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2. L’ESEMPIO
Correvo con la fantasia, ma la mia convinzione, che potessimo avere una vita da percorrere insieme, derivava dall’esperienza che avevo vissuto in casa, nella mia tormentata e straordinaria famiglia.
A legare i miei genitori è stato sempre un affetto profondo, un amore messo a dura prova dalle vicissitudini della vita, ma solido e duraturo.
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Si erano sposati molto giovani e poco dopo separati dalla discesa in guerra dell’Italia, da quella chiamata alle armi che mise in crisi tantissime famiglie, in particolare in quelle aree in cui l’attività principale era legata al lavoro dei campi, dove improvvisamente vennero a mancare braccia preziose che, molto probabilmente, non sarebbero tornate mai più e dove la già difficile situazione economica precipitò verticalmente. Classe 1911 lui, il 28 dicembre, e 1914 lei, il 26 maggio.
Luigi, mio padre, aveva ventun anni quando partì per il servizio militare; due anni li trascorse a Trento, un breve periodo a casa, poi la campagna d’Africa, dal 1935 al 1937, e finalmente il matrimonio, il 28 ottobre del 1937.
Richiamato per la Seconda guerra mondiale fu costretto a lasciare la sua sposa per raggiungere il fronte.
Mamma, che adorava il suo splendido sposo, considerato il più bel ragazzo del paese, si rimboccò le maniche e per mantenersi non disdegnò a adattarsi, così come tante altre donne in quei momenti cupi, a svolgere i lavori più umili e pesanti, fino ad allora riservati agli uomini.
Non si fece scrupolo di andare a faticare nei campi, a occuparsi dell’aratura, della mietitura e, quando se ne presentava l’occasione, anche di andare “a servizio”, a giornata, nelle altre famiglie. Tutto era accettabile, pur di procurarsi le risorse necessarie per tirare avanti; ricompense che non sempre venivano corrisposte in denaro, ma spesso pagate con i prodotti della terra che lei stessa contribuiva a coltivare: ortaggi, farina, uova; raramente qualche gallina o piccoli pezzi di carne.
Il cibo scarseggiava, i generi alimentari concessi dalla carta annonaria non sempre consentivano di arrivare alla fine del mese; in quei tempi di guerra, ogni persona poteva acquistare cinque chili di farina, due chili di pasta, duecento grammi di zucchero, duecentocinquanta grammi di olio. Ma quelle cose andavano pagate e chi non aveva il denaro sufficiente per l’acquisto doveva in qualche modo arrangiarsi.
Clara, carattere un po’ spigoloso e ruvido, era sopravvissuta al terribile terremoto che aveva devastato la Marsica e la piana del Fucino, il 13 gennaio 1915, quando oltre trentamila persone persero la vita. Ad Avezzano, epicentro del sisma, morirono diecimila dei tredicimila residenti in città, e duemila furono i feriti; una sola casa restò in piedi. Come raccontò un testimone al “Corriere della Sera” il giorno dopo: «Il castello, gli stabilimenti dagli alti fumaioli, la Chiesa dell’artistico ed agile campanile, tutto era scomparso, Avezzano era scomparsa ed al suo posto non si scorgevano che pochi muri».
Lei, che in quei giorni tremendi aveva poco più di sette mesi, si salvò proprio grazie alla tenera età e al fisico minuto: troppo piccola per essere schiacciata dalle macerie, da cui venne estratta indenne; spaventata ma illesa.
In quella tremenda catastrofe, una delle più gravi nella storia dell’intera Italia, perse i propri fratelli e la casa che il padre aveva costruito con i risparmi di un lungo periodo vissuto da emigrante, negli Stati Uniti, dove aveva fatto tanti sacrifici e accettato i lavori più umili per tornare al paese e dare una nuova svolta alla sua vita.
Senza neppure un segnale di preavviso, in pochi secondi quasi tutti gli abitanti persero i loro cari, ogni avere e ogni cosa tangibile. Un dramma inimmaginabile.
Mamma portò sempre con sé i segni indelebili di quella tragedia, delle radici spezzate in quel tragico 13 gennaio, alle 7:53 del mattino.
Crebbe in una misera casa di fortuna, dove si erano trasferiti in sostituzione della splendida palazzina a tre piani in cui era nata, con quello che era rimasto di una famiglia numerosa, diventata improvvisamente povera ma sempre con tanta dignità e forza d’animo, ringraziando Dio per il pane concesso giornalmente.
Con la stessa energia, anni dopo seppe attraversare il lungo e drammatico periodo di assenza del suo giovane marito. Agli stenti quotidiani si aggiungeva un ulteriore pesante fardello: quello dell’angoscia, dell’apprensione per la sorte del suo Gigi, della incessante preoccupazione che in guerra potesse trovare la morte. Un’attesa sfibrante, che logorava i nervi e condizionava le giornate, che inspiegabilmente divenivano più lunghe.
Un’inquietudine che la tormentò per ben 9 anni, quando finalmente Luigi riuscì a tornare a casa, sfuggito per miracolo alla fucilazione in un campo di prigionia tedesco, a Dachau.
Ne uscì molto provata da quella nuova drammatica esperienza e, nonostante il coraggio, la fede e la capacità di coltivare speranza che aveva dimostrato, divenne ancora più accigliata e spigolosa.
La ricordo sempre angosciata da ansie e paure, letteralmente terrorizzata dal pericolo.
Dal quartiere in cui abitavamo, alla periferia del paese, per arrivare al centro eravamo costretti ad attraversare due passaggi a livello, che regolavano il traffico delle due linee ferroviarie che lambivano
Avezzano: quella che portava a Cassino e Roccasecca, e quella che invece raggiungeva Roma passando da Tagliacozzo.
Per lei quelle due vie di comunicazione erano un vero e proprio incubo.
Ogni volta che uscivamo di casa, per andare a scuola o a giocare dagli amici, erano raccomandazioni a non