione archeologica megarese e quella delle colonie di Megara Iblea e Selinunte è quasi scioccante: la cittadina moderna, sovrapposta all’antica, ha reso impossibili indagini estensive. Tutto quel che conosciamo della topografia urbana lo desumiamo dalla tradizione letteraria. La piú ampia e articolata descrizione della città e dei suoi monumenti è offerta da Pausania (I. 39-44), che raggiunge Megara da Eleusi, attraverso la grande arteria di collegamento che unisce l’Attica al Peloponneso. La città si estendeva (come ai nostri tempi) su una vasta pianura dominata da due modeste alture che fungono da acropoli: detta «caria» quella orientale, «di Alcatoo» quella occidentale. La sella di collegamento tra le due acropoli era probabilmente sede dell’agorà cittadina. Particolarmente interessante la descrizione della topografia

interno; chi parte potrebbe coltivare la speranza di una vita migliore, nuove terre e, con un po’ di fortuna e spirito di iniziativa, una posizione sociale non subalterna.

nuove prospettive La decisione coinvolge tutta la comunità megarese, sia coloniale che metropolitana: gli interessi in gioco sono molti, non ultimi quelli commerciali. Il luogo prescelto per il futuro insediamento – probabilmente già oggetto di perlustrazioni – si trova sulla costa sud-occidentale della Sicilia, lontano dalle aree di addensamento delle colonie greche. Si aprono nuove prospettive, sia per i traffici transmarini che per quelli diretti al mercato interno. A suggello della decisione, e della comunanza di interessi, la madrepatria Megara invia in Sicilia il fondatore della colonia, Pammilo. Tutto è pronto per la partenza: la flotta, con il suo prezioso carico di uomini esce dal porto di Megara Iblea. Non esistono bussole o carte nautiche cui fare affidamento; le tecniche di navigazione del tempo si basano sostanzialmente sulla conoscenza delle linee costiere e dei fondali, sulla capacità di prevedere e interpretare i fenomeni naturali, sul buon senso del comandante della spedizione. Si fa rotta verso sud, costeggiando il territorio della nativa Megara, a cui segue quello di Siracusa, con (segue a p. 86) 82 a r c h e o


cultuale delle due acropoli, per i rapporti, spesso invocati nella letteratura archeologica, con quella delle colonie siceliote di Megara Iblea e soprattutto Selinunte. Sull’acropoli caria il Periegeta segnala un tempio dedicato a Dioniso Nyktelios (in riferimento alle orge notturne celebrate per la morte e resurrezione del dio), un santuario di Afrodite Epistrophia («colei che spinge gli uomini verso l’amore») e il megaron di Demetra. Sull’acropoli di Alcatoo nota invece un tempio di Atena, un tempio di Apollo Pizio e un santuario di Demetra Thesmophoros. Demetra, con i due luoghi di culto acropolitani ai quali va aggiunto quello extraurbano della Malophoros, in prossimità del porto di Nisea, sembra rivestire un ruolo di primo piano nel pantheon cittadino. Lo stesso nome della città, secondo una tradizione locale riportata da Pausania, deriverebbe dai megara, le cavità sotterranee impiegate nei misteriosi rituali, tutti al femminile, celebrati in onore della dea. Nella pagina accanto: maschera votiva, dal santuario di Demetra Malophoros. V sec. a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».

Statua votiva in terracotta, dal santuario di Demetra Malophoros. V sec. a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».

In basso: veduta aerea dei resti di Megara Iblea, città da cui partirono i coloni che, nel 651 (o 628) a.C. diedero vita a Selinunte.

I coloni guidati da Pammilo fanno rotta verso sud, navigando, come diceva Omero, «verso la notte» a r c h e o 83


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Il Parco delle meraviglie La storia di Selinunte è segnata da una duplice fondazione: quella del megarese Pammilo, ovvero della nascita; quella della creazione del Parco Archeologico di Selinunte, ovvero della rinascita. Quest’ultima ha posto fine allo scempio provocato dall’abusivismo edilizio, giunto a lambire i templi della collina Orientale. Ciò insegna che un «bene» non è di per sé «culturale». Lo diventa solo se percepito e vissuto come tale da tutta una comunità. Come possiamo intuire leggendo il contributo del Direttore del Parco Archeologico, Caterina Greco, occorrono impegno, entusiasmo e creatività. Allora tutto può succedere... «Dal settembre del 2010 il Parco di Selinunte e Cave di Cusa “Vincenzo Tusa”, che l’amministrazione regionale ha voluto significativamente intitolare allo studioso e soprintendente archeologo che in tempi non facili assicurò al pubblico demanio una della aree archeologiche piú vaste del Mediterraneo, è una nuova realtà istituzionale dotata di autonomia gestionale e scientifica. Con i suoi 270 ettari, piú i 40 delle Cave di Cusa (dove si possono ancora ammirare i rocchi di colonna pronti per essere trasportati e messi in opera nelle imponenti architetture templari selinuntine), il Parco di Selinunte è, dopo quello della Valle dei Templi di Agrigento, il piú ampio e articolato della Sicilia. Ma, emergendo su tutti gli altri luoghi del Mediterraneo, il sito emana una suggestione unica e incomparabile, giacché comprende l’intero ambito topografico e urbanistico di tutta una città antica, compresi i santuari extramurari, le aree portuali e brani delle un tempo immense necropoli; compendiando, insomma, e al suo 84 a r c h e o

di Caterina Greco massimo livello, l’esperienza stessa dell’incontro con la civiltà greca. Sulla base delle normative in vigore presso la Regione Siciliana, che ha piena autonomia legislativa e organizzativa nel settore dei beni culturali e ambientali, il Parco, oltre alle zone demaniali di naturale pertinenza di Selinunte e Cave di Cusa, include un’area assai piú vasta che assorbe le aree archeologiche sia dei Comuni eponimi di Castelvetrano e Campobello di Mazara che di quelli limitrofi. La fase di definizione e perimetrazione del territorio del Parco, che prevede un iter complesso, è tuttora in corso, ma a nostro avviso per potere dispiegare al meglio le sue enormi potenzialità in termini di valorizzazione culturale esso dovrà aggregare funzionalmente varie realtà culturali, secondo un’impostazione interdisciplinare direttamente discendente dall’art. 101 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004 che amplia (sia in senso geografico che storico-culturale), la definizione di «parco» individuata dagli attuali strumenti legislativi (legge regionale n. 20/2000). Ne dovranno far parte in primo luogo i territori comunali del Trapanese legati, fin dalla sua fondazione, all’area di penetrazione della colonia greca: quindi le porzioni meridionali della Valle del Belíce, significativamente emergenti nelle dinamiche insediative sin dal Neolitico e soprattutto nelle età del Medio e Tardo Bronzo che costituiscono «l’antefatto» della successiva esperienza coloniale, e l’area rivolta verso la cuspide sud-occidentale della Sicilia, dove la nascita dell’emporium portuale di Mazara, promossa dai coloni selinuntini, rappresentava la punta avanzata


Sulle due pagine: una veduta dell’area archeologica di Selinunte, oggi compresa nel Parco di

Selinunte e Cave di Cusa «Vincenzo Tusa». Nel riquadro:

Cave di Cusa (Campobello di Mazara). Rocchi di colonna semilavorati, ancora attaccati al banco roccioso dal quale erano stati ricavati.

dell’elemento greco lungo la frontiera, politicamente e militarmente instabile, nell’area popolata dai Greci di Selinunte, dai Fenici di Mozia, dai nuclei sicani dell’entroterra e dagli Elimi di Erice, Segesta, della vicinissima Entella. A oriente, invece, lungo la sponda sinistra e oggi agrigentina di quello stesso fiume Belíce (Hypsas) che costituisce il principale asse di penetrazione della viabilità antica in questo settore della Sicilia occidentale, l’area di pertinenza «selinuntina» si spinge alla limitrofa Menfi, dalle cui cave di Misilbesi veniva estratta la pietra utilizzata per le sculture architettoniche selinuntine, e fino a Sciacca, l’antica statio delle Thermae Selinuntinae sorta sulla grande via di comunicazione greca (la selinuntina odòs di cui parlano le fonti classiche e l’Itinerarium Antonini) che da Akrai giungeva sino a Selinunte, collegando tutte le fondazioni greche della costa meridionale della Sicilia e gli insediamenti immediatamente limitrofi al litorale mediterraneo (come il sito di Rocca Nadore e il Monte Kronio nel comprensorio saccense). Lo sviluppo di vari tipi di itinerari archeologici, relativi alla preistoria e protostoria, al periodo greco-romano, alle epoche musulmana e medievale, che si intersecano all’interno dell’ambito territoriale delineato disegnando ulteriori tappe di altrettanti percorsi culturali, è la prima e naturale vocazione del Parco. Ma, oltre a questa connotazione, l’area annovera numerose e pregevoli valenze paesaggistiche, tra le quali spiccano diverse Riserve Naturali (quella della Foce del fiume Belíce, il complesso delle «sciare» della Riserva dei Gorghi Tondi e Lago Preola che si

estendono tra Capo Granitola (Campobello di Mazara) e Cave di Cusa; la Riserva Naturale di Monte Finestrelle e delle Grotte di Santa Ninfa, da cui nasce il fiume Selinos-Modione), mentre non meno importante è la testimonianza offerta dalla straordinaria sperimentazione di arte e architettura contemporanea dei paesi belicini distrutti dal terremoto del 1968, in un territorio in cui anche il verificarsi di sismi violentissimi costituisce un elemento di significativa «continuità» fenomenica, dall’antichità ai nostri giorni. Oggi l’intensa attività culturale del Parco si snoda tra ricerca scientifica (nel sito operano le missioni archeologiche della New York University e dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma), restauri e opere di valorizzazione (sono in dirittura d’arrivo i bandi dei progetti del parco finanziati con fondi europei per quasi 9 milioni di euro), convegni e conferenze a tema (i nostri cicli di «Incontri del Baglio Florio»). Altrettanto prioritaria è l’attenzione per ogni forma di contaminazione culturale che unisca l’archeologia al contemporaneo (nell’architettura, nelle arti visive, nel teatro, nella poesia), da cui scaturiscono le molteplici iniziative svolte in collaborazione stabile con la Fondazione Orestiadi di Gibellina, con l’AIAC (Associazione Italiana di Architettura e Critica), con quello straordinario aedo-teatrante che è Mimmo Cuticchio: in nome di un dialogo «oltre il tempo» che può costituire un’occasione di riappropriazione della cultura classica in grado di fornire, soprattutto alle nuove generazioni, spunti originali di interesse, di scoperta e di confronto. Contro ogni tentazione di staticità, e di omologazione». a r c h e o 85


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l’avamposto di Eloro a segnarne il confine meridionale. Oltrepassato Capo Pachino (Capo Passero), estrema punta della Trinacria sul Mediterraneo, si veleggia verso Occidente. Una rotta battuta sin dai tempi antichi, ma pur sempre piena di incognite. Si va «verso la notte», diceva un tempo Omero. Non doveva essere molto diverso per i coloni greci del VII secolo. L’ultimo avamposto della grecità in Sicilia è Gela, città fondata da coloni rodii e cretesi. Altri abitano le terre che seguono, sono barbari: le tribú guerriere dei Sicani, i misteriosi Elimi arroccati nelle città di Erice e Segesta, e poi i Fenici, commercianti e grandi esperti nell’arte della navigazione. Hanno basi a Mozia, Solunto, Panormo (Palermo), ma il loro regno è il mare, su cui dominano incontrastati. La nuova colonia megarese, la piú occidentale di Sicilia, si preannunzia da subito come una città di frontiera.

Lo smarrimento dei coloni Possiamo solo immaginare lo stato d’animo dei partecipanti all’impresa, quel senso di smarrimento che coglie l’uomo quando lascia il proprio mondo e s’avventura per mare, verso l’ignoto. Tutti, dall’aristocratico Pammilo sino al piú umile dei servi, sono accomunati da uno stesso destino, forse da uno

stesso sentire. Il poeta Archiloco di Paro, che nel VII secolo a.C. visse personalmente un’analoga esperienza coloniale, ci ha lasciato questi versi indimenticabili, che val la pena condividere: «In bilico tenevano la barca // sul filo dell’onda e del vento. // Oh, quante volte // su le bianche ricciute onde del mare // implorammo il dolce ritorno (traduzione

Una mescolanza di genti, culture e popoli Le popolazioni indigene della Sicilia non hanno lasciato una tradizione letteraria scritta. Quel poco che conosciamo sulle loro vicende storico/politiche lo dobbiamo agli storici greci che manifestano un certo interesse per quel mondo «altro» solo nel momento dell’incontro o dello scontro. Tucidide ci ha lasciato un celebre excursus geografico ed etnografico sulla Sicilia pre-greca e greca (Hist., VI, 2). Questa «divagazione» è funzionale allo specifico argomento trattato nel VI libro della sua Storia del Peloponneso, ovvero la spedizione di Atene in Sicilia, condotta tra il 415 e il 413 a.C. Gli Ateniesi, a suo dire, andarono incontro al fallimento perché non avevano la

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piú pallida idea dell’estensione dell’isola e del numero dei suoi abitanti. Da questa constatazione prende avvio il lungo excursus. Furono i Ciclopi e i Lestrigoni, secondo lo storico greco, i primi leggendari abitatori dell’isola, dei quali «non sono in grado di indicare la stirpe, né il luogo di provenienza né la fine che fecero». Dopo di loro sopraggiunsero i Sicani, cui si deve il nome dell’isola: Sikania. Lo storico li considera di origine iberica, ma prende nota del fatto che essi stessi si consideravano autoctoni. Ai tempi della colonizzazione greca dell’isola, i Sicani, sotto la spinta della popolazione dei Siculi, sopraggiunta dalla Penisola italica, si ritirarono nel settore centro-occidentale

dell’isola. Qui si unirono a fuggiaschi troiani e focesi formando il nuovo ethnos degli Elimi, le cui roccaforti, Erice e Segesta, erano collocate nell’estrema punta occidentale dell’isola. Una mescolanza di genti, culture e popoli, tutti provenienti da fuori. La storicità di questa ricostruzione è stata spesso messa in discussione. Ma questo racconto – uno dei tanti sulle origini delle popolazioni anelleniche – piú che preso alla lettera, va interpretato. Per i Greci, dare un’identità e una precisa origine (spesso greca o troiana) ai popoli con cui venivano in contatto corrispondeva a un bisogno profondo, un modo per sottrarli alla loro alterità e integrarli in un mondo conosciuto.


Materiali provenienti dallo scavo nel tempio R della missione statunitense che opera a Selinunte (vedi alle pp. 88-89): un frammento di una grande oinochoe (brocca per vino) con fregio animale, databile al 630 a.C. circa (in alto, a sinistra); un flauto in osso (in basso).

di ManaraValgimigli). Ma ormai non c’è piú tempo per la malinconia. La costa si apre in un vasto golfo, compreso fra gli attuali Capo San Marco e Capo Granitola. Pammilo fa un cenno ai suoi compagni: la meta è raggiunta. Visto dal mare, il luogo scelto per il nuovo insediamento appare favorevole, sotto tutti i punti di vista: un promontorio a picco sul mare, delimitato su entrambi i lati da profonde insenature, sbocco naturale di due fiumi, il Gorgo Cottone a est, il Modione – antico Selinos – a ovest. Un sito facilmente difendibile da attacchi esterni, con due baie perfette per l’attracco delle navi e valli fluviali attraverso le quali penetrare agevolmente nell’entroterra. Completate le operazioni di sbarco, ha inizio la perlustrazione del sito. Ad attirare l’attenzione dei primi coloni è una pianta, l’appio palustre, una specie di sedano selvatico che cresce spontaneamente lungo il corso dei fiumi locali. Il suo nome greco è selinon. Non sappiamo per quale motivo – ne conoscevano forse le proprietà terapeutiche, o era sacra a un dio –, ma proprio dal selinon deriva il nome della colonia, Selinunte, e la stessa pianta verrà adottata come simbolo della città nelle prime emissioni monetali.

un sito ideale Risalito il pendio della collina, Pammilo e i suoi compagni raggiungono la sommità del promontorio prospiciente il mare (la collina detta dell’Acropoli). Quello che da lontano sembrava solo uno sperone roccioso è in realtà un ampio pianoro, dal quale si ha una visione completa di tutta l’area circostante: alle spalle un secondo e ancora piú vasto plateau (la collina di Manuzza), collegato all’Acropoli attraverso una lingua di terra piana, futura sede dell’agorà (la piazza pubblica) cittadina. All’orizzonte, oltre le valli fluviali, sono due dorsali collinari altrettanto sopraelevate rispetto al livello del mare: a est la collina Orientale, a ovest le morbide colline di contrada Gaggera.Tutto intorno distese di fertili terre, a perdita d’occhio. Il primo quesito riguarda l’identità delle genti che i Greci potrebbero aver trovato al momento del loro arrivo: le aree di stanziamen-

Particolare di un bracciale in bronzo, recuperato anch’esso nel corso degli scavi condotti nell’area del tempio R dalla missione dell’Institute of Fine Arts della New York University.

to delle colonie erano raramente eremos chora, una terra incolta, abbandonata. Nel settore piú settentrionale del pianoro di Manuzza sono stati rinvenuti, al di sotto dei livelli riferibili al VI secolo a.C., resti di capanne dalla pianta absidale associati a ceramica di produzione indigena. Questi resti sono stati interpretati come la prova dell’esistenza di un abitato «sicano» nell’area di stanziamento della colonia. Ma non si può escludere, in verità, che si tratti delle abitazioni dei primi coloni: ceramica indigena mista a ceramica di produzione greca è stata infatti rinvenuta in altri contesti, sicuramente attribuibili alla prima fase di vita della colonia. La presenza di ceramica indigena indica comunque che esistevano contatti e scambi fra Greci e le comunità locali – sicane ed elime – stanziate nell’entroterra. I coloni sono arrivati con la precisa intenzione di conquistare e prendere possesso di un territorio ma, almeno in un primo momento, i rapporti sembrano impostati sul piano di una pacifica convivenza. Incombevano, del resto, altre priorità: c’è una comunità da organizzare, una città da costruire. Ma dei primi e fondamentali passi ci racconta Clemente Marconi, direttore della missione archeologica statunitense che ha recentemente indagato il settore piú meridionale (segue a p. 90)

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speciale • selinunte

nel solco di una tradizione prestigiosa Intervista a Clemente Marconi Docente alla New York University, Clemente Marconi (foto qui accanto) guida la missione archeologica alla quale si devono acquisizioni di primario interesse per la storia di Selinunte. Lo abbiamo perciò incontrato, invitandolo a tracciare un bilancio delle ricerche piú recenti.

◆ P rofessore, dopo quasi 200 anni

di ricerche archeologiche, Selinunte riserva ancora grandi sorprese. Quali sono stati i risultati delle ultime indagini? La campagna di scavo dell’estate 2012, all’interno della cella del tempio R, presso l’entrata, ha permesso di stabilire che, verso la fine del IV secolo a.C., l’interno di questo edificio è stato oggetto di uno spesso riempimento, alto piú di 1 m, accuratamente formato da livelli successivi di anfore da trasporto, terra e tegole. Nel rialzare in misura considerevole il pavimento all’interno dell’edificio, questo riempimento ne ha anche sigillato le fasi arcaica e classica, rimaste finora inesplorate. Abbiamo cosí potuto individuare tre piani pavimentali, databili rispettivamente all’età tardo-classica (quando si mettono in opera i pilastri di sostegno del tetto al centro della cella), all’età classica (con tracce di incendio e distruzione plausibilmente associabili con la violenta presa cartaginese di Selinunte nel 409 a.C.), e all’età arcaica (con buona parte delle offerte votive deposte contro i muri della cella: vasi per libagione, ceramica fine, oggetti di ornamento personale, armi, terrecotte figurate, e un flauto in osso). Al di sotto del livello di fondazione del tempio dei primi decenni del VI secolo a.C., sono stati poi identificati due fori di palo che, in base all’orientamento e alle dimensioni, sono meglio interpretabili come i supporti centrali di un edificio di culto, di cui, negli anni passati, abbiamo messo in luce tracce del pavimento e dei muri perimetrali. Tale edificio può datarsi al terzo quarto del VII secolo a.C., grazie al rinvenimento di ceramica corinzia, in particolare una grande oinochoe

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conica con fregio animale (630 a.C. circa) che trova confronti puntuali con vasi del Protocorinzio Tardo e del principio della fase Transizionale (foto a p. 86).

◆ C he cosa implicano questi nuovi

dati dal punto di vista della ricerca su Selinunte e, piú in generale, sulla storia delle colonie greche in Sicilia? Con ogni probabilità, abbiamo identificato il luogo di culto piú antico della colonia greca di Selinunte, riferibile al momento stesso della fondazione (se si segue la datazione tucididea al 628-627), o comunque ai primi decenni di vita (seguendo la datazione alternativa al 651-650 proposta da Diodoro). Non c’è dubbio che il proseguire delle nostre ricerche porterà un contributo significativo al tanto discusso problema della data di fondazione di Selinunte. Al momento, possiamo già dire che, come era da aspettarsi leggendo le fonti letterarie, nel VII secolo la definizione delle principali aree sacre delle colonie, e la costruzione dei templi delle divinità, erano effettivamente uno dei primi atti eseguiti dai coloni dopo la fondazione. ◆ P arliamo di culto: che cosa si può dire, alla luce delle nuove scoperte, circa la divinità venerata nel tempio R? Nei nostri scavi abbiamo identificato, all’interno e all’esterno del tempio R, una quantità significativa di materiali votivi e di resti ossei di animali sacrificati. Non c’è dubbio che la divinità del tempio R fosse femminile: ce lo indicano i numerosi frammenti di pissidi con funzione votiva, e le terracotte figurate, tra le quali un bel

busto policromo femminile della prima età severa e una statuetta di dea con polos (copricapo di forma cilindrica, n.d.r.)e mantello in stile dedalico, databile ai primi decenni del VI secolo a.C.; quest’ultima è stata rinvenuta accuratamente incastrata nel pavimento del tempio arcaico, e rappresenta al meglio l’immagine della dea al momento della costruzione del tempio R. La divinità aveva un carattere poliadico (cioè di protettrice della città, n.d.r.), dato il rinvenimento di un cospicuo numero di armi, principalmente lance in ferro. Dovendo proporre un nome, le principali candidate sono Artemide e Demetra: propendiamo per quest’ultima, anche in base alla netta prevalenza di maiali tra i resti ossei di animali sacrificati, rinvenuti all’interno e all’esterno dell’edificio. L’identificazione del tempio R come luogo di culto dedicato a Demetra ha il suo fascino, considerato che gli altri grandi templi del santuario, C e D, sono attribuibili, rispettivamente, ad Apollo e ad Atena, e che la stessa triade di divinità – Demetra, Apollo e Atena – è documentata sull’acropoli principale di Megara, in Grecia. Si avrebbe perciò nel principale santuario urbano di Selinunte la replica della topografia dei culti della madrepatria.

◆ L a missione statunitense da lei

diretta opera dal 2006. In quale settore del sito archeologico si sono concentrate le ricerche? La missione dell’Institute of Fine Arts-NYU ha intrapreso, in


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In alto: planimetria dell’area indagata dalla missione statunitense diretta da Clemente Marconi. A sinistra: veduta aerea dei resti del tempio R.

convenzione prima con la Soprintendenza di Trapani e ora con il Parco Archeologico di Selinunte, una nuova indagine topografica, architettonica, e archeologica del settore meridionale del grande santuario urbano della colonia megarese. Il grande santuario urbano occupa grosso modo il centro della cosiddetta Acropoli, una delle due colline che formavano il nucleo della città di età arcaica e classica. L’area del santuario è segnata da un notevole numero di edifici sacri, compresi due templi peripteri – C e D – e diversi altari. In particolare, il settore meridionale del grande santuario include, oltre a uno dei principali luoghi di accesso all’area, il tempio B (300 a.C. circa) e il relativo altare – uno dei principali luoghi di culto di Selinunte in età ellenistica –, il tempio R, collocato a ovest del precedente, e a sud un grande edificio a gradini meglio identificabile come un teatro rettilineo realizzato per assistere a spettacoli associati principalmente al tempio R.

◆Q uale intuizione l’ha spinta a

riprendere gli scavi sull’acropoli? Selinunte è meglio nota per i suoi templi, indagati soprattutto nel corso dell’Ottocento e nella prima parte del Novecento. Lo studio e la pubblicazione di questi edifici sono stati in genere limitati all’indagine architettonica e alla decorazione scultorea. Meno si è fatto in termini di scavo stratigrafico e di studio della dimensione rituale attraverso l’analisi dei manufatti e dei resti faunistici. Di fatto, molti templi di Selinunte sono privi di contesto archeologico e antropologico: è questa una delle grandi ironie del nostro sito, e un vuoto di conoscenza al quale stiamo cercando di ovviare con le nostre ricerche.

dell’archeologia. L’interesse per l’archeologia classica ha una lunga tradizione, che risale a Karl Lehmann (1894-1960), il grande archeologo di Samotracia, al quale si deve anche la creazione dell’Archaeological Research Fund della New York University. Il santuario dei Grandi Dèi nella greca Samotracia, Afrodisia in Turchia, Abido in Egitto e ora Selinunte sono le missioni dell’IFA: l’importanza assegnata all’archeologia nasce dalla profonda convinzione che lo studio della storia dell’arte e dell’architettura debbano partire da un esame diretto e contestuale delle opere. In questo senso, l’archeologia è parte essenziale della nostra missione intellettuale ed educativa. La Duke House, che dal 1958 ospita l’Institute of Fine Arts della New York University.

◆ L a New York University è uno

dei piú prestigiosi atenei statunitensi. Quali sono, secondo lei, i punti di forza e le eccellenze di questa istituzione? L’Institute of Fine Arts è uno dei principali centri al mondo per lo studio della storia dell’arte e

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Bronzetto fenicio proveniente dalle acque al largo di Sciacca. XIII sec. a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».

del grande santuario urbano, sulla collina dell’Acropoli (vedi l’intervista alle pp. 88-89). Abbiamo lasciato Pammilo e i suoi compagni a radunare le forze dopo le fatiche del viaggio. Le prime energie vengono spese per la costruzione di case. Le testimonianze archeologiche sono, al proposito, estremamente frammentarie e di problematica interpretazione. Si ipotizza che il primo stanziamento fosse caratterizzato da nuclei sparsi di abitazioni, dislocati sul pianoro di Manuzza e, probabilmente, sulla valle del Gorgo Cottone, non lontano dal luogo dello sbarco: al di sotto della cinta muraria del VI secolo a.C. sono stati rinvenuti lacerti di muri pertinenti a strutture rettangolari, interpretate come abitazioni monocellulari. Una piccola necropoli (detta «arcaica»), con sepolture a incinerazione entro olle, si estendeva alle pendici meridionali della collina di Manuzza, nell’area poi occupata dall’agorà.

un rapporto privilegiato Abitazioni per gli uomini, dunque, e sepolture per i defunti. Ma non solo: non si può fondare una città senza la tutela degli dèi, che vanno onorati celebrando sacrifici e costruendo per

I Fenici in Sicilia Secondo la tradizione tucididea, l’arrivo dei Fenici in Sicilia precede quello dei coloni greci di epoca storica. Essi strinsero relazioni commerciali con i Siculi, ottenendo il permesso di insediarsi nei promontori e nelle isolette disseminate lungo le coste dell’intera isola. «Ma quando i Greci cominciarono ad arrivare in massa dal mare ne abbandonarono la maggior parte e, concentratisi nei pressi del territorio degli Elimi, occuparono Mozia, Solunto e Panormo, fidando nell’alleanza con gli Elimi, nonché nel fatto che in quel punto Cartagine si trova alla minima distanza, via mare, dalla Sicilia»(Thuc., Hist., VI, 2, 6). Dal punto di vista archeologico la presenza fenicia in Sicilia diventa tangibile, a livello di insediamenti, solo in concomitanza dell’arrivo dei coloni greci, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. Prima di questa data, le testimonianze che suggeriscono una frequentazione dell’isola da parte fenicia sono costituite da materiali di importazione, soprattutto perline in pasta vitrea, rinvenuti in contesti indigeni. Questa frequentazione, riferibile a un arco cronologico compreso tra il X e l’VIII secolo a.C., è stata messa in relazione con la fine della talassocrazia micenea in Occidente (XII-XI secolo a.C.), che avrebbe aperto le vie dei mari al commercio fenicio. A un orizzonte ancora piú antico (XIII secolo a.C.) si riferisce una statuetta bronzea di divinità fenicia rinvenuta al largo di Sciacca. Si tratta, al momento, dell’unico, isolato indizio di una precoce frequentazione fenicia dell’isola, fatto su cui insistono le fonti letterarie antiche.

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loro una casa. Il tempio – indipendentemente dalla sua forma architettonica – è la piú alta espressione dell’identità e dell’affermazione politica, culturale ed economica della città greca e delle sue élite dirigenti. Selinunte, oggi possiamo dirlo, non sfugge a questa regola. Il piú antico edificio di culto è, come si legge nell’intervista a Marconi, dedicato a Demetra, divinità conosciuta e venerata in tutto il mondo greco, siceliota in particolare. Ma tra Demetra, Megara e Selinunte sembra esistere un rapporto privilegiato: la dea riveste un ruolo di primo piano nel pantheon della metropoli greca, come mostrano le aree di culto collocate sulle due acropoli cittadine e in area extraurbana, in prossimità dell’insediamento portuale di Nisaea. A Selinunte sembrerebbe profilarsi una situazione analoga, con il sacello sull’acropoli e il santuario extraurbano di Demetra Malophoros («portatrice di frutti»), sulla collina della Gaggera, non lontana dalle foci del fiume Selinos (attuale Modione). Le colonie non sono create a immagine e somiglianza delle città d’origine ma, a giudicare dalla topografia cultuale di Selinunte cosí come appare codificata nel VI secolo a.C., sembra esserci stato un fedele trapianto dei culti della madrepatria greca da cui, ricordiamo, proveniva Pammilo, il fondatore. La triade ApolloAtena-Demetra, dominatrice del «santuario urbano» sulla collina dell’Acropoli, incarna perfettamente questo legame, allacciando la nuova fondazione all’universo delle origini.

Disegnare una città Gli scavi condotti nell’area del tempio R ci svelano, inoltre, che il settore meridionale del grande santuario urbano rappresenta il punto di partenza per la progettazione della futura città, nella sua estensione complessiva. Questo «disegno» viene tradotto sul terreno tra il volgere del VII e l’inizio del VI secolo a.C. Dal punto di vista della storia politica, questo è uno dei periodi piú oscuri della storia della città, come della storia di tutta la grecità coloniale. A un regime sostanzialmente ugualitario (quale si ipotizza per le primissime – se non solo per la prima – generazioni di coloni) dovette seguire una sempre maggiore

Statuetta femminile con polos (copricapo cilindrico) e mantello. 570 a.C. La figurina, molto probabilmente identificabile con Demetra, è stata rinvenuta accuratamente incastrata nel pavimento della fase arcaica del tempio R, e rappresenta al meglio l’immagine della divinità al momento della costruzione dell’edificio (vedi alle pp. 88-89).

stratificazione sociale, causa di conflitti interni sfociati in regimi tirannici, come quello instaurato a Selinunte da Terone, figlio di Milziade, tra il 580 e il 570 a.C. Ma è questo anche il periodo in cui la colonia conosce uno straordinario sviluppo. Lo testimonia il suo grandioso piano urbanistico e la contestuale politica di espansione territoriale. Già al volgere del VII secolo la città, o meglio il suo spazio urbano, risulta esteso sulle due colline (cosiddetta Acropoli e Manuzza) comprese tra il corso del Gorgo Cottone e del Modione, vale a dire sull’intera area su cui si sviluppò la città del VI e V secolo a.C. Un progetto unitario e lungimirante: l’intero spazio viene suddiviso secondo un schema rigoroso, basato sul principio dell’ortogonalità degli assi stradali. L’area urbana viene cosí ad articolarsi in due settori distinti, caratterizzati da sistemi stradali dal diverso orientamento che corrisponde a quello, naturale, dei due pianori: la collina dell’Acropoli, dominata dal grande santuario urbano; il pianoro di Manuzza, occupato dalle unità abitative e dalle strutture artigianali. Nel punto di intersezione tra i due settori viene risparmiato un ampio spazio di forma trapezoidale occupato dall’agorà, la piazza pubblica cittadina. Una cinta muraria imponente, realizzata nei primi decenni del VI secolo a.C., va a definire ulteriormente lo spazio urbano, separandolo dalle terre agricole circostanti. Ma, quasi a sancire l’inscindibi(segue a p. 94)

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Li cunti di Omero Durante il suo soggiorno a Scheria, leggendaria isola dei Feaci, Odisseo indossa gli insoliti panni di Omero, improvvisandosi aedo: le peripezie del suo viaggio diventano la trama del racconto, la corte di re Alcinoo il suo pubblico. L’empatia che si viene a creare tra il cantore e i suoi ascoltatori è resa da un essenziale, splendido verso: «stavano lí, incantati, nel megaron ombroso». Quella dell’aedo, ovvero del cantore, è una professione senza tempo, inscindibilmente legata alla trasmissione orale di una cultura, di una tradizione. E cosí, a distanza di secoli, questo stesso verso riesce a introdurci nella magica atmosfera creata dal «canto» – o meglio dal «cunto» – di Mimmo Cuticchio, puparo e cuntore della tradizione siciliana. Teatro della sua irripetibile esibizione sono state, in una calda notte d’estate, le rovine dei templi di Selinunte. Al maestro la parola. «Il festival La Macchina dei Sogni nasce nella primavera del 1984, come omaggio ai cinquant’anni di attività artistica di mio padre, Giacomo Cuticchio. Ideato per fare il punto sul teatro dei pupi, il festival si è subito esteso a pratiche contigue: cunto e altre tecniche di narrazione orale, teatro da strada e di figura. Sin dalla prima edizione, attori e pubblico sono stati coinvolti in una grande festa del teatro che ha indotto lo spettatore a essere parte attiva nell’elaborazione delle storie, che si arricchiscono e si completano nella sua immaginazione. La XXIX edizione, ideata per il Parco Archeologico di Selinunte, possiamo davvero considerarla «speciale». Concentrandoci su un unico evento, come un articolato mosaico dalle molte tessere, abbiamo invitato il pubblico a intraprendere un viaggio singolare in cui si sono fusi leggenda, storia

di Mimmo Cuticchio e cunto. Un racconto coinvolgente, che ha portato gli spettatori a ripercorrere il «sentiero» della memoria: dal mito della nascita della Sicilia al parallelismo tra la fine di Troia, assediata e distrutta dagli Achei, e quella di Selinunte, devastata dai Cartaginesi. Un lungo racconto per suoni, immagini e «apparizioni», con narratori-sacerdoti che hanno esposto le vicende umane e con gli dèi-pupi che hanno fatto da contraltare sonoro. Un mondo fantastico, in cui attori e pupi si sono armonicamente mescolati, materializzandosi tra le rovine del tempio G, portando le testimonianze, di Achille, Agamennone, Priamo, Ecuba, Elena, Menelao, Paride e degli dèi Atena, Teti, Febo, Era, Efesto, Tanit, narrando dalla fondazione di Selinunte, nella seconda metà del VII secolo a.C., da parte dei coloni di Megara Iblea, alla venerazione per Demetra, Era e Dioniso, sino al suo annientamento, nel 409 a.C. Non solo uno spettacolo, dunque, ma un percorso rituale che ha inizio all’ingresso del sito, dove sono state collocate delle installazioni – simboli e figure mitologiche – che trasportavano gli spettatori nella dimensione del racconto. Primo tra tutti quello di Giovanni Guarino, che narrava la nascita della Sicilia; poco distante, il percorso di canne, in cui Mario Crispi, nel descrivere la loro sonorità, introduceva al mito di Eolo; e, piú avanti ancora, Bruno Leone, che, parlando della prima maschera greca, coinvolgeva i piú piccoli e conduceva il pubblico davanti al tempio di Era, dove l’attrice Paola Pace introduceva alle vicende di Selinunte. Io, come narratore-guida, tenevo le fila del racconto realizzato dagli allievi attori-narratori – Sergio Beercooch, Marco Bertarini, Giancarlo Bloise, Chiara Casarico,


Floriana Patti, Donato Pichi, Giusepe Sciarratta, Sabrina Sproviero – e a conclusione cuntavo della distruzione di Troia e quella di Selinunte. Tutto il racconto, organizzato attorno alle rovine del tempio G, era articolato con il suono dei tamburi di Alfio Antico, che restituiva la drammaticità della vicenda raccontata, resa ancora piú intensa dalla scultura di fuoco di Paolo Buggiani che, a fine percorso, accompagnava il pubblico verso l’uscita, mentre attori, narratori e musici si ritiravano dentro il tempio di Era. Nonostante l’assenza di contributi da parte di enti pubblici locali, (abbiamo contato solo su quello ministeriale), La Macchina dei Sogni, arrivata alla XXIX edizione, ha testimoniato, ancora una volta, che l’Opera dei pupi è un teatro vivo

e creativo, che ha saputo determinare una sua storia. Piú volte ho affermato che la tradizione non è per me lettera morta, ma un albero i cui rami continuano a germogliare, lasciando intravedere le nuove foglie che crescono; recuperare le tensioni, le tecniche implicite ed esplicite, gli usi e le tendenze, che, sin dalle origini, sono diventate vita di questo teatro, non è stato mai, per me, un dovere, ma anzi una ricchezza. Ebbene, La Macchina dei Sogni nasce per fare il punto sul teatro dei pupi attraverso i cinquant’anni di attività artistica di mio padre e far conoscere la profonda teatralità dello stesso teatro; a distanza di trent’anni, il mio desiderio di provare a inquadrare da una diversa prospettiva l’universo dell’Opera dei Pupi non è cambiato. Quest’anno, grazie alle sensibilità di

Il maestro Mimmo Cuticchio e alcuni attori della sua compagnia durante una delle azioni sceniche presentate in occasione della XXIX edizione del festival La Macchina dei Sogni, svoltosi nel 2012 a Selinunte. Servendosi di varie forme di espressione artistica, la rassegna ha ripercorso la storia della colonia megarese, mescolando tradizioni leggendarie e realtà storica.

Caterina Greco, direttrice del Parco Archeologico di Selinunte, ho potuto immaginare questo viaggio, sperimentando una messa in scena nuova che, nelle intenzioni, aveva la pretesa di offrire al visitatore un’esperienza culturale che interagisse con la fantasia di chi osservava, muovendo una tastiera espressiva elementare e metaforica, a un tempo».


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le unità tra nucleo urbano e territorio, è una sorta di «cintura sacra» di collegamento e protezione: a est, oltre la valle del Gorgo Cottone, i grandiosi templi dorici della collina Orientale (denominati E, F, G); a ovest, sulle dune lambite dal corso del Modione, la linea dei recinti sacri dedicati a Demetra Malophòros e Zeus Meilichios («dolce come il miele»), divinità dalle forti connotazioni agrarie e infere. Ancora oltre, tutto intorno alla città, le necropoli cittadine, a cui seguono, senza soluzione di continuità, le infinite distese agricole.

in memoria del fondatore? Pammilo non fu testimone dello straordinario sviluppo della città da lui fondata, ma la sua memoria dovette essere gelosamente custodita dai cittadini di Selinunte. Al centro dell’agorà è stata recentemente rinvenuta una struttura a cassa, circondata da un recinto, interpretata dagli scavatori come un cenotafio (sepoltura onoraria, non contenete i resti del defunto), destinato a celebrare e perpetrare la memoria di un personaggio di altissimo rango. Che si trattasse di Pammilo è solo un’ipotesi. Di certo la monumentalità della struttura e la sua posizione enfatica nello spazio pubblico per 94 a r c h e o

eccellenza, l’agorà, indicano un personaggiosimbolo che doveva incarnare l’identità stessa della città. Chi meglio del fondatore? Nel corso del VI secolo a.C. la punta piú occidentale della Sicilia diviene mira dell’espansione coloniale di altri contingenti greci: gli Cnidii e i Rodii guidati da Pentatlo e gli Spartani di Dorieo che tentano rispettivamente di insediarsi a Lilibeo, fondamentale postazione marittima limitrofa all’emporio fenicio di Mozia (580 a.C. circa), e nei pressi della città elima di Erice (510 a.C.). Tutti tentativi fallimentari: la risposta fenicio-punica ed elima è immediata e aggressiva. Solo Selinunte, estremo avamposto della grecità in questo angolo di Sicilia, riesce a sopravvivere e, anzi, ad accrescere il suo prestigio e la sua potenza. Lo testimonia l’audace politica di espansione lungo la fascia costiera: nel corso del VI secolo a.C. la città estende i suoi confini orientali sino alle foci del fiume Platani, dove viene fondata, per arginare l’espansione della colonia greca di Agrigento, la sub-colonia di Minoa; verso occidente i confini si estendono sino al corso del Mazaro, area di pertinenza elima. Doveva averlo ben compreso Pammilo, sin dal momento della fondazione, che il destino

Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas». Una delle sale in cui sono esposte le metope in origine appartenenti alla decorazione del tempio C di Selinunte. Sulla sinistra sono riconoscibili Perseo e la Medusa; a destra, Ercole e i Cercopi. Il museo è attualmente chiuso al pubblico per lavori di ristrutturazione dell’edificio.


gli scavi nella necropoli Sono ripresi gli scavi nella necropoli selinuntina di Manicalunga Timpone Nero, che si estende per oltre 5 Km a ovest del fiume Modione, subito dopo il santuario della Malophoros. Un sepolcreto vastissimo, di cui, già negli anni Sessanta, grazie al sostegno del Banco di Sicilia, erano state esplorate 5000 tombe. Dallo scorso ottobre, la Fondazione Kepha onlus, proprietaria dei terreni nei quali ha sede il Campo Archeologico Museale di Timpone Nero, ha iniziato, in regime di concessione dalla Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Trapani e in collaborazione con il Parco Archeologico di Selinunte e Cave di Cusa, una campagna di scavi della durata di due anni, diretta da Rossella Giglio, responsabile dell’Unità Operativa Beni Archeologici della Soprintendenza trapanese, e condotta sul campo dall’archeologo Ferdinando Lentini, allo scopo di riportare alla luce le strutture funerarie e i loro corredi. Difficilmente, infatti, le tombe erano prive di oggetti. La pietas dei congiunti e degli amici accompagnava quasi sempre il

defunto con oggetti forse a lui cari che poi lasciava nella tomba. Si trattava piú spesso di lucerne che dovevano squarciare il buio dell’oltretomba, di statuette di divinità destinate a proteggerlo e infine di vasi per far perdurare la vita nell’aldilà. Oggetti destinati ai morti per soddisfare quei bisogni che avrebbero avuto nella loro vita ultraterrena, ma che ci offrono una testimonianza degli usi e costumi dei nostri predecessori e della loro vita di ogni giorno. Fino a tempi relativamente recenti l’archeologia è stata dominata dal desiderio di trovare, di estrarre dal suolo l’oggetto bello da tenere per sé, o, peggio, da sottrarre alla comunità tramite commerci illeciti. Questa mentalità è stata fortunatamente messa al bando dall’archeologia moderna, che ricerca nel terreno i segni della vita di chi ci ha preceduto, belli o brutti

In alto e in basso: due immagini degli scavi nella necropoli selinuntina di Manicalunga Timpone Nero.

che siano. Che i reperti provenienti dalle tombe ci diano la possibilità di conoscere qualche aspetto della vita dell’individuo a cui essi si riferiscono può essere testimoniato già dal confronto che possiamo stabilire con la realtà che ci circonda. Chiunque vada in un cimitero, infatti, attraverso segni, simboli, iscrizioni può farsi un’idea della personalità del defunto quando era in vita. L’opera di schedatura, classificazione e catalogazione che è stata avviata sarà il punto di partenza per l’utilizzazione razionale dei dati archeologici, che costituiscono una fonte primaria di storia e cultura intesa come facoltà di comprendere: un’intelligenza del presente sorretta dalla conoscenza del passato.


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I resti del tempio E, dedicato a Era. V sec. a.C. L’edificio, che nel suo assetto attuale è, in parte, frutto di un intervento di ricostruzione operato in età moderna, è considerato, per l’armonia delle forme e le proporzioni, come uno dei migliori esempi di architettura dorica in Sicilia.

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della colonia megarese sarebbe stato segnato, nel bene e nel male, dalla sua stessa posizione geografica, dal suo sorgere isolata in un territorio contrassegnato da presenze fenicie, sicane ed elime. La storia di Selinunte, nei due secoli di massimo splendore (VI-V secolo a.C.), è la storia di una città di frontiera, ricca e cosmopolita. Una storia fatta di incontri – nelle sue maglie vengono accolti elementi elimi, siculi, italici, etruschi, punici – e di inevitabili scontri, di cui sono eco, nelle fonti antiche, le continue dispute territoriali e i conflitti con l’elima Segesta. Questa esuberanza, e la ricchezza che sottende – frutto dei floridi commerci che vengono ad accentrarsi nei due porti cittadini – non è pensabile in quest’angolo di Sicilia senza la condiscendenza dei Fenici e soprattutto di Cartagine, che, nel corso del VI secolo, estende il suo controllo (eparchia) sui centri fenici dell’isola. Una «condiscendenza utilitaristica», come sempre ricordava Antonino Di Vita, profondo conoscitore della grecità siciliana: una volta venuto meno, da parte di Cartagine, l’interesse ad appoggiare questo partner commerciale, il destino della città fu segnato. Al volgere del V secolo a.C. la potenza di

Cartagine è tale da poter fare a meno dell’intermediazione greca. Alla richiesta di Segesta di intervenire contro l’eterna nemica, Selinunte, Cartagine risponde con un deciso intervento militare. Un cambiamento di rotta improvviso: «I Selinuntini non immaginavano affatto che sarebbero stati costretti a sopportare un’aggressione cosí tremenda da parte di un popolo che dalla loro alleanza aveva tratto tanti benefici» (Diod.Sic., Hist., 55,1). Nel 409 a.C., a due secoli e mezzo dalla sua fondazione, Selinunte viene conquistata e distrutta dalle forze cartaginesi. dove e quando Parco archeologico di Selinunte e Cave di Cusa «Vincenzo Tusa» e delle aree archeologiche di Castelvetrano, Campobello di Mazara e dei Comuni limitrofi Marinella di Selinunte, Castelvetrano (Trapani) Orario Selinunte: tutti i giorni, 9,00-17,00; festivi, 9,00-12,30; Cave di Cusa: tutti i giorni, 9,00-12,30 Info 0924 46277; fax 0924 46540 www.regione.sicilia.it/beniculturali/pda.html


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