Appuntamento al cupcake cafe jenny colgan

Page 1



APPUNTAMENTO AL CUPCAFÉ Avete mai sognato di cambiare vita? Issy lo ha fatto spesso, soprattutto dopo i trenta. Eppure non ha mai osato rischiare, convinta che un posto fisso nella City sia la scelta più sicura benché non la renda felice, e che un uomo teoricamente perfetto – ma che dopo otto mesi nasconde ancora la loro relazione – sia comunque quello giusto. Finché, per colpa della crisi economica, perde in un giorno lavoro e fidanzato (che era anche il suo capo). Ma proprio allora capisce che è il momento di tirare fuori i sogni dal cassetto: quello in cui custodisce le ricette di nonno Joe. È stato lui, rinomato fornaio, a crescere Issy mentre sua madre girava il mondo in cerca di se stessa. Sarà che per tutta l’infanzia è stata svegliata dal profumo del pane appena sfornato, ma in nessun luogo Issy si sente al sicuro come in cucina. Sarà che per anni ha osservato il nonno dare forma con arte a dolci squisiti, ma per lei non c’è nulla di più avvolgente di un soffice cupcake al limone sormontato da una glassa vellutata, nulla di più invitante del connubio perfetto tra crema e pasta sfoglia in un cannoncino fragrante. Forte dei trucchi del mestiere imparati dal nonno, e delle ricette che lui continua a spedirle dalla casa di riposo, Issy decide di trasformare la passione per la pasticceria in un’attività tutta sua: il Cupcake Café, un angolo accogliente per chi vuole concedersi una pausa golosa dallo stress londinese. Certo, i numeri non sono il suo forte, ma grazie all’aiuto della migliore amica, dotata di grande senso pratico, e alla fiducia di un affascinante consulente finanziario, saprà sfidare prestiti e bollette. Reinventandosi la vita con coraggio e fantasia. Perché si può sempre ricominciare, anche da un cupcake: basta crederci. JENNY COLGAN È una delle autrici di romanzi femminili più amate in Gran Bretagna, dove conquista immancabilmente i vertici delle classifiche. Fino ai tempi dell’università non sapeva nemmeno prepararsi un uovo e si nutriva principalmente di schifezze. Poi, una volta diventata mamma, ha finalmente imparato a cucinare e ha persino scoperto che la cosa la diverte molto. Vive tra Londra e la Francia con il marito e i tre figli e, se dovesse invitarvi a casa sua, non vi farebbe certo mancare una generosa porzione quotidiana di coloratissimi cupcake, la sua specialità. www.jennycolgan.com Foto di copertina: © Agenzia Corbis Copertina: Daria Colombo Art Director: Cecilia Flegenheimer


JENNY COLGAN

APPUNTAMENTO AL CUPCAKE CAFÉ Traduzione di ANNALISA CREA


Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. Ebook ISBN 9788858506899 www.edizpiemme.it

© 2012 - Edizioni Piemme Spa Titolo originale dell’opera: Meet Me at the Cupcake Café Copyright © Jenny Colgan 2011 “Come preparare i vostri primi cupcake” Copyright © The Caked Crusader 2011 All rights reserved. Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale. Traduzione di Annalisa Crea per Studio Editoriale Littera


A chi leccava il cucchiaio quando la mamma preparava la torta.


Premessa

Ho sperimentato con successo tutte le ricette contenute in questo libro (N.B. Per i tempi di cottura, sappiate che non uso un forno ventilato), tranne i cupcake alla crusca e alla carota di Caroline: per quelli, dovete vedervela da soli. Sappiate che nonno Joe usa il sistema imperiale, mentre Issy quello metrico. Caroline, invece, ragiona a “tazze”. Lei è fatta così. JC XX


1

DROP SCONES 8 once di farina autolievitante 1 oncia di zucchero extrafine (si può leccare il cucchiaio) 1 uovo. Mettine in conto 4 se cucini con bambini al di sotto dei sette anni. ½ pinta di latte intero per la ricetta, più un bicchiere da bere con i dolci. Un pizzico di sale. È pochissimo, Issy. Meno del tuo mignolo. Non esagerare! No! Accidenti, hai esagerato. Pazienza. Metti gli ingredienti secchi in una ciotola e mescola. Fai una fontana al centro. La fontana è quella cosa da cui sgorga l’acqua. Bene. Rompici dentro l’uovo. Perfetto! E ora il latte. Sbatti bene il tutto. L’impasto dovrebbe assumere una consistenza cremosa. Se necessario, aggiungi un altro po’ di latte. Prendi una padella dal fondo pesante, imburrala e mettila a scaldare sul fuoco. Ci pensa il nonno a sollevarla, tu non ci provare. Brava. Ora versa il composto facendolo gocciolare da un cucchiaio. Non avere fretta... qualche schizzo qua e là può scappare. Ora il nonno gira il drop scone. Puoi tenere il manico, se vuoi. Ecco fatto. Urrà! Servi i dolci con quel che resta del latte e del burro, la marmellata, la panna o qualsiasi altra cosa trovi in frigo, e con un bel bacio sulla testa perché sei una brava bambina. Issy Randall ripiegò il foglio di carta e sorrise. «Sei proprio sicuro che sia questa la ricetta?» chiese al nonno seduto in poltrona. Lui annuì deciso e sollevò un dito: gesto che, come Issy ben sapeva, preannunciava una delle sue prediche. «Vedi,» rispose «la pasticceria è...» «Vita» concluse pazientemente Issy. Glielo aveva sentito ripetere tante volte. Suo nonno aveva cominciato a lavorare nella panetteria di famiglia quando aveva dodici anni. All’inizio non faceva altro che spazzare, poi, con il passare del tempo, aveva preso in mano l’attività, aprendo tre grandi negozi a Manchester. Erano tutto per lui. «È vita, sì. Il pane è il nostro nutrimento principale.» «Ma non è certo dietetico» osservò Issy sospirando e aggiustandosi la gonna di velluto a coste sui fianchi. Per il nonno era facile: un regime a base di fatiche fisiche e sveglie alle cinque di mattina per accendere il forno lo aveva mantenuto magro come un chiodo. Invece, se la cucina era una passione o un passatempo ma per pagare le bollette te ne stavi seduto tutto il giorno in un ufficio... be’, era un altro paio di maniche. “Non è facile limitare gli assaggi...” pensò Issy, e le venne in mente la nuova ricetta per la crema di ananas che aveva provato quella mattina. Il segreto era aggiungere una quantità sufficiente di torsolo per darle sapore, ma senza trasformarla in un frappè. Doveva fare un altro


tentativo. Si passò le mani tra i capelli neri e vaporosi, che creavano un bellissimo contrasto con gli occhi verdi, ma che, quando pioveva, diventavano un disastro. «Perciò, quando descrivi ciò che stai preparando, è come se parlassi della tua vita, capisci? Non si tratta solo di ricette... E non dirmi che vuoi usare il sistema metrico.» Issy si morse il labbro: meglio nascondere la tabella delle conversioni la prossima volta che il nonno fosse andato a trovarla. Non voleva che si agitasse. «Mi ascolti?» «Sì, nonno!» Si voltarono entrambi a guardare fuori dalla finestra della casa di riposo nella zona nord di Londra. Issy vi aveva portato il nonno quando era diventato troppo distratto per vivere da solo. Le era dispiaciuto costringerlo a spostarsi così lontano dopo una vita passata a Manchester, ma aveva bisogno che fosse abbastanza vicino a lei da poterlo andare a trovare. Lui aveva brontolato, ovviamente, ma lo avrebbe fatto comunque dovendo lasciare casa sua per trasferirsi in un posto in cui non avrebbe potuto alzarsi all’alba a preparare gli impasti. Allora tanto valeva che brontolasse là dove Issy avrebbe potuto tenerlo d’occhio. Dopotutto non aveva nessun altro a parte lei. E le tre panetterie, con le loro eleganti maniglie di ottone lucido e i vecchi cartelli con su scritto FORNO ELETTRICO, non esistevano più: erano cadute vittime dei supermercati e delle grandi catene che vendevano pane da quattro soldi anziché pagnotte artigianali, un poco più costose. Nonno Joe rimase a osservare la pioggia di gennaio che batteva sulla finestra e, come faceva spesso, lesse nel pensiero della nipote. «Hai sentito... tua madre ultimamente?» chiese. Issy annuì. Era sempre difficile per lui pronunciare il nome della figlia. Marian non si era mai sentita a suo agio ad avere un padre fornaio, e la nonna di Issy era morta così giovane che non aveva avuto abbastanza tempo da esercitare su di lei un’influenza positiva. Joe lavorava tutto il giorno e Marian aveva cominciato a ribellarsi ancor prima di conoscere il significato della parola, frequentando cattive compagnie e ragazzi più grandi, e rimanendo incinta troppo presto di un vagabondo che aveva lasciato a Issy solo i capelli neri e le sopracciglia folte. Marian, però, era troppo irrequieta per farsi condizionare dalla maternità e aveva spesso lasciato sola la figlia per andare a cercare se stessa. Così, Issy aveva trascorso gran parte dell’infanzia nella panetteria del nonno; lo aveva osservato lavorare energicamente gli impasti o dare forma con delicatezza alle torte e alle crostate più soffici e invitanti. Sebbene addestrasse personalmente tutti i fornai che lavoravano per lui, gli piaceva sporcarsi le mani di farina, uno dei motivi per cui le panetterie Randall erano un tempo le più famose di Manchester. Issy aveva trascorso ore e ore a fare i compiti vicino agli imponenti forni di Cable Street, assorbendo tutti i segreti di un grande fornaio. Essendo molto più convenzionale di sua madre, adorava il nonno e si sentiva a suo agio e al sicuro in cucina. Sapeva di essere diversa dai compagni di scuola, che vivevano nelle loro casette con mamme e papà impiegati, cani, fratelli e sorelle, che mangiavano waffle di patate con il ketchup davanti a una puntata di Neighbours e non si svegliavano mai prima dell’alba con l’odore del pane appena sfornato. Ora, a trentun anni, Issy aveva quasi perdonato la madre irrequieta, anche se lei più di altri avrebbe dovuto sapere cosa significasse crescere senza una figura femminile accanto. A Issy non importava delle recite, né delle gite scolastiche (tutti conoscevano suo nonno, che non se ne perdeva una) ed era abbastanza amata a scuola, visto che era quasi sempre provvista di un vassoio di scones o cupcake da portare alle feste e i suoi buffet di compleanno erano una vera e propria leggenda locale. Ciò di cui aveva sentito il bisogno era qualcuno che avesse un po’ più di sensibilità per la


moda: ogni Natale, nonno Joe le comprava due vestiti di cotone e uno di lana, indipendentemente dall’età, dallo stile e dalla taglia, nonostante tutte le coetanee di Issy andassero in giro in felpa e scaldamuscoli. Sua madre si presentava a intervalli regolari con strani vestiti da hippy che vendeva alle fiere, fatti di canapa o di lana grossa che pizzicava la pelle, o con qualcos’altro di poco pratico. Ma Issy non si era mai sentita poco amata, nell’accogliente appartamento sopra la panetteria dove lei e il nonno mangiavano torte di mele davanti alla tv. E Marian, che durante le sue fugaci apparizioni raccomandava sempre alla figlia di non fidarsi degli uomini, di stare lontana dall’alcol e di inseguire sempre i suoi sogni, era comunque una madre affettuosa. Eppure Issy a volte, quando vedeva le famigliole felici che passeggiavano al parco o i genitori che cullavano i neonati, avvertiva una stretta allo stomaco, un desiderio quasi fisico di sicurezza e normalità. Nessuno si sorprese che Issy, crescendo, diventasse la ragazza più convenzionale che ci si potesse immaginare. Brava a scuola, brava all’università e con un buon impiego in una società immobiliare della City in rapida espansione. Quando aveva cominciato a lavorare, il nonno, già anziano, aveva ormai venduto le panetterie. Sua nipote aveva studiato, sottolineava Joe (“Purtroppo” pensava a volte Issy), non poteva certo alzarsi tutte le mattine all’alba e fare un lavoro pesante per il resto della vita. Lei era destinata a ben altro. Eppure, in fondo al cuore, Issy nutriva una passione travolgente per le meraviglie della pasticceria: per i cannoli, un connubio perfetto di crema e pasta sfoglia esaltato dai cristalli di zucchero, simili a diamanti; per i panini dolci di Pasqua, che le panetterie Randall preparavano solo durante la Quaresima, con il loro profumo invitante di cannella, uvetta e scorza d’arancia che arrivava fino in strada; per la glassa al burro in cima ai cupcake al limone più soffici che si potessero immaginare. Di qui il suo progetto con il nonno: mettere per iscritto quante più ricette possibili prima che – sebbene nessuno dei due osasse menzionare l’eventualità – lui cominciasse a dimenticarle. «La mamma mi ha scritto un’e-mail» annunciò Issy. «È in Florida. Ha conosciuto un tipo che si chiama Brick. Ti rendi conto?» «Almeno stavolta è un uomo» borbottò il nonno. Issy gli lanciò un’occhiataccia. «Ehi! Dice che forse tornerà quest’estate, per il mio compleanno. Certo, aveva anche detto che sarebbe tornata a Natale, e invece...» Issy aveva trascorso le feste con il nonno, alla casa di riposo. Il personale aveva fatto del suo meglio, ma il risultato non era stato un granché. «Comunque» continuò, sforzandosi di sorridere «sembra felice. Dice che le piace un sacco laggiù. E che dovresti andarci anche tu per prendere un po’ di sole.» Issy e il nonno si guardarono e scoppiarono a ridere: Joe si stancava anche solo a fare il giro della stanza. «Come no!» esclamò lui. «Prendo il primo aereo per la Florida. Taxi? Al London City Airport!» Issy mise il foglio nella borsa e si alzò. «Devo andare. Tu continua con le ricette. Soprattutto con quelle... normali, diciamo.» «Normali» ripeté lui. Gli diede un bacio sulla fronte. «Ci vediamo la settimana prossima.» Issy scese dall’autobus. Faceva molto freddo e le strade erano coperte dai residui della neve caduta subito dopo Capodanno. All’inizio era bella, ma ormai si era trasformata in ghiaccio sporco,


soprattutto tra le inferriate del municipio di Stoke Newington, il maestoso edificio in fondo alla strada in cui abitava. Eppure lei era, come sempre, felice di tornare a casa, nel quartiere bohémien dove si era trasferita quattro anni prima, dopo aver lasciato il Sud di Londra. Lì l’odore di narghilè proveniente dai piccoli locali turchi lungo Stamford Road si mescolava a quello d’incenso dei negozi di cianfrusaglie stretti tra esclusive boutique per bambini che vendevano impermeabili griffati e giocattoli di legno fatti a mano, e che passanti con il velo o con i cernecchi chassidici, con i rasta o con le magliette strappate, giovani mamme con i passeggini e madri più attempate con passeggini doppi osservavano distrattamente. Malgrado il suo amico Tobes una volta le avesse detto che era come vivere nel bar multirazziale di Guerre stellari, a Issy piaceva. Adorava il pane dolce giamaicano, le baklava al miele in bella mostra accanto ai registratori di cassa dei negozi di alimentari, le specialità indiane di zucchero e latte in polvere, il dolcissimo turkish delight. E adorava gli strani odori di cucina che aleggiavano nell’aria quando tornava a casa dal lavoro e la varietà degli edifici: dalla graziosa piazza circondata da villette alle file di condomini e di fabbricati ristrutturati in mattoni rossi. Albion Road era costeggiata da negozietti particolari, takeaway di pollo fritto e imponenti case grigie. Non era commerciale né residenziale, ma una via di mezzo: una delle grandi arterie di Londra che un tempo conducevano ai paesini fuori città divenuti ora quartieri periferici. Le grigie case vittoriane erano maestose e probabilmente costose. Alcune erano piuttosto squallide e suddivise in tanti appartamenti con biciclette e cassonetti ammassati nei giardini, file di campanelli con i nomi appiccicati rozzamente con lo scotch e bidoni per la raccolta differenziata allineati sul marciapiede. Altre invece erano state ristrutturate e trasformate in eleganti villette con le porte in legno di quercia rigenerato, gli alberi potati con cura lungo le scale e le tende costose che svelavano pavimenti di legno levigato, camini e grandi specchi. Issy trovava splendido quel mix di antico e moderno, tradizionale e alternativo, sofisticato e senza pretese, con i grattacieli della City all’orizzonte e i marciapiedi affollati. A Stoke Newington viveva gente di tutti i tipi: sembrava un microcosmo di Londra, un paesino che rifletteva l’anima della città. Ed era anche molto economico. L’unico svantaggio era che la metropolitana non arrivava fin lì. In un primo momento si era detta che non importava, ma a volte, soprattutto in quelle sere gelide in cui il vento ululava tra le case e trasformava i nasi in rubinetti rossi e gocciolanti, aveva qualche ripensamento. Per le mamme eleganti che vivevano nelle grandi case grigie non era un problema: erano tutte munite di SUV. Di tanto in tanto, quando le vedeva uscire con i loro enormi e costosi passeggini, i corpi minuti e gli abiti impeccabili, si domandava quanti anni avessero. Erano più giovani di lei? Trentun anni non erano poi tanti, almeno al giorno d’oggi. Ma vedendo i loro figli, i colpi di sole e le case con una parete coperta di elegante carta da parati, Issy se lo chiedeva. A volte. Dietro la fermata dell’autobus c’era un vicoletto pieno di negozi che, ai tempi della rivoluzione industriale, dovevano essere stalle o botteghe. C’erano una ferramenta con vecchie spazzole appese intorno alla porta, dei tostapane in vendita a prezzi esorbitanti e una lavatrice dall’aspetto triste che era in vetrina da quando Issy si era trasferita nel quartiere; un internet point che restava aperto fino a tardi e invitava a spedire denaro all’estero e un’edicola dove Issy comprava riviste e barrette di cioccolato. In fondo alla stradina, in un angolo, c’era un edificio che pareva frutto di un ripensamento, come se qualcuno avesse deciso di costruirlo con mattoni avanzati. Aveva una forma irregolare e una porta che dava su un cortiletto acciottolato con un albero e una panchina, Pear Tree Court. Sembrava appartenere a un altro tempo, un minuscolo rifugio al centro della piazza di un paese. Ricordava un’illustrazione di Beatrix Potter, si era detta Issy una volta. Mancavano solo le finestre con i vetri


colorati. Una raffica di vento sferzò la strada principale e Issy si affrettò verso casa. Aveva comprato il suo appartamento all’apice del boom del mercato immobiliare. Per una che lavorava nel settore, non era stata una mossa astuta: aveva sempre sospettato che i prezzi avessero iniziato a scendere mezz’ora dopo che era entrata in possesso delle chiavi. Era successo prima che cominciasse a uscire con Graeme, un ragazzo conosciuto al lavoro (sebbene lo avesse già notato in giro, così come tutte le colleghe dell’ufficio), altrimenti lui le avrebbe sconsigliato l’acquisto, come le aveva ripetuto più volte. Ma non era sicura che lo avrebbe ascoltato. Dopo aver visitato tutti gli appartamenti alla portata del suo portafoglio e averli trovati orrendi, stava quasi per arrendersi quando si era ritrovata in Carmelite Avenue. Era stato amore a prima vista. L’appartamento occupava gli ultimi due piani di una di quelle graziose case grigie, ma, avendo un’entrata laterale indipendente lungo una rampa di scale, sembrava più una casetta. Un piano era costituito quasi interamente da una cucina/sala da pranzo/salotto open space. Issy aveva cercato di renderlo il più accogliente possibile, con enormi divani grigio chiaro, un lungo tavolo di legno con le panche e, ovviamente, l’amata cucina, che aveva pagato una miseria, probabilmente perché era rosa shocking. «Nessuno vuole una cucina rosa» aveva osservato tristemente il commesso del negozio. «Chiedono tutti l’acciaio inossidabile o il legno. E basta.» «Non avevo mai visto una lavatrice di quel colore» aveva detto Issy in tono incoraggiante. Non sopportava i commessi tristi. «Lo so. A quanto pare, ad alcuni viene la nausea quando vedono il bucato girarci dentro.» «In effetti può essere un problema.» «Jordan, la modella, stava per comprarne una» aggiunse l’uomo, momentaneamente imbaldanzito. «Ma poi ha deciso che era troppo rosa.» «Jordan ha deciso che era troppo rosa?» aveva ripetuto Issy, che non si era mai considerata un tipo particolarmente vezzoso. Certo, quello era un irresistibile rosa Schiaparelli. Era una cucina che voleva solo essere amata. «E c’è davvero lo sconto del settanta per cento?» aveva chiesto di nuovo. «Compreso il montaggio?» Il commesso aveva guardato la graziosa ragazza dagli occhi verdi. Aveva un debole per le donne un po’ rotonde, perché era convinto che avrebbero davvero fatto da mangiare nelle sue cucine. Non gli piacevano quelle signore spigolose che volevano solo mobili freddi in cui tenere il gin e la crema antirughe. Le cucine dovevano servire a preparare piatti prelibati e bere ottimi vini. A volte odiava il suo lavoro, ma la moglie era una cuoca eccellente e adorava spignattare nelle loro cucine scontate, così teneva duro. Il problema era che stavano entrambi ingrassando a dismisura. «Sì, settanta per cento. Se resta invenduta, finirà... in qualche discarica. Se lo immagina?» Sì, Issy se lo immaginava. E sarebbe stato molto triste. «Non lo sopporterei» aveva risposto solennemente. Il commesso aveva annuito, chiedendosi dove fosse il blocchetto degli ordini. «Facciamo settantacinque per cento?» aveva azzardato Issy. «In fondo, sto facendo beneficenza. Salvate la cucina rosa!» Ecco da dove veniva la cucina, dunque. Issy aveva aggiunto un pavimento di linoleum a scacchi bianchi e neri e utensili dello stesso colore. Di solito i suoi ospiti prima strabuzzavano gli occhi, poi se li stropicciavano increduli, e infine scoprivano, con grande sorpresa, che la cucina rosa non era affatto male, e quello che ne usciva era ancora meglio.


Era piaciuta persino a nonno Joe che, durante una delle sue visite accuratamente programmate, aveva annuito con aria d’approvazione vedendo il piano di cottura a gas (per caramellare) e il forno elettrico (per un’uniforme distribuzione del calore). Issy e la cucina rosa shocking sembravano fatte l’una per l’altra. Si sentiva a casa lì. Accendeva la radio e si metteva al lavoro: prendeva lo zucchero vanigliato, la farina per dolci della migliore qualità che comprava nel piccolo negozio francese di alimentari di Smithfield e il setaccio, quindi sceglieva uno dei fedeli cucchiai di legno per montare il suo soffice pan di spagna. Quel giorno ruppe le uova nella grande ciotola di ceramica a righe bianche e azzurre, due alla volta e senza nemmeno guardare, poi misurò a occhio la quantità necessaria di burro di Guernsey, bianco e cremoso, che non andava mai in frigo. Di solito ne usava parecchio. Si morse il labbro: stava sbattendo troppo energicamente l’impasto. Se avesse incorporato troppa aria, si sarebbe afflosciato nel forno. Si fermò e lo controllò per accertarsi che sarebbe lievitato. Aveva spremuto qualche arancia di Siviglia e stava pensando a una glassa a base di marmellata: sarebbe stata deliziosa o quanto meno originale. Quando la sua coinquilina, Helena, spalancò la porta, i cupcake erano ormai in forno e Issy era alla terza tornata di glassa. Il trucco stava nel bilanciare il sapore in modo che non fosse troppo aspro né troppo dolce. Prese nota dell’esatta combinazione di ingredienti che avrebbe lasciato in bocca un gusto unico. Helena non arrivava mai senza farsi notare. Non ne era capace. Entrava in ogni stanza petto in fuori. Non poteva evitarlo, del resto. Non era grassa, ma molto alta e dalle forme generose anni Cinquanta: seno prosperoso, vitino di vespa, sedere e cosce abbondanti, e una massa di capelli da modella di un quadro preraffaellita. Sarebbe stata considerata una bellezza in qualsiasi altro periodo storico che non fosse il Ventunesimo secolo, in cui l’unica immagine femminile accettabile è quella di una bambina affamata con le clavicole sporgenti e improbabili tette sferiche che sfidano la forza di gravità. Per questo Helena era perennemente a dieta, come se le sue ampie spalle d’alabastro e le sue cosce tonde e voluttuose potessero svanire nel nulla. «Ho avuto una giornataccia» annunciò con aria melodrammatica, lanciando un’occhiata alle griglie pronte ad accogliere i dolcetti. «Ho quasi finito» si affrettò a dire Issy, posando la tasca per la glassa. Il timer del forno suonò. Issy aveva sempre desiderato una cucina Aga, rosa ovviamente, anche se non sarebbe mai passata dalle scale né dalle finestre e, anche se ci fosse passata, in casa non c’era abbastanza spazio e, anche se ci fosse stato, il pavimento non avrebbe retto il peso e, anche se lo avesse retto, Issy non avrebbe saputo dove mettere le scorte di gasolio e, anche se lo avesse saputo, in una Aga non si potevano cuocere le torte: era troppo imprevedibile. Tanto non se la poteva permettere. (Teneva comunque un catalogo su uno scaffale, nascosto tra i libri.) In compenso, aveva un’efficientissima Bosch tedesca, che era sempre alla temperatura giusta e spaccava il secondo, ma non ispirava devozione. Helena guardò le due dozzine di cupcake perfetti emergere dal forno. «Per chi stai cucinando, l’Armata rossa? Dammene uno.» «Scottano.» «Ho detto dammene uno!» Issy alzò gli occhi al cielo e spremette la glassa con un abile movimento del polso. In realtà, avrebbe dovuto lasciar raffreddare i dolci in modo che la crema al burro non si sciogliesse, ma Helena non era capace di aspettare così a lungo. «Cos’è successo?» le chiese, quando la coinquilina si accomodò sulla dormeuse (se l’era portata


dietro quando si era trasferita e le si addiceva molto: Helena non amava sprecare più energie di quanto non fosse strettamente necessario) con un’enorme tazza di tè e due cupcake sul suo piattino a pois preferito. Issy era soddisfatta dei suoi dolcetti: erano leggeri come l’aria, con un delicato sapore di crema e arancio. Insomma, erano squisiti, e non avrebbero rovinato loro l’appetito. In verità, non aveva comprato niente per cena... Be’, avrebbero mangiato cupcake, allora. «Oggi mi sono presa un pugno.» «Di nuovo?» esclamò Issy. «Un tipo mi aveva scambiata per un camion dei pompieri.» «E secondo lui cosa ci faceva un camion dei pompieri al pronto soccorso?» chiese Issy. «Bella domanda. Be’, ne vediamo di tutti i colori.» Helena aveva capito di voler fare l’infermiera a otto anni, quando aveva preso tutti i cuscini che c’erano in casa e li aveva trasformati in letti d’ospedale, sistemandoci sopra i peluche. A dieci anni aveva insistito perché i genitori la chiamassero Florence, in onore di Florence Nightingale (i tre fratelli più piccoli, che avevano un sacro terrore di lei, lo facevano ancora); a sedici, aveva lasciato la scuola per andare a imparare il mestiere sul campo, in un reparto vero sotto la guida di un’infermiera esperta. Era diventata caposala («Chiamatemi “Capo”» aveva intimato ai vecchi primari, che erano stati ben lieti di accontentarla), e mandava avanti il pronto soccorso di Hemel Park, trattando i suoi tirocinanti come se fossero ancora negli anni Cinquanta. Una volta aveva rischiato di finire sul giornale perché una ragazza si era lamentata delle sue ispezioni alle unghie. La maggior parte di loro, però, la adorava, come pure i tanti giovani medici che l’avevano aiutata e spronata nei primi mesi, quando era più insicura. Per non parlare dei pazienti... se non erano fuori di testa e non picchiavano alla cieca, ovviamente. Benché Issy avesse un posto sicuro e uno stipendio migliore, benché se ne stesse seduta tutto il giorno e non fosse costretta a fare turni assurdi, a volte invidiava l’amica. Doveva essere bello amare il proprio lavoro e farlo bene, anche se era mal pagato e ogni tanto ti beccavi anche un pugno. «Come sta il signor Randall?» chiese Helena. Era molto affezionata al nonno di Issy, che a sua volta ammirava la sua bellezza, la accusava di diventare sempre più alta e sosteneva che sarebbe stata perfetta come polena di una nave. Quando Joe aveva cominciato a perdere colpi, Helena aveva passato in rassegna con il suo occhio professionale tutte le case di riposo della zona scegliendo la migliore, una premura per cui Issy le sarebbe stata eternamente debitrice. «Bene» rispose Issy. «Solo che quando è in forma vuole alzarsi e andare a cucinare, così si arrabbia e tratta male l’infermiera.» Helena annuì. «Sei già andata a trovarlo con Graeme?» Issy si morse il labbro: Helena conosceva benissimo la risposta. «Non ancora» disse. «Ha avuto molto da fare.» Il punto era, pensò Issy, che Helena tendeva ad attirare uomini che veneravano la terra su cui camminava, cosa che però lei trovava estremamente irritante, per cui finiva quasi sempre per innamorarsi di affascinanti maschi dominanti a cui interessavano solo donne con l’indice di massa corporea di un chihuahua. Pertanto, chiunque cercasse un rapporto più o meno normale non poteva sperare di competere con gli ammiratori di Helena, che versavano fiumi d’inchiostro in poesie e le mandavano enormi mazzi di fiori. «Mm» mugugnò Helena, con lo stesso identico tono con cui si rivolgeva a quei mezzi delinquenti degli skater che arrivavano in ospedale con la clavicola fratturata. Si mise in bocca un altro cupcake e aggiunse: «Sono divini. Potresti farlo diventare un lavoro. Sei sicura che non contino come una delle famose cinque porzioni di frutta e verdura al giorno?».


«Sicurissima.» Helena sospirò. «Peccato, è bello sognare... Dai, accendi la tv. C’è American Idol stasera. Voglio vedere Simon Cowell infierire sui concorrenti.» «Tu hai bisogno di un uomo gentile» ribatté Issy, prendendo il telecomando. Anche tu, pensò Helena, ma lo tenne per sé.


2

CUPCAKE ALL’ARANCIA CON GLASSA DI MARMELLATA DI ARANCE PER LE GIORNATE NO

Moltiplica gli ingredienti per quattro se vuoi farne tantissimi. 2 arance con la buccia, tagliate a spicchi. Cerca di non comprarle amare. Le arance rosse possono servire a spremere via la frustrazione. 8 once di burro fuso. Se non hai una pentola a portata di mano, usa il fuoco della tua sacrosanta rabbia per scioglierlo. 3 uova intere. Più altre tre da lanciare terapeuticamente contro il muro. 8 once di zucchero. Aggiungine un altro po’ se hai bisogno di addolcirti. 8 once di farina-che-fa-lievitare-l’autostima 3 cucchiai di marmellata di arance 3 cucchiai di scorza d’arancia Riscalda il forno a 350 °F. Imburra gli stampini per i cupcake. Taglia l’arancia (sì, con tutta la buccia) a spicchi e mettila nel mixer con il burro fuso, le uova e lo zucchero. Frulla fino a ottenere un composto omogeneo o finché il rumore del mixer non ti fa sentire un po’ meglio. Versa il composto in una ciotola insieme alla farina e colpiscilo ripetutamente con un cucchiaio fino a sottometterlo. Inforna i cupcake e falli cuocere per 50 minuti. Lasciali intiepidire negli stampini per qualche minuto, poi mettili su una griglia in modo che si raffreddino completamente. Aggiungi la marmellata. Al primo morso ritroverai l’entusiasmo. Issy ripiegò la lettera e la ripose nella borsa, scuotendo la testa. Le dispiaceva che il nonno avesse avuto una giornata no. Doveva aver discusso di nuovo con Marian. Aveva provato ad accennare a sua madre che lui avrebbe apprezzato ricevere sue notizie ogni tanto. Evidentemente non aveva funzionato. Be’, non poteva farci molto. A ogni modo, era un conforto sapere che il nonno si trovava in un posto dove gli affrancavano e spedivano le lettere. Gli ultimi mesi, quando accendeva il forno alle cinque in punto e poi si dimenticava il perché, erano stati difficili per tutti. E lei aveva già i suoi problemi, pensò, guardando l’orologio e stringendo un contenitore pieno di cupcake. Era una giornata tremenda per tornare al lavoro. Issy sbirciò al di là della fila di persone in attesa alla fermata per vedere se quel catorcio dell’autobus 73 stesse spuntando da dietro l’angolo di Stoke Newington Road. Di solito non riusciva a imboccare la curva a gomito al primo tentativo, scatenando le ire dei ciclisti e i clacson delle auto. Presto li avrebbero tolti dalla circolazione. Poveri rottami... Comunque sì, il primo lunedì dopo Natale era in cima alla lista delle giornate no. Il vento le sferzava il viso e minacciava di far volare via il cappello di lana che aveva comprato in saldo,


convinta che le righe fossero simpatiche, originali e da giovani. In quel momento, invece, sospettò che il suo nuovo acquisto la facesse più che altro assomigliare a Haggis McBaggis, la vecchia signora che spingeva un carrello pieno di sacchetti e che a volte se ne stava alla fermata senza salire mai sull’autobus. Di solito Issy le rivolgeva un mezzo sorriso, ma, se l’aveva vicino, cercava di non mettersi sottovento. Niente Haggis, si disse, lanciando un’occhiata ai volti delle persone in fila accanto a lei: sempre le stesse, con la pioggia, la neve, il vento e, più raramente, il sole. Nemmeno la vecchia signora voleva alzarsi quella mattina. Issy salutò alcune facce conosciute e ignorò le altre, come quella del ragazzo visibilmente arrabbiato che con una mano armeggiava con il telefono e con l’altra si ispezionava l’orecchio, o quella del tizio più anziano che si scorticava furtivamente il cuoio capelluto, come se il fatto di avere la forfora lo rendesse invisibile. Erano lì tutti i giorni, sempre allo stesso posto, ad aspettare l’autobus scassato e a chiedersi quanto sarebbe stato pieno quando li avrebbe finalmente portati a destinazione nei negozi, negli uffici, nella City, nel West End di Londra, lasciandoli a Islington o in Oxford Street, per poi recuperarli la sera, al buio e al freddo, quando la condensa dei corpi stanchi appannava i vetri e i bambini, usciti tardi da scuola, vi disegnavano delle facce, mentre i ragazzini privilegiavano gli organi maschili. «Ciao» disse a Linda, una signora che lavorava ai magazzini John Lewis e con cui ogni tanto scambiava un saluto. «Buon anno.» «Buon anno!» rispose l’altra. «Hai fatto qualche proposito?» Issy sospirò e si portò la mano alla cintura, leggermente stretta. La pioggia, il buio e le giornate brevi le facevano venire voglia di chiudersi in casa a cucinare piuttosto che uscire, fare sport e mangiare un’insalata. Anche a Natale, alla casa di riposo, aveva cucinato moltissimo. «Mah, il solito» rispose. «Perdere qualche chilo...» «Ma non ne hai bisogno» ribatté Linda. «Stai benissimo così!» Come molte signore di mezza età, aveva un seno prosperoso, fianchi generosi e portava scarpe comode, perfette per stare in piedi tutto il giorno al reparto merceria. «Sei così carina. Se non ci credi, fatti una foto e riguardala fra dieci anni.» Poi, spinta dalla curiosità, lanciò una rapida occhiata al contenitore che Issy aveva in mano. «Sono per i colleghi» spiegò lei con un sospiro. «Certo» mormorò Linda. Le altre persone in fila cominciarono ad avvicinarsi, chiedendo a Issy come erano andate le vacanze. «E va bene, golosoni!» Issy aprì il contenitore e i volti congelati dal vento abbozzarono un sorriso, per poi gettarsi allegramente sui cupcake. Come al solito, ne aveva preparati il doppio, in modo da poter sfamare sia i colleghi sia i compagni di autobus. «Sono la fine del mondo» disse un signore con la bocca piena. «Sai, potresti farlo diventare un lavoro.» «Con voi lo è, a volte» replicò Issy, arrossendo suo malgrado di piacere. «Buon anno!» Il gruppetto si animò e tutti cominciarono a chiacchierare. Linda non faceva che parlare del matrimonio della figlia ventiseienne Leanne, che era una podologa (la prima laureata della famiglia) e stava per sposare un chimico industriale. Linda, tutta fiera, stava organizzando la cerimonia. Di certo non aveva idea di quanto fosse difficile per Issy dover ascoltare una madre che non desiderava altro che aggiungere occhielli e nastri al corsetto della figlia in occasione delle sue nozze con un uomo meraviglioso. Linda immaginava che Issy avesse un fidanzato, ma non le piaceva ficcare il naso. Ormai le donne in carriera se la prendevano comoda. Ma avrebbe dovuto darsi una mossa, eccome. Com’era


possibile che una ragazza così carina, che per giunta sapeva cucinare, non fosse ancora sposata? Eppure eccola lì, a prendere l’autobus tutta sola. Sperava che la sua Leanne restasse incinta presto: non vedeva l’ora di approfittare dello sconto dipendenti per fare un po’ di acquisti al reparto neonati. Issy richiuse il contenitore e, siccome l’autobus non arrivava, si voltò e lanciò un’occhiata a Pear Tree Court. Lo strano negozietto affacciato sul cortile, con le inferriate chiuse e la spazzatura in attesa di essere ritirata, sembrava un uomo scontroso che sonnecchiava nella luce cupa di un mattino di gennaio. Negli ultimi quattro anni diverse persone avevano provato a trasformarlo in un’attività commerciale di qualche tipo, fallendo però miseramente. Forse la zona non era abbastanza frequentata, o forse era la vicinanza della ferramenta. Fatto sta che la piccola boutique di abbigliamento per bambini, con i suoi deliziosi capi del marchio francese Tartine et Chocolat (dai prezzi esorbitanti), non era durata molto, come pure il negozio di articoli da regalo con le edizioni straniere del Monopoli e le tazze Penguin Classic e poi il centro yoga, i cui proprietari avevano riverniciato l’intera facciata di un rosa che voleva essere rilassante e sistemato fuori, accanto all’albero, una fontana con un Buddha. Issy, troppo intimidita per metterci piede, aveva pensato che facessero affari, visto che il quartiere era pieno di tipi alla moda e mamme attente alla linea e loro vendevano tappetini costosissimi e morbidi pantaloni stile Gwyneth Paltrow. Invece no. Un giorno, dietro la vetrina, era apparso ancora una volta il cartello giallo e nero con la scritta AFFITTASI, che faceva a pugni con il rosa della facciata. Anche il Buddha era sparito. Linda si accorse che Issy stava guardando il negozio chiuso. «È un vero peccato» osservò. Lei annuì. Vedere il centro yoga tutti i giorni, con le ragazze magre e bionde che ci lavoravano, le aveva ricordato che, ora che aveva più di trent’anni, non era più facile come un tempo mantenere una quarantaquattro, soprattutto coltivando la passione per la cucina. Certo, non avrebbe mai potuto essere un grissino vivendo a casa del nonno. Quando tornava da scuola, lui, nonostante avesse sulle spalle una giornata di lavoro, le faceva cenno di entrare nelle grandi cucine della panetteria. Gli altri fornai si facevano da parte e le sorridevano, per poi ricominciare subito a sbraitare gli uni contro gli altri. Lei provava imbarazzo per il semplice fatto di essere lì, soprattutto quando Joe annunciava: «Ora ha inizio la tua vera educazione». Issy era una bambina dagli occhi tondi, timida e silenziosa, che arrossiva facilmente e si sentiva fuori posto in una scuola in cui le regole sembravano cambiare da una settimana all’altra e venire assimilate da tutti tranne che da lei. «Cominciamo con i drop scones. Persino una bambina di cinque anni può farli!» «Ma nonno, io ne ho sei!» «No, ne hai cinque!» «No, sei!» «Ne hai due.» «Ne ho sei!» «Quattro.» «Sei!» «Dunque, il segreto dei drop scones» le aveva spiegato il nonno con aria seria dopo averle fatto lavare le mani e aver raccolto pazientemente i quattro gusci d’uovo caduti sul pavimento «è il fuoco. Non deve essere troppo alto. La fiamma viva li uccide. Ora, fai piano.» Issy era in piedi sullo sgabello marrone un po’ traballante per colpa del buco sul linoleum, così il nonno stava dietro di lei. Con il visino concentrato, Issy lasciava che il composto gocciolasse


lentamente dal cucchiaio di legno nella padella. «Devi avere pazienza» le diceva Joe. «Non bisogna avere fretta in queste cose. Un drop scone bruciacchiato è senza vita. E questo fornello...» Joe aveva riversato tutte le sue energie sull’amata nipotina, insegnandole i trucchi e le tecniche del bravo fornaio. “È tutta colpa sua” pensò Issy. Quell’anno avrebbe cucinato di meno e perso almeno un chilo. Ma poi si rese conto che si stava leccando la crema all’arancia dalle dita. Accidenti! Ancora nessuna traccia dell’autobus. Mentre Issy sbirciava dietro l’angolo lanciando occhiate nervose all’orologio, avvertì una goccia di pioggia sulla guancia. Poi un’altra. Il cielo era grigio da così tanto tempo che era impossibile stabilire quando sarebbe piovuto. Ma ora si prospettava senza dubbio un temporale: le nuvole erano quasi nere. La fermata non offriva alcun riparo, a parte i tre centimetri di grondaia dell’edicola alle loro spalle, ma il proprietario non voleva che la gente si appoggiasse alle vetrine. Lo diceva spesso quando Issy andava a comprare il giornale (e, ogni tanto, una barretta). Non le restò che ingobbirsi, calcare il cappello sulla testa e chiedersi, come faceva talvolta, perché non avesse scelto di vivere in Toscana, in California o a Sydney. A un tratto una BMW 23I si fermò bruscamente sulle strisce gialle dell’autobus, schizzando la maggior parte delle persone in fila: alcuni si limitarono a sbuffare, altri si lasciarono andare a portentose imprecazioni. Issy ebbe un tuffo al cuore: quell’episodio non l’avrebbe certo resa popolare tra i membri della compagnia del 73. La portiera dell’auto si aprì. «Serve un passaggio?» Graeme non sopportava quando Issy faceva quell’aria da martire mentre aspettava l’autobus. Era una ragazza deliziosa e gli piaceva davvero stare con lei, ma lui aveva bisogno dei suoi spazi. E poi non era una buona idea andare a letto con una collega, tanto più se eri un suo superiore. Comunque era contento che capisse perché non andava mai a dormire da lei. Lui aveva un sacco di cose da fare e non poteva certo permettersi di avere accanto qualcuno che gli complicasse la vita ancora di più... Ma quando andava al lavoro con la sua BMW, pensando alla strategia aziendale, l’ultima cosa di cui aveva bisogno era vedere Issy in piedi alla fermata, bagnata fradicia, la sciarpa intorno al collo. Lo faceva sentire a disagio, anzi sembrava farlo apposta, stando lì impalata e... zuppa. Graeme era di gran lunga l’uomo più bello dell’ufficio. Alto, fisico scolpito dalla palestra, capelli neri e due penetranti occhi azzurri. Issy lavorava nella società già da tre anni quando era arrivato, causando gran fermento. Graeme era perfetto per il settore immobiliare: aveva un modo di fare autorevole e sicuro, tanto che i clienti avevano sempre l’impressione che, se non si fossero affrettati a comprare quello che voleva vendergli, avrebbero perso un’occasione d’oro. All’inizio Issy lo considerava al pari di una star della musica o della tv: bello da vedere ma assolutamente irraggiungibile. Aveva avuto molti ragazzi gentili e carini e un paio di stronzi galattici, ma per un motivo o per l’altro nessuna relazione aveva funzionato: o era sbagliato il momento, o erano sbagliati loro. Non che lei si sentisse già sul viale del tramonto, ma, in un angolo della sua mente, sapeva di essere pronta a sistemarsi. Non voleva la vita di sua madre, che passava da un uomo all’altro, perennemente insoddisfatta. Lei desiderava una casa e una famiglia. Un’idea un po’ antiquata forse, ma così la pensava. Certo Graeme non era tipo da relazione stabile: all’inizio lo vedeva allontanarsi dall’ufficio a bordo della sua auto sportiva, in compagnia di ragazze stupende e magrissime dai lunghi capelli biondi: sempre diverse, ma indistinguibili l’una dall’altra. Così se


l’era tolto dalla testa. Era stata una sorpresa per entrambi quando li avevano spediti a un corso di formazione di una settimana presso il quartier generale della compagnia a Rotterdam. Chiusi in albergo per la pioggia battente, con gli ospiti olandesi che erano già andati a dormire, si erano ritrovati insieme al bar scoprendo di andare più d’accordo di quanto avessero immaginato. Graeme era incuriosito da quella ragazza carina e formosa, dolce e divertente, che se ne stava sempre in disparte, non flirtava, non ridacchiava e non batteva le ciglia al suo passaggio. E Issy, leggermente stordita da due Jägermeister, non poteva certo rimanere indifferente di fronte alle braccia muscolose e alla mascella volitiva di Graeme. Si ripeteva che non significava nulla, che non era niente di cui preoccuparsi, solo una sbandata da mettere in conto all’alcol e da mantenere segreta... Ma lui era così bello! Graeme si era messo in testa di sedurla un po’ per noia, ma era rimasto stupito scoprendo in lei una dolcezza e una tenerezza inaspettate. Issy non era sfacciata e sgarbata come le altre ragazze, non passava il tempo a lamentarsi per le calorie o a rifarsi il trucco. Aveva sorpreso anche se stesso infrangendo una delle sue regole auree e richiamandola dopo il loro rientro a Londra. Issy, incredula e al contempo lusingata, era andata nel suo appartamento minimalista a Notting Hill, e gli aveva preparato una formidabile bruschetta. Una bella serata per entrambi. Così erano passati otto mesi. E Issy aveva a poco a poco cominciato a pensare (non era riuscita a trattenersi) che forse... forse Graeme poteva essere l’uomo giusto per lei. Che anche un tipo così affascinante e ambizioso poteva avere un lato gentile. A lui piaceva parlarle di lavoro e a lei piaceva preparargli la cena, condividere con lui i pasti e il letto. Helena, con il suo solito spirito pratico, non aveva ovviamente mancato di sottolineare che, da quando stavano insieme, non solo lui non si era mai fermato a dormire da loro, ma che le aveva chiesto spesso di andarsene da casa sua prima che facesse giorno; che Issy non aveva mai conosciuto né i suoi amici, né sua madre; che non l’aveva mai accompagnata dal nonno; che non l’aveva mai neppure chiamata la sua “ragazza”. E che, sebbene a Graeme potesse piacere ogni tanto giocare a fare il fidanzatino con una ragazza del suo ufficio, Issy, a trentun anni, doveva aspirare ad altro. In genere, a quel punto Issy si tappava le orecchie. Sì, certo, poteva anche lasciarlo, nonostante non ci fossero pretendenti all’orizzonte, soprattutto non belli come lui. Magari poteva rendergli la vita talmente piacevole da indurlo a riconoscere quanto sarebbe stato triste senza di lei e a chiederle di sposarlo. Helena riteneva che quell’eventualità fosse piuttosto remota e non ne faceva mistero. Graeme, a bordo della BMW, fece una smorfia e abbassò Jay-Z, facendo salire Issy. Pioveva: non poteva non fermarsi. Non era un bastardo. Issy salì sull’auto dall’assetto basso con quanta più grazia possibile, cioè non molta. Sapeva benissimo di aver fatto vedere le mutande a chiunque. Graeme fece per infilarsi nuovamente nel traffico (senza mettere la freccia), prima ancora che Issy si allacciasse la cintura. «Forza, stronzi, fatemi passare» ringhiò. «“Serve un passaggio?”» ripeté Issy facendogli il verso. «Da quando in qua parli così?» Lui le lanciò un’occhiataccia e alzò un sopracciglio. «Ti faccio scendere, se vuoi.» La pioggia cominciò a battere ancora più forte sul parabrezza, come a voler rispondere per lei. «No, per carità. Anzi, grazie.» Graeme emise una specie di grugnito. A volte, pensò Issy, gli dava fastidio essere sorpreso a compiere una buona azione. «Be’, non possiamo dirlo a tutti. Siamo colleghi» aveva spiegato Issy a Helena.


«Ma come, dopo tutto questo tempo? E poi secondo te non l’hanno capito?» aveva ribattuto l’amica. «Sono tutti cretini?» «È una società immobiliare...» «Va bene, sono tutti cretini. Ma non capisco perché tu non possa rimanere a dormire da lui ogni tanto.» «Perché non vuole che ci vedano arrivare insieme in ufficio» aveva detto Issy, come se fosse la cosa più normale del mondo. Ed era così, no? In fondo, otto mesi non erano molti. Avevano tempo per decidere di ufficializzare la cosa. Non era ancora il momento giusto. Helena le aveva rivolto il suo solito sorrisetto ironico. Il traffico verso il centro era terribile e Graeme imprecava sottovoce, ma a Issy non importava: era così bello starsene in macchina al calduccio ad ascoltare la radio a tutto volume. «Cosa fai oggi?» gli chiese, tanto per fare conversazione. In genere, lui le riversava addosso tutte le tensioni dell’ufficio: sapeva di poter contare sulla sua discrezione. Quel giorno, invece, si limitò a lanciarle un’occhiata. «Niente di speciale.» Issy sollevò le sopracciglia, stupita. Le giornate di Graeme erano sempre speciali, piene di lotte all’ultimo sangue per farsi notare e dimostrare di essere il migliore. Il settore delle vendite immobiliari incoraggiava quel tipo di atteggiamento. Ecco perché, come Issy doveva spiegare a volte alle amiche, Graeme poteva sembrare leggermente... aggressivo. Era solo una facciata che gli serviva al lavoro. Ma lei aveva capito dalle loro chiacchierate notturne, dai suoi sbalzi d’umore e dai suoi occasionali sfoghi che, sotto sotto, era vulnerabile, sensibile e preoccupato del suo status, come chiunque altro. Ecco perché Issy aveva molta più fiducia nel suo rapporto con lui di quanta non ne avessero le amiche. Vedeva il suo lato fragile. Lui le confidava le sue preoccupazioni, le sue speranze, i suoi sogni, le sue paure. Ed ecco perché era una cosa seria, indipendentemente da dove lei dormisse. Mise la mano su quella di lui, che stringeva la leva del cambio. «Andrà tutto bene» gli disse con dolcezza. Graeme alzò le spalle e ribatté, quasi brusco: «Lo so». La pioggia aumentò ancora quando imboccarono la strada vicino a Farringdon Road dove si trovavano gli uffici della Kalinga Deniki, meglio conosciuta come KD, all’interno di un moderno palazzo di vetro alto sei piani che stonava in mezzo agli edifici bassi di mattoni rossi. Graeme rallentò. «Ti dispiace se...» «Stai scherzando, vero?» «Andiamo! Cosa penserebbero i colleghi se mi vedessero arrivare la mattina con un’impiegata?» Scorse l’espressione di Issy e si corresse: «Scusa, volevo dire con la office manager. Io so come stanno le cose, ma gli altri?». Le fece una rapida carezza sulla guancia. «Mi dispiace, ma sono il capo e se comincio a incoraggiare le relazioni tra dipendenti... scoppierà il finimondo.» Per un attimo Issy esultò fra sé. Avevano una relazione quindi! Era ufficiale! Lo sapeva. Anche se ogni tanto Helena le lasciava intendere che lei era una stupida e che a Graeme faceva solo comodo avere qualcuno che lo ascoltasse. Lui sembrò leggerle nel pensiero, perché le sorrise con aria colpevole e aggiunse: «Non sarà così per sempre». Ma non poté ignorare il senso di sollievo che provò quando lei scese dall’auto. Issy fece lo slalom tra le pozzanghere. Pioveva così forte che, nei pochi minuti che impiegò a


risalire Britton Street, si inzuppò dalla testa ai piedi, come se non fosse mai salita in macchina. Si infilò nei bagni al pianterreno, quasi sempre vuoti perché talmente moderni che nessuno capiva mai come aprire i rubinetti o tirare lo sciacquone. Mise la testa sotto l’asciugatore. Perfetto, ora sembrava un cespuglio. Quando aveva tempo e si faceva la piega con il phon usando un sacco di prodotti costosissimi, poteva sfoggiare una massa di riccioli splendenti che le ricadevano sulle spalle. Quando invece il tempo non l’aveva, cioè quasi sempre, la chioma ribelle tendeva al crespo, soprattutto nelle giornate piovose. Si guardò allo specchio e sospirò: sembrava che avesse un gomitolo in testa. Il vento freddo le aveva arrossato le guance (Issy odiava la sua tendenza ad arrossire per qualsiasi cosa, ma in quel caso le faceva piacere) e gli occhi verdi, messi in risalto dal mascara, erano belli come sempre, ma i capelli erano un vero disastro. Frugò nella borsa alla ricerca di una fascia o un fermaglio, ma trovò solo un elastico rosso che le aveva lasciato il postino. Avrebbe dovuto accontentarsi. Certo, non si intonava al vestito a stampa floreale e al cardigan nero a cui aveva abbinato calze coprenti e stivali, ma pazienza. Era in leggero ritardo. Salutò Jim, il portiere, e prese l’ascensore fino al secondo piano, che ospitava l’amministrazione. I venditori e i progettisti occupavano il piano superiore, ma l’atrio era di vetro, per cui era facile sbirciare. Arrivata alla scrivania, salutò i colleghi con un cenno, per poi rendersi conto che la stavano aspettando per la riunione delle nove e trenta di cui doveva redigere il verbale. Graeme avrebbe illustrato ai dipendenti gli esiti dell’ultimo consiglio d’amministrazione. Imprecò sottovoce. Perché non gliel’aveva ricordato? Afferrò il portatile e si precipitò verso le scale. In sala riunioni i venditori erano già seduti intorno al tavolo di vetro a scambiarsi battute. Quando Issy entrò mormorando le sue scuse, alzarono lo sguardo indifferenti. Graeme, invece, sembrava furioso. “Be’, è colpa tua” pensò Issy in un moto di stizza. Se non l’avesse abbandonata in mezzo al diluvio, sarebbe arrivata in orario. «Fatto tardi ieri sera?» le chiese malizioso Billy Fanshawe, uno degli agenti più giovani e arroganti. Era convinto di essere irresistibile e purtroppo riceveva spesso conferme in tal senso (proprio in virtù della sua ferrea convinzione). Issy fece un sorrisetto di circostanza e si sedette senza neanche prendere il caffè, anche se ne aveva un bisogno disperato. Accanto a lei c’era Callie Mehta, responsabile delle Risorse umane nonché unica dirigente donna della Kalinga Deniki; era impeccabile e imperturbabile come sempre. «Bene» esordì Graeme, schiarendosi la gola. «Ora che finalmente ci siamo tutti, possiamo cominciare.» Issy si sentì avvampare. Non pretendeva che lui le riservasse un trattamento di favore, figuriamoci, ma non era nemmeno giusto che la prendesse di mira. Per fortuna, nessuno se ne accorse. «Ho parlato con i soci ieri» continuò. La KD era una multinazionale con sedi in quasi tutte le principali città del mondo. Alcuni degli elusivi e potenti membri del consiglio di amministrazione avevano base a Londra, ma trascorrevano la maggior parte del tempo in aereo per andare a esaminare proprietà all’estero. I presenti drizzarono le orecchie. «Come sapete, è stato un anno difficile per noi...» «Non per me» saltò su Billy, con l’aria compiaciuta di chi si era appena comprato la prima Porsche. Issy decise di non metterlo a verbale. «...E abbiamo ricevuto duri colpi negli Stati Uniti e in Medio Oriente. Il resto dell’Europa resiste,


così come l’Estremo Oriente, ma...» Tutti pendevano dalle sue labbra. «A quanto pare non si può continuare in questo modo. Dovremo operare dei... tagli.» Callie Mehta annuì. Evidentemente lo sapeva già, pensò Issy con un tuffo al cuore. E, se lo sapeva già, voleva dire che i “tagli” si sarebbero abbattuti sul personale. E i tagli al personale equivalevano a... licenziamenti! Una stretta allo stomaco. E se fosse toccato a lei? Di sicuro non avrebbero licenziato i vari Billy della situazione. E neanche gli account manager: la KD non poteva fare a meno di loro. La mente di Issy cominciò a correre. «Si tratta di un’informazione strettamente riservata. Non voglio che il verbale sia reso pubblico» continuò Graeme, lanciandole un’occhiata penetrante. «Ma è probabile che pensino a una riduzione del personale pari al cinque per cento.» Issy, in preda al panico, iniziò a fare i conti. L’azienda aveva duecento dipendenti, quindi dieci sarebbero stati licenziati. Non erano tantissimi, ma dove si sarebbe abbattuta la mannaia? Forse sul nuovo assistente alle vendite. Ma allora tutti gli agenti avrebbero dovuto sbarazzarsi dei loro assistenti? Forse avrebbero ridotto il numero dei venditori. No, non aveva senso farlo senza toccare l’amministrazione: sarebbe stato un modello commerciale miope. Graeme stava ancora parlando. «...credo però che dovremmo dimostrare loro di saper fare di meglio e puntare a un sette, otto per cento. Facciamo vedere a Rotterdam che la KD è una vera azienda del Ventunesimo secolo, produttiva ed efficiente.» «Giusto» approvò Billy. «D’accordo» disse qualcun altro. Ma se fosse toccato a lei... come avrebbe pagato il mutuo? Come avrebbe fatto a sopravvivere? Aveva pochi soldi da parte: aveva impiegato anni per restituire il prestito universitario e poi aveva voluto godersi Londra... Ripensò con rammarico a tutti i pranzi e le cene fuori, ai pomeriggi di shopping sfrenato e alle serate nei locali. Perché non era stata più previdente? Di certo non poteva andare in Florida da sua madre, no no. Cos’avrebbe fatto? Fu sul punto di scoppiare in lacrime. «Stai scrivendo, Issy?» le chiese Graeme in tono brusco, mentre Callie cominciava a parlare di liquidazioni ed exit strategy. Issy alzò gli occhi su di lui, stordita, e si accorse che la stava guardando come se fosse una perfetta estranea.


3

Il giorno prima a Issy non erano rimasti abbastanza cupcake per l’ufficio dopo l’assalto alla fermata dell’autobus, e in ogni caso non se la sarebbe sentita di distribuirli come se niente fosse con quello che aveva scoperto alla riunione. Tuttavia, dopo la pausa, i colleghi le si erano radunati intorno in cerca di un dolcetto. Erano rimasti profondamente delusi. «Sei il motivo per cui lavoro qui» aveva dichiarato François, il giovane pubblicitario, con il suo marcato accento francese. «I tuoi cupcake non hanno niente da invidiare a quelli dei pâtissiers di Toulon. C’est vrai.» Issy era arrossita fino alla punta dei capelli, così, una volta a casa, aveva provato una delle nuove ricette che le aveva spedito il nonno. Nonostante si sentisse un po’ meschina, quella mattina scelse una giacca sobria e il vestito blu più elegante che aveva per sembrare più professionale. Non pioveva così tanto, ma la fermata dell’autobus era spazzata dal vento. Linda, vedendo l’espressione preoccupata di Issy (aveva notato che le stava spuntando una ruga tra le sopracciglia), avrebbe voluto suggerirle una crema, ma non ebbe il coraggio di farlo, e si mise a blaterare di come in quel periodo la merceria fosse presa d’assalto dai clienti: doveva trattarsi di una reazione all’austerity, perché un sacco di gente aveva iniziato a lavorare a maglia. Ma era evidente che Issy non la stava ascoltando. Aveva lo sguardo fisso su una signora bionda ed elegante che si stava facendo mostrare il negozietto di Pear Tree Court da un uomo che Issy riconobbe come uno dei molti agenti immobiliari del quartiere e che aveva conosciuto quando aveva comprato casa. La donna parlava ad alta voce e Issy si avvicinò leggermente per sentire cosa diceva: aveva stuzzicato la sua curiosità professionale. «Questo quartiere non sa di cosa ha bisogno!» esclamò la bionda con voce stentorea. «C’è troppo pollo fritto e troppo poco cibo biologico. Sa che la Gran Bretagna ha il maggior consumo di zucchero pro capite, escludendo l’America e Tonga?» «Tonga, eh?» chiese l’agente. Issy strinse al petto il grosso Tupperware pieno di cupcake, nel caso in cui la donna posasse il suo sguardo gelido su di lei. «Io non mi considero una semplice amante del buon cibo» la sentì dire. «Sono più una sacerdotessa, capisce? Diffondo il verbo: la cucina integrale e il crudismo sono l’unica strada.» “Il crudismo?” si domandò Issy. «Vorrei mettere il forno lì» continuò la donna indicando con fare autoritario un punto in fondo al negozio. «Tanto non lo useremo molto.» «Certo, perfetto» approvò l’agente. “E invece no” pensò Issy. Il forno bisognava posizionarlo vicino alla vetrina in modo da sfruttare una ventilazione migliore, permettere ai clienti di dare un’occhiata a quello che si cucinava e allo stesso tempo tenere sempre d’occhio il negozio. Quell’angolo era una pessima scelta: costringeva a dare sempre le spalle a tutti. No, se si voleva cucinare, bisognava farlo in un punto in cui si poteva


essere visti, per accogliere le persone con un sorriso e... Persa nelle sue fantasticherie, quasi non si rese conto che stava arrivando l’autobus. Proprio in quel momento sentì la bionda dire: «E adesso, Desmond, parliamo di soldi...». “Quanti soldi?” si domandò pigramente Issy salendo sul 73, mentre Linda continuava a blaterare di punto croce. I vetri a specchio dell’ufficio sembravano ancora più freddi nella pallida luce del mattino. Issy ricordò che, tra i buoni propositi per il nuovo anno, c’era anche di salire a piedi le due rampe di scale, ma quando portava dei pesi (come ventinove cupcake in un grosso contenitore) poteva fare un’eccezione. Giunta al piano dell’amministrazione, strisciò il badge (con quella sua foto orrenda a perenne memoria) e oltrepassò le grandi porte a vetri. Una volta dentro, avvertì subito uno strano silenzio nell’aria. Tess, la receptionist, la salutò frettolosamente, mentre di solito la intratteneva con gli ultimi pettegolezzi dell’ufficio. Da quando stava con Graeme, Issy evitava di uscire con i colleghi per non rischiare di spifferare tutto, complici un paio di bicchieri di troppo. Era praticamente certa che nessuno sospettasse niente. A volte pensava addirittura che non ci avrebbero mai creduto. Graeme era così bello e spregiudicato... Lei era carina, ma certo non all’altezza di Tess, per fare un esempio, che portava minigonne inguinali ma riusciva comunque a sembrare bella e dolce e per nulla volgare (forse perché aveva ventidue anni), né di Ophy, che era alta uno e ottanta e, quando camminava per i corridoi, sembrava una regina più che una contabile. Ma non aveva importanza, si ripeteva Issy. Graeme aveva scelto lei, e non c’era altro da dire. Ricordava ancora quella volta in cui erano sgattaiolati fuori dall’hotel di Rotterdam con la scusa di una sigaretta, malgrado nessuno dei due fumasse, per poter fuggire dai colleghi. Si erano divertiti tantissimo insieme. E poi la dolce attesa del primo bacio, l’ombra delle lunghe ciglia nere di Graeme sugli zigomi, il dopobarba intenso Hugo Boss. Issy aveva rievocato a lungo quella prima sera, così romantica. Anche se nessuno ci avrebbe mai creduto, era vero: uscivano insieme, punto e basta. Graeme era il suo ragazzo, punto e basta. Ed eccolo lì, in piedi dalla parte opposta dell’open space, davanti alla sala riunioni, con un’espressione seria: la probabile causa del silenzio che regnava sulle ventotto scrivanie. Issy appoggiò il contenitore sul suo tavolo. Il cuore le batteva all’impazzata. «Mi dispiace» disse Graeme, appena furono tutti presenti. Aveva riflettuto a lungo sull’approccio da adottare: non voleva essere uno di quei capi subdoli che non dicono niente a nessuno e lasciano che i dipendenti scoprano che c’è qualcosa che non va dalle voci di corridoio. Voleva dimostrare ai suoi superiori che era in grado di fare scelte difficili e ai sottoposti che sapeva essere schietto. Non avrebbero fatto i salti di gioia, ma almeno lui si sarebbe comportato correttamente. «Non c’è bisogno che vi spieghi come stanno le cose» continuò, tentando di sembrare ragionevole. «Lo vedete da soli con i clienti, nelle vendite, nel fatturato. Vi occupate degli aspetti pratici, delle cifre e delle proiezioni. Conoscete la dura realtà degli affari. Quindi, anche se ciò che sto per dirvi è difficile, so che lo capirete, che non penserete sia ingiusto.» Non si sentiva volare una mosca. Issy deglutì rumorosamente. In un certo senso era positivo che Graeme avesse deciso di tenere quel discorso. Non c’era niente di peggio che un ufficio in cui i dirigenti mantenevano il silenzio e tutti vivevano in un clima di paura e sospetto. Per essere agenti immobiliari, stavano dimostrando una notevole onestà. Eppure avrebbero potuto aspettare almeno un po’. Riflettere, far passare un paio di mesi nella


speranza che le cose migliorassero, rimandare tutto alla primavera. O mettere la questione ai voti tra i soci, o... Issy si rese conto con una stretta al cuore che quelle decisioni dovevano essere state prese tempo prima a Rotterdam, ad Amburgo o a Seul. Si trattava solo di attuarle. Loro erano l’ultimo anello della catena. «Non c’è un bel modo per comunicare una cosa del genere» continuò Graeme. «Nella prossima mezz’ora riceverete un’e-mail con cui vi verrà notificato se potrete restare o dovrete andarvene. Dopodiché saremo quanto più possibile generosi e ragionevoli con voi. Per coloro che dovranno lasciarci: vi aspetto alle undici in sala riunioni.» E, così dicendo, lanciò un’occhiata all’orologio Montblanc. A un tratto Issy ebbe una visione di Callie, la responsabile delle Risorse umane, con il mouse puntato su “Invia” come una centometrista ai blocchi di partenza. «Mi dispiace» concluse Graeme. E scomparve nella sala riunioni. Issy lo guardò attraverso le veneziane, chino sul portatile. L’intero ufficio piombò nel panico. Erano tutti incollati ai monitor dei computer, aggiornavano freneticamente la casella di posta e imprecavano sottovoce. Non erano più gli anni Novanta, e nemmeno gli anni Zero, quando si passava da un lavoro all’altro nel giro di pochi giorni (una volta un’amica di Issy aveva preso due liquidazioni in diciotto mesi). Ormai le aziende e i posti di lavoro si andavano riducendo a vista d’occhio. Per ogni impiego disponibile c’erano sempre più candidati... ammesso che si riuscisse a trovarlo, un impiego disponibile. Per non parlare dei milioni di laureati e diplomati che si riversavano sul mercato ogni mese. Issy si sforzò di mantenere la calma, ma era troppo tardi. Aveva già addentato un cupcake, incurante delle briciole sulla tastiera. Respira. Respira. Due sere prima, lei e Graeme erano insieme sotto il piumino Ralph Lauren blu della camera da letto di lui, tranquilli e sereni. Sarebbe andato tutto bene. François, seduto accanto a lei, digitava furiosamente sulla tastiera. «Cosa fai?» gli chiese. «Sto aggiornando il curriculum. Qui è finita.» Issy deglutì e prese un altro cupcake. Nel farlo, sentì un trillo. Gentile signorina Issy Randall, siamo spiacenti di informarla che, in seguito alla sfavorevole congiuntura economica e in considerazione del fatto che le nostre proiezioni per quest’anno non indicano una ripresa delle vendite immobiliari nella City, i dirigenti della Kalinga Deniki CP hanno dichiarato in esubero il posto di office manager della sede di Londra da lei ricoperto, con effetto immediato. La preghiamo di recarsi nella sala riunioni C alle ore 11 per discutere le alternative con il suo diretto superiore Graeme Denton. Cordiali saluti, Jaap Van de Bier Risorse umane, Kalinga Deniki

«È evidente che hanno creato una specie di modello in cui inserire man mano i dati dei dipendenti» disse più tardi Issy a Helena. «Non si sono neanche presi la briga di scrivere un messaggio personale. La stessa e-mail a tutti i dipendenti sparsi nelle varie sedi. Tu perdi il lavoro, la tua vita, e per loro è come annotarsi l’appuntamento del dentista.» Tacque un istante. «A proposito, ci devo anche andare, dal dentista.» «Be’, ora che sei disoccupata è gratis» le rispose gentilmente l’amica. Gli uffici open space erano i peggiori in assoluto, pensò d’un tratto Issy. Si era perennemente esposti agli sguardi altrui e tutti facevano finta che fosse tutto a posto, quando era evidente che non


era così. Forse, se ci fossero stati degli uffici con le porte, i dirigenti avrebbero potuto disperarsi in pace, ma anche fare qualcosa per migliorare la situazione, anziché fingere che fosse tutto sotto controllo per poi ritrovarsi a dover licenziare il venticinque per cento del personale. Si udivano sussulti o esclamazioni di gioia; qualcuno alzò il pugno e gridò «Sì!» prima di guardarsi intorno con aria smarrita e sussurrare, imbarazzato: «Scusate... scusate... è che mia madre è in una casa di riposo, e...». Qualcun altro, invece, scoppiò a piangere. «Non ci credo» disse François, smettendo di aggiornare il curriculum. Issy era pietrificata. Rimase immobile a fissare lo schermo, resistendo alla tentazione di cliccare “Aggiorna” un’ultima volta, nella speranza di ottenere un risultato diverso. Non era tanto per il lavoro... cioè, sì, certo, essere licenziati era la cosa più sconvolgente e deprimente del mondo. Ma rendersi conto che Graeme era andato a letto con lei, si era lasciato preparare la cena, sapendo... sapendo cosa sarebbe successo... Ma cos’aveva nella testa? Senza pensare (se lo avesse fatto, la sua naturale timidezza avrebbe avuto la meglio), Issy balzò in piedi e si diresse verso la sala riunioni. Col cavolo che avrebbe aspettato fino alle undici. Voleva sapere subito. Fu tentata di bussare, ma poi entrò direttamente con aria spavalda. Graeme alzò gli occhi: non sembrava del tutto sorpreso. «Mi dispiace, Issy.» Lei lo guardò, furibonda. «Ti dispiace? Stai scherzando, spero! Perché non me l’hai detto?» «Be’, non potevo. Era una questione strettamente riservata. L’azienda avrebbe potuto farmi causa.» «Non avrei raccontato a nessuno che eri stato tu!» ribatté Issy, incredula di fronte alla mancanza di fiducia di Graeme. «Almeno avrei avuto un po’ di tempo per prepararmi psicologicamente.» «Ma non sarebbe stato giusto nei confronti dei tuoi colleghi accordarti un vantaggio» obiettò lui. «Non è la stessa cosa! Per loro è solo una questione di lavoro. Per me è una questione di lavoro e in più il fatto di non averlo saputo da te.» Dietro di lei si era radunato un gruppetto di persone che ascoltava attraverso la porta aperta. Si voltò di scatto. «Sì, proprio così, io e Graeme abbiamo una relazione.» Nonostante la rabbia, non poté fare a meno di notare che il suo annuncio suscitò qualche mormorio, ma non le esclamazioni di sorpresa che immaginava. «Be’, sì, lo sanno tutti» disse François. Issy lo fissò. «Che vuol dire “tutti”?» Gli altri colleghi sembrarono leggermente imbarazzati. «Lo sapevano tutti?» Si girò di nuovo verso Graeme. «E tu ne eri a conoscenza?» Con suo grande orrore, anche Graeme sembrava in difficoltà. «Ecco... continuo a pensare che sia meglio non ostentare le relazioni personali sul posto di lavoro.» «Ne eri a conoscenza?!» «Fa parte del mio lavoro sapere di cosa parlano i miei collaboratori» ribatté Graeme in tono sostenuto. «Se così non fosse, sarebbe una grossa mancanza da parte mia.» Issy lo fissò ammutolita. Se tutti sapevano, allora perché tanta segretezza? «Ma... ma....» «Issy, ti siedi, così possiamo cominciare la riunione?» Si rese conto che altri cinque colleghi dall’aria distrutta si stavano avvicinando lentamente alla sala. François non era tra loro, ma Bob, del settore vendite, sì; ora si stava grattando quella che sembrava una nuova chiazza di psoriasi sulla testa. A un tratto Issy provò un odio smisurato per la


società: per Graeme, per i colleghi, per il settore immobiliare e per tutto il sistema capitalistico. Girò i tacchi e se ne andò. Passando accanto alla sua scrivania, urtò con un fianco il Tupperware e i cupcake si rovesciarono sul pavimento. Issy aveva bisogno di un orecchio amico. Helena era in ospedale, a soli dieci minuti di distanza. Non l’avrebbe disturbata. La trovò che ricuciva la testa di un ragazzo, senza troppi riguardi. «Ahia» gemeva lui. «Credevo che usaste la colla per i punti» commentò Issy dopo aver smesso di piagnucolare. «Infatti» confermò Helena in tono secco, tirando bruscamente l’ago. «Tranne quando arriva qualcuno che la colla l’ha sniffata e pensa di poter volare sopra il filo spinato. In quel caso, non la usiamo.» «Non era colla, era gas per accendini» disse il ragazzo, pallido come un fantasma. «Tanto non te la do lo stesso, la colla» sibilò Helena. «Eh, no» sospirò l’altro tristemente. «Non posso crederci, Len» ricominciò Issy. «Quel bastardo mi ha fatto andare in ufficio sotto la pioggia sapendo: primo, che stava per licenziarmi, secondo, che tutti sapevano che uscivamo insieme. Anche gli altri penseranno che è uno stronzo.» «Mm» mormorò Helena, senza sbilanciarsi. Negli anni aveva imparato a non stroncare mai i fidanzati della sua migliore amica: spesso lei tornava sui suoi passi, e poteva essere imbarazzante. «In effetti, sembra proprio uno stronzo» osservò il ragazzo. «Appunto, lo capisci persino tu che sniffi la colla.» «Era gas per accendini, veramente.» «Be’, comunque è meglio così» sentenziò Helena. «In fondo, dicevi sempre che non ti piaceva... studiare medicina» aggiunse rapidamente lanciando un’occhiata al paziente. «Sarebbe meglio così se avessi un altro posto dove andare. Invece ho di fronte il mercato del lavoro più depresso degli ultimi vent’anni, non solo nel mio settore, e poi...» concluse scoppiando di nuovo in lacrime «...sono di nuovo single, Len! A trentun anni!» «Non sei vecchia!» esclamò Helena. «Andiamo, se tu avessi diciott’anni penseresti che sono vecchia.» «In effetti sì. E io ne ho venti» intervenne il ragazzo. «E se non la smetti con le droghe, a trentun anni non ci arrivi» ribatté Helena. «Però vi scoperei tutte e due» aggiunse lui. «Quindi non siete proprio da buttare.» Helena e Issy si guardarono. «Visto?» disse Helena. «Poteva andarti peggio.» «Be’, mi fa piacere sapere che non ho ancora raschiato il fondo del barile.» «Quanto a te,» concluse Helena, terminando la medicazione con un batuffolo di cotone e una benda «sappi che, se non la pianti con quella roba, non ti si drizzerà più per nessuna. Né per me, né per lei, né per Megan Fox, sono stata chiara?» «Davvero?» chiese lui, finalmente preoccupato. «Davvero. Potresti anche tagliarti le palle, per quello che ti servirebbero.» Il ragazzo deglutì. «È proprio ora che la smetta.» «Tu che dici?» replicò Helena porgendogli il biglietto da visita del centro per le tossicodipendenze. «E adesso levati dai piedi. Avanti il prossimo!» Una giovane donna dall’aria spaventata entrò insieme a un bambino di pochi anni con la testa


incastrata in una pentola. «Succede veramente?» chiese Issy. «Eh sì. Signora Chakrabati, questa è Issy, una studentessa di medicina. Le dispiace se assiste?» La donna scosse la testa e Helena si chinò sul bambino. «Ravi, non ci posso credere che sei di nuovo qui. Non sei un pirata, capito?» «Io... pirata!» «Certo è sempre meglio della grattugia, no?» La signora Chakrabati annuì energicamente e Helena andò a prendere l’olio di ricino. «Len, è meglio che vada.» Helena le lanciò un’occhiata comprensiva. «Sicura?» Issy annuì. «Sono uscita dall’ufficio come una furia, ma devo tornare indietro. Se non altro per parlare della liquidazione.» Helena l’abbracciò. «Si aggiusterà tutto, vedrai.» «E se invece non si aggiusta niente?» «Ci penso io che sono un pirata!» saltò su Ravi. Issy si accucciò e disse, rivolta alla pentola: «Grazie, piccolo. Potrei avere bisogno di te». L’idea di tornare in ufficio era quasi insopportabile. Issy era nervosa e imbarazzata. «Ciao» disse tristemente a Jim, il portiere. «Ho saputo. Mi dispiace tanto.» «Anche a me. Pazienza.» «Coraggio, tesoro. Troverai qualcosa di meglio. Ne sono sicuro.» «Mm.» «Mi mancheranno i tuoi cupcake.» «Be’, grazie.» Issy evitò il secondo piano e salì direttamente all’ultimo, quello delle Risorse umane. Non aveva la forza di affrontare di nuovo Graeme. Guardò il cellulare per l’ennesima volta. Nessuna telefonata, nessun messaggio. Com’era possibile? Le sembrava un incubo. «Ciao, Issy» disse dolcemente Callie Mehta, impeccabile come sempre nel suo morbido tailleur beige. «Questa è la parte peggiore del mio lavoro.» «Sì, anche del mio.» Callie prese un fascicolo. «Abbiamo pensato a un’offerta quanto più possibile generosa. E, visto che siamo all’inizio dell’anno, anziché lavorare fino alla fine del preavviso potresti prenderti le ferie che ti spettano.» Issy dovette ammettere che si trattava di un’ottima proposta. Ma no, che stupida! Callie era abituata a quel genere di trattative. «Poi, se vorrai, ma questo dipende interamente da te, ti finanzieremo i corsi di reinserimento.» «Corsi di reinserimento? Che nome inquietante.» «Sono corsi di formazione per aiutarti a capire... cosa fare dopo.» «Insieme agli altri disoccupati.» «Issy,» riprese Callie in tono gentile ma fermo «ti dico una cosa: nella mia carriera sono stata licenziata tre volte. È destabilizzante, ma ti assicuro che non è la fine del mondo. I meritevoli trovano sempre un’alternativa soddisfacente. E tu sei meritevole.» «Ecco perché sono senza lavoro.» Callie aggrottò leggermente la fronte e si portò un dito alla tempia. «Issy, voglio parlarti di una


cosa che ho notato. Forse non ti farà piacere, ma te la dico lo stesso, nel caso in cui possa esserti d’aiuto.» Issy si appoggiò allo schienale della sedia: era come sorbirsi una ramanzina dalla preside. «Ti ho osservata. Sei intelligente, laureata, hai un modo di fare piacevole...» Issy si domandò dove volesse andare a parare. «Perché sei solo una office manager? Voglio dire, prendi i venditori: sono più giovani di te, ma hanno tanta grinta e dedizione. Tu hai capacità e talento, ma non li hai certo sfruttati, limitandoti a raccogliere note spese e fogli di presenza. È come se avessi voluto nasconderti facendo qualcosa di sicuro e un po’ noioso nella speranza che nessuno si accorgesse di te.» Issy scrollò le spalle, visibilmente a disagio. Di certo Callie Mehta non aveva una madre che cercava di farsi notare a tutti i costi. «Non è troppo tardi per cambiare strada, sai» continuò Callie. «Tu pensi sia così, ma» e lanciò un’occhiata alla sua scheda «trentun anni non sono niente. Davvero. E se finirai a fare lo stesso lavoro per qualcun altro, be’... sarai insoddisfatta come eri qui. E non dirmi che non è vero, per favore. Mi occupo di Risorse umane da una vita e posso dirti che il licenziamento è la cosa migliore per te ora. Sei abbastanza giovane da poter fare quello che vuoi, ma potrebbe essere la tua ultima possibilità. Capisci cosa intendo?» Issy si sentì avvampare. Riuscì solo ad annuire, di nuovo sul punto di piangere. Callie si mise a giocherellare con la fede. «E... Issy, lo so che non è professionale da parte mia ascoltare i pettegolezzi dell’ufficio, ma spero che non mi troverai inopportuna se ti dico che è molto rischioso pensare che a un certo punto arrivi un uomo a prendersi cura di te. Può darsi che accada e, se è quello che vuoi, ti auguro che sia così. Ma se riuscirai a trovare qualcosa che ti piace veramente fare... be’, è importante nella vita.» Issy deglutì. Persino le orecchie le andavano a fuoco. «A lei piace quello che fa?» chiese infine. «A volte è difficile» rispose Callie. «Ma è sempre stimolante. E mai, mai noioso. Puoi dire altrettanto di quello che fai tu?» Le avvicinò un foglio facendolo scivolare sul tavolo. Issy lo prese e lo guardò: quasi ventimila sterline. Un sacco di soldi. Soldi in grado di cambiarti la vita. Eh, sì. «Mi raccomando, non spenderli tutti in scarpe e rossetti» disse Callie, nel tentativo di alleggerire l’atmosfera. «Neanche un po’?» domandò Issy, apprezzando il gesto e la franchezza. Be’, a dir la verità in quel momento le parole di Callie bruciavano, ma sentiva che erano mosse da un interesse genuino. «Un po’ sì.» Si strinsero la mano. Quella che ebbe luogo al Coins fu più una veglia funebre che una festa d’addio. Anche agli altri otto dipendenti licenziati era stato offerto di sfruttare le ferie, abbreviando così la tortura. Il pub era sempre stato caldo e accogliente, un grazioso rifugio lontano dai palazzi di vetro e dagli avveniristici edifici in affitto. Con le sue pareti ingiallite dal fumo pre-divieto, la birra alla spina senza pretese e i pacchetti di patatine, il tappeto fantasia e il cane sovrappeso del proprietario sempre in cerca di qualcosa da mangiare, non era diverso da migliaia di altri pub londinesi, sebbene appartenesse, rifletté Issy, a una specie in via d’estinzione. Un po’ come lei. Tentò di scacciare la malinconia: tanti colleghi erano venuti a salutare, era commovente. Tutti tranne Graeme. In un certo senso, era contenta. Non sapeva come avrebbe reagito se fosse stata costretta a rivolgergli la parola. Era


davvero meglio così. Non si era nemmeno disturbato a chiamarla per sapere come stava. Alle sette, Bob del settore vendite era già ubriaco fradicio, così Issy lo accompagnò su un divanetto e lasciò che si addormentasse. «A Issy!» disse François quando fu tempo di brindisi. «Ora che sta per lasciarci, se non altro la smetteremo di ingrassare a vista d’occhio.» «Cin cin!» gridarono gli altri. Issy li guardò costernata. «In che senso?» «Se i tuoi cupcake non fossero così buoni,» spiegò Karen, una corpulenta addetta all’ufficio prenotazioni che raramente le rivolgeva la parola «non sarei così grassa. Okay, va bene, lo sarei lo stesso, ma non mi piacerebbe così tanto prendere peso.» «Le mie stupide tortine?» chiese Issy. Aveva bevuto quattro bicchieri di rosé e cominciava a sentirsi un po’ stordita. «Non sono “stupide tortine”» obiettò François serio. «Non dirlo neanche per scherzo. Sono buone come quelle di Hortense Beusy, la migliore pâtissière di Toulon. C’est la vérité.» «Ma dai!» si schermì Issy, rossa in viso. «Lo dite solo perché sono gratis. Potevano sapere di cacca di babbuino e le avreste spazzolate via comunque. Qualsiasi cosa pur di non lavorare in quell’inferno» concluse con aria di sfida. Tutti scossero la testa. «È vero» saltò su Bob, alzando per un attimo la testa dal bancone. «Sei più brava come pasticciera che come office manager.» Alcuni annuirono. «Quindi mi sopportavate solo per i miei cupcake?» chiese Issy, ferita. «No» rispose François. «Anche perché ti scopavi il capo.» Issy riacquistò quasi subito la lucidità. Un’ultima occhiata in giro, un ultimo bacio a tutti, anche a quelli che non le erano mai stati simpatici, e a un tratto si sentì assalire dalla malinconia, come se la Kalinga Deniki fosse stata una famiglia anziché un branco di venditori senza scrupoli in cerca di soldi facili. Quanto al Coins, sarebbe stato imbarazzante tornarci: qualcuno poteva vederlo come un penoso tentativo di imbattersi nei suoi vecchi colleghi. Così, con la voce rotta dall’emozione, fece due coccole al vecchio cane grattandogli la testa, cosa che lui mostrò di apprezzare quasi quanto le patatine, e disse addio alla compagnia. «Vieni a trovarci» disse Karen. «Con i cupcake» aggiunse qualcun altro. Issy promise di sì, ma sapeva che non l’avrebbe fatto, che non voleva farlo. Quel capitolo della sua vita era chiuso. E adesso?


4

Biscotti alla Nutella per quando non andate al lavoro 225 gr di farina autolievitante 2 cucchiaini di lievito in polvere 100 gr di burro 100 gr di zucchero extrafine ½ cucchiaino di bicarbonato di sodio sciolto in acqua tiepida 2 cucchiai di sciroppo di zucchero invertito Golden Syrup 6 cucchiaini di Nutella 1 rivista di gossip 1 pigiama Riscaldate il forno a 200 °C. Setacciate la farina e il lievito in una ciotola, aggiungete il burro e impastate, quindi versate lo zucchero, il bicarbonato, lo sciroppo di zucchero invertito e due cucchiaini di Nutella. Formate delle palline delle dimensioni di una noce e disponetele su una teglia imburrata, schiacciandole con il pollice. Fate cuocere per 10 minuti circa. Nel frattempo, fate fuori i quattro cucchiaini di Nutella rimanenti. Mangiate l’intera teglia di biscotti mentre leggete la rivista di gossip in pigiama. Guarnite con lacrime a piacere.

Grazie al cielo Helena faceva i turni, e dunque spesso la mattina era a casa. Col senno di poi, Issy si sarebbe resa conto che non ce l’avrebbe mai fatta ad affrontare quelle prime due settimane da sola. Non doveva più puntare la sveglia la mattina, certo, ma la novità passò presto e lei si ritrovò a rigirarsi nel letto fino a notte fonda senza riuscire a prendere sonno. Avrebbe potuto saldare parte del mutuo con la liquidazione tenendo a bada gli avvoltoi per un po’, ma non avrebbe risolto il problema di cosa diavolo fare della sua vita. E gli annunci di lavoro erano deprimenti: molti riguardavano ambiti di cui non sapeva nulla; per altri impieghi era troppo vecchia, oppure lo stipendio offerto non bastava nemmeno a pagare le bollette. Il settore immobiliare non offriva granché e, con tutti i licenziamenti dell’ultimo periodo, disponeva di un bacino immenso di bravi professionisti a cui attingere. Helena e il nonno cercavano di incoraggiarla, dicendole di tenere duro, che sarebbe sicuramente saltato fuori qualcosa. Issy non ne era affatto convinta. Si sentiva mancare la terra sotto i piedi, con l’impressione di essere totalmente in balia degli eventi (e il fatto che alcuni le suggerissero: «Perché non ti prendi un anno sabbatico per viaggiare?», come se la sua presenza fosse completamente inutile, non aiutava di certo). Le ci volle una giornata intera per decidersi ad andare in edicola a comprare un giornale e degli Smarties per preparare una torta. Si ritrovò a modellare con la glassa facce tristi e fiorellini appassiti. Così non andava bene. Non aveva voglia di fare nulla, né di uscire di casa, né di giocare a Scarabeo con il nonno. E poi c’era Graeme, ovviamente. Anche quello le bruciava. Aveva investito più di quanto credesse in quel rapporto. Helena stava male per l’amica. Le dispiaceva vedere Issy così triste, ma capiva che doveva elaborare la perdita. Non fu facile starle vicino e, per tutto gennaio e poi febbraio, tornare in una casa buia e fredda trovando Issy chiusa in camera ancora in pigiama. Il loro appartamento era sempre stato un rifugio caldo accogliente, soprattutto grazie a Issy che le preparava sempre qualcosa da


sgranocchiare o da assaggiare. Dopo una serie di giorni difficili al lavoro, Helena non voleva fare altro che rannicchiarsi sul divano con una tazza di tè e una fetta di uno degli esperimenti di Issy. Le mancavano le loro chiacchierate serali. Fu così che un giorno decise, anche per motivi egoistici, che non si poteva andare avanti così, e che Issy aveva bisogno di una strigliata. “È proprio quello che ci vuole” si disse Helena una mattina passandosi il balsamo sui capelli. Ci sarebbe voluto anche un po’ d’amore, di amore vero, rifletté, ma al momento non era disponibile, e in ogni caso non aveva tempo di pensarci. Così entrò a passo di marcia in soggiorno con indosso una maglietta di velluto color prugna che la faceva sembrare piacevolmente dark. Issy se ne stava seduta nella penombra, sgranocchiando cornflakes da una ciotola con addosso il suo solito pigiama oversize. «Issy, devi mettere il naso fuori.» «È casa mia.» «Dico sul serio. Devi fare qualcosa, o diventerai una di quelle emarginate che se ne stanno chiuse in camera a piangere e a mangiare schifezze senza mai togliere il pigiama.» Issy fece il broncio. «Non capisco perché.» «Perché hai messo su un chilo in una settimana.» «Oh, grazie.» «Insomma, vai a fare del volontariato o qualcosa di simile...» Issy le lanciò un’occhiataccia. «Perché mi dovrebbe far star meglio?» «Non è questione di stare meglio. È che sono tua amica e sto cercando di comportarmi come tale.» «Bella amica.» «La migliore che avrai, temo.» Helena guardò il sacchetto a righe rosa pieno di Smarties accanto a Issy. «Ma allora sei uscita? Sei andata al negozio all’angolo?» Issy alzò le spalle, imbarazzata. «E ci sei andata in pigiama?» «Mm.» «E se avessi incontrato, che so, John Cusak, eh? E se lui avesse pensato: “Basta con tutte queste attrici hollywoodiane, voglio trovarmi una brava ragazza che creda nella famiglia e sappia cucinare? Una come quella lì, solo non in pigiama, perché vuol dire che non è normale”.» Issy deglutì. “Comportati come se potessi incontrare John Cusak da un momento all’altro” era il motto di Helena dal 1986, nonché il motivo per cui non usciva mai se non era vestita, truccata e pettinata di tutto punto. Non osò contraddirla. «Ne deduco che Graeme non ti ha chiamato» osservò Helena. Certo che no, e lo sapevano entrambe. Ma per Issy era troppo doloroso ammettere la verità. Quello che aveva pensato fosse un amore vero e speciale non era stato altro che una storiella fra colleghi... Il solo pensiero le era insopportabile. Non ci dormiva la notte. Come aveva potuto essere così stupida? Aveva creduto di essere molto professionale andando in ufficio tutte le mattine con i suoi abitini e i cardigan e le scarpe eleganti, tenendo separata la vita privata da quella lavorativa. Aveva creduto di essere molto intelligente. Invece tutti ridevano di lei alle sue spalle perché si scopava il capo. E, peggio ancora, non era neanche una cosa seria. Quando ci pensava, le veniva voglia di urlare. Per non parlare del fatto che nessuno riteneva fosse brava nel suo lavoro e tutti la consideravano una cretina sempre sorridente che sapeva fare le torte. Oddio, questo era quasi peggio. O forse no. Faceva tutto schifo. Non c’era nessun motivo per togliersi il pigiama. Era tutto uno schifo, punto e basta.


Helena era dell’idea che la pazienza fosse una cosa e la sottomissione un’altra. «Be’, mandalo a quel paese» esclamò. «Cos’è, la tua vita è finita perché il tuo capo non ha più bisogno di servizi personali?» «Non era così fra noi» disse piano Issy. Vero? Provò a pensare a qualche momento di tenerezza, a qualche attenzione che Graeme le aveva riservato. Un mazzo di fiori, un viaggio. Purtroppo, in otto mesi, l’unica cosa che le venne in mente fu lui che le diceva di non andare a casa sua una sera perché era stanco, o che le chiedeva di aiutarlo a preparare le relazioni (lei era così felice di potergli dare una mano; sarebbe stata una moglie perfetta, pensava. Dio, che idiota). «Non ha importanza» ribatté Helena. «Sono passate settimane e devi smetterla di fare la vittima. È ora di uscire e andare di nuovo alla conquista del mondo.» «Non sono sicura che il mondo mi voglia» sospirò Issy. «Questa è una cazzata e lo sai benissimo. Devo ripeterti la lista dei Poveri Cristi?» La lista dei Poveri Cristi di Helena era l’elenco dei casi più tragici che aveva visto al pronto soccorso: persone sole e abbandonate, bambini che non erano mai stati amati, ragazzini che non avevano mai ricevuto una parola gentile in vita loro e uscivano dall’ospedale per raccogliere i pezzi della loro vita. Era straziante, e Helena vi faceva ricorso solo nei casi più gravi. In quel momento, era un colpo basso. «No!» esclamò Issy. «Ti prego, no. Tutto tranne quello, non ce la faccio a sentire di nuovo la storia dell’orfano con la leucemia. Per favore.» «Allora comincia a ringraziare la tua buona sorte, altrimenti... sai cosa ti aspetta. E, mentre lo fai, muovi quel culone e va’ a fare quel corso di cui ti hanno parlato. Almeno sarai costretta ad alzarti dal letto prima di mezzogiorno.» «Primo, il mio culo è la metà del tuo.» «Sì, ma io sono tutta proporzionata» spiegò pazientemente Helena. «Secondo, mi alzo tardi solo perché la notte non riesco a prendere sonno.» «Perché dormi tutto il giorno.» «No, perché sono depressa.» «Non sei depressa, sei solo un po’ triste. Depressa è quando sbarchi in un paese straniero e ti confiscano il passaporto e ti obbligano a prostituirti, e...» «Lalalala!» esclamò Issy tappandosi le orecchie. «Smettila, ti prego. Ci vado, okay? Ci vado!» Quattro giorni, un taglio di capelli e una lavatrice dopo, Issy se ne stava in piedi alla solita fermata dell’autobus, sentendosi un’impostora. Linda fu felice di rivederla: con il passare delle settimane si era preoccupata, ma poi aveva pensato che forse Issy si era comprata una macchina o si era trasferita a casa di quell’uomo sempre accigliato che ogni tanto la veniva a prendere. «Sei stata in vacanza? Oh, com’è bello viaggiare d’inverno. È una stagione così triste.» «No. Mi hanno licenziato.» «Oddio, mi dispiace tanto. Davvero. Però sei giovane, vedrai che troverai subito qualcos’altro.» Linda era molto fiera della figlia podologa. Anche perché, come sottolineava spesso la stessa Leanne, non sarebbe mai rimasta disoccupata «finché la gente avesse avuto i piedi». Issy non aveva mai desiderato fare quel lavoro, ma quel giorno ci andò vicina. «Lo spero. Lo spero proprio.» Qualcuno alle sue spalle attirò la sua attenzione. Era di nuovo la signora alta e bionda che si dirigeva verso il negozietto rosa insieme al solito agente immobiliare dall’aria avvilita. «È che non sono sicura che ci sia il giusto feng shui, Des» diceva lei. «Quando cerchi di offrire


alla gente un’esperienza sensoriale, è molto molto importante.» “No che non lo è” disse Issy tra sé e sé in un moto di stizza. “È importante che tu metta quel cavolo di forno al posto giusto per poter controllare il resto del negozio.” Pensò al nonno. Doveva assolutamente andare a trovarlo. Era imperdonabile da parte sua avere tanto tempo libero e non sfruttarlo per stare con lui. «Fa’ in modo che ci sia un buon profumo, sorridi e sii sempre dove i clienti possono vederti» ripeteva Joe. «E dai loro le torte più buone di Manchester, anche questo è importante.» Issy si avvicinò ancora un po’. «...E poi milleduecento sterline al mese sono troppe. Userò le verdure migliori di tutta Londra. La gente ha bisogno di cibi crudi, e lo scoprirà grazie a me.» La bionda indossava un paio di pantaloni di pelle superattillati e aveva la pancia talmente piatta che sembrava campasse d’aria. La pelle del viso era strana: liscia in alcuni punti e rugosa in altri, probabilmente dove gli effetti del Botox stavano scemando. «Tutto biologico!» cinguettò. «La gente non vuole più sostanze tossiche in giro per il corpo!» “Ma sulla fronte sì” pensò Issy. Come mai aveva preso così in antipatia quella donna? Perché le importava tanto che volesse trasformare il suo negozietto in uno stupido locale per salutisti? “Il” negozietto, si corresse. Il negozietto nascosto, nella piazzetta segreta e ignorata da tutti. Certo, sapeva benissimo che aprire un’attività in un posto così appartato e difficile da trovare non era l’ideale. Proprio no. A un tratto le venne un’idea. Conosceva bene il settore immobiliare, e i locali commerciali in affitto costavano cinquanta o sessanta sterline al metro quadro. Osservò attentamente il negozio. C’era anche una cantina, diceva il cartello, il che raddoppiava la metratura. Issy fece un rapido calcolo: erano circa quattordici sterline al metro quadro. Certo, si trattava di un sobborgo di Londra non particolarmente elegante. Ma milleduecento sterline al mese – o millecento se fosse riuscita a ottenere uno sconto, cosa piuttosto probabile in quel periodo di crisi – non erano tante. Avrebbe potuto stipulare un contratto di locazione di sei mesi per... per farci qualcosa. Una pasticceria, magari. Ormai non aveva più un ufficio dove distribuire i suoi esperimenti e il freezer stava per esplodere. La sera prima aveva inventato una deliziosa ricetta per biscotti alla Nutella e burro di arachidi che aveva riposto nell’ultima scatola di latta ancora libera. Avrebbe dovuto mangiarseli tutti. Quando l’autobus svoltò l’angolo, Issy chiuse gli occhi. Assurdo. Quando si lavorava con il cibo, c’erano un milione di cose a cui pensare oltre all’affitto. Questioni di igiene e sicurezza, ispezioni e cuffie per capelli, guanti di gomma, criteri da rispettare, diritto del lavoro... Era impossibile, e stupido, e poi lei non voleva lavorare in una pasticceria. Linda indicò con un cenno del capo la signora bionda fuori dal negozio, che stava pontificando sui benefici della barbabietola. «Non so cos’ha intenzione di fare,» disse, mentre lei e Issy salivano sul 73 «ma io la mattina ho solo bisogno di una bella tazza di caffè.» «Eh già» convenne Issy. Il corso per licenziati, che non si chiamava così ma certo si sarebbe anche potuto chiamare “club degli sfigati cacciati a calci nel sedere”, si teneva in una sala riunioni lunga e stretta in un edificio anonimo non lontano da Oxford Street da cui si vedeva perfettamente il negozio Topshop di Oxford Circus. Issy pensò che era molto ingiusto, il richiamo invitante di una vita ormai irraggiungibile. Con lei c’era una dozzina di persone, alcune con l’aria imbronciata e strafottente, che davano


l’impressione di essere state spedite lì a forza; altre letteralmente terrorizzate; oltre a un uomo che frugava nella valigetta e si aggiustava la cravatta in continuazione. Issy immaginò che non avesse detto ai familiari di essere stato licenziato e fingesse ancora di andare a lavorare tutti i giorni. Lei rivolse un mezzo sorriso ai presenti, ma nessuno ricambiò. “La vita è sempre più facile” si disse “quando vai in giro con un grosso Tupperware pieno di cupcake.” In quel caso, erano tutti felici di vederla. Alle nove e trenta in punto comparve una donna sulla cinquantina con un’espressione stanca e spazientita. Attaccò così bruscamente la sua tiritera che fu subito chiaro che, in quel periodo, gli unici a essere oberati di lavoro erano gli insegnanti dei corsi di reinserimento. «Ora che state per cominciare una nuova vita» annunciò «la prima cosa da fare è considerare la ricerca di un impiego un lavoro vero e proprio.» «Ancora più schifoso di quello da cui siamo stati cacciati» saltò su un ragazzo con una risata beffarda. L’insegnante lo ignorò. «Innanzitutto, dovete fare in modo che il vostro curriculum si distingua dagli altri due milioni in circolazione.» E piegò le labbra in quello che doveva essere un sorriso. «Non sto esagerando: è il numero approssimativo di curricula che vengono presentati per ogni posto disponibile.» «Che bello, mi sento già più sollevata» borbottò la ragazza seduta accanto a Issy. Era molto appariscente, forse un po’ troppo, con i riccioli neri, il rossetto rosso e il maglione di mohair fucsia che non riusciva a nascondere il seno prosperoso. Issy si domandò se sarebbe andata d’accordo con Helena. «Quindi come potete fare in modo che il vostro curriculum si distingua da quello di tutti gli altri?» Uno degli uomini più anziani presenti alzò la mano. «Si può mentire sull’età?» L’insegnante scosse severamente la testa. «Non è ammissibile dichiarare il falso in un curriculum. In nessun caso.» La ragazza seduta accanto a Issy intervenne immediatamente. «Ma è assurdo! Tutti mentono sul curriculum e tutti danno per scontato che sul curriculum si menta. Quindi, se non menti, daranno per scontato che tu lo abbia fatto e che il curriculum faccia ancora più schifo di così; se invece scoprono che non hai detto neanche una bugia, penseranno che sei stupido. Insomma, è una pessima idea.» Molti annuirono energicamente, ma l’insegnante continuò imperterrita. «Quindi dovete distinguervi. Alcuni usano caratteri in rilievo, altri scrivono il curriculum in rima per renderlo più interessante.» Issy alzò la mano. «Mi sono occupata di assunzioni per anni e odiavo i curricula stravaganti, anzi, li cestinavo subito. Ma se ne ricevevo uno senza errori di ortografia, chiamavo immediatamente chi me l’aveva inviato. Solo che non succedeva quasi mai.» «Davi per scontato che tutti dichiarassero il falso?» chiese la ragazza. «Be’, abbassavo automaticamente i voti del diploma o della laurea e non approfondivo troppo la passione per il cinema indipendente» rispose Issy. «Quindi, sì, direi di sì.» «Visto?» disse la ragazza. L’insegnante arrossì come un peperone. «Be’, potete dire quello che vi pare. Ma siete voi a essere seduti lì.» All’ora di pranzo Issy e la tizia con i capelli ricci se la diedero a gambe. «Che corso inutile» esclamò la ragazza, che si chiamava Pearl. «È stato peggio di quando mi hanno sbattuta fuori.» Issy sorrise grata. «Lo so.» Si guardò intorno. «Dove vai a mangiare? Io stavo pensando alla Pâtisserie Valerie.» Quella pasticceria aveva una lunga tradizione a Londra. Il locale era sempre


pieno e le torte una delizia. Avevano ideato una nuova glassa alla vaniglia che Issy era ansiosa di provare. Pearl parve leggermente a disagio e Issy ricordò che la Pâtisserie era molto costosa. «Offro io» si affrettò ad aggiungere. «Ho avuto una buona liquidazione, per fortuna.» Pearl sorrise, domandandosi se i panini che aveva in borsa si sarebbero mantenuti fino a sera. «Okay» disse infine. Aveva sempre voluto andarci, attratta dalle vetrine piene di dolci elaborati tra cui le fantastiche torte nuziali ornate da minuscole roselline di zucchero, ma era sempre piena zeppa di gente e lei tendeva a evitare i posti troppo affollati. Sedute a un tavolino di legno, con le cameriere francesi vestite di nero che sfrecciavano tra i clienti portando tartes au citron e millefeuilles sopra la testa, Issy e Pearl si scambiarono le loro tragiche esperienze lavorative. Pearl faceva la receptionist in un’impresa edile in cui le cose avevano cominciato ad andare sempre peggio. Non aveva neanche ricevuto gli ultimi due mesi di stipendio e, siccome era una mamma single, la sua situazione stava diventando disperata. «Credevo che il corso potesse essermi d’aiuto. È stata la mia azienda a iscrivermi. Ma non servirà a niente, vero?» Issy annuì. «Temo di no.» Ciononostante, Pearl si alzò e andò dritta dal gestore della pasticceria. «Mi scusi, cercate personale per caso?» chiese tutta baldanzosa. «No, mi dispiace» rispose lui in tono gentile. «Poi, come vede, il nostro è un negozio minuscolo» aggiunse, guardandosi intorno. Le esili cameriere si muovevano agilmente tra i tavolini, tutti molto vicini. Era evidente che Pearl non aveva alcuna possibilità. «Mi dispiace davvero.» «Oddio» ribatté Pearl impassibile. «Ha ragione. Sono troppo grassa per lavorare qui. E poi farei sentire i clienti talmente in colpa che finirebbero per ordinare solo un’insalata.» E, così dicendo, tornò al tavolo, dove Issy era arrossita al posto suo. «È la stessa cosa che mi hanno detto quelli di una compagnia aerea low cost: non posso essere più larga del corridoio.» «Non sei più larga del corridoio di un aereo!» «E invece sì, sui nuovi apparecchi. I passeggeri staranno tutti in piedi, ammassati come bestie. Ti mettono una cintura intorno al collo e ti attaccano alla parete.» «Non può essere vero.» «Sì, fidati. Non appena le cinture la smetteranno di decapitare i manichini dei test, si viaggerà in piedi fino a Malaga. Su una gamba sola se prima di andare in aeroporto ti sei dimenticato di stampare la carta d’imbarco.» «Be’, pazienza, tanto non credo che andrò mai più in vacanza» sospirò Issy. Poi si rese conto che stava usando un tono di autocommiserazione davanti a una persona che viveva in un appartamento in affitto con il figlio e, a quanto pareva, la madre, e cambiò argomento. «Torniamo indietro?» Pearl sospirò. «Sì, oppure andiamo a fare shopping in Bond Street con una puntatina da Tiffany.» Issy sorrise stancamente. «Be’, almeno abbiamo mangiato la torta.» «Infatti.»


5

DOLCETTI MORBIDI ALLA MENTA PIPERITA Per te, dolce come sei. 1 albume 1 libbra di zucchero a velo Essenza di menta piperita Sbatti l’albume finché non diventa schiumoso. Non esagerare... Okay, basta così. Perfetto. Fermati. Aggiungi lo zucchero a velo passandolo nel setaccio. Il composto dovrebbe essere denso. Sì, c’è un bel po’ di zucchero sul pavimento, ma lascia stare adesso. Non metterci i piedi sopra. No! A tua madre verrà una crisi di nervi. Ora un paio di gocce di essenza di menta. Solo un paio, altrimenti i dolcetti sapranno di dentifricio. Hai le mani pulite? Bene, allora comincia a impastare. Esatto, come la plastilina. No, la plastilina non si mangia. Ora lo stendiamo così possiamo ritagliare tanti cerchi. Be’, sì, potremmo fare anche delle forme di animali. Un cavallo alla menta piperita, certo. Ah, un dinosauro? Be’, perché no... Eccoci qua. Ora ci resta solo da metterli in frigo per ventiquattro ore. Be’, potremmo assaggiarne uno. A pensarci bene non devono andare tutti in frigo. Anzi, non devono andarci per niente. Con affetto, il nonno Chiudendo gli occhi, Issy riusciva ancora a sentire il sapore dei dolcetti alla menta, così morbidi che si scioglievano in bocca. «Forza» la incalzava Helena. «Sono una persona coraggiosa» stava dicendo Issy allo specchio, mentre si lavava i denti. «Esatto. Ripetilo.» «Oddio» mormorò Issy. Stava per passare l’intera giornata al freddo e al gelo per fare il giro delle agenzie immobiliari in cerca di lavoro. Le veniva da vomitare. «Sono una persona coraggiosa.» «Esatto.» «Ce la posso fare.» «Esatto.» «Posso accettare gli inevitabili rifiuti.»


«Questo ti servirà.» Issy si voltò di scatto. «Per te è facile parlare, Len. C’è sempre bisogno di infermiere. Di certo non cominceranno a chiudere gli ospedali.» «Mm... Sta’ un po’ zitta.» «Vedrai! Un giorno inventeranno dei robot capaci di fare qualsiasi cosa e tu ti ritroverai disoccupata. E allora ti pentirai di non aver dimostrato più empatia nei confronti della tua migliore amica.» «Utile è meglio di empatica» ribatté Helena, piccata. Issy iniziò la sua ricerca nelle immediate vicinanze di casa. Se fosse riuscita a trovare un lavoro in un posto raggiungibile a piedi, tanto meglio. Niente più mattine piovose ad aspettare il 73 davanti a Pear Tree Court. Be’, almeno quello era un pensiero piacevole. La campanella sulla porta dell’agenzia immobiliare Joe Golden suonò quando Issy fece il suo ingresso con il cuore in gola. Era una professionista seria, si disse, con una lunga esperienza nel settore. Nell’ufficio c’era solo un uomo, lo stesso tizio dall’aria avvilita e dalla calvizie incipiente che aveva mostrato il negozietto alla signora bionda. «Salve!» esclamò Issy, troppo agitata per ricordare perché fosse lì. «Affitta il negozio in Pear Tree Court, vero?» L’uomo alzò la testa e le lanciò uno sguardo stanco. «Ci sto provando» rispose bruscamente. «Ma è un incubo.» «Perché?» «Non importa» tagliò corto lui, passando alla modalità venditore. «È un immobile favoloso, molto originale e con un grande potenziale.» «Sbaglio o tutte le attività precedenti sono fallite miseramente?» «Be’, perché... non hanno saputo valorizzarlo.» “Farò amicizia con lui e poi gli chiederò di assumermi” pensò Issy. “Adesso glielo chiedo... Tra poco. Anzi, tra pochissimo.” Ma l’unica frase che le uscì dalla bocca fu: «Posso vederlo?». Des, dell’agenzia immobiliare Joe Golden, era stufo del suo lavoro. A dire il vero, era stufo della sua vita. Non ne poteva più di starsene da solo in un ufficio vuoto, di far vedere quello stupido immobile in Pear Tree Court a una persona dopo l’altra che pensava di avere l’idea giusta quando, in fin dei conti, era un posto carino, certo, ma pur sempre un locale a uso commerciale che non dava su una strada. Spesso la gente aveva dei sogni che non corrispondevano alla realtà degli affari. E la ragazza che aveva davanti sembrava un’altra idealista. E poi la sera doveva tornare a casa e mostrarsi comprensivo con la moglie Ems. Non che non adorasse Jamie, il loro bimbo, solo aveva bisogno di dormire ogni tanto. I figli degli altri non si svegliavano ancora quattro volte a notte a cinque mesi, si diceva Des. Forse Jamie era particolarmente sensibile. Ma questo non spiegava comunque perché Ems vivesse in pigiama da quando il piccolo era nato. Ne era passato di tempo, ormai. Ma, se osava menzionare l’argomento, lei si metteva a urlare accusandolo di non capire cosa significasse avere un bambino, e allora anche Jamie cominciava a strillare. Come se non bastasse, sua suocera era sempre a casa loro, seduta sul divano. Des sospettava che dicesse peste e corna di lui. Non sapeva davvero cosa fare. Per la prima volta dopo tanto tempo, Issy avvertì una scintilla di curiosità. Mentre Des apriva


svogliatamente la porta del negozietto con tre diverse chiavi, Issy si guardò intorno, temendo che la signora bionda le piombasse alle spalle gridandole di sparire. Si rese subito conto che, sebbene il numero 4 di Pear Tree Court avesse parecchi problemi (il più evidente dei quali era la mancanza di un affaccio sulla strada), non era affatto male. La grande vetrina era esposta a ovest, e dunque, durante il pomeriggio, il negozio sarebbe stato illuminato dal sole, e ciò avrebbe reso piacevole l’idea di sedersi con un caffè e una torta in un momento particolarmente tranquillo della giornata lavorativa. Issy si sforzò di non lasciarsi trasportare dall’immaginazione. Sebbene nel vicolo ci fossero sacchi dell’immondizia e lo scheletro di una bicicletta abbandonata, c’erano anche i ciottoli e, accanto al negozio di ferramenta, un albero vero, seppure malaticcio e striminzito. Una volta all’interno del cortile, poi, il rumore del traffico quasi non si sentiva più; era come tornare indietro a un tempo più tranquillo e piacevole. La fila di negozietti ammassati l’uno accanto all’altro sembrava uscita da un libro di fiabe e il numero 4, con la sua porta di legno, gli spigoli irregolari e l’antico camino, era il più bello. La facciata era trascurata e piena di polvere, con pezzi di vecchi scaffali disseminati ovunque insieme alla posta ricevuta dai precedenti affittuari e proveniente dall’amministrazione locale, centri yoga, società di omeopatia e produttori di abbigliamento per bambini del commercio equo e solidale. Issy fece lo slalom fra le lettere abbandonate. «Ah sì, avrei dovuto toglierle» mormorò Des, un po’ imbarazzato. “Eh già” pensò Issy. Se uno degli agenti della KD avesse mostrato a un cliente un immobile in quelle condizioni... Certo, Des sembrava sfinito. «Come vanno le cose nel settore?» gli domandò con nonchalance. Des abbassò lo sguardo, trattenendo uno sbadiglio. «Mm. Si sono appena ripresi le macchine aziendali. Erano bellissime.» «Quelle Mini con le serigrafie sulla fiancata?» chiese Issy inorridita. Erano un esempio lampante di come non si dovrebbe mai parcheggiare a Londra. Des annuì. Quando l’aveva saputo, sua moglie era andata su tutte le furie. «Ma, a parte questo, benissimo» aggiunse lui, tentando di riprendersi. «Anzi, ho appena ricevuto un’offerta, quindi se le interessa deve sbrigarsi.» Issy socchiuse gli occhi. «Perché me lo fa vedere se c’è già qualcun altro interessato?» Des parve imbarazzato. «Be’, sa, per mantenere vivo il mercato. E poi non sono sicuro che l’affare vada in porto.» Issy pensò alla donna bionda: le era sembrata molto decisa. «La cliente ha dei... ehm... problemi personali» continuò Des. «E spesso capita che un forte entusiasmo per una nuova iniziativa si... ecco... affievolisca quando arriva il momento di concludere. In un modo o nell’altro.» Issy sollevò le sopracciglia. «Cosa pensava di farci?» chiese Des. Issy si guardò intorno. Vedeva già tutto quanto: tavolini e sedie spaiati ad arte, una piccola libreria dove i clienti avrebbero potuto scambiare libri, un tavolo di vetro su cui disporre i suoi cupcake di colori e gusti diversi ed espositori in vetrina per allettare i passanti. Avrebbe potuto offrire confezioni regalo per le feste, forse persino per i matrimoni... Sarebbe stata in grado di fare le cose così in grande? I matrimoni sono impegnativi. Certo, se avesse avuto un aiutante... Si risvegliò dalle sue fantasie e si rese conto che Des aspettava ancora una risposta. «Oh, pensavo a un caffè» rispose, imbarazzata come al solito. «Qualcosa di piccolo.» «Ottima idea!» esclamò lui.


Issy ebbe un tuffo al cuore: non... non stava facendo sul serio, vero? Eppure... «Un bel panino con la salsiccia e una tazza di tè a una sterlina e cinquanta. Perfetto per la zona. Con tutti i muratori, i pendolari, i dipendenti municipali e le tate che ci sono qui... Scones e marmellata a una sterlina» suggerì Des animandosi. «In realtà, pensavo più a... una specie di pasticceria» replicò Issy. Des si fece improvvisamente serio. «Ah, uno di quei posti di lusso dove un caffè costa due sterline e cinquanta.» «Be’, ci sarebbero anche delle torte deliziose» ribatté Issy. «Sì, quello che è. In realtà anche l’altra signora vuole aprire un posto simile.» “Ma il suo locale non sarà mai come il mio!” pensò Issy indignata. Il suo sarebbe stato caldo, accogliente e invitante; un posto dove stare in pace, non dove espiare i peccati di gola; un grazioso punto d’incontro per gli abitanti del quartiere, non per gente che sgranocchiava carote armeggiando con il BlackBerry. «Lo prendo!» esclamò improvvisamente. L’agente la guardò sorpreso. «Non vuole sapere quanto costa?» «Oh, sì, certo» farfugliò Issy, agitandosi. Era impazzita? Non aveva le competenze necessarie a gestire un’attività commerciale! Come avrebbe fatto? Sapeva solo preparare torte, e non poteva bastare. Anche se una vocina dentro di lei le ripeteva: “Se non provi, come puoi saperlo? Non ti piacerebbe essere il capo di te stessa? E avere un caffè tutto tuo in questo posticino delizioso, con i clienti che verrebbero da lontano per assaggiare i tuoi cupcake, sedersi e rilassarsi per mezz’ora, leggere il giornale, comprare un regalo, godersi un momento di tranquillità? Non sarebbe bello poter addolcire ogni giorno la vita delle persone, donare loro sorrisi e torte?”. Dopotutto non lo faceva già? Perché non fare il passo successivo? Ora aveva il denaro e l’occasione... e queste cose capitano una sola volta nella vita. «Scusi, scusi» riprese Issy confusa. «Sto correndo troppo. Posso avere una brochure?» «Mm. Non è che ha appena divorziato, per caso?» le chiese Des. «Magari...» Issy studiò i dépliant per ore. Scaricò moduli da internet e cercò di calcolare i costi approssimativi, interpellando anche un consulente finanziario. Non riusciva a contenere il suo entusiasmo: erano anni che non si sentiva così viva. E la solita vocina le diceva: “Puoi farcela!”. Cos’era che la tratteneva dunque? Il sabato seguente Issy andò a trovare il nonno; durante il viaggio – piuttosto lungo per colpa dell’autobus lento – fece calcoli e tabelle sul suo nuovo portatile. Un minuto prima era entusiasta, un attimo dopo si diceva che era una pessima idea. Ma quando avrebbe avuto un’altra occasione? E se alla fine fosse andato tutto a rotoli? E se anche lei avesse fallito miseramente come quelli che l’avevano preceduta? L’austera casa di riposo Le Querce sorgeva in quello che un tempo era un palazzo signorile. La nuova proprietà aveva fatto del suo meglio per mantenere lo spirito dell’antica dimora; il sontuoso ingresso, per esempio, era rimasto intatto. Quando il nonno aveva ceduto le sue panetterie, aveva racimolato un bel gruzzolo e, su consiglio di Helena, si era trasferito lì. Eppure... Alle Querce c’erano corrimano ovunque, un odore di detersivo industriale, poltrone con lo schienale alto. In fin dei conti, era pur sempre un ospizio. Mentre accompagnava Issy al piano di sopra, Keavie, una giovane e robusta infermiera, fu gentile


come sempre, ma sembrava un po’ distratta. «Qualcosa non va?» le chiese Issy. «Forse è meglio che te lo dica: oggi non è una delle sue giornate migliori.» Issy ebbe una stretta al cuore. Al nonno erano servite un paio di settimane per ambientarsi alla casa di riposo, ma ora sembrava trovarsi bene. Le vecchie signore lo viziavano (non c’erano molti uomini) e aveva apprezzato anche l’arteterapia. Anzi, era stata proprio una giovane e carismatica terapista a convincerlo a scrivere le sue ricette per Issy. E lei era così contenta di saperlo al sicuro, nutrito e accudito. Per questo le parole di Keavie furono una doccia fredda. Issy si fece forza e si affacciò alla porta. Il nonno era seduto sul letto, con una tazza di tè ormai freddo. Issy notò che era dimagrito ancora di più. Nonostante la pelle piena di rughe e i capelli bianchi, sembrava un bambino. “E in effetti è un bambino ormai” pensò tristemente Issy. Senza però la gioia, la meraviglia, l’impazienza dei più piccoli; solo l’incapacità di provvedere a se stesso. Issy lo baciò con affetto. «Ciao, nonno» disse, sedendosi in fondo al letto. «Grazie per le ricette. Mi piace tantissimo riceverle.» Erano dieci anni che non riceveva una lettera scritta a mano, biglietti di Natale a parte. L’e-mail era una grande invenzione, ma le mancava l’eccitazione che si provava trovando una busta nella cassetta della posta. Forse era per quello che la gente comprava così tante cose su internet: per il piacere di ricevere un pacchetto. Guardò il nonno. Poco dopo essersi trasferito, aveva avuto una strana crisi e gli avevano prescritto una nuova medicina. Sembrava spesso assente, ma il personale le aveva assicurato che lo avrebbe aiutato continuando a parlargli. All’inizio si era sentita un’idiota. Poi aveva cominciato a trovarlo riposante... un po’ come quelle sedute in cui l’analista si limita ad annuire e a prendere appunti senza dire una parola. «Sto pensando di fare qualcosa di... nuovo» disse, quasi assaporando quella parola. «Vorrei aprire un piccolo caffè. Alla gente piacciono. Cominciano ad averne abbastanza delle solite catene. Almeno, così ho letto su una rivista. I miei amici però non sembrano entusiasti dell’idea. Helena continua a ripetermi che devo stare attenta all’IVA, anche se lei per prima non ha la più pallida idea di cosa sia. Si comporta come uno di quei personaggi inquietanti che vanno in tv a smontare i progetti imprenditoriali della gente: ha sempre un tono cupo e cavernoso e, quando ribatto che non ho pensato all’IVA, fa una risata beffarda, come se lei fosse milionaria e io una povera scema, incapace di gestire un’attività. Ma ci sono tante persone che mandano avanti un’impresa commerciale, vero, nonno? Tu l’hai fatto per anni.» Sospirò. «Ovviamente quando potevi rispondermi ti ho fatto solo domande inutili. Perché non ti ho chiesto come si fa a gestire un’impresa? Sono una cretina. Aiutami, ti prego.» Niente. Issy sospirò di nuovo. «Il proprietario della lavanderia vicino a casa avrà un cervello grande quanto una nocciolina, eppure manda avanti la sua attività. Non può essere così difficile, no? Helena dice che quel tipo è un tale attaccabrighe che un giorno di questi litigherà con lo specchio. E comunque come lavasecco fa schifo.» Sorrise. «Ma quando mi si ripresenterà un’opportunità del genere? E se uso tutti i soldi della liquidazione per pagare il mutuo e poi non trovo lavoro per otto mesi? Tanto varrebbe... insomma, andrebbe tutto sprecato. Potrei anche andarmene in giro per il mondo, ma sai, una volta tornata sarei sempre io. Solo un po’ più vecchia e con un po’ più di rughe per colpa del sole. Mentre in questo caso... ecco... ci sono le tasse, la burocrazia, le norme di sicurezza e di igiene e i principi alimentari. Bisogna sottostare a una quantità incredibile di regole rigidissime. È probabilmente la cosa più stupida a cui abbia mai pensato, destinata al fallimento e alla bancarotta...» Issy guardò fuori dalla finestra. Era una giornata fredda ma soleggiata e i giardini della casa di


riposo erano bellissimi. Vide una signora anziana china su una piccola aiuola di fiori, concentratissima in quello che stava facendo. Un’infermiera le si avvicinò, si accertò che andasse tutto bene e si allontanò di nuovo. Una volta era tornata a casa da scuola – un orribile edificio moderno pieno di bambine odiose che la prendevano in giro per i suoi capelli crespi – e aveva preparato una torta di fragole da zero: la sfoglia era leggera come l’aria e la glassa dolce e impalpabile come il respiro delle fate. Il nonno si era seduto in silenzio con una forchetta e aveva assaporato lentamente ogni boccone senza dire una parola, mentre lei se ne stava in piedi, in fondo alla cucina, accanto alla porticina che dava sulla terrazza, stringendo convulsamente il grembiule ormai troppo piccolo. Alla fine il nonno aveva appoggiato la forchetta con riverenza, poi l’aveva guardata e le aveva detto, scandendo le parole: «Tu, amore mio, sei una pasticciera nata». «Che stronzata» aveva detto la madre, che quell’autunno era tornata e stava frequentando un corso per diventare insegnante di yoga che poi non finì mai. «Issy è intelligente! Andrà all’università e si troverà un lavoro vero. Non dovrà essere costretta ad alzarsi all’alba per tutta la vita. Voglio che abbia un bell’ufficio, caldo e pulito, non che si accasci stanca morta su una sedia alle sei del pomeriggio, coperta di farina dalla testa ai piedi.» All’epoca Issy non aveva fatto caso a quelle parole. Il cuore le batteva forte per le lodi, così rare, del nonno. Nei momenti più bui, si domandava se un giorno avrebbe incontrato un uomo che l’amasse quanto lui. «Voglio dire, ho lavorato anni nell’amministrazione, sono sicura di potercela fare... E quando ho visto il negozio di Pear Tree Court mi sono resa conto... che avevo una possibilità. Ne ho avuto la certezza. La possibilità di cucinare, di rendere felice il prossimo, di offrire un bel posto dove andare... Ho capito che potevo farcela. Sai che quando organizzo una festa gli invitati non vogliono mai andarsene.» Era vero. Issy era celebre per le sue doti di ospite. «Devo ottenere un contratto di sei mesi. Non voglio buttare i miei soldi in quest’impresa. Farò un tentativo e vedrò se riesco a decollare. Ma senza rischiare tutto quanto.» A un tratto, il nonno si tirò su a sedere e lei ebbe una stretta al cuore vedendo i suoi occhi di un azzurro ormai sbiadito tentare di metterla a fuoco. Incrociò le dita sperando che la riconoscesse. «Marian?» chiese lui. Poi si illuminò. «Issy? Sei la mia Issy?» «Sì! Sono io!» esclamò lei con grande sollievo. «Mi hai portato una torta?» le domandò, sporgendosi verso di lei con aria complice. «Questo hotel non è male, ma non hanno dolci.» Issy sbirciò nella borsa. «Certo! Guarda, ho fatto la Battenberg.» Joe sorrise. «È morbida. Va bene per quando non ho la dentiera.» «Esatto.» «Allora come va, tesoro? Sono qui in vacanza, ma non fa molto caldo.» «Lo so» disse Issy, anche se nella camera la temperatura era altissima. «Ma non sei in vacanza. Vivi qui, adesso.» Il nonno si guardò intorno a lungo. Poi i suoi occhi si spensero, e Issy capì che si era reso conto di dove fosse davvero. Gli accarezzò la mano e lui la strinse cambiando bruscamente argomento. «Be’, che cos’hai fatto in questi giorni? Vorrei una bisnipotina, per favore.» «Niente del genere» rispose Issy. Decise di parlargli di nuovo della sua idea. «Sto pensando di aprire una pasticceria.» Il nonno fece un gran sorriso. Era entusiasta. «Ma certo, Isabel!» esclamò, il respiro leggermente


pesante. «Ce ne hai messo di tempo!» Issy sorrise. «Be’, ho avuto da fare.» «Immagino. Sono contento, davvero. E posso aiutarti. Ti manderò delle ricette.» «Lo fai già, e le sto usando.» «Bene, bene. Seguile alla lettera, mi raccomando.» «Farò del mio meglio.» «Verrò ad aiutarti. Io mi sento bene. Benissimo. Non preoccuparti per me.» Issy avrebbe voluto poter dire altrettanto di sé. Lo salutò con un bacio. «Riesci sempre a tirarlo su» osservò Keavie, accompagnandola fuori. «Cercherò di venire più spesso» promise Issy. «Tuo nonno è molto fortunato in confronto alla maggior parte dei nostri ospiti» disse Keavie con una punta di malinconia. «È un brav’uomo» aggiunse poi, quando Issy stava per andarsene. «Ci siamo affezionati molto a lui... quando riusciamo a tenerlo lontano dalla cucina.» Issy sorrise. «Grazie per quello che fate.» «È il nostro lavoro» ribatté Keavie, con la semplicità di chi conosceva la propria vocazione nella vita. Issy la invidiò. Tornò a casa tutta imbaldanzita. Era un piovoso sabato sera e ovviamente non aveva un ragazzo con cui uscire. Quel verme di Graeme non l’aveva chiamata, ma non le importava. Non si vedevano quasi mai nel weekend, perché lui usciva con gli amici o doveva alzarsi presto per andare a giocare a squash. Be’, di sicuro non si sarebbe fatta sentire lei per prima. Graeme l’aveva buttata via come un sacco della spazzatura. Issy deglutì faticosamente ed entrò nell’accogliente soggiorno dove trovò Helena, che come lei non aveva un fidanzato, ma non sembrava farsene un cruccio. In realtà, a Helena dispiaceva eccome, ma non voleva dare a Issy altri motivi di preoccupazione. Neanche a lei piaceva essere single a trentun anni, ma non intendeva piangersi addosso. Il volto di Issy era già abbastanza teso. «Ho preso una decisione» annunciò. Helena sollevò le sopracciglia. «Spara.» «Mi butto. Apro il caffè. Il nonno pensa che sia una grande idea.» «Be’, questo avrei potuto dirtelo anch’io.» Anche Helena era convinta che fosse una grande idea e non aveva dubbi sulla capacità di Issy di preparare torte deliziose o di lavorare a contatto con il pubblico. A impensierirla era l’idea di come avrebbe gestito le responsabilità e le scartoffie di un’attività indipendente, visto che di solito preferiva guardare un film horror piuttosto che aprire l’estratto conto della Visa. Ma qualsiasi cosa era meglio che vederla depressa. «Solo per sei mesi» spiegò Issy, togliendosi il cappotto e andando in cucina a preparare dei popcorn dolci. «Almeno se andrà male non finirò sul lastrico.» «È questo lo spirito giusto» esclamò Helena. «E poi non andrà male, andrà a gonfie vele!» Issy le lanciò un’occhiataccia. «Ma...?» «Ma cosa?» «Mi sembrava che stessi per aggiungere un “ma”.» «E invece no. Apriamo una bottiglia di vino.» «Ti va se chiamiamo qualcuno?» chiese Issy. Negli ultimi tempi aveva visto poco gli amici, e


aveva il presentimento che, nel prossimo futuro, li avrebbe visti ancora meno. Helena sollevò le sopracciglia. «Be’, Tobes e Trinida si sono trasferiti a Brighton. Tom e Carla stanno pensando di trasferirsi. Janey è incinta. Brian e Lana non possono uscire per via dei bambini.» «Ah, già» sospirò Issy. Ripensò ai tempi del college, quando aveva conosciuto Helena e il resto della compagnia. Stavano sempre insieme, a casa dell’uno o dell’altro, a colazione, a pranzo, a cena, di notte, oppure andavano via per il weekend. Ma ormai molti di loro si erano accasati e parlavano solo di mobili IKEA, prezzi delle case, rate dell’asilo e “tempo per la famiglia”. Non venivano più a trovarle così spesso. A Issy dispiaceva che, da quando avevano compiuto trent’anni, le loro vite un tempo parallele avessero cominciato inesorabilmente a divergere. «Il vino lo apro lo stesso» disse fermamente Helena «e poi ci rilassiamo guardando la tv. A proposito, come pensi di chiamarlo, il tuo locale?» «Non lo so. Forse “Da nonno Joe”.» «Così sembra un chiosco di hot dog.» «Dici?» «Sì.» «Mm. La Pasticceria di Stoke Newington?» «Ce n’è già una. È quel posto in Church Street che vende salatini e pasticcini tristissimi.» «Ah.» «Ma tu venderesti cupcake, giusto?» «Assolutamente sì» rispose Issy con lo sguardo acceso mentre il mais cominciava a scoppiettare nella padella. «Grandi e piccoli. Perché, sai, a volte la gente non vuole una torta enorme, vuole qualcosa di delicato che sa di petali di rosa o di lavanda con un mirtillo enorme dentro che esplode, e...» «Okay, okay,» la interruppe Helena ridendo «ho capito. Allora perché non lo chiami Cupcake Café e basta? Così la gente dirà: “Sai, quel posto che vende tutti quei cupcake? Non mi ricordo come si chiama...”, e tu dirai: “Il Cupcake Café”, e loro: “Ah sì, vediamoci lì”.» Issy rifletté. Era un nome semplice e forse un po’ banale, ma le piaceva. «In effetti... Ma non tutti vanno matti per i cupcake. Che ne dici di “Cupcake (e tante altre cose buonissime) Café”?» «Sei sicura di essere tagliata per questo lavoro?» la punzecchiò Helena. «“Ho un cervello per gli affari e un corpo per il peccato”» ribatté Issy. Poi abbassò gli occhi sui popcorn. «Nel mio caso, purtroppo, il peccato è la gola.» Des stava cercando di far fronte a una presunta colica di Jamie, che urlava e si contorceva come un indemoniato; la moglie e la suocera erano andate alle terme per avere «un po’ di tempo per loro». Per questo, quando Issy lo chiamò, Des dovette fare mente locale per ricordare chi fosse. Ah, già, quella ragazza un po’ strana. Non pensava che l’avrebbe contattato di nuovo: era sicuro che fosse una perditempo. Ma anche l’altra signora interessata lo aveva richiamato... Accidenti! Il flusso di pensieri fu interrotto da Jamie, che gli diede un morso sul pollice. Sapeva che i neonati non erano capaci di nutrire sentimenti di vendetta, ma suo figlio sembrava fare eccezione. «Ah, sì. È solo che l’altra persona interessata mi ha già fatto un’offerta.» Issy provò un’immediata delusione. Il suo sogno non poteva venire spazzato via così, ancor prima di cominciare.


«Ho altri immobili da farle vedere...» «No!» esclamò lei. «Dev’essere quello! Dev’essere lì!» Ormai si era innamorata di quel posto. «Be’,» disse Des, intuendo che la vittoria era vicina «l’altra signora ha offerto meno della richiesta del proprietario.» «Farò un’offerta anch’io» dichiarò Issy. «E sarò un’ottima affittuaria.» Des fece fare vola vola a Jamie davanti alla finestra e finalmente il piccolo si mise a ridacchiare: in fondo non era antipatico. «Sì, è quello che hanno detto gli ultimi quattro» replicò lui. «E hanno chiuso nel giro di tre mesi.» «Be’, con me sarà diverso» ribatté Issy. Jamie intanto continuava a ridere, e Des si intenerì. «Okay, mi faccia parlare con il signor Barstow.» Issy riagganciò, sentendosi già più tranquilla. In quel momento Helena entrò in camera sua con un sacchetto in mano. «Volevo incartarlo prima di dartelo, ma ne hai bisogno subito.» Issy aprì la busta: dentro c’era un libro intitolato Guida agli affari per principianti. «Grazie.» «Hai bisogno di tutto l’aiuto possibile.» «Lo so. Ma ho già te.»


6

CUPCAKE AL LIMONE PER-OTTENERE-QUELLO-CHE-VUOI 4 once di farina autolievitante setacciata 1 cucchiaino di lievito in polvere 4 once di burro morbido 4 once di zucchero extrafine 2 uova grandi Scorza grattugiata di 1 limone Succo di 1 limone Per la glassa: 2 once di zucchero a velo 2 cucchiai d’acqua 1 cucchiaino di succo di limone Riscalda il forno a 325 °F e imburra una teglia. Setaccia la farina e il lievito, poi aggiungi gli altri ingredienti e sbatti il tutto con un frullino a mano. Versa l’impasto nella teglia con un cucchiaio. Questa è la parte più importante. Lascia cuocere per almeno 20 minuti: la torta deve essere gialla, non marrone, ma non umida all’interno. E la salmonella non aiuta a ottenere quello che si vuole. Distribuisci la glassa quando la torta è ancora calda. La glassa dovrebbe reagire al calore separandosi leggermente dalla torta e infiltrandosi nei suoi pori. Dovrebbe essere quasi traslucida. Ora la tua torta sembrerà un vero disastro. Quando la vedranno, proveranno compassione per te. Rideranno delle tue capacità di cuoca e ne prenderanno una fetta solo per farti contenta. Ma quando avranno assaggiato il suo morbido cuore spugnoso imbevuto di glassa al limone, strabuzzeranno gli occhi di piacere. E, a quel punto, faranno tutto ciò che vuoi. Issy scosse la testa: il nonno sembrava di nuovo in forma. In effetti non era una cattiva idea, la sua: trasmettere un falso senso di sicurezza e approfittarne per colpire. Per far vedere di cos’era capace. Avrebbe usato anche l’arma della glassa, ovviamente. Si guardò allo specchio, cercando di convincersi che era perfettamente in grado di gestire un negozio da sola. Helena bussò alla porta proprio in quel momento. «Stai facendo le smorfie allo specchio?» «No» rispose Issy, ripensando a quando l’amica la prendeva in giro perché ci metteva due ore a prepararsi per un appuntamento importante. «O forse sì. In verità, questo è molto peggio di un


appuntamento.» «Be’, in un certo senso è come se lo fosse» osservò Helena. «Magari il proprietario è carino.» Issy fece capolino da dietro la porta e le lanciò un’occhiata torva. «Piantala.» «Di fare cosa?» «Lasciami mettere a posto un settore disastroso della mia vita alla volta, okay?» Helena alzò le spalle. «Be’, se non ti piace, passamelo.» Fu subito evidente che non sarebbe stato necessario. Issy uscì per incontrare il signor Barstow, il proprietario di Pear Tree Court, ma solo dopo un bel discorso d’incitamento da parte di Helena. Lo avrebbe convinto con la sua capacità di organizzazione e la sua professionalità. O lo avrebbe fatto capitolare con l’arma segreta delle torte del nonno. Avrebbero dovuto incontrarsi nei pressi del negozio, ma ovviamente, pensò Issy con una punta di snobismo, non c’era neanche un caffè decente dove sedersi, così si diedero appuntamento in agenzia. Des aveva avuto una nottataccia con Jamie. La moglie si era rifiutata di alzarsi, così era toccato a lui sorbirsi il piccolo scocciatore che urlava come un ossesso, tutto rosso in viso, le gambine grassocce strette al petto. Des gli aveva accarezzato la fronte, dato lo sciroppo e alla fine lo aveva stretto a sé finché il piccolo non era scivolato in un sonno agitato. Ma lui aveva avuto sì e no due ore di pace. Era uno straccio. All’incontro era presente anche la bionda, tutta tirata a lucido con i tacchi a spillo, un paio di jeans da duecento sterline e un giubbotto di pelle dall’aspetto incredibilmente morbido. Issy la squadrò dalla testa ai piedi: quella non aveva bisogno di guadagnarsi da vivere. Probabilmente spendeva l’equivalente del vecchio stipendio di Issy solo per i colpi di sole. «Caroline Hanford» disse, porgendole la mano senza sorridere. «Non capisco il perché di questo incontro. Ho fatto un’offerta per prima.» «Ma abbiamo avuto una controfferta» spiegò Des, versando il caffè della macchinetta, denso come melassa, in tre bicchieri di carta e trangugiandone uno come fosse una medicina. «E il signor Barstow voleva parlarne di persona.» «Sbaglio o un tempo avevate del caffè decente?» chiese Caroline stizzita. Non aveva riposato bene quella notte. Le pillole per dormire omeopatiche che aveva comprato per un occhio della testa non funzionavano. Sarebbe dovuta andare di nuovo dal dottor Milton. Anche lui costava una fortuna. Fece una smorfia al pensiero. «Abbiamo dovuto fare dei tagli» rispose Des. «Be’, comunque sia, sono disposta a offrire la stessa somma della controparte» dichiarò Caroline, senza degnare Issy di uno sguardo. «Qualunque essa sia. Voglio cominciare quest’avventura con il piede giusto.» In quel momento, entrò un ometto calvo che salutò l’agente con una specie di grugnito. «Il signor Barstow» disse Des, sebbene non ce ne fosse bisogno. Caroline gli sorrise radiosa, visibilmente impaziente di chiudere al più presto l’affare «Salve» disse. «Posso chiamarla Max?» Il signor Barstow emise un altro enigmatico grugnito. Il nome Max non gli si addiceva per niente, pensò Issy. «Sono qui per farle la migliore offerta possibile. Grazie per aver accettato di incontrarmi.» “Aspetta un attimo” avrebbe voluto dire Issy. “Perché non dici ‘di incontrarci’?” Se Helena fosse stata al posto suo, avrebbe osservato che gli affari erano affari e che lei doveva abituarsi all’idea. Lei invece si limitò a dire: «Salve» e si maledisse per non essere stata più assertiva. Strinse a sé il


suo Tupperware preferito, quello con la bandiera del Regno Unito. Bartstow guardò entrambe. «Ho trentacinque proprietà in città» disse con un forte accento londinese. «E nessuna mi ha mai dato così tanti problemi come questa. Con un cavolo di negozio da donne dopo l’altro.» Issy trasalì di fronte alla sua schiettezza, mentre Caroline rimase impassibile. «Trentacinque?» osservò. «Accidenti, è un uomo di successo, allora.» «Quindi non mi interessano i soldi» continuò Barstow. «Mi interessa non avere qualcuno che ogni cinque minuti se ne va senza preavviso con gli arretrati dell’affitto, capito?» Caroline annuì e Issy sfogliò i suoi appunti. Aveva fatto qualche ricerca su cosa rende piacevole un caffè, su come una bella pasticceria possa dare valore agli immobili circostanti e su quante torte avrebbe venduto al giorno (in realtà, quella cifra l’aveva sparata a caso, ma, riportata su un foglio elettronico, sembrava credibile. Quel procedimento si era rivelato piuttosto vincente nel settore immobiliare, dunque perché non servirsene?). Ma, prima che potesse dire qualcosa, Caroline aprì un minuscolo portatile color argento che Issy non aveva neanche notato. Prima di sposarsi con un cretino, Caroline era stata responsabile marketing in un’azienda specializzata in ricerche di mercato. Era molto brava nel suo lavoro. Poi, quando erano arrivati i bambini, le era parso più opportuno vestire i panni della moglie perfetta dell’uomo in carriera. Aveva riversato tutte le sue energie sui figli, partecipando attivamente al comitato scolastico e mandando avanti la casa come fosse una caserma. Ma questo aveva forse impedito a suo marito di fare lo stupido con quella donnaccia dell’ufficio stampa? Certo che no, pensò cupamente mentre aspettava che si aprisse Powerpoint. Lei aveva continuato a fare attività fisica, a mangiare sano, sforzandosi di rimettersi subito in forma dopo la nascita di Achilles e Hermia, e lui non se ne era neanche accorto. Lavorava tutto il giorno e tornava a casa talmente stanco che, dopo cena, si addormentava davanti alla tv. Poi era saltato fuori che si scopava una venticinquenne che di sicuro non aveva quindici costumi da gatto da cucire per una recita scolastica. Certo, l’amarezza non era attraente. Si morse il labbro. Grazie al suo negozio, finalmente sarebbe uscita di casa. «Ho preparato una presentazione» annunciò. «Le ricerche di mercato da me condotte hanno evidenziato che il settantaquattro per cento delle persone trova difficile assumere cinque porzioni di frutta e verdura al giorno; un altro sessanta per cento sostiene che, se la frutta e la verdura fossero più allettanti e più facilmente accessibili, aumenterebbe il loro consumo giornaliero di...» Caroline procedette come un rullo compressore. Aveva perlustrato il quartiere, classificato i codici di avviamento postale, progettato il sito web e scovato una coltivazione di carote biologiche a Hackney Marshes. Era imbattibile. «Punteremo il più possibile su prodotti locali, ovviamente.» Barstow seguì l’intera presentazione in silenzio. «Ora, avete domande?» chiese Caroline con aria di sfida dopo venti minuti. Sapeva di aver fatto un figurone. Gliel’avrebbe fatta vedere a suo marito. La sua attività avrebbe avuto un enorme successo, e lui si sarebbe mangiato le mani. Issy avvertì una stretta allo stomaco. Le sue frettolose ricerche su Google non erano decisamente paragonabili alla presentazione impeccabile di Caroline. Avrebbe fatto la figura dell’idiota. Barstow squadrò Caroline dalla testa ai piedi. Era davvero in gamba, quella donna, pensò Issy. «Quindi mi sta dicendo che...» cominciò Barstow. Non si era ancora tolto gli occhiali da sole, che


indossava malgrado fosse febbraio. «Mi sta dicendo che se ne starà tutto il giorno in una traversa di Albion Road, a trecento metri da Stoke Newington High Street, a cercare di vendere del succo di barbabietola.» Caroline rimase impassibile. «Credo che la mia approfondita analisi statistica customer-based, commissionata da un’importante agenzia di marketing...» «E lei, invece?» chiese Barstow indicando Issy. «Ehm...» Tutte le informazioni che aveva raccolto in quei giorni svanirono dalla sua mente. Non ne sapeva nulla di attività commerciali e ristorazione. Davvero una pessima idea, la sua. Vi fu un lungo silenzio mentre cercava affannosamente qualcosa da dire, il cervello svuotato. Era un incubo. Des alzò le sopracciglia e Caroline fece un sorrisetto maligno. Ma non conoscevano la sua arma segreta, si disse improvvisamente Issy. «Ehm... Io faccio torte.» Barstow emise uno dei suoi grugniti. «Ah sì? E ne ha portata qualcuna?» Issy aveva sperato che glielo chiedesse. Aprì il Tupperware. Oltre ai cupcake al limone perottenere-quello-che-vuoi, a cui pochi sapevano resistere, ne aveva portati altri in modo da mostrare l’ampiezza della sua gamma: al cioccolato bianco e camemoro (la cui acidità veniva neutralizzata dalla dolcezza del cioccolato bianco, a condizione di trovare il giusto equilibrio tra i due sapori, cosa che a Issy era riuscita l’inverno precedente dopo mille tentativi); all’arancia e cannella, decisamente natalizi; alla vaniglia, dolci, freschi, irresistibili e decorati con minuscole roselline. Aveva portato quattro cupcake di ogni tipo. Vide Caroline aggrottare la fronte davanti a quelli al limone, che sembravano malriusciti. Barstow, invece, come Issy aveva previsto, infilò la mano grassoccia nel contenitore e scelse proprio uno di quelli, insieme a un cupcake alla vaniglia. Issy trattenne il fiato mentre lui dava un morso a entrambi e masticava lentamente, gli occhi chiusi come un sommelier al lavoro. Alla fine deglutì. «Va bene» disse, puntando il dito su Issy. «Vedi di non mandare tutto all’aria, tesoro.» Dopodiché prese la sua valigetta, si voltò e uscì dall’ufficio. Per Caroline fu l’ultima goccia che fece traboccare il vaso. L’antipatia di Issy verso di lei si trasformò in compassione: Caroline non avrebbe mai saputo che era stata proprio lei a ispirarle l’idea della pasticceria. «È solo che i bambini vanno all’asilo e a scuola ormai, e quello stronzo mi fa star male e io... Non so cosa fare della mia vita!» singhiozzò. «E poi ho una di quelle case enormi proprio dietro al negozio e sarebbe stato perfetto. Gliel’avrei fatta vedere a quello là. Secondo le mie amiche, era una bellissima idea.» «Beata lei. Secondo le mie è una pessima idea» commentò Issy. Caroline la guardò come se avesse appena avuto un’illuminazione. «Ma certo! Le mie amiche non dicono mai la verità. Non mi avevano neanche avvertito che quel bastardo aveva una relazione, anche se lo sapevano benissimo.» Era visibilmente addolorata. «Sapete che la porta a lezione di lapdance? Insieme ai suoi colleghi? E pure a spese dell’azienda.» Scoppiò in una risatina soffocata. «Scusate, scusate. Non so perché ve lo sto dicendo. Vi sto annoiando.» L’ultima frase era diretta a Des, che aveva appena fatto un enorme sbadiglio. «No, no, affatto, è che mio figlio ha le coliche» farfugliò. «Mi dispiace davvero, signora Hanford, non so cosa dire.» Caroline sospirò. «Provi con “sono un agente immobiliare poco serio che ha affittato un locale a due persone diverse”.» «Ehm... per motivi legali, non...»


«Posso offrirvi un cupcake?» intervenne Issy, non sapendo cos’altro fare. «Io non mangio dolci! Da quattordici anni» ribatté Caroline sprezzante. «Okay. Non si preoccupi, Des, ne lascio un paio per lei e mi porto via il resto.» Caroline lanciò un’occhiata avida al Tupperware. «Ai bambini, però, potrebbero piacere.» «Quando tornano da scuola, magari» convenne Issy. «Ma io uso solo zucchero raffinato.» «Ci penserà mio marito a pagare il dentista» ringhiò la bionda. «Okay. Quanti gliene lascio?» Caroline si passò la lingua sulle labbra. «Sono bambini molto golosi...» Issy, leggermente sconcertata, le porse tutto il contenitore. «Grazie» disse Caroline. «Glielo riporto al caffè?» «Sì, grazie. E... buona fortuna con la sua ricerca.» «“Trovati un lavoretto, così ti distrai.” Così mi ha detto quel bastardo. Si rende conto?» Issy le mise una mano sulla spalla. «Mi dispiace.» «Trovati un lavoretto del cavolo. Arrivederci, Desmond.» E uscì sbattendo la porta. Des e Issy si guardarono. «Si starà spazzolando tutti i cupcake chiusa nella Range Rover?» le chiese l’agente. «Sono preoccupata per lei. Voglio assicurarmi che stia bene.» «Non credo che lo apprezzerebbe. Aspetterei un paio di giorni e poi la chiamerei.» «Dice?» «Sì» rispose fermamente Des. «E ora, a noi due: abbiamo un bel po’ di scartoffie da riempire.» Issy lo seguì docilmente nel retro dell’ufficio. «Se li è davvero portati via tutti, i cupcake?» domandò tristemente Des. «Quelli al limone non avevano un bell’aspetto, ma gli altri sembravano squisiti.» «Ne ho altri nella borsa» rispose Issy, che li aveva messi da parte per festeggiare o consolarsi. «Vuole favorire?» Issy tornò a casa con una bottiglia di champagne. Helena, che era rientrata sfinita dopo aver ricucito le vittime di una rissa a colpi di bottiglia, si illuminò. «Oddio! Ce l’hai fatta!» «Grazie alle ricette del nonno» disse Issy piena di riconoscenza. «Io lo metto in una casa di riposo e lui mi ripaga così.» «Non l’hai “messo in una casa di riposo”» ribatté Helena, esasperata. Ne avevano già parlato parecchie volte. «Gli hai trovato una sistemazione in un posto sicuro e confortevole. Preferivi che stesse qui ad armeggiare con il forno?» «No, ma...» mormorò Issy, poco convinta. «Basta» sentenziò Helena. A volte, pensò Issy, era bello avere accanto una persona così decisa e autoritaria. «A nonno Joe» disse poi Helena alzando il bicchiere. «E al successo del Cupcake Café! Che sia pieno di uomini sexy. Gli uomini sexy ci vanno in pasticceria?» «Certo... con i mariti.» Fecero tintinnare i bicchieri e si abbracciarono. In quel momento, squillò il telefono di Issy, che si affrettò a rispondere. «Forse è il tuo primo cliente» azzardò Helena. «O quel tipo strano del proprietario che ti chiama per minacciarti di spezzarti le gambe.» Non era nessuno dei due. Issy fissò il numero sul display, arrotolandosi una ciocca di capelli attorno al dito con aria pensosa. Sembrava che aspettasse di capire cos’avrebbe fatto il cellulare.


Ovviamente riprese a squillare facendola sussultare di nuovo. Allungò la mano con una lentezza esasperante: non avrebbe sopportato un messaggio in segreteria. Helena vide la sua espressione, ansiosa e terrorizzata insieme: avrebbe voluto strapparle il telefono di mano e impedirle di rispondere. Grazie a quello strano sesto senso che unisce gli amici intimi, aveva capito subito di chi si trattava. Ma ormai era troppo tardi. «Graeme?» disse Issy con voce roca. Certo, rifletté Helena, Issy le aveva dato un sacco di buoni consigli su Imran. E quanto le ci era voluto per lasciarlo? Diciotto mesi. E poi lui si era sposato con un’altra. Sospirò. «Piccola, dove sei finita?» chiese Graeme come se si fossero sentiti due ore prima e Issy non si fosse presentata a un appuntamento. Quella telefonata gli era costata molto, più di quanto lei immaginasse. All’inizio si era detto che tra loro sarebbe finita comunque: non era pronto per una storia seria. E aveva un sacco di lavoro da fare. Ma quando, con il passare delle settimane, non aveva avuto sue notizie, aveva provato un’emozione sconosciuta: la nostalgia. Aveva sentito la mancanza della sua gentilezza, del suo genuino interesse per lui e per quello che faceva. E della sua cucina, ovviamente. Era uscito con gli amici, aveva rimorchiato un paio di belle ragazze, ma alla fine c’era qualcosa nello stare insieme a Issy che era così... bello. Non gli rompeva le scatole, non gli faceva una testa tanta e non era interessata ai suoi soldi. Insomma, lei gli piaceva. Così, anche se di solito non tornava mai sui suoi passi, aveva deciso di chiamarla. E vederla. A volte, dopo una lunga giornata, lei gli preparava un bagno caldo e gli faceva un massaggio. Quello che era successo in ufficio... era solo lavoro, no? Lo avevano costretto a licenziarla, era un periodo difficile. Issy doveva aver già trovato un altro lavoro, ormai. Le aveva scritto una lettera di referenze veramente lusinghiera – persino un po’ troppo rispetto alle sue reali capacità come office manager –, e così aveva fatto anche Callie Mehta. Doveva esserle passata. Quando aveva preso il telefono, Graeme era ormai convinto che sarebbe andato tutto bene. Issy evitò accuratamente lo sguardo di Helena e uscì dalla stanza con il cellulare in mano. Le ci volle un bel po’ prima di riuscire a parlare, tanto che a un certo punto Graeme disse: «Pronto? Pronto? Ci sei?». Nelle ultime settimane lei non aveva fatto altro che girarsi e rigirarsi nel letto; a un certo punto, il dolore e la vergogna per il licenziamento avevano ceduto il posto all’infelicità e alla frustrazione per aver perso Graeme. Era terribile. Insopportabile. Lo odiava. L’aveva usata come una specie di benefit aziendale. Ma no, sussurrò un’altra vocina dentro di lei. Tra loro c’era qualcosa. Qualcosa di vero. Lui le aveva detto delle cose... O forse le diceva a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo? Gli faceva comodo avere una valvola di sfogo e una confidente che, oltre a cucinare per lui, ci andava anche a letto? Un bell’affare per lui, preso com’era dalla sua carriera. Dopotutto Graeme aveva solo trentacinque anni e ancora tanto tempo davanti prima di dover anche solo cominciare a pensare di metter su famiglia. E poi perché un ragazzo così bello e realizzato avrebbe dovuto provare interesse per lei? A tutto questo pensava Issy alle quattro di mattina, quando si sentiva così inutile e inadeguata che le veniva quasi da ridere. Quasi. Poi però era saltata fuori l’idea del caffè, davvero provvidenziale. Qualcosa di buono e di concreto in cui riversare le energie. Una porta verso una nuova vita. Un modo per lasciarsi alle spalle le vecchie preoccupazioni. Per ricominciare da capo.


«Ci sei?» Issy fu presa dal panico. Doveva cercare di sembrare disinvolta e fingere di non aver pensato a lui, quando invece lo aveva fatto e pure ossessivamente? Ricordò quando se ne era andata sbattendo la porta dell’ufficio, sull’onda della rabbia. E anche i brindisi più... ehm... inopportuni alla festa di addio. E il fatto che, nei giorni successivi, era sicura che lui l’avrebbe chiamata per dirle che aveva sbagliato, che l’amava e che doveva tornare perché la sua vita faceva schifo senza di lei. Poi quei giorni erano diventati settimane. Ora, più di un mese dopo, Issy aveva imboccato una strada nuova, e non sarebbe tornata indietro. «Pronto?» disse infine in un sussurro soffocato. «Puoi parlare?» le chiese Graeme. Quella domanda la irritò. Cosa credeva che stesse facendo? «Non proprio» rispose. «Sono a letto con George Clooney, che è appena andato ad aprire un’altra bottiglia di champagne per rabboccare la Jacuzzi.» Graeme scoppiò a ridere. «Oh, Issy, quanto mi sei mancata.» Lei sentì un singhiozzo risalirle la gola e cercò disperatamente di ricacciarlo indietro. Non gli era mancata! Proprio per niente! Perché, se avesse pensato a lei anche solo per un secondo, si sarebbe reso conto di quanto aveva avuto bisogno di lui dopo aver perso il lavoro e tutta la sua vita. Ed era stato proprio lui a decidere di licenziarla. «No, invece» riuscì a ribattere. «Mi hai buttata via come uno straccio.» Graeme sospirò. «Non credevo che fossi ancora arrabbiata.» «Perché, cosa credevi che fossi? Riconoscente?» «Be’, magari sì, un pochino. Riconoscente di aver avuto la possibilità di fare qualcosa di più della tua vita. Lo sai che ne sei capace, Issy. E poi, come avrei potuto contattarti prima? Sarebbe stato molto inopportuno da parte mia, cerca di capire.» Issy tacque. Non voleva che concludesse che lo trovava ragionevole. «Ti ho pensata tantissimo» continuò lui in tono sincero. «Ah sì? Dopo avermi licenziata e scaricata?» «Non ti ho licenziato!» esclamò Graeme esasperato. «Il tuo lavoro non era più richiesto. Tutti erano a rischio! Ho cercato di proteggerti dalle conseguenze della relazione, ma tu l’hai urlata ai quattro venti! È stato davvero imbarazzante per me.» «Lo sapevano già» borbottò lei. «Be’, non è questo il punto. L’hai gridato davanti a tutti e, a quanto mi hanno raccontato, hai anche fatto dei commenti poco eleganti al pub.» Quell’ufficio era davvero un covo di serpi, pensò Issy irritata. «Allora perché mi hai chiamato?» gli chiese. Il tono di Graeme si addolcì. «Perché volevo sapere come stavi. Non sono così bastardo come pensi.» Possibile? si domandò Issy. Possibile che si fosse sbagliata? Dopotutto era uscita dal suo ufficio urlando e sbattendo la porta. Forse non era l’unica a essere rimasta ferita. Forse anche lui era scioccato. Forse aveva dovuto prendere il coraggio a due mani per fare quella telefonata. Forse non era uno stronzo; forse era ancora... insomma... quello giusto. «Be’...» cominciò Issy. In quel preciso istante Helena irruppe nella sua stanza senza bussare. Aveva in mano un cartello improvvisato con su scritto NO! a caratteri cubitali. Mimò con le labbra “No! No! No!”, l’espressione feroce e il pugno alzato di una manifestante furibonda. Issy le fece cenno di andarsene, ma lei si


avvicinò ancora di più e allungò la mano per strapparle il telefono. «Vattene!» esclamò Issy. «Che succede?» chiese Graeme «Niente, è la mia coinquilina. Scusa.» «Chi, la cicciona?» Purtroppo, la sua domanda giunse all’orecchio di Helena, che si gettò sul telefono urlando: «Questa poi!». «Piantala, Helena!» strillò Issy. «Va tutto bene. Sto bene. Non ho bisogno di essere salvata, okay? Io e Graeme dobbiamo parlare, quindi ti dispiace toglierti dalle scatole e darci un po’ di privacy?» La fulminò con lo sguardo finché lei non si ritirò in soggiorno. «Scusa» disse poi a Graeme. Lui sembrava tutto pimpante. «Quindi va tutto bene?» ripeté sollevato. «Perfetto. Perfetto.» Poi, dopo una pausa: «Perché non vieni qui?». «No!» gridò Issy. «Tu non ci vai» dichiarò Helena, in piedi davanti alla porta con le braccia incrociate e lo stesso sguardo che riservava agli ubriachi che arrivavano al pronto soccorso all’una e mezzo del sabato notte con una ferita in testa. «Non ci vai e basta.» «C’è stato un malinteso» balbettò Issy. «Anche Graeme è stato male.» «Così male che ha perso il telefono per settimane. Issy, ti prego. Chiudila qui.» «Ma Helena...» obiettò Issy, irritata. Dopo aver riattaccato, aveva bevuto un bicchiere di champagne tutto d’un fiato e sentiva uno strano calore attraversarle il corpo. Graeme l’aveva chiamata! «Insomma... penso davvero che lui possa essere quello giusto.» «No, è il capo per cui hai preso una sbandata. Solo che hai quasi trentadue anni e sei nel panico.» «Non è quello...» ribatté Issy, cercando le parole giuste. «Sei fuori strada, Helena.» «E invece no» insisté lei. «Io c’ero quando hai passato le notti a piangere; ti ho consolato quando ti ha lasciato in mezzo alla strada sotto la pioggia battente o ti ha accompagnato alle feste fingendo di essere un amico perché non voleva farsi vedere in giro con te.» «Be’, era per via del lavoro...» «Va bene, allora vediamo.» «Sarà diverso adesso.» Helena le lanciò un’occhiata scettica. «Be’, almeno voglio scoprire se sarà così» replicò Issy in tono di sfida. «Non si è neanche disturbato a uscire di casa e venire lui qui» mormorò Helena dopo che Issy se ne fu andata. Poi sospirò. Nessuno ascoltava mai i buoni consigli. Anche Graeme aveva aperto una bottiglia di champagne. Il suo appartamento minimalista era immacolato come sempre, in netto contrasto con la sua casa variopinta e disordinata, pensò Issy. Era anche molto silenzioso. Dal costoso impianto stereo arrivavano canzoni d’amore, cosa forse un po’ esagerata, si disse. In compenso, lei aveva scelto il suo più bel vestito di lana grigia e un paio di scarpe col tacco. E il profumo Agent Provocateur. «Ehi» disse lui aprendo la porta. Viveva in un edificio piuttosto elegante di nuova costruzione, con la moquette nei corridoi e i fiori nell’atrio. Graeme indossava una camicia bianca con il colletto aperto e la barba scura era di qualche giorno. Sembrava stanco, un po’ stressato... e terribilmente


bello. Issy sentì il cuore balzarle in petto. «Ehi» rispose. «Grazie per essere venuta, davvero.» Era carina, pensò Graeme. Non sexy come le ragazze che vedeva in discoteca, con le minigonne ascellari e i capelli biondi e lunghi. Loro erano davvero sexy... ma a volte, se doveva essere sincero... gli facevano paura. Issy, invece, era carina e basta. Piacevole. Rilassante. Lei sapeva che avrebbe dovuto tenerlo a distanza, accordarsi per un pranzo nei giorni successivi, concedersi un po’ di tempo e di spazio per respirare. Ma non ne era capace, e lo sapevano entrambi. E comunque non aveva senso menare il can per l’aia: o lui era disposto a mettersi in gioco, oppure no. Issy non aveva voglia di passare altri mesi a chiederselo. Graeme le diede un bacio sulla guancia, e lei percepì uno sbuffo di Fahrenheit. Lui sapeva che era il suo preferito e se lo era messo apposta. Accettò un bicchiere di champagne e si appollaiò sulla poltrona di pelle nera stile Le Corbusier. Si sentiva come la prima volta che era andata da lui: lo stesso misto di paura ed eccitazione all’idea di trovarsi in quel bell’appartamento con un uomo attraente e sensuale che le piaceva talmente tanto da annebbiarle il cervello. «Eccoci qui» disse Graeme. «È strano non guardarti da dietro una scrivania.» «Già. Hai perso il brivido?» lo punzecchiò Issy, pentendosene immediatamente. Non era il momento di fare battute impertinenti. «Mi sei mancata, sai» mormorò Graeme, guardandola negli occhi da sotto le sopracciglia nere e dritte. «Lo so... forse... ti ho data per scontata.» Sapevano entrambi che era un eufemismo. «Togli pure il “forse”.» «Okay, okay. Mi dispiace.» Graeme le toccò il braccio. «Va bene.» «Issy, non dire “Va bene”, non hai dodici anni. Se sei arrabbiata con me e vuoi dire qualcosa, fallo.» «Sono arrabbiata con te» confermò lei, con un piccolo broncio. «Scusami. È questo cazzo di lavoro, lo sai...» D’un tratto Issy si rese conto che quello era il momento giusto di chiedergli cos’era lei per lui veramente, dove stavano andando. “Perché se vogliamo ricominciare, deve diventare una cosa seria. Non ho più molto tempo e voglio stare con te.” Sì, era il momento di farsi avanti. Molto probabilmente Graeme non si sarebbe mai più dimostrato così vulnerabile. Era il momento di stabilire nuove regole tra loro e di fargliele accettare. Rimasero seduti in silenzio. Issy non aprì bocca. Non ci riuscì. Come sempre, era rossa come un peperone. Perché era così vigliacca? Di cosa aveva paura? Glielo avrebbe chiesto. Punto e basta. Graeme attraversò la stanza e, prima che lei potesse dire qualcosa, le si parò davanti con i bellissimi occhi azzurri dritti nei suoi. «Guardati» esordì in tono brusco. «Sei tutta rossa. Adorabile...» E, come sempre, sentirselo dire peggiorò la situazione. Issy fece per parlare, ma Graeme la zittì e le si avvicinò molto lentamente. La baciò con trasporto, nel modo che Issy ricordava e che l’aveva perseguitata in sogno per settimane. Alla fine si abbandonò a lui, prima con riluttanza, poi senza riserve. Solo in quel momento avvertì quanto il suo corpo avesse sentito la mancanza di quel contatto, della sua pelle sulla sua. Si era dimenticata quanto fosse piacevole, quanto lui fosse


piacevole, quanto fosse buono il suo odore. Si lasciò sfuggire un sospiro. «Mi sei mancata» sussurrò Graeme. E, mentre si stringeva a lui ancora una volta, Issy capì che, per il momento, avrebbe dovuto farselo bastare. Fu solo la mattina successiva, dopo una notte straordinaria, che Graeme, mentre si preparava frettolosamente per uscire, le chiese cosa stesse facendo. Lì per lì Issy provò una strana reticenza, come per evitare che la realtà irrompesse nel suo sogno. E poi temeva che Graeme ridesse di lei. Le piaceva sentirsi così felicemente stanca, i muscoli rilassati, mentre indugiava nel letto matrimoniale. Era rimasta a dormire da lui, cosa che accadeva raramente. Era bellissimo. Dopo essersi alzata, avrebbe fatto una passeggiata a Notting Hill High Street e sarebbe andata da Starbucks a leggere il giornale con una bella tazza di caffè... Dopotutto non era male potersene andare in giro nei giorni lavorativi: le sembrava di aver marinato la scuola. Ma poi si ricordò con un sussulto che non poteva più marinare la scuola. Aveva un sacco di cose da fare. Aveva firmato il contratto d’affitto, quindi ora aveva un negozio, delle responsabilità e una montagna di lavoro. Si tirò su a sedere, presa dal panico. Aveva un appuntamento con un consulente finanziario. Doveva esaminare il locale (il suo caffè!), capire quali lavori erano assolutamente necessari e quali potevano aspettare finché non avesse avviato l’attività, comprare un forno, assumere personale. La sera prima, iniziata con una coppa di champagne e finita con un’indimenticabile notte di sesso con l’uomo che in quel momento si stava passando il gel tra i capelli davanti allo specchio, aveva festeggiato. Ma quel giorno era un’imprenditrice in erba. «Oddio» mormorò. «Devo andare. Subito.» Graeme sembrò turbato ma divertito. «Perché? Devi correre dall’estetista?» «No.» E gli raccontò tutto. Graeme la guardò come se gli avesse detto che stava per aprire uno zoo. «Come?» Si stava annodando la cravatta azzurra che gli aveva regalato Issy, convinta che avrebbe solleticato la sua vanità e messo in risalto i suoi occhi. Entrambe le sue supposizioni si erano poi rivelate fondate. «Hai capito bene» ribatté Issy con nonchalance, come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Vuoi aprire un’attività. Siamo usciti dalla recessione da tipo cinque minuti e tu vuoi aprire un’attività.» «Be’, è il momento migliore. Gli affitti sono bassi e ci sono un sacco di opportunità.» «Aspetta un attimo» disse lui. Issy era al tempo stesso compiaciuta di averlo sorpreso e stizzita dal suo evidente scetticismo. «Che tipo di attività?» Lei lo guardò dritto negli occhi. «Cupcake, ovviamente.» «Cupcake?» «Esatto, cupcake.» «Vuoi basare un’intera attività sui dolcetti?» «Non sarei la prima.» «Quelle cose zuccherose?» «Alla gente piacciono.» Graeme aggrottò la fronte. «Ma non sai nulla di come si gestisce un locale.» «Be’, chi è che sa tutto quando comincia?» «Chi si occupa di ristorazione in genere sì. Quasi tutti si sono fatti le ossa per anni prima di


avviare un’attività in proprio. Altrimenti non hai chance. Perché non sei andata a lavorare in una pasticceria se ti piaceva tanto? Almeno avresti capito se faceva per te o no.» Issy mise il broncio. Era esattamente quello che le aveva detto una vocina dentro di lei. Ma poi le avevano servito il negozio su un piatto d’argento! Il suo negozio! Sapeva di avere ragione! «Be’, ho trovato un posto perfetto e...» «A Stoke Newington?» le chiese Graeme in tono beffardo. «Ti hanno fregato.» «Va bene» sibilò lei. «Forse hai ragione. Comunque ho appuntamento con un consulente finanziario.» «Be’, speriamo che abbia tutta la mattina libera.» Issy lo fulminò con lo sguardo. «Che c’è?» «Perché fai così? Non posso crederci.» «E io non posso credere che stai buttando via una liquidazione incredibilmente generosa in una cosa così assurda. Così stupida. Perché non me l’hai detto?» «Perché non ti sei disturbato a chiamarmi, ricordi?» «Dai, Issy, santo cielo. Farò un paio di telefonate. Credo ci sia un posto di segretaria alla Foxton Commercial. Ti troverò qualcosa.» «Non voglio “qualcosa”» si ribellò lei, mordendosi il labbro. «Voglio questo.» Graeme allargò le braccia, sconsolato. «Ma è assurdo.» «Lo dici tu.» «Non sai niente di attività commerciali.» «E tu non sai niente di me» sibilò Issy. Si rese conto di sembrare sciocca e tragica, ma non le importava niente. Si guardò intorno alla ricerca dell’altra scarpa. «Devo andare.» Graeme la fissò scuotendo la testa. «Okay.» «Okay.» «Rovinerai tutto» disse lui. Issy raccolse la scarpa: avrebbe voluto tirargliela addosso. «Grazie della fiducia» borbottò, mentre se la infilava e si dirigeva verso la porta, maledicendosi ancora una volta per essere così stupida. Issy si precipitò a casa tutta tremante. Non vedeva l’ora di togliersi quei vestiti. L’appartamento era silenzioso, ma non vuoto. Avvertiva la presenza di Helena da qualche parte: nell’aria aleggiava la sua disapprovazione (insieme al profumo Shalimar). Be’, non aveva tempo. Doveva andare in banca, sembrare intelligente e professionale e stilare un business plan, anche se era rimasta sveglia buona parte della notte con l’uomo più stronzo di tutta Londra. Nel pomeriggio sarebbe andata a ritirare le chiavi e poi avrebbe avuto alcune settimane per tirare a lucido il negozio in modo da poterlo inaugurare a primavera. Una previsione alquanto rosea, pensò. Ma chi se ne frega. “Ora, cosa mi metto?” Aprì l’armadio e passò in rassegna la schiera di anonimi tailleur da lavoro che aveva accumulato. Il gessato grigio? Graeme lo adorava, diceva che sembrava una segretaria sexy. Issy aveva sempre desiderato essere una di quelle ragazze alla moda con la pancia piatta, che potevano permettersi magliette senza reggiseno e pantaloni a vita bassa. Ma non sarebbe mai stata come loro. Tuttavia non le piaceva vestirsi per valorizzare la sua silhouette. Helena, invece, ne aveva fatto un’arte. Prese una camicia bianca. Avvertì una presenza alle sue spalle e si voltò. Era Helena, con due tazze in mano.


«Non bussare. È solo casa mia» le disse. «Vuoi un po’ di tè?» chiese Helena, ignorandola. «No. Voglio che la smetti di venire in camera mia senza essere invitata.» «Be’, stanotte è andata bene, allora.» Issy sospirò. «Zitta.» «Oddio, è andata male. Mi dispiace.» Con Helena era difficile tenere il broncio. «È andata bene» disse Issy accettando la tazza di tè. «Ma non voglio vederlo più.» «Okay.» «Lo so che l’ho già detto tante volte.» «Okay.» «Ma stavolta sono seria.» «D’accordo.» «Sto bene.» «Perfetto.» «Perfetto.» Helena la guardò. «Vuoi metterti quella roba?» «Sono un’imprenditrice, adesso. Devo entrare nella parte.» «Ma non è la tua parte. Sei una pasticciera professionista, non una che se ne va in giro con una cartellina e controlla Facebook ogni cinque minuti.» «Il mio vecchio lavoro non era così, comunque.» «Be’, è lo stesso.» Helena tirò fuori dall’armadio un abito a fiori e un cardigan color pastello. «Tieni, mettiti questi.» Issy abbassò gli occhi. Aveva troppi pensieri per concentrarsi. «Non sono un po’ troppo... vezzosi?» «Tesoro, stai per aprire una pasticceria. Devi imparare a essere vezzosa. Comunque no. È un look carino e tranquillo. Ti si addice molto più di quello da segretaria porno.» «Il tailleur non è da...» cominciò Issy, ma poi lanciò un’occhiata allo specchio e si disse che forse era davvero giunto il momento di sbarazzarsene e lasciarsi alle spalle una volta per tutte quello stupido ufficio. E quello stupido uomo... Si sforzò di non pensare a Graeme e si cambiò. Con la nuova mise, era davvero molto più carina. Sembrava anche più giovane. Sorrise. «Ecco. Adesso sì che sei entrata nella parte» commentò Helena. Issy guardò l’amica, che indossava una maglietta verde con le ruches e una generosa scollatura. «E tu che parte interpreti oggi?» «Dea del Rinascimento dai capelli rosso fuoco, ovviamente. Dovresti saperlo.» Lungo il tragitto verso la banca, Issy era molto nervosa. Prendendo l’appuntamento, aveva spiegato che si trattava solo di una chiacchierata preliminare, ma aveva comunque la sensazione di dover giustificare uno scoperto, come le era capitato all’università. A Graeme piaceva controllare gli estratti conto mensili e chiamare la banca nel caso trovasse qualcosa di strano. Issy, invece, evitava di farlo troppo spesso. «Ehm... salve» sussurrò entrando nella banca silenziosa e tappezzata di moquette beige. C’era odore di soldi e di detersivi. In quel momento, avrebbe preferito indossare l’armatura del tailleur gessato. «Posso parlare con il signor...» Cercò fra gli appunti «Tyler?»


La ragazza dietro alla scrivania sorrise distrattamente e sollevò il telefono per annunciarla. L’open space era disseminato di tavoli e gli impiegati tenevano gli occhi fissi sui loro computer. Issy si guardò intorno, aspettandosi di vedere dei lingotti. Siccome non le sembrava ci fosse nessuno con la faccia da signor Tyler, si sedette e prese una rivista della banca, ma era troppo nervosa per leggere, così si limitò a giocherellare con le pagine sperando di non dover aspettare troppo a lungo. Austin Tyler se ne stava seduto nell’ufficio della preside, con la netta sensazione di avere un déjà vu. Era la stessa identica stanza in cui era stato anche lui un tempo, battendo le scarpe contro le gambe della sedia quando veniva rimproverato per essersi messo a correre tra i cespugli o per aver litigato con Duncan MacGuire. La nuova preside, molto giovane – la quale poco prima gli aveva detto: «Mi chiami Kirsty», nonostante lui preferisse decisamente “signorina Dubose” –, se ne stava seduta sulla scrivania anziché dietro, come faceva all’epoca il signor Stroan. Austin apprezzava di più la vecchia maniera: almeno i ruoli erano chiari. Lanciò un’occhiata in tralice a Darny e sospirò. Il ragazzino fissava accigliato il pavimento, con un luccichio negli occhi che lasciava intendere che, qualsiasi cosa gli avessero comunicato, non avrebbe ascoltato. Darny era intelligente, determinato e, nonostante i suoi dieci anni, fermamente convinto che chiunque gli dicesse cosa fare violasse i suoi diritti fondamentali. «Cos’è successo stavolta?» chiese Austin. Avrebbe fatto di nuovo tardi al lavoro, lo sapeva. Si passò una mano tra i capelli color rame, folti e ribelli, che gli ricadevano sulla fronte. Era ora di andare dal barbiere, pensò. Se solo ne avesse avuto il tempo. «Be’,» cominciò la preside «ovviamente conosciamo tutti la situazione particolare di Darny.» Austin sollevò le sopracciglia e si voltò verso il ragazzo, che aveva gli occhi grigi come i suoi e i capelli più rossi ma ugualmente spettinati. «Be’, sì, ma la sua “situazione particolare” risale a sei anni fa, giusto, Darny? Non puoi continuare a usarla come scusa. Soprattutto per...» «Per usare l’arco e le frecce contro i bambini di prima elementare.» «Esatto» confermò Austin lanciando un’occhiata di disapprovazione a Darny, che fissava ostinatamente il pavimento con aria ancora più bellicosa. «Cos’hai da dire a tua discolpa?» «Niente, sceriffo.» Kirsty guardò l’uomo alto e ricciuto con il completo sgualcito e desiderò essere da un’altra parte. Anzi, desiderò che entrambi fossero da un’altra parte. In un pub, per esempio. Pensò, e non per la prima volta, che il suo lavoro era completamente inutile se voleva incontrare qualcuno. Il corpo insegnante era quasi esclusivamente formato da donne e non era considerato molto professionale tentare un approccio con i papà. Ma Austin Tyler non era un papà, quindi... Tutti a scuola conoscevano la loro tragica storia, che, agli occhi di Kirsty, rendeva quello spilungone di Austin, con i suoi occhiali di corno, ancora più attraente. Sei anni prima, mentre Austin si stava specializzando in biologia marina a Leeds, i genitori e il fratellino (il frutto dei festeggiamenti delle nozze d’argento che aveva sconvolto le loro vite) erano rimasti coinvolti in un terribile incidente stradale per colpa di un camion che aveva tentato un’inversione a U su una strada trafficata. Darny, che all’epoca aveva quattro anni ed era seduto sul seggiolino, era rimasto illeso, ma la parte anteriore dell’auto era andata completamente distrutta. Malgrado fosse prostrato dal dolore, Austin aveva abbandonato gli studi e la prospettiva di un


lavoro che lo avrebbe portato in giro per il mondo, era tornato a casa, aveva cacciato indietro le zie lontane – pur benintenzionate – e i servizi sociali, aveva accettato un lavoro in banca e stava tirando su il fratellino meglio che poteva. (E qui Kirsty non aveva potuto fare a meno di pensare che, se il bambino avesse avuto una forte influenza materna, le cose sarebbero state diverse...) Austin, ormai trentunenne, aveva un legame fortissimo con Darny e, sebbene molte donne avessero cercato di mettersi tra di loro, nessuna ci era riuscita. Kirsty si chiese se fosse stato Darny a spaventarle. O forse Austin non aveva ancora incontrato quella giusta. Se solo l’unica possibilità che aveva di vederlo non fosse stata l’ennesima marachella di Darny... «Ritiene che, a casa, Darny benefici di... un’influenza femminile sufficiente?» Austin si passò di nuovo le mani tra i capelli. Perché non si ricordava mai di andare dal barbiere? “Quanto mi piacciono gli uomini con i capelli un po’ lunghi” pensò Kirsty. «Be’, ha più o meno nove milioni di benevole conoscenze femminili» rispose, mordendosi il labbro al pensiero del disprezzo che Darny riservava a coloro che venivano a casa (che, a essere sinceri, non era sempre uno specchio. Avevano una signora delle pulizie, che però si rifiutava di raccogliere quello che lasciavano in terra, il che era proprio ciò di cui avevano bisogno prima che avessero inizio le pulizie vere e proprie). «Ma nessuna stabile, no.» Kirsty sollevò le sopracciglia in un modo che voleva essere civettuolo ma che Austin interpretò immediatamente come un segno di disapprovazione. Si sentiva sotto esame quando era con Darny, e la cosa lo metteva a disagio. Suo fratello non era certo un angelo, ma lui faceva del suo meglio ed era sicuro che, se fosse vissuto altrove, la sua condotta sarebbe solo peggiorata. «Stiamo bene, io e Darny» aggiunse. Il ragazzino, sempre con gli occhi incollati al pavimento, allungò una mano e strinse quella di Austin. «Non volevo... cioè, volevo solo dire, signor Tyler...Austin... che la violenza non è ammessa in questa scuola.» «Ma noi vogliamo restare in questa scuola» ribatté lui. «Siamo cresciuti qui! È il nostro quartiere. Non vogliamo essere costretti a spostarci in un’altra.» Austin tentò di non farsi prendere dal panico sentendo la manina ossuta di Darny. Aveva fatto di tutto per restare nella casa dei genitori, nel quartiere in cui avevano sempre vissuto, nei pressi di Stoke Newington. Certo, non era stato facile pagare il mutuo, ma aveva cercato di dare alle loro vite una continuità, di non strappare a Darny anche quel poco che gli era rimasto. In più, lì potevano contare su amici e vicini che non facevano mai mancare un invito a cena o un letto per Darny quando Austin lavorava fino a tardi. Amava il suo quartiere con tutto il cuore. Kirsty cercò di tranquillizzarlo. «Nessuno sta dicendo che Darny debba cambiare scuola. Semplicemente... niente più arco e frecce.» Il ragazzino scosse energicamente la testa. «Sei d’accordo con me, Darny? Niente più arco e frecce?» «Niente più arco e frecce» confermò lui, senza staccare gli occhi dal pavimento. «E?» disse Austin. «Mi dispiace» mormorò Darny, alzando finalmente lo sguardo. «Devo andare a chiedere scusa anche agli altri bambini?» «Sì, grazie» rispose Austin. Kirsty gli sorrise grata. Era quasi carina, pensò lui distrattamente... per essere una maestra.


Janet, l’assistente di Austin, gli andò incontro all’entrata della banca. «Sei in ritardo» disse, porgendogli un caffè (macchiato, con tre cucchiaini di zucchero: Austin aveva dovuto crescere in fretta in certi ambiti, ma era rimasto indietro in altri). «Lo so, lo so, mi dispiace.» «Darny ne ha combinata un’altra delle sue?» Austin fece una smorfia. «Non ti preoccupare.» Janet gli diede un colpetto sulla spalla e ne approfittò per togliergli un pelucco dalla giacca. «Sono fasi che attraversano tutti i bambini.» «Anche quella dell’arco e delle frecce?» Janet alzò gli occhi al cielo. «Considerati fortunato: il mio era fissato con i petardi.» Sentendosi vagamente sollevato, Austin lanciò un’occhiata agli appuntamenti: qualcuno era in cerca di un prestito per un locale. Vista la crisi, era molto improbabile che gliel’avrebbero concesso e comunque i termini sarebbero stati proibitivi. Tutti pensavano che le banche fossero spietate, ma prestare denaro alle piccole imprese era un compito ingrato. Più della metà falliva. Il suo lavoro consisteva nel cercare di capire quale metà. Girò l’angolo e si ritrovò nella sala d’aspetto. «Salve» disse, sorridendo alla ragazza dall’aria nervosa, con le guance rosse e i capelli neri e ribelli, che se ne stava seduta con una rivista sulle ginocchia. «È lei il mio appuntamento delle dieci?» Issy balzò in piedi e posò inavvertitamente lo sguardo sull’orologio sulla parete opposta. «Lo so» si scusò lui. «Sono mortificato...» Per un attimo pensò di dirle che in genere non arrivava in ritardo, ma non sarebbe stato del tutto vero. «Se vuole seguirmi...» Issy entrò in una specie di sala riunioni che sembrava una scatola di vetro nel bel mezzo dell’open space. Strano: erano come due pesci in un acquario. «Mi scusi... sono... salve, sono Austin Tyler.» «Issy Randall» disse lei stringendogli la mano, grande e avvolgente. Per essere un bancario, era spettinato. Ma aveva un sorriso gentile e distratto, e occhi grigi dalle ciglia lunghissime... Forse poteva metterlo sulla lista di Helena. Dopo quella notte, lei avrebbe chiuso con gli uomini per un po’. Sentì la rabbia montarle dentro, ma la soffocò. Concentrati! Concentrati! Se solo avesse dormito più di tre ore... Austin, accortosi che la cliente sembrava un po’ stressata, si mise a cercare una penna. Quando aveva lasciato l’università, non era affatto sicuro che lavorare in banca facesse per lui. Era quanto di più lontano dallo studio dei coralli potesse immaginare, ma anche il miglior impiego che potesse trovare in poco tempo; la banca gli aveva anche concesso di addossarsi il mutuo dei genitori. A ogni modo, da quando aveva iniziato, si era fatto apprezzare: aveva scoperto di avere un ottimo intuito per gli investimenti solidi e, quando i suoi clienti imparavano a conoscerlo, finivano col fidarsi ciecamente di lui e restavano fedeli alla banca. I suoi superiori erano certi che avrebbe fatto carriera, anche se avrebbero voluto che si tagliasse i capelli. «Ora» cominciò, dopo aver riesumato una penna dalla tasca e avervi soffiato sopra per ripulirla dai residui di un fazzoletto di carta «cosa possiamo fare per lei?» Abbassò lo sguardo sul fascicolo della cliente e si rese conto con orrore che il prestito doveva servire per un altro locale. Si tolse gli occhiali. Era una di quelle giornate... «Dunque, perché non comincia dall’inizio?» domandò a Issy, improvvisando.


Lei gli lanciò un’occhiata sorniona: aveva capito subito cos’era successo. «Non ha il mio fascicolo?» «Preferisco che siano i clienti a raccontare la loro storia. Così posso avere un quadro più completo.» «Davvero?» gli chiese Issy, cercando di trattenere un sorriso. «Davvero» rispose lui in tono fermo, sporgendosi in avanti e intrecciando le lunghe dita sopra la cartellina. Issy colse nel suo sguardo un’espressione complice e sentì un brivido di entusiasmo al pensiero di poter illustrare il suo progetto nei dettagli. Presto avrebbe scoperto se il sogno sarebbe potuto diventare realtà. «Okay. Dunque...» E gli raccontò tutto quanto (a parte che era andata a letto con il suo capo), parlando della sua idea come dell’ambizione di una vita, sostenuta però da un’approfondita analisi finanziaria. Mentre parlava, si rese conto che sembrava sempre più reale, che pian piano le stava dando forma. «Le ho portato dei cupcake» concluse. Austin agitò una mano. «Mi dispiace, ma non posso accettarli. Potrebbe essere visto come...» «Un tentativo di corruzione? Con dei cupcake?» chiese Issy stupita. «Be’, sì, cupcake, vino, qualsiasi cosa.» «Accidenti» mormorò lei fissando il contenitore. «Non ci avevo pensato.» «Perché, non li aveva portati per corrompermi?» «Be’, adesso che mi ci fa pensare sì, certo.» Si sorrisero. Austin si passò una mano tra i capelli arruffati. «Pear Tree Court... non è quel posticino appartato in una traversa di Albion Road?» Issy annuì energicamente. «Lo conosce!» «Be’, sì...» disse Austin, che conosceva a memoria il quartiere. «Ma... non è esattamente una zona commerciale, giusto?» «Ci sono dei negozi. E, come diceva Kevin Costner, “se lo costruisci, lui tornerà”.» Lui sorrise. «Normalmente non considero lo slogan di un giocatore di baseball fantasma una solida strategia commerciale.» Issy stava per aggiungere che il film L’uomo dei sogni le piaceva tantissimo e chiedere a Austin se era così anche per lui, poi si trattenne. Il fatto era che, per essere un bancario, quel ragazzo era molto alla mano. Aveva temuto quell’incontro, e invece... «Voglio dire, non sono sicuro che... mi fa vedere di nuovo i suoi calcoli?» Austin li studiò attentamente. L’affitto era ragionevole e le materie prime necessarie in una pasticceria non erano costose. Il personale sarebbe stato facile da trovare, se Issy si fosse occupata da sola della cucina. Nonostante ciò, a fronte di una fatica notevole, i margini di profitto erano davvero minimi. Lanciò un’ultima occhiata agli appunti, poi guardò Issy. Dipendeva tutto da lei: se avesse lavorato sodo e dedicato tutta la sua vita ai dolci, avrebbe potuto farcela. Forse. «Le spiego come funziona» disse. E, nell’ora successiva, prese Issy per mano e la guidò attraverso le varie fasi della gestione di un’impresa: dall’assicurazione, alle norme igieniche e di sicurezza, alle ispezioni alimentari, alle operazioni bancarie, al marketing, all’inventario, ai margini, al controllo delle porzioni. Alla fine Issy ebbe l’impressione di aver frequentato un corso di economia aziendale. Austin, dal canto suo, dimenticò completamente l’appuntamento successivo. Mentre lui parlava, togliendosi di tanto in tanto gli occhiali per sottolineare un concetto, Issy sentiva i suoi sogni nebulosi prendere forma: quel


consulente stava gettando le fondamenta del suo castello in aria. Passo dopo passo, le spiegò esattamente di cosa sarebbe stata responsabile e cos’avrebbe dovuto fare. E non solo per un giorno, o per un progetto, ma per sempre, finché avesse voluto guadagnarsi da vivere con quell’attività. Dopo cinquantacinque minuti Austin tacque e si appoggiò allo schienale della sedia. I suoi colleghi lo prendevano in giro perché aveva messo a punto un discorso standard definito “spaventali subito”, che faceva a chiunque gli sottoponesse il progetto di un’attività commerciale. Se l’interessato non aveva ben chiaro il carico di lavoro necessario, era destinato quasi sempre a fallire ancor prima di iniziare. Ma con quella ragazza si era comportato in modo un po’ diverso: aveva fatto del suo meglio per aiutarla e mostrarle insidie e potenzialità. Sentiva di doverglielo, dopo che era arrivato in ritardo e con il fascicolo sbagliato. E poi, anche se all’inizio gli era parsa aggressiva e persino bellicosa, quando avevano cominciato a parlare si era rivelata gentile. Aveva un’aria così dolce con il suo grazioso abito a fiori, che Austin aveva voluto essere subito chiaro su ciò che l’aspettava. Era molto affezionato alla zona di cui gli aveva parlato: era cresciuto nei pressi di Pear Tree Court e si era spesso rifugiato lì a leggere un libro sotto l’albero quando il negozio era sfitto. Era un angolino delizioso. Non pensava che altri oltre a lui lo conoscessero. Una piccola pasticceria che offrisse la possibilità di sedersi fuori con una tazza di caffè e una fetta di torta non gli sembrava affatto una cattiva idea. Ma alla fine era tutto nelle mani della ragazza. «Allora,» concluse «cosa ne pensa? Se la banca decidesse di finanziarla, sarebbe all’altezza della situazione?» In genere a quel punto la gente esclamava «Certo!» o sosteneva di avere una marcia in più e si offriva di dare il centodieci per cento. Issy, invece, si appoggiò allo schienale con un’espressione perplessa. Le cose stavano così: se la banca le avesse concesso il prestito, si sarebbe trattato di un impegno per la vita, ammesso che fosse andato tutto bene. E sarebbe ricaduto tutto sulle sue spalle. Non avrebbe più avuto orari. Pensò al nonno e alle sue panetterie: erano state tutta la sua vita. Sarebbe stato così anche per lei? D’altro canto, se fosse andato tutto per il verso giusto, avrebbe potuto assumere dei collaboratori... espandersi, persino. Forse, alla fine, avrebbe potuto essere più libera e vivere la vita secondo le sue regole e i suoi tempi, senza più verbali da redigere. Una vocina dentro di lei sussurrò: “E quando vorrai un figlio, come farai?”. Ma non poteva darle ascolto, si disse con rabbia. Non aveva ancora un lavoro e neanche un ragazzo. Ai bambini ci avrebbe pensato poi. «Signorina Randall?» Austin era lieto che ci stesse pensando: voleva dire che aveva capito. Troppo spesso lui aveva a che fare con dei saputelli che credevano di avere già tutte le risposte, non lo ascoltavano e lo interrompevano, per giunta. In genere, duravano poco. Issy lo guardò dritto negli occhi. «Grazie per essere stato sincero.» «L’ho spaventata a morte?» le chiese Austin rammaricato. «No, no, assolutamente. E se la banca vorrà aiutarmi... be’, mi piacerebbe avvalermi dei vostri servizi.» Austin sollevò le sopracciglia. «Okay. Perfetto. Dovrò parlare con alcune persone, ma...» Frugò nella valigetta alla ricerca dei moduli che doveva riempire e invece tirò fuori una mela e una fionda. “Sembra Dennis la Minaccia” osservò Issy ridacchiando. Lo cancellò dalla lista di uomini di Helena: non portava la fede, ma era evidente che avesse dei figli. «La uso con gli inadempienti» scherzò lui. Poi lanciò un’occhiata dolente alla mela e la ripose nella valigetta.


«Sembra affamato» disse Issy. «Infatti» confermò lui, che aveva saltato la colazione per convincere Darny a finire la sua. «È proprio sicuro che non vuole un cupcake? Non lo saprà nessuno.» «Ma lo saprò io» ribatté lui, fingendosi serio. Poi spinse il pulsante dell’interfono sulla scrivania. «Janet, mi porteresti i moduli per l’apertura di un conto aziendale?» «Ma ho già...» Austin tolse il dito dal pulsante. «Janet la aiuterà con i moduli, poi può lasciarli alla reception. Credo sia arrivato l’appuntamento delle undici.» «L’appuntamento delle undici è arrivato da mezz’ora» lo corresse Janet comparendo sulla soglia. Guardò Austin come uno scolaretto birichino. «Lo avverto che hai quasi finito.» E uscì. «Grazie» disse Issy alzandosi. «Buona fortuna» le augurò Austin, togliendosi gli occhiali e stringendole la mano. «Le lascio il mio biglietto da visita, nel caso abbia bisogno di qualcosa. Vuole anche una penna della banca?» «La tenga pure. Non vorrei mai che qualcuno pensasse che sta cercando di corrompermi.» Faceva ancora freddo e il cielo era grigio, ma almeno non pioveva. Issy aveva molte cose da fare, mentre attraversava la vivace Dalton Road, piena di gente che faceva spese malgrado il tempo, mangiava hot dog, si faceva strada tra la folla al mercato o esaminava le ceste per la biancheria fuori dal negozio di cianfrusaglie. Stoke Newington High Street era un po’ più tranquilla; c’erano mamme che portavano i bimbi nei passeggini a lezione di yoga, o in biblioteca, o al cimitero, o al ristorante vegetariano specializzato in falafel. Accanto al negozio di giocattoli c’erano uno showroom di carta da parati di lusso e una libreria indipendente sempre piena. Issy girò in Albion Road, dove le grandi case grigie la fissavano impassibili. Lì i pedoni erano pochi: c’era solo il lungo 73 snodabile che tagliava le curve e bloccava la circolazione. E laggiù, seminascosta alla vista, c’era la viuzza laterale, proprio all’angolo... Quando entrò in Pear Tree Court e vide il cartello sulla vetrina con scritto AFFITTATO, ebbe un tuffo al cuore. Si sedette sulla panchina sotto l’albero. Nonostante il freddo, si sentì invadere da un senso di pace. Il sole fece capolino tra le nuvole e un raggio le illuminò il viso in una promessa di primavera. Issy chiuse gli occhi, beata. L’inverno sarebbe finito molto presto. E lei avrebbe creato il suo piccolo rifugio nel cuore di una delle città più caotiche del pianeta. Giusto? Quando Des arrivò con le chiavi, trovò Issy seduta sulla panchina con un’espressione sognante. “Oh-oh” pensò, allarmato. Quella non era la faccia di un’imprenditrice, ma di una ragazza con la testa piena di castelli in aria. «Salve» disse, parandosi davanti a Issy e oscurando il timido raggio di sole. «Scusi il ritardo. Mia moglie avrebbe dovuto... niente, lasci stare.» Issy alzò gli occhi su di lui. «Salve! Scusi, è un posto così rilassante. Ho dormito poco stanotte...» Si interruppe, ricordando l’accaduto. Poi balzò in piedi, tentando di sembrare professionale. «Allora, diamo un’occhiata?» Grazie alla sua lunga esperienza nel settore immobiliare, Issy sapeva individuare subito quali migliorie erano necessarie. Ma quando Des le porse cerimoniosamente il grosso mazzo di chiavi e lei fece scattare le tre serrature, realizzò che un conto era consigliare i clienti, un altro progettare di farlo personalmente. C’era un vecchio bancone coperto da uno spesso strato di polvere e la vetrina era annerita dalla sporcizia. Gli ultimi inquilini potevano anche aver raggiunto il nirvana, ma le loro


virtù in fatto di lavori domestici lasciavano molto a desiderare. C’erano degli scaffali, che a Issy non sarebbero serviti, mentre mancavano un lavandino al piano di sopra e molte prese elettriche. Il cuore cominciò a batterle forte. Era una follia? Il camino era meraviglioso, ma non poteva metterci tavoli e sedie davanti una volta acceso. Comunque era più che certa che l’addetto alla prevenzione incendi non le avrebbe permesso di usarlo. E quel tipo, Austin, era stato categorico su questo punto: mai fare arrabbiare l’addetto alla prevenzione incendi. Era un po’ come inimicarsi un funzionario dell’immigrazione americano. «C’è parecchio da fare» cinguettò Des, sperando di poter archiviare rapidamente la pratica in modo da tornare a casa prima che la suocera iniziasse a insegnare a Jamie le sue verità. «Ma sono sicuro che se la caverà egregiamente.» «Sì?» chiese Issy, scattando una fotografia dopo l’altra con la macchina digitale. Se prima le era sembrato così facile immaginare pareti verde chiaro, vetrine immacolate per far entrare la luce e invitanti torte dai colori pastello sugli espositori, ora, in quello spazio sudicio e polveroso, era decisamente complicato. «E poi c’è il piano di sotto, ovviamente» disse Des. Issy aveva visto il seminterrato sulla piantina, ma non c’era mai stata. Non l’aveva confessato a nessuno. Non voleva ammettere che aveva affittato un locale senza averlo prima ispezionato da cima a fondo. Chiunque l’avrebbe rimproverata. Con passo incerto, seguì Desmond giù per la scala stretta e traballante illuminata da un’unica lampadina. A metà strada c’era un bagno e, in fondo, quello che aveva sperato: una stanza enorme, con un’ottima aerazione e spazio in abbondanza per il forno industriale di cui aveva bisogno. C’erano tubazioni verticali per l’impianto idraulico e un angolo perfetto per una scrivania. Una finestra si affacciava sul seminterrato dell’edificio accanto: l’illuminazione era scarsa, ma avrebbe dovuto accontentarsi. In compenso, l’enorme forno che nonno Joe ancora sognava avrebbe generato abbastanza calore da riscaldare tutto il negozio. «Che meraviglia!» esclamò, voltandosi verso l’agente immobiliare con gli occhi che brillavano. Des la guardò di sottecchi. A lui sembrava solo una vecchia cantina sudicia, ma chi era per giudicare? «Mm. Ho alcuni documenti da farle firmare... Immagino che stia facendo parecchi autografi in questi giorni.» «Già» disse Issy, che era venuta via dalla banca con una pila di moduli e stava aspettando di ottenere la licenza. Il negozio aveva già i permessi necessari per diventare un caffè; il problema era farlo diventare il suo caffè. Austin le aveva detto che, se la sua domanda fosse stata accolta, sarebbe stato lieto di aiutarla con la burocrazia. Quando tornarono al piano di sopra, il debole sole del pomeriggio si era spostato sulla facciata dell’edificio e illuminava i vetri sporchi, la polvere e il camino. Quel posto era veramente lurido, pensò Issy. Avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche. Ma il lavoro non la spaventava. Poteva farcela. L’avrebbe fatta vedere a Graeme, e lui sarebbe stato orgoglioso di lei; poi avrebbe fatto in modo che il nonno fosse presente all’inaugurazione (non sapeva ancora come, ma si sarebbe inventata qualcosa), e lasciato a bocca aperta Helena e tutti i loro amici. Avrebbe attirato tanti clienti, e ottenuto recensioni su «Metro» e sull’«Evening Standard», i quali avrebbero definito il suo locale una gemma nascosta, e la gente sarebbe venuta a bere un caffè e a gustare una fetta di torta e si sarebbe innamorata del cortiletto e del posto e... Des capì che Issy stava di nuovo fantasticando. «Okay» esclamò, esasperato. «Possiamo andare? O se vuole posso lasciarla qui. È suo, adesso.»


Issy sorrise. «No, vengo via con lei: ho un sacco di cose da fare.» Lui ricambiò il sorriso, soddisfatto. «Di quanti chili di caffè pensa di aver bisogno?» le chiese con nonchalance, mentre Issy armeggiava con le serrature. «Come?» Des fece una smorfia: credeva che Issy conoscesse almeno i rudimenti del gergo dei bar. La fievole speranza che aveva provato prima di fronte al suo entusiasmo per la cantina si spense immediatamente. Nel giro di tre mesi avrebbe dovuto trovare un altro affittuario. Pazienza, una commissione in più, pensò, anche se Barstow iniziava a dare segni di insofferenza nei suoi confronti. «Niente» disse Des tirando fuori le chiavi della macchina. «Okay. Be’, quando aprirò, verrà a bere un caffè, vero?» Des pensò ai miseri bonus a cui aveva ormai diritto. «Certo, se posso.» E corse a salvare Jamie dalle grinfie della nonna.


7

Cupcake al doppio cioccolato (Messaggio pubblicitario) Una mattina di lavoro 2500 ml di panna 4500 g di cioccolato fondente di buona qualità 50 uova 1650 g di zucchero extrafine 1500 g di farina 00 10 cucchiai di cacao in polvere di buona qualità 5 cucchiaini di lievito Fiori di zucchero per decorare Per il cioccolato fuso 1000 g di cioccolato fondente a pezzetti 800 ml di panna Mescolate la panna e il cioccolato in una padella a fuoco basso fino a ottenere un composto omogeneo. Lasciate intiepidire. Sbattete le uova con lo zucchero con un’impastatrice professionale finché non assumono un colore chiaro e non raddoppiano di volume. Fate filtrare lentamente il composto di cioccolato e panna, quindi aggiungete la farina, il cacao e il lievito setacciati. Versate l’impasto negli stampini per cupcake, quindi fate cuocere per 15-20 minuti a 180 °C finché, infilando uno stuzzicadenti al centro, questo non viene fuori pulito. Lasciate intiepidire, quindi togliete i cupcake dagli stampini. Bevete mezzo litro d’acqua. Per il cioccolato fuso, mettete gli ingredienti in una terrina a prova di calore sopra una pentola d’acqua bollente (la terrina non deve toccare l’acqua). Mescolate finché il cioccolato non si scioglie. Considerate l’ipotesi di chiamare l’ex fidanzato nonché ex capo e di supplicarlo in ginocchio di ridarvi il vostro vecchio lavoro d’ufficio. Togliete dal fuoco e mescolate fino a ottenere un composto omogeneo. Domandatevi quanti chili perderete grazie a questa ricetta. Assaggiate... delizioso. Rispondetevi: non così tanti. Lasciate raffreddare. Servite i cupcake con il cioccolato fuso sopra e decorate a piacere con i fiori. Accasciatevi a terra, certe che non potrete mai farlo tutti i giorni.

Oddio. Issy era sommersa dalle scartoffie. La parte burocratica non si era rivelata semplice come aveva sperato. Anzi, era un compito ingrato che consisteva nell’inserire gli stessi dati più e più volte. Doveva frequentare corsi di igiene e fare una montagna di acquisti prima di pensare agli impianti e agli arredi. Aveva chiesto vari preventivi per il forno, scoprendo che avrebbe inghiottito tutto il budget. Provò a cercare tra quelli usati, ma erano comunque fuori dalla sua portata. E anche lo stile che aveva immaginato per il locale – tavoli e sedie simil vintage color crema e verde acqua – era piuttosto costoso. Forse avrebbe fatto meglio a optare per il vintage vero. E poi non aveva ancora avuto notizie dalla banca. Perché ci voleva così tanto tempo per tutto? Non poteva assumere nessuno finché non aveva un conto aziendale, ma a quanto pareva la banca voleva aspettare che aprisse l’attività prima di concederle il conto. Molto frustrante. E tutto questo prima che si arrivasse ai cupcake veri e propri. Helena si affacciò alla porta della sua stanza. Sapeva che l’ultima settimana era stata stressante per l’amica. Ogni giorno riceveva montagne di posta: volantini pubblicitari, moduli e documenti importanti in buste marroni.


Anche Helena aveva avuto una giornata difficile. Era arrivata una bambina con una sospetta meningite: un’esperienza terribile. Le avevano salvato la vita, ma rischiava di perdere un piede. Si ripromise di passare da lei in reparto la mattina seguente. Era quello il problema del pronto soccorso: non si sapeva mai come andava a finire. E poi c’era Issy, che non faceva che lamentarsi anziché prendere ogni giorno come veniva e buttarsi a capofitto nel lavoro. «Ehi» disse, bussando alla porta. «Come va?» Issy era sepolta dalle carte. «Porca miseria. Ho scoperto dove sta l’errore! Non ho mai lavorato in un negozio.» «Non hai lavorato nella panetteria di tuo nonno?» «Solo il sabato. Guadagnavo ventuno pence per le torte, i clienti mi pizzicavano le guance e dicevano quant’ero paffuta, che in sostanza significa “grassa”. Ma perché non ho fatto la ragioniera?» Issy prese un altro foglio. «O... la geometra.» «Lo sapevo che dovevo rubare del valium in ospedale.» Issy storse la bocca. «Accidenti, Helena, non ci posso credere che ho fatto tutto questo sull’onda di un colpo di testa. Ho bisogno di aiuto.» Le rivolse un’occhiata supplichevole. «Be’, non guardare me. Ho appena fatto un turno di dodici ore. Comunque, a parte riempirti l’armadietto delle medicine e insegnarti di nuovo la manovra di Heimlich, non so davvero cosa potrei fare per te.» «Già... Zac mi ha promesso che avrebbe pensato ai menu, ma non posso contare su nessun altro.» «Be’, è già un inizio» disse Helena, tentando di consolarla. «Una cassetta del pronto soccorso, un menu e delle torte deliziose. Devi solo dare una bella ripulita.» «Mi sento così sola.» Issy sentiva la mancanza di Graeme più di quanto fosse disposta ad ammettere. Già era stato abbastanza scioccante passare dal vederlo tutti i giorni al non vederlo mai, poi riconciliarsi e perderlo di nuovo... Era davvero difficile da mandar giù. Helena si sedette. «Non devi assumere del personale? Voglio dire, dovrai trovare qualcuno, prima o poi. Cercati subito un collaboratore, così puoi farti aiutare con le scartoffie e il locale. Non ti viene in mente nessuno?» Issy pensò subito alla donna sveglia e allegra che aveva conosciuto al corso di reinserimento. «Sai,» disse, scorrendo la rubrica del cellulare «forse tutti questi contatti sono utili, alla fine. Credo che abbia esperienza nel catering.» Cominciò a digitare il numero, ma Helena la fermò. «Non dimentichi qualcosa?» Issy lanciò un’occhiata nervosa alla pila di carte. «Non dovresti aspettare che la banca ti dia il via libera all’apertura del credito?» D’un tratto Issy sentì che non avrebbe potuto aspettare la mattina seguente. Erano tre giorni che compilava moduli e parlava con gli ispettori. Doveva sapere. La banca era terribilmente lenta. Prese il biglietto da visita di Austin Tyler e compose il numero. Okay, erano le sette passate, ma i bancari lavoravano fino a tardi, no? «Secondo me questo tizio potrebbe piacerti» disse a Helena. «Ha un figlio, ma non porta la fede.» «Ah, perfetto, uno che è sposato ma fa finta di non esserlo» ribatté Helena in tono beffardo. «Proprio il mio tipo. Vado in camera a sbaciucchiare il poster di John Cusack.» Austin stava facendo il bagno a Darny, il che equivaleva a tenere in acqua un calamaro che agitava i tentacoli in tutte le direzioni. Stava considerando l’ipotesi di liberare il calamaro senza lavargli i capelli per la nona sera di seguito, quando squillò il cellulare. Andò a rispondere, concedendo al ragazzino una temporanea vittoria e lasciando che si alzasse in piedi nella vasca da bagno e si


mettesse a marciare come un soldato, schizzando la schiuma qua e là. «Smettila» sibilò a Darny. «Pronto?» disse Issy udendo un grido soffocato. «Scusi, l’ho disturbata?» «Ehm... no, niente, è il momento del bagno.» «Oh, scusi...» «No, non lo sto facendo io... Darny!» «I soldati non si siedono dietro tuo ordine!» sentì chiaramente Issy. «Ah. Sta facendo il bagno a un soldato» osservò gentilmente Issy. Non credeva che il bambino fosse così grande: Austin doveva avere più o meno la sua età. Quindi non era più così giovane, si disse subito. «Be’, è un compito importante.» «Darny, siediti!» «Non sei il mio ufficiale superiore!» «E invece sì... Mi scusi, chi parla?» «Oh, sì, certo, sono Isabel Randall. Del Cupcake Café» rispose Issy imbarazzata. Dal silenzio che seguì, capì che Austin stava cercando di ricordare chi fosse. L’attesa le parve lunghissima. «Ah, sì» esclamò lui alla fine. «Ehm, sì, cosa posso fare per lei?» «Mi rendo conto che è un brutto momento e mi dispiace.» Normalmente Austin avrebbe osservato sarcasticamente che sì, le sette e mezzo di un giorno feriale erano un brutto momento per qualsiasi tipo di questione lavorativa, ma c’era qualcosa nella voce di Issy che lo spinse a trattenersi. Era evidente che fosse sinceramente dispiaciuta, ma stava comunque chiedendo la sua attenzione. Cercò gli occhiali, che erano tutti appannati dal vapore. «Okay, soldato, riposo» disse a Darny, porgendogli una spugna mimetica e uscendo dal bagno. «Tutto bene?» chiese poi a Issy con tutta la giovialità a cui riuscì a fare appello, uscendo sul pianerottolo e notando che c’erano giocattoli e libri sparsi per tutta casa. Avrebbe tanto voluto che qualcuno facesse ordine al posto suo. Sapeva che toccava a lui, ma era sempre così stanco. Non riusciva mai a occuparsene. E, nei weekend, lui e Darny guardavano la Formula 1 al piano di sotto. Se lo meritavano, dopo una dura settimana. «Ha molti figli?» chiese Issy, sinceramente curiosa. «No, no» rispose Austin, desiderando che non lo avesse chiamato a casa. Dopo tanti anni sapeva il discorso a memoria, ma odiava farlo agli sconosciuti. «Ehm... Darny è il mio fratellino. Sì, perché... ecco... abbiamo perso i genitori e c’è una grossa differenza d’età, quindi me ne occupo io. Una cosa fra uomini, insomma! Andiamo d’accordo.» Issy si pentì immediatamente della domanda. Austin sembrava molto disinvolto: era evidente che, ormai, aveva ridotto il discorsetto a poche parole. Ma lei non poteva nemmeno immaginare il dolore che si celava dietro la sua apparente tranquillità. «Ah» mormorò Issy dopo un momento di silenzio, proprio mentre Austin diceva: «Allora» per salvarla dall’imbarazzo. Risero entrambi. «Mi scusi, non volevo essere indiscreta.» «Nessun problema. Una domanda perfettamente legittima. Mi dispiace che la risposta sia un po’ strana, invece. Un tempo dicevo sì, è mio figlio...» Austin non sapeva perché glielo stava raccontando. Era strano, ma c’era qualcosa di caloroso e affabile nel tono di voce di quella ragazza. «Ma poi tutti dicevano che eravamo due gocce d’acqua, e chiedevano dove fosse la madre, quindi alla fine diventava più complicato.»


«Forse dovrebbe scriverlo sul biglietto da visita» suggerì Issy, mordendosi subito la lingua per paura che la sua battuta sembrasse di cattivo gusto. «Eh sì» disse invece lui sorridendo. «Decisamente. Austin Tyler, papà-barra-fratello. Barra domatore.» «Sono sicura che la banca non avrebbe niente in contrario.» Di nuovo silenzio. «Comunque...» riprese Issy. «So che devo aspettare la comunicazione ufficiale, ma mi hanno consegnato le chiavi del locale, ho bisogno di assumere personale e... So che si tratta di informazioni riservate e lei non può dirmi nulla, quindi avrò interrotto inutilmente il momento del bagno, però...» «Non vorrà scusarsi di nuovo?» la bloccò Austin divertito. «Ehm... a dire la verità sì.» «Andiamo! Che donna d’affari senza scrupoli è?» Issy sorrise. Per essere un bancario, era bravo a flirtare. «Okay. Non è che potrebbe darmi un’anticipazione sulle intenzioni della banca?» “Certo che no” pensò Austin. L’accordo non era ancora stato messo nero su bianco. Ma lei lo aveva preso in un momento di debolezza, e sentiva già un gran baccano provenire da dietro la porta del bagno. E poi non riusciva a resistere a una ragazza gentile. «Be’, non dovrei. Ma dal momento che me lo chiede così garbatamente, sappia che sì, ho proposto alla banca di aprire un conto aziendale per la sua attività.» Issy si mise a saltare su e giù e a battere le mani. «Spero che il consiglio accolga la mia proposta.» Issy si ricompose. «Ah. E crede che lo farà?» «Non si fida di me?» Lei sorrise. «No.» «Bene. Congratulazioni, signorina Randall, e benvenuta nel mondo degli affari.» Issy riagganciò dopo aver ringraziato Austin un milione di volte. Si mise a ballare per la stanza, in preda all’euforia. Austin attaccò e guardò il cellulare con aria perplessa. Era una sua impressione o era contento di aver risposto a una telefonata di lavoro? Non era da lui. «Austin! Austin! La fanteria sta per fare pipì nella vasca!» «Fermo!» Pearl se ne stava sotto le coperte con Louis. Era freddissimo fuori. Il breve anticipo di primavera alla fine di febbraio si era rivelato una crudele illusione. All’esterno imperversava una tempesta e il vento si incanalava negli interstizi facendo un gran rumore. L’ultima bolletta della luce e del gas era stata un salasso, e Pearl se ne stava rannicchiata con suo figlio davanti a una stufa elettrica. Louis aveva la febbre. Si ammalava spesso, chissà perché.Soffriva un po’ di asma ed era sensibile a qualsiasi batterio. Nei momenti di ottimismo Pearl sospettava che fosse perché era così estroverso che abbracciava sempre tutti prendendosi ogni microbo. Altre volte, invece, si domandava se mangiasse in modo sano e se passasse abbastanza tempo all’aria aperta in modo da sviluppare il sistema immunitario. Forse stava troppo al chiuso. Pearl aveva pregato sua madre di non fumare in casa, e lei faceva del suo meglio, ma, quando era freddo come quel giorno, era crudele farla stare sul terrazzino, esposta alla gang di adolescenti di passaggio che urlavano contro chiunque fosse solo e sembrasse vagamente vulnerabile. A un tratto, squillò il telefono. Sul display apparve un numero che non conosceva. Attirò a sé il


visino sudato di Louis e gli diede un rapido bacio sulla guancia, poi rispose, abbassando il volume della televisione. «Pronto?» disse, tentando di sembrare allegra. «Ehm... ciao» mormorò timidamente una voce all’altro capo della linea. «Non so se ti ricordi di me...» «La Pâtisserie Valerie!» esclamò Pearl. «Certo che mi ricordo di te. E anche di quello schifo di corso. Tu ci sei tornata, poi?» «No» rispose Issy, sollevata dal fatto che Pearl sembrasse felice di sentirla. «Però da un certo punto di vista è servito. Perché mi ha spinto a fare qualcosa di completamente diverso e a mettermi in contatto con altre persone. E... ehm... è quello che sto facendo.» Ci fu un lungo silenzio. «Pearl» riprese Issy. «La mia potrà sembrarti una domanda stupida, ma ci provo lo stesso. È che sono un po’ in difficoltà e tu forse potresti aiutarmi. Sai per caso quanti chili di caffè bisognerebbe macinare in una settimana?» Non solo Pearl conosceva la risposta a quella domanda («Un chilo equivale a cento tazze, quindi direi di cominciare con sei e poi aumentare a otto»), ma, avendo lavorato come barista in una nota catena (per poi abbandonare il lavoro perché non riusciva a trovare una baby sitter per la sera e i fine settimana), sapeva un sacco di altre cose sul caffè. Sapeva come fare a capire quando era troppo maturo e bruciato, quali chicchi si abbinavano meglio ai vari momenti della giornata, quanto tempo si conservava il caffè e in che modo, e in più aveva anche il certificato d’igiene. Più parlava – ed era sicuramente un tipo loquace –, più Issy si illuminava. Si accordarono per incontrarsi il giorno dopo.


8

Ciao, mia cara Issy, sai che non è sempre il momento giusto per una torta di grosse dimensioni. A volte si ha voglia di un concentrato di dolcezza più simile a un bacio o a una parola gentile in una giornata triste. E poi, lo sai come fanno le pere: sono mature per dieci secondi, poi basta che ti giri un attimo e sono già guaste. Mentre per questa ricetta servono proprio le pere troppo mature oppure quelle dure e farinose. Le torte sanno essere molto generose con le pere cattive. TORTA DI PERE CAPOVOLTA 3 pere sbucciate, tagliate a metà e private del torsolo 7 once di burro 7 once di zucchero extrafine 3 uova 7 once di farina autolievitante setacciata 3 cucchiai di latte 1 cucchiaio di zucchero a velo Disponi le pere tagliate a metà sul fondo di una teglia imburrata e mettile da parte. Con un cucchiaio di legno (non con il frullino, anche se so che ci stavi pensando. Ti dico una cosa: ho forse mandato avanti tre panetterie a Manchester con i frullini elettrici? Be’, alla fine sì. Ma all’inizio usavo solo i cucchiai di legno, e dovresti farlo anche tu), amalgama il burro e lo zucchero in una grossa ciotola finché non ottieni un composto soffice e leggero. Aggiungi un uovo alla volta, mescolando bene, poi lentamente anche la farina, e infine il latte. Versa l’impasto sulle pere e distribuisci in modo omogeneo. Cuoci nel forno già caldo a 350 °F per 45 minuti, finché la superficie non appare solida al tocco e la torta non comincia a staccarsi leggermente dai lati della teglia. Sforna, lascia raffreddare per qualche minuto e capovolgila su un piatto. Spolverala di zucchero a velo e servila immediatamente. Fai i complimenti alle pere per l’ottimo lavoro. Con affetto, il nonno Issy si svegliò proprio quando Helena tornò a casa dal turno di notte, stanca ma euforica perché erano riusciti a salvare quattro adolescenti che, dopo aver rubato una macchina, avevano avuto un brutto incidente. «Ehi» disse, vedendo che Issy stava macinando il caffè. «Ti stai dando da fare.» «Ne vuoi un po’?» le chiese Issy. «Oggi mi sento in forma.» «No, grazie. Ho già abbastanza problemi di sonno dopo i turni di notte.»


«Be’, vedi di recuperare. Credo di averti trovato un fidanzato.» Helena sollevò le sopracciglia. «Ha gli occhi penetranti e il sorriso accattivante?» «No, Helena, quello è John Cusack.» «Ah, già.» «Si chiama Austin. Ha i capelli rossicci, lavora in banca e...» «Ferma lì. Due rossi insieme? Vuol dire andarsela a cercare.» Poi le sorrise. «È bello vederti di nuovo contenta.» «Ho ottenuto il prestito e sto per incontrare una potenziale nuova aiutante.» «Be’, perfetto. Fai finta di essere sempre così allegra.» Issy le diede un bacio e uscì. Dall’altra parte della città, Pearl McGregor si rigirò nel letto. Qualcosa, qualcuno, la stava prendendo a calci. Forte. «Chi c’è nel mio letto? Un elefantino?» Non era un letto vero e proprio, bensì un materasso buttato sul pavimento. Aveva un divano letto nel piccolo bilocale (sua madre dormiva nell’unica camera), ma era troppo scomodo, così avevano preso un vecchio materasso che poi di giorno appoggiavano contro il muro. Pearl aveva cercato di abbellirlo cucendo un copriletto e dei cuscini patchwork. Louis, che dormiva con la nonna, andava sempre da lei durante la notte e la svegliava presto. «Coco Pops!» disse una vocina da sotto il piumone. «Mamma, Coco Pops!» «Chi ha parlato?» chiese Pearl fingendo di frugare nel letto. «Mi è sembrato di sentire qualcuno nel mio letto, ma non è possibile.» Si udì una risatina soffocata accanto ai suoi piedi. «Eh, no, non c’è nessuno nel mio letto.» Louis tacque, e Pearl udì solo il suo respiro. «Okay, allora mi rimetto a dormire e buonanotte agli elefantini.» «Nooo! Mamma! Sono io! Volio Coco Pops!» Louis le si gettò tra le braccia e Pearl affondò il viso nel suo collo respirando il suo profumo caldo. Essere una madre single aveva molti svantaggi, ma la sveglia non era tra quelli. Pearl aprì le tende (un’altra delle sue creazioni) e, mentre Louis faceva colazione e sua madre sorseggiava una tazza di tè a letto, diede un’occhiata all’agenda. La nonna e il piccolo sarebbero andati al centro assistenza, così Pearl avrebbe potuto spegnere il riscaldamento in casa, nonostante il freddo. Il tè al centro costava quindici pence: se li poteva ancora permettere. Nel frattempo lei avrebbe fatto la spesa: in macelleria c’erano le salsicce in offerta, quindi doveva farne scorta. Una parte di lei si sentì in colpa: avrebbe dovuto risparmiare di più per comprare frutta fresca per suo figlio. Lanciò un’occhiata al pancino che spuntava dal pigiama. Doveva acquistare anche i pannolini, accidenti. Aveva provato a metterlo sul vasino, ma aveva solo due anni e non sapeva come fare, per cui Pearl finiva per spendere ancora di più alla lavanderia a gettoni. Non aveva senso. Poi sarebbe andata da Tesco per sapere se cercavano personale. Aveva sentito dire che c’era anche una nursery nelle vicinanze. D’un tratto un pensiero le attraversò la mente: doveva vedere quella ragazza che voleva parlarle di una pasticceria! Fece per correre in bagno a farsi la doccia quando Louis, che aveva finito i Coco Pops, le buttò le braccia al collo. «Cocole!» esclamò allegramente. Pearl lo abbracciò. «Quanto sei tenero.» «Tv» ribatté lui, tutto felice. Sapeva come mettere di buonumore sua madre.


«Neanche per sogno. Abbiamo un sacco di cose da fare oggi.» Era un gelido e luminoso venerdì mattina quando Pearl e Issy si incontrarono fuori dal Cupcake Café. Il loro respiro si condensava in nuvolette sopra i caffè fumanti da asporto che avevano dovuto comprare quattrocento metri più in là. Pearl indossava un ampio scamiciato e teneva per mano suo figlio. Louis era un bambino bellissimo: paffuto, con gli occhi grandi e scintillanti, la pelle ambrata e il sorriso pronto. Accettò subito una fetta di torta e si sedette sotto l’alberello con due automobiline. Issy, che era uscita di casa di ottimo umore, si sentì improvvisamente un po’ nervosa, come a un appuntamento al buio. Se la cosa avesse funzionato, avrebbero trascorso otto, nove, dieci ore al giorno gomito a gomito. In caso contrario, sarebbe stato un disastro. Era imprudente instaurare un rapporto di lavoro con una persona che aveva visto solo una volta? O faceva bene a seguire il suo istinto? I suoi dubbi cominciarono a dissiparsi mentre mostrava a Pearl il locale. Era visibilmente entusiasta e, come lei, lo immaginava già finito. Insisté anche per scendere nel seminterrato. Issy le chiese come mai e lei rispose che, prima di prendere accordi, era meglio verificare che riuscisse a passare dalla scala, che era piuttosto stretta. Issy ribatté che non era così grassa e Pearl le rispose con una risatina beffarda ma benevola. Forse era il caso di allargare il bancone di qualche centimetro, pensò Issy. Tanto per stare più comodi. Pearl era sempre più elettrizzata. Quel posto aveva un’anima. E la torta alle pere di Issy era veramente squisita: leggera come l’aria ma dal sapore intenso. Se il locale avesse avuto successo, e non vedeva perché non avrebbe dovuto essere così, visto che in quel quartiere la gente poteva permettersi un caffè da più di due sterline, le sarebbe piaciuto davvero lavorarci. Issy sembrava simpatica, un po’ inesperta forse, ma gli inizi erano così per tutti, e un caffè accogliente e profumato pieno di persone gentili e affamate e con un orario ragionevole sarebbe stato molto più piacevole della maggior parte dei posti dove aveva lavorato. Ma c’era un intoppo. Adorava suo figlio, ma era indubbiamente un problema gestirlo. «A che ora apriresti?» chiese a Issy. «Pensavo alle otto. È l’ora in cui la maggior parte della gente va a lavorare e può aver voglia di un caffè. Potremmo anche preparare dei croissant, non è difficile.» Pearl sollevò le sopracciglia. «Quindi l’orario sarebbe...» «All’inizio dalle sette e mezzo alle quattro e mezzo. Vorrei chiudere dopo pranzo.» «Quanti giorni la settimana?» «Mm... dipende da come va. Se prende il via, solo cinque. Ma all’inizio terrei aperto anche il sabato.» «E quanti dipendenti vorresti?» Issy batté le palpebre. «Ehm... per cominciare solo te.» «Se una delle due si ammala o è in vacanza, o...» Issy la guardò leggermente indispettita. Pearl non aveva ancora cominciato e già parlava di vacanze. «Be’, ci penseremo strada facendo.» Pearl aggrottò la fronte. Era l’opportunità di gran lunga più interessante che le si fosse presentata da un bel po’ di tempo a quella parte. Sarebbe stato stimolante cercare di far decollare un’impresa in erba e avrebbe potuto quasi certamente rendersi utile, anche perché conosceva già il lavoro. Mentre Issy doveva aver passato parecchio tempo seduta in un bell’ufficio a controllare Facebook ogni


cinque minuti e avrebbe potuto trovarsi impreparata di fronte alla mole di duro lavoro. Louis, intanto, si affacciava alle scale del seminterrato e sbirciava il fondo con un misto di paura e curiosità per poi correre di nuovo a nascondersi tra le gonne della madre. Issy guardò Pearl, preoccupata. Quella donna le era sembrata la risposta a tutti i suoi problemi. Eppure, non stava facendo i salti di gioia di fronte a quella che Issy pensava fosse una fantastica occasione per lei. Deglutì faticosamente. Era anche disoccupata. Perché faceva tante storie? «Mi dispiace, Issy...» disse infine. «Non credo di potercela fare.» «Perché?» chiese lei, tradendo senza volere il suo turbamento. Pearl, visibilmente dispiaciuta, indicò Louis, che stava cercando di afferrare il pulviscolo con le manine. «Non posso lasciarlo solo con mia madre ogni mattina. Non è giusto né per me, né per lei, che non sta bene, né per Louis. Viviamo a Lewisham, dall’altra parte della città.» Issy ebbe un moto di stizza, pur riconoscendo che era ingeneroso da parte sua. Ma non le sembrava un ostacolo così insormontabile. Come facevano le altri madri lavoratrici? In realtà, non ci aveva mai pensato. Tutte quelle belle donne che se ne stavano dietro la cassa di Tesco alle sette di mattina o pulivano gli uffici o lavoravano sulle linee della metropolitana, avevano figli? Se sì, dove li lasciavano? Come facevano? Ripensò alle madri della KD, che sembravano sempre agitate, come se avessero dimenticato qualcosa sull’autobus, che cercavano di svignarsela prima per andare a prendere i figli a scuola, che sobbalzavano quando squillava il telefono. «Capisco» disse, lanciando un’occhiata a Louis, che giocava nel cortile con le sue automobiline. «Ma non potresti portarlo con te? Non darebbe nessun fastidio. Un paio di giorni la settimana, magari?» Pearl ebbe un tuffo al cuore. Avrebbe potuto starsene lì, nel cortile, o dentro, al caldo e al sicuro, senza televisione... No, no. Era una pessima idea. «Temo che gli ispettori sanitari avrebbero qualcosa da ridire» osservò, sorridendo per far capire a Issy quanto le dispiaceva. «Be’, ma... non lo sapranno!» esclamò Issy. «Ti sembra questo il modo di cominciare?» disse Pearl. «Mentendo agli ispettori sanitari? E lascia perdere gli...» «Gli addetti alla prevenzione incendi. Sì, lo so. Sono lo spauracchio degli imprenditori.» Lanciò un’occhiata al locale. «I forni saranno nel seminterrato... in modo da non ingombrare. Ho deciso di tenere solo la macchina del caffè al piano di sopra.» «Con il vapore surriscaldato» disse dolcemente Pearl. Issy sorrise. «Oh, Pearl, mi piacerebbe tanto lavorare con te.» In quel preciso istante, si udì del trambusto fuori dal negozio e Issy e Pearl videro due uomini in tuta da lavoro che fumavano una sigaretta e le guardavano con aria interrogativa. «Merda, i muratori... sono in anticipo» esclamò Issy. Era molto nervosa: non disponendo di un budget tale da potersi rivolgere a un architetto o a un arredatore professionista, doveva sperare di riuscire a spiegare cosa voleva direttamente agli operai. Non aveva molta fiducia nelle sue capacità, ma, nel vortice di operosità del giorno prima, aveva chiamato un’impresa edile. Pearl alzò le sopracciglia. «Non te ne andare» la supplicò Issy. «Facciamo un’altra chiacchierata, dopo.» Pearl incrociò le braccia e si fece da parte mentre Issy apriva la porta ai muratori. Quando si


presentarono come Phil e Andreas, si accorse che la squadravano in modo poco incoraggiante. Issy mostrò loro il locale, tentando di spiegare quali interventi avrebbe voluto fare: togliere tutti gli scaffali, sostituire l’impianto elettrico, spostare il bancone, aggiungere frigoriferi e vetrinette, senza però toccare le finestre e il camino; ci sarebbe stato bisogno anche di un frigo e di scaffali al piano di sotto. Mentre parlava, l’elenco le parve lunghissimo. Aveva ottenuto il prestito e poteva anche contare sulla liquidazione, ma avrebbe dovuto spendere una somma cospicua ancora prima di aprire. Phil, il più espansivo dei due, si guardò intorno passandosi la lingua sui denti. «Mm. Questi vecchi palazzi sono un incubo. È sicura che non sia un edificio protetto?» «Sì sì!» esclamò Issy, lieta di saper finalmente rispondere a una domanda. «Cioè, l’esterno sì, ma per l’interno è tutto a posto, purché non buttiamo giù nessuna parete, non ne tiriamo su di nuove e non muriamo il camino, cosa che non ho certo intenzione di fare.» «Be’, il problema è che dovremo far passare i fili attraverso i muri, quindi bisognerà intonacare di nuovo. Per non parlare del pavimento...» «Perché, cos’ha che non va il pavimento?» Era fatto di semplici assi di legno e Issy pensava di lucidarle e lasciarle così. «No, non si può, capisce?» disse Phil. Issy non capiva proprio niente. Cominciò a sentirsi a disagio. Era imbarazzante trovarsi in presenza di persone che sapevano così tante cose più di lei su un argomento che la riguardava. Qualcosa le disse che avrebbe imparato a conoscere bene quel senso di inadeguatezza. Phil, intanto, stava proponendo qualcosa di complicato che implicava sollevare il battiscopa e farvi passare i fili e il riscaldamento, per poi ricostruire i muri da zero. Issy lo guardava impotente e annuiva, sentendosi piccola piccola. Andreas frugava nella tasca alla ricerca delle sigarette, mentre Phil tirò fuori una macchina fotografica e un bloc-notes e cominciò a scarabocchiare misure, finché Pearl, che fino ad allora era rimasta in disparte, sbottò: «Mi scusi». Tutti si voltarono a guardarla con aria interrogativa. «Lei è un bravo muratore, giusto?» chiese a Phil, che parve leggermente offeso dalla domanda. «Certo» rispose, tutto fiero. «So fare tutto, io.» «Perfetto. Siamo felici di averla a bordo. Ma purtroppo potremo pagarla solo per i lavori che la signorina Randall ha menzionato prima. Niente pavimento, niente battiscopa, niente intonaco. Porti i mobili, metta a posto il locale, e verrà pagato. Ma faccia un nonnulla in più di quello che le è stato richiesto – a proposito, il suo è il quinto preventivo che chiediamo – e mi dispiace, non avremo i soldi per pagarla. Sono stata chiara?» Pearl lanciò a Phil un’occhiata penetrante. Lui sorrise nervosamente, poi si schiarì la gola. Ne aveva incontrate di Pearl in vita sua, e doveva ringraziare loro se lavorava e non era in prigione come la metà dei suoi amici. «Certo. Assolutamente. Nessun problema.» E si voltò di nuovo verso Issy, che era senza parole ma felice. «Tranquilla, ci pensiamo noi.» «Perfetto! Ehm... volete un po’ di torta capovolta? Visto che metterete tutto sottosopra?» «Sei stata fantastica» disse Issy a Pearl mentre si dirigevano verso la fermata dell’autobus, tenendo per mano Louis e facendogli fare vola vola ogni volta che esclamava: «Un, dui, tre!». «Non dire scemenze» ribatté Pearl. «Devi chiedere quello che vuoi, non ti mordeva mica quello là. In fondo, è un venditore anche lui.» «Lo so» riconobbe Issy. «Non è il momento di essere timidi, giusto?» «No, se vuoi farcela» rispose Pearl.


Issy lanciò un’occhiata al Cupcake Café. Aveva appena accettato di investire in quel progetto buona parte dei suoi risparmi. Pearl aveva ragione. Stava cominciando a pensare che potesse avere ragione su un sacco di cose. Quando giunsero alla fermata dell’autobus, si voltò verso di lei. «Okay. Devo chiedere quello che voglio. Voglio che tu venga a lavorare per me. Quanto a Louis, ce la vedremo tra noi. Tanto fra poco andrà all’asilo, no?» Pearl annuì. «Be’, non potresti iscriverlo a un asilo vicino al caffè? Ce ne sono parecchi a Stokey. Potresti tenerlo con te mentre apriamo e inforniamo le torte, depositarlo all’asilo e tornare indietro. Che ne dici?» Pearl esaminò la questione da ogni punto di vista. Non c’era nessun motivo per cui Louis non sarebbe potuto andare all’asilo lì; si sentiva un po’ in colpa per il semplice fatto di pensarlo, ma non gli avrebbe fatto male socializzare con altre persone. Scoprire il mondo. Poteva funzionare. Lo avrebbe comunicato all’ufficio di collocamento. «Mm.» «È un “mm” buono o cattivo?» chiese vivacemente Issy. Pearl tacque a lungo. «Va bene, facciamo un tentativo» disse infine. E strinse la mano di Issy.


9

Da quel momento in poi tutto avvenne molto rapidamente. Issy aveva dato per scontato che i documenti avrebbero impiegato mesi ad arrivare, e invece l’assicurazione, la licenza e il certificato di iscrizione all’anagrafe tributaria le vennero spediti molto prima del previsto. Phil e Andreas, galvanizzati dalle dosi quotidiane di torta e dalle esortazioni di Pearl, stavano facendo un ottimo lavoro; i mobili nuovi, ordinati su internet, erano arrivati ed erano perfetti. Issy aveva scelto un caldo grigio-beige per le pareti e acquistato grembiuli in stile anni Cinquanta per lei e Pearl (che allungò un po’ i laccetti del suo). Issy era entusiasta della sua nuova impastatrice professionale e non resisté alla tentazione di provare nuove e misteriose ricette. Quando fu la volta di liquirizia e M&M’s, Helena le ordinò di smetterla. Nelle settimane seguenti i due muratori continuarono a lavorare di buona lena. Issy e Pearl, affiancate di tanto in tanto da una riottosa Helena, pulirono a fondo il seminterrato rimettendolo a nuovo, mentre i ragazzi martellavano e trapanavano canticchiando le canzoni pop della radio. Grazie ai loro sforzi, il locale cambiò volto. Al posto delle lampadine che penzolavano dal soffitto c’erano morbide luci alogene che diffondevano un piacevole chiarore. I tavoli e le sedie color avorio avevano una leggera patina che li faceva sembrare antichi (anche se, come avevano assicurato allo scontroso addetto alla sicurezza antincendio, non lo erano affatto, e la vernice era ignifuga); il pavimento di legno era stato lucidato, le vetrinette splendevano e le alzate per i dolci erano pronte per andare in tavola. La macchina del caffè, una lucente Rancilio Classe 6 di seconda mano – universalmente riconosciuta come la migliore sul mercato –, fischiava allegra in un angolo (purtroppo era di una strana tonalità di arancione, ma non tutto doveva per forza intonarsi al resto). Issy aveva sistemato sulla cappa del camino dei libri per i clienti (“Non troppi,” aveva brontolato Pearl “altrimenti i lavativi si piazzano qua tutto il giorno”), mentre i quotidiani avrebbero trovato posto su portariviste di legno. Le stoviglie, tutte nei toni del celeste, del verde pallido e del pavone, le avevano comprate all’IKEA: erano talmente a buon mercato che avrebbero potuto permettersi di romperne qualcuna qua e là. Al piano di sotto, nella dispensa, c’erano sacchi di farina e riserve di burro pronti per l’impastatrice. Ma la cosa che Issy apprezzava di più del Cupcake Café era l’atmosfera: il profumo della cannella spruzzata generosamente su soffici e irresistibili brownie appena sfornati (Louis favoriva spesso e volentieri), il celestiale profumo di viola della crema per la cheesecake ai mirtilli. Un giorno Issy invitò tutti i suoi amici ad assaggiare vari tipi di marmellata per la torta Victoria sponge. Vennero Tobes e Trinida, direttamente da Brighton, e Paul e John, che si erano sposati da poco. Anche se alcuni dovettero declinare perché presi da neonati, traslochi, suoceri o qualunque altro dei milioni di impegni che i trent’anni sembravano portare con sé, molti accettarono. Alla fine si ritrovarono a ridacchiare insieme con le dita appiccicose e un po’ di nausea, mentre Issy e Pearl conclusero che la marmellata di lamponi Bonne Maman era quella giusta, almeno finché non avessero potuto permettersi di prepararla da sole. Ci misero un po’ a togliere i residui dalle piastrelle, ma si


divertirono così tanto che decisero di organizzare una vera e propria inaugurazione, per provare le ricette e ringraziare tutti quelli che avevano dato una mano. Il caffè era uno specchio, e perfettamente in regola. Issy avrebbe aperto l’indomani mattina alle sette e mezzo, ma non aveva ancora pensato a una promozione vera e propria per il Cupcake Café. Sarebbe partita in tranquillità, in modo da avere una settimana di quiete per prendere il ritmo. Issy continuava a ripeterselo per non farsi cogliere dal panico nel caso in cui non si fosse presentato nessuno. Avrebbero avuto bisogno di un altro collaboratore che coprisse le pause e le vacanze. Issy sperava di trovare una persona simpatica, magari una ragazza del quartiere o una studentessa che avesse bisogno di qualche soldo e a cui non dispiacesse lavorare al minimo salariale. E che fosse un po’ più flessibile di Pearl e non avesse un figlio di cui occuparsi, aggiunse Issy fra sé, pentendosene immediatamente. La buona notizia era che l’asilo di zona, Little Teds, aveva un posto per Louis (Issy aveva mentito scrivendo sul modulo che l’indirizzo di casa del piccolo era quello del Cupcake Café, ma non aveva avuto scelta). L’asilo, però, apriva solo alle otto e mezzo, quindi Louis avrebbe dovuto fare colazione al caffè. Issy sperò con tutto il cuore che si sarebbe accontentato dei pochi giocattoli di legno che aveva recuperato per distrarre i figli dei clienti ed evitare che mangiassero tutte le bustine di zucchero. Per la sera prima dell’apertura aveva organizzato una festicciola per ringraziare tutti: Pearl, per averle insegnato a preparare il caffè (aveva ancora paura del sibilo del vapore, ma stava imparando); Phil e Andreas, che, alla fine, avevano fatto un lavoro coi fiocchi; Des, l’agente immobiliare, e il signor Barstow, il proprietario; Helena, che aveva sollecitato i corrieri e l’aveva aiutata a compilare i moduli che l’avevano fatta impazzire; Austin, che le aveva pazientemente spiegato i concetti di margini di profitto, controllo delle porzioni, regime contabile e ammortamento, ricominciando da capo quando aveva notato il suo sguardo spento e ripetendo il tutto una terza volta per assicurarsi che avesse capito; la severa signora Prescott, che, nel tempo libero, teneva la contabilità di alcune piccole imprese e con cui era meglio non scherzare. Austin e la commercialista si erano studiati attentamente quando si erano visti per la prima volta. «Che ne pensi della signora Prescott?» gli aveva poi chiesto nervosamente Issy. «Mi ha spaventato a morte. Però mi sembra perfetta. Mi fa venir voglia di mettere a posto il mio archivio.» «Bene. E che mi dici di Helena?» gli aveva domandato, indicando la magnifica rossa che stava rimbrottando gli operai. «Molto... maestosa» rispose gentilmente Austin, pensando che Issy, con le guance arrossate dal calore del forno, i morbidi capelli scuri spettinati, gli occhi dalle lunghe ciglia nere e il grembiule che sottolineava la sua figura armoniosa, era l’unica che avesse voglia di guardare. Ma era una sua cliente, si disse severamente. Issy si guardò intorno. Era nervosa: quell’anno le era sembrato che la primavera non arrivasse mai. E invece eccola lì, come un dono inaspettato nella cassetta della posta, quasi spuntata fuori dal nulla. Il sole ora sbirciava giù, come se fosse sorpreso di vedere qualcuno sulla terra; e la gente guardava in su, come se, dopo mesi, vedesse finalmente qualcosa al di là del proprio naso. Il mondo riprendeva a poco a poco colore, e quella sera di fine marzo gli ultimi raggi filtravano dalle finestre illuminando i colori delicati e riposanti del caffè di Pear Tree Court. Zac, un vecchio amico di Issy


nonché grafico momentaneamente disoccupato, aveva dipinto sulla facciata la scritta CUPCAKE CAFÉ in piccole lettere bianche. Il risultato era incantevole, di una bellezza discreta. A volte, quando si svegliava troppo presto, Issy si domandava se lei e Pearl non fossero state troppo discrete. Poi pensò all’espressione di chi assaggiava la torta Bakewell che suo nonno le aveva insegnato a fare e si morse il labbro. Gli ingredienti genuini, le uova di galline ruspanti e un buon caffè sarebbero stati sufficienti? (Quel pomeriggio lei, Pearl e Austin avevano improvvisato una degustazione di caffè con tutti i campioni inviati dai grossisti. Dopo quattro espressi avevano gli occhi sgranati ed erano un po’ isterici, ma alla fine avevano scelto due miscele, una più morbida di nome Kailua Kona – per tutti –, una dall’aroma intenso chiamata Selva Negra – per chi la mattina aveva bisogno di un po’ di carica –, più una dolce e decaffeinata per le donne incinte e per chi del caffè amava solo il profumo.) Sarebbero bastati a pagare l’affitto e le bollette? E a lei per ritagliarsi uno stipendio? Quando avrebbe smesso di preoccuparsi continuamente? Chiamò di nuovo la casa di riposo del nonno. Erano pronti? Graeme, seduto alla scrivania del suo ufficio, era perplesso. Non aveva più avuto notizie di Issy. Non se lo aspettava. Magari la sua attività non era ancora fallita... O forse sì, e non aveva il coraggio di dirglielo. Be’, prima o poi si sarebbe fatta viva. Ripensò oziosamente al sabato sera precedente, quando aveva rimorchiato una bionda mozzafiato in discoteca. Lei aveva passato tutta la notte a spiegargli il concetto di scrub e perché Christina Aguilera fosse un modello per le ragazze. La mattina dopo, quando gli aveva chiesto un frullato alla carota, si era augurato che si togliesse dai piedi prima possibile. Non era da lui. Comunque doveva concentrarsi. Gli affari andavano ancora male e aveva bisogno di qualcosa di stimolante, di un progetto ambizioso per stupire i capi in Olanda. Qualcosa di moderno e glamour che avrebbe attratto compratori facoltosi, qualcosa con tutti i comfort di ultima generazione. Studiò la cartina di Londra, disseminata di puntine a indicare i progetti che stava seguendo. I suoi occhi si spostarono da Farringdon alla rotonda di Old Street, poi attraverso Islington fino ad Albion Road, e si posarono sulla scritta Pear Tree Court, appena leggibile. Perché non dare un’occhiata? Issy si lisciò il vestito nuovo a fiorellini. Una volta quegli abiti le sembravano terribilmente leziosi, perfetti giusto per una comparsa di una serie americana sulle casalinghe degli anni Cinquanta. Poi, d’un tratto, quello stile era diventato di moda, e ormai tutte indossavano quei vestiti con la vita stretta e la gonna larga. Del resto cos’altro faceva se non preparare cupcake? I fiori sembravano adatti, così come i loro graziosi grembiuli e i cuscini con la bandiera sbiadita del Regno Unito, accuratamente ricoperti di plastica protettiva, con cui aveva rivestito anche il nuovo divano grigio. Era bellissimo: vecchio ma comodo, morbido e accogliente; un divano su cui i bambini potevano arrampicarsi, le coppie baciarsi e chiunque raggomitolarsi a guardare il tranquillo cortile o il fermento del caffè. Issy ne era entusiasta. Sopra il divano aveva sistemato uno di quei grandi orologi da stazione; sulla destra c’erano il camino con i libri, qualche tavolino da due posti, con le sedie spaiate grigio perla l’una di fronte all’altra. I tavoli erano quadrati: Issy detestava quelli tondi, che spesso traballavano e su cui non si poteva appoggiare nulla. Man mano che ci si avvicinava al bancone, la sala si allargava: era evidente che, un tempo, c’era una parete a dividerla in due. I tavoli, inoltre, non erano troppo vicini, di modo che ci fosse abbastanza spazio per i passeggini e per la gente in fila (che Issy sperava sarebbe stata lunghissima). In una parola, il Cupcake Café era accogliente. Vicino al camino c’era un tavolo più


lungo per le compagnie più numerose, con una grossa poltrona rosa sbiadito a capotavola. In caso di necessità, avrebbero potuto usarlo per le riunioni. Il bancone, poi, era delizioso: lucido, con gli angoli smussati, la superficie in marmo e una pila di vassoi pronti a essere riempiti. Su quel lato le finestre erano piccole, ma le altre della sala erano enormi: nelle giornate assolate, il locale sarebbe stato inondato di luce. Di tanto in tanto la macchina del caffè, che stava dietro al bancone, accanto alla porta della cantina, gorgogliava e sibilava. Nell’aria aleggiava il profumo delle torte appena sfornate. Issy salutò il signor Hibbs, lo scontroso addetto alle procedure antincendi, che stava osservando la porta come se si fosse dimenticato dov’era, e Norrie, il proprietario del negozio di cucine, il quale era stato ben contento quando la giovane cliente che aveva comprato la cucina rosa shocking era tornata per un forno industriale, anche se aveva tirato sul prezzo come l’altra volta. Norrie aveva portato la moglie rotondetta, che, come lui, aveva apprezzato gli assaggi di torte e crostate. C’era anche la segretaria di Austin, Janet, radiosa e felice. «Non so mai di cosa si occupi la banca di preciso» confessò a Issy. «A volte mi sembra che facciano girare dei fogli e basta. È così bello vedere qualcosa di concreto per una volta.» Issy pensò che forse era meglio non servirle più quel vino frizzante economico ma squisito che si era procurata Pearl. «Non solo concreto... Buono. Qualcosa di buono.» «Grazie» disse Issy, sinceramente lusingata, e andò a riempire i bicchieri degli ospiti, senza perdere d’occhio la porta. Alle sei, con gli ultimi raggi di sole che illuminavano il cortile, un’auto si fermò in sosta vietata, proprio davanti al caffè. Keavie scese prontamente, aprì la portiera ed ecco apparire nonno Joe. Issy e Helena corsero ad aprire, ma il nonno non volle entrare subito, e si fermò con la sua sedia a rotelle davanti al locale. Issy temeva che prendesse freddo, ma Keavie provvide subito a coprirlo con un plaid. Joe fissò a lungo la facciata, gli occhi azzurri appena un poco umidi per colpa del freddo. O, almeno, Issy pensò che fosse per quello. «Che ne dici, nonno?» gli chiese, uscendo e inginocchiandosi per prendergli la mano. Lui guardò l’insegna, l’interno accogliente con le luci soffuse, il bancone con i vassoi carichi di prelibatezze e la macchina del caffè che sibilava allegra; poi posò di nuovo gli occhi sulla scritta retró sopra la porta e, infine, sulla nipote. «È... è... Se solo tua nonna potesse essere qui.» Issy gli strinse forte la mano. «Vieni a mangiare una fetta di torta.» «Volentieri. E mandami anche qualche bella signora. Keavie non è male, ma è un po’ troppo rotonda per i miei gusti.» «Ehi!» esclamò l’infermiera, in realtà per nulla offesa, con un cupcake in una mano e un cappuccino fumante nell’altra. «Ovviamente è te che voglio, mia cara» disse poi Joe a Helena, che lo aveva baciato sulla guancia. Issy sistemò con cura la sedia accanto al fuoco a gas che sembrava vero e danzava allegramente nel vecchio camino. «Bene, bene, bene» disse il nonno, guardandosi intorno. «Issy, questa torta ha bisogno di un pizzico di sale.» Lei lo guardò con affettuosa irritazione. «Lo so... Ci siamo dimenticate di comprarlo stamattina. Non ti si può nascondere niente, eh?» Austin lanciò un’occhiata a Darny per accertarsi che non combinasse guai. Vedere le famiglie felici degli altri (non sapeva nulla di quella di Issy) lo rattristava sempre un po’. Con sua grande


sorpresa, però, vide il fratellino intento a insegnare a un bimbo di due anni a tirare i sassi. Il piccolo non ne era capace ovviamente, ma sembrava divertirsi un mondo. «Niente scommesse!» ammonì Austin. Mancava solo una persona. Negli ultimi tempi aveva ripreso a lavorare, quindi era un po’ in ritardo, ma ormai sarebbe dovuto arrivare e... In quel preciso istante, Zac irruppe nel caffè con due grosse scatole tra le braccia. «Eccoli!» annunciò. Tutti gli si avvicinarono, incuriositi, poi si fecero da parte lasciando che fosse Issy ad aprire le scatole. «Ci penso io» le aveva promesso Zac. «Sono capace di stampare, sai.» Issy strappò gli involucri di plastica e tirò fuori delicatamente il frutto di tante fatiche, scritto e riscritto infinite volte, appena uscito dalla tipografia e avvolto da un acre odore d’inchiostro: il suo primo menu. Era nelle stesse tinte pastello dell’insegna, con il bianco e il verde pallido predominanti. Zac aveva disegnato un delizioso ramoscello di pero in fiore lungo i lati, in stile art déco. I caratteri sembravano scritti a mano ed erano facili da leggere, e il cartoncino era rigido, facile da sostituire e senza quell’orrida copertura di plastica per proteggerlo dalle macchie. CUPCAKE CAFÉ MENU Cupcake alla vaniglia e alla crema di limone, con scorza di limone candita e praline argentate (commestibili) Cupcake Red Velvet con glassa di miele e latticello Cupcake alla fragola con violette di zucchero Amaretti all’uva moscatella con crema alla violetta Muffin al caramello e al cioccolato Yves Thuriès 70% con nocciole tostate Assaggi di torte (una fettina di ciascuna; lo so che ti va) Caffè del giorno Kailua Kona dai pendii vulcanici delle Hawaii: dolce e delicato, torrefazione lenta Selva Negra dal Nicaragua: intenso con un corpo medio Cappuccino decaffeinato Tè e infusi del giorno Tè nero ai petali di rosa Infuso di verbena francese Issy guardò Zac con gli occhi lucidi. «Non so come ringraziarti.» Lui parve a disagio. «Ma figurati! È tutta opera tua. E comunque questo lavoro mi tornerà utile. L’ho inserito nel portfolio e ho ottenuto già diversi incarichi.» Helena propose un brindisi al Cupcake Café e tutti fecero tintinnare i calici. Issy annunciò che,


prima di festeggiare degnamente, avrebbe cercato di restituire il prestito alla banca (Austin sollevò il bicchiere), ma ringraziò i presenti, che applaudirono, anche se avevano la bocca piena e sbriciolavano ovunque. Il nonno chiacchierò amabilmente con diverse persone, poi Keavie lo riaccompagnò alla casa di riposo. Issy lanciò un’occhiata fuori e scorse un’ombra oltre il cortile. Sembrava... no, non era possibile. La vista le giocava brutti scherzi. Era solo un passante che somigliava a Graeme, tutto qui. Graeme si era dato come scusa quella di andare a vedere un’altra palestra dopo il lavoro, ma non era rimasto sorpreso quando i piedi lo avevano portato in Albion Road. Quello che lo aveva davvero meravigliato era stato vedere il caffè pieno di persone. Doveva essere una festa, pensò in seguito, sentendosi, suo malgrado, profondamente offeso dal fatto che Issy non l’avesse invitato. Un’altra cosa che lo aveva lasciato a bocca aperta era lo stile raffinato e professionale del caffè. Era grazioso e invitante, con le sue luci morbide che si riflettevano sui ciottoli del cortile. Guardò gli edifici che lo circondavano: difficile dire se fossero abitati. Ma il caffè sembrava solido e reale. Bello. Graeme era abituato a pensare agli spazi in termini di metri quadrati, guadagni e perdite, categorie edilizie; e intanto immaginava aste, offerte e movimenti di denaro invisibile da lì a lì e infine, almeno in parte, alle sue tasche. Di solito non pensava a cosa la gente avrebbe fatto di uno spazio una volta acquistato, se lo avrebbe reso bello o no. A un tratto udì uno scoppio di risa provenire da dentro il caffè e riconobbe subito Issy. Sentì i pugni stringersi. Perché non gli aveva dato ascolto? Quell’attività si sarebbe rivelata un fallimento. Non aveva diritto di sembrare così felice e spensierata. Come aveva osato non tornare da lui per chiedergli un parere? Si morse il labbro e alzò lo sguardo sui mattoni di Pear Tree Court. Poi girò i tacchi e si incamminò verso la sua macchina sportiva. Dentro il caffè, il vino frizzante scorreva a fiumi e tutti annuivano e dicevano che il Cupcake Café sarebbe stato un enorme successo. Pearl osservò giudiziosamente che lo sarebbe stato se avessero dato da bere gratis ai clienti. Issy volle ringraziare tutti, uno per uno, per cui non riuscì a parlare con nessuno per molto tempo. A un certo punto vide Pearl prendere in braccio Louis, che dormiva, e indicare l’orologio con uno sguardo eloquente che sembrava dire: “Vai a dormire. Domani devi essere qui alle sei”. Issy trasalì e cominciò a baciare tutti sulla guancia, compreso Austin della banca, che parve sorpreso ma non dispiaciuto, e Helena alzò le sopracciglia e le chiese se pensava fosse un buon modo per prorogare il prestito. Dopo aver salutato tutti e riordinato il caffè, Issy tornò a casa camminando a mezz’aria. Aveva sempre sognato di vedere il locale pieno di gente che mangiava, chiacchierava, rideva e si divertiva. E, quando Helena la spedì a letto, rimase sveglia a lungo a fissare il soffitto, la mente e il cuore pieni di sogni e idee e progetti e il futuro che era... argh! pensò, guardando la sveglia. A sole quattro ore di distanza.


10

«Un, dui, tre!» strillò Louis. E Issy voltò cerimoniosamente il vecchio cartello su APERTO. Anche quello era opera di Zac, che aveva pensato davvero a tutto. Per ringraziarlo, lei aveva sistemato un mucchietto dei suoi biglietti da visita accanto alla cassa nel caso in cui qualcuno le avesse chiesto di chi fosse la splendida grafica. Pearl e Issy si guardarono. «Che il nulla abbia inizio» esclamò Pearl, mentre prendevano posto, speranzose, dietro il bancone. Il Cupcake Café era uno specchio e le torte del giorno facevano bella mostra di sé negli espositori. Nell’aria aleggiava un odore di caffè e vaniglia misto a cera per mobili. Il sole stava cominciando ad arrampicarsi sull’enorme finestra, preparandosi a illuminare prima il sofà in fondo, poi i tavoli, uno a uno. Issy non riusciva a stare ferma. Continuava a controllare il forno e gli scaffali: gli enormi sacchi di farina disposti ordinatamente l’uno accanto all’altro insieme alle scatole di bicarbonato di sodio; il lievito, lo zucchero e le file di spezie; i limoni freschi in una fruttiera e il gigantesco frigorifero pieno di panna e grossi barattoli di burro inglese, il migliore. Issy aveva provato a spiegare a Austin la sua visione finanziaria tramite un’analogia: quando sceglievi i trucchi, alcuni, come l’eyeliner o il fard, erano intercambiabili: la marca non era importante, quindi compravi quello che costava meno. Nel caso del fondotinta o del rossetto, invece, la qualità era fondamentale. Quindi bisognava scegliere i migliori che ci si potesse permettere. E il burro per le torte e le glasse doveva provenire da mucche felici che pascolavano in verdi prati lussureggianti. E non c’era altro da dire. Austin non aveva ben capito cosa c’entrassero i trucchi, ma era rimasto molto colpito dal suo fervore. Il lievito, invece, aveva aggiunto Issy, lo avrebbe comprato in uno stabilimento, a patto che le avessero concesso uno sconto. La sua dispensa la faceva sentire sicura e ordinata, come quando era piccola e fingeva di avere un negozio. Anche solo guardare le scorte le dava un’enorme soddisfazione. «Sei sempre così o stai facendo uno sforzo per l’occasione?» le chiese Pearl, vedendola saltellare. «Tutte e due le cose?» rispose Issy cauta. A volte non sapeva come prendere Pearl. «Okay, giusto per sapere con chi lavoro. Vuoi che ti chiami capo?» «Assolutamente no.» «D’accordo.» Issy sorrise. «Se gli affari andranno bene, potrai chiamarmi principessa Isabel.» Pearl le lanciò un’occhiataccia, ma si vedeva che le veniva da ridere. Alle 7.45 un operaio si affacciò alla porta. «Fate anche il tè?» Pearl sorrise e annuì. «Ma certo! E le nostre torte sono a metà prezzo per tutta la settimana.» L’operaio entrò con aria guardinga, pulendosi a lungo le scarpe sullo zerbino con la bandiera del Regno Unito che Issy aveva comprato nel negozio di un’amica anche se era fuori budget, sentendosi per questo un po’ in colpa. «È un posto di lusso, eh?» disse, aggrottando la fronte. «Quanto costa il tè?» «Una sterlina e quaranta» rispose Pearl.


L’operaio si morse il labbro. «Ah sì? Cavolo.» «Ne abbiamo di tutti i tipi» si affrettò ad aggiungere Issy. «E se vuole può assaggiare le nostre torte.» L’operaio si toccò la pancia con aria dolente. «No, o mia moglie mi ammazza. Non è che mi può fare un panino al bacon?» Pearl preparò il tè (aveva notato che Issy era su di giri e temeva rovesciasse qualcosa) e, senza interpellare l’operaio, vi versò il latte e due cucchiaini di zucchero. Poi, visto che era bollente, aggiunse il coperchio e il portatazza e glielo porse con un sorriso. «Grazie, cara» disse l’uomo. «È proprio sicuro che non vuole provare una delle nostre torte?» chiese Issy in un eccesso di zelo. L’operaio si guardò intorno a disagio. «Sono a posto, grazie.» Fece una risatina nervosa, pagò e se ne andò. Pearl chiuse la cassa con aria trionfante. «Il nostro primo cliente!» esclamò. Issy sorrise. «Forse l’ho spaventato.» Poi aggiunse con aria assorta: «E se avesse ragione? Se fossimo troppo di lusso per il quartiere?». «Be’, io non lo sono di certo» ribatté Pearl, asciugando una gocciolina di latte sul vetro del bancone. «E poi nessuno ha voglia di una torta alle sette e mezzo di mattina.» «Io sì. E presto ne avranno voglia anche gli altri. I muffin li mangiano, no? E cosa sono i muffin, se non la versione americana delle torte?» Pearl le lanciò un’occhiata pensosa. «Accidenti, hai ragione. Si spiegano tante cose...» «Eh già.» Nell’ora seguente, alcuni abitanti del quartiere si fermarono davanti al caffè, chiedendosi incuriositi chi avesse rilevato quel posto sfortunato. Alcuni appoggiarono persino il naso contro la vetrina, scrutando Pearl e Issy, per poi allontanarsi. «Be’, non è molto carino» osservò Issy. «Iss...» disse Pearl, che aveva già avuto una mattinata faticosa, essendosi alzata alle sei meno un quarto e avendo dovuto portare Louis al nuovo asilo. «Non è casa tua. Non stanno giudicando te personalmente.» «Come no?» replicò Issy, guardandosi intorno. «Ci ho messo tutta me stessa in questo posto! Certo che mi stanno giudicando.» Alle nove meno due minuti, un ometto con un cappello antiquato calcato sulla fronte passò davanti al locale. A un certo punto si fermò, fece un mezzo giro e guardò dentro, fissando minacciosamente Issy e Pearl per alcuni secondi, per poi voltarsi e allontanarsi. Qualche istante dopo si udì lo sferragliare di una saracinesca. «È quello del negozio di ferramenta!» esclamò Issy tutta eccitata. Aveva provato più volte a passare per presentarsi, ma la vecchia bottega alla loro destra aveva strani orari di apertura, e non aveva mai trovato nessuno. «Gli porto una tazza di caffè, così lo conosco, finalmente.» «Io ci andrei piano» osservò Pearl. «Non sai neanche perché le altre attività abbiano chiuso. Sappiamo già che ha un negozio strano. Magari ha anche abitudini strane. Magari li ha avvelenati tutti.» Issy la fissò. «Be’, se mi offre qualcosa da bere, gli dirò: “No grazie, gestisco un caffè”.» Pearl alzò un sopracciglio, ma tacque. «Okay, magari aspetto un paio di giorni» disse infine Issy. Alle undici entrò una donna dall’aria stanca con una bambina dall’aria stanca. Issy e Pearl


colmarono la piccola di attenzioni, ma lei non disse nulla, limitandosi ad accettare la fetta di torta offerta dopo aver lanciato un’occhiata alla madre, che agitò una mano con aria rassegnata. «Posso avere un caffè nero, per favore?» chiese, rifiutando gli assaggi di torte (Issy stava cominciando a preoccuparsi seriamente) e contando il resto. Poi si sedette con la bambina sul divano grigio, tra le riviste e i giornali e non lontano dai libri. Ma non guardò nulla: sorseggiò il caffè fissando un punto nel cortile mentre la bambina se ne stava in silenzio a giocherellare con le dita. «Metto su un po’ di musica» disse Issy, visto che lei e Pearl non potevano parlare liberamente. Ma, non appena inserì l’ultimo album di Corinne Bailey Rae nel vecchio lettore cd donato al Cupcake Café e spinse play, e la melodia invase la sala, la donna si alzò e se ne andò, come se la musica fosse una sveglia o un costo supplementare. Né lei né la figlia dissero grazie o arrivederci. Issy guardò Pearl. «È il primo giorno» disse Pearl a mo’ di spiegazione. «Comunque sappi che non ho intenzione di farti da balia, okay? Sei una donna d’affari concreta e realista, fine della storia.» E poi cominciò a piovere ininterrottamente. Le parole di incoraggiamento di Pearl divennero sempre più vuote con il passare del tempo. Una mattina Pearl aveva il giorno libero e Issy, stanca morta, stava facendo i conti (erano difficili e le cifre erano terrificanti, e, anche se Pearl continuava a dirle di non preoccuparsi, Issy non ci dormiva la notte). Entrarono due clienti, sempre meglio di niente. La prima era la donna dell’altra volta, sempre accompagnata dalla bambina, cosa che sollevò leggermente Issy; a quanto pareva, non era rimasta così disgustata da fuggire e non tornare più. Ma non aveva delle amiche? Non poteva venire insieme a loro e a un’orda di bambini dalle dita appiccicose che avevano bisogno di un dolcetto prima di andare a Clissold Park? Forse no, perché la donna aveva preso il suo caffè nero e si era seduta insieme alla bambina silenziosa in un angolo del divano, come in attesa fuori dall’ufficio del preside. Issy le aveva sorriso calorosamente e le aveva chiesto come stava, ma lei si era limitata a rispondere: «Bene» con un’espressione braccata che aveva dissuaso Issy dal fare altre domande. Issy aveva sfogliato tutti i giornali del sabato (dopo l’apertura del caffè, era convinta che non avrebbe più avuto un minuto libero, e invece non era mai stata così informata su ciò che accadeva nel mondo) quando udì il suono argentino della campanella che avevano installato sulla porta. Alzò la testa e sorrise. Des non sapeva cosa bisognava fare con i neonati. Jamie non smetteva di piangere finché non lo si prendeva in braccio o non lo si portava in giro, malgrado fosse ancora freddo fuori. Il pediatra gli aveva spiegato che aveva le coliche e Des gli aveva chiesto: «Cosa sarebbero?» e lui aveva risposto, sorridendo: «È il nome che usiamo quando i bambini piangono per ore tutti i santi giorni» e Des era rimasto un po’ stupito e un po’ deluso. Aveva sperato che il dottore gli dicesse: “Gli dia questa medicina e smetterà immediatamente e sua moglie si rilasserà”. Imboccò Albion Road senza sapere dove andare (le quattro mura della loro casetta lo stavano facendo diventare matto) quando si ricordò del caffè di Issy. Avrebbe potuto farci un salto per vedere come andavano le cose. E magari per scroccare una tazza di caffè. Quelle torte, poi, erano la fine del mondo. «Salve, Des!» esclamò Issy prima di rendersi conto che: primo, Des si sarebbe aspettato che gli offrisse il caffè (cosa che, tutto sommato, si meritava, riconobbe, seppure a malincuore); secondo, aveva con sé un neonato che strillava come un matto. Corinne Bailey Rae non poteva competere.


«Oh, ma guarda...» Issy non sapeva mai cosa dire ai neonati. Aveva un’età per cui, se dedicava loro troppe attenzioni, tutti pensavano che desiderasse disperatamente un figlio e la compativano, mentre se li ignorava veniva considerata invidiosa e acida e, sotto sotto, ansiosa di riprodursi. Era un campo minato. «Ehi, ciao piccolin...» e guardò Des, non sapendo se fosse maschio o femmina. Il bimbo fece una smorfia e inarcò la schiena preparandosi a un altro ululato. «Piccolino... si chiama Jamie.» «Oh, Jamie. Che dolce. Benvenuto!» Jamie fece un gran respiro, riempiendosi i polmoni. Des colse i segnali d’avvertimento. «Ehm... posso avere un cappuccino?» E, così dicendo, tirò fuori il portafoglio. Aveva cambiato idea riguardo al caffè gratis: l’inquinamento acustico era sufficiente. «E un cupcake» suggerì Issy. «No...» «Lei ora mangia un cupcake e basta» insisté Issy. La bambina sul divano alzò il visino triste e Issy le sorrise. «Mi scusi» gridò rivolta alla madre, tentando di farsi sentire sopra le urla di Jamie. «Per caso sua figlia gradisce un cupcake? Offre la casa. Abbiamo aperto da poco, sa.» La donna alzò gli occhi dalla rivista, guardandola con aria diffidente. «Ehm... no, grazie» rispose, con un marcato accento dell’Europa dell’Est che Issy non aveva notato fino ad allora. «Su, solo per questa volta!» insisté Issy. La bambina, che indossava una maglietta da pochi soldi e troppo leggera per la temperatura esterna, corse verso il bancone, con gli occhi spalancati. La madre la osservò, meno sospettosa, poi agitò la mano in segno di resa. «Quale vuoi?» le chiese Issy, sporgendosi verso di lei da dietro il bancone. «Rosa» rispose la bambina con un filo di voce. Issy lo mise su un piattino e lo portò cerimoniosamente al tavolo mentre la macchina preparava il cappuccino. Nel frattempo Des aveva cominciato a girare per il locale con il bimbo in braccio: a quanto pareva, il movimento era l’unica cosa in grado di calmarlo. «Non si preoccupi per me» disse a Issy quando il cappuccino e la torta furono pronti. «Darò un sorso e un morso ogni tre giri.» «Certo. Come vanno gli affari?» Des fece una smorfia. «Non bene. Per anni abbiamo pensato che questo quartiere sarebbe esploso prima o poi, ma ormai sembra aver raggiunto il suo limite.» Si spiega benissimo, pensò tristemente Issy, limitandosi però ad annuire sorridendo. Dopo il nono giro (Issy era certa che non fosse l’ideale per un neonato, ma sentiva di non avere l’autorevolezza necessaria a esprimere un parere) la donna seduta sul divano, che aveva affondato cautamente un dito nella glassa del cupcake della figlia, guardò Des con improvvisa determinazione. «Scusa» disse. Des si fermò e Jamie ricominciò subito a strillare. «Sì?» chiese, bevendo un sorso di cappuccino. «Davvero squisito, Issy» aggiunse poi. «Dammi tuo figlio.» Des lanciò un’occhiata a Issy. «Non sono una persona cattiva» disse la donna con aria stanca. «Dammi tuo figlio. Lo faccio stare meglio.»


«Ehm... non so se...» Nel locale cadde un odioso silenzio, finché Des non si rese conto, con un senso di ineluttabilità, che, se non avesse affidato Jamie a quella sconosciuta, sarebbe sembrato come se l’accusasse di chissà quale malefatta. Da bravo gentiluomo inglese, non sopportava l’idea di offendere qualcuno o suscitare imbarazzo, seppure involontariamente. Issy gli sorrise con aria incoraggiante quando consegnò il neonato urlante alla donna, la cui figlia si alzò subito sulla punta dei piedi per guardarlo. Sa ziza zecob dela dalou’a Boralea’e borale mi komi oula Etawuae’o ela’o coralia wu’aila Ilei pandera zel e’ tomu pere no mo mai Alatawuané icas imani’u’ Cantò la donna, subito rapita da Jamie, che, sorpreso dal fatto di trovarsi tra le braccia di una sconosciuta, tacque e la fissò con i suoi occhioni azzurri. La donna lo baciò dolcemente sulla testolina. «Forse è una strega» sussurrò Des a Issy. «Sst!» disse lei, guardandola ammaliata. Quando Jamie aprì la bocca per ricominciare a strillare, lei lo girò sopra un braccio con un movimento tranquillo e sicuro, e il piccolo si ritrovò a pancia in giù, con le braccine e le gambine penzoloni. Quando provò a divincolarsi, Des fece istintivamente un passo avanti: sembrava dovesse cadere da un momento all’altro. Poi accadde l’impossibile. Jamie sbatté di nuovo gli occhioni una, due volte, poi la sua boccuccia trovò il pollice e si calmò. Nel giro di pochi secondi, mentre tutti osservavano increduli la scena, le palpebre gli si fecero sempre più pesanti... finché non si addormentò come un ghiro. Des scosse la testa. «Ma come... Gli ha rifilato qualcosa?» Per fortuna, la donna non capì. «È molto stanco» disse, guardando Des. «Anche tu sei molto stanco» aggiunse poi gentilmente. A un tratto, Des si sentì sul punto di scoppiare in lacrime, cosa che non era da lui. Non aveva pianto neppure quando era nato il piccolo; l’ultima volta era stato alla morte del padre. Ma ora, non sapeva perché... «Sì, sono... un po’ stanco» ammise, accasciandosi sul divano. «Come ha fatto?» chiese Issy sbalordita. Era stata una specie di magia. «Ehm...» cominciò la donna, cercando le parole in inglese. «Allora... è come la tigre sull’albero.» Des e Issy la guardarono perplessi. «Quando i bambini hanno male al pancino... gli piace stare come le tigri sugli alberi. Fa bene al pancino.» E in effetti Jamie sembrava un gattino felice accoccolato su un ramo. La donna lo posò delicatamente nel passeggino, sempre a pancia in giù. «Ehm...» mormorò Des, ansioso di mostrare che conosceva almeno i primi rudimenti dell’essere genitori «non bisogna metterli a pancia in giù.» La donna lo fulminò con lo sguardo. «I bambini con il mal di pancia dormono meglio così. Se lo guardi, non muore.» Bisognava riconoscere che Jamie aveva l’espressione beata tipica dei bambini addormentati. Le sue labbra rosee e carnose erano socchiuse ed era immobile, tranne che per il lieve movimento della


piccola schiena che si sollevava e si abbassava col respiro. La donna prese la copertina e ve lo avvolse stretto, di modo che potesse a malapena muoversi. Des, che era abituato a vedere Jamie contorcersi nel sonno come se stesse lottando contro un nemico invisibile, rimase di stucco. «Prendo un’altra tazza di caffè» disse incredulo. «E... ehm... mi può passare il giornale, per favore?» Issy sorrise al ricordo. Alla fine, ci aveva guadagnato quattro sterline, mentre Des e la donna, che si chiamava Mira, avevano parlato trovandosi d’accordo su molte cose e, almeno per un po’ di tempo, si era udito un piacevole sottofondo di conversazione, che era proprio ciò che Issy desiderava. Intanto il proprietario della ferramenta si era avvicinato alla vetrina e aveva studiato il menu esposto per quello che a Issy era parso un secolo, per poi allontanarsi di nuovo. Issy lo aveva salutato, ma lui non aveva neanche risposto. Stava cominciando a odiare il ticchettio delle lancette. All’ora di pranzo erano entrate due ragazzine e avevano contato gli spiccioli per un cupcake al cioccolato e allo zenzero da dividere e due bicchieri d’acqua, ma se ne erano già andate quando la campanella sopra la porta suonò di nuovo ed entrò Helena. «Va maluccio, eh?» osservò. Issy ebbe, suo malgrado, un moto d’irritazione. In genere non reagiva così alle punzecchiature di Helena: erano amiche da così tanto tempo. Ma era quasi crudele da parte sua arrivare proprio nel momento in cui si sentiva una fallita. «Ehi. Come procede?» le chiese. «Vuoi un cupcake invenduto?» ribatté Issy, in un tono più pungente di quanto intendesse. «Sì» rispose lei, tirando fuori il portafoglio. «Mettilo via» le ordinò Issy. «Tanto, secondo le norme igienico-sanitarie, devo buttarli a fine giornata.» Helena alzò le sopracciglia. «Non dirmelo. Non voglio saperlo. A parte che non dovrei mangiarli. Però, adesso che ci penso, sono aumentata di una taglia di reggiseno, quindi ho un bonus.» «Una taglia in più o una teglia in più? Ah ah ah. Almeno non ho perso il senso dell’umorismo.» «Perché non chiudi prima? Andiamo a casa e ci guardiamo L’ultimo contratto, poi telefoniamo a tutti i nostri vecchi amici che non ci chiamano più e gli diciamo che domani restiamo a letto a poltrire quando loro devono alzarsi alle cinque e scaldare i biberon.» «È una proposta allettante, ma non posso» disse Issy, dispiaciuta. «Restiamo aperti fino alle quattro e mezzo oggi.» «E dov’è finito il “Sono padrona del mio destino e posso fare quello che mi pare?”. Credevo che fosse anche questo lo scopo di mettersi in proprio.» «E poi devo fare la chiusura di cassa e i conti della settimana.» «Be’, non dovresti impiegarci molto...» «Helena.» «Troppo sarcastica?» «Sì.» «Al vino ci penso io.» «Okay.» «Okay.» In quel momento, si udì di nuovo la campanella. Austin si guardò intorno con aria circospetta. Sapeva che avevano aperto da poco, ma non gli sarebbe dispiaciuto vedere dei clienti e Issy indaffarata, anziché seduta dietro il bancone a oziare con la sua amica. Darny era al parco e Austin aveva appena avuto una delle illuminazioni che seguivano


puntualmente la terribile consapevolezza di aver dimenticato qualcosa di importante. Dopo la morte dei suoi genitori, l’assistente sociale che seguiva la pratica per l’affidamento aveva consigliato a Austin di rivolgersi a uno psicoterapeuta. Quest’ultimo aveva ipotizzato che la sua disorganizzazione fosse una specie di grido d’aiuto rivolto ai suoi genitori affinché tornassero e gli dessero una mano, e gli aveva consigliato di non cercare una compagna che facesse altrettanto. Austin sospettava che fossero tutte balle, ma quella convinzione non gli era stata di grande aiuto mezz’ora prima, quando si era reso conto di aver perso la copia del contratto d’affitto del locale. Se non l’avesse recuperato al più presto, Janet lo avrebbe ucciso. «Ehm... salve» disse. Issy balzò in piedi, imbarazzata. Sarebbe stato auspicabile che chiunque avesse a che fare con la sua attività si fosse presentato nei momenti in cui il locale era pieno. Desiderò ardentemente che Helena non fosse lì, perché non sembrava molto professionale. Soprattutto perché Helena le dava di gomito e sollevava le sopracciglia come Groucho Marx. «Salve!» esclamò. «Posso offrirle un cupcake per Darny?» «Li regala?» chiese Austin con uno scintillio negli occhi. «Immagino non faccia parte del business plan.» «Tanto non l’ha letto» ribatté Issy, agitata. Era tutta colpa di quel sorriso: la distraeva e non era affatto da bancario. «No, infatti. Come va?» «Be’, stiamo cercando di farci conoscere. Certo, ci vorrà un po’.» «Ho piena fiducia nel business plan» disse lui rapidamente. «Quello che non ha letto.» Austin avrebbe sorriso di più se l’avesse letto, ma aveva seguito ciecamente il suo istinto, cosa che faceva sempre quando si trattava di prestiti. In genere, le sue intuizioni si rivelavano esatte. Gli piaceva pensare che, se funzionava per i detective, doveva funzionare anche per lui. «Sa, conosco una persona che organizza corsi di marketing» disse, scrivendo i suoi dati su un foglietto e porgendolo a Issy. Lei lo lesse e gli fece alcune domande in proposito: aveva l’impressione che Austin avesse preso a cuore la sua causa. Be’, solo per proteggere il suo investimento, ovviamente. «Grazie» gli disse. Era difficile stare ad ascoltare i suoi discorsi così sensati quando indossava un maglione a strisce alla rovescia. «Ha il maglione alla rovescia.» Austin lo guardò. «Ah, sì, lo so. Darny ha deciso che i vestiti devono avere le etichette fuori, per far sapere a tutti che indossi quelli giusti. E non sono riuscito a convincerlo del contrario, quindi ho deciso di stare al gioco finché non ci arriva da solo. Ormai dovrebbe essere abbastanza grande no?» «Be’, ma come fa a capirlo, se lei non dà il buon esempio?» «Ha ragione» riconobbe Austin, togliendosi il maglione con un gesto disinvolto. Nel farlo, sollevò inavvertitamente un lembo della camicia verde bosco, mostrando il ventre piatto. Issy si ritrovò a fissarlo, poi si rese conto che anche Helena lo stava guardando, con gli occhi accesi. Allora arrossì fino alla punta dei capelli. «Non lo so» continuò Austin. «Stavo solo cercando di portarlo al parco in tempo. Immagino che gli altri bambini lo prenderanno in giro e lo faranno piangere, per cui tornerà sui suoi passi, soffocherà la sua individualità e si conformerà alla massa come una pecora.» Si infilò di nuovo il maglione nel verso giusto e si guardò intorno alla ricerca di Issy, che però era scomparsa giù per le scale.


«Ehm... le prendo i documenti che le servono!» gridò dal seminterrato. Helena gli sorrise sorniona. «Resti per un caffè.» Issy si sciacquò il viso con l’acqua gelida del lavandino di servizio. Era assurdo. Doveva controllarsi: ci lavorava, con quel tizio! Non aveva dodici anni. «Ecco» disse, ricomparendo, con le guance leggermente colorite. «Un cupcake per Darny. Insisto. È... Come lo chiamerebbero quelli del marketing? Un campione promozionale.» «Temo che distribuire campioni a persone che hanno una paghetta settimanale di una sterlina non supererebbe un’analisi costi-benefici,» osservò lui, «ma grazie.» Prese il dolcetto e, sfiorando le dita di Issy, si ritrovò a indugiare un istante di troppo, come restio a lasciare andare la traccia di quel tocco. «E poi» disse Helena vuotando la bottiglia «lo porti di sotto nella dispensa e...» Issy si morse il labbro. «Sta’ zitta!» «Lui ti prende tra le sue braccia virili da bancario e...» «Smettila!» strillò Issy. «Ti tiro un cuscino.» «Tira pure tutti quelli che ti pare. Mi piace già mille volte più di Graeme.» Come al solito, udendo il nome di Graeme, Issy tacque. «Oh, andiamo, Issy, sto scherzando. Non essere così permalosa.» «Lo so, lo so. Comunque, Austin è venuto per farmi firmare quei documenti. E per rimproverarmi perché gli affari vanno male. Hai visto anche tu che faccia ha fatto quando è entrato.» «Di sabato?» «Vive qui vicino. Conosce il quartiere come le sue tasche.» «Perché è così bello e intelligente, da sbaciucchiare, mm...» «Piantala!» strillò Issy, lanciandole un cuscino direttamente in testa. «E poi devo andare a letto presto stasera. Ho un sacco di cose da fare domani.» «Cioè sbaciucchiarlo?» «Buonanotte. Bisogna che ti trovi un hobby.» «Perché? Ho già te!» Il treno della domenica era pieno zeppo di viaggiatori del weekend, per lo più uomini di ritorno dalla partita della sera prima, che bevevano birra e sbraitavano con i loro amici da una parte all’altra del corridoio. Issy trovò un posto tranquillo dove sedersi con il suo libro e lanciò un’occhiata alla sua immagine stanca riflessa nel finestrino, ripensando alla visita al nonno. «La tua festa l’ha rallegrato molto» le disse Keavie al suo arrivo. «Ma si è stancato. Ed è anche un po’... distratto.» «Sta peggiorando, vero?» osservò Issy, rattristata. Keavie parve dispiaciuta, e le sfiorò appena un braccio. «È che... voglio dire... è per questo che lui è qui.» Issy annuì. «Lo so, lo so. È solo che... sembrava in forma.» «Sì, be’, spesso la sicurezza data dal fatto di essere accuditi può aiutare per alcuni mesi.» Issy abbassò gli occhi. «Ma non per sempre.» Keavie le lanciò un’occhiata triste. «Issy...» «Lo so, lo so. È incurabile. E progressiva.» «Ha i suoi momenti di lucidità» disse Keavie. «Anzi, ha avuto anche dei giorni felici. Può considerarsi fortunata. E poi gli fa sempre piacere quando viene a trovarlo.»


Issy si sforzò di sembrare allegra per la seconda volta in due giorni ed entrò baldanzosa nella stanza. «Ciao, nonno!» esclamò. Joe socchiuse gli occhi. «Catherine! Margaret! Carmen! Issy!» «Issy» precisò lei, chiedendosi fuggevolmente chi fosse Carmen. Lo abbracciò e sentì la pelle che, col passare del tempo, sembrava sempre più cadente. «Come stai, nonno? Sei uscito? Il cibo è buono?» Joe agitò le mani. «No, no no. Non è quello.» Si sporse il più possibile verso di lei, tremando per lo sforzo. «Negli ultimi...» cominciò lentamente. «Negli ultimi giorni non sono molto lucido, Issy.» «Lo so, nonno» disse Issy stringendogli la mano. «Nessuno lo è sempre.» «No, ma non è quello...» Sembrò perdere il filo e fissò lo sguardo fuori dalla finestra. Poi tornò in sé. «Stavo... Stavo pensando, Issy, ma a volte mi confondo, a volte sogno...» «Continua.» «Per caso la mia piccola Issy ha aperto una panetteria?» Pronunciò la parola “panetteria” come avrebbe pronunciato “Paradiso terrestre”. «Sì, nonno! L’hai vista, ti ricordi? Sei venuto all’inaugurazione.» Joe scosse la testa. «Le infermiere mi leggono le lettere tutte le mattine, ma non mi ricordo niente.» «Ho una panetteria, sì. Cioè, più una pasticceria. Non faccio il pane, solo le torte e i cupcake.» «Anche fare il pane è una nobile professione» osservò Joe. «Lo so, lo so. Il mio è più un caffè.» Issy notò che gli occhi del nonno si velarono di lacrime. Non andava bene, non doveva agitarsi. «La mia piccola Issy è diventata una pasticciera!» «Be’, sei stato tu a insegnarmi tutto quello che so.» Il vecchio strinse forte la sua mano. «E le cose vanno bene? Riesci a viverci?» «Mm... Be’, abbiamo appena aperto... A essere sincera, è un po’ difficile.» «Questo perché adesso sei un’imprenditrice, Issy, ed è tutto sulle tue spalle... Hai figli?» «No, nonno. Non ancora» rispose tristemente Issy. «Niente figli.» «Ah. Quindi devi pensare solo a te stessa. Be’, questo è un vantaggio.» «Sì, certo. Ma sai, devo comunque fare in modo che la gente entri nel locale.» «Be’, quello è facile. Basta fargli sentire l’odore dei dolci.» «È questo il punto» disse pensosamente Issy. «Non riescono a sentirlo. Siamo in una posizione un po’ nascosta.» «Questo è un problema, in effetti. Ma tu porti i tuoi prodotti alla gente, per strada? Glieli fai vedere?» «Non proprio. Sono quasi sempre in cucina. Ma non credi che sembrerei un po’... disperata a sbattere le torte sotto il naso dei passanti? Io non accetterei niente che mi venisse offerto per strada.» Joe parve indispettito. «Non hai imparato niente da tuo nonno? Non esistono solo cannoli e torte francesi, sai...» «Forse se le torte fossero più grandi...» «Quando ho iniziato, a Manchester, era il 1938. Poco prima dello scoppio della guerra. La gente


era terrorizzata e non aveva un soldo in tasca per comprare le torte.» Issy conosceva bene quella storia, ma era sempre felice di sentirla di nuovo. Si appoggiò allo schienale della sedia, come se fosse una bambina e il nonno le stesse rimboccando le coperte, e non viceversa. «E mio padre era morto durante la Prima guerra mondiale, e le panetterie all’epoca erano dei gran brutti posti. Pane nero ed escrementi di topi e chissà cos’altro. Ma la gente non ci faceva caso: l’importante era procurarsi il necessario per sfamare i figli con pochi soldi. Non c’era mercato per le torte in quella parte del mondo. Ma io avevo iniziato da giovane, e nessuno aveva più fame di me. Mi alzavo alle quattro, spazzavo i pavimenti, setacciavo la farina, preparavo l’impasto. Avevo dei bicipiti da pugile, e non scherzo, cara la mia Isabel. La gente me lo faceva notare. Le signore soprattutto.» Joe sembrò sul punto di addormentarsi, così Issy si sporse verso di lui. «Però lavorare lì, tra levatacce e sacchi di farina, aveva anche un suo lato positivo... d’inverno, quando fuori faceva freddo... veramente freddo...» Joe si interruppe, si guardò intorno, poi riprese: «Qui non è mai freddo, anche perché sei sempre imbacuccato con vestaglie e sciarpe. Ma quelle mattine d’inverno, quando entravi, e sai, i forni rimanevano accesi anche la notte, così il pane era sempre fresco... Mi svegliavo e Dio mio, la casa di mia madre, di Mabel, la tua bisnonna... era gelida. C’era il ghiaccio sulle coperte, sulle finestre. D’inverno non si asciugava mai nulla, quindi portavamo sempre gli stessi vestiti. La mattina accendevo il fuoco con le mani che mi tremavano. Gli inverni erano più rigidi a quei tempi. Ma poi nella panetteria sentivi il calore sui vestiti, sulla lana umida e sulle mani screpolate, fin dentro le ossa. I bambini entravano e si vedeva subito dalla loro espressione che adoravano il caldo e l’odore che c’era lì dentro. Allora c’era la povertà vera, Issy, non come oggi che hanno tutti la tv a schermo piatto». Issy gli accarezzò la mano. «Per loro la panetteria era un po’ come quello che è per me il pub. Un posto caldo dove mangiare qualcosa. E così che devi essere. Accogliente.» Si sporse in avanti e aggiunse: «E se c’era qualcuno a corto di soldi, o una donna sola con un bimbo da sfamare, o una famiglia troppo numerosa... come i Flaherty, che avevano tredici figli o giù di lì, non lo so perché a un certo punto abbiamo smesso di contarli, e il più piccolo aveva un anno e Patrick non riusciva mai a tenersi un lavoro, be’, a loro si dava sempre qualcosa in più. Una pagnotta che non era venuta bene, o qualche panino vecchio di due giorni. Poi, ovviamente, si spargeva la voce e c’era chi veniva sperando di ottenere qualcosa. Ma c’era anche chi veniva perché gli avevi fatto del bene. E ti dico una cosa: tutti i figli dei Flaherty e i loro figli quando sono cresciuti e sono andati all’università e hanno cominciato a lavorare, tutti, dal primo all’ultimo, sono sempre venuti a comprare il pane da Randall’s. Avrei potuto campare solo con i loro soldi. Nel commercio è così: alcuni ti fregano, altri ti sputano sopra quando sei a terra, ma se dai calore e bontà la gente lo sente e lo apprezza. È così.» Joe si appoggiò ai cuscini, stremato. «Nonno» disse Isabel chinandosi su di lui e dandogli un bacio sul naso. «Sei grande.» «Che c’è? Chi sei? Sei tu, Marian?» «No, nonno. Sono io, Isabel.» «Isabel? La mia piccola Isabel?» La scrutò attentamente. «Che hai fatto di bello in questi giorni, tesoro mio?»


11

Un raggio di sole da portare nel mondo: cupcake meringati alla fragola Dosi per 24 dolcetti 250 g di burro non salato a temperatura ambiente 250 g di zucchero extrafine 4 uova 250 g di farina autolievitante 4 cucchiai di latte (intero o parzialmente scremato, ma non scremato) 6-8 cucchiaini di marmellata di fragole Per la glassa di meringa svizzera: 8 albumi 500 g di zucchero extrafine 500 g di burro non salato 4 cucchiaini di estratto di vaniglia 8 cucchiai di marmellata di fragole Riscalda il forno a 190 °C, 170 °C se ventilato. Sbatti il burro e lo zucchero fino a ottenere un composto chiaro e cremoso, quindi aggiungi le uova, la farina e il latte e sbatti fino a incorporarli completamente. Versa il composto negli stampini. Metti un po’ di marmellata su ciascun cupcake e mischiala all’impasto usando un bastoncino da cocktail. Fai cuocere 15 minuti o finché, infilando uno stuzzicadenti al centro del cupcake, questo non esce pulito. Per la glassa di meringa svizzera: Metti gli albumi e lo zucchero in una ciotola sopra una pentola d’acqua bollente e mescola per evitare che l’uovo si cuocia. Dopo 5-10 minuti, quando lo zucchero si è sciolto, togli la ciotola e sbatti finché il volume non raddoppia e il composto non si è raffreddato. Unisci il burro e l’estratto di vaniglia. All’inizio la meringa avrà un aspetto poco invitante, simile al latte cagliato, ma non preoccuparti! Quando risulterà compatta e cremosa, aggiungi la marmellata. Se vuoi che sia più rosa, aggiungi un po’ di colorante per alimenti. Versala dentro la tasca e guarnisci i cupcake. Completa il tutto con decorazioni o codette di zucchero. Dividi i cupcake in quattro parti, infilzali con dei bastoncini da cocktail e sistemali in piccoli stampini di carta. Prova a convincere i passanti ad assaggiarle di modo che rimangano folgorati dal tuo talento e vengano nel tuo caffè a spendere un sacco di soldi salvandoti dalla bancarotta.

«Un, dui, tre!» Louis mise i minicupcake nel contenitore dopo che Pearl gli ebbe lavato accuratamente le mani. Erano molti più di tre, ma lui arrivava a contare fino a lì. Quella mattina Issy era euforica e aveva preparato assaggi per tutti. «Dobbiamo cambiare strategia» annunciò a Pearl. «Quindi anziché gettare via i cupcake a fine giornata li lanciamo addosso alla gente?» chiese Pearl, ma non volle infierire ulteriormente, perché un moto positivo non poteva che giovare a un’attività appena avviata. Issy aveva chiamato Zac e si era complimentata con lui per il suo taglio di capelli finché lui non le aveva preparato un grazioso volantino che Issy aveva fotocopiato alle 5 di mattina alla copisteria di Liverpool Street, aperta ventiquattr’ore su ventiquattro, visto che era talmente elettrizzata da non riuscire a dormire.


Appuntamento al Cupcake Café! Giornata piena? Poco tempo e tanto stress? Vuoi cinque minuti di pace e silenzio per goderti un buon caffè e un delizioso dolcetto? Vieni a rilassarti da noi, al numero 4 di Pear Tree Court, vicino ad Albion Road. Esibendo questo volantino, avrai diritto a un cupcake gratis per ogni caffè e a tanto relax. Sul retro era riportato il menu. «Ora fai in modo di distribuirli a tutti all’asilo» ordinò Issy a Pearl. «Iss...» cantilenò Louis. «Ehm... okay» disse Pearl, perplessa. L’asilo non era affatto come se lo era immaginato. Sebbene sulla carta fosse una struttura statale per bambini svantaggiati (ed era indubbiamente bella, pulita, con giocattoli nuovi e libri intonsi), non era piena di mamme come lei, che faticavano a sbarcare il lunario, magari senza un compagno. C’erano molte madri eleganti e benestanti che parcheggiavano i loro enormi SUV in doppia fila bloccando la strada, sembravano conoscersi tra di loro e discutevano ad alta voce di decorazione d’interni e animatori per feste per bambini. I loro figli non erano vestiti come Louis, che Pearl trovava elegante, con le sue tute e le sue scarpine da ginnastica di un bianco abbagliante. Gli altri indossavano camicie a righe e pantaloni alla zuava e avevano i capelli lunghi: sembravano appartenere a un altro tempo. Non era certo pratico, pensava Pearl, considerato quanto si sporcavano i bambini: le camicie, essendo di cotone, si sarebbero bucate subito, per non parlare del tempo che ci voleva a stirarle. Certo, quelle donne non avevano l’aria di chi stira il bucato da sola. E Pearl non poteva fare a meno di notare che, quando c’era qualche festa, Louis, che giocava con chiunque, che condivideva i suoi giocattoli e ogni mattina abbracciava affettuosamente Jocelyn, una delle maestre, Louis, al quale le altre mamme riservavano sorrisi piacevoli ma distratti e banalità del tipo: «Quant’è carino», non veniva mai invitato. Il suo bellissimo bambino veniva snobbato. E Pearl sapeva che non era per il colore della sua pelle, come avrebbe pensato quando era più giovane. L’asilo era frequentato da bambini cinesi, indiani, africani, insomma, di tutte le razze. Le bambine portavano camicette di mussola a fiorellini e pantaloni bianchi immacolati, con calosce a pois quando pioveva, e avevano capelli lucenti lunghi o a caschetto con la frangetta. I maschietti erano robusti e rubizzi, abituati a correre qua e là e a guardare partite di rugby con i papà. Si parlava molto di padri e mariti all’asilo. Non era così a Lewisham. Il problema era lei, Pearl lo sapeva. I suoi vestiti, il suo peso, il suo stile, la sua voce. Che si riversavano su Louis, il suo bambino perfetto. E ora doveva andare a distribuire i maledetti volantini e i maledetti cupcake di Issy come una specie di venditrice ambulante a tutte quelle donne impeccabili, in modo da confermare tutto ciò che già pensavano di lei. Uscì corrucciata nella pioggerellina primaverile. Issy aveva il compito più facile: incurante della pioggerellina, andò alla sua vecchia fermata dell’autobus con un grosso contenitore sottobraccio. Le sembrò di fare un salto nel passato. La fila di facce familiari che scrutavano la via in attesa dell’autobus era sempre lì: il ragazzo imbronciato con l’iPod a tutto volume, Mister Forfora, la signora con il carrello. E Linda, che sorrise lieta quando la vide.


«Ciao, cara! Hai trovato lavoro? Sai, è un peccato che tu non ti sia data alla podologia come mia figlia. Ci pensavo l’altro giorno.» «Be’,» disse Issy sorridendo a sua volta «qualcosa ho fatto. Ho aperto un caffè... proprio lì!» Linda si voltò e Issy osservò divertita il suo stupore. «Ma che bello!» esclamò. «Fate anche panini al bacon?» «Nooo» rispose Issy, pensando che, se l’attività fosse mai decollata, avrebbero dovuto fare in modo di servire anche quegli stramaledetti panini al bacon, visto che li volevano tutti. «Solo caffè e cupcake.» «Il tuo hobby, praticamente.» Issy si morse il labbro. Non le piaceva che la gente definisse il suo lavoro un hobby. «Be’, dicono tutti di coltivare le proprie passioni» ribatté, a denti stretti. «Tieni! Prendi un cupcake. E un volantino.» «Volentieri. Oh, Issy, sono così contenta per te! E che fine ha fatto quel bel ragazzo con la macchina sportiva?» «Mm» mugugnò Issy. «Be’, vedrai che presto potrai lasciar perdere il tuo hobby e mi verrai a trovare al negozio per scegliere il tulle per il velo.» «Passa per un caffè una volta o l’altra» disse Issy sforzandosi di continuare a sorridere. «Mi farebbe molto piacere.» «Ma certo. Finché rimani lì. È bello avere un hobby.» Issy riuscì a non alzare gli occhi al cielo e risalì la fila e, mentre arrivava l’autobus, persino il ragazzo che non si toglieva mai le cuffie prese un assaggio e le fece un cenno di saluto. Issy si affacciò alla porta dell’autobus e offrì un cupcake al guidatore, che però scosse energicamente la testa, inducendola a battere in ritirata, un po’ avvilita. Be’, si disse. Da qualche parte bisogna pur cominciare. Addentò un cupcake al cappuccino davvero celestiale: la glassa era così leggera che sembrava spuma. Era squisito. Ma in fondo era solo una tortina. Hobby un cavolo, pensò stizzita. Tornò lentamente al negozio, in tempo per vedere due ragazzini precipitarsi fuori con un cupcake in mano. «Sparite, delinquenti!» urlò. Per fortuna aveva chiuso a chiave la cassa. Il gestore della ferramenta le passò accanto, guardandola in modo strano. «Salve!» esclamò Issy, tentando di darsi un contegno. Lui si fermò. «Salve» rispose, con un accento che Issy non riuscì a individuare. «Sono la proprietaria del nuovo caffè» disse Issy, sebbene non ce ne fosse bisogno. «Vuole assaggiare un cupcake?» Nel frattempo, studiò il suo abbigliamento impeccabile: indossava un completo, una cravatta stretta, un soprabito, una sciarpa e un cappello di feltro che gli davano un aspetto antiquato. Issy immaginava che andasse in giro con una tuta da lavoro. Lui sbirciò nel contenitore e scelse il cupcake al cappuccino più perfetto, prendendolo tra il pollice e l’indice. «Mi chiamo Issy.» «Molto piacere» rispose lui, incamminandosi nuovamente verso il negozio che, come sempre, aveva le imposte sprangate. Strano. «Non mi do per vinta» dichiarò Issy, malgrado Pearl fosse tornata dall’asilo insolitamente avvilita. Con il contenitore mezzo pieno. «Joshua non può assumere zuccheri» riferì «e Tabitha soffre


di intolleranze alimentari. E la madre di Olly voleva sapere se la farina che usiamo è del commercio equo.» «Tutto è del commercio equo» disse Issy esasperata. «Gliel’ho detto, ma lei ha risposto che preferiva non mangiarle, per sicurezza.» «Non fa niente. Noi andiamo avanti!» La mattina seguente Issy andò in Stoke Newington High Street con lo scopo di lasciare volantini e assaggi in tutti i negozi. Sembrava facile. Ogni centimetro quadrato era occupato da volantini di lezioni di yoga, palestre e massaggi per bambini, scuola di circo, concerti jazz, lezioni di tango, verdure biologiche con consegna a domicilio, circoli di maglia, eventi in biblioteca, spettacoli teatrali e passeggiate in mezzo alla natura. Il mondo sembrava tappezzato di volantini, pensò Issy, e l’elegante grafica di Zac parve improvvisamente sbiadita accanto al giallo e all’arancione fosforescente. I proprietari dei negozi erano apatici e indifferenti, ma accettarono volentieri gli assaggi. Issy ne approfittò per studiarli. Erano persone che, come lei, avevano tentato di realizzare il sogno di un’attività propria. Se solo non fossero sembrati così stanchi e infelici. Quando giunse più o meno a un terzo della strada, le venne incontro una donna dall’aria bellicosa e saccente con una T-shirt psichedelica e i capelli arruffati. «Cosa sta facendo?» le chiese in tono perentorio. «Sto distribuendo assaggi di cupcake del mio nuovo caffè» rispose baldanzosamente Issy, porgendole il contenitore. «Vuole favorire?» La donna fece una smorfia. «Se voglio questa roba piena di zucchero raffinato e grassi transgenici, fatta apposta per trasformarci in obesi schiavi della tv? No di certo.» Issy aveva incontrato mancanza di interesse, ma mai aperta ostilità. «Va bene, non c’è problema» disse, mettendo il coperchio. «Ma non può andarsene in giro a distribuire roba così! Ci sono altri caffè lungo la strada! Siamo qui da molto più tempo di lei, quindi si levi dai piedi!» Issy si voltò e si accorse di avere puntati su di sé gli sguardi ostili di varie persone comparse sulla soglia di caffè e sale da tè della via. «E siamo una cooperativa. Lavoriamo in società. E usiamo solo ingredienti sani e del commercio equo. Non avveleniamo i bambini, noi. Perché è questo che vuole la comunità. Quindi se ne vada.» Issy si accorse di tremare di rabbia. Chi era quella megera con i capelli grigi e unti e quegli occhiali orrendi e quella T-shirt inguardabile? «C’è posto per tutti» riuscì a dire, con un filo di voce. «E invece no» ribatté la donna, che doveva aver passato tutta la vita a urlare alle riunioni e alle manifestazioni, cosa che evidentemente le piaceva. «Siamo arrivati prima noi. E noi aiutiamo i bambini dell’Africa, mentre lei non serve a niente. Non la vuole nessuno, qui. Quindi vada a quel paese, okay? O almeno, la prossima volta, chieda prima di venire a togliere il lavoro agli altri.» Uno degli spettatori borbottò «Brava», abbastanza forte perché Issy lo udisse. Si allontanò con passo malfermo, gli occhi pieni di lacrime, consapevole degli sguardi degli altri gestori fissi sul suo stupido vestito a fiorellini. Dovevano considerarla una specie di educanda. Visto che non poteva tornare indietro, anzi, visto che non sarebbe mai più potuta tornare in quella strada, si diresse verso la strada principale, dove avrebbe potuto perdersi tra la gente di ogni tipo e colore che affollava Dalson Road, e dove nessuno avrebbe notato una donna in lacrime con un abito vintage. Austin si stava facendo strada tra la folla per andare al negozio «Tutto a una sterlina», sperando di trovarvi qualcosa per una festa in maschera a cui Darny doveva partecipare. Avrebbe voluto


comprargli il costume da Uomo Ragno che gli piaceva tanto, ma, dopo aver pagato il doposcuola, più il mutuo che i suoi genitori non erano riusciti a estinguere prima di morire, più le spese di tutti i giorni, più le more sulle bollette (avrebbe dovuto attivare la domiciliazione bancaria, ma non si decideva mai), non gli rimanevano molti soldi, e non aveva senso comprare qualcosa di costoso, visto che Darny tornava quasi sempre a casa coi vestiti sporchi e strappati. Alcuni anni prima aveva terrorizzato una fidanzata di Austin rispondendo alla domanda: «Cosa ti piace?» con un: «Fare a botte!», e prendendola a pugni per meglio esemplificare il concetto. Austin non aveva più rivisto Julia da allora. Aveva appena attraversato la strada quando scorse Isabel Randall immobile accanto al semaforo verde. «Salve» le disse. Issy alzò gli occhi su di lui, sbattendo le palpebre per scacciare le lacrime. Era felice di vedere un volto amico, ma non si azzardava a parlare per paura di scoppiare in singhiozzi. «Salve» ripeté Austin, pensando che non l’avesse riconosciuto. Issy deglutì e si disse che piangere di fronte al suo consulente finanziario era la cosa peggiore che potesse fare. «Ehm... salve» rispose infine, sforzandosi di non innaffiarlo di lacrime. Austin era abituato a essere più alto della maggior parte delle persone e a chinarsi per guardare in faccia i suoi interlocutori, ma non gli piaceva dare l’impressione di fissarli. D’altra parte, Issy sembrava strana. La osservò attentamente. Aveva gli occhi lucidi e il naso rosso. In Darny, non era quasi mai un buon segno. «Tutto bene?» le chiese. Se solo non fosse stato così gentile, pensò Issy sul punto di crollare. Austin si accorse che si stava trattenendo. Le mise una mano sulla spalla. «Vuole un caffè?» le domandò, pentendosene subito. Issy riuscì a non scoppiare di nuovo a piangere, ma una lacrima solitaria le scese lentamente lungo la guancia. «No, no, no, direi proprio di no... ehm...» In mancanza di un posto migliore dove andare, si ritrovarono in uno squallido pub pieno di bevitori mattutini. Issy ordinò un tè verde, togliendo la schiuma dalla superficie con il cucchiaino, e Austin si guardò intorno nervosamente, poi ordinò una Fanta. «Mi dispiace» disse più volte Issy. Poi, senza sapere perché ma con la netta sensazione che in seguito se ne sarebbe pentita, finì col raccontargli tutta la storia. Era così facile parlare con lui. Sembrava sinceramente dispiaciuto. «E ora che sa tutto» concluse Issy, temendo di ricominciare a piangere «penserà che sono un’incapace e una pappamolle negata per il commercio e che fallirò, e in effetti è possibile, se si coalizzano contro di me... come la mafia, Austin! Dovrò pagare il pizzo, e mi faranno trovare una testa di cavallo nel forno!» «Credo siano tutti vegetariani» disse Austin, scolando la Fanta e versandosene un po’ sulla camicia. Issy se ne accorse e fece un timido sorriso. «Si è sporcato la camicia.» «Lo so, ma quando bevo con la cannuccia sembro un idiota.» Poi si sporse verso di lei e Issy si rese improvvisamente conto di quanto fossero lunghe le sue ciglia. Averlo così vicino le parve strano e intimo. «Senta, conosco quelle persone. Sono venute anche da noi per una campagna sull’etica finanziaria e noi gli abbiamo fatto notare che le banche non sono dei campioni di etica e che non potevamo assolutamente garantire che alcuni nostri investimenti non fossero nell’industria della Difesa, visto che è la più importante della Gran Bretagna, e loro si sono messi a urlare dandoci dei fascisti e se ne sono andati tutti offesi. Poi, tempo dopo, ci hanno contattato per chiederci un prestito. Erano sedici soci, fra l’altro. Il loro business plan comprendeva riunioni settimanali di quattro ore per rendere più


equa la cooperativa che però, a quanto pare, finiscono quasi sempre in rissa.» Issy sorrise con aria mesta. Era evidente che Austin stesse cercando di tirarla su. Lo avrebbe fatto per chiunque, ma era comunque d’aiuto. «E non si preoccupi della “solidarietà tra caffè”. In realtà, su quella strada si odiano tutti. Davvero, se un locale andasse a fuoco, farebbero salti di gioia. Quindi non pensi che si coalizzeranno contro di lei. Non riescono nemmeno a coalizzarsi per pulire il bagno, come ho avuto modo di verificare personalmente un giorno in cui Darny ne ha avuto bisogno. Troppe verdure fanno malissimo alla digestione.» Issy scoppiò a ridere. «Così va meglio.» «Sa,» disse Issy «non sono sempre così. Anzi, prima di diventare un’imprenditrice ero un tipo molto spiritoso.» «Sicura?» le chiese Austin con aria grave. «Non è che era peggio e questa è la sua versione allegra?» Issy sorrise di nuovo. «Ah sì, ha ragione... adesso mi ricordo. Prima ero una dark e non mettevo mai il naso fuori di casa. E ascoltavo un sacco di musica impegnata e sospiravo continuamente, così...» E fece un gran sospiro. Austin la imitò. «Per questo ha pensato di lanciarsi nel business dei cupcake felici...» osservò lui. «Che lei non mangia mai.» «Per ottimi motivi.» «E comunque sì, questa è la mia versione raggiante.» «Lo sapevo.» Issy si sentiva davvero meglio. «Okay» disse Austin, facendo un altro gran sospiro. «Mi ha convinto. Mi dia uno dei suoi cupcake deprimenti.» «Eh no!» «In che senso no? Sono il suo consulente finanziario. Me ne dia subito uno.» «Non posso» rispose Issy indicando le facce arrossate e stravolte dei bevitori mattutini seduti al bar. «Quando è andato in bagno, li ho offerti a loro. Sembravano affamati e hanno apprezzato molto.» Austin scosse la testa mentre si alzavano, salutati allegramente dalla fila di poveri vecchi al bancone. «È proprio un cuore tenero, signorina Randall» disse aprendole la porta. «Lo prenderò come un complimento, signor Tyler.» «Non...» cominciò Austin con improvviso fervore, ma si interruppe subito, scioccato da quanto volesse... no, non doveva vederla in quel modo. Voleva semplicemente che Issy avesse successo. Tutto qui. Era una persona simpatica con un bel locale e voleva davvero che le cose per lei andassero bene. E quel moto di inspiegabile tenerezza che lo aveva invaso vedendo quella lacrima scenderle lungo la guancia... era pura e semplice empatia. Punto e basta. Issy, da parte sua, alzò gli occhi sul suo viso bello e gentile e desiderò per un attimo di essere ancora nel pub più squallido e puzzolente del mondo. «Non cosa?» «Non sia troppo tenera, Issy. Non negli affari. Dia per scontato che chi la circonda sia stronzo come quella donna, che, magari le interessa saperlo, si chiama Rainbow Honeychruch, anche se il suo certificato di nascita riporta Joan Millson...»


«Mi interessa molto saperlo.» «...e sa, Issy, se vuole sopravvivere, se vuole che la sua attività funzioni, deve indurirsi un po’.» Issy pensò alle facce stanche e scontente dei negozianti di prima e si domandò se avevano dovuto indurirsi anche loro. Affrontare le difficoltà. Sporcarsi le mani. E Austin si domandò se era davvero convinto di quello che diceva. Era ovvio che Issy dovesse indurirsi e combattere per il successo del suo caffè. Ma forse era una persona migliore così com’era. «Ci proverò» promise Issy, con un’espressione preoccupata. «Bene» disse lui con aria grave, stringendole la mano. Lei sorrise e ricambiò la stretta. A un tratto, nessuno dei due voleva interrompere quel contatto. Per fortuna, proprio in quel momento il telefono di Issy squillò. Era il numero del caffè: Pearl che voleva sapere dove fosse finita, probabilmente. Così fu lei a staccarsi per prima, in preda all’agitazione. «Mm... ma è lo stesso se per questa volta evito di passare di nuovo da quella strada? Non vorrei che mi lapidassero.» «Sì, meglio evitare. Hanno dei biscotti duri come sassi.»


12

TORTA AL BRANDY E LATTE AL MALTO HORLICKS PER STARE MEGLIO

Una bella torta carica di energia per farti stare meglio, come quella volta che sei tornata da scuola dopo una giornataccia. Si stava facendo sera e avevi freddo, così hai imboccato la strada di casa, hai visto le luci accese e Marian era ancora lì; ti ha coccolato un po’, ti ha dato qualcosa da mangiare e ti sei subito sentita meglio. Questa torta è così: ti fa sentire meglio. Non dovrebbe essere troppo pesante, e può essere offerta anche a chi non è in forma. Issy, tesoro, mandamene una, così posso uscire di qui. 8 once di burro morbido 4 once di zucchero extrafine 5 uova ½ lattina di latte condensato zuccherato 8 once di latte al malto Horlicks 8 once di farina ½ cucchiaino di estratto di vaniglia 2 cucchiai di cognac Imburra una teglia quadrata piccola e ricoprila di carta da forno. Se ne usi una più bassa, fa’ in modo che la carta esca dai bordi di un paio di centimetri. Sbatti il burro e lo zucchero fino a ottenere un composto chiaro e cremoso. Aggiungi un uovo alla volta e incorpora il tutto, quindi versa il latte al malto, la farina e, infine, la vaniglia e il cognac, mescolando. Metti il composto nella teglia (la riempirà quasi tutta, ma non preoccuparti, cara, non lieviterà molto) e coprila con un foglio d’alluminio. Cuoci a vapore a fuoco alto per 30 minuti. Se, dopo la prima mezz’ora, è rimasta poca acqua, aggiungine dell’altra. Cuoci a fuoco medio per altri 60 minuti o finché la torta è cotta (volendo, si può tenere sul fuoco fino a un massimo di quattro ore: in questo modo, secondo la saggezza popolare, la torta si mantiene anche per un mese). Ricordati di aggiungere acqua se il livello si abbassa troppo. La signora Prescott, la commercialista, stava rimbrottando Issy a proposito del flusso di cassa della settimana. Era metà aprile e i raggi del sole calante filtravano attraverso le veneziane del seminterrato. Issy era stanca morta; non riusciva neanche a ricordarsi dove fosse la pentola a pressione. Le faceva male la schiena perché era stata in piedi tutto il giorno per servire un totale di sedici clienti. Pearl era uscita prima dopo aver ricevuto una telefonata dalle maestre: a quanto


pareva, Louis era irrequieto. «È tutta colpa dei suoi compagni. Sono odiosi» aveva sibilato lei. «Lo fissano e fanno dei giochi cretini che lui non conosce, tipo giro giro tondo, così lo escludono.» Issy si era meravigliata. «Stupidi snob» aveva chiosato Pearl. «Non può impararli anche lui, quei giochi? Glieli insegno io se vuoi.» «Non è questo il punto» aveva ribattuto Pearl, per poi aggiungere con voce sommessa: «Lo prendono in giro». Issy rimase di stucco. Aveva notato che la mattina Louis mangiava sempre più lentamente il suo muffin e se ne stava seduto sul bancone a canticchiare fra sé. Non faceva i capricci, ma la sua consueta effervescenza andava scemando man mano che si avvicinava l’ora di andare all’asilo. A volte Issy lo prendeva in braccio, e lui le si aggrappava come un koala: le piangeva il cuore al pensiero di mandarlo via. «E cosa gli dicono?» aveva chiesto Issy, stupita di essere così arrabbiata. Pearl aveva risposto con voce soffocata: «Ciccione». «Ah.» «Perché, cos’ha mio figlio che non va?» ribatté Pearl sulla difensiva. «È bellissimo, perfetto! È solo un po’ paffuto.» «Vedrai che si ambienterà presto. Per lui l’asilo è un mondo nuovo.» Alla fine Issy aveva comunque concesso a Pearl il pomeriggio libero. Anche se avevano pochi clienti e molti tavoli restavano vuoti, Pearl puliva i bagni, lucidava i tavoli e lavava i braccioli e le gambe delle sedie tutti i santi giorni. Il caffè era sempre uno specchio. Forse era quello il problema, pensò Issy in un momento di calma: la gente aveva paura di sporcarlo. «Il fatto è» disse la signora Prescott «che deve controllare le scorte. Annotare quali sono gli ingredienti che usa di più. Lo so che non sta a me criticare la sua gestione, però compra troppa roba che, a quanto sembra, poi finisce per buttare via. O per regalare.» Issy si guardò le mani e farfugliò: «Lo so. È che mio nonno dice sempre che... se fai del bene, se dai qualcosa, ti torna indietro». «Sì, be’, è difficile tenere la contabilità delle buone azioni» ribatté l’altra sprezzante. «Ed è anche difficile pagarci un mutuo.» Issy aveva ancora lo sguardo fisso sulle mani. «Mio nonno ha avuto successo e ha fatto del bene!» «Questi sono tempi più duri» osservò la signora Prescott. «La vita è più frenetica e la memoria più corta. Non crede?» «Non lo so. So solo che voglio gestire un posto accogliente, tutto qui.» La commercialista alzò le sopracciglia e non aggiunse altro. Ma pensò che doveva cercarsi un’altra cliente. Pearl era già abbastanza turbata tornando a casa quella sera. Poi l’aveva visto, seduto con aria disinvolta sullo scalino della porta sul retro come se avesse semplicemente dimenticato le chiavi di casa. Sentì la manina del figlio cominciare a tremare di eccitazione. Meno male che aveva il pannolino, altrimenti se la sarebbe fatta addosso. Pearl percepiva che una parte di Louis voleva correre incontro a quell’uomo, e che l’altra sapeva che avrebbe dato un dispiacere alla mamma. E che a volte riceveva da quell’uomo abbracci, regali e promesse, a volte no. Pearl deglutì. Era solo questione di tempo: presto si sarebbe sparsa la voce che aveva uno stipendio. E magari lui le avrebbe chiesto un prestito. Purtroppo, pensò, Ben era ancora un gran


bell’uomo. Louis aveva preso da lei il sorriso dolce, ma il resto del suo bel faccino era merito del padre: gli zigomi alti, le ciglia lunghe. «Ehilà!» esclamò Ben, come se non fosse scomparso da cinque mesi senza farsi vivo neppure a Natale. Pearl gli lanciò un’occhiataccia, mentre Louis continuava a stringerle forte la mano. «Ehi, ometto! Come ti sei fatto grande!» «Ha le ossa grosse» ribatté Pearl in automatico. «È bellissimo. Vieni a salutare il tuo papà, Lou.» Ovviamente cominciò a piovere. E cos’altro poteva fare Pearl se non offrire a Ben una tazza di tè? Sua madre era seduta sul divano a guardare le telenovele. Quando lo vide, si limitò a sollevare le sopracciglia senza prendersi la briga di salutarlo. «Buonasera, signora McGregor» disse invece lui in tono volutamente cerimonioso, per nulla sorpreso di non ricevere risposta. Si inginocchiò davanti a Louis, che era ammutolito, e infilò una mano in tasca. Pearl accese il bollitore nell’angolo cottura, osservandoli attentamente e mordendosi il labbro. Aveva preparato un bel discorsetto da fare al signor Benjamin Hunter, ora che si era degnato di farsi vivo. Ci aveva riflettuto a lungo e aveva parecchie cose da dirgli. Sulle sue bugie, sulle sue nottate fuori casa, sul fatto che non le mandava un soldo per Louis anche quando lavorava. Anzi, anche quando aveva un buon lavoro. Gli avrebbe fatto una bella ramanzina sulle sue responsabilità verso di lei e verso il bambino, e gli avrebbe detto di crescere o di smetterla di tormentare Louis. Poi vide gli occhi di suo figlio, spalancati di sorpresa e adorazione, quando il padre gli mostrò una pallina. «Guarda» disse Ben, lanciandola contro il pavimento di linoleum. La palla schizzò verso l’alto e urtò il soffitto, poi rimbalzò a terra e di nuovo sul soffitto. Louis scoppiò a ridere. «Ancora, papà! Ancora!» Ben lo accontentò e, nel giro di cinque minuti, la pallina rimbalzava in ogni angolo del piccolo appartamento, con Louis e Ben che le correvano dietro, disturbando la nonna, che fumava davanti alla tv, e urlando come matti. Alla fine, entrambi con il fiatone, si misero a sedere. Pearl stava cuocendo le salsicce. «Ne hai abbastanza per un uomo affamato?» le chiese lui, facendo il solletico al piccolo. «Ti va che papà resti a cena, giovanotto?» «Sì! Sì!» strillò Louis. Pearl si incupì. «Louis, vai dalla nonna. Tu, Ben, vieni fuori che devo dirti una cosa.» Lui la seguì, accendendosi una sigaretta. “Perfetto,” pensò Pearl “un altro fantastico modello per Louis”. Uscirono, e Pearl cercò di evitare gli sguardi dei vicini. «Sei in forma» esordì Ben. «Smettila!» esclamò lei. «Smettila. Non puoi... piombare qui dopo cinque mesi e fare finta che non sia successo niente.» Avrebbe voluto dirgli molte altre cose, ma, pur essendo una donna forte, sentì che le parole le si smorzavano in gola. Ben, comunque, la lasciò finire. Non era da lui. In genere partiva sulla difensiva e aveva sempre la scusa pronta. Pearl cercò di riacquistare la calma, seppure con grande fatica. «Non lo dico per me» continuò. «Davvero. Io l’ho superata e sto benissimo. Lo dico per Louis. Non capisci quant’è crudele nei suoi confronti? Quando ti vede è al settimo cielo, poi tu sparisci per mesi. Non è in grado di comprendere.


Pensa che te ne vai per colpa sua, perché non è abbastanza buono.» Fece una pausa, poi aggiunse con voce sommessa. «Solo che lui è buono. È meraviglioso. E tu te lo stai perdendo.» Ben sospirò. «Lo so, solo che... non voglio sentirmi vincolato.» «Be’, avresti dovuto pensarci prima.» «Anche tu» ribatté lui, con qualche buona ragione. Era così bello, Ben, così simpatico e, al contrario della maggior parte degli uomini che lei aveva conosciuto, aveva anche un lavoro. Si era lasciata trasportare. Lei non poteva addossargli tutte le colpe, ma lui non poteva nemmeno presentarsi quando gli pareva e poi sparire di nuovo. «Ho pensato che per Louis fosse meglio vedermi ogni tanto che non vedermi affatto. No?» «Non lo so. Vederti regolarmente... sì, sarebbe bello per lui.» Ben aggrottò la fronte. «Be’, non posso pianificare così a lungo termine.» “Perché?” pensò Pearl. “Io lo faccio sempre.” Ben finì la sigaretta e la spense sul cassonetto dei rifiuti. «Quindi posso tornare dentro o no?» Pearl valutò le alternative: negare a Louis la possibilità di passare del tempo prezioso con il padre... o dare a Ben una bella lezione. Tanto Ben l’avrebbe ignorata comunque. Sospirò. «Sì.» Ben si diresse verso la porta. Mentre le passava accanto, le porse bruscamente una busta. «Cos’è?» chiese Pearl, sorpresa. Poi la tastò: c’erano dei soldi dentro. Non molti, ma abbastanza per comprare a Louis un nuovo paio di scarpe da ginnastica. Ben alzò le spalle, imbarazzato. «Tua madre mi ha detto che il posto dove lavori non arriverà alla fine del mese. Ho pensato che potessero servirti finché non ti ridanno il sussidio di disoccupazione.» Pearl indugiò un istante fuori, stupefatta, stringendo la busta e sentendo Louis che faceva il verso della tigre, finché le salsicce non cominciarono a bruciarsi. Accidenti, persino Ben sapeva che il caffè era spacciato. «Cos’è che ti piace di più in assoluto, Darny?» chiese Austin, cercando di finire un’e-mail destinata a sua nonna, che viveva in Canada, mentre camminava insieme al fratello, capriccioso come sempre, lungo la strada affollata. Darny ci pensò su. «I segreti dell’antica arte marziale del jujitsu» rispose infine. «E l’Inquisizione spagnola.» Austin sospirò. «Be’, non posso dirlo alla nonna. Non puoi farti venire in mente qualcos’altro?» Darny rifletté un altro po’, trascinando i piedi sul marciapiede. «Lo snowboard.» «Vuoi dire lo sci. Non hai mai fatto snowboard in vita tua.» «Ai miei compagni di scuola piace un sacco. Dicono che è uno sballo. Quindi immagino che sia quello che vuoi sentirmi dire. Scrivilo pure se vuoi, a me non importa.» Austin gli lanciò un’occhiata guardinga. Quella di Darny era una buona scuola e il quartiere in cui vivevano era diventato più elegante negli ultimi anni. Ormai c’erano molti bambini più benestanti di lui, e, crescendo, stava cominciando a notarlo. «Be’, credo che ti piacerebbe. Dovremmo farlo insieme una volta o l’altra.» «Non dire stupidaggini. Primo, non mi ci porteresti mai, secondo, mi farebbe schifo, terzo, dovremmo metterci dei cappelli da deficienti. De-fi-cien-ti» ripeté Darny, scandendo la parola nel caso al fratello fosse sfuggita. «Okay» sospirò Austin, digitando “sci” sul BlackBerry. Tanto sua nonna non sarebbe mai venuta a controllare. Era anziana e ancora devastata dalla perdita del suo unico figlio, ma sembrava che, dopo aver vissuto la più grande tragedia della sua vita, si fosse sentita esonerata dal fare qualsiasi altra


cosa: non aveva mostrato il minimo interesse verso i nipoti, a parte qualche sporadica richiesta di notizie e un piccolo assegno a Natale. Austin aveva rinunciato a capire. Le famiglie, grandi o piccole che fossero, erano così strane... Strinse Darny a sé. «Ehi!» esclamò lui. Austin si voltò di scatto. «Sirene! È un camion dei pompieri!» gridò Darny. «Andiamo a vedere. Voglio vedere.» Austin sorrise. Ogni volta che temeva che il fratello si trasformasse troppo in fretta in un adolescente imbronciato, il bambino di dieci anni che era in lui alzava la testa. Come sempre, però, Austin ebbe l’impulso di tirarsi indietro. Un tempo, quelle sirene erano state per i loro genitori. Viveva nel terrore di assistere di nuovo a uno spettacolo simile. «Meglio di no, Darny» disse, cercando di dirottarlo su un negozio di caramelle. «I camion dei pompieri» salto su Darny. «Di’ alla nonna che quello che mi piace di più in assoluto sono i camion dei pompieri.» Pearl e Issy erano entrambe immerse nei loro pensieri, quando udirono uno schianto che squarciò il silenzio di quel sabato mattina. Poi, un rumore di lamiera accartocciata e vetri infranti, seguito da urla improvvise e allarmi di automobili e clacson impazziti. Si precipitarono subito fuori, insieme ai due clienti, due ragazzi studiosi che avevano collegato i portatili alla presa e stavano approfittando del wi-fi e dell’elettricità gratis da più di quarantacinque minuti dopo aver ordinato un cappuccino e una bottiglia di acqua minerale. «Oh, no» mormorò Issy. Pearl si portò la mano alla bocca e ringraziò il cielo che Louis fosse a casa con la madre. Il 73, l’enorme autobus articolato odiato da tutti, era rovesciato su un fianco, come un giocattolo lanciato dal cielo da un bambino annoiato. Alto poco meno delle case vicine e lungo quanto metà della strada, bloccava completamente la circolazione; l’odore di bruciato era terribile e da un ammasso di metallo e tubi si levava del fumo. Un taxi con il tettuccio ammaccato aveva inchiodato, fermandosi di traverso, a cavallo dello spartitraffico; dietro si intravedeva la Ford Escort, bianca e sporca, che l’aveva tamponato. Ma l’immagine più inquietante era una bicicletta accartocciata in mezzo alla strada, alcuni metri più in là. Il cuore di Issy batteva all’impazzata. «Oddio» mormorò uno dei ragazzi con il portatile. Issy, stordita, infilò la mano nella tasca del grembiule alla ricerca del cellulare e lanciò un’occhiata a Pearl, che stava già chiamando il pronto intervento con il suo. «Presto!» esclamò l’altro ragazzo. «Dobbiamo tirarli fuori!» Solo allora Issy alzò lo sguardo, come al rallentatore, e vide che l’autobus era pieno di passeggeri che urlavano e gesticolavano. Molte persone accorsero dai negozi, dalle fermate dell’autobus, dalle case per dare una mano. In lontananza, si udì la prima sirena. Issy prese di nuovo il cellulare. «Helena» disse con voce strozzata. Sapeva che la sua coinquilina aveva il giorno libero, ma era a poche decine di metri di distanza. «Mm?» borbottò lei, ancora mezza addormentata. Nel giro di pochi secondi era perfettamente sveglia e si stava vestendo. I passeggeri a un’estremità dell’autobus battevano contro il finestrino, che non voleva saperne di rompersi. Vedendo il fumo uscire dal motore, Issy si domandò, come tutti del resto, se sarebbe


esploso. In teoria no, però aveva sentito storie di autobus che avevano preso fuoco. Poteva succedere qualsiasi cosa. Un uomo al centro del veicolo stava disperatamente cercando di aprire le porte dall’interno. Uno dei ragazzi col portatile si stava già arrampicando sul fianco, aiutato da alcune delle persone accorse. Issy sentiva delle grida provenire dall’interno. Il conducente sembrava privo di sensi. Un ragazzo, che con la sua tuta aderente di lycra ormai a brandelli e il walkie-talkie ancora alla cintura doveva essere un corriere in bicicletta, giaceva svenuto vicino al canale di scolo, con il braccio piegato a un angolo innaturale. A un tratto, si udì un urlo di donna. Issy si voltò e fu sollevata nel vedere Helena correre a perdifiato lungo la strada. «Quaggiù» gridò Issy, facendole strada. «È un’infermiera! È un’infermiera!» Helena si affrettò verso il ragazzo mentre le sirene si avvicinavano sempre più. «Sono uno studente di medicina» disse un ragazzo sul marciapiede. «Allora vieni con me, e non fare il saputello!» Issy si guardò intorno e, nel trambusto generale, scorse una persona dall’aria imperturbabile emergere da Pear Tree Court. Era il proprietario della ferramenta, l’uomo che, quando il caffè aveva aperto, non si era nemmeno degnato di venire a presentarsi. Mentre tutti gli altri erano immobili per lo shock o si agitavano come matti, lui camminava tranquillamente con un’enorme cassetta di metallo in mano. Doveva pesare una tonnellata, ma lui sembrava non fare alcuno sforzo. Issy lo seguì con lo sguardo mentre si avvicinava all’autobus, si inginocchiava accanto al parabrezza sul lato del conducente, apriva la cassetta e tirava fuori un grosso martello. Facendo segno ai passeggeri terrorizzati di stare indietro, colpì il vetro tre o quattro volte finché non si frantumò. Poi prese un paio di pinze e levò i grossi frammenti appuntiti ancora attaccati alla guarnizione di gomma del finestrino. Solo a quel punto disse alle persone intrappolate all’interno di venire avanti; la prima fu una bimba urlante, che lui affidò alla persona più vicina, cioè a Issy. «Oh» mormorò lei. «No, non piangere.» La bimba gridava a squarciagola, il viso rosso e caldo affondato nella sua spalla. Issy le accarezzò la testa di capelli neri, tentando di calmarla. «Sst» sussurrò. Due secondi dopo ecco spuntare la madre, visibilmente sconvolta. Il passeggino, tutto accartocciato, restò a bordo. «Ecco sua figlia» le disse Issy. «Pensavo fosse... fossimo...» farfugliò la donna, in preda all’agitazione. La bimba, di nuovo al sicuro tra le braccia familiari della madre, singhiozzò ed emise un flebile lamento, ma poi sembrò decidere che il pericolo era scampato e appoggiò il faccino rigato di lacrime nell’incavo del collo della mamma, voltandosi a fissare Issy con i suoi occhioni neri. «Va tutto bene» disse lei, mettendo una mano sulla spalla della donna. «Va tutto bene.» E mentre osservava gli altri passeggeri emergere dall’autobus, chi con la testa fra le mani, chi con i vestiti strappati, tutti con la stessa espressione scioccata e incredula, pensò che forse la situazione non era poi così grave... Nessuno sembrava essere ferito gravemente. A parte il ragazzo in bicicletta. Gli lanciò un’occhiata, ma non vide altro che la sagoma imponente di Helena china su di lui, mentre gesticolava all’indirizzo dello studente di medicina. Sentì un nodo alla gola: chiunque fosse, era uscito di casa quella mattina senza sapere a cosa sarebbe andato incontro. Anche l’autista era ancora accasciato sull’enorme volante. «Allontanatevi dall’autobus!» gridò con fare perentorio il proprietario della ferramenta. I curiosi ciondolavano sul marciapiede, senza sapere come aiutare i passeggeri confusi con gli occhi sbarrati. «Potrebbe preparare qualcosa di caldo per queste persone. Lo zucchero fa bene dopo uno shock»


disse poi rivolto a Issy. «Ma certo!» esclamò lei, dandosi della stupida per non averci pensato prima. E si precipitò nel locale a mettere a scaldare l’acqua. Cinque minuti dopo, quando cominciarono a distribuire tè e dolci alle vittime, arrivarono i soccorsi e la polizia isolò la strada con un cordone. Furono tutti entusiasti del tè caldo e delle focaccine offerti da Issy e Pearl. Nel frattempo il conducente dell’autobus, che stava già cominciando a muoversi, era stato caricato sull’ambulanza. Helena e lo studente di medicina, che si chiamava Ashok, avevano stabilizzato il ragazzo in bicicletta e ricevuto i complimenti dei colleghi dell’ambulanza, che avevano preso un paio di cupcake da mangiare dopo aver trasportato i pazienti al pronto soccorso. I sopravvissuti stavano già facendo amicizia, scambiandosi storie su dove stessero andando prima dell’incidente e dicendo che tanto lo sapevano tutti che quegli autobus articolati avrebbero causato dei guai prima o poi; la gioia dello scampato pericolo li rese loquaci ed eccitati, come se fossero a una festa, e tutti andarono a ringraziare Issy. Una o due persone osservarono che, pur vivendo lì vicino, non sapevano dell’esistenza del caffè, e il fotografo del giornale locale, che arrivò poco dopo, non si limitò a immortalare l’autobus distrutto, ma anche Issy che sorrideva insieme ai passeggeri. (Il proprietario della ferramenta, invece, era scomparso silenziosamente com’era arrivato: Issy non l’aveva neanche visto andare via.) La settimana successiva, sulla «Walthamstow Gazette» uscì un articolo dal titolo: «Cupcake, panacea di tutti i mali». E, da quel momento, le cose cominciarono a cambiare. Prima, però, al Cupcake Café si ritrovarono con le scorte terminate. Tra i dolci che Issy aveva distribuito ai sopravvissuti sconvolti e ammaccati e quelli che aveva venduto ai curiosi, non era rimasto nemmeno un granello di farina né una goccia di latte. La grossa e recalcitrante macchina per il caffè era stata costretta a un superlavoro. Del resto, pensò Issy col senno di poi, era fatta per essere usata. Solo non le piaceva fermarsi e ripartire, ma come biasimarla? Esausta, lanciò un’occhiata a Pearl, che stava lavando il pavimento. «Andiamo a bere qualcosa?» chiese. «Perché no?» rispose l’altra sorridendo. «Ehi!» gridò Issy rivolta a Helena, che guardava fuori dalla finestra con un’aria assorta che non era da lei. «Vieni a bere con noi?» Andarono in un grazioso wine bar e si rilassarono davanti a una bottiglia di rosé. Pearl non lo aveva mai assaggiato e trovò che sapesse di aceto, ma lo sorseggiò coraggiosamente, sforzandosi di ignorare la rapidità con cui le altre due svuotavano i bicchieri. «Dio, che giornata» sospirò Issy. «Secondo te tutta quella gente tornerà a trovarci?» Helena alzò il bicchiere verso Pearl. «Immagino tu abbia già avuto modo di conoscere il lato catastrofista della tua datrice di lavoro.» Pearl sorrise. «Che vuoi dire?» saltò su Issy. «Io sono un’ottimista.» Helena e Pearl si scambiarono un’occhiata eloquente. «Be’, forse catastrofista no... ma insicura sì.» «Ho avviato un’attività tutta mia! Se non è ottimismo questo!» «E soprattutto credi ancora che un giorno Graeme farà di te una donna onesta» disse Helena attaccando il secondo bicchiere. Issy avvampò.


«Chi è Graeme?» chiese Pearl. «Nessuno» rispose Issy. «Il mio ex.» «Nonché suo ex capo» aggiunse Helena. «Ahi. Non è una bella cosa.» Issy sospirò. «Ho voltato pagina. E sto cercando di riprendere in mano la mia vita.» «Era simpatico?» domandò Pearl, che non si sentiva nella posizione di dare consigli sugli ex. «No» rispose Helena. «Sì, invece!» protestò Issy. «Tu non lo conoscevi da quel punto di vista. Aveva anche un lato sensibile.» «Immagino venisse fuori quando non ti ordinava di andare a casa sua dall’altra parte della città, in taxi, nel cuore della notte, per preparargli i tuoi manicaretti.» «Lo sapevo che non avrei dovuto raccontartelo.» «E invece hai fatto bene» ribatté Helena, saccheggiando un pacchetto di patatine. «Altrimenti adesso sarei qui a dirti: “Sì, Graeme è davvero bellissimo, devi assolutamente fargli da zerbino per riconquistarlo”.» «Però è bello davvero» mormorò Issy. «Ecco perché si specchia in ogni superficie riflettente» osservò Helena. «Meno male che l’hai superata.» «Già» disse Issy. «E che ti sei presa una cotta per quel bancario.» Issy lanciò un’occhiata a Pearl. «Helena!» Pearl le sorrise. «Lo sapevo già.» «Non è vero! E, per vostra informazione, anche se non me ne lamento continuamente, Graeme mi manca ancora.» Pearl le diede un colpetto affettuoso sulla mano. «Non preoccuparti, so quanto può essere difficile dimenticare qualcuno.» «Davvero? A vederti, sembra che tu non abbia mai sofferto per una cosa del genere in vita tua.» «Ah sì?» ribatté l’altra in tono beffardo. «Cos’è, sono completamente asessuata?» «Ma no!» esclamò Issy. «È che sembri così... tranquilla.» Pearl alzò un sopracciglio. «Certo, Issy, come no. A proposito, stasera il papà di Louis, Barack Obama, mi manda l’elicottero per portarmi a casa.» «Lo vedi ancora il padre di Louis?» chiese Helena, diretta come sempre. Pearl si sforzò di non risponderle con un sorrisetto ironico. Stava cercando di fare la dura. Se persino Issy era riuscita a mettere alla porta un fidanzato deludente, il minimo che lei potesse fare era mostrarsi un po’ più risoluta con Benjamin. A proposito, che ore erano...? «Be’, lui vede suo figlio» rispose, consapevole di tradire una certa fierezza. «Che tipo è?» domandò Issy, ansiosa di spostare il discorso sui problemi amorosi di qualcun altro. «Dunque,» rifletté Pearl «mia madre mi diceva sempre che bello è chi il bello fa... ma non le ho mai dato ascolto.» «Neanch’io ho mai voluto ascoltare la mia» osservò Issy. «Diceva sempre: “Non legarti”. A me invece piacerebbe molto.» «O farti legare» aggiunse maliziosamente Helena. «Solo che nessuno vuole farlo, almeno, non con me. Quindi non sono legata» concluse Issy sospirando e chiedendosi se un altro bicchiere di rosé le sarebbe stato d’aiuto. Probabilmente no, ma, date le circostanze, valeva la pena di provare.


«Be’, guardati, hai un’attività tutta tua e oggi hai anche venduto un bel po’ di cupcake» la incoraggiò Helena. «Non hai bisogno di un cretino con la mascella volitiva con cui pomiciare. E poi agli uomini piacciono le donne che sanno cucinare e portano abiti a fiori: pensano che sei il tipo che la sera gli prepara un Martini come negli anni Cinquanta. Vedrai, li attirerai come mosche. Fidati.» «Quando si dice il bicchiere mezzo pieno» scherzò Issy, piuttosto sollevata. «E a te cosa diceva tua madre?» chiese Pearl a Helena. «Fatti i fatti tuoi» rispose prontamente lei. Scoppiarono tutte a ridere e fecero tintinnare i bicchieri.


13

«Dov’e il mio ometto?» chiese Issy a Pearl che era appena arrivata al caffè. In verità era un po’ in ritardo, ma Issy le era così riconoscente che avrebbe chiuso un occhio sulle piccole cose. «Mi manca.» Pearl sorrise a denti stretti e corse a prendere l’aspirapolvere e la scopa per pulire prima dell’apertura. «Gli piace stare con la nonna» rispose, rendendosi conto di restituire un’immagine un po’ troppo idilliaca della loro casetta triste e spenta. «Comunque passo subito lo straccio. Fra un po’ cominceranno ad arrivare i clienti.» Si scambiarono un sorriso: dopo l’incidente, il caffè aveva registrato un flusso costante di visite da parte delle persone coinvolte: personale dell’ambulanza, curiosi, la mamma con la bambina, e Ashok, che un giorno era passato per chiedere il numero di telefono di Helena. Issy aveva aggrottato la fronte in segno di disapprovazione, poi però si era fatta dare quello del ragazzo – che si era scusato prontamente –, e lo aveva consegnato a Helena, aspettandosi che lo buttasse nell’inceneritore dell’ospedale. Gli autosnodati erano stati sostituiti con dei classici double-decker, che erano più belli da vedere e andavano più veloce, ma avevano molti meno posti. Di conseguenza parecchi passeggeri non riuscivano a salire nelle ore di punta, così andavano a prendere un caffè per ingannare l’attesa. Issy aveva iniziato a comprare dei croissant: avendo solo due mani, non sarebbe riuscita a prepararli da sola. Su consiglio di François aveva contattato un fantastico fornaio francese, che ogni mattina alle sette in punto le consegnava scatole piene di pain au chocolat, croissant normali e alle mandorle, talmente buoni che alle nove erano già finiti. Poi arrivava l’ondata del caffè mattutino; Mira e la piccola Elise, che avevano fatto amicizia con altre mamme, venivano spesso e chiacchieravano animatamente in rumeno sedute sul divano grigio che stava iniziando ad assumere l’aspetto vissuto che Issy aveva sperato. Ogni tanto facevano un salto anche alcune mamme eleganti dell’asilo di Louis; se riconoscevano Pearl, lei sorrideva brevemente, poi si affrettava a servire limonate e succhi di frutta biologici. Anche l’ora di pranzo era piuttosto frenetica, mentre il pomeriggio era più tranquillo, con le madri che, uscite dall’ufficio, compravano scatole da mezza dozzina o persino da una dozzina di cupcake per le feste pomeridiane dei figli. Issy stava pensando a delle tessere fedeltà per i clienti, in modo da favorire ordini speciali o personalizzati. E poi, tra un momento di ressa e l’altro, c’erano da preparare tè, caffè, succhi di lampone, servire cupcake al mirtillo con glassa alla vaniglia e generose fette di torta di mele; e ancora lavare, asciugare, spedire gli ordini ai fornitori, pagare le fatture, evadere la corrispondenza, pulire i tavoli, sorridere ai bambini e salutare i clienti abituali, attaccare bottone con i passanti e aprire altre confezioni di latte, burro, uova. Alle quattro Issy e Pearl erano pronte a sdraiarsi su uno degli enormi sacchi di farina in magazzino (Pearl dava lo straccio anche lì, perché fosse splendente come il resto). In altre parole, il Cupcake Café stava a galla. Boccheggiava leggermente e aveva bisogno di essere


raddrizzato dalla ciurma, ma stava a galla. Anzi, stava prendendo il largo. Issy lo percepiva come una creatura vivente, ormai, come una parte di lei. Era il suo pensiero fisso. Di sera studiava i libri contabili insieme alla signora Prescott; di notte sognava glasse e creme al burro; di giorno pensava a chiavi, consegne e roselline di zucchero. Gli amici la invitavano a uscire e lei rispondeva di no; Helena sghignazzava e diceva che sembrava innamorata. E, nonostante fosse stanca, o meglio, esausta per il fatto di lavorare sei giorni alla settimana dalla mattina alla sera; nonostante desiderasse ardentemente uscire a bere qualcosa senza pensare alle conseguenze; nonostante avesse voglia di sedersi sul divano a guardare la tv senza calcolare le scorte, le date di scadenza, i maledetti guanti usa e getta; nonostante ogni volta che sentiva qualcuno pronunciare la parola “vacanza” scuoteva la testa incredula, in fondo, era felice come non mai. E lo fu ancora di più quando cominciò a guadagnare i soldi per l’affitto, per le bollette, per lo stipendio di Pearl e, infine, per sé, grazie a qualcosa che faceva con le sue mani e rallegrava il prossimo. Alle due del pomeriggio entrò un folto gruppo di mamme, alcune con enormi passeggini a tre ruote. Il negozio era talmente piccolo che Issy avrebbe voluto chiedere loro di lasciarli fuori in modo da non azzoppare altri clienti, ma aveva un po’ paura di quelle donne di Stoke Newington, che erano in perfetta forma malgrado avessero tutte due figli e avevano sempre i capelli freschi di parrucchiere e portavano jeans attillati e tacchi alti. Certo, doveva essere stancante fare di tutto per essere identiche alle proprie amiche, pensava a volte Issy. D’altra parte, era lieta che venissero al caffè. Salutò e sorrise calorosamente, ma loro la ignorarono e posarono lo sguardo su Pearl, che non sapeva se essere felice di vederle. «Ehm, ciao» disse a una di loro, che si guardò intorno. «Be’, dov’è quel tesorino di Louis?» chiese. «In genere è sempre qui, da qualche parte. Non può che trovarsi a suo agio in una pasticceria.» Issy riconobbe una voce familiare e alzò gli occhi, verificando, con una punta di nervosismo, che apparteneva a Caroline, la donna che voleva fare del Cupcake Café un locale per salutisti. «Salve, Caroline» disse Pearl stoicamente. Poi addolcì la voce per rivolgersi alla bambina bionda dallo sguardo serio e al bimbo ancora nel passeggino accanto al tavolo. «Ciao, Hermia! Ciao, Achilles!» Issy si avvicinò timidamente per salutare, ma Caroline sembrò ignorarla apposta. «Oh, non ci faccia caso. Sono stati cattivi tutta la mattina.» A Issy non sembravano cattivi. Stanchi, forse. «Conosci Kate, vero?» «Che meraviglia!» esclamò Kate guardandosi intorno con aria d’approvazione. «Stiamo ristrutturando la casa dall’altra parte della strada. Avevamo proprio bisogno di un posto del genere. Per non far svalutare l’immobile, sa?» Kate aveva due bambine, evidentemente gemelle, che se ne stavano sedute sullo stesso sgabello tenendosi per mano. Una aveva un caschetto corto e una salopette rossa, l’altra lunghi riccioli biondi e una gonnellina rosa con un’ampia sottogonna. «Come sono carine!» esclamò Issy avvicinandosi. «Ah, salve, Caroline.» Lei rispose con un regale cenno del capo. «Sono molto stupita che questo posto stia prendendo il via» disse in tono sprezzante. «Sono venuta a vedere come mai.» «Ha fatto bene!» replicò allegramente Issy, chinandosi verso le due bambine. «Ciao, gemelline!» «Sono due persone distinte. È molto nocivo per i gemelli non essere trattati come tali. Devo


faticare molto per costruire le loro identità individuali» intervenne Kate. Issy annuì con aria rassicurante. «Immagino» disse, anche se in realtà non aveva capito nulla. «Lei è Seraphina» disse Kate indicando la bambina con i riccioli biondi. «E lei è Jane.» Seraphina sorrise graziosamente, mentre Jane aggrottò la fronte nascondendo il viso contro la spalla della sorella, che le accarezzò la manina con fare materno. «Be’, benvenute. Di solito non facciamo servizio ai tavoli, ma, visto che sono qui, cosa desiderate?» Pearl era tornata alla sua postazione dietro il bancone sotto il grazioso festone di bandierine che avevano attaccato al muro, ma Issy – come giurò a Helena più tardi – riuscì comunque a sentirla alzare gli occhi al cielo. «Dunque...» disse Kate dopo aver studiato a lungo il menu. Le due gemelle, che dovevano avere più o meno quattro anni, si alzarono e si avvicinarono alla vetrina dei cupcake, alzandosi in punta di piedi e appoggiando i nasini contro il vetro. «Ehi, piccole! Via la faccia dal vetro» disse Pearl in tono fermo ma gentile. Le bimbe si allontanarono subito, ridacchiando, ma continuarono a fissare la glassa. Hermia guardò la madre. «Per favore, posso...» azzardò. «No» rispose Caroline con decisione. «Siediti, e stai composta. Assieds-toi!» La bambina lanciò uno sguardo triste alle amichette. «Oh, lei è francese?» chiese Issy. «No» rispose Caroline, lisciandosi i capelli. «Perché, sembro francese?» «Prendo un tè alla menta» decise infine Kate. «Avete anche delle insalate?» Issy evitò accuratamente di incrociare lo sguardo di Pearl. «No. Solo dolci, almeno per ora.» «Biscotti biologici?» «Abbiamo una torta alla frutta.» «Con farina di spelta?» «Ehm, no, con farina vera» rispose Issy, che non vedeva l’ora che quella conversazione finisse. «Frutta secca?» «Qualcosa.» Kate lanciò un sospiro, come se non riuscisse a credere di dover soffrire certe privazioni. «Possiamo mangiare un cupcake, mamma? Ti preego!» la supplicò Jane dal bancone. «Devi dire: “Posso mangiare un cupcake”, Jane. Al singolare.» «Allora posso mangiare un cupcake, per favore?» «Anch’io, anch’io!» strillò Seraphina. «Oh, tesori miei...» Kate sembrò sul punto di cedere. «Per caso non ha dell’uvetta?» chiese a Issy. «Eh... no» rispose lei. Kate sospirò. «Peccato. Che ne dici, Caroline?» Lei rimase impassibile, ma Issy capì, forse dalle sopracciglia appuntite, che era delusa. Lanciò un’occhiata a Hermia, che guardava le amichette con una lacrima che le scendeva lungo la guancia. Fu Achilles a risolvere la situazione. «Mamma, cupcake! Adesso! Mammina, cupcake! Cupcake, mamma!» strillò, rosso in viso, armeggiando con la cintura del passeggino. «Su, amore,» lo blandì Caroline «lo sai che i cupcake non ci piacciono.» «Cupcake! Cupcake!»


«Oddio. Non so se potremo tornare in questo posto.» «Cupcake! Cupcake!» «Dicono che lo zucchero renda i bambini iperattivi.» Issy avrebbe voluto sottolineare che i suoi cupcake erano naturali al cento per cento e che i loro figli non ne avevano ancora mangiato neanche uno. «Va bene» disse infine Caroline, sperando che Achilles la smettesse di sbraitare. «Due cupcake. Non importa quali. Hermia, mangia lentamente, per favore, sennò ti gonfi come...» e si interruppe. «Sì!» gridarono le gemelline. «Io voglio quello rosa!» esclamarono all’unisono, con una voce così simile che Issy si domandò come fosse possibile distinguerle. «Non potete mangiare quello rosa tutte e due» protestò debolmente Kate, aprendo il «Daily Mail». «Jane, tu prendi quello marrone.» Poco dopo Caroline si avvicinò al bancone. «Certo che questo posto è d’altri tempi» osservò. «Sa, anche a me piace cucinare... Cose molto più sane, ovviamente, e poi noi mangiamo per lo più cibi crudi. Però a un certo punto mi sono detta: devo proprio avere una cucina a isola per i miei esperimenti... Anzi, forse» disse lanciando un’occhiata alle scale «il mio forno è anche più grande del suo. Quello principale, ovviamente. Perché ho anche un forno a vapore e uno a convezione. Ma niente microonde. Che aggeggio malefico.» Issy sorrise cortesemente e Pearl soffocò una risata. «Ho un’infinità di cose da fare adesso... Ho cominciato a fare beneficenza, mio marito lavora nella City, sa... Magari un giorno potrei portarle una delle mie ricette! Le invento io. Certo, è difficile coltivare il proprio lato creativo, non crede? Dopo la maternità, intendo.» E, così dicendo, guardò Issy, che si sforzò di sembrare gentile agli occhi di una cliente, anche se era un’idiota e stava insinuando che lei sembrava abbastanza vecchia e grassa da avere un sacco di figli. Caroline, invece, pesava quanto una quattordicenne. «Certo, portaci pure le tue ricette» intervenne Pearl, visto che Issy taceva, attonita. «Ehm... Caroline, tuo figlio si è tolto il pannolino e lo sta mettendo nella tua borsa di Hermès.» Caroline si voltò di scatto e lanciò un urlo. «Sono tutte così?» chiese Issy dopo che le mamme se ne furono andate, con Achilles che urlava, Hermia che singhiozzava in silenzio e le gemelle che avevano tagliato i loro cupcake a metà e se le erano scambiate in modo che le loro torte fossero esattamente uguali, con sommo disgusto di Kate. «No, ce ne sono di molto peggio. Una dice che non insegnerà al figlio a usare il vasino finché non deciderà di farlo da solo.» «Be’, mi pare giusto» osservò Issy. «Mettiamogli il pannolino fino a undici anni. Si risparmia un sacco di tempo. Lo lascia anche cucinare?» «Certo che no. Orlando mangia solo verdure crude e germogli di non so che. Peccato che lo abbia beccato a rubare il Mars di Louis.» Issy alzò le sopracciglia ma non aggiunse altro. Non aveva neanche chiesto a Pearl perché fosse così distratta: non voleva forzarla a confidarsi con lei. Alle quattro e mezzo del venerdì pomeriggio, dopo la settimana più frenetica in assoluto, Issy e Pearl erano distrutte. Issy chiuse a chiave la porta e girò il cartello da APERTO a CHIUSO. Poi scesero nel seminterrato e tirarono fuori dal frigo l’ormai consueta bottiglia di vino bianco del fine settimana. Il sabato stava diventando sempre più movimentato, soprattutto verso l’ora di pranzo, ma in generale era una giornata tranquilla, quindi il venerdì potevano concedersi una piccola distrazione senza gravi


conseguenze. Avevano preso anche un’altra abitudine, che di sicuro sarebbe stata censurata dagli ispettori sanitari, se mai lo avessero scoperto: dopo aver chiuso la cassa, si accasciavano sui grossi sacchi di farina che tenevano in cantina, usandoli come poltrone sacco. Issy riempì il bicchiere di Pearl fino all’orlo. «È stata la settimana migliore da quando abbiamo aperto.» Pearl alzò stancamente il bicchiere. «Direi proprio di sì.» «Certo, non era difficile fare meglio dei primi tempi» rifletté Issy. «Ma in prospettiva...» «Ah,» disse Pearl «mi sono dimenticata di dirti che ho incontrato il tipo carino della banca.» Adesso era lei a occuparsi delle questioni finanziarie. Issy si illuminò. «Ah sì? Austin? Ehm, cioè, chi?» Pearl le lanciò un’occhiata delle sue e Issy sospirò. «Okay. Come sta?» «Perché me lo chiedi?» Issy si sentì avvampare e nascose il viso con il bicchiere. «Così, per curiosità» rispose con voce stridula. Pearl sorrise e rimase in attesa. «Quindi?» la incalzò Issy. «A-ah! Lo sapevo! Se fosse semplice curiosità non saresti così ansiosa.» «Non è vero! Il nostro è un rapporto esclusivamente... professionale.» «Quindi è un rapporto?» la punzecchiò Pearl. «Smettila! Cos’ha detto? Ti ha chiesto di me?» «Era circondato da una quindicina di modelle in lingerie e stava per entrare in una Jacuzzi, quindi non mi ha detto molto, sai.» Issy protestò finché Pearl non cedette. «Stava molto bene. Si è tagliato i capelli.» «Peccato, mi piacevano.» «Chissà per chi se li è tagliati.... forse per te.» Issy finse che quell’osservazione non le facesse piacere. Tanto i tipi come Austin erano sempre impegnati. E magari la sua ragazza era anche carina e simpatica. Era sempre così, concluse con un sospiro. Doveva farsene una ragione. In fondo, adesso era una donna in carriera. Ci avrebbe pensato in futuro. Peccato, però. Per un attimo, si ritrovò a immaginare di accarezzare la nuca di Austin, dove era rimasta una ciocca di capelli, e... «E...» aggiunse Pearl, vedendo che Issy sognava a occhi aperti e supponendo, correttamente, che stesse fantasticando sul bel consulente finanziario (e non per la prima volta) «mi ha detto che aveva un messaggio per te.» «Come?» «Un-messaggio-per-te.» Issy raddrizzò la schiena. «Cioè?» Pearl cercò di ricordare le parole esatte. «Era: “Le dica che gliel’ha fatta vedere”.» «Gliel’ha fatta vedere? Cosa? A chi?» chiese Issy. «Ah...» esclamò un istante dopo, capendo che Austin si riferiva agli altri gestori di bar di Stoke Newington. «Ah...» ripeté, arrossendo. Aveva pensato a lei! Pensava a lei! Okay, forse solo dal punto di vista dell’investimento finanziario, ma... «Gentile da parte sua.» Poi, sentendo su di sé lo sguardo inquisitore di Pearl, aggiunse: «Una cosa fra me e lui».


«Ah sì? Be’, perfetto, così te lo tieni buono.» Issy le lanciò un’occhiata. «E tu? Come va la tua vita sentimentale?» Pearl fece una smorfia. «Si vede tanto che va male?» «Hai pulito lo stesso bagno quattro volte. Te ne sono grata, però...» «No, no, lo so. È che... il padre di Louis è venuto a trovarci.» «Ah. E questo è: a, positivo; b, negativo; c, ottimo; d, disastroso, o nessuna delle quattro?» «Forse è e, non lo so» rispose Pearl. «Sì, decisamente questa.» «Mm. E Louis è contento?» «Raggiante» rispose Pearl in tono cupo. «Ti va se cambiamo discorso?» «Certo! Ehm... okay... dunque... okay. Be’, siccome siamo qui con un bicchiere di vino, tanto vale che te lo dica. È una domanda delicata, ma... sbaglio o sei dimagrita?» Pearl alzò gli occhi al cielo. «Forse. Ma non di proposito» rispose in tono di sfida. «Lo sai che non mi dispiace se mangi le scorte» si affrettò ad aggiungere Issy, temendo di averla offesa. «Sai, non dirlo ai clienti ma... Ecco, tu sei una pasticciera formidabile, però...» Issy la guardò: aveva uno sguardo birichino. «È che... ultimamente non ho molta voglia di dolci. Mi dispiace, Issy! Davvero! Non è colpa tua! Non mi licenziare!» Issy si mise a ridere. «Oddio, Pearl, ti prego, non dire così.» «Perché?» «Perché non mangio un cupcake da sei settimane.» Si guardarono inorridite, poi scoppiarono entrambe a ridere. «Ma come siamo ridotte? La prossima volta apriamo una friggitoria?» «Certo» disse Issy. «Patate fritte per tutti i gusti.» «È che questo posto me lo sogno di notte, ormai» spiegò Pearl. «E di giorno ci penso sempre. Non sto dicendo che non sia bellissimo, Issy, davvero. Ma gli orari... sono devastanti.» «Ti capisco. Dover ammettere che non ho più voglia di cupcake equivale a rinnegarmi completamente. Come persona, proprio.» «Non va bene. Potrebbe essere un problema per i controlli di qualità» osservò Pearl. «Mm. Forse abbiamo bisogno di assumere qualcun altro.» Pearl strinse il pugno in segno di vittoria senza farsi vedere da Issy, ma si limitò a mormorare: «Mm», come se non le interessasse più di tanto. Issy non immaginava che trovare un altro collaboratore fosse così difficile. Erano tempi duri e la gente cercava disperatamente un lavoro, no? Credeva che le sarebbe bastato mettere un annuncio in vetrina e avrebbe risolto il problema in dieci secondi netti. Anzi, si era persino chiesta se non sarebbe riuscita ad accaparrarsi un bravo pasticciere licenziato da qualche hotel di lusso che non voleva lavorare la sera e che si sarebbe... ehm... accontentato di un salario minimo più le mance. Invece le persone che risposero all’annuncio in vetrina e a quello che pubblicò in seguito sulla «Stoke Newington Gazette» e che elogiava il successo del caffè ringraziando la comunità per il prezioso sostegno, si rivelarono tutte inadeguate. (Mentre scriveva il testo, Issy non riuscì a reprimere un sorriso sprezzante pensando alle facce dei gestori degli altri caffè quando lo avrebbero letto. Era un annuncio bellissimo con una grafica meravigliosa: prima o poi avrebbe dovuto iniziare a pagare Zac.) Alcuni di quelli che si presentarono per il colloquio non fecero altro che dire peste e corna dei


loro precedenti datori di lavoro; uno annunciò che aveva bisogno del martedì e del giovedì pomeriggio liberi per andare dall’analista; un altro chiese quando avrebbe avuto un aumento di stipendio e almeno quattro non avevano mai preparato una torta in vita loro ma non pensavano che sarebbe stato così difficile. «Infatti non è così difficile» spiegò Issy a Helena, che si stava truccando. «Il problema è che quella gente non riesce neanche a fingere di amare i dolci. È così assurdo pretendere che siano anche solo minimamente interessati a questo lavoro? Dio, sono trascorse settimane ormai.» «Sembra che hai cinquemila anni» osservò Helena, passandosi un ombretto di un verde dorato luccicante che, su di lei, non era affatto volgare, anzi, la faceva sembrare una dea. Non che Ashok non l’avrebbe comunque trattata come tale. Stranamente, il fatto che Issy fosse così occupata aveva spinto Helena verso di lui. Le mancava la sua migliore amica e le dispiaceva non avere nessuno con cui uscire. Non era un problema essere single se c’era Issy. Ma guardare le repliche di America’s Next Top Model tutte le sere da sola era deprimente. Un giorno Ashok, particolarmente carino con il camice e una T-shirt rosa che metteva in risalto i suoi enormi occhi scuri, le si era avvicinato con nonchalance mentre lei cercava di eliminare una pozza di vomito (in teoria sarebbe toccato agli addetti alle pulizie, ma trovarne uno significava telefonare al centralino ed essere messa in attesa per mezz’ora prima di riuscire a comunicare con l’impresa che si era aggiudicata l’appalto. Francamente era più semplice farlo da sola, dando in più il buon esempio alle infermiere più giovani). «Immagino tu sia molto impegnata giovedì sera» aveva esordito lui. «Ma, nel caso in cui non lo fossi, mi sono preso la libertà di prenotare un tavolo da Hex, quindi fammi sapere.» Helena lo aveva osservato mentre si allontanava lungo il corridoio. Hex era un nuovo ristorante alla moda: ne parlavano tutti i giornali e pareva quasi impossibile accaparrarsi un tavolo. Ovviamente, lei non avrebbe accettato. Non le piaceva l’atteggiamento remissivo di Ashok. Neanche un po’. «Sei bellissima» disse Issy, come se vedesse Helena per la prima volta. «Ma come fai a stare bene con quella roba sugli occhi? Io sembrerei un panda.» Helena le rivolse un sorriso enigmatico e continuò a truccarsi. «A ogni modo, cosa fai? Dove vai?» «Fuori» rispose Helena. «In un posto che non è casa tua e non è il tuo locale. Un posto dove ha luogo quella che la gente chiama vita sociale.» In condizioni normali, avrebbe detto chiaramente a Issy dove stava andando. Ma era combattuta, un po’ perché sentiva che l’argomento avrebbe richiesto una conversazione più lunga, e un po’ perché non aveva voglia di sopportare gli sfottò che avrebbe ricevuto per aver infranto tutti i suoi principi accettando di uscire con uno specializzando del primo anno sottopagato, nervoso e con le mani perennemente sudate. Gli specializzandi erano da sempre oggetto di battute da parte sua e di Issy. Arrivavano in due tornate, a febbraio e a settembre, e finivano con l’essere così grati a Helena per i suoi buoni consigli, il suo naturale carisma e il suo magnifico seno che almeno uno di loro la corteggiava per settimane con fiori e occhiate languide. Lei non aveva mai ceduto. Mai. «Quando tornerai nel mondo reale, lo scoprirai.» Issy avvampò. «Dai, non arrossire!» esclamò Helena, sinceramente sorpresa di averla turbata. «Non volevo. Anzi, in questi giorni stavo proprio pensando che ti sei fatta più agguerrita.» «Piantala!»


«No, davvero, l’attività imprenditoriale ti ha fatto bene, signorina Randall. Non sei più la ragazza che conoscevo, quella che aveva paura di andare dal medico anche solo per curarsi una verruca sul dito.» Issy sorrise al ricordo. «Pensavo che mi sarei dovuta togliere le mutande.» «Non ci sarebbe comunque stato niente da temere.» «No, infatti.» «E ora guardati! Sei un’imprenditrice! Se fossi un po’ più stupida e un po’ più antipatica potresti andare in tv.» Issy aggrottò la fronte. «Lo prenderò come un complimento. Detto da te, lo è senz’altro. Però hai ragione, sono cambiata. E sono anche diventata noiosa. Non penso ad altro che al Cupcake Café.» «Senti un po’, e quel bel tipo della banca con i capelli spettinati e gli occhiali di corno?» «Cosa?» «Niente... Mi fa piacere sapere che non te ne stai lì ad aspettare che torni Graeme.» «Infatti non lo sto aspettando. Senti, e se venissi con te?» Helena cominciò a mettersi il mascara. «Ehm... no, non puoi.» «Perché no? Giusto per distrarmi un po’ dal lavoro.» «Perché non puoi.» «Lena, hai un appuntamento?» Lei continuò a mettersi tranquillamente il mascara. «Hai un appuntamento! Con chi? Raccontami tutto!» «Te lo avrei detto prima, se avessi smesso un secondo di parlare del Cupcake Café. Adesso sono in ritardo.» E, così dicendo, baciò Issy sulla guancia e uscì dalla stanza lasciando una scia di Agent Provocateur. «È uno sbarbatello?» le chiese Issy correndole dietro. «Dai, confessa. Deve esserci un motivo se non me lo dici.» «Non sono affari tuoi» ribatté Helena. «Ho ragione! È un dottorino!» «Non sono affari tuoi.» «Carino da parte sua portarti fuori tra un omicidio colposo e l’altro.» «Zitta!» «Quindi ognuno pagherà per sé.» «Piantala!» «Ti sei portata un libro per quando si addormenterà sul tavolo?» «Levati dai piedi!» «Ti aspetto alzata» cinguettò Issy. «Col cavolo!» ribatté Helena allontanandosi. Tanto a Issy si chiudevano gli occhi già alle nove. Il mattino successivo, subito dopo l’assalto ai croissant, Pearl stava piegando le nuove scatole che avevano ordinato. Erano a righe colorate, con il nome del caffè in bella vista, e potevano contenere dodici cupcake. Per completare la confezione avrebbero avvolto intorno un bel nastro rosa. Erano semplicemente deliziose, ma ci voleva un po’ di tempo per capire come piegarle e Pearl stava facendo pratica in modo da diventare velocissima. La campanella sopra la porta tintinnò e Pearl alzò gli occhi sull’orologio; ancora pochi minuti di pace prima dell’assalto delle undici. Si asciugò la fronte. Certo, era bello avere qualcosa da fare, ma


anche stancante. Issy era nel seminterrato e stava provando a fare il primo cupcake alla birra di zenzero del mondo. Nell’aria aleggiava un profumo inebriante di cannella, zenzero e zucchero di canna. I clienti continuavano a chiedere di assaggiarne uno, e, quando Pearl spiegava che non erano ancora pronti, si accampavano accanto alle scale. Uno o due di loro cominciarono a parlare, il che era bello, pensò Pearl, ma proprio quando doveva mettere tutto a posto e sgombrare i tavoli? Quando la clientela era aumentata, alle tazze celesti, verde pallido e color pavone se ne erano aggiunte altre giallo chiaro, e Pearl voleva caricare la lavastoviglie. Era appena arrivata una consegna di uova con le piume ancora attaccate, direttamente dalla fattoria, e doveva firmare il foglio del corriere, togliere le piume e portare il pacco di sotto, il tutto continuando a servire la gente in fila, cosa che non poteva fare perché aveva finito le tazze, e «Issy!» sbraitò. Si udì un rumore di pentole provenire dalla cantina. «Ahia! Aaah, brucia brucia brucia!» gridò Issy. «Vado a mettere il dito sotto il rubinetto!» Pearl sospirò e cercò di mantenere la pazienza davanti a due ragazzine esasperanti che continuavano a cambiare idea su cosa ordinare. A un tratto qualcuno spalancò la porta. Fuori era scoppiato un acquazzone primaverile. L’alberello cercava di opporre una timida resistenza alle avverse condizioni atmosferiche e sui rami erano apparse minuscole gemme. Di tanto in tanto Pearl sgattaiolava nel cortiletto per mettere dei chicchi di caffè intorno al tronco: le avevano detto che facevano bene alle piante, e aveva un forte istinto di protezione verso quel piccolo albero. Nel caffè irruppe una donna che Pearl riconobbe subito con un tuffo al cuore: Caroline, la nazista dell’alimentazione sana, nonché madre di un compagno d’asilo di Louis. La stessa a cui Issy aveva soffiato il locale. Marciò in cima alla fila. Man mano che si avvicinava, Pearl notò che non era impeccabile come sempre. Aveva i capelli scarmigliati con un’evidente ricrescita grigia, ed era completamente struccata. E anche molto dimagrita, quasi pelle e ossa. «Posso parlare con il tuo capo, per favore?» ringhiò. «Ciao, Caroline» rispose Pearl, tentando di concedere a quella donna così ignorante il beneficio del dubbio, nel caso in cui non l’avesse riconosciuta. «Sì, ehm, ciao...» «Pearl.» «Pearl. Posso parlare con il tuo capo?» E si guardò intorno, irrequieta. Sul divano c’era un gruppo di madri che facevano i complimenti ai figli delle altre pur preferendo evidentemente il proprio; due uomini d’affari con i portatili e pile di fogli sparsi ovunque che stavano facendo una riunione accanto alla finestra grande; uno studente che stava cercando di leggere un vecchio classico Penguin ma faticava a concentrarsi perché troppo impegnato a sbirciare un’altra studentessa seduta accanto al camino che scribacchiava appunti su un bloc-notes agitando voluttuosamente la lunga e folta chioma ricciuta, con ogni probabilità di proposito. «Issy!» sbraitò Pearl. Issy comparve in fondo alle scale succhiandosi il dito ustionato. Caroline si appoggiò al muro, battendo nervosamente il piede. Si sporse verso Pearl e le disse: «Sai, mio figlio andrà a scuola a settembre. Ha un sacco di vestiti che non mette più e stavo per buttarli via quando ho pensato che magari potrebbero servirti. Sono della misura giusta, e poi sono tutti di marca». «No, grazie» rispose freddamente Pearl. «Riesco ancora a vestirlo da sola.» «Ah, okay» replicò l’altra, impassibile. «Era solo per risparmiarti un viaggio alla Caritas.»


«Non ho bisogno della carità di nessuno» sibilò Pearl, ma Caroline aveva sentito Issy salire le scale e si era voltata verso di lei. «Oh... salve!» Issy si asciugò le mani con aria guardinga. Caroline e Kate non erano più tornate al caffè e lei l’aveva presa sul personale. Ma gli affari erano affari. «Ehm... si ricorda quando hanno deciso di affittare il locale a lei?» Pearl tornò a servire i clienti. «Sì» disse Issy. «Ha trovato qualcos’altro?» «Ehm... be’, ovviamente ho preso in considerazione molte offerte. Sono sicura che la mia idea sia destinata ad avere successo...» disse Caroline poco convinta. «Ah, bene.» Issy si domandò dove volesse andare a parare. Doveva tornare di sotto a controllare i cupcake alla birra di zenzero. «Mi ha fatto piacere rivederla. Vuole un caffè?» «Veramente...» Caroline abbassò la voce come se fosse sul punto di svelare un segreto inconfessabile. «No. Ehm... okay, il fatto è questo. So che le sembrerà assurdo e inconcepibile e...» Si interruppe, e il suo viso tirato ma ancora bello si contrasse in una smorfia. «Quel bastardo. Quel bastardo di mio marito mi ha lasciato per quella puttanella dell’ufficio stampa... e mi ha detto che devo trovarmi un lavoro!» «Neanche per sogno» disse Pearl più tardi. «No no no e no!» Issy si morse il labbro. Certo, l’approccio era stato poco ortodosso, ma Caroline era sicuramente un tipo in gamba. Era laureata in marketing e aveva lavorato per una prestigiosa società di ricerche di mercato prima di mollare tutto per i figli, come aveva spiegato lei stessa fra i singhiozzi, mentre suo marito si scopava una ragazza poco più che ventenne. Quando aveva smesso di piangere, seduta davanti a un’enorme tazza di tè e a una fetta di torta alle nocciole, era venuto fuori che aveva molte conoscenze nel quartiere; avrebbe potuto trasformare il caffè nel posto dove comprare le torte di compleanno per i bambini, era disposta a lavorare negli orari per loro più comodi. E poi viveva dietro l’angolo... «Ma è odiosa» protestò Pearl. «Non è una cosa di poco conto.» «Forse si è un po’ chiusa in se stessa ultimamente» azzardò Issy, che aveva il cuore tenero. «È terribile essere lasciati» aggiunse poi con la voce strozzata «o capire che un rapporto non funziona.» «Sì, certe esperienze possono renderti egoista e ignorante» ribatté Pearl. «Non ha neanche bisogno di questo lavoro. Dovrebbe andare a qualcuno che si trova davvero in difficoltà.» «Ma lei dice che ne ha bisogno» obiettò Issy. «A quanto pare suo marito le ha detto che se vuole tenersi la casa deve muovere il culo e cominciare a lavorare.» «E deve venire qui a fare la snob? Sappi che ti costringerà a comprare farina integrale, uvetta e succo di agropiro e non farà che parlare di indice di massa corporea e altre stupidaggini.» Issy era combattuta. «Non è che i colloqui che abbiamo fatto finora siano andati così bene. Nessuno dei candidati si è rivelato adeguato. E poi lei lavorerebbe per lo più quando tu non ci sei, quindi non la vedresti così spesso.» «È un piccolo negozio, questo» replicò cupamente Pearl. Issy sospirò e rimandò la decisione. La situazione non migliorò, il che da un lato era fantastico, dall’altro era fonte di parecchi problemi. Il telefono squillava continuamente e la lista di cose da fare si allungava a dismisura; Helena era sempre fuori, e Issy si addormentava sopra il piatto, a cena. In più, non vedeva Janey da quando aveva partorito; Tom e Carla si erano trasferiti nella nuova casa a Whistable e lei non era


riuscita ad andare all’inaugurazione, e Dio, quando aveva cinque minuti liberi sentiva ancora la mancanza di Graeme, di qualcuno che le tenesse la mano e la rassicurasse. Ma non aveva tempo per quelle fantasie, anzi non aveva tempo per niente. Era un bel venerdì di tarda primavera e l’aria tiepida portava con sé la promessa di un piacevole weekend di sole. La gente passeggiava con aria allegra e Issy e Pearl vendevano intere scatole di cupcake al limone con una glassa vellutata e, sopra, un minuscolo semicerchio di frutta cristallizzata. Issy, seppure stremata, era orgogliosa di vedere che la montagna di cupcake che aveva cominciato a preparare la mattina presto si rimpiccioliva a vista d’occhio. In compenso, i clienti ordinavano più bevande fredde, quindi dovevano fare meno caffè e cappuccini. Sebbene Issy fosse ormai in grado di prepararli con rapidità e disinvoltura (le prime volte rovesciava sempre qualcosa), impiegava comunque meno tempo a prendere un succo di sambuco dal frigorifero (Issy aveva continuato a preferire i succhi alle bevande gassate. Erano più in linea con lo stile del caffè. E poi, come aveva sottolineato Austin, avevano migliori margini di profitto). Alle quattro del pomeriggio, quando le acque si erano ormai calmate, la porta si aprì e comparve Keavie che spingeva la sedia a rotelle di nonno Joe. Issy gli corse incontro e gli gettò le braccia al collo. «Nonno!» «Non credo che tu sappia fare bene una meringa» disse lui respirando faticosamente. «E invece sì!» esclamò Issy, offesa. «Assaggia questa!» Gli porse uno dei suoi nuovi cupcake meringati al limone, con la glassa densa e croccante che si rompeva nella pasta soffice. Bastavano due secondi per mangiarlo, ma il ricordo restava impresso nella memoria tutto il giorno. «È troppo dura» sentenziò il nonno. «Perché non hai i denti!» ribatté Issy indignata. «Portami una ciotola. E una frusta. E delle uova.» Mentre Joe e Issy preparavano gli ingredienti, Pearl servì a Keavie una cioccolata calda. Quando Issy si sedette su uno sgabello accanto al nonno, Pearl osservò i riccioli neri vicini alla peluria bianca e li immaginò insieme tanti anni prima. «Ti manca il movimento di gomito» disse Joe che, malgrado l’età, rompeva le uova con una mano sola senza nemmeno guardarle e separava l’albume dal tuorlo in un batter d’occhio. «È perché...» cominciò Issy, interrompendosi subito. «Perché cosa?» «Niente.» «Cosa?» «Perché io uso il frullino elettrico» ammise Issy arrossendo. Pearl scoppiò in una fragorosa risata. «Ecco, vedi. Non mi meraviglia» ribatté il nonno. «Ma non posso non usarlo! Devo prepararne decine ogni giorno! Come farei, altrimenti?» Il nonno si limitò a scuotere la testa e continuò a sbattere le uova. In quel momento, il proprietario della ferramenta passò davanti alla vetrina e Joe gli fece cenno di entrare. «Lo sapeva che mia nipote usa un frullino elettrico per fare le meringhe? Dopo tutto quello che le ho insegnato?» «È per questo che non vengo mai qui» ribatté l’altro. Poi, vedendo l’espressione scioccata di Issy, aggiunse: «Mi perdoni, madame. Non vengo mai qui perché, sebbene sia un posto delizioso, è fuori dalla mia portata».


«Be’, mangi una torta. Una senza meringa. Offre la casa» disse Issy. Pearl gli porse diligentemente un cupcake al cioccolato, ma l’uomo rifiutò. «Come vuole» borbottò lei, ma Issy insisté finché non si arrese. «Ottimo» disse lui, con la bocca piena. «E pensi quanto sarebbe buono se mia nipote avesse usato la frusta a mano» osservò Joe. Issy gli lanciò un’occhiataccia. «Questo è catering industriale, nonno.» Joe sorrise. «Faccio per dire.» «Smettila di fare per dire.» Il nonno le porse la ciotola con gli albumi e lo zucchero perfettamente montati. «Mettici sopra della carta oleata, inforna e fai cuocere per quarantacinque minuti...» «Sì, lo so.» «Okay, pensavo che la cuocessi nel microonde.» Pearl ridacchiò. «È un maestro severo, signor Randall» gli disse, chinandosi sulla sedia a rotelle. «Lo so» rispose nonno Joe in un sussurro perfettamente udibile. «Ecco perché è così brava.» Più tardi, dopo che ebbero gustato le formidabili meringhe del nonno con la panna montata e un cucchiaio di coulis di lamponi, Keavie e Joe se ne andarono con un’enorme scatola di cupcake per gli altri ospiti della casa di riposo. Issy e Pearl si dedicarono alle pulizie. Issy aveva le ossa rotte, ma quella sera avrebbe bevuto un po’ di vino con Pearl: il sabato aprivano alle dieci, quindi avrebbe potuto dormire fino a tardi. Magari la domenica, il suo giorno libero, avrebbe portato il nonno a fare un giro in giardino (anche se lui aveva sempre freddo), e lei avrebbe potuto sdraiarsi su un plaid e leggergli il giornale, e poi forse avrebbe cenato con Helena e avrebbero fatto una bella chiacchierata. Mentre sognava a occhi aperti, godendosi il sole del tardo pomeriggio che filtrava dai vetri, udì la campanella sulla porta e pensò di vedere la faccia allegra di un cliente che già pregustava un dolcetto. Si sbagliava. Issy alzò gli occhi. Sulle prime, non riconobbe la donna che irruppe nel caffè. Poi si rese conto che era Linda, quella della merceria, sempre così tranquilla e composta e perfettamente organizzata. «Ciao!» esclamò Issy, lieta di vederla. «Come stai?» Linda alzò gli occhi al cielo e si guardò intorno. Issy si rese conto con un moto di stizza che era la prima volta che la sua compagna del 73 metteva piede al Cupcake Café. Si era aspettata un maggiore sostegno da parte sua, visto che abitava nel quartiere e avevano atteso insieme tanti autobus col bello e il cattivo tempo. La sua irritazione, tuttavia, svanì all’istante. Linda rimase a bocca aperta. «Mia cara, è un posto delizioso. Non avevo idea. Credevo fosse poco più di un hobby per te. Mi dispiace così tanto! Se solo avessi saputo...» Pearl, che le aveva lasciato il volantino almeno tre volte, le lanciò un’occhiataccia, ma Issy le diede una gomitata, così lei continuò a servire il postino, che veniva un po’ troppo spesso alla fine del suo giro (Issy temeva che mangiare cupcake due volte al giorno non gli facesse bene alla salute, Pearl sospettava che andasse lì per lei: avevano ragione entrambe). «Be’, adesso sei qui» disse Issy. «Benvenuta! Vuoi assaggiare qualcosa?» Linda la guardò preoccupata. «Devo... devo... mi puoi aiutare?» «Che c’è?» «Domani... si sposa Leanne. Ma la pasticceria... Una sua amica le aveva detto che ci avrebbe pensato lei alla torta nuziale, ma poi non so cosa è successo, e Leanne ha speso centinaia di sterline e


non ha la torta.» Issy si rese conto solo in seguito di quanto dovesse essere costato a Linda pronunciare quelle parole sulla sua figlia perfetta che non sbagliava mai un colpo. Sembrava sull’orlo delle lacrime. «Si sposa domani e non ha la torta! E io ho ancora cinquecento cose da fare.» Issy ricordò che era il matrimonio del secolo e che Linda ne parlava da un anno e mezzo. «Okay, okay, calmati. Possiamo aiutarti. Per quante persone sarebbe? Settanta?» «Ehm...» mormorò Linda e borbottò qualcosa che Issy non colse. «Quante?» «...» «Strano, mi sembra di aver capito quattrocento.» Linda alzò gli occhi rossi su di lei. «Andrà tutto a rotoli. Il matrimonio della mia unica figlia! Sarà un disastro!» E scoppiò in lacrime. Alle sette e mezzo erano solo alla seconda infornata. Non ce l’avrebbero mai fatta. Pearl era una santa, un’eroina e una guerriera: era rimasta con Issy senza pensarci due volte (anche se gli straordinari le facevano comodo). Non potendo usare i cupcake di quella mattina, avevano dovuto ricominciare da zero, e inventarsi una struttura che li tenesse tutti insieme a formare una torta nuziale. «Mi fa male il braccio» si lamentò Pearl, mescolando gli ingredienti. «Beviamo qualcosa?» Issy scosse la testa. «Meglio di no. Chissà cosa viene fuori, poi. Oddio, se solo conoscessi qualcuno che...» Si interruppe, guardando Pearl. «Ma certo! Potrei chiamare...» Pearl le lesse nel pensiero. «No. Chiunque ma non lei.» «Non c’è nessun altro. Ho già provato con tutti quelli che conosco.» Pearl sospirò e abbassò gli occhi sulla ciotola. «A che ora è il matrimonio?» «Alle dieci.» «Mi viene da piangere.» «Anche a me. Ma possiamo sempre ricorrere a un’esperta nell’analisi di tempi e procedure.» Pearl dovette riconoscere, seppure a malincuore, che Issy aveva avuto una buona idea. La scheletrica bionda era entrata nel caffè a passo di marcia con indosso un’immacolata divisa da chef, souvenir di un corso di cucina di una settimana in Toscana, un regalo del suo ex marito, che aveva festeggiato la sua assenza in compagnia dell’amante. Poi aveva subito organizzato Issy e Pearl in una catena di montaggio che operava a tempo con il timer del forno. Quando ebbero preso il via, Pearl accese la radio e si ritrovarono tutte e tre a ballare l’una accanto all’altra al ritmo di una canzone pop, aggiungendo zucchero e burro, infornando e glassando, vassoio dopo vassoio senza fermarsi un attimo. La pila di cupcake che avevano davanti cresceva a vista d’occhio. Caroline improvvisò un’alzata per la torta con del vecchio materiale da imballaggio e la ricoprì elegantemente con della carta bianca e decorata che avevano comprato all’edicola. Il tutto mentre raccontava a Issy e a Pearl della torta da novecento sterline che aveva fatto fare per il suo matrimonio da un pasticciere di Milano e che alla fine non era riuscita a mangiare perché aveva trascorso l’intera giornata a parlare con un amico di suo padre che voleva sapere come inserire sua figlia nel marketing, mentre quel bastardo del marito si ubriacava con i compagni di università fra cui la sua ex fidanzata, senza preoccuparsi minimamente di andare a salvarla. «Avrei dovuto capirlo che non avevamo un futuro.» «E perché non l’hai capito?» chiese Pearl in tono brusco. Caroline la guardò. «Oh, Pearl. Se fossi sposata, saresti più comprensiva.»


Pearl la fulminò con gli occhi da dietro il frigorifero. I cupcake erano ricoperti da una soffice glassa alla vaniglia che Issy montava con mirabile disinvoltura e decorati da palline d’argento a formare le iniziali di Leanne e Scott, il futuro sposo. Era quella la parte peggiore. Alle undici e mezzo Pearl cominciò a distribuire le palline a caso, sostenendo che formavano una L e una S. Ciononostante i dolci continuavano ad aumentare e alla fine si trasformarono davvero in una magnifica torta nuziale spolverata di zucchero a velo rosa brillante. «Forza, su, un po’ di impegno!» sbraitava Caroline. Pearl lanciò un’occhiata a Issy. «Pensa già di lavorare qui.» «Forse ha ragione» mormorò Issy. Caroline sorrise radiosa e interruppe per un attimo la catena di montaggio. «Oh, grazie. È la prima cosa bella che mi capita da un po’ di tempo a questa parte.» «Bene» disse Issy. «Ero un po’ preoccupata per te. Sei magrissima.» «Okay, è la seconda cosa bella che mi capita.» Pearl alzò gli occhi al cielo. Ma quando, poco dopo mezzanotte, arrivò finalmente il momento di tornare a casa, dovette riconoscere che non ce l’avrebbero fatta senza di lei. «Grazie» borbottò. «Figurati. Torni a casa in taxi?» le chiese Caroline. «I taxi non ci vengono dove abito io.» «Ah sì? Vivi in campagna? Che meraviglia!» cinguettò Caroline. Issy la accompagnò alla porta prima che si mettesse in guai ancora più grossi e le chiese di cominciare coprendo un turno in pausa pranzo. Poi, se fosse andato tutto bene, le avrebbe aumentato le ore, per la gioia di tutte quante. «Perfetto» disse Caroline. «Dirò al mio gruppo di lettura di incontrarsi qui. E anche a quello di cucito. E a quello di cucina. E al Rotary club. E al corso serale di arte rinascimentale italiana.» Issy la abbracciò «Devi esserti sentita molto sola ultimamente.» «Non sai quanto.» «Spero che presto starai meglio.» «Grazie» mormorò Caroline, e accettò la grossa scatola di cupcake che Issy le mise in mano. «Non guardarmi così» sibilò Issy a Pearl, anche se era in piedi alle sue spalle. «Hai quasi sempre ragione, lo ammetto. Ma solo “quasi”.» La mattina dopo era meravigliosa: tutta la città sembrava vestita per un matrimonio. Pearl e Issy avanzavano a passo d’uomo a bordo di un taxi, terrorizzate all’idea che la loro torta cadesse a pezzi. Fortunatamente, però, tenne duro. La sistemarono al centro di un enorme tavolo coperto da stelline e palloncini rosa. Linda e Leanne corsero loro incontro. Quando la giovane sposa, che indossava una abito rosa senza spalline, scorse le centinaia di soffici cupcake dai colori pastello con la glassa soffice come neve, rimase a bocca aperta, mostrando i denti sbiancati per l’occasione. «Ma è bellissima, stupenda! Mi piace tantissimo! Grazie, grazie davvero» esclamò, abbracciandole entrambe. «Leanne!» sbraitò Linda. «Adesso dovrai rifarti il trucco per l’ennesima volta! La truccatrice si fa pagare a ore, sai.» Lei si asciugò freneticamente gli occhi. «Scusate, non faccio altro che piangere. È tutto così... assurdo. Ma voi, ragazze, avete salvato il mio matrimonio.» In quel momento, una donna entrò di corsa nella stanza e prese a sistemarle i capelli.


«La macchina sta arrivando» disse qualcun altro. «Meno quarantacinque minuti alla partenza.» Leanne aprì la bocca, atterrita. «Oh, mio Dio!» strillò. Poi prese le mani di Pearl e Issy. «Restate, vi prego.» «Ci piacerebbe, ma...» cominciò Issy. «Devo tornare da mio figlio» disse fermamente Pearl. «Ma in bocca al lupo per tutto.» «Sarà un giorno indimenticabile» aggiunse Issy, lasciando una pila di biglietti da visita sul tavolo accanto alla torta. Linda gettò le braccia al collo di entrambe. Issy e Pearl salirono le scale e uscirono nella luce di quella splendida giornata, con i piccioni che si godevano il sole sul marciapiede e i passanti diretti ai mercatini e ai caffè a comprare stoffe per un sari, carne per il barbecue e birra per la partita, formaggio di capra e giornali per il parco e gelati per i bambini. Le amiche di Leanne si stavano già radunando sulle scale con acconciature elaborate e vestiti dai colori vivaci, sandali con il tacco alto e spalle nude, cosa un po’ azzardata per un matrimonio a maggio. Cinguettavano tutte eccitate, complimentandosi l’un l’altra per le mise e giocherellando nervosamente con borsette, sigarette e coriandoli. “Sempre pasticciera e mai sposa” pensò Issy con un pizzico di malinconia. «Bene, abbiamo finito» annunciò allegramente Pearl, togliendosi il grembiule. «Vado a fare due coccole al mio cucciolo e a dirgli che d’ora in poi riuscirà a vedere sua madre di tanto in tanto, visto che la strega cattiva dell’Ovest ha iniziato a lavorare con noi.» «Smettila!» esclamò Issy ridendo. «Andrà tutto bene. E ora sparisci.» Pearl le diede un bacio sulla guancia. «Vai a casa anche tu a riposarti un po’.» Ma Issy non aveva nessuna voglia di riposarsi; era un pomeriggio meraviglioso, e si sentiva ansiosa e irrequieta. Stava pensando di salire su un autobus a caso e andare a fare un giro, quando scorse una figura familiare alla fermata. Un uomo era chino sui lacci delle scarpe di un ragazzino magro con i capelli rossicci spettinati e un’espressione cupa. «Ma io li voglio così!» «Be’, non è possibile, visto che continui a inciamparci!» ribatté l’uomo esasperato. «Li voglio così.» «Almeno cerca di cadere su una pietra del selciato, così possiamo fare causa all’amministrazione comunale.» Austin si raddrizzò, e fu talmente sorpreso di vedere Issy che fece un passo indietro. «Oh, ciao.» «Ciao.» Issy si impose di non arrossire. «Ciao» rispose Austin. Silenzio. «E tu chi sei?» chiese bruscamente il ragazzino. «Be’, io sono Issy. E tu?» «Mm... Darny. Sei una delle fidanzate pallose di mio fratello?» «Darny!» sibilò Austin. «Verrai a casa nostra la sera per preparare cene schifose e dire con una vocina stupida: “Oh, mi dispiace tanto che hai perso la mamma e il papà, ma adesso ci penso io a te”, e a sbaciucchiarmi mentre io penso solo: “Che palle, smettila di dirmi quando devo andare a letto”?» Austin avrebbe voluto sprofondare. Anche se Issy non sembrava offesa, anzi, si vedeva che le veniva da ridere. «Ah, fanno così?» chiese.


Darny annuì deciso. «In effetti sembrano abbastanza pallose. Comunque no, io lavoro con tuo fratello e vivo qui vicino.» «Ah, okay allora» disse Darny. «Okay allora» ripeté Issy. Poi si rivolse a Austin, sorridendo: «Stai bene?». «Starò bene quando mi farò asportare chirurgicamente quest’appendice di dieci anni.» «Ah-ah-ah» ribatté Darny. «Non era una risata vera» aggiunse poi rivolto a Issy. «Volevo essere sarcastico.» «Ah sì, a volte lo faccio anch’io.» «Dove stavi andando?» le domandò Austin. «Sarai contento di sapere che ho lavorato tutta la notte per preparare una torta nuziale. E ho assunto un’altra persona. È in gamba... Ha un caratteraccio, ma nell’insieme...» «Fantastico!» esclamò Austin, sorridendo. Issy si rese conto che era davvero felice per lei, non solo perché era una buona notizia per la banca. «Veramente ti aveva chiesto dove stavi andando» intervenne Darny. «Perché noi siamo diretti all’acquario. Vuoi venire?» Austin alzò le sopracciglia: non era mai successo. Darny detestava gli adulti e li trattava male per evitare che facessero i simpatici con lui. Non aveva mai invitato qualcuno di sua iniziativa. «Be’, stavo pensando di andare a riposare.» «Di giorno?» chiese Darny. «Devi farlo per forza?» «In realtà no.» «Okay» disse lui. «Allora vieni con noi.» Issy lanciò un’occhiata a Austin. «È meglio che...» Austin sapeva che non era professionale, e probabilmente Issy non ne aveva nemmeno voglia. Ma non poteva farci niente: quella ragazza gli piaceva. Avrebbe provato a insistere. «Vieni, dai. Ti offro un frappuccino.» «Questa si chiama corruzione» ribatté Issy sorridendo. «Sappi che è solo per questo che passerò il pomeriggio a guardare i pesci.» In quel preciso istante l’autobus spuntò da dietro l’angolo e, un attimo dopo, salirono tutti e tre a bordo. L’acquario era silenzioso: la prima giornata di sole dell’anno aveva spinto molti londinesi a fuggire dalla città. Darny era letteralmente ipnotizzato dai banchi di pesciolini argentati e dagli enormi celacanti che sembravano venire dall’epoca dei dinosauri. Austin e Issy, invece, parlavano; piano, perché quell’ambiente sotterraneo caldo e buio ispirava un tono di voce sommesso e favoriva piccole rivelazioni. Nella penombra era più facile comunicare, senza riuscire a vedere altro che il profilo dei riccioli di Issy che si stagliava contro le meduse rosa e luminose, o il riflesso fosforescente delle vasche sugli occhiali di Austin. Issy ebbe l’impressione che le preoccupazioni legate al caffè, che l’avevano assillata per mesi, si allentassero nella strana tranquillità infusa dall’acqua. Austin la fece ridere raccontandole delle marachelle di Darny e commuovere spiegandole, senza alcuna autocommiserazione, quanto fosse difficile essere un padre single senza essere nemmeno un padre. Issy, dal canto suo, si ritrovò a parlare di sua madre; di solito, quando menzionava la sua famiglia, tesseva le lodi del nonno, raccontando di come avessero sempre vissuto insieme e dipingendo un quadro idilliaco. Ma avere di


fronte qualcuno che sapeva cosa significasse perdere per sempre un genitore aveva reso più facile parlare di come sua madre fosse sempre entrata e uscita dalla sua vita, cercando di essere felice e rendendo infelici tutti quanti. «I tuoi genitori erano felici?» gli chiese. Austin rifletté. «Sai, non ci ho mai pensato. I genitori sono genitori e basta, no? Finché non cresci, non pensi mai a loro come persone. Però sì, credo che fossero felici. Li vedevo toccarsi spesso, ed erano sempre molto vicini, fisicamente, intendo. Si abbracciavano, si sedevano sempre l’uno accanto all’altra.» Issy si guardò istintivamente la mano appoggiata al vetro di una vasca piena di anguille che sfrecciavano da tutte le parti. Non era lontana da quella di Austin. Pensò a come sarebbe stato stringergliela in quel momento. Si sarebbe tirato indietro? Sentiva le dita fremere per l’emozione. «Senza considerare il fatto che hanno avuto un figlio quando erano già anziani e i loro amici diventavano nonni. Insomma, da quel punto di vista le cose andavano a gonfie vele. Certo, all’epoca lo trovavo disgustoso...» «Non è vero. Scommetto che hai voluto bene a tuo fratello fin dall’inizio.» Austin lanciò un’occhiata a Darny, che seguiva, a occhi spalancati, i movimenti sinuosi dello squalo. «Certo» borbottò lui, voltandosi leggermente e allontanando la mano da quella di Issy, improvvisamente imbarazzata. «Mi dispiace. Non volevo essere indiscreta.» «Non è quello. È solo che... mi sarebbe piaciuto conoscerli, sai? Da adulto, non da ragazzino cresciuto.» «Mi stai facendo venire voglia di telefonare a mia madre.» «Dovresti.» Stavolta fu Issy a voltarsi dall’altra parte. «Ha cambiato numero» sussurrò. E, senza quasi rendersene conto, Austin le prese la mano per stringerla leggermente, ritrovandosi poi a non volerla più lasciare andare. «Gelato!» strillò una voce squillante accanto a loro. Issy e Austin si staccarono subito. Era troppo buio laggiù, pensò Issy. Sembrava un locale notturno. «Ho parlato con lo squalo» annunciò Darny con aria solenne. «Mi ha detto che sarei un ottimo biologo marino e anche che avrei fatto bene a mangiare un gelato. Adesso. Subito.» Austin guardò Issy, cercando di cogliere la sua espressione, ma era impossibile nella penombra. A un tratto si sentì a disagio. «Ehm... gelato?» le chiese. «Volentieri!» esclamò lei. Si sedettero tutti e tre in riva al fiume a osservare le barche che passavano e, sopra, l’enorme ruota del London Eye. Si divertivano così tanto insieme che Issy aveva perso la cognizione del tempo. Quando Darny scese finalmente dall’arrampicatoio e prese la mano di Issy nella sua, piccola e appiccicosa, mentre uscivano dal parco, a Issy non dispiacque affatto, anzi, ne fu lieta (Austin era stupefatto). Poi decisero di trattarsi bene e prendere un taxi per tornare a Stoke Newington. Durante il tragitto Darny, dopo aver tentato di spingere tutti i pulsanti, si rannicchiò sul sedile e si addormentò con la testa appoggiata sulla spalla di Issy. Qualche minuto dopo, mentre il taxi avanzava lentamente nel traffico, Austin si voltò a guardare Issy e vide che anche lei si era addormentata, le guance rosee, i riccioli neri mischiati con i capelli dritti di Darny. Continuò a guardarla fino a casa.


Issy era incredula: si era addormentata sul taxi. Okay, la notte prima non aveva riposato, però... E se aveva russato? Oh, che cosa terribile. Quando si erano salutati, Austin si era limitato a sorriderle gentilmente... Oddio, doveva aver russato, perché altrimenti... magari le avrebbe chiesto un altro appuntamento. Anche se quello non era stato un vero appuntamento, giusto? Giusto? No. Sì. No. Ripensò al momento in cui lui le aveva preso la mano, a quanto avrebbe voluto che continuasse a tenerla nella sua. Gemette infilando la chiave nella porta: Helena avrebbe sicuramente saputo cosa fare. Vide la sua immagine riflessa nello specchio appeso nell’ingresso, sopra la carta da parati a fiori un po’ retró di cui andava così fiera. Tra i capelli aveva un’enorme striscia bianca di farina della torta nuziale. «Helena?! Lena! Ho bisogno di te!» sbraitò andando dritta verso il frigo, dove sapeva di avere un paio di bottiglie di rosé. Poi si fermò e si voltò: l’amica era sul divano; accanto a lei c’era un ragazzo dall’aria familiare. Ostentavano entrambi l’espressione innocente di chi non ha fatto nulla di male. «Ciao» mormorò. «Ciao!» esclamò Helena. Issy la scrutò. Ma...? No, impossibile. Helena era forse arrossita? Ashok era visibilmente compiaciuto. Conoscere gli amici di Helena era un bel passo avanti. Balzò subito in piedi. «Ciao, Isabel, che piacere rivederti» disse, stringendole la mano. «Sono...» «Ashok. Sì, lo so.» Era molto più carino di quanto lei ricordasse, senza quel camice troppo corto da novellino. Approfittò di un momento in cui lui non guardava per alzare maliziosamente le sopracciglia all’indirizzo di Helena, che fece finta di non vederla. «Cos’è che volevi chiedermi?» le domandò lei, nel tentativo di cambiare discorso. «Ehm, niente di importante» rispose Issy, avvicinandosi al frigo. «Chi vuole un po’ di vino?» «Ha chiamato tuo nonno» disse Helena, quando si furono accomodati tutti in cucina. Ashok era di ottima compagnia, versava il vino ed era molto simpatico. «Ah, bene. Cosa voleva?» «Voleva sapere se ti era arrivata la ricetta per gli scones alla vaniglia.» «Ah, sì» mormorò Issy. Il problema era che l’aveva ricevuta quattro volte, sempre con la stessa calligrafia tremolante. «E» aggiunse Helena «non mi ha riconosciuto al telefono.» «Ah.» «Sa bene chi sono.» «Già.» «Non c’è bisogno che ti dica cosa significa.» «No» sussurrò Issy. «Ieri sembrava in forma.» «Va e viene» disse Helena. «Lo sai.» «Mi dispiace» intervenne Ashok. «È successa la stessa cosa a mio nonno.» «Ed è guarito?» gli chiese Issy. «Tutto è tornato come prima, come quando eri piccolo?» «Ehm... non proprio» rispose lui, offrendole un altro po’ di vino. Issy si sentì improvvisamente esausta. Diede a entrambi la buonanotte e se ne andò barcollando a letto. «Chiamo la casa di riposo» annunciò Issy la mattina, dopo un lungo sonno ristoratore.


«Bene» disse Helena. «Cosa volevi da me ieri sera?» «Ah, sì. Dunque...» E le raccontò della giornata trascorsa con Austin. L’amica sorrise, sorniona. «Smettila. È la stessa identica faccia che fa Pearl ogni volta che viene fuori il nome di Austin. Voi due siete in combutta.» «È un bel ragazzo...» «A cui devo un sacco di soldi. Non va bene.» «Non hai fatto niente» osservò Helena. «Nooo...» «A parte russare.» «Non ho russato.» «Speriamo che gli piacciano le donne che russano.» «Piantala!» «Be’, almeno ti ha visto al tuo peggio. Da qui in poi si può solo migliorare.» «Chiudi il becco!» Helena sorrise. «Secondo me ti chiama.» Il cuore di Issy prese a battere forte. Anche solo parlare di lui era così... bello. «Dici?» «Magari vuole sentirti russare un altro po’.» Austin la chiamò davvero. Martedì mattina. Ma non era il tipo di telefonata che avrebbe voluto fare. Non solo a Issy, a nessuno. Concluse una volta per tutte che, per quanto lei fosse bella, dolce e interessante, non aveva senso alimentare quel rapporto: non si potevano mischiare gli affari e il piacere, punto e basta. Il problema era che doveva comunque telefonarle. E il fatto che Darny continuasse a girare per casa con aria sognante chiedendogli quando poteva rivederla non aiutava. Basta, andava fatto. Sospirò e alzò la cornetta. «Ciao» disse. «Ciao!» esclamò calorosamente lei. Sembrava davvero felice di sentirlo. «Ciao! Austin? Che piacere! Come sta Darny? Puoi dirgli che ho cercato degli stampini per cupcake a forma di pesce? A quanto pare alla gente non piacciono, perché non sono riuscita a trovarli da nessuna parte... Secondo te i dinosauri vanno bene lo stesso? E...» Si accorse di parlare a vanvera. «Ehm... sì, sta bene, grazie. Senti...» Lei ebbe un tuffo al cuore: conosceva quel tono di voce. In quel preciso istante, capì che qualunque cosa credesse fosse successa sabato non era prevista, che lui ci aveva ripensato... ammesso che ci avesse mai pensato. Fece un gran respiro e cercò di ricomporsi, posando la spatola e scostandosi i capelli dal viso. Rimase sorpresa di fronte alla profondità della sua delusione: credeva di avere ancora il cuore spezzato, ma quella cosa faceva molto più male di qualsiasi pensiero per Graeme. «Sì?» disse in tono brusco. Austin si diede dell’idiota. Perché non poteva semplicemente dirle “Ci vediamo per bere qualcosa?”. Una sera, in un posto carino dove nessuno doveva alzarsi presto ed essere al lavoro alle sette, e nessuno bagnava ancora il letto dopo aver visto Doctor Who e aveva bisogno di cambiare le lenzuola nel cuore della notte; un posto dove potessero bere un bicchiere di vino e magari ridere un po’, e ballare, e poi... Gli venne voglia di sbattere la testa contro il muro. “Concentrati” si disse.


«Senti.» Doveva essere chiaro e conciso, e fare in modo di non dire nulla di inopportuno. «Ho parlato con la signora Prescott...» «E?» Issy si aspettava di ricevere buone notizie. I profitti erano in netto e costante aumento, ed era certa che Caroline avrebbe fatto la differenza. Quando non scoppiava in lacrime o non storceva il naso di fronte all’ordine del burro, era un modello di efficienza. «Dice che... dice che deve mandare una fattura e tu non glielo lasci fare.» «Be’, l’ho già spiegato alla signora Prescott» ribatté seccamente Issy. «Ho fatto un favore a un’amica che si sposava.» «Lei sostiene che non è scritto da nessuna parte. E che mancano scorte per un totale di quattrocento cupcake...» «Accidenti, è brava» sibilò Issy. «Per l’esattezza erano quattrocentodieci, nel caso in cui qualcuno si fosse schiacciato.» «Non è divertente, Issy! Equivale a una settimana di guadagni!» «Ma era un regalo di matrimonio per un’amica!» «Be’, avresti comunque dovuto emettere fattura, anche con uno sconto consistente. Almeno la materia prima devi fartela pagare.» «Non se si tratta di un regalo.» Come osava portarla fuori e fare il carino sabato, poi chiamarla tre giorni dopo pensando di farle una ramanzina. Era uguale a Graeme. Austin era esasperato. «Issy! Non puoi gestire un’attività in questo modo! Non capisci? Non puoi chiudere il caffè senza avvertire e non puoi regalare le tue scorte così! La Apple non distribuisce gli iPod gratis e lo stesso principio deve valere per te.» «Ma abbiamo molti più clienti ultimamente» obiettò Issy. «Sì, ma hai assunto altre persone e devi pagare loro gli straordinari. Puoi avere anche un milione di clienti al giorno ma, se non guadagni più di quanto spendi, fallisci. Punto e basta. Non hai neanche aperto sabato.» Quello era davvero troppo. «Hai ragione. Evidentemente sabato ho fatto un errore.» «Non era quello che intendevo.» «Secondo me sì.» Silenzio. «Sai,» riprese Issy «mio nonno... mio nonno gestiva tre panetterie. Vendeva il pane a tutta Manchester. Era un uomo di successo e conosceva tante persone. Poi i suoi soldi sono svaniti nel nulla... le case di riposo costano, sai.» «Sì, lo so» mormorò Austin. Issy sentì che era sinceramente addolorato, ma non aveva voglia di provare empatia. «Comunque, quando ero piccola era famoso; tutti compravano il pane da lui. E se stavano male o non riuscivano a pagare il conto della settimana, lui li aiutava; se passava un bambino affamato, o una madre ammalata, o un vecchio soldato, lui aveva sempre una torta da regalare. Lo amavano tutti. Ed era un uomo di grande successo. Io voglio seguire le sue orme.» «Penso che sia un nobile proposito. Tuo nonno dev’essere un uomo straordinario.» «Infatti» confermò Issy infervorata. «Le attività commerciali hanno funzionato in questo modo per anni. Poi sono arrivati i pezzi grossi e hanno cominciato a costruire enormi negozi fuori città, dove tutto costava meno e hanno inventato la distribuzione centralizzata. E la gente, pur amando i negozietti e conoscendone i proprietari, ha iniziato a comprare nelle grandi catene. È andata così.» Issy tacque. Sapeva che lui aveva ragione. Quando il nonno era andato in pensione, i negozietti


erano quasi tutti spariti e il centro della città era praticamente deserto. La gente non voleva più comprare il pane e fare una chiacchierata; non se la pagnotta costava qualche penny in più. «Quindi se vuoi offrire un servizio a misura di cliente in un piccolo caffè con tutti i costi che questo comporta, temo che dovrai lottare più di tuo nonno.» «Nessuno lotta come lui» disse Issy in tono di sfida. «Bene, sono contento che tu abbia ereditato il suo spirito. Ma ti prego, Issy, ti prego. Applicalo ai tempi moderni.» «Grazie per la consulenza.» «Non c’è di che.» E riattaccarono, entrambi turbati e frustrati alle estremità opposte di Stoke Newington. Mentre si diceva che era stata una stupida a pensare che quel sabato fosse successo qualcosa di particolare, Issy prese Austin in parola. Si gettò a capofitto nel lavoro; pagò le bollette in tempo, si occupò tempestivamente delle scartoffie; sfruttò l’esperienza di Caroline per organizzare e sveltire tutto quanto. Rischiò persino di strappare un sorriso alla signora Prescott. Arrivava presto per preparare cupcake classici, arancia e limone, doppio cioccolato e fragola e vaniglia, più un menu speciale di ricette sempre nuove per invogliare gli habitué a tornare. Per lo più venivano testate su Doti, il postino, le cui visite stavano diventando quasi imbarazzanti per chiunque tranne Pearl, che gli sorrideva e lo punzecchiava come faceva con tutti quelli che incrociavano il suo cammino. Lei e Caroline, invece, continuavano a fare scintille. «Devo assolutamente lavare quelle finestre» mormorò Caroline a Issy un giorno, mentre se ne stava andando. Pearl alzò gli occhi al cielo. «Ma sì, le laveremo.» «No, no» insisté Caroline. «Verrò il mio giorno libero.» E Pearl si affrettò a lavare le finestre. «Non credi che dovremmo dire a Issy che c’è troppa cannella nei panini alla cannella?» cinguettò Caroline. «Lo farò io, ovviamente.» Pearl si sentiva sempre l’ultima ruota del carro. Un giorno, quando era da sola, entrò Kate con le gemelle. «Sono venuta per l’ordine.» Seraphina indossava un tutù rosa, Jane una salopette azzurra. Pearl cercò di concentrarsi su ciò che le stava dicendo Kate, ma fu distratta dalle gemelle: Seraphina allargò il tutù tentando di farvi entrare Jane, che mise a sua volta una bretella della salopette sopra la spalla di Seraphina. «Quale ordine?» «Quello dei cupcake con i messaggi. Caroline ha detto che era un’idea favolosa e ti avrebbe messo subito al lavoro.» «Ah sì?» ribatté Pearl. Stava per fare una delle sue risate sprezzanti quando le bimbe caddero a terra. «Seraphina! Jane! Che state combinando?» Le gemelle erano tutte aggrovigliate nei rispettivi vestiti e si rotolavano sul pavimento sbellicandosi dalle risate. «Noi no Jane e Seraphina! Noi Serajane!» E continuarono a ridere e a coccolarsi, le due testoline bionde identiche. «Alzatevi!» gridò la loro mamma. «O metto Seraphina sulla sedia e Jane nell’angolo.» Le bambine si districarono lentamente e rimasero a capo chino. «Insomma!» disse Kate guardando Pearl e scuotendo la testa.


«Sono adorabili» osservò Pearl, pensando a Louis. Era incredibile sentire la mancanza di qualcuno che si sarebbe rivisto nel giro di poche ore. A volte, dopo che il piccolo si era addormentato, lei si avvicinava e lo guardava: non poteva aspettare di vederlo la mattina dopo. «Umf. Quindi puoi farlo tu?» «Fare cosa?» chiese Pearl, che non sopportava l’idea che Caroline riversasse il lavoro su di lei. «Voglio dei cupcake guarniti con delle lettere.» «Ah» disse Pearl. Ci sarebbe voluto del tempo, ma avrebbero potuto farli pagare di più. Ne valeva la pena? «E che sia un lavoro da professionisti» dichiarò Kate. Valeva la pena farlo secondo gli standard di Kate? «Mamma, possiamo prendere un cupcake?» chiese dolcemente Seraphina. «Facciamo a metà.» «Ci piace fare a metà!» esclamò Jane. «No, tesori, questa è tutta robaccia» rispose Kate con aria distratta. Pearl sospirò. Kate fece una rapida telefonata mentre Pearl se ne stava lì ad aspettare, maledicendo Caroline e tutte le sue amiche. Quando riattaccò, Kate disse in tono sbrigativo: «Okay. Voglio dei cupcake al limone con glassa all’arancia e la scritta “Auguri di buon compleanno Evangelina”». Pearl prese nota. «Credo che si possa fare.» «Bene» ribatté l’altra. «Spero che Caroline avesse ragione sul tuo conto.» Pearl pensò di no. «Ciao, gemelline!» cinguettò poi, salutandole con la mano. «Ciao!» risposero loro in coro. «Veramente si chiamano Seraph...» Ma Pearl era già scomparsa giù per le scale per comunicare a Issy la bella notizia. Lavorarono entrambe fino a tardi per finire. Helena passò per fare due chiacchiere, e Issy e Pearl la punzecchiarono senza pietà a proposito di Ashok, e lei si rifiutò di rispondere alle loro domande, rigirando la frittata e chiedendo più volte di Ben a Pearl, che a sua volta schivò l’attacco lamentandosi di Caroline con Issy, che non aveva nessuna voglia di ascoltare. Alla fine, Pearl e Helena tacquero e si misero a osservare Issy al lavoro. Quello che faceva era così istintivo: non misurava né pesava nulla, limitandosi a mettere, quasi senza pensarci, gli ingredienti in una ciotola, a sbattere il tutto con un movimento disinvolto del braccio e a versare il composto con un cucchiaio nei trentadue stampini che aveva imburrato senza neanche guardare; poi passava alla glassa di zucchero, mescolandola, montandola e modellandola con il coltello prima di guarnire ciascun cupcake con una lettera, perfetta e delicata: il risultato erano delle piccole e squisite opere d’arte. Helena e Pearl si scambiarono un’occhiata. «Che brava che sei» disse Helena. Issy, tutta presa, alzò lo sguardo, stupita. «Lo faccio tutti i giorni. È come quando tu ricuci una ferita a un braccio.» «In effetti, sono brava a suturare» confermò Helena. «Ma il risultato non ha lo stesso aspetto invitante.» I dolcetti, tutti in fila, erano bellissimi. Issy li avrebbe consegnati prima di tornare a casa. «Non se li merita, quella lì» borbottò Pearl. «Fai la brava» ribatté Issy, mostrandole la lingua. Pearl entrò di corsa nel locale per riscaldare la capricciosa macchina del caffè prima dell’assalto


della mattina, accorgendosi di non avere neanche aperto la posta del giorno prima. «Un, dui, tre, oplà!» Sistemò Louis su uno degli sgabelli alti che avevano disposto davanti al camino in modo che i clienti potessero sedersi durante l’attesa, gli mise in mano un pain au chocolat e aprì la lettera dell’asilo, restando a bocca aperta. La campanella della porta suonò. Quella mattina Issy doveva incontrare un rappresentante di zucchero e sarebbe arrivata più tardi, quindi Caroline avrebbe affiancato Pearl. «Buens dies, Caline!» esclamò Louis, che all’asilo aveva imparato a dire buongiorno in varie lingue e lo trovava molto divertente. «Buongiorno, Louis» scandì Caroline, che trovava terribile la dizione di Louis e pensava di essere l’unica a poterlo salvare da un accento proletario. Certo, Pearl avrebbe anche potuto esserle grata... se solo fosse riuscita a superare l’odio di classe che aveva nei suoi confronti. «Buongiorno, Pearl.» Pearl non rispose. “Perfetto” pensò Caroline. Era abituata ai battibecchi tra ragazze da quando l’avevano mandata in quella scuola femminile altamente competitiva dove un giorno sperava di poter iscrivere Hermia. Aveva imparato tutto quello che c’era da sapere sui litigi tra donne in quell’istituto. Sapeva tenere il broncio meglio di chiunque altro, quindi la cosa non la preoccupava. E aveva un divorzio in corso, santo cielo. A nessuno importava di lei. Ma, quando si voltò per appendere il suo impermeabile Aquascutum, si accorse che Pearl non aveva la consueta espressione diffidente: aveva una lettera in mano, lo sguardo perso nel vuoto e gli occhi pieni di lacrime. Caroline avvertì lo stesso istinto di protezione di quando uno dei suoi cani stava male. Le si avvicinò. «Cara, che c’è? Cos’è successo?» «Mammina?» chiese Louis allarmato. Non riusciva a scendere da solo dallo sgabello (il vantaggio era che, una volta lì sopra, non poteva mettere le mani dappertutto). «Mamma? Bua?» Lei cercò di ricomporsi e rispose, con voce leggermente stridula: «No, amore, la mamma non ha la bua». Caroline le sfiorò una spalla, ma Pearl non riuscì a fare altro che porgerle la lettera con mani tremanti mentre si dirigeva verso lo sgabello per prendere in braccio Louis. «Vieni qui, piccolino» disse, cullandolo contro una spalla di modo che non la guardasse in faccia. «Ecco. Va tutto bene.» «Io no vado asilo» dichiarò Louis. «Io sto con mamma.» Caroline lesse la lettera, completa di timbro dell’autorità sanitaria locale. Gentile signora McGregor, suo figlio Louis Kmbota McGregor si è recentemente sottoposto a una visita medica presso l’asilo Little Teds di Stoke Newington, Osbaldeston road 13, Londra N16. I risultati mostrano che, per la sua età e la sua altezza, Louis ricade nella categoria “da sovrappeso a obeso”. Il sovrappeso e l’obesità possono, anche in tenera età, compromettere gravemente la salute dell’adulto. Nella fattispecie, sono causa di malattie cardiovascolari, cancro, problemi di fertilità, disturbi del sonno, depressione e mortalità precoce. Bastano poche accortezze per migliorare la dieta e l’esercizio fisico di suo figlio, di modo che Louis Kmbota cresca e viva al massimo delle sue potenzialità. Pertanto il 15 giugno abbiamo organizzato un incontro con Neda Mahet, nutrizionista che esercita presso l’ambulatorio... Caroline posò la lettera.


«È una vergogna» dichiarò, arricciando il naso. «Queste teste di cavolo crudeli e prepotenti pensano di poter interferire nella vita delle persone!» Pearl la guardò battendo le palpebre: non avrebbe potuto dire niente di meglio per tirarla su. «Ma... è una lettera ufficiale.» «Ed è ufficialmente inopportuna. Come osano? Guarda tuo figlio: è adorabile. Certo, è un po’ cicciottello, ma la cosa non li riguarda. Vuoi che la strappi?» Pearl guardò Caroline stupefatta. «Ma è un documento ufficiale!» Caroline alzò le spalle. «E allora? Paghiamo le tasse. Meno ficcanaso impiegano per fare queste cose, meglio per tutti. Posso?» Pearl, scioccata, annuì, sentendosi molto trasgressiva. Di solito faceva attenzione a quel tipo di comunicazioni. Nel suo mondo, se non facevi quello che dicevano certe lettere, ti succedeva qualcosa di grave. Ti tagliavano i sussidi. Assegnavano casa tua a qualcun altro e ti costringevano a trasferirti, magari in una topaia. Arrivavano e scrutavano i tuoi figli, e, se non ti andava bene, potevano persino portarteli via. Ti chiedevano quanto bevevi e quanto fumavi e quante ore lavoravi e dov’era il padre del bambino, e, se sbagliavi a rispondere, anche di poco, non avresti più potuto comprare un paio di scarpe per un po’. Vedere Caroline strappare la lettera come se fosse una sciocchezza da ignorare operò in lei un cambiamento sorprendente. Era ancora arrabbiata perché non doveva preoccuparsi di cose del genere. Ma si sentì anche stranamente libera. «Grazie» le disse con voce sommessa e un pizzico di ammirazione. «Sai,» osservò Caroline «non sembri il tipo di persona che si lascia comandare a bacchetta.» Pearl mise di nuovo Louis sullo sgabello. Era cicciottello? Aveva due guanciotte rotonde, un pancino adorabile e un culetto alto e tondo, cosce da mordere e dita paffute. Come facevano a dire che era grasso? Era perfetto. «Sei bellissimo» gli disse, e Louis annuì. Glielo ripeteva spesso e lui sapeva reagire in un modo che in genere gli procurava un dolcetto. «Louis è belisimo» esclamò lui, con un sorriso radioso. «Sì! Louis è belisimo! Ora dolcetto.» E stese la manina paffuta. «Mm» aggiunse poi, nel caso in cui qualcuno non avesse colto il riferimento, leccandosi le labbra e strofinandosi il pancino. «A Louis piace dolcetto.» Caroline non era quasi mai espansiva, neanche con i suoi figli, anzi, se solo si fosse fermata un attimo a pensarci, avrebbe definito il suo atteggiamento nei loro confronti irascibile, ma si avvicinò a Louis, che la guardò con sospetto. Era affabile con tutti, ma quella lì non gli dava mai i dolcetti, e tanto gli bastava. Caroline gli fece il solletico al pancino sporgente e lui ridacchiò contorcendosi. «Anche per me sei bellissimo, Louis» disse lei. «Ma questo non dovresti mangiarlo.» «È il pancino di un bimbo di due anni!» protestò Pearl. «No, ha i rotoli» ribatté Caroline, la cui capacità di analizzare il grasso umano in tutte le sue declinazioni sconfinava nel maniacale. «Non va bene. E poi non l’ho mai visto senza una torta in mano.» «Be’, deve crescere» replicò Pearl sulla difensiva. «Quindi deve nutrirsi.» «Certo» rispose Caroline. «Ma dipende da cosa gli dai.» In quel momento sentirono bussare alla porta: erano arrivati i primi clienti, gli operai che stavano ristrutturando la casa di Kate su Albion Road. I lavori procedevano a rilento, e Kate aveva accusato apertamente Caroline dei ritardi perché vendeva caffè e dolci agli operai, incoraggiandoli a starsene lì a chiacchierare invece di fare solo cinque minuti di pausa per mandare giù un panino nel cantiere.


Il suo disappunto stava rendendo sempre più sgradevoli gli incontri del gruppo di cucito. Mentre affrontavano l’assalto mattutino, e Louis se ne stava seduto sullo sgabello salutando allegramente i clienti abituali, che non riuscivano a passargli accanto senza dargli un pizzicotto sulle guance appiccicose o fargli una carezza sulla testolina rasata, Pearl non fece che lanciargli occhiate furtive nello specchio antico appeso alla parete. C’era la vecchia signora Hanowitz, che prendeva sempre un’enorme tazza di cioccolata calda a corredo delle sue chiacchiere e che gli grattava il pancino come se fosse un cane, per poi dargli il marshmallow in cima alla cioccolata calda. E Fingus, l’idraulico, con il pancione e il sedere che faceva capolino dalla salopette bianca, che gli dava il cinque e gli chiedeva sempre se aveva portato la chiave inglese, visto che sarebbe diventato il suo apprendista. Issy diede il suo contributo quando entrò di corsa nel caffè dopo il suo appuntamento e, prima di scendere nel seminterrato, si avvicinò a Louis per le consuete coccole mattutine dicendo ad alta voce: «Buongiorno, barilotto». Pearl aggrottò la fronte. Cos’era suo figlio, un bambolotto? No. Era una persona, con i suoi diritti. Caroline si accorse che Pearl lo guardava, e si morse il labbro. Be’, meglio così: non voleva che suo figlio facesse la sua stessa fine, no? E poi il turbamento di Pearl le aveva fatto venire un’idea... «Be’, forse hanno ragione» disse Ben, appoggiandosi al bancone della cucina. «Non lo so. A me sembra normale.» «Anche a me» replicò Pearl. Ben aveva “fatto un salto” mentre tornava a casa, anche se lavorava a Stratford, dall’altra parte della città. Pearl aveva finto di crederci e Ben di non volersi fermare a dormire (benché ne valesse la pena anche solo per la cucina di Pearl. Era strano: quando lei non lavorava, non aveva nessuna voglia di cucinare e andavano avanti a pollo e bastoncini di pesce. Ora, anche se quando tornava a casa era stanca morta, le piaceva preparare la cena. In fondo, era una brava cuoca). Louis era al settimo cielo. Passò davanti ai genitori con un plaid che lo ricopriva tutto. «Ehi, Louis» gli disse Ben. «Io no Louis, io tartaruga» ribatté lui con voce soffocata. Suo padre aggrottò la fronte. «Non me lo chiedere» disse Pearl. «È tutto il giorno che fa la tartaruga.» Ben posò la tazza di tè. «C’è per caso una tartaruga che vorrebbe uscire e giocare a pallone?» «Sìì» esclamò la tartaruga, tirandosi su con tutta la coperta e sbattendo la testa contro il forno. «Ahia.» Pearl lanciò un’occhiata sbigottita alla madre mentre Ben usciva con il piccolo. «Scordatelo» sentenziò lei. «Viene per un po’ e poi sparisce di nuovo. Non lasciare che Louis si affezioni troppo.» Cupcake sorpresa alla crusca e alla carota 1½ tazza di farina integrale per dolci ½ cucchiaino di bicarbonato di sodio ¼ di cucchiaino di sale ¾ di tazza di avena o crusca di grano Sostituto per uova equivalente a 2 uova 1 tazza di caglio


½ tazza di sciroppo di riso integrale ¼ di tazza di salsa di mele ¼ di tazza di olio di cartamo 1½ tazza di carote grattugiate Datteri tritati ½ tazza di uvetta ½ tazza di noci o noci pecan

«Volevo solo provare qualcosa di nuovo» disse Caroline con aria umile e servizievole la mattina dopo, quando si presentò con un Tupperware. «Non è niente. Ho solo messo insieme un po’ di ingredienti.» «Che diavolo è lo sciroppo di riso integrale per noi comuni mortali?» chiese Pearl, scorrendo la ricetta. «E l’olio di cartamo?» «Sono facilissimi da trovare» mentì Caroline. «Non chiamarla “sorpresa”» suggerì Issy. «Tutti i bambini sanno che “sorpresa” vuol dire verdure nascoste. Se vuoi che la mangino, devi chiamarli “cupcake al toffee con cioccolato e zucchero raffinato”.» «È una ricetta semplice e sana» spiegò Caroline, cercando di imitare Jamie Oliver. In realtà, aveva dovuto sfacchinare per cinque ore sul suo tavolo da cucina finto antico di Neff e aggiungere varie imprecazioni per ottenere il composto giusto e cupcake decenti. A Issy veniva tutto così facile: come faceva a preparare quegli impasti leggeri come l’aria che si scioglievano in bocca? Certo, usava ingredienti raffinati che l’avrebbero spedita prematuramente al Creatore. Ma, mentre mischiava e lavorava, Caroline aveva avuto una visione: il suo locale Da Caroline-Cucina sana avrebbe eclissato il Cupcake Café, i suoi dolci sani avrebbero sbaragliato quelle schifezze piene di zuccheri, e tutti i bambini del mondo si sarebbero convertiti ai benefici di una vita di salute e magrezza... E a quel punto lei non sarebbe stata solo un’aiutante part-time, nossignori... Pearl e Issy si guardarono, cercando di soffocare una risata. «Allora?» le incalzò Caroline, distrutta dalla notte pressoché insonne. La sua donna delle pulizie avrebbe dovuto sgobbare parecchio quella mattina. «Pearl, danne uno a Louis.» «Issy, ti prego!» mormorò Pearl fra i denti. Poi, tentando di ricomporsi: «Certo, fra un attimo». Issy frenò l’impulso di togliersi i pezzetti di carota cruda dalla lingua. E cos’era quel retrogusto di broccoli? «Tieni, piccolino» disse Caroline mettendo il contenitore sotto il naso di Louis. «Ehm, non ha fame» intervenne Pearl, disperata. «Sto cercando di farlo mangiare di meno, sai.» Ma Louis aveva già infilato la manina grassoccia nel contenitore. «Grasi, Caline.» «Grazie» lo corresse Caroline. «Non si dice “grasi”, ma “grazie”.» Era più forte di lei. «Aspetta che lo assaggi, e non dirà più nessuno dei due» borbottò Pearl rivolta a Issy, che, di nascosto da Caroline, stava facendo i gargarismi con il caffè per togliersi di bocca quel sapore. Pearl, invece, aveva ingollato un cupcake Victoria sponge appena sfornato da Issy, che non l’aveva certo biasimata. Caroline puntò lo sguardo su Louis, speranzosa. «È molto più buono di quelli che mangi di solito, tesoro» disse. Lui addentò fiducioso il cupcake, ma, quando cominciò a masticare, il suo viso assunse un’espressione confusa, turbata, come un cane di fronte a un giornale di plastica. «Bravo... mm, che buono» lo incoraggiò Caroline. Il bambino lanciò un’occhiata disperata alla madre, poi aprì meccanicamente la bocca e fece cadere a terra il cupcake mezzo masticato.


«Louis!» saltò su Pearl, precipitandosi verso di lui. «Non si fa!» «Schifo, mamma! Bleah bleah bleah!» esclamò lui in tutta risposta, pulendosi la lingua con una mano per rimuovere qualsiasi residuo di torta. «Bleah, mamma! Bleah, Caline! Bleah!» strillò poi con fare accusatorio, mentre Pearl gli dava un bicchiere di latte per calmarlo e Issy andava a prendere scopa e paletta. Caroline rimase immobile, mentre un rossore le saliva agli zigomi alti. «Be’,» osservò quando Louis si fu ripreso «è evidente che ha il palato rovinato dalle schifezze.» «Certo» borbottò Pearl. «Caline,» disse Louis tutto serio, sporgendosi verso di lei per rafforzare il concetto «torta cattiva, Caline.» «No, torta buona, Louis» ribatté lei indispettita. «No, Caline» insisté Louis. Issy pensò bene di intervenire prima che lo scambio si trasformasse in un battibecco tra una donna di quarant’anni e un bimbo di due. «È un’ottima idea, Caroline» disse. «Davvero.» Lei la guardò con sospetto. «Be’, ho i diritti d’autore sulla ricetta.» «Ehm, certo, sì, certo. Potremmo chiamarli “I cupcake di Caroline”, che ne dici?» Caroline era restia a consegnarle le altre tortine che aveva preparato. Da parte sua, Issy voleva evitare che le propinasse a qualcuno; si fidava ciecamente di lei in materia di soldi, scorte e orari di lavoro, ma non per i presunti gusti dei clienti, ma disse che ne aveva bisogno per un esperimento e, be’, in effetti non erano venute bene come Caroline aveva sperato. Il caglio non era così indicato come assicurava il libro di ricette naturali se si volevano ottenere torte compatte. Issy non era neanche sicura che quei cupcake sarebbero andati bene per il compost che aveva iniziato a dare alla fattoria cittadina di Hackney, ma riuscì comunque a sbarazzarsene. Quell’episodio ebbe due effetti positivi. Caroline aveva assolutamente ragione su un punto: c’era un mercato per i dolcetti “sani”. Il primo effetto fu che “I cupcake di Caroline”, opportunamente modificati da Issy in modo da diventare piccoli muffin con salsa di mele, uvetta e mirtilli rossi in graziosi pirottini con sopra camion di pompieri o ombrellini rosa, ebbero un successo immediato presso le mamme ansiose di evitare che i figli si abituassero alla glassa. Per maggiore veridicità, Issy aggiunse un chilo di carote al loro ordine settimanale, portandosene una parte a casa ogni sera e lasciando che Caroline credesse che le usasse per la ricetta. Helena e Ashok, che ormai vivevano insieme (Helena spiegò che la stanza ammobiliata di Ashok era una vera e propria topaia), finirono per consumare litri di zuppa. Issy, tuttavia, non riuscì a trovare il modo di usare il caglio. Il secondo effetto positivo fu che Louis divenne diffidente nei confronti di tutti i cupcake del caffè e smise di farvi la sua seconda colazione. Non gli fece affatto male, e, un po’ perché Caroline cominciò a lavorare più ore, un po’ perché Louis andava a piedi alla fermata dell’autobus tutte le mattine con la mamma, la sua seconda verifica del peso andò liscia come l’olio. Anche se a Pearl e a Caroline non importava nulla, visto che avevano stracciato allegramente la lettera delle autorità sanitarie. Tre settimane dopo Pearl entrò nel locale e trovò Caroline china sul bancone, immobile. «Tutto a posto?» chiese. Caroline non rispose: era rigida come uno stoccafisso. «Che c’è che non va, cara?»


«Sto... sto bene» farfugliò l’altra. Pearl la fece voltare, ferma ma gentile. «Che è successo?» Il viso di Caroline, sempre perfettamente truccato, era rigato di lacrime e mascara. «Allora?» insisté Pearl, la quale sapeva bene che il dolore per la perdita di un uomo poteva investirti quando meno te lo aspettavi, anche quando non lo pensavi da giorni. Come quella volta che era passata in autobus davanti al parco di Clapham Common e le era tornato in mente quando lei e Ben vi avevano fatto un picnic. Pearl aveva da poco scoperto di aspettare Louis e le piaceva essere incinta, anziché grassa e basta, anche se le tette le erano diventate enormi (Ben aveva apprezzato). Si erano seduti nel parco e avevano mangiato il pollo mentre Ben parlava di quello che avrebbe fatto suo figlio e cosa sarebbe diventato, e lei guardava il cielo azzurro sopra le loro teste sentendosi felice e sicura come non mai. Non ci era più tornata da allora. Caroline soffocò un singhiozzo e indicò la zip dei pantaloni. Erano stretti e a sigaretta, evidentemente costosi. La zip si era rotta, staccando persino il bottone in alto. «Guarda qui!» piagnucolò. Pearl abbassò gli occhi. «Hai rotto la zip... Cos’è, ti abbuffi di biscotti allo zenzero quando nessuno ti vede?» «No!» ribatté Caroline con enfasi. «Certo che no. Mi si è impigliata in una porta.» «Se lo dici tu» osservò Pearl, che trovava divertente il masochismo di Caroline. «E qual è il problema?» «Sono un paio di D&G Cruise 10» spiegò Caroline, cosa che non significava nulla per Pearl. «Voglio dire... costano centinaia di sterline.» Pearl pensò che da Primark si trovavano dei pantaloni a dieci sterline, ma non disse nulla. «E ormai... ormai non me li posso più permettere. È finita. Il bastardo mi ha detto che non ha più intenzione di farmi fare la bella vita.» E scoppiò di nuovo a piangere. «Mi toccherà vestirmi... nei negozi di catena» continuò, fra i singhiozzi. «E tingermi i capelli da sola!» Si prese la testa fra le mani: Pearl non capiva. «Be’, non c’è niente di male. Sai come si dice: finché hai un tetto sulla testa e il cibo nel piatto...» «Io non ho mai abbastanza cibo nel piatto» replicò Caroline. «Fammi dare un’occhiata» disse Pearl. «È solo una lampo rotta. Non la puoi aggiustare ai tuoi corsi di cucito?» «Come no!» ribatté Caroline in tono beffardo. «Impariamo solo a spettegolare e a fare il patchwork, non a cucire davvero.» «Be’, se vuoi te la aggiusto io» si offrì Pearl. Caroline batté i grandi occhi azzurri. «Davvero?» «Altrimenti tu cosa faresti?» Caroline alzò le spalle. «Non lo so... ai vecchi tempi ne avrei comprato un altro paio. E ovviamente avrei portato questi alla Caritas.» «Ovviamente» ripeté Pearl scuotendo la testa. Centinaia di sterline buttate via per colpa di una zip. Il mondo era davvero assurdo. La campanella della porta suonò ed entrò Doti, il postino, con il suo consueto sorriso speranzoso. «Buongiorno, signore» disse educatamente. «Che succede?» «Caroline non entra più nei pantaloni» rispose Pearl. Fu più forte di lei. «Ah, bene» osservò Doti. «Bene?» ripeté Caroline, incredula.


«Aveva bisogno di un po’ di ciccia. Le donne magre sembrano... tristi. Dovrebbe mangiare un po’ di questi deliziosi cupcake.» Caroline alzò gli occhi al cielo. «Io non sembro triste. Cheryl Cole e Jennifer Aniston le sembrano tristi?» «Sì» rispose Pearl. «Non so chi siano» disse Doti. «Sono in forma, tutto qui.» «Be’, lei è una bella donna.» «Grazie. Anche se non so se dovrei accettare consigli di moda da un postino.» «A noi postini non sfugge nulla» ribatté Doti serafico, posando la posta sul bancone mentre Pearl gli porgeva un espresso. Si sorrisero. «Lei, invece...» aggiunse poi bevendo il caffè tutto d’un fiato come per darsi coraggio. «Lei è stupenda, Pearl.» Lei sorrise e lo ringraziò mentre usciva dal locale. Caroline la guardò stupefatta. «Che c’è?» domandò Pearl, ancora abbastanza compiaciuta dal complimento di Doti da non prendersela per l’incredulità di Caroline. «Secondo te non era sincero?» L’altra la squadrò dalla testa ai piedi, soffermandosi sui suoi fianchi robusti, il suo seno prosperoso, il sedere sporgente. «Sì che lo era» rispose, con un’umiltà mai sentita prima. «Sei davvero stupenda, Pearl. È colpa mia. Non l’avevo mai notato. Non noto tante cose» aggiunse, mortificata. Così Pearl portò a casa i pantaloni di Caroline. Sostituì la lampo e il bottone e accorciò l’orlo, rimanendo leggermente delusa dalla qualità delle cuciture di un capo che costava centinaia di sterline. Caroline, dal canto suo, le fu talmente grata che li indossò due volte nella stessa settimana – un record per lei –, e non corresse la pronuncia di Louis per almeno quattro giorni di fila, finché non lo sentì dire «Ma’» e allora non riuscì proprio a trattenersi.


14

IL MIGLIOR CUPCAKE DI COMPLEANNO CHE ESISTA 4 once di burro bretone morbido 8 once di zucchero extrafine setacciato 4 grosse uova fresche di gallina ruspante, sbattute 6 once di farina autolievitante 6 once di farina 00 1 tazza di latte fresco 1 cucchiaino di essenza di vaniglia Per la glassa: 4 once di burro bretone morbido 16 once di zucchero a velo 1 cucchiaino di essenza di vaniglia 2 once di latte 2 cucchiaini di essenza di rose Imburra tre piccole teglie per torte. Screma il burro finché non è liscio come la guancia di un bambino. Aggiungi gradualmente lo zucchero. Non buttarcelo dentro come fai di solito, Isabel. Il composto deve essere soffice, nel vero senso della parola. Metti un granello alla volta mentre sbatti con la frusta. Unisci le uova lentamente, continuando a sbattere. Aggiungi un po’ delle due farine setacciate, un po’ di latte e un po’ di essenza di vaniglia, e poi da capo. Non avere fretta. È la tua torta di compleanno, e tu sei molto speciale. Ti meriti un po’ di tempo. Fai cuocere per 20 minuti a 350 °F. Per la glassa: unisci al burro la metà dello zucchero a velo, il latte, l’essenza di vaniglia e quella di rose e sbatti accuratamente, continuando ad aggiungere lo zucchero finché la glassa non raggiunge la consistenza desiderata. Metti le candeline – non troppe – e aggiungi più amici che puoi. Spegni le candeline esprimendo un desiderio. Non dire a nessuno: a) il desiderio; b) la ricetta. Alcune cose, come te, mia cara, sono speciali. Con affetto, il nonno Issy mise in vetrina il biglietto d’auguri del nonno. Era il 21 giugno e il sole batteva così forte attraverso i vetri che Issy si sentì arrossire e si domandò se ci si potesse abbronzare anche così.


Anche perché quell’anno non si sarebbe abbronzata in altro modo. «È arrivata l’estate e non me ne sono neanche accorta.» «Mm, io invece me ne accorgo sempre» ribatté Pearl. «Odio quando non posso mettermi le calze e la ciccia comincia a ballonzolare di qua e di là. Spero che sarà un’altra estate fredda.» «No!» esclamò Issy atterrita. «Voglio che tutti i nostri clienti se ne stiano fuori, nel cortile, per mesi. È un peccato che non abbiamo la licenza per gli alcolici.» «Abbiamo già i drogati dei dolci, ci mancano solo gli ubriaconi» osservò Pearl. «Meglio di no.» E indicò un tavolo accanto alla finestra, occupato da quattro signori anziani. «Ah sì!» ridacchiò Issy. Era successa una cosa strana. Un giorno, sul tardi, erano entrati due signori di una certa età. A dir la verità, sembravano dei barboni. Ne avevano già uno, Berlioz, che veniva quasi tutti i giorni nei momenti di tranquillità e prendeva qualcosa da mangiare con una tazza di tè (Pearl gli lasciava anche svuotare la cassetta per i poveri della parrocchia accanto alla cassa, ma Issy non lo sapeva e Pearl aveva spiegato la situazione al parroco, e avevano deciso di non dire nulla), ma quelli erano nuovi. Uno si era avvicinato al bancone strascicando i piedi. «Ehm... due caffè, per favore» aveva detto con la voce roca dei fumatori forti. «Certo» aveva risposto Issy. «Desidera altro?» L’uomo aveva tirato fuori una banconota da dieci sterline nuova di zecca e gli era caduto il biglietto da visita di Austin. «Mm, dovevamo dirle che è stato Austin a mandarci qui.» Issy aveva aggrottato la fronte, poi si era ricordata: erano gli ubriaconi del pub dove l’aveva portata lui. «Ah!» esclamò sorpresa. Negli ultimi tempi aveva evitato accuratamente Austin; era ancora imbarazzata per aver pensato che potesse essere interessato a lei, e ormai le cose andavano talmente bene che la banca non aveva motivo di lamentarsi. A volte però pensava a lui, e si chiedeva come stesse Darny. Non aveva ancora usato gli stampini a forma di dinosauro. E non era sicura che i suoi nuovi clienti le piacessero. Da quel giorno in poi avevano cominciato a venire tre volte a settimana, e, col passare del tempo, si erano anche aggiunti altri personaggi dall’aria furtiva. Un giorno, mentre puliva intorno al loro tavolo, Pearl si era resa conto che stavano facendo una specie di riunione informale di alcolisti anonimi. Issy si era domandata, scuotendo la testa, come avesse fatto Austin a convincerli. E aveva giurato di non passare mai più davanti a quel pub. Sospettava che il proprietario non sarebbe stato contento. Ormai i posti da evitare erano diventati cinque. In realtà, ma Issy non poteva saperlo, quelli che ora andavano a Stoke Newington a comprare i cupcake frequentavano spesso anche gli altri caffè lungo la strada principale. E il proprietario del pub era felice di essersi sbarazzato di quei vecchi ubriaconi; aveva installato il wi-fi, spalancato le finestre e faceva soldi a palate preparando tè e ricche colazioni a una sterlina; gli avventori erano molto più contenti di starsene seduti in una stanza illuminata a giorno in cui aleggiava l’odore del pane tostato e che non era infestata da quei relitti umani. Ma Issy evitò comunque quel pub. «È il giorno più lungo dell’anno» cantilenò uno dei signori. Gli altri si misero a ridere e gli dissero di piantarla. «È oggi?» saltò su Issy, guardando l’orologio. Una volta superata la scadenza dell’anno finanziario, aveva perso la cognizione del tempo; ora, finalmente, la situazione del Cupcake Café sembrava essersi stabilizzata e, mutuo a parte, c’erano buone probabilità che iniziasse a ricavare uno stipendio anche per sé. Piuttosto ironico, pensò, visto che era stata talmente presa dal lavoro che erano mesi che non faceva shopping. Ma tanto tutto quello che indossava era coperto da un grembiule


dalla mattina alla sera, quindi non aveva molta importanza. Se non altro, però, sarebbe dovuta andare dal parrucchiere, pensò, guardandosi nei bordi specchiati della vetrinetta. Dieci anni prima i capelli di colore diverso avevano un che di sexy, «da spiaggia». Ora rischiava di sembrare una vecchia pazza. Fece una smorfia nello specchio distorto. Da dove saltava fuori quel solco tra le sopracciglia? L’aveva sempre avuto? E quell’espressione che aveva a volte, tipica di chi ha troppe cose per la testa ed è sempre in ritardo...? Lisciò il solco con la punta delle dita, ma le sottili rughe che aveva lasciato erano ancora lì; indispettita, vide il suo viso assumere esattamente la stessa espressione di prima. Sospirò. «Cosa c’è?» chiese Pearl, che stava ritagliando gli stencil per il cappuccino al cacao. Non sapeva perché ai clienti piacessero tanto i fiorellini sopra la schiuma, ma era ben lieta di accontentarli. «Mm. Niente» rispose Issy. «È solo che fra qualche giorno è il mio compleanno, tutto qui.» «Ah, e ne compi tanti?» «Quanti anni credi che abbia?» Pearl sospirò. «Non lo so. Non capisco mai quanti anni ha la gente. Se tirassi a indovinare, sbaglierei e tu ti offenderesti.» «A meno che tu non dica un numero molto basso» suggerì Issy. «Be’, ma sarebbe offensivo anche sapere che ho detto ventotto solo per farti piacere, no?» «Perché, non potrei passare per una ventottenne?» chiese tristemente Issy. Pearl alzò le mani esasperata. «Cosa devo fare per uscire da questa conversazione?» Issy sospirò e Pearl le lanciò un’occhiata: non era da lei essere giù di morale. «Che c’è?» Issy alzò le spalle. «Niente. Solo che... sì, insomma, è il mio compleanno. Giovedì, per l’esattezza. E... mi ha colto alla sprovvista. In genere non me lo dimentico.» Issy chiamò Helena. «Ehm, Lena. Lo sai che giovedì è il mio compleanno?» Silenzio. «Ma Issy, è fra tre giorni!» «Sì, lo so, è che me ne ero dimenticata.» «Diciamo piuttosto che stai cercando di rimuoverlo.» «Zitta tu.» «Okay, be’, facciamo qualcosa nel fine settimana? Giovedì ho il turno di notte e ho già fatto cambio due volte... Mi dispiace tanto.» «Va bene» rispose Issy, avvilita. «Organizziamo qualcosa per domenica? Anche Ashok è libero.» «Magari si guasta il tempo» disse Issy, consapevole di sembrare lamentosa. E poi, che si aspettava? Erano mesi che ignorava i suoi amici per occuparsi del locale; non poteva certo pretendere che mettessero da parte tutto quanto con un anticipo di pochi giorni solo per festeggiare il suo compleanno quando lei non si ricordava neppure di spedire biglietti d’auguri quando diventavano genitori o cambiavano casa. Quel giorno fu un po’ più brusca del solito nel dire di no a Felipe, che entrò e chiese educatamente, come faceva una volta a settimana, se poteva suonare il violino per i suoi clienti. Sapeva che Stoke Newington era un quartiere bohémien e un po’ bizzarro, ma non era sicura che fosse una buona idea lasciare che una specie di trovatore suonasse in faccia alla gente che cercava di mangiare una torta e leggere il giornale in pace. Felipe non sembrava mai minimamente turbato o


offeso, e si limitava ad accennare qualche nota mentre usciva, sollevando il cappello nero in segno di saluto. «A volte,» disse Pearl guardandolo andar via, con il cagnolino festoso alle calcagna «questo quartiere mi sembra molto strano. E dovresti vedere dove abito io.» Il sole splendeva ancora giovedì mattina. Meglio. Issy deglutì: non poteva fare a meno di ripensare a un anno prima. Dopo il lavoro erano andati tutti al pub per festeggiare il suo compleanno e si era divertita un sacco. Lei e Graeme continuavano a fingere di uscire per una sigaretta, anche se nessuno dei due fumava, per poi sbaciucchiarsi nel vicolo come due ragazzini. Non era da lui essere così romantico e affettuoso. Era stata una serata fantastica. Le piaceva così tanto l’idea di aver perso la testa per il capo, e aveva tanti progetti. Aveva persino pensato... che potesse scapparci un anello quell’anno. Ora le sembrava così assurdo, e stupido. Di sicuro lui non ci pensava minimamente, quello era poco ma sicuro. Issy ricordava bene quand’era il compleanno di Graeme: il 17 settembre. Aveva firmato il biglietto d’auguri dell’ufficio come tutti gli altri, ma le piaceva pensare di aver attribuito un significato particolare alla fila di baci che aveva scritto sotto il suo nome; o almeno che lui avrebbe capito cosa volesse dire. Era un Vergine, con una tendenza alla pignoleria e al perfezionismo che Issy conosceva bene. Le piaceva leggere il suo oroscopo: le sembrava di proteggerlo e, in un certo senso, di possederlo. Ma ovviamente lui non si ricordava mai il suo. Comunque una volta le aveva anche detto che secondo lui le ragazze perdevano il lume della ragione quando si trattava di regali e cose del genere. Non gli sarebbe importato neppure se fossero stati ancora insieme. A un tratto, desiderò di non aver detto a nessuno del suo compleanno. Sarebbe stato molto meglio ignorarlo completamente. Era imbarazzante di fronte a Helena e Ashok... come se fossero i suoi unici amici; e non faceva che ricordarle che, malgrado lavorasse sodo e comprasse tutte le creme del mondo e riuscisse ancora a fare shopping da Topshop, il tempo passava. No. Non voleva pensarla così. Trentadue anni non erano nulla. Nulla. Helena non era minimamente preoccupata per la sua età, e aveva trentatré anni da un secolo. Avrebbe dovuto deprimersi solo perché alcune sue amiche non facevano che ostentare i pancioni e tutte quelle belle mamme di Stoke Newington non sembravano certo più vecchie di lei quando se ne andavano in giro con le loro piccole Olivia e i loro piccoli Finn? Neanche per sogno. Stava mettendo a posto la sua vita e stava decisamente meglio rispetto all’anno prima; se non altro aveva un lavoro vero e il Cupcake Café le dava grandi soddisfazioni. Squillò il telefono. Per un attimo, si ritrovò a chiedersi se fosse Graeme. «Pronto?» disse una voce roca e gracchiante. «Pronto?» Issy sorrise. «Nonno!» «Che fai di bello oggi? Festeggi degnamente?» le chiese Joe. Aveva la voce più flebile e il respiro più pesante, come se stesse diventando sempre più leggero e stesse per staccarsi da terra. Issy ripensò ai compleanni sopra la panetteria. Il nonno le preparava una torta speciale, decisamente troppo grande per lei e il gruppetto di amici che andavano a trovarla. Spesso le chiedevano dove fosse sua madre o, quando Marian era presente, perché avesse dei bastoncini tra i capelli e se ne stesse seduta in silenzio con le gambe incrociate (la madre si era data alla meditazione trascendentale e le diceva che, se avesse fatto abbastanza esercizio, avrebbe potuto imparare a volare). Ma, a parte rare eccezioni, si trattava per lo più di bei ricordi: la glassa rosa, le candeline, le luci soffuse, il tavolo del nonno pieno di prelibatezze (non c’era da stupirsi che fosse stata una bambina così paffuta) e tutti i clienti della panetteria che, avvertiti in tempo dal nonno orgoglioso, si


affacciavano sulla porta per farle gli auguri. Riceveva tanti piccoli regali – pennarelli, quaderni e cianfrusaglie varie –, ma si sentiva comunque una principessa. Se qualcuno le avesse detto allora che era possibile sentirsi soli il giorno del proprio compleanno, non ci avrebbe creduto. Ora, invece, sì. Fece un profondo respiro. «Sì» mentì, tentando di controllare il tremolio della voce. «Ho organizzato una festa con tutti i miei amici; andiamo a mangiare in un bel ristorante e mi faranno un fantastico regalo.» La verità, invece, era che sarebbe andata a lavorare, avrebbe preparato i dolci, servito i clienti, e poi, dopo aver chiuso la cassa e il locale, sarebbe tornata a casa, avrebbe mangiato una zuppa di carote davanti alla tv e via a letto. Sentì qualcuno suonare alla porta: doveva essere il corriere che le consegnava la solita cassa di vini californiani che sua madre le regalava tutti gli anni. Be’, peggio ancora: si sarebbe scolata una bottiglia prima di andare a dormire, in modo da dover anche fare i conti con i postumi della sbornia. «Nonno, suonano alla porta. Devo andare. Ma domenica vengo a trovarti.» «Pronto? Pronto?» disse Joe, che, pur essendo all’altro capo del filo, sembrava lontano anni luce. «Pronto? Mi sente? Con chi parlo?» «Sono Issy, nonno.» «Mm. Issy. Sì. Bene.» Ebbe una stretta al cuore. Il campanello suonò di nuovo, con più insistenza. Se non avesse risposto, avrebbe dovuto ritirare il pacco al deposito. Non aveva assolutamente tempo per farlo. «Devo andare, nonno. Ti voglio bene.» «Sì. Mm. D’accordo.» Issy infilò la sua vestaglia brutta ma comoda e rispose alla porta. Sì, era proprio il corriere con la cassa di vini. Per un attimo aveva pensato che Graeme le avesse mandato... dei fiori, magari... Ma no. Comunque lo sapevano tutti che quel giorno sarebbe stata al caffè. Firmò e sbirciò dentro la scatola. Eh sì, rosso californiano, come al solito. Sua madre avrebbe dovuto sapere che Issy beveva solo vino bianco o rosé, no? Che tutte le volte che uscivano insieme non ordinava mai del rosso perché le faceva venire il mal di testa. Forse era il suo modo di evitare che bevesse troppo. Forse era il suo modo di dimostrarle che le voleva bene. Quella stessa mattina Graeme si svegliò al Malmaison Hotel di Edimburgo e prese una decisione. Era un po’ di tempo che ci pensava, ed era arrivato il momento di agire. Era un uomo forte e risoluto, si disse: sarebbe andato a prendersi ciò che voleva. Al caffè, Louis la tirò un po’ su abbracciandola forte e dandole un biglietto pieno di chiazze arancioni che aveva fatto da solo. «Grazie, amore» disse Issy grata, godendosi la sensazione delle sue braccine intorno al collo. Il piccolo la baciò sulla guancia, bagnandola tutta. «Bon compliano, zia Issy!» esclamò. «Io cinque anni!» «Non hai cinque anni, ne hai due» lo corresse Pearl in tono indulgente. Louis lanciò a Issy un’occhiata birichina, come se fosse il loro segreto. «Io cinque» ripeté, annuendo deciso. «Be’, io di anni ne ho un po’ di più» rispose lei, ammirando il biglietto e appendendolo al muro. «Buon compleanno, capo» disse Pearl. «Ti preparerei una torta, ma...» «Lo so, lo so» mormorò Issy, mettendosi il grembiule. «Allora...» aggiunse Pearl, voltandosi e tirando fuori un Tupperware dalla borsa. Aprendolo, Issy


lanciò un urletto e si portò la mano alla bocca. «Non possiamo farla vedere ai clienti.» «No» rispose Pearl sorridendo. «Anche perché volerebbe via.» Nel contenitore c’era una specie di torta dall’aspetto pericolante. Ma non era fatta di pan di spagna, bensì di cornetti di mais su una base di patatine classiche, con in cima una torre di anelli di formaggio e una patatina a fiammifero a mo’ di bandierina. «Mi hanno guardato male sull’autobus» aggiunse. «Ho usato la Marmite per tenerle insieme.» Issy l’abbracciò, commossa. «Grazie di tutto. Davvero, non... non so come avrei fatto senza di te.» «Figurati... A quest’ora tu e Caroline stareste aprendo filiali a Tokyo» ribatté Pearl, dandole dei colpetti affettuosi sulla schiena. «State parlando di me?» cinguettò Caroline entrando. Le ragazze si voltarono a guardarla: non sarebbe dovuta arrivare prima dell’ora di pranzo, e Caroline non sbagliava mai i turni. «Sì, sì, lo so, sono in anticipo. È il tuo compleanno, no?» disse rivolta a Issy, che la guardava interdetta. «Okay, ecco il mio regalo per te: una mattina libera. Ho subappaltato i marmocchi.» «Cioè li hai lasciati a scuola?» chiese Issy. «Esatto. Io e Pearl difenderemo il forte. Con la sua stazza, metterà in fuga tutti i nemici.» Issy sapeva che Caroline non voleva offenderla, ma sentì Pearl irrigidirsi. «Sicure?» chiese. «Certo» rispose Pearl. «Ci pensiamo noi. Tu levati dai piedi!» «Ma non so cosa fare. Tutto questo tempo per me... Non so...» «Be’, la pacchia finisce all’una e mezzo, quando inizia la mia lezione di reiki» intervenne Caroline. «Se fossi in te, mi darei una mossa.» Il sole era caldo sulla pelle mentre Issy risaliva la strada, sentendosi stranamente libera e leggera. Nessuno sapeva dove fosse! Poteva prendere l’autobus per Oxford Street e darsi allo shopping sfrenato! Mm... forse però non aveva abbastanza soldi. Avrebbe dovuto informarsi da Austin. Non aveva idea dello stato delle sue finanze. Solo che si sentiva molto a disagio all’idea di chiederglielo. Probabilmente le avrebbe rifilato un’altra ramanzina. Ma cosa le importava? Non avevano nessun rapporto personale, quindi non doveva preoccuparsene: si sarebbe rivolta a lui come professionista. Austin le aveva fatto capire chiaramente che avrebbero dovuto regolarsi così, e comunque non aveva importanza. La impensieriva di più dover passare davanti a tutti gli altri caffè su Stoke Newington High Street. Non si era dimenticata cos’era successo l’ultima volta. Era stato molto spiacevole, ma nessuno l’aveva più infastidita da allora. Be’, al diavolo anche quello: quel giorno non voleva pensare a niente. Era il suo compleanno e, se voleva passare davanti a tutti i caffè di Stoke Newington, lo avrebbe fatto. Sperando che nessuno la riconoscesse e sentendosi nervosa e al tempo stesso spavalda, risalì a lunghi passi la strada, il naso in su per evitare di incrociare sguardi ostili. Che agli altri piacesse o meno, faceva parte di quella comunità, punto e basta. Era una di loro. Si sedette a uno dei tavoli esterni del pub di fronte alla banca. Forse un giorno anche il Cupcake Café li avrebbe avuti: nessuno si era lamentato dei clienti seduti sotto l’albero, ma non era carino nei confronti degli altri negozianti, e il proprietario della ferramenta li guardava sempre storto quando passava loro davanti col suo passo spedito alle ore più disparate della giornata. Issy ordinò un caffè e scoprì con orrore che costava solo una sterlina e cinquanta. Pazienza. Alle nove e dieci apparve lui, di fretta come sempre, con la camicia mezza fuori dai pantaloni sopra, Issy non poté fare a meno di notarlo, un gran bel sedere. Doveva essere il sole. In genere non guardava i sederi degli uomini, a


parte quello scolpito dalla palestra di Graeme, che ne andava sin troppo fiero. Comunque non stava guardando il sedere di Austin. Doveva fargli una domanda di carattere professionale, e basta. E non aveva voglia di vederlo, anche se la camicia celeste si intonava perfettamente ai suoi occhi. «Austin!» chiamò in tono esitante, agitando il giornale. Lui si voltò e, vedendola, sembrò prima felice, poi preoccupato. Issy ebbe un moto di stizza: non c’era bisogno che la guardasse come se fosse una stalker. Austin attraversò la strada. Era indispettito da quanto fosse contento di vederla. Ma di sicuro si trattava di una faccenda di lavoro. «Non preoccuparti, si tratta di lavoro» esordì Issy, pentendosi subito delle sue parole. Voleva sdrammatizzare, ma le venne fuori solo una frase infelice. «Urrà» disse lui, sedendosi. «Se beviamo un caffè possiamo considerarla lo stesso una riunione?» Issy lo guardò mentre telefonava a Janet. «Sì, mi sono dimenticato di avvertirti... Ah, avevo già un altro appuntamento? Per favore, digli che mi dispiace tantissimo...» Issy scosse la testa. «Come fa Janet con te?» «Fa così» rispose Austin, fulminandola con lo sguardo. «Le ho detto che le cose cambieranno, ma non mi crede. Nessuno mi crede.» Poi, quando arrivò il suo caffè, osservò: «Questo posto è migliorato». «Ah sì?» «Dovevi vedere com’era prima.» «Se lo dici tu...» Issy era lieta che, se non altro, non ci fosse imbarazzo tra loro. Anche se avrebbe dovuto esserci: Austin non meritava la sua gentilezza, pensò. Non gli chiese di Darny: troppo personale. «Avrei bisogno di sapere... ho abbastanza soldi?» «Dipende» rispose lui, versando quattro cucchiaini di zucchero. Quando si accorse che Issy lo fissava, le fece una linguaccia e ne aggiunse un altro. A volte, con lei, non riusciva proprio a trattenersi. «Certo che come consulente finanziario sei strano» sospirò Issy. «Non è vero. Gli altri giocano a golf. Ti rendi conto? A golf! Loro sì che sono strani.» «Allora, da cosa dipende?» domandò Issy. «Da cosa vuoi farci. Vuoi chiudere bottega e ritirarti in Sudamerica?» «Posso farlo?» «No, non puoi farlo. Era solo un esempio.» «Okay. In realtà, mi stavo chiedendo... posso andare a fare shopping?» Issy aveva trasferito il suo conto personale alla filiale di Austin poco dopo l’apertura del caffè: le sembrava più pratico avere tutto insieme. Era strano che lui fosse così informato sui suoi risparmi, visto che avevano convenuto di non buttarla sul personale. «Cosa devi comprare?» Issy si sentì improvvisamente imbarazzata. «È che... oggi è il mio compleanno.» Lui parve un po’ stupito e un po’ mortificato. «Auguri! Che sorpresa!» esclamò. «No, okay, non è vero, lo sapevo. È scritto su tutti i moduli che hai compilato» aggiunse poi, visibilmente nervoso. «Ehm... Li ho messi a posto di recente. È per questo che... lo sapevo. Ma non ti ho fatto gli auguri nel caso in cui tu non dessi particolare importanza alla cosa. Ecco... Solo che invece gliene dai, giustamente, quindi: buon compleanno.» E fece un sorriso goffo. «In effetti, non avrei dovuto dare particolare importanza alla cosa» ammise lei. «Diciamocelo, come compleanno fa abbastanza schifo. Cioè, lavoro a parte. Il Cupcake Café va bene. Ma questo non fa che confermare che ho basato tutta la mia vita su quello anziché cercare di trovare un equilibrio tra


la vita e il lavoro! Significa che traggo da lì tutto il mio sostentamento emotivo e non riuscirò mai ad andare avanti...» «Secondo me significa solo che hai letto troppi libri di autoaiuto.» «Sì, in effetti è possibile» riconobbe Issy, cercando di calmarsi. «Dovresti essere orgogliosa di te stessa. Guardati, sei una donna d’affari di successo.» «Lo so.» «Cos’hai fatto il giorno del tuo ultimo compleanno?» «Be’, sono uscita con i colleghi...» Austin alzò gli occhi al cielo. «Visto?» «E tu cos’hai fatto invece?» ribatté Issy. «Io e Darny siamo andati a una fiera dell’hot dog.» «Di chi è stata l’idea?» «Di Darny, credo.» «Mm... e com’è andata?» Austin fece una smorfia al ricordo. «Be’, diciamo che buona parte degli hot dog è finita sul marciapiede... dopo essere passata dallo stomaco.» Sorrise e aggiunse: «Però Darny ha detto che ne era valsa la pena. Ho ancora il suo biglietto d’auguri, guarda». Austin frugò nella tasca della giacca e tirò fuori alcune ricevute della lavanderia, un piccolo cowboy di plastica e la tessera elettorale. «Ecco dov’era finita» disse fra sé. «Be’, un tempo c’era anche il biglietto. Era bellissimo: Darny aveva fatto un disegno di noi che combattevamo un enorme mostro di cacca. E, vomito a parte, è stata una bella giornata. Anche perché abbiamo dimenticato il vomito con un bel gelato.» «Non so se era il caso» osservò Issy sorridendo. «In realtà è un ottimo digestivo. Si imparano un sacco di cose a fare i genitori putativi.» A un tratto, Issy prese una decisione. Okay, si era dovuta sorbire la sua predica: non era la prima e non sarebbe stata l’ultima. Aveva giurato che non lo avrebbe fatto, eppure i suoi piedi l’avevano portata fin lì... Avrebbe potuto benissimo chiamare Janet per avere il suo estratto conto. Ma non l’aveva fatto. Quindi adesso glielo avrebbe chiesto. Deglutì. «Ehm...» cominciò «che ne dici se tu... e Darny, immagino, o forse puoi chiamare una baby sitter? No, certo che no, che idea stupida, lascia perdere.» «Cosa?» chiese Austin, improvvisamente nervoso. «Ehm... non importa» disse Issy, consapevole di essere arrossita fino alla punta dei capelli come non le capitava da tempo. Voleva dire che stava migliorando? «Cosa?» insisté Austin. Aveva bisogno di sapere cosa stava per dire. Quel suo tergiversare era una tortura. Ma era quello che intendeva? E cos’era che voleva veramente? Issy aveva gli occhi fissi a terra e sembrava in agonia. «No... volevo chiederti se ti andava di bere qualcosa con me stasera. Ma è una pessima idea, lascia stare. È che avrei dovuto organizzare qualcosa con i miei amici, fra l’altro ne ho un sacco...» «Sono contento per te» la interruppe Austin. «...Comunque non importa. Lascia perdere.» Issy abbassò di nuovo lo sguardo, affranta. «Okay. Mi sarebbe piaciuto molto, ma stasera ho un impegno.» «Ah» sussurrò Issy senza alzare gli occhi. Calò il silenzio. Si sentiva così umiliata... Come le era venuto in mente? Aveva davvero chiesto al suo consulente finanziario di uscire con lei, dopo che lui le aveva fatto capire chiaramente che non era interessato? E ora lui, per ribadire il concetto, aveva rifiutato di nuovo, e avrebbero dovuto


continuare a lavorare insieme chissà per quanto e lui avrebbe pensato che si era presa una cotta. Perfetto. Una giornata indimenticabile. Il miglior compleanno della storia. «Be’, è meglio che vada» mormorò Issy. «Okay» rispose lui. Si alzarono allo stesso momento e, imbarazzati, si voltarono per attraversare la strada. «Ehm, ciao.» «Ciao» rispose lui. Poi alzò le braccia in un gesto maldestro come a volerla baciare sulla guancia, e Issy si sporse verso di lui con altrettanta goffaggine; poi le venne in mente che forse non era quello che Austin voleva fare e si tirò indietro. Ma era troppo tardi. Lui pensò che gli si fosse avvicinata per uno di quei baci formali che trovava terribilmente imbarazzanti, e si chinò per darle un bacio sulla guancia proprio mentre si stava voltando, poggiando per sbaglio le labbra sull’angolo della bocca di Issy. Lei balzò indietro con un sorriso finto volto a dissimulare la sua costernazione, mentre Austin si portò d’istinto la mano alla bocca. «Ciao!» esclamò di nuovo Issy, rossa come un peperone, ripensando per un attimo alla sensazione delle labbra incredibilmente morbide di Austin sulle sue. Quella mattina Austin fu più distratto del solito con il cliente che aveva fatto aspettare. Dio, quella ragazza. Alla fine Issy non andò a fare shopping. Comprò del formaggio cremoso, un bagel al salmone affumicato, una bottiglietta di champagne con una cannuccia (poteva sembrare un po’ fuori luogo per la tarda mattinata, ma non le importava) e una rivista, e andò al parco. Cercò di godersi le grida dei bambini felici degli altri che gettavano pane alle anatre e l’emozione mista a turbamento che provava quando ripensava al quasi-bacio accidentale di Austin. Molti suoi amici le mandarono gli auguri tramite Facebook, che non era certo come festeggiare in loro compagnia, ma era comunque meglio di niente. Il suo cellulare non faceva che trillare. Dopo il bagel, mangiò un gelato e si stese sull’erba a guardare le nuvole. Ne aveva fatta di strada nell’ultimo anno. Doveva smetterla di essere così pessimista e cercare di vedere il bicchiere mezzo pieno e... No. Non ci riusciva proprio. Le girava la testa per colpa dello champagne e a un tratto, in quel parco rumoroso e brulicante di persone, si sentì terribilmente sola. «Su con la vita, tesoro» disse uno dei muratori di Kate. Issy si voltò verso Pearl. Era tornata al caffè e aveva mandato via Caroline, che, fra un cliente e l’altro, aveva raccontato a Pearl una storia intricata sulla sua vacanza nella Repubblica dominicana che, chissà perché, pensava l’avrebbe colpita e l’avrebbe aiutata a ingraziarsela, e invece, come aveva notato Issy, non aveva ottenuto nessun risultato. «E nove» disse Issy. «Nove cosa?» chiese il muratore, che stava già divorando gli Smarties sopra i cupcake alla cannella. «Mm, che buoni.» «È la nona volta che qualcuno entra e dice: “Su con la vita, tesoro”.» «Tre hanno detto: “Sorridi”» aggiunse Pearl. Issy si guardò intorno. Il caffè era piacevolmente pieno; nell’aria aleggiava il profumo del mazzo di gigli che aveva comprato di ritorno dal parco per tirarsi un po’ su; con le finestre e la porta spalancate (cosa che, come aveva sottolineato Pearl, andava contro le norme antincendio, ma avevano un’estate così breve), il caffè aveva un aspetto fresco ed estivo e risuonava del tintinnio delle stoviglie e delle voci dei clienti. Issy aveva anche comprato dei nuovi piatti a fiori per esaltare


i pan di spagna al limone e all’arancia con sopra la scorza candita che andavano a ruba nei mesi più caldi ed erano bellissimi da vedere. I due studenti che avevano trascorso la piovosa primavera a finire le tesi sfruttando la connessione wi-fi gratuita del caffè erano seduti l’uno vicino all’altra, battendo sulla tastiera e baciandosi. Issy sospettava che ormai condividessero molto più del wi-fi. Be’, era bello sapere che almeno qualcuno non si sentiva solo il giorno del suo compleanno, pensò tristemente. «Allora, come va?» chiese il muratore, sorseggiando il cappuccino. Issy si morse il labbro. Kate l’avrebbe ammazzata. Aveva chiesto a Caroline, «in nome della loro amicizia», di smetterla di servire il cappuccino agli operai. Caroline le aveva spiegato che, in base a un’analisi costi/benefici, nessun esperto di marketing degno di quel nome avrebbe mai amministrato un’attività partendo da quel presupposto e Kate aveva perso le staffe e le aveva detto che, prima di aver rinunciato alla sua vita per allevare due bambine ingrate, aveva fatto un master in economia, quindi grazie tante, ma non aveva bisogno di prendere lezioni dalla ex moglie di qualcuno, e Issy era dovuta intervenire prima che Kate portasse il suo gruppo di cucito da un’altra parte, privandola di guadagni preziosi. Tuttavia condivideva l’approccio di Caroline e avrebbe servito chiunque fosse entrato da quella porta, indipendentemente dall’opinione di Kate. «Cos’è, ti è morto il gatto?» aggiunse il muratore. «Veramente mi sono morti tutti i parenti più stretti» ribatté Issy stizzita. Che domanda stupida. Il muratore parve offendersi. «Scusami, non volevo. È solo che... oggi è il mio compleanno. E sono single, i miei amici sono lontani e mi sento un po’ sola, ecco.» «Sì?» chiese il muratore che aveva una trentina d’anni e un’aria impertinente ma simpatica. «Puoi uscire con me e i ragazzi, se vuoi. Andiamo a farci una bevuta.» Issy si trattenne dall’esclamare: “Di giovedì? Kate andrà su tutte le furie” e si limitò a sorridere. «Io e un branco di operai?» «Certe ragazze apprezzano» ribatté lui. «È il tuo giorno fortunato» intervenne Pearl. «Adesso, via! Fuori di qui, mi stai sporcando tutto il pavimento.» «Non cacciarmi!» implorò il ragazzo. «Ti prego!» Ma Pearl lo stava già spingendo verso l’uscita. «Tu finisci la casa di quella simpatica signora e noi ti vendiamo i dolci, chiaro?» «Non è per niente simpatica!» ribatté il muratore. Issy era tentata di dargli ragione, visto che Kate era venuta al caffè più volte, mettendosi a fare su e giù e a battere il piede e a sbuffare quando riteneva che gli operai si trattenessero troppo a lungo. «Non è questo il punto» disse Pearl. «Sei pagato per fare un lavoro, quindi fallo. Dopodiché ci saranno tutti i dolci che vuoi. E adesso fuori!» L’uomo fece l’occhiolino a Issy. «Meno male che i cupcake sono buoni, perché l’accoglienza fa un po’ schifo.» «Su, fa’ il bravo, e torna al lavoro» lo rimproverò Issy. «Ci trovi al Fox and Horses!» sbraitò lui uscendo. «Dalle quattro e mezzo in poi!» Pearl scosse la testa e si voltò per servire la ragazza dell’agenzia di lavoro interinale lungo la strada. «Dico sul serio, li caccio.» Issy sospirò. «Non ci posso credere che sia l’invito migliore che ho ricevuto oggi.» Poi, rivolta a Pearl: «Comunque grazie. Non vorrei mai perdere il gruppo di Kate». «Tanti auguri» disse la ragazza dell’agenzia, che sembrava sempre aver dormito due ore e cercare


una robusta dose di caffeina in tutto quello che comprava, cupcake al caffè compreso. «I compleanni fanno schifo» aggiunse poi. «Ho passato l’ultimo a guardare film dell’orrore tutta la notte. Non riuscivo a dormire: soffro di insonnia.» «Anch’io soffrirei di insonnia se guardassi film dell’orrore» osservò Pearl. «Oddio» mormorò Issy, pensando disperatamente a cos’avrebbe potuto fare quella sera a parte guardare la tv. «Un altro caffè?» «Sì, grazie. E buon compleanno.» Issy non aveva neanche voglia di chiudere il locale a fine giornata; non cercò di mandar via gli ultimi clienti che armeggiavano con il portatile, né raccolse i giornali da riciclare. Indugiò, preparando tutto per la mattina dopo. Pearl la guardò. «Devo andare a prendere Louis.» «Okay.» «Ti va di... venire a cena da noi?» Issy non sopportava l’idea che Pearl la compatisse. Il che non era bello: significava che sentiva di dover compatire Pearl perché la compativa. «No, no...» rispose. «Cioè, mi piacerebbe, ovviamente,» si affrettò ad aggiungere «ma... non stasera.» Pearl annuì. «Okay, allora ciao!» La campanella sopra la porta suonò e uscì. Era ancora un bel pomeriggio, anche se le ombre si stavano allungando. Al diavolo, pensò Issy, girando il cartello e chiudendo a chiave la porta. Era assurdo. Non aveva fatto altro che deprimersi tutto il giorno. Basta. Senza quasi pensarci, uscì dal caffè e si diresse verso Stoke Newington High Street, dove un’amica di Caroline aveva da poco aperto un negozietto. Anche se era ancora a disagio al pensiero di dover percorrere quella strada, decise di andare a dare un’occhiata. Il negozio, che si chiamava semplicemente 44, era pieno zeppo di vestiti e profumava di cose belle e costose. Issy cercò di non sentirsi intimidita dalla proprietaria bionda ed elegante con il rossetto rosso e gli occhiali anni Cinquanta seduta dietro il bancone. «Salve» disse. «Cercavo un vestito.» «È nel posto giusto» rispose la donna, squadrandola da capo a piedi con aria professionale. «Da sera? O qualcosa di elegante ma non eccessivo?» «La seconda che ha detto.» Issy si guardò intorno. «E che non costi troppo.» La proprietaria alzò un sopracciglio perfettamente depilato. «Be’, sa, la qualità si vede.» Issy arrossì, ma la donna era già scomparsa sul retro. «Resti lì!» gridò. Issy non si mosse, limitandosi a osservare quella specie di grotta di Aladino: tutt’intorno erano appesi deliziosi abiti da cocktail di chiffon rosa e rosso acceso che sembravano aspettare di essere cosparsi di profumo e portati a ballare; borsette con grossi fiocchi lucidi in cui c’era giusto lo spazio per un invito e un rossetto; scarpe incredibilmente belle. Era passato davvero tanto tempo dall’ultima volta in cui si era vestita bene per un’occasione o un uomo speciale. La donna riapparve con un abito. «Ecco qua» disse, spingendo Issy dentro il minuscolo camerino. «Ha un reggiseno decente? No, come pensavo.» «Lei è prepotente come Caroline» osservò Issy. «Caroline è un agnellino in confronto. Si chini.» Issy obbedì e, quando si tirò su, il morbido jersey verde muschio del vestito le cadde lungo il corpo, mentre la seta della fodera le accarezzava la pelle. L’abito sottolineava le sue curve,


donandole una vitino di vespa, mentre la gonna dal taglio svasato ruotava a ogni movimento. Il verde metteva in risalto i suoi occhi creando un piacevole contrasto con i capelli neri; lo scollo a barchetta lasciava intravedere le spalle bianche e le maniche al gomito erano perfette. Un abito da sogno. «Accidenti» mormorò Issy, guardandosi allo specchio e girando su se stessa. «È bellissimo.» «Sì, lo sapevo che avrebbe fatto al caso suo» disse la signora, osservandola da sopra gli occhiali. «Molto bene.» Issy sorrise. «Quanto costa?» La cifra era quasi più di quanto Issy avrebbe mai immaginato di pagare un vestito. Ma, mentre si specchiava, capì che doveva essere suo. Perché era bello, certo, ma anche perché i soldi che avrebbe sborsato per comprarlo li aveva guadagnati fino all’ultimo penny. «Lo prendo» disse. Tornò al locale, consapevole di essere uscita di corsa senza aver portato a termine le sue incombenze, ma felice di averlo fatto. Andò dritta verso la macchina del caffè, si preparò un bel cappuccino schiumoso, lo cosparse di cacao in polvere, scelse uno dei pochi cupcake rimasti, al cioccolato e peperoncino, forse un po’ troppo audace per la sua clientela, ma squisito, prese il giornale della sera e si lasciò cadere sul divano, con la schiena alla finestra di modo che nessuno la vedesse e pensasse che il caffè fosse ancora aperto. Non aveva niente da fare e nessuno con cui farlo, quindi se la sarebbe presa comoda. Sarebbe rimasta lì solo qualche minuto. Il divano era comodo, e lei aveva avuto una giornata pesante, e aveva ancora parecchie cose da fare, fra cui stipulare l’assicurazione e fare l’inventario e controllare se qualcuno le avesse mandato dei fiori a casa, e magari avrebbe potuto bere un po’ del pessimo vino della madre mentre faceva un bagno caldo, e... Quando si svegliò, stava scendendo la sera e l’alberello proiettava la sua ombra dentro il caffè. Issy batté le palpebre, senza sapere bene dove si trovasse. Udì un suono vagamente familiare... sì, era il violino di Felipe. Ma perché avrebbe dovuto suonare a quell’ora della sera, quando era ormai tutto chiuso? Non era mattina, vero? Guardò l’orologio. No, aveva dormito solo un’ora e mezzo. Quindi cos’era tutto quel baccano? Si voltò, stiracchiandosi e... «Sorpresa!» Inizialmente Issy pensò di essersi di nuovo addormentata. Non era possibile. Fuori, nella luce calante, vide l’alberello coperto di lampadine colorate, tutte accese, che le ricordarono la Landa della Lanterna di Narnia. Ma ciò che vide sotto l’albero la lasciò a bocca aperta: Felipe, che indossava uno smoking piuttosto consunto, stava suonando Someday e intorno a lui c’erano... tutti. C’erano Helena e Ashok ovviamente, che le cingeva le spalle con un braccio mostrandola come un pezzo di porcellana finissima. Ashok era convinto di dover ringraziare la sua tenacia se era stato ammesso alla facoltà di medicina e aveva superato dure selezioni e, un giorno, sarebbe diventato un importante chirurgo. Con Helena aveva usato la stessa arma e, alla fine, i suoi sforzi erano stati ripagati. Cercava di non sorridere troppo, ma si sentiva scoppiare di felicità. Issy vide anche Zac con la sua fidanzata Noriko. E poi Pearl e Louis, che ridevano a crepapelle, mentre Hermia e Achilles saltellavano allegramente intorno a Caroline. Ma, soprattutto, scorse tutti i suoi vecchi amici. Tobes e Trinida, direttamente da Brighton; Tom e Carla da Whitstable e Janey, che Issy conosceva da quando erano entrambe matricole: sembrava esausta ma per l’occasione era riuscita a separarsi dal figlio appena nato. E poi ancora Paul e John, innamorati pazzi; Brian e Lana, con cui Issy si era rassegnata ad avere un rapporto solo su Facebook; persino François e Ophy del suo vecchio ufficio... Issy era al settimo cielo. Si precipitò verso la porta, ma si ricordò di essersi chiusa dentro, e dovette armeggiare con le chiavi mentre i suoi amici se la ridevano in cortile. Poi, quando li fece finalmente entrare, intonarono Tanti auguri a te facendola subito commuovere, come


pure gli abbracci e i baci e i favolosi regali. «È la tua ultima occasione» disse Zac, con un mezzo sorriso. «Piantala di trascurare gli amici.» «Okay» rispose Issy, annuendo energicamente. Chi non aveva ancora visto il caffè rimase stupefatto e ammirato e Helena aprì le casse di champagne che avevano portato da casa, dopo che erano rimasti nascosti nella dispensa per tre quarti d’ora prima di rendersi conto che Issy non sarebbe rincasata. Pearl lo aveva capito subito e aveva chiamato Helena; così si erano ritrovati tutti nel cortile, ridacchiando divertiti e cercando di non farsi scoprire. E ora era tempo di far festa! E Issy aveva anche il vestito perfetto. Felipe continuò a suonare allegramente mentre gli amici, i clienti e i curiosi (Berlioz si affacciò per rubare qualche stuzzichino) si mischiavano e chiacchieravano. La serata era tiepida e le luci soffuse del Cupcake Café si fondevano con le lampadine dell’alberello e con le candele che Helena aveva portato e che donavano a Pear Tree Court un bagliore magico, trasformandolo in uno spazio incantato, un paradiso privato pieno di amici ridenti, allegri brindisi, torte di compleanno e di ogni tipo. Louis ballò con tutti e il suono dell’amicizia e dell’allegria si diffuse fino alle case di mattoni; chiunque passasse per la strada si domandava cosa fosse quella piccola oasi di luce scintillante sotto il cielo che imbruniva. Come capita spesso durante le rimpatriate, nel giro di poco tempo tutti quanti erano un po’ brilli, così quando Austin riuscì finalmente a lasciare Darny alla baby sitter e uscire (incrociando le dita, ed evitando di spiegarle che, a meno che non avesse un dottorato in dinosauri, la attendeva una serata movimentata), Issy era rossa in viso e su di giri, e parlava del caffè, di bambini, di amici assenti, di vecchi aneddoti a chiunque entrasse nella sua orbita. Pearl aveva chiamato Austin raccomandandosi con una certa insistenza che venisse, e lui non aveva nessuna intenzione di incorrere nelle sue ire. Quando arrivò, si accorse subito che erano tutti un po’ sbronzi. Quindi avrebbe dovuto continuare a recitare la parte del serio consulente finanziario. Sospirò. «Austin!» strillò Issy appena lo vide, dopo uno o due bicchieri di champagne. Va bene, non era interessato, si ritrovò a pensare. Pazienza. Però era lì! Graeme invece no: nessuno lo aveva nominato. Era il suo compleanno e il suo nuovo vestito verde le stava benissimo; si sentì improvvisamente bellissima, e piena di gioia, felicità e amore. Era la festa che suo nonno aveva sognato per lei e voleva condividerla con tutti. Gli si avvicinò a passo di danza. «Lo sapevi!» esclamò in tono accusatorio. Austin pensò che era incantevole con i suoi riccioli ribelli e le guance e le labbra rosse. «Lo sapevi!» «Be’, certo» rispose pacatamente lui, rimanendo stupito quando lei gli buttò le braccia al collo. Era certo che ci fosse qualcosa sul manuale della banca a proposito dell’inopportunità di intrattenere rapporti personali con i clienti. Ma tanto lui non l’aveva mai letto. Ripensò al loro quasi-bacio di quella mattina e si guardò intorno. Una bionda magra come un chiodo lo stava fissando avidamente. «Chi è quello?» chiese Caroline, lasciando cadere la mano di Achilles, che si mise subito a piagnucolare. «Giù le zampe» ringhiò Pearl. Caroline fece una risatina. «Perché, lui e Issy...» L’occhiataccia di Pearl la zittì, anche se quella sera si sentiva spavalda. Austin sorrise. «Me l’ha detto Pearl di venire. O meglio, me l’ha ordinato. E quando Pearl ti dice di fare qualcosa...» Issy annuì energicamente. «Eh, già. Se ci tieni alla pelle, obbedisci.» Pearl, che se ne stava dalla parte opposta del caffè e chiacchierava con gli amici di Issy che le stavano dando più informazioni sulla motilità intestinale del loro nuovo nato di quante avrebbe


voluto sentire, lanciò loro un’occhiata. La luce illuminava i capelli di Issy, che si era alzata in punta di piedi per sentire meglio cosa diceva Austin, così alto e arruffato. Di qualunque cosa si trattasse, Issy era scoppiata a ridere, afferrandogli il braccio. Pearl sorrise fra sé. Sì. Le sembrava proprio quello giusto. «Ehm» intervenne Helena, comparendo accanto a Issy, che si allontanò da Austin con aria diffidente. «Sì?» le chiese. Poi aggiunse, d’un fiato: «Oh, Lena, non ci posso credere che hai organizzato tutto quanto. Sono così... così...» «Sì, sì» tagliò corto Helena. «È che lavoravi così tanto, e sapevo che avevi voglia di vedere gente, quindi...» «È stato veramente carino da parte tua.» Helena lanciò un’occhiata penetrante a Austin. «Ah, lui è...» cominciò Issy, sentendosi arrossire. «Austin?» chiese Helena, con grande imbarazzo di Issy, che disse fra sé: fantastico, adesso saprà che ho parlato di lui. «Ciao.» «Ciao» rispose Austin, tutto serio. Helena pensò che Issy aveva parlato troppo dei suoi capelli rossicci e troppo poco degli splendidi occhi grigi e delle spalle larghe. Quel tizio era infinitamente più bello di Graeme. Ma non voleva che Issy puntasse troppo su di lui per poi rimanere di nuovo delusa. Due volte in un anno sarebbero state troppe. «Devi dedicare più tempo ai tuoi amici» disse Helena a Issy, sempre più rossa. «Hanno fatto tanta strada per vederti. Lui lavora dietro l’angolo.» Issy sorrise a Austin, come a volersi scusare. «Hai ragione. È meglio che...» «Valle a prendere un altro bicchiere» ordinò Helena a Ashok, che obbedì immediatamente. «Vedo che lo comandi a bacchetta» osservò Issy ammirata. «Credevo volessi un uomo di polso.» «Lo credevo anch’io» rispose Helena. Ashok le lanciò un’occhiata dalla parte opposta della stanza. Gli piacevano le donne che sapevano quello che volevano. «Ma a volte non sappiamo cos’è meglio per noi» continuò Helena. Poi, abbassando la voce, aggiunse, come a volersi scusare: «Non sono mai stata così felice». Issy la abbracciò. «Grazie, amica mia. È bellissimo. Davvero. Sono così contenta per te.» E si allontanò per andare a parlare con i suoi amici venuti da lontano, mentre Austin si mise in un angolo insieme a Des, l’agente immobiliare, che non corrispondeva al suo concetto di compagnia ideale, ma almeno la baby sitter non lo aveva ancora chiamato: era un record personale. Alle nove e mezzo si udì un rumore improvviso. Helena aveva immaginato che i vicini si sarebbero lamentati ed era pronta a trasferire la festa a casa sua e di Issy, ma poi si rese conto che si trattava di una saracinesca che si alzava. Era quella della ferramenta. Non era possibile, pensò Issy. Non poteva essere ancora lì a quell’ora. E invece sì. Il proprietario emerse dal negozio, completamente buio, e avanzò verso Issy con l’andatura lenta e solenne di chi va a un funerale. Issy, che era un po’ brilla, lo immaginò con un cappello a cilindro, come un personaggio di Dickens. Invece indossava un abito in tre pezzi con un orologio da taschino. Issy gli sorrise e gli offrì un bicchiere di champagne, che lui rifiutò. In compenso, però, le disse: «Buon compleanno, cara» e le porse un pacchettino. Poi chinò il capo (avrebbe dovuto sollevare il cappello a cilindro, pensò Issy. Oddio, doveva smetterla di bere) e uscì


nel cortile, svanendo nella notte. Tutti si riunirono intorno a Issy, intenta a scartare il pacchetto. All’interno c’era una piccola scatola di cartone che Issy aprì con mani tremanti, estraendone, tra esclamazioni di stupore e ammirazione, un minuscolo portachiavi in filigrana di metallo lavorata in modo da formare il logo del Cupcake Café e, accanto, l’esatta riproduzione del pero sotto il quale si trovavano. Era semplicemente delizioso. «Oh» mormorò Issy, commossa. «Fammi vedere!» esclamò Zac, ansioso di stringere fra le mani una rappresentazione tridimensionale della sua creazione. Era davvero bellissimo: un capolavoro di artigianato. «È troppo bello per essere un portachiavi» osservò Pearl. Issy annuì. «Sì, è delizioso. Credo che lo appenderò in vetrina.» E, sebbene i regali degli altri, le candele profumate di Jo Malone, le sciarpe di Madeleine Hamilton e gli stampini per cupcake di Cath Kidston, fossero davvero preziosi, Issy capì che il portachiavi era il più bello di tutti. Anche perché era di metallo, e, al contrario delle torte e dei menu di carta, sarebbe durato per tanto tempo. Come il caffè, forse. Mancava solo una persona. Se fosse stato in buone condizioni di salute, niente lo avrebbe tenuto lontano. E, malgrado la sua felicità, Issy avvertì un brivido freddo lungo la schiena. Sebbene la serata fosse ancora tiepida, gli ospiti cominciarono ad andarsene: gli amici venuti da lontano che dovevano prendere l’ultimo treno; quelli che dovevano dare il cambio alle baby sitter; quelli che facevano i pendolari e dovevano alzarsi presto la mattina dopo, e Pearl e Louis, che si era addormentato sotto l’albero. A un certo punto Issy si voltò e si accorse che se ne erano andati quasi tutti, e i pochi rimasti, ormai sbronzi, erano sparsi per il giardino. Anche Felipe stava suonando una canzone più lenta. Alzò gli occhi e si rese conto che, primo: aveva davanti Austin, secondo: era molto ubriaca. Molto ubriaca e molto felice. Era perché aveva davanti lui? Era quello il motivo? Era sempre più allegra dopo averlo visto, quello era vero. Ma forse era solo perché le aveva fatto un prestito. Era confusa. Austin la guardò e si morse il labbro. Era così carina e così dolce, ma anche completamente ubriaca, quindi sarebbe stato meglio se fosse tornato a casa. Aveva molto successo con le donne. Alcune erano incuriosite, altre indispettite dalla montagna di gadget di Batman che aveva per casa; o volevano trasferirsi da lui per giocare a fare le mamme, o scappavano via alla velocità della luce. A Austin piaceva divertirsi le rare sere in cui usciva, ma era irremovibile nel suo proposito di non causare a Darny altri turbamenti finché non fosse stato un po’ più... stabile. Ciò non significava che non volesse qualcuno accanto. Le relazioni a breve termine erano facili da trovare, soprattutto con dell’alcol in circolo. A volte, però, pensava di essere pronto per qualcosa di più solido: in fondo, aveva più di trent’anni. In genere, sentiva di essersi già sobbarcato abbastanza responsabilità da adulto senza doversi anche infilare in una relazione seria. Ma c’erano dei momenti, come quello, in cui gli sarebbe piaciuto. «Ehi» disse Issy. Quella ragazza, pensò Austin, gli si era insinuata sotto la pelle. Non poteva negarlo. Per il suo viso aperto, per l’espressione un po’ ferita che assumeva quando pensava che qualcuno fosse nei guai, per l’ottimismo che sprigionavano i suoi cupcake con la glassa rosa, per la fatica che aveva fatto perché il suo locale avesse successo. Ed eccola lì, con il viso roseo timidamente rivolto verso di lui. Le lampadine brillavano sull’alberello e le stelle splendevano nel cielo e, dopo il suo «Ehi», entrambi tacquero: le parole sembravano superflue. Issy lo guardava, mordendosi il labbro. Lentamente, senza


neanche rendersene conto, Austin alzò la mano e le sfiorò la guancia. Issy rabbrividì sotto il suo tocco e lo guardò stupita. Lui le prese il mento fra le dita, continuando a fissare i suoi grandi occhi verdi. Il cuore di Issy le balzò nel petto, come se gli avessero dato una scossa con un defibrillatore. Per la prima volta da mesi si sentì ribollire il sangue nelle vene. Si appoggiò alla sua mano calda, assaporando quella sensazione sulla sua pelle, poi gli lanciò uno sguardo che conteneva un messaggio inequivocabile: sì. Graeme scese dal taxi. Il volo da Edimburgo era atterrato in ritardo, ma non gli importava: non aveva tempo da perdere. Forse era ancora al caffè, a glassare torte o quello che era e, se così non fosse stato, sarebbe potuto andare dritto a casa sua. Sbatté la portiera del taxi, senza dimenticarsi di chiedere una ricevuta in bianco. C’erano delle persone fuori dal caffè, sebbene fossero difficili da distinguere al buio. Doveva esserci anche Issy. Emerse dall’ombra ed entrò nel cortile. Quelli che lo conoscevano ammutolirono non appena lo videro. Issy, persa negli occhi di Austin, sentì il cambiamento dell’aria intorno a lei. Voltò la testa mentre Graeme, più bello ed elegante che mai, si fermava sotto un lampione. «Issy» disse piano. Lei fece un balzo indietro, allontanandosi da Austin, come se qualcosa l’avesse punta. Austin alzò gli occhi: non aveva mai visto Graeme, ma gli bastò uno sguardo per decidere di andarsene. Graeme aveva riflettuto molto a Edimburgo. Quella città aveva un che di particolare. Ed era anche piena di costose proprietà. Lui, comunque, aveva avvertito un’energia nuova nell’aria, come se qualcosa si stesse muovendo. Certo, era così pittoresca: piena di vicoletti e piazze nascoste e strade acciottolate. E tutti ne andavano matti. Si vedeva: i turisti, gli studenti, le persone di passaggio e quelle che invece avrebbero voluto viverci. Ormai la gente cercava l’atmosfera. Non voleva più grattacieli o loft con i muri di mattoni o un bel monolocale, sebbene Graeme non capisse perché: dal suo punto di vista, tutte quelle soluzioni, dotate com’erano di aria condizionata e serrature di sicurezza, erano di gran lunga preferibili alle vecchie case. Ma non tutti erano d’accordo con lui. Molti volevano posti pittoreschi, con «personalità». Graeme pensava fossero tutte stupidaggini: la gente avrebbe dovuto privilegiare case confortevoli in cui tutto funzionava. D’altra parte, rifletté mentre si riposava nella sua stanza situata nella torretta del costoso boutique hotel dove alloggiava, se erano disposti a pagare una fortuna per aggiudicarsi proprietà ricche d’atmosfera, chi era lui per ostacolarli? Ed era stato allora che aveva avuto la sua brillante idea. Era davvero un genio. Avrebbe fatto contenti tutti. Doveva tornare subito a Londra. Il Pear Tree Residence. Sapeva che un residence non era altro che un insieme di appartamenti, ma aveva un suono più accattivante. Case e uffici in un vecchio cortile pittoresco, a pochi passi da Stoke Newington High Street, ma tranquillo e silenzioso. Tuttavia la trovata davvero geniale era che solo la facciata sarebbe sembrata antica. Avrebbero ristrutturato tutti gli interni. Avrebbero tolto tutte quelle stupide finestre con i vetri da cui non si riusciva a vedere nulla e le vecchie porte di legno piene di spifferi e le avrebbero sostituite con dei telai in PVC e delle porte di metallo dotate di sistema di accesso con impronte digitali (i ragazzi della City ne andavano matti) e telecamere di sicurezza (a quel punto il cuore aveva cominciato a battergli forte). Forse avrebbero persino potuto mettere un cancello in mezzo al vicolo, in modo da avere una specie di spazio privato. Sarebbe stato bellissimo! E


avrebbero potuto parcheggiare nel cortile: bastava abbattere l’albero. Che idea fantastica. E il complesso sarebbe stato pittoresco ma completo di tutti i comfort: aria condizionata, frigoriferi per il vino e sistemi d’intrattenimento d’avanguardia. La cosa migliore, di cui si congratulò con se stesso, era che avrebbe potuto coinvolgere Issy nell’affare. Dopotutto era più che giusto: era stata lei a fargli conoscere quella zona, quindi meritava una provvigione. Sarebbe potuta tornare a lavorare con lui, ma non per redigere i verbali: sarebbe potuta diventare una vera agente. Un bel salto di qualità per lei. E lui avrebbe... impossibile. Se gli avessero detto: Graeme, vecchio mio, un giorno metterai la testa a posto e diventerai un uomo di casa, be’, non ci avrebbe creduto. Ma, da quando si erano lasciati, si era reso conto che c’erano delle cose di Issy che gli piacevano, quando non sgobbava come un mulo in quello stupido caffè. La sua cucina, il suo interesse per lui, il modo che aveva di far sembrare tutto più facile, più lieve, più dolce, quando lui era fuori a combattere come un leone tutto il giorno. Gli piaceva. E la voleva accanto a sé. Era disposto a fare il sacrificio più grosso, rendendo al tempo stesso la vita di Issy molto più semplice (niente più sveglie alle sei di mattina) e facendo un sacco di soldi. Era così ovvio. Aveva risolto tutto. Sarebbe stato di nuovo il migliore dell’azienda. Certo, avrebbe dovuto sopportare gli sfottò dei colleghi per il fatto di essersi accasato con una ragazza che non era esattamente una modella svedese taglia 42. Ma ce l’avrebbe fatta. Sapeva cosa voleva. E lei sarebbe stata d’accordo. «Issy» ripeté, e lei lo guardò. Si accorse che era leggermente nervosa. Ma forse era solo emozionata e speranzosa: doveva aver capito che c’era qualcosa sotto. L’avrebbe fatta rimanere a bocca aperta. «Issy... sono stato un idiota, un vero idiota a lasciarti andare via così. Mi sei mancata tantissimo. Possiamo tornare insieme?» Issy non capiva più nulla. Helena scuoteva la testa. Graeme le si avvicinò, notando i biglietti e i regali in un angolo e concludendo che doveva essere il suo compleanno. Be’, così era ancora meglio! «Tanti auguri, tesoro» disse. «Ti sono mancato?» Austin si affrettò a tornare a casa, dandosi dello stupido. Quando avrebbe imparato? si domandò, corrucciato. Aprì la porta di casa, liberò la baby sitter, imprigionata sotto il tavolo dal pirata, le diede il doppio del compenso pattuito e le chiamò svogliatamente un taxi. Al diavolo. Issy rimase impietrita. Non ci poteva credere. Era appena successo quello per cui aveva tanto pianto e che aveva sognato e desiderato più di ogni altra cosa: Graeme era lì, che le chiedeva perdono e la supplicava di concedergli un’altra possibilità. Graeme frugò nella borsa ed estrasse la busta di plastica con gli acquisti fatti in aeroporto. «Ehm... tieni» disse. Graeme che le portava un regalo! I miracoli sembravano non finire mai! Issy sentiva gli occhi di Helena trafiggerle la schiena. Ancora ammutolita, tirò fuori il regalo: una bottiglia di whisky. «Malto purissimo» disse Graeme. «Normalmente costa centocinquanta sterline.» Issy si sforzò di sorridere. «Io non bevo whisky» gli fece notare. «Lo so» ribatté lui. «Ma pensavo che avresti potuto usarlo per i tuoi cupcake. Per la tua attività così importante e di successo.» Issy lo guardò.


«Mi dispiace» disse lui. «Non ti ho presa sul serio. Ho sbagliato. Posso cercare di rimediare?» Issy rimase immobile, le braccia intorno al corpo. Si era alzato il vento e si era fatto più freddo. Graeme sbirciò attraverso le finestre buie del Cupcake Café, poi alzò lo sguardo sulle case vuote tutt’intorno, disegnando mentalmente la piantina di Pear Tree Court e tamburellando le dita con aria pensosa. «Sai,» disse «l’ho sempre saputo che questo posto avrebbe funzionato.» «Bugiardo!» sbottò Issy. «Eri convinto che sarei morta di fame.» «Mm. Psicologia inversa, ecco cos’era» disse Graeme. «Ah sì?» chiese Issy. «A ogni modo, ha funzionato. Buon per te.» «Esatto!» intervenne Helena, alzando il bicchiere e invitando gli ospiti rimasti a fare altrettanto. Issy capì che la festa era finita e non sapeva cosa fare. Helena non le fu di alcun aiuto, perché si avviò verso casa con Ashok, il che significava che non voleva tornarci con Graeme, visto che le pareti non erano così spesse, eccetera eccetera... «Dobbiamo parlare» disse Issy a Graeme, prendendo tempo. «Certo!» esclamò allegramente lui, fermando un taxi per andare a Notting Hill e mettendosi in bocca una mentina con aria trionfante.


15

Le ciambelle segrete di Helena Compra dello zenzero, ma quello vero. È una specie di radice bitorzoluta. Se non lo trovi, fatti aiutare. Però non da quel fruttivendolo che ti chiede sempre se vuoi i meloni: è un porco. Ora, ruba uno di quei misurini di medicine dal kit di pronto soccorso. Così riuscirai a regolarti con le dosi. Okay, ora grattugialo. Smettila di guardarti nello specchio della cappa: sei bellissima. E piantala di mescolare quel composto, diventerà solido e otterrai dei biscotti allo zenzero. Okay, la risposta è: la crema di lime. Quella della signora Darlington, di Penrith. Non lo avresti mai indovinato, eh? 900 g di farina semplice, più un altro po’ per la spolverata finale 4 cucchiaini di lievito in polvere 2 cucchiaini di bicarbonato di sodio 1½ cucchiaino di sale 1½ cucchiaino di zenzero grattugiato 400 g di zucchero 5 g di zenzero in cristalli tagliato grosso 500 g di latticello ben montato 60 g di burro non salato, sciolto e fatto intiepidire 2 uova grandi 1 cucchiaio di olio 45 cl di crema di lime In una ciotola capiente mescola la farina con il lievito in polvere, il bicarbonato, il sale e un po’ di zenzero grattugiato; in un’altra ciotola poco profonda unisci 300 g di zucchero con il resto dello zenzero grattugiato. Versa 100 g di zucchero e lo zenzero in cristalli in un frullatore e tritali finemente, poi trasferiscili in una ciotola, aggiungi il latticello, il burro e le uova e sbatti fino a ottenere un composto omogeneo. Metti tutto nella ciotola con la farina e mescola finché non si forma un impasto appiccicoso. Lavoralo su una superficie infarinata, dalle dieci alle dodici volte. Quando ti sembra ben amalgamato, fanne una palla e spolverala di farina insieme al piano di lavoro. Poi prendi il mattarello e stendi la pasta fino a ottenere un cerchio di una trentina di centimetri di diametro e di un centimetro di spessore. Con una rotella infarinata, ricava tanti tondi e disponili su un foglio di carta da forno, anch’esso infarinato. Raccogli gli scarti e lavorali di nuovo, ricavandone altri tondi (fallo solo una volta). Scalda l’olio in un tegame grosso e pesante finché gli schizzi non causano ustioni di terzo grado. Aggiungi un tondo alla volta fino a un massimo di sette o otto, lasciali friggere, girali finché non diventano dorati: bastano un minuto e mezzo o due. Mettili ad asciugare su fogli di carta assorbente e lasciali raffreddare leggermente, poi cospargi di zucchero allo zenzero. Taglia le ciambelle in due, spalma la crema di lime sulla metà inferiore e richiudile. Mettine due o tre in un piatto e guarniscile con i pezzetti di zenzero cristallizzato.

«Be’, ti ci sono voluti cinque secondi buoni» osservò Helena in tono sarcastico. «Piantala» sibilò Issy, chiedendo aiuto a Pearl con lo sguardo. Ma lei non fece che rincarare la dose: «Già. Facciamo pure quattro». «Non ti rispettano se te li riprendi subito» disse Caroline. «Io sono mesi che non parlo col bastardo.» «E come va?» chiese Pearl. «Bene, grazie, Pearl» rispose Caroline in tono sprezzante. «Anzi, i bambini lo vedono più adesso di quando stavamo ancora insieme. Due sabati pomeriggio al mese. Scommetto che non lo sopporta: li ha già portati allo zoo tre volte. Gli sta bene.»


«Be’, è bello sapere cosa mi aspetta» disse Issy, che aveva sperato che le sue amiche si dimostrassero più entusiaste della sua riconciliazione con Graeme. «E quel bel ragazzo della banca?» chiese Helena. «Abbiamo un rapporto esclusivamente professionale» mentì Issy. Austin era svanito nel nulla. Issy sapeva che non voleva una relazione, e poi aveva Darny. Era stupido fantasticare su ciò che non poteva avere: era come sognare un cantante, o un attore. E adesso c’era Graeme, che era tornato da lei... «E poi l’ho già adocchiato io» disse Caroline. «Perché, lo vuoi adottare?» chiese Helena. «Scusa, ma tu lavori qui?» domandò Caroline. «Io sto qui solo perché mi pagano.» «Be’, è davvero incredibile che si sia reso conto di aver sbagliato e sia tornato in ginocchio da me» disse Issy. «No? Sono l’unica che lo pensa?» Le altre si guardarono. «Be’, l’importante è che sia contenta tu» rispose Pearl in tono incoraggiante. «Certo, il tizio della banca era carino.» «Basta col tizio della banca!» sbottò Issy. «Oddio, scusate. Non volevo urlare. È solo che... mi sono sentita così sola ultimamente... nonostante ci foste voi. Ma avviare un’attività contando solo sulle mie forze e poi tornare a casa la sera e stare da sola perché Helena si porta a letto un dottorino...» «Che mi adora» specificò lei. «...e ora Graeme è tornato e vuole fare le cose sul serio. È tutto quello che ho sempre desiderato.» Silenzio. «Ci hai messo cinque secondi» disse Helena. Issy le fece una linguaccia. Era sicura di quello che stava facendo... O no? Alcuni giorni dopo Issy si tirò su a sedere abbracciandosi le ginocchia, mentre Graeme si preparava per una partita di squash di prima mattina. «Che c’è?» le chiese sorridendo. Lei era, come sempre, incredula di fronte alla sua bellezza: il petto scolpito con un ciuffo di peli scuri, le spalle larghe, i denti bianchi. Graeme, sentendosi osservato, le fece l’occhiolino. Da quando era tornata a casa con lui quella sera, era cambiato: era romantico, premuroso e la tempestava di domande sul caffè, e su Pear Tree Court e su come si trovasse in quella zona. Ma una parte di lei era arrabbiata con se stessa. Non era sempre a sua disposizione e non era tornata con lui solo perché era passato di lì. Però non aveva ancora telefonato a Helena, che le aveva scritto undici sms chiedendole a) se sarebbe tornata, b) quando si sarebbe degnata di richiamarla, e c) se poteva trasferirsi nella sua stanza. Issy non sopportava l’idea che Graeme non dovesse fare altro che schioccare le dita per ritrovarsela nel suo letto. Ma le era mancato così tanto. Le erano mancati la compagnia, il contatto umano, il fatto di tornare a casa la sera e trovarvi qualcuno. Si era sentita così sola che aveva fatto la figura della stupida anche con il suo consulente finanziario, Cristo santo. Era imbarazzante. Arrossì al pensiero di aver rischiato di trasformarsi in una zitella acida. E, di fronte alla felicità di Helena e Ashok, e di Zac e Noriko, e di Paul e John e degli altri suoi amici, tutti felicemente accoppiati (almeno così sembrava) alla sua festa, be’, non aveva potuto fare a meno di domandarsi: perché io no? Avrebbe voluto che la vedessero ora: lei e Graeme sembravano una di quelle coppie sdolcinate della pubblicità del dentifricio. Graeme, pensò, sarebbe stato un testimonial perfetto.


«Niente» rispose. «Non ho voglia di alzarmi, tutto qua.» Graeme le si avvicinò e le schioccò un bacio sul naso cosparso di lentiggini. Sembrava andare tutto a gonfie vele. Era felice che Issy fosse tornata con lui, anche se non aveva mai avuto dubbi. Stava per dare il via alla fase due del suo piano. Non avrebbe dovuto fare altro che convincerla a rinunciare al suo locale. Alla fine gliene sarebbe stata grata. E lui avrebbe guadagnato un sacco di soldi aumentando per giunta il suo prestigio al lavoro. Per forza era così allegro. «Ho una domanda per te» le disse. Issy sorrise. «Ah sì?» «Ehm... dunque...» Issy alzò lo sguardo. Graeme sembrava reticente: non era da lui. Era sempre molto diretto. Era tutta una messinscena, ovviamente. «Be’, pensavo,» continuò simulando timidezza «cioè, mi sembra che stiamo bene insieme, giusto?» «Negli ultimi cinque giorni, sì» rispose Issy. «È bello averti qui» concluse Graeme. «Ed è bello essere qui» aggiunse lei, sentendosi invadere da una strana sensazione, un misto di felicità e nervosismo, mentre cercava di capire dove lui volesse andare a parare. «Ecco, volevo dirti... e sappi che non l’ho mai chiesto a nessuno...» «Sì?» «Ti va di venire a vivere con me?» Issy lo guardò scioccata, stupendosi però subito della sua stessa reazione. Dopotutto era ciò che aveva sempre desiderato: vivere con l’uomo dei suoi sogni in un bell’appartamento, condividere la quotidianità, cucinare, uscire, rilassarsi nel fine settimana, progettare un futuro insieme... Ed ecco che stava succedendo. Batté le palpebre. «Cos’hai detto?» gli chiese. Che strano: avrebbe dovuto fare i salti di gioia, toccare il cielo con un dito. Perché il cuore non le batteva all’impazzata? Aveva trentadue anni e amava Graeme, accidenti. Eccome se lo amava. E, quando lo guardò, anche lui sembrava nervoso ed emozionato. Vide, cosa che accadeva molto raramente, come doveva essere da bambino. Poi, però, notò che la sua espressione tradiva una certa perplessità, come se si fosse aspettato che lei, entusiasta, gli si gettasse tra le braccia. «Ehm... ho detto» rispose Graeme farfugliando sul serio questa volta. «Ti piacerebbe venire a vivere qui? Potresti, non so, vendere il tuo appartamento o affittarlo...» Issy si rese conto di non aver nemmeno preso in considerazione quell’ipotesi. La sua deliziosa casetta con la cucina rosa! Certo, non ci trascorreva molto tempo ultimamente, ma era lo stesso. Tutti i momenti felici che aveva condiviso con Helena: le chiacchierate serali, gli esperimenti culinari più o meno riusciti, le ore che avevano trascorso ad analizzare il suo rapporto con Graeme e ogni minimo segnale che lui le inviava (e, ripensandoci, provò un lieve rimorso, perché sapeva di non aver fatto altrettanto per Helena e Ashok: era stata così presa dal lavoro...), le cene a base di pizza, il salvadanaio all’ingresso che Issy aveva pensato di dover rompere per poter pagare l’assicurazione del Cupcake Café... Tutto sarebbe finito. «...o potremmo fare un periodo di prova.» Graeme non se lo aspettava. Si aspettava euforia, gratitudine, progetti; aveva creduto di doverla frenare, di dirle di smetterla di prendere le misure per le tende, di non pensare già al matrimonio, e di poter fare sesso per festeggiare prima di spiegarle che l’avrebbe resa ricca, liberandola dal giogo del suo piccolo caffè (altra notizia che avrebbero festeggiato facendo sesso). Di certo non aveva


previsto quell’aria distratta e costernata. Decise di giocare la carta dell’uomo ferito. «Mi dispiace» disse, con un’espressione da cane bastonato. «Mi dispiace... credevo facessimo sul serio, ma forse mi sbagliavo.» Issy non sopportava di vederlo così triste. Cosa le era preso? Assurdo. Graeme, l’uomo che aveva sognato per così tanto tempo e che le aveva rubato il cuore, le stava offrendo tutto su un piatto d’argento e lei si comportava da stupida. Chi si credeva di essere? Gli corse incontro e lo strinse a sé. «Scusa!» esclamò. «Scusa! È che... sono così sorpresa! Sono rimasta senza parole!» “Aspetta di sentire cos’altro ho in serbo per te” pensò lui, lieto che la sua tattica avesse funzionato. Ricambiò con slancio l’abbraccio di Issy. «Possiamo...? E come facciamo con...?» balbettò lei. Graeme la zittì con un bacio. «Devo andare a giocare a squash. Ne parliamo meglio domani» disse con disinvoltura, come se Issy fosse una cliente rompiscatole. Pearl e Ben stavano ridendo, mentre Louis era corso avanti, dopo che erano andati a prenderla alla fermata dell’autobus. Pearl vide i peli ricciuti sul petto di Ben fare capolino dalla camicia. Sua madre le aveva fatto un’altra predica, dicendole che si sarebbe trasferita dalla sorella finché Pearl non si fosse ripresa Ben. Lui non poteva continuare ad andare e venire a suo piacimento... Aveva intenzione di comportarsi da uomo o no? «Cosa ne diresti» gli chiese Pearl con tutta la nonchalance di cui era capace «di tornare a vivere con noi?» Ben si limitò a rispondere «Mm» e cambiò subito argomento, lasciandola sulla porta di casa con un bacio frettoloso sulla guancia. Non era esattamente quello che Pearl si aspettava. «Mamma triste, Caline» annunciò Louis al caffè. «A volte le mamme sono tristi, Louis» rispose Caroline lanciando un’occhiata solidale a Pearl, che non la gradì particolarmente, ma riconobbe che era meglio di niente. «No triste, mamma! Mamma triste!» esclamò Louis rivolgendosi a Doti, che stava entrando con la posta. «È triste?» chiese il postino, chinandosi all’altezza del piccolo. «Hai provato a darle uno dei tuoi baci speciali?» Louis annuì tutto serio, e rispose in un sussurro perfettamente udibile: «Louis dato bacio. Ma ancora triste!». Doti scosse la testa. «Questo sì che è un problema» disse, raddrizzandosi. «Forse potrei tirare su la mamma portandola a bere un caffè un giorno o l’altro.» «Nel caso in cui non te ne fossi accorto» disse Pearl con sussiego «sono circondata dal caffè.» «Ci vengo io!» saltò su Caroline. Poi, portandosi una mano alla bocca, aggiunse: «Cioè, volevo dire che me ne sto qui a lavorare in silenzio». Pearl e Doti la ignorarono. «Be’, qualcos’altro da bere, allora.» «Forse» disse Pearl. «Io smonto presto.» «Io no.» «Pranzo? Giovedì prossimo?» rilanciò lui. Pearl tacque, guardando insistentemente fuori dalla finestra.


Allora Issy, esasperata, si affacciò dalle scale e sbraitò: «Ha detto di sì!». Issy tornò subito a casa dopo il lavoro. C’era anche Ashok, che Helena spedì prontamente a comprare il caffè. «No, basta caffè, ti prego» gemette Issy. «Puoi prendermi una Fanta? E delle patatine?» «Tu hai cattive intenzioni» osservò Helena, accendendo il bollitore. «Allora, come va la nuova vita con l’uomo vecchio? Tutto bene?» Issy le gettò le braccia al collo. «Grazie ancora per la festa. È stata bellissima. Non ti ringrazierò mai abbastanza.» «Invece sì. Visto che lo hai già fatto quattrocento volte quella sera.» «Okay, okay. Ma indovina cos’è successo?» Helena sollevò un sopracciglio perfettamente depilato. Si aspettava una cosa del genere, ed era preoccupata perché Issy sembrava così agitata. Dopo tutta la pena che si era data per organizzare la festa e fare in modo che venisse anche Austin, era arrivato Graeme. Sperava che Issy non pensasse che lo avesse invitato lei. Persino uno zuccone come Graeme, ammise Helena, seppure a malincuore, doveva accorgersi delle qualità di Issy. «Spara.» «Graeme mi ha chiesto di trasferirmi da lui!» Quella notizia sorprese anche Helena. Pensava che le avesse detto che l’amava, che le avesse proposto di conoscere i suoi genitori o di diventare la sua fidanzata ufficiale. Ma la convivenza era un passo importante; anche se erano stati insieme alcuni mesi, il loro rapporto non era mai stato così serio, almeno in apparenza, e Graeme non dava l’idea di essere un tipo ospitale. D’altra parte, lei aveva pensato che Ashok fosse un tipo timido e riservato, e alla fine si era rivelato l’uomo più strabiliante della terra, quindi... «Bene!» esclamò, sforzandosi di non sembrare falsa. «Che bello!» Poi scrutò l’espressione di Issy. Sembrava contenta, ma non entusiasta. Fino a tre mesi prima sarebbe stata in preda a un’incontenibile euforia. Ora, invece... «E sei felice?» le domandò, rendendosi conto che la sua domanda poteva suonare più tendenziosa di quanto volesse. «Ehm... Perché, non dovrei?» rispose Issy, tergiversando. «Insomma, è Graeme, l’uomo di cui sono innamorata da tempo immemore. E mi ha chiesto di andare a vivere con lui.» Helena tacque e versò il tè. Ci fu un lungo silenzio mentre entrambe armeggiavano con tazze e cucchiaini. Alla fine, Helena disse: «Non sei obbligata, se non te la senti. Hai tutto il tempo che vuoi». «Ma io voglio vivere con lui» replicò Issy visibilmente turbata, come se stesse cercando di convincere se stessa. «E non c’è tutto questo tempo, Lena, non prendiamoci in giro. Ho trentadue anni. Non sono più una bambina. Insomma, si stanno sistemando tutti. L’altra sera credo di aver visto novemila foto di neonati. E comunque è quello che voglio, Lena. Voglio un uomo gentile che mi ami e voglia condividere la sua vita con me. Non è così sbagliato, no?» «Certo che no» disse Helena. Peccato perché quel tizio della banca era davvero simpatico. Certo, non era neanche capace di mettersi le mutande nel verso giusto, figuriamoci prendersi cura di Issy. E poi aveva un altro bambino a cui badare. Graeme era bello, aveva un buon lavoro e nessun fardello da portarsi dietro. Chiunque lo avrebbe definito un ottimo partito. Issy aveva ragione. Helena l’aveva visto succedere un milione di volte. Solo perché un uomo non era assolutamente perfetto, lo si metteva da parte nell’attesa di qualcosa di meglio, che non sempre


arrivava, però. La vita non era così. Aveva troppe amiche e colleghe di quarant’anni che si sentivano sole e si erano pentite amaramente di aver gettato via un principe azzurro un po’ sbiadito quando ne avevano trenta. Va bene, Graeme ci aveva messo un po’ a prendere Issy sul serio, ma non voleva dire che era un bastardo, giusto? «È una bellissima notizia» disse Helena. «Proporrei un brindisi se tu non avessi già bevuto abbastanza questa settimana.» «Piantala di fare l’infermiera.» «L’altro giorno è arrivata una ragazza più giovane di te che era tutta gialla per un’insufficienza epatica.» «Non credo di correre quel rischio per una bottiglia di vino con Graeme.» «Faccio per dire.» Era bello battibeccare di nuovo con la sua migliore amica. Finirono il tè in silenzio. Issy si sentiva leggermente imbarazzata e avvilita. Era convinta che Helena si sarebbe lanciata nella solita predica, che le avrebbe detto di non essere ridicola, che non poteva andare a vivere con Graeme. Doveva restare lì di modo che non cambiasse nulla e non preoccuparsi, perché dietro l’angolo la aspettavano un milione di bei ragazzi e di fantastiche sorprese. Helena, invece, non aveva detto niente di tutto ciò. Il che significava che Issy si stava comportando da stupida. Certo che era la cosa giusta da fare. Era una notizia meravigliosa. E, in fondo, era elettrizzata. Era normale sentirsi un po’ nervosi, tutto qui. Helena le sorrise speranzosa. «Comunque puoi dire di no se ti sembra un passo troppo affrettato.» «Sputa il rospo» le intimò Issy. Non era da lei essere così nervosa. «Be’,» riprese Helena «forse conosco una persona che vorrebbe affittare la tua stanza.» Issy alzò le sopracciglia. «Non sarà un dottore?» Helena arrossì. «Le stanze ammobiliate per medici sono orrende, davvero. Stava cercando un appartamento, ma casa tua è così carina, e...» «Stavi tramando alle mie spalle!» esclamò Issy. «No, te lo giuro» ribatté Helena, che si stava mordendo il labbro per dissimulare un sorriso. «E secondo te potrei mai ostacolare il vero amore?» le chiese Issy. «Dici davvero? Oddio! Che bello! Oddio! Lo chiamo subito! Ma guardaci! Le due conviventi!» Baciò la sua ex coinquilina e si precipitò al telefono. Issy non riusciva a contrastare con i propri dubbi l’incredibile entusiasmo di Helena. Sentì che qualcosa nella loro amicizia stava impercettibilmente cambiando: si era aperta una crepa. Sapeva com’era. Quando un’amica usciva con un ragazzo, andava bene discutere con lei le sue qualità e i suoi difetti. Ma quando il rapporto diventava più serio, era troppo tardi. Bisognava fingere che fosse perfetto sotto tutti i punti di vista nel caso in cui si sposassero e, sebbene fosse bello vedere le amiche felici, ciò significava anche che le dinamiche erano cambiate. E Issy era davvero contenta di vedere Helena così soddisfatta, davvero. Ma le dinamiche erano decisamente cambiate. Erano passate entrambe allo stadio successivo. Si accordarono per andare a bere qualcosa quella sera di modo che Issy potesse cominciare a impacchettare la sua roba. Uscirono e bevvero qualche bicchiere di vino fingendo che fosse tutto come prima. Ma, alla seconda bottiglia, Helena mise le carte in tavola. «Perché? Perché sei tornata subito da lui?» Issy alzò gli occhi dal cellulare, che stava sbirciando di nascosto: aveva mandato un messaggio a Graeme per dirgli che avrebbe fatto un po’ tardi, ma non aveva ricevuto risposta. Si irrigidì. «Be’, perché è un uomo in gamba, è disponibile e mi piace davvero tanto» rispose.


«Ma ti prende e ti lascia come e quando vuole. E poi piombare di nuovo nella tua vita così... Insomma, non sai cos’ha in mente.» «Perché deve per forza avere qualcosa in mente?» chiese Issy, sentendosi avvampare. «Be’, sai, con Ashok...» «Oh, certo, con il tuo Ashok va tutto benissimo, il tuo Ashok è assolutamente perfetto, guardate il mio bellissimo dottore che piace a tutti e mi adora e sono così innamorata, e bla bla bla. Quando si tratta di Graeme, invece, fai tanto la difficile...» «Non faccio la difficile. Dico solo che ti ha fatto soffrire e...» «E non valgo abbastanza per avere accanto qualcuno che mi ami come Ashok ama te, è questo che stai dicendo? È così strano che un uomo voglia starmi accanto senza secondi fini?» Helena non era abituata a vedere Issy così bellicosa. «Non era quello che intendevo...» «Ah sì? Be’, sembrava proprio di sì. O forse credi semplicemente che la cara vecchia Issy non sappia reagire. È questo che pensi? Che non abbia spina dorsale?» «Certo che no!» «Be’, almeno su un punto hai ragione: ce l’ho eccome, la spina dorsale.» E, così dicendo, si alzò e uscì dal locale. Dall’altra parte della città, Pearl stava fissando Ben. «Non è giusto» disse. «Cosa?» chiese lui. Louis stava giocando allegramente con i trenini ai suoi piedi. «Sono passato solo per chiedere a tua madre di attaccarmi un bottone.» «Mm» mormorò Pearl, senza farsi ingannare dal fatto che Ben fosse seduto lì a torso nudo, illuminato solo dalla nuova lampada da lettura che sua madre usava per i lavori di cucito che avrebbe potuto fare benissimo la madre di Ben, o Ben stesso, se non fosse stato così pigro... Conosceva bene il suo gioco. «Perché non uscite mentre io finisco qui?» chiese la madre di Pearl, che riusciva a fumare e a cucire allo stesso tempo. «Ci penso io a Louis.» «Anche Louis beve» saltò su il piccolo, annuendo energicamente come suo solito. «No, Louis va a letto» ribatté Pearl. Non lo avrebbe ammesso per niente al mondo, ma era rimasta colpita dalla reazione sconcertata di Caroline quando le aveva detto che lei e Louis andavano a dormire alla stessa ora, e stava cercando di aggiustare le cose. «No no no no» disse Louis. «No no no no, glazie» aggiunse poi come se avesse avuto un ripensamento. «No letto, glazie, mamma.» «Andate» insisté la madre di Pearl. Louis si sarebbe agitato se Pearl e Ben fossero rimasti lì mentre lui doveva starsene buono in un angolo. «Lo metto a letto io.» «Ho una T-shirt nella borsa» disse Ben. «Oppure esco così.» «Smettila con i tuoi giochini. Ho delle alternative, sai.» «Lo so eccome. Mettiti quel vestito rosso che ti fa ancheggiare.» «Neanche per sogno» ribatté Pearl. L’ultima volta che l’aveva indossato era con lui e... Be’, non voleva un’altra bocca da sfamare. Ben le offrì il braccio quando uscirono dalla porta. La madre di Pearl non staccò loro gli occhi di dosso, mentre Louis spiegò chiaramente e a gran voce perché i genitori non avrebbero dovuto andarsene senza di lui. Pearl non si accorse di nulla.


«Che c’è, principessa?» chiese Graeme quando Issy tornò a casa. Lei abbassò gli occhi. «Niente. Roba da donne» rispose. «Ah» disse Graeme, non sapendo cosa rispondere e non avendo nessuna voglia di spremersi le meningi. «Non ti preoccupare. Vieni a letto per un po’ di roba da uomini.» «Okay» disse Issy, anche se non sopportava l’idea di aver litigato con Helena e averla lasciata lì da sola. Graeme le accarezzò i riccioli scuri. «Su con la vita. Be’... visto che stiamo per andare a convivere, ti va se un giorno di questi ti presento mia madre?» Prima di addormentarsi, Issy pensò che Graeme l’amava e ci teneva davvero a lei. Convivevano, stava per conoscere la sua famiglia. Helena si sbagliava sul suo conto. Graeme, invece, rimase sveglio un po’ più a lungo. Avrebbe voluto parlarle del progetto quella sera: lo aveva presentato in ufficio ed erano rimasti tutti entusiasti. Un proprietario impaziente in cerca di un buon affare e di affittuari seri: l’ideale. Un gioco da ragazzi. “È troppo facile” pensò Pearl, quando la mano di Ben sfiorò la sua mentre tornavano dal pub. Troppo facile. Ed era proprio quello che, in precedenza, le aveva portato un sacco di guai. «Fammi restare a dormire» cercò di blandirla lui. «No» disse Pearl. «Abbiamo solo una camera da letto, e ci dorme mia madre.» «Be’, vieni da me allora. Oppure andiamo in un hotel.» Pearl lo guardò. Alla luce dei lampioni era ancora più bello. Le spalle larghe, i capelli ricci, il bel viso. Louis sarebbe diventato come lui. Ben le si avvicinò lentamente e la baciò. Pearl chiuse gli occhi e lo lasciò fare. Era così strano e al tempo stesso così familiare. Era tanto tempo che un uomo non la toccava. La mattina dopo Issy balzò giù dal letto quando il sole era già alto, e si mise a tirare fuori i vestiti dalle borse con fare frenetico. «Perché tanta fretta, piccola?» borbottò Graeme, assonnato. Issy lo guardò di traverso. «Devo andare a lavorare. I cupcake non si cuociono da soli» disse, soffocando uno sbadiglio. «Be’, vieni qui a farmi due coccole lo stesso.» Issy si rannicchiò sul suo petto. «Mm» mormorò, calcolando mentalmente quanto tempo aveva a disposizione, ora che doveva attraversare il Nord di Londra per arrivare al caffè. «Perché non ti prendi un giorno di vacanza? Lavori troppo.» Issy sorrise. «Senti da che pulpito!» «Lo so, ma non vorresti rallentare un po’? Lavorare meno? Tornare in un bell’ufficio con uno stipendio da sogno, pause pranzo e feste con i colleghi e qualcun altro che si occupi delle scartoffie?» Issy si girò a pancia in giù e si mise le mani sotto il mento. «Sai, non tornerei a lavorare per qualcun altro per niente al mondo. Nemmeno per te!» Graeme la guardò costernato. Gliel’avrebbe detto in un altro momento, pensò, per la seconda volta. Pearl entrò nel caffè canticchiando. «Che ti prende?» le chiese Caroline con aria sospettosa. «Sembri stranamente allegra.» «Perché, non posso?» replicò Pearl, andando a prendere la scopa mentre Caroline lucidava la


capricciosa macchina per il cappuccino. «Solo i borghesi ne hanno il diritto?» «No, anzi» mormorò Caroline, che quella mattina aveva ricevuto dall’avvocato una lettera particolarmente preoccupante. «Anzi cosa?» chiese Issy, salendo al piano di sopra per salutare Pearl e bere un caffè, le sopracciglia coperte di farina. «Pearl sostiene che i borghesi siano tutti allegri.» «Ora non più» disse Pearl, allungando il dito per immergerlo nella ciotola di Issy. «Smettila!» esclamò lei. «Se ti vedesse l’ispettore sanitario, gli verrebbe un colpo!» «Ho i guanti!» ribatté Pearl, mostrandole le mani. «E comunque tutti gli chef assaggiano quello che cucinano. Altrimenti, come farebbero a sapere se è buono?» Pearl assaggiò il composto di Issy, che sarebbe diventato un pan di spagna alla crema di arancio e cocco, soffice e non troppo dolce. «Sembra piña colada. È fenomenale.» Issy la scrutò, poi lanciò un’occhiata a Caroline. «Caroline ha ragione. Che ti prende? Ieri eri disperata e oggi sembri Mary Poppins.» «Non posso essere felice anch’io una volta ogni tanto?» ribatté Pearl. «Solo perché non vivo nel vostro quartiere e devo prendere l’autobus?» «Questo non è giusto. Io sono una profonda conoscitrice di autobus.» «E io dovrò trasferirmi in un altro quartiere» aggiunse Caroline in tono così cupo che le ragazze la guardarono stupite mentre immergeva anche lei le dita nella ciotola di Issy. «Va bene» esclamò Issy esasperata. «Lo butto via e lo rifaccio, okay?» Pearl e Caroline lo presero come un invito a saccheggiare l’impasto. Issy posò la ciotola con un sospiro e si unì a loro. «Che c’è che non va?» domandò Pearl a Caroline. «Niente, quel bastardo del mio ex. Vuole che me ne vada da casa mia. Che, fra l’altro, ho ristrutturato praticamente da sola. Ho arredato tutte e undici le stanze, compreso il suo studio, e ho supervisionato il montaggio di una cucina da cinquantamila sterline. Non è certo una passeggiata.» «Anche se è talmente grande che ci puoi fare una passeggiata» intervenne Pearl, prima di rendersi conto dall’espressione di Caroline che non era il momento di scherzare. «Scusa» aggiunse, ma l’altra non la stava ascoltando. «Credevo che se avessi trovato un lavoro e mostrato buona volontà... Invece secondo lui significa solo che riesco a mantenermi da sola! È così ingiusto! Non posso permettermi la casa e i domestici con quello che guadagno qui! Ci pago a malapena la pedicure.» Issy e Pearl si concentrarono sull’impasto. «Scusate, ma è così. Non so cosa fare.» «Non ti costringerà ad andartene con i bambini?» domandò Issy. «Non preoccuparti, nel mio castello c’è posto anche per voi» aggiunse Pearl, al che Caroline soffocò un singhiozzo. «Mi dispiace, non volevo offenderti.» «Figurati» ribatté Pearl. «Anche a me piacerebbe vivere a casa tua. Mi accontenterei della cucina.» «Nella lettera c’è scritto: “Ci riserviamo di adottare provvedimenti”» disse Caroline. «Oddio.» «Ma si renderà conto che ci stai provando!» esclamò Issy. «Non conta nulla?» «Non vuole che ci provi. Vuole che scompaia. Per sempre. Così può continuare a portarsi a letto quella cazzo di Annabel Johnston-Smythe.» «Ci sta un nome così lungo sulla carta di credito?» domandò Pearl.


«Comunque, cambiamo discorso» tagliò corto Caroline. «Allora, Pearl, come mai sei così felice?» Pearl parve imbarazzata e rispose che di certe cose non si parlava, e Issy e Caroline si misero a strillare così tanto che Pearl si arrabbiò, soprattutto quando arrivò Doti, il postino, e le disse che quella mattina era particolarmente bella e le ragazze si resero conto che dietro la porta c’era una fila di clienti dall’aria ansiosa e famelica che però non voleva interrompere la loro chiacchierata mattutina. «Ho da fare, io» disse altezzosamente Pearl e si alzò. «Rilassati» ribatté Issy, affrettandosi a tornare al piano di sotto visto che la prima cliente le aveva chiesto di provare il nuovo pan di spagna già pubblicizzato sulla lavagnetta delle torte del giorno. «Subito, subito» le rispose Issy. «Non fate consegne a domicilio?» chiese lei. Le ragazze si guardarono. «Dovremmo farlo» osservò Pearl. «Lo metto sulla lista» disse Issy. Si sentiva rincuorata dal buonumore di Pearl. Il fatto che non volesse rivelare l’identità dell’interessato la indusse a chiedersi se non si trattasse del padre di Louis, ma non si sarebbe mai sognata di fare una domanda così personale. Era preoccupata dal divorzio di Caroline, in parte per lei, in parte perché non voleva perderla. Era acida e snob, ma era anche una gran lavoratrice e bravissima a decorare le torte. Aveva abbellito il caffè con piccoli tocchi di originalità: candeline galleggianti che spuntavano dopo il crepuscolo; graziosi cuscini che impreziosivano angoli impensati. Aveva occhio, non c’era niente da dire. Ma, mentre Issy preparava un’altra infornata di torte, spolverandole di cocco e sostituendo lo zucchero raffinato con quello integrale per intensificare il sapore, non riuscì a non pensare a Helena. Non avevano mai litigato, nemmeno quando lei le aveva chiesto di curare un piccione zoppo. Erano sempre andate d’accordo e non sopportava l’idea di non condividere con lei quello che era successo a Pearl e tutti gli altri pettegolezzi. Pensò di telefonarle, ma non era una buona idea farlo quando era al lavoro: aveva sempre le mani occupate da qualche dito mozzato o su per il sedere di qualcuno. Sarebbe passata di persona. Con un regalo. Issy incontrò Helena per strada. «Stavo venendo da te...» disse Helena. «Mi disp...» «No, è a me che dispiace» la interruppe Issy. «Sono felice per te, davvero. Voglio solo che tu stia bene.» «Anch’io! Per favore, non litighiamo più.» «No.» E si abbracciarono. «Tieni» disse Issy, porgendole il pezzo di carta che aveva in tasca dalla mattina. «Che cos’è?» chiese Helena. Poi capì. «La ricetta! Non ci credo! Oddio!» «Be’, adesso hai tutto quello che desideri.» Helena sorrise. «Vieni, ti offro una tazza di tè. È ancora casa tua.» «Non posso. Devo vedere il mio fidanzato, sai.» Helena annuì. Lo sapeva. Il che non rendeva le cose meno strane. Si abbracciarono di nuovo e si separarono per tornare a casa, ma in direzioni diverse. Helena le aveva dato anche la sua e-mail. E Issy aveva avuto una stretta al cuore. Inoltre aveva ricevuto altre ricette dal nonno, ma erano quelle che aveva già, o cose che non avevano senso. Aveva parlato al telefono con Keavie, che le aveva detto che sì, quando lo aveva visto era in forma, ma le


sue condizioni generali non erano buone, per cui avrebbe fatto meglio a passare prima possibile, cosa che Issy fece il giorno dopo. Con sua grande sorpresa, quando arrivò alla casa di riposo, vide che il nonno aveva visite. Seduto accanto al letto c’era un omino con il cappello appoggiato sul ginocchio, che chiacchierava amabilmente. Quando si voltò, Issy vide un volto familiare, ma impiegò comunque qualche istante a riconoscerlo. Ma sì, era il proprietario della ferramenta! «Che ci fa qui?» gli chiese, avvicinandosi al nonno per baciarlo: era così contenta di vederlo. «Una cara ragazza!» esclamò Joe. «Sono quasi sicuro di sapere chi è. Questo simpatico signore mi ha tenuto compagnia.» Issy gli lanciò un’occhiata in tralice. «Be’, è gentile da parte sua.» «Si figuri» disse lui. Poi, porgendole la mano, aggiunse: «Mi chiamo Chester». «Grazie del portachiavi» disse, improvvisamente intimidita. Lui le sorrise, impacciato. «Ho conosciuto suo nonno al caffè e siamo diventati buoni amici.» «Come?» domandò Issy. Joe sorrise debolmente. «Gli ho solo chiesto di tenerti d’occhio.» «Di spiarmi vorrai dire!» «Usi il microonde! Prima o poi salterà fuori che usi anche la margarina!» «Quella mai» affermò Issy. «È vero» confermò Chester. «Non ha mai ricevuto consegne di margarina.» «La smetta di spiarmi.» «Va bene. La smetto» disse Chester con quel suo lieve accento mitteleuropeo. «O, se proprio deve,» aggiunse Issy, a cui in realtà non dispiaceva l’idea che ci fosse qualcuno che la teneva d’occhio «almeno entri e assaggi uno dei nostri cupcake.» L’uomo annuì. «Suo nonno mi ha diffidato dal venire a mangiare ciò che le dà da vivere. Ha detto che lei era troppo buona per farmi pagare, quindi non avrei dovuto chiederle nulla.» «Gli affari sono affari» mormorò Joe con un filo di voce. Keavie si affacciò alla porta. «Ciao, Issy! Come va la vita amorosa?» «Quindi anche tu sai tutto!» esclamò Issy, stizzita. «Smettila! Comunque le visite di Chester fanno molto bene a tuo nonno. Lo tirano su.» «Mm.» «Fa piacere anche a me» disse lui. «Vendere chiavi inglesi è un lavoro solitario.» «E poi conosciamo tutti e due il mondo del commercio» aggiunse il nonno. «Okay, okay» si arrese Issy. Era abituata a essere l’unica persona su cui suo nonno potesse contare, e non sapeva se essere contenta del fatto che avesse un amico. Joe si guardò intorno, confuso. «Dove sono? Isabel? Isabel?» «Sono qui» rispose Issy, mentre Chester si congedava. Prese la mano del nonno. «No» disse lui. «Non tu. Non Isabel. Non eri tu che intendevo. No no.» Si agitò sempre di più, stringendo sempre più forte la mano di Issy, finché arrivò Keavie con un infermiere e lo convinsero a prendere la medicina. «È per calmarlo» spiegò Keavie, guardando Issy dritto negli occhi. «Sai, è l’unica cosa che possiamo fare... calmarlo, farlo stare bene...» «Quindi non migliorerà» disse tristemente Issy. «Diciamo che i suoi momenti di lucidità diventeranno sempre più rari. Devi abituarti all’idea.» Guardarono l’uomo anziano disteso sul letto.


«Lo sa» sussurrò Keavie. «Anche i pazienti affetti da demenza sanno che... Gli vogliono tutti un gran bene qui, sai. Davvero.» Issy le strinse la mano con gratitudine. Due sabati dopo Des, l’agente immobiliare, si affacciò sulla porta del caffè con Jamie che urlava come un ossesso. «Scusa» disse a Issy, che stava leggendo la pagina della cultura del «Guardian» prima che arrivasse l’ondata dell’ora di pranzo. Il portachiavi del Cupcake Café scintillava al sole estivo che filtrava attraverso i vetri tersi. «Non c’è problema» rispose lei balzando in piedi. «Mi stavo solo riposando un po’. Cosa ti porto?» «Hai visto Mira, per caso?» Issy lanciò un’occhiata al divano. «In genere arriva a quest’ora. Dovrebbe essere qui a momenti. Ha trovato un lavoro e una casa.» «Che bello!» «Infatti! Sto cercando di convincerla a iscrivere Elise allo stesso asilo di Louis, ma non ne vuole sapere e continua a mandarla a quello rumeno.» «Non sapevo neanche che ce ne fosse uno» osservò Des. «A Stoke Newington c’è tutto... Ah! Parli del diavolo...» disse Issy mentre arrivavano Mira ed Elise. Mira prese Jamie dalle braccia di Des, e il piccolo si calmò all’istante, guardandola con i suoi grandi occhi tondi. «Ems mi ha cacciato di casa...» spiegò lui. «Per un po’» si affrettò ad aggiungere, nel caso in cui pensassero che lo avesse cacciato per sempre (e il fatto che sentisse il bisogno di precisarlo era abbastanza preoccupante, rifletté Issy). «Mira, da quando gli sono passate le coliche, è stato benissimo, davvero. È un ometto fantastico.» La sua voce si incrinò mentre guardava il figlio. «...Purtroppo, però, gli ultimi due giorni sono stati un inferno.» Mira alzò le sopracciglia. «Il dottore dice che non è nulla: sta solo mettendo i dentini.» «L’hai portato alla donna che sussurrava ai neonati!» esclamò Issy, preparando un tè, un cappuccino decaffeinato per Elise e un altro normale con un bel po’ di cacao sopra. Jamie, che si era momentaneamente calmato, aprì la bocca come a prendere fiato per un lungo lamento. Mira ne approfittò per infilarci un dito e tastargli le gengive. Des parve imbarazzato. «Ehm, sì, qualcosa del genere.» Lei gli lanciò un’occhiata severa e il piccolo riprese a urlare. «In questo paese pensano che è normale che nessuno sa niente dei bambini. Le nonne dicono: “Ah, io non mi metto in mezzo”, e le zie: “Ah, io ho troppo da fare per aiutare”. Nessuno ci capisce niente e tutti comprano stupidi libri e guardano stupidi programmi alla tv» osservò Mira in tono polemico. «I bambini sono tutti uguali. Gli adulti no. Dammi un coltello.» Issy e Des si guardarono. «Ehm... come?» chiese Issy. «Un coltello. Mi serve un coltello.» Des alzò le braccia. «Davvero, non ce la facciamo più. Ems dorme da sua madre, e io sto diventando matto. Ho cominciato persino a vedere i fantasmi...» «Allora è bene che non lo dia a te» commentò Issy, porgendo a Mira un coltello con la lama seghettata.


Lei, rapida come un fulmine, stese il piccolo sul divano, gli bloccò le braccia e fece guizzare il coltello. Jamie si mise a urlare a pieni polmoni. «Cos’ha fatto?» le chiese Des allarmato, prendendo in braccio suo figlio e iniziando a cullarlo. Mira alzò le spalle. Ma, mentre la guardava storto, Des si accorse che, una volta passati il dolore e lo spavento iniziali, Jamie si stava calmando. I suoi singhiozzi si fecero sempre più rari e il suo corpicino teso si rilassò. Appoggiò la testa sul petto del padre e, probabilmente esausto dopo tante notti insonni, si addormentò. «Be’, questa poi» mormorò Des. Issy scosse la testa, incredula. «Mira, come hai fatto?» Mira alzò di nuovo le spalle. «Gli stanno crescendo i denti e spingono sulle gengive. Molto doloroso. Così le ho tagliate. I denti sono fuori ora. Non fanno più male. Non ci vuole un genio.» «Non l’avevo mai sentito» sussurrò Des per non svegliare il figlio. «Nessuno qui ha mai sentito niente» ribatté Mira. «Dovresti scrivere un libro per bambini» disse Issy, ammirata. «Sarebbe lungo una pagina. Direbbe solo: “Chiedi a tua nonna, non leggere uno stupido libro per bambini”» dichiarò. «Grazie» aggiunse poi, prendendo il tè che Issy le porse. Anche Elise, che era seduta in un angolo con un libro, ringraziò per il cappuccino. Des si affrettò a pagarli. «Mi ha salvato la vita. Issy, ti dispiace mettermi il cappuccino in una tazza da asporto? Quasi quasi vado a casa e provo a schiacciare un pisolino.» «Certo» disse Issy. Des si guardò intorno. «Ecco... ehm... ho sentito delle voci.» «Che voci?» chiese Issy mentre batteva lo scontrino. «Su questo posto... Ma forse sono infondate.» «Cioè?» «Ho sentito che avevi intenzione di vendere e ho pensato che avessi trovato un posto più grande.» Des si guardò intorno. «Qui hai fatto proprio un ottimo lavoro.» Issy gli porse il resto. «Sono voci totalmente infondate. Non andiamo da nessuna parte!» «Benissimo. Devo aver capito male io. Sai, la mancanza di sonno... Grazie ancora.» A un tratto si udì un rumore assordante provenire dall’esterno. Issy si precipitò nel cortile, mentre Des rimase dentro per paura che Jamie si svegliasse di nuovo. Il proprietario della ferramenta stava trascinando due sedie in ferro battuto. Accanto all’alberello c’era un bellissimo tavolo con la vernice color crema ancora fresca. Issy rimase interdetta. «Che meraviglia.» In quel momento apparve anche Doti, ancora avvilito perché Pearl aveva declinato il suo invito a pranzo. Finché c’era Ben, lei non aveva voglia di complicarsi ancora di più la vita. Issy si precipitò incontro a Chester per aiutarlo a sistemare gli arredi. C’erano due tavoli, ciascuno con tre sedie, e due grosse catene per far sì che non li rubassero di notte. Erano bellissimi. «È stato suo nonno a ordinarli» spiegò Chester, alzando le mani mentre Issy lo abbracciava. «E li ha anche pagati, quindi non si preoccupi. Secondo lui ne aveva bisogno.» «Infatti» confermò Issy annuendo. «Che colpo di fortuna averla come vicino. È il nostro fabbro custode.» Chester sorrise. «In una grande città come questa, bisogna occuparsi gli uni degli altri. E lo so che suo nonno mi ha intimato di non farlo, ma...» «Caffè e torta?»


«Molto volentieri.» Pearl uscì con un vassoio già pronto, sorridendo timidamente a Doti e sedendosi per ammirare il nuovo panorama. «È perfetto» osservò. Louis le passò davanti a quattro zampe. «Sono il leone nela gabia. Grrr» ringhiò. «Ci serve proprio un leone da guardia per tenere lontani quelli che non ci piacciono» rise Issy. «A me piace tutti» dichiarò il leoncino da sotto il tavolo. «È questo il problema» mormorò Pearl, riportando dentro le tazze vuote. Mancava poco, pensò Issy. Presto avrebbe smesso di sentirsi un’ospite. Avrebbe smesso di camminare in punta di piedi per paura di combinare qualche guaio. Non si era resa conto che il minimalismo di Graeme fosse così... estremo. Certo, l’appartamento era delizioso, ma non accogliente. I divani erano scomodi, la tv/stereo/Bluray difficile da usare, il forno era minuscolo e ben nascosto, poiché non era previsto che lo scapolo che abitava quella casa supertecnologica lo accendesse. Il rubinetto con l’acqua bollente istantanea era una bella trovata... una volta guarite le prime ustioni di terzo grado. Più che altro doveva prendere nuove abitudini: togliersi le scarpe, non lasciare niente in giro (nemmeno un cappotto, nemmeno per un secondo... per non parlare delle riviste), allineare il telecomando e cercare di trovare un po’ di spazio per una cassettiera dove mettere i vestiti, visto che quelli di Graeme erano tutti appesi, ancora avvolti nei sacchetti della tintoria. L’armadietto del bagno era pieno zeppo di qualsiasi prodotto immaginabile, per la pelle, per i capelli... Il tutto era, ovviamente, immacolato. La signora delle pulizie veniva due volte a settimana e lavava tutto da cima a fondo. A volte Issy era in casa e, dopo, non osava toccare più nulla. Il pane tostato era un lontano ricordo (troppe briciole sulle superfici di vetro lucente della cucina) e lei e Graeme mangiavano molti piatti saltati in padella, anche se Issy si spazientiva in una cucina che aveva un rubinetto per l’acqua bollente istantanea, un bruciatore fatto apposta per il wok e un frigo per i vini ma non un forno decente. Si sarebbe mai sentita a casa? Graeme, invece, stava già cominciando a pensare che ci si sarebbe potuto abituare. Bastava lanciare un’occhiataccia a Issy ogni volta che lasciava qualcosa in giro. Perché le donne erano sempre così disordinate? Perché avevano bisogno di borse dove tenere la roba? Aveva dato a Issy una cassettiera, ma aveva notato che i suoi shampoo e le sue creme per la pelle, tutti prodotti poco costosi, quindi per lo più uno spreco di denaro, si accumulavano nel suo bagno di piastrelle nere. Avrebbe dovuto farle un discorsetto in proposito. A parte quello, gli piaceva tornare a casa la sera e trovarvi qualcuno: Issy finiva di lavorare molto prima di lui. Gli piaceva che gli chiedesse com’era andata la giornata, che gli preparasse una cena vera, anziché i pasti pronti a cui era abituato, che gli versasse un bicchiere di vino e ascoltasse la sua litania. Gli piaceva molto, in realtà: perché non ci aveva pensato prima? Issy gli aveva chiesto se poteva portare i suoi libri e lui aveva dovuto dirle di no. D’altronde non aveva una libreria: avrebbe rovinato la disposizione del soggiorno con i soffitti a doppia altezza. E poi non voleva assolutamente vedere il suo armamentario culinario così kitsch. Ma lei non sembrava dispiaciuta. Quindi andava tutto bene. Però aveva un’altra cosa che gli frullava per la testa. Quelli dell’ufficio di Londra erano entusiasti del suo progetto su Pear Tree Court e volevano che procedesse il più in fretta possibile. Se fosse andato a buon fine, lui avrebbe avuto un futuro radioso in quel settore. Era davvero un grosso affare.


Solo che stava cominciando a capire che, per quanto gli sembrasse assurdo, a Issy piaceva davvero gestire quello stupido caffè, alzarsi all’alba e fare la sguattera. Più vendevano, più doveva lavorare, più era felice. E i soldi erano comunque pochi. Ma lui l’avrebbe sicuramente fatta ragionare... Graeme aggrottò la fronte e si guardò allo specchio per accertarsi di essersi rasato bene. Si voltò da una parte e dall’altra: niente male. Ma non era sicuro al cento per cento che la situazione di Issy si sarebbe risolta così facilmente. A estate inoltrata il Cupcake Café non dava segni di rallentamento, anzi. Issy pensò che l’anno successivo avrebbe dovuto fare scorta di gelati biologici artigianali: sarebbero andati a ruba. Magari avrebbero potuto mettere un carretto fuori per attirare i passanti. Se ne sarebbe potuto occupare Felipe, che avrebbe suonato il violino nei momenti morti. Ovviamente bisognava compilare una montagna di moduli per ottenere una concessione per la somministrazione di alimenti all’esterno, ma Issy non si lasciò scoraggiare. Era incredibile come la burocrazia, che all’inizio le era parsa uno scoglio insormontabile, fosse ora così facile da gestire. Si rese conto con un sussulto che, a parte la sera in cui Graeme le aveva fatto la sorpresa ed era con Austin (una questione che aveva deciso di risolvere non pensandoci più e non andando più in banca; be’, prima o poi ci sarebbe dovuta tornare, visto che aveva un prestito da rimborsare, ma, finché non fosse stato strettamente necessario, ci avrebbe pensato Pearl), arrossiva anche meno. Uno strano effetto collaterale del suo lavoro di pasticciera. Rientrando da un rapido giro al parco con tanto di gelato, Issy udì Pearl e Caroline battibeccare. Oh-oh. Ultimamente sembravano andare d’accordo; Pearl era quasi sempre allegra, e Caroline aveva cominciato a mettersi delle canottierine che, su qualcuno di vent’anni di meno, sarebbero risultate carine, ma che su di lei non facevano che evidenziare le clavicole sporgenti e le braccia stile Madonna. Issy sapeva che gli operai facevano commenti volgari su loro due insieme, ma li ignorava. A ogni modo Pearl stava infinitamente meglio: il semplice fatto di andare a lavorare ogni giorno anziché starsene chiusa in casa le aveva fatto perdere due taglie e, agli occhi di Issy, sembrava aver ritrovato la sua costituzione naturale, perfettamente proporzionata. «Ci saranno le zie, e tutti gli invitati porteranno una bottiglia. Va bene così» dichiarò Pearl. «Una bottiglia? Per il compleanno di un bambino? No, non va bene» replicò Caroline. «È giusto che abbia una festa come tutti gli altri.» Pearl si morse il labbro. Alla fine Louis, grazie alla sua enorme bontà e al desiderio delle altre mamme di sembrare prive di pregiudizi, aveva ricevuto un paio di inviti a delle feste, ma Pearl aveva declinato perché si svolgevano in luoghi costosi come lo zoo o il museo di storia naturale, e lei non se li poteva ancora permettere. Il Cupcake Café andava meglio e Issy le aveva dato un aumento (contro il volere della signora Prescott), ma lei usava i soldi per comprare cose di cui aveva bisogno, come un letto vero per Louis, lenzuola e asciugamani nuovi, non per regali e feste costose. E non sapeva che i genitori dei bambini dovevano pagare un ingresso: sarebbe rimasta ancora più sconvolta se glielo avessero detto. In più Louis stava crescendo e presto avrebbe cominciato a capire che era diverso dagli altri. Pearl non aveva nessuna intenzione di affrettare quel momento. In ogni caso, l’anno successivo, quando avrebbe iniziato la scuola, sarebbe stato uguale ai suoi compagni. A volte Pearl rabbrividiva al pensiero della materna che aveva vicino a casa. L’amministrazione locale stava facendo il possibile, ma era ancora coperta di graffiti e munita di alti cancelli circondati da filo spinato e, da quando il governo era cambiato, era notevolmente peggiorata. Le sue amiche parlavano di bullismo e di insegnanti disaffezionati, ma ammettevano, seppure a


malincuore, che la scuola faceva del suo meglio. Pearl non era sicura che questo fosse abbastanza per Louis. Certo, l’asilo era snob, ma doveva riconoscere che Louis aveva fatto passi da gigante: sapeva contare fino a venti, fare puzzle, cantare canzoni vere e non solo i jingle della pubblicità, andare sul triciclo, e voleva più libri della biblioteca di quanti Pearl riuscisse a procurargli. A volte immaginava con orrore che, quando sarebbe andato a scuola, lo avrebbero intimidito e costretto a dimenticare tutto quanto. D’altra parte, non voleva crescere un bambino viziato abituato ad amici eleganti e feste a tema, che sarebbe stato preso in giro anche per quello. «Sarà una festa con tutti i crismi» dichiarò. Le dava fastidio che Caroline avesse sempre ragione su tutto. «E con un sacco di regali.» «Perché non inviti i suoi amichetti?» insisté Caroline, che proprio non voleva capire. «Una decina, non di più.» Pearl cercò di immaginare dieci Harry e Liddy e Alice e Arthur che si arrampicavano sul divano letto di sua madre, ma non ci riuscì. «Che succede?» chiese Issy sorridendo. Aveva anche trovato il tempo di passare in tintoria a ritirare la roba di Graeme. Ovviamente doveva essere lei a occuparsene, anche se lui si spostava in macchina. «Stiamo organizzando la festa di compleanno di Louis» rispose Caroline allegra. Pearl le lanciò un’occhiataccia. «Forse.» «Be’, adesso gli chiedo se vuole una festa vera» dichiarò Caroline. Pearl guardò Issy esasperata. A un tratto, Issy ebbe un’idea. «Ci sto riflettendo da un po’. Il sabato è sempre una giornata tranquilla qui. Avevo una mezza idea di chiudere, ma la signora Prescott mi ucciderebbe, e anche Austin. Quindi ho pensato di organizzare delle feste di compleanno a tema cupcake. Soprattutto per le bambine, ovviamente. L’idea sarebbe questa: i bambini vengono e preparano e decorano le loro torte, con tanto di minigrembiuli e ciotole, e noi facciamo pagare ai genitori l’affitto del caffè. Potremmo guadagnare un po’ di soldi. E sarebbe utile anche ai bambini, visto che nessuno fa più le torte in casa.» Issy non si rendeva conto di parlare come suo nonno. «Che bella idea» cinguettò Caroline. «Lo dirò subito alle ragazze e insisterò perché partecipino. Agli adulti potremmo servire del tè. Anche se» aggiunse pensosamente «io non sono mai sopravvissuta a una di quelle disgraziate feste per bambini senza uno o due bicchierini. Sai, per il rumore.» «Non possiamo chiedere la licenza per gli alcolici» obiettò Pearl. «L’ho promesso al parroco.» «No, certo» convenne Caroline, seppure a malincuore. «Puoi fare come il principe Carlo e portarti una fiaschetta» suggerì Issy. «Allora, Pearl, che ne dici di usare Louis e i suoi amichetti come cavie per vedere se funziona? Potremmo scattargli delle foto in cui sono coperti di farina e usarle come pubblicità.» «Insomma, sarà come tutti gli altri giorni, solo peggio» osservò Pearl. «Tutti i compleanni dei bambini sono così» concluse Caroline. «Un gran casino!» Graeme cercò di sfoderare tutta la sicurezza che sapeva di possedere: si era guardato nello specchietto della BMW prima di scendere, ignorando un bambino che, passando, lo aveva preso in giro. Ciononostante, sebbene normalmente si sentisse una tigre alle riunioni, certo com’era che avrebbe avuto la meglio, quel giorno era nervoso. Sul serio. Ma era assurdo: era Graeme Denton. Non poteva farsi intimidire da una ragazza. Non aveva ancora informato Issy del suo progetto. Ma


alla Kalinga Deniki volevano conoscere i suoi progressi e stavano spingendo per avere le richieste di concessione edilizia e il via libera. Avevano già in mano delle relazioni preliminari e quel giorno Graeme avrebbe incontrato il signor Barstow, il proprietario di quasi tutto Pear Tree Court. Barstow non si perse in convenevoli. Gli porse la mano piccola e paffuta ed emise uno dei suoi grugniti. Graeme lo salutò con un cenno del capo, ordinando al suo nuovo assistente, Dermot, di avviare Powerpoint. Dermot, che aveva nove anni in meno di Graeme, era una mezza cartuccia che si vestiva come un faccendiere e cercava di ficcare il naso in tutti i progetti del capo: a pensarci bene, gli ricordava lui a inizio carriera. Graeme cominciò la sua presentazione, spiegando a Barstow come la vendita in blocco di locali occupati e vuoti sarebbe stata un vantaggio per lui, purché fosse stato disposto a garantire alla KD uno sconto congruo. Al terzo grafico, lo sguardo di Barstow si fece vitreo. «Okay, okay. Scriva la cifra su un foglio» disse, agitando la mano. Graeme esitò un istante, poi decise di accontentarlo. Barstow lanciò un’occhiata sprezzante al foglio e scosse la testa. «Neanche per sogno. E comunque il numero quattro è occupato da una ragazza che gestisce un piccolo caffè. Gli affari vanno bene, il che ha fatto lievitare i prezzi degli immobili vicini.» Graeme alzò mentalmente gli occhi al cielo. Gli ci mancava solo che Issy gli rendesse le cose più difficili. «Però il contratto d’affitto è di sei mesi e sta per scadere. Vedrà, faremo in modo che le convenga vendere.» Graeme si maledisse fra sé. Non avrebbe dovuto sapere quando scadeva il contratto di Issy, ma ovviamente era così. Barstow alzò le sopracciglia. «Quindi ha già parlato con lei? Be’, se è d’accordo...» Graeme rimase impassibile, per non confermare né smentire il fatto che fosse in contatto con Issy. Non erano affari di Barstow. «Non so come farò a mandar via il fabbro, però. È lì da più tempo di me» rifletté Barstow strofinandosi il doppio mento. «Chissà come fa a mantenersi.» A Graeme non importava nulla. «Gli faremo un’offerta che non potrà rifiutare.» Barstow lo guardò dubbioso. «Intanto continui a scrivere su quel foglio.»


16

Un po’ di scones. Scones. Issy. Scones. 260 once di farina 4 once di farina Una spruzzata di farina 50 once di zucchero raffinato 6 once di zucchero di canna 6 once di sale Issy posò la lettera e sospirò. Era terribile, straziante. Stava andando a trovare il nonno con un po’ di cupcake fatti da lei. Magari, vedendoli, si sarebbe ripreso. Sarebbe stata una seccatura portarli sull’autobus, ma non le importava. Alla casa di riposo c’erano quarantasette residenti (anche se il numero cambiava continuamente) e trenta membri del personale, e Issy aveva un dolcetto per ciascuno. Aveva pensato di chiedere a Graeme se voleva accompagnarla, ma quando, giorni prima, era andata in soggiorno, lui aveva chiuso immediatamente il computer su cui stava lavorando ed era stato così sbrigativo che lei si era ritirata in buon ordine, sentendosi per l’ennesima volta ospite in quella che avrebbe dovuto essere la sua nuova casa. Se lui non fosse stato sempre così scontroso, gli avrebbe proposto di cominciare a cercare un’altra sistemazione. Certo lei non era ancora in grado di contribuire in modo significativo e non avrebbero certo potuto permettersi una reggia. Forse non era nemmeno pronta a vendere l’altra casa, anche se sospettava che Helena l’avrebbe comprata subito. Quando ripensava a tutte queste cose, aveva come l’impressione che non la riguardassero direttamente, tanto le sembravano lontane: vendere casa sua, comprarne un’altra. Certo, ormai non viveva più a casa di Graeme... La domenica precedente aveva finalmente conosciuto la madre di Graeme. I suoi genitori si erano separati quando era molto piccolo, e lei era davvero curiosa di incontrarla, soprattutto dopo la telefonata che aveva ricevuto da Marian. «Issy!» aveva urlato, come se le stesse parlando dalla Florida, ma senza telefono. «Isabel! Senti! Credo che tuo nonno non stia bene. Ti dispiace fare un salto alla casa di riposo?» Issy aveva contato fino a dieci: andava a trovarlo tutte le domeniche ed erano settimane che scriveva a sua madre che il nonno non era in sé. «Già fatto, mamma.» «Oh, bene. Perfetto.» «Sai, credo che... gli farebbe molto piacere rivederti. Hai intenzione di tornare, prima o poi?» Issy aveva cercato di non sembrare sarcastica, ma tanto sua madre non coglieva. «Non lo so, tesoro. Brick è così preso dal lavoro... E tu come stai, amore?» «Bene. Mi sono trasferita a casa di Graeme.»


Marian non l’aveva mai visto. E Issy si augurava che le cose rimanessero così il più a lungo possibile. «Oh, che bello, amore! Bene, sta’ attenta! Ciao!» Quindi non c’era da stupirsi se Issy non vedeva l’ora di conoscere la potenziale futura suocera. La immaginava simpatica, rotondetta e gentile, con gli stessi capelli scuri e gli occhi scintillanti di Graeme. Nella sua fantasia, avrebbero fatto amicizia e si sarebbero scambiate ricette. Magari le sarebbe piaciuto avere una figlia. A ogni modo, fu con una certa emozione che indossò un grazioso scamiciato estivo e portò in dono una delle sue leggerissime torte Victoria sponge. La signora Denton viveva a Canary Wharf, in una villetta moderna e immacolata che dava su un reticolo di strade tutte uguali. La casa era minuscola e aveva i soffitti piuttosto bassi, ma era dotata di tutti i comfort: era stato Graeme a sceglierla. «Salve!» esclamò calorosamente Issy, sbirciando il corridoio splendente alle sue spalle. Non c’erano quadri alle pareti, a parte una gigantografia di Graeme da bambino, né cianfrusaglie in giro. «Ah, ora capisco perché suo figlio è così ordinato!» La madre di Graeme sorrise e, per un attimo, parve assorta nei suoi pensieri. «Le ho portato una torta» aggiunse allegramente Issy. «Graeme le ha detto che sono una pasticciera?» Carole rimase impietrita. Era così emozionata: erano quattro o cinque anni che Graeme non portava una ragazza a casa. Era davvero orgogliosa di lui e del suo successo. Suo figlio era un pezzo grosso del settore immobiliare, come le piaceva raccontare alle amiche, lasciando intendere che le aveva comprato casa. Le ultime due ragazze, be’, erano veramente bellissime, soprattutto quella con i capelli biondi lunghi fino alla vita. Non poteva che essere così, del resto: bastava guardare suo figlio. Ma sapeva che non erano storie serie. Graeme doveva prima consolidare la sua carriera e non aveva tempo di accasarsi. Ultimamente, però, aveva cominciato a perdere terreno con le amiche, che parlavano solo dei matrimoni dei figli, di ricevimenti, invitati e regali. Ancora peggio, aveva dovuto presenziare alle cerimonie, sorridere e congratularsi per il buon gusto, anche se il salmone non sapeva di niente e i dj mettevano musica da discoteca. Alla fine era accaduto l’irreparabile: era stata eclissata da quello sgorbio di Lilian Johnson, proprio lei. Sua figlia Shelley era partita per l’università in pompa magna per poi tornare all’ovile e finire a fare l’assistente sociale, e tutti sapevano che lavoro penoso fosse. Be’, comunque Shelley si era sposata. Il pollo non le era piaciuto, ma non era poi così malvagio se apprezzavi quel tipo di cucina, e Lilian, che indossava un abito color malva, faceva la sua figura. Ora Shelley era incinta e Lilian sarebbe diventata nonna. Carole proprio non lo sopportava. Per questo non vedeva l’ora che il figlio si mettesse in pari. Aveva dato per scontato che scegliesse una di quelle belle ragazze fini e delicate alla Gwyneth Paltrow, intelligente, per carità, ma disposta a rinunciare alla carriera per occuparsi del marito e ansiosa di ricevere consigli sui suoi gusti, in modo da cucinargli i suoi piatti preferiti, e anche qualche dritta sullo stile. Si era immaginata loro due che andavano da John Lewis e la ragazza che esclamava: «Oh, Carole, come lo conosci bene!», o che sceglievano insieme il corredino per il nascituro e la ragazza che diceva: «Senti, Carole, io non so niente di bambini, devi spiegarmi tutto». E Graeme che le confidava: «Sai, mamma, non potendo trovare un’altra come te, mi sono dovuto accontentare». Non che suo figlio fosse tipo da fare quel genere di dichiarazioni, ma le piaceva fantasticare. Quindi sì, ecco cosa si aspettava dopo che Graeme l’aveva chiamata per dirle, piuttosto


frettolosamente, che sarebbe venuto all’ora del tè con “Isabel”. Un nome elegante, originale. Del resto Graeme non avrebbe mai scelto una ragazza banale. Aveva ottimi gusti, come lei. Quando aveva aperto la porta e si era trovata di fronte quella brunetta bassa e tonda dalle guance rosee che doveva avere almeno... Quanto? Trentaquattro, trentacinque anni? Poteva ancora avere bambini? Suo figlio era impazzito? Non poteva essere lei. Graeme era splendido, lo dicevano tutti. Il suo ex marito era un bastardo, certo, ma almeno era affascinante, e Graeme aveva preso da lui. E poi era così raffinato, con la sua auto elegante e i suoi vestiti eleganti e la sua casa elegante. Non era possibile che... Forse quella non era la sua fidanzata. Forse era... Carole si aggrappò alle più flebili speranze. Forse era una ragazza che aveva bisogno di un visto per poter restare in Inghilterra. Forse era un’amica di un’amica di passaggio a Londra che Graeme ospitava gentilmente nel suo appartamento. Ma allora... perché portarla? «Ecco la torta!» ripeté Issy. «Ehm... magari non le piace.» Issy arrossì come al solito e se la prese con se stessa: stupidamente sentiva di non essere all’altezza delle aspettative di Carole. Lanciò una rapida occhiata a Graeme. Di solito lui ignorava sua madre, ma non poteva non essersi reso conto di quanto fosse stata sgarbata. Lui le strinse la mano di sfuggita. «Issy è la mia fidanzata» annunciò, e lei gliene fu profondamente grata. «Possiamo entrare?» «Certo» rispose Carole con un filo di voce, facendosi da parte. Senza pensare, Issy entrò e si fermò sul tappeto lungo color crema, ma poi si irrigidì quando si accorse che Graeme, dietro di lei, si era chinato per togliersi le scarpe. Ovviamente. «Ah» esclamò, sfilandosi i sandali e rendendosi conto che avrebbe avuto bisogno di una pedicure. Ma non aveva mai tempo! Notò che anche Carole si era soffermata sui suoi piedi. «Metto la torta in cucina?» le chiese allegramente. Carole le fece cenno di accomodarsi. La cucina era immacolata. Su un lato c’erano tre ciotole con dell’insalata lavata, una piccola pila di tramezzini al prosciutto e una caraffa di limonata. Issy posò la torta con un sospiro: sarebbe stato un lungo pomeriggio. «Quindi lei lavora?» chiese a Carole quando si sedettero al tavolo rotondo evidentemente poco utilizzato per pranzare. Era una giornata meravigliosa e Issy aveva guardato con desiderio al giardino perfettamente curato, ma Carole aveva dichiarato che aveva il terrore delle vespe e degli altri insetti e non si sedeva mai fuori. Issy le aveva fatto i complimenti per la sua pelle, ma Carole li aveva completamente ignorati ed erano rimasti tutti e tre in casa con le finestre chiuse e la televisione accesa di modo che Graeme potesse vedere la partita. Carole parve stupita dalla domanda, ma Issy non aveva chiesto praticamente nulla di lei a Graeme; quando avevano cominciato a vedersi, era troppo presto e non sarebbe stato il caso e, ultimamente, aveva avuto l’impressione che Graeme evitasse l’argomento. Carole non poteva credere che il figlio non avesse raccontato nulla di lei a quella ragazza. Anzi, a quella donna. «Be’, immagino che Graeme ti abbia parlato delle mie opere di beneficenza» rispose, in tono altezzoso. «E, ovviamente, l’Associazione dei coltivatori di rose mi tiene molto impegnata. Anche se mi occupo per lo più di questioni amministrative. Per via degli insetti, sai. Loro, però, non sembrano essere molto riconoscenti.» «Gli insetti?» «I coltivatori di rose» precisò Carole in tono sprezzante. «Sgobbo come un mulo sui verbali.» «So cosa vuol dire» disse Issy. Era un modo per esprimere la sua solidarietà, ma la donna parve non sentirla.


«Ti vogliono sempre tutti bene in ufficio, amore?» chiese poi Carole a Graeme in tono sdolcinato. Lui grugnì e indicò la televisione per far capire che voleva essere lasciato in pace. «È molto amato» disse Carole a Issy. «Lo so. Ci siamo conosciuti al lavoro.» Carole alzò le sopracciglia. «Mi sembrava di aver capito che lavorassi in un caffè.» «Gestisco un caffè, sì. Sono una pasticciera. Faccio le torte, insomma.» «Non posso mangiarle» ribatté Carole. «Mi danno problemi di digestione.» Issy pensò con rammarico al pan di spagna leggero come l’aria che aveva lasciato in cucina. Avevano già mangiato i tramezzini (ci erano voluti due minuti) e ora si sentiva insofferente e insoddisfatta, seduta a tavola, in attesa che il tè si raffreddasse. «Quindi, ehm...» cominciò Issy, ansiosa di riprendere la conversazione. Graeme esultò per un gol; lei non aveva la più pallida idea di chi stesse giocando. Ma, seduta davanti a lei, c’era la sua potenziale suocera. Nonché potenziale nonna dei suoi figli... Scacciò subito quel pensiero. Era ancora troppo presto. Decise di andare sul sicuro. «Eh sì, Graeme è il più amato in ufficio. È bravissimo nel suo lavoro. Dev’essere molto orgogliosa di lui.» Carole si addolcì per un istante prima di ricordarsi che quella vecchia arpia sovrappeso aveva avuto la sfacciataggine di presentarsi con una torta, sottintendendo che lei non cucinasse per il figlio. Oltretutto quella era entrata in casa senza neanche togliersi le scarpe, come se fosse già la padrona. «Sì, be’, finora ha sempre scelto il meglio» ribatté, tentando di caricare il suo commento di tutti i sottintesi possibili. Issy rimase profondamente avvilita. Poi un altro silenzio imbarazzato, interrotto solo dalle esclamazioni di giubilo o di trepidazione di Graeme. «Mi odia» disse mestamente Issy mentre tornavano a casa. «No che non ti odia» ribatté Graeme, di cattivo umore perché la sua squadra aveva perso di nuovo. In realtà, sua madre lo aveva portato in cucina per dirgli chiaramente che non era contenta. Primo, quella donna era vecchia; secondo, era una pasticciera. Lui, pur non essendo abituato alla disapprovazione di sua madre, l’aveva ignorata. Adesso ci mancava solo che Issy lo assillasse con quella storia. «Pensa solo che tu sia un po’ vecchia.» Dopodiché accese la radio e Issy guardò fuori dal finestrino, fissando il temporale in arrivo da est sopra Canary Wharf. Le gocce cominciarono a cadere pesantemente sul vetro. «Ah sì?» domandò sommessamente. «Mm.» «Anche tu pensi che io sia un po’ vecchia?» «Per cosa?» ribatté Graeme. Aveva la netta sensazione che quella conversazione non avrebbe portato nulla di buono, ma era lì, in macchina, e non poteva scappare. Issy chiuse gli occhi e fece un profondo respiro. Era il momento di chiederglielo: era questo che la aspettava? Doveva scoprirlo e chiudere la faccenda una volta per tutte. E se glielo avesse domandato e la risposta fosse stata no? E se invece fosse stata sì? Se entrambe le risposte l’avessero resa infelice, cos’avrebbe voluto dire? Quali conclusioni avrebbe dovuto trarne? A un tratto vide il suo futuro scorrerle davanti agli occhi... Graeme che faceva carriera usandola come valvola di sfogo, come schiava e ignorandola per guardare la tv, come aveva fatto con sua madre. Uno zerbino dolce e accomodante.


Be’, forse si era davvero comportata come tale: Helena glielo diceva da tempo. Ma adesso era cambiata. Il Cupcake Café l’aveva cambiata. In meglio. E stavolta non ci sarebbero state grida, né drammi, né ritorni all’ovile ogni volta che lui aveva voglia di un pasto caldo. Stavolta avrebbe fatto le cose per bene. «Graeme...» cominciò, voltandosi verso di lui sotto la pioggia battente. «Che vuol dire?» le aveva chiesto lui. Era rimasto più sconvolto di quanto Issy si aspettasse, ma lei non poteva sospettare cosa significasse per il suo lavoro. «Non credo... non credo che possa funzionare» disse Issy, con tutta la calma che riuscì a trovare, osservando il bel profilo e la mascella serrata di Graeme mentre tagliava la strada a un’altra auto uscendo da una rotonda. Lui, dopo numerose imprecazioni, si era chiuso a riccio e si era rifiutato di rivolgerle la parola. Non appena aveva potuto, aveva accostato, lasciandola sul ciglio della strada. Issy pensò che fosse il giusto epilogo della loro storia mentre osservava l’auto sportiva allontanarsi sgommando. Gli avrebbe concesso la sua meschina vittoria; d’altra parte non le importava più di tanto, perché non faceva freddo sotto la pioggia. Fermò il primo taxi che le venne incontro. Helena lanciò un gridolino di sorpresa vedendola rientrare e volle sapere tutti i dettagli della disastrosa visita alla madre di Graeme. «A un tratto mi è sembrato evidente che, al di là di tutto, non mi faceva bene» spiegò. «Anche se» aggiunse poi con un tremolio nella voce «mi sarebbe piaciuto avere un bambino.» «E lo avrai» la rassicurò Helena. «Magari congela qualche ovulo. Così, per sicurezza.» «Grazie, Lena» mormorò Issy, mentre l’amica la abbracciava forte. Quella domenica, dopo aver distribuito agli ospiti della casa di riposo i cupcake – che furono accolti con molto più entusiasmo del pan di spagna della settimana prima –, si lasciò cadere sul letto del nonno come se fosse più debole di lui. «Ciao.» Vide che portava un paio di occhialini a mezzaluna simili a quelli che usava quando lei era piccola. Chissà se erano gli stessi, si chiese. Il nonno apparteneva a una generazione che non cambiava le cose solo perché erano passate di moda o le erano venute a noia. Compravi qualcosa – o sposavi qualcuno – e te lo tenevi. «Sto scrivendo una ricetta a mia nipote che vive a Londra» dichiarò. «Deve sapere certe cose.» «Nonno, sono io! Sono qui! Cos’è?» Joe batté più volte le palpebre, poi la vista gli si schiarì e la riconobbe. «Issy. Bambina mia.» «Non darmela adesso, però. Non hai idea di quanto mi faccia piacere trovare le ricette nella cassetta delle lettere. Ho cambiato di nuovo indirizzo. Lo lascerò all’infermiera.» Joe insisté per appuntarselo subito. Tirò fuori dal comodino una vecchia rubrica di pelle che, Issy se lo ricordava perfettamente, era rimasta per anni sul tavolino dell’ingresso di casa loro, accanto al telefono a disco verde. Lo osservò voltare le pagine, piene di nomi, di vecchi indirizzi cancellati e riscritti più volte, di numeri inizialmente brevissimi, come Sheffield 4439 o Lancaster 1133, che poi diventavano sempre più lunghi e complicati. Era un cimelio malinconico, tanto che il nonno cominciò a borbottare fra sé, scuotendo la testa spelacchiata. «Lui non c’è più. E anche loro, tutti e due. Sono morti a distanza di un mese l’uno dall’altra. Questo non mi ricordo chi era.» «Raccontami della nonna» disse Issy per tirarlo su.


Quando era piccola adorava gli aneddoti sulla sua bellissima nonna, ma Marian non riusciva ad ascoltarli perché le facevano troppo male, quindi il nonno aspettava di rimanere solo con la nipote. «Be’,» cominciò Joe, mentre il suo volto contratto si rilassava leggermente «lavoravo in panetteria, e un giorno è entrata lei chiedendo un cannolo alla crema.» Fece una pausa teatrale e Issy sorrise compiaciuta. Una delle infermiere si affacciò alla porta e si fermò ad ascoltare. «E io la conoscevo, ovviamente: all’epoca ci conoscevamo tutti. Era la figlia più giovane del maniscalco, quindi era molto elegante, sai. Non avrebbe mai guardato un semplice fornaio come me.» «Mm...» «Ma poi cominciò a venire più spesso. Quasi tutti i giorni, in realtà, anche se a quel tempo era la servitù a occuparsi della spesa. Allora ogni tanto le infilavo qualcosa nella sporta. Una fetta di torta alla marmellata, o delle focaccine all’uvetta. Era così bella... allora le donne erano minute, non come i pachidermi di oggi che fanno su e giù per i corridoi giorno e notte» aggiunse polemico, malgrado Issy gli facesse cenno di tacere. L’infermiera, che era alquanto prosperosa, rise e scosse la testa. «Poi iniziò a mettere su un po’ di carne, tutta nei punti giusti, sai, davanti e dietro. E io pensai: è merito delle mie torte. Sta ingrassando per me. E fu allora che capii che era interessata. Se le fosse piaciuto qualcun altro, sarebbe stata attenta alla linea.» E sorrise soddisfatto. «Quindi un giorno le dissi: “Ti ho messo gli occhi addosso”. E lei mi guardò con aria impertinente e rispose: “Hai fatto bene” e uscì ancheggiando come Rita Hayworth. Un sabato sera la vidi tutta in ghingheri al ballo dell’aviazione. Io e i miei amici eravamo lì a caccia di commesse, ma, quando la scorsi che rideva in mezzo a un gruppo di ragazzi eleganti, dissi ai miei amici: vado a parlarle lo stesso. Non c’era mai ai balli a cui andavamo noi, oh, no. Quella sera fu un colpo di fortuna. Allora mi avvicinai e lei mi disse...» «“Credevo avessi i capelli bianchi”» completò Issy, che sapeva la storia a memoria. «E poi allungò una mano e li toccò. E allora ne ebbi la certezza.» Issy aveva visto alcune foto del matrimonio dei nonni. Lui era un bell’uomo, alto, con i capelli ricci e folti e un sorriso timido. Lei era uno schianto. «E io le chiesi: “Com’è che ti chiami?”, anche se ovviamente lo sapevo benissimo. E lei rispose...» «Isabel» disse Issy. «Isabel» ripeté il nonno. Issy giocherellava con la gonna come una bambina. «Ma l’hai capito e basta?» gli chiese. «Cioè, subito? Che ti saresti innamorato e sposato e avreste avuto dei figli e l’avresti amata per sempre e sarebbe andato tutto bene, finché...» «Abbiamo passato vent’anni insieme» rispose Joe, dandole dei colpetti affettuosi sulla mano. Issy non aveva mai conosciuto la sua omonima: era morta quando sua madre aveva quindici anni. «E sono stati meravigliosi, pieni di felicità. Molti di quelli che ora sono qui sono stati sposati sessant’anni con qualcuno che non sopportavano. Ne conosco alcuni che si sono sentiti sollevati quando il marito o la moglie sono morti. Te lo immagini?» Issy tacque: non aveva voglia di immaginarselo. «Tua nonna era straordinaria. Una donna coraggiosa e sicura di sé. Io invece ero un po’ timido. Non so dove trovai il coraggio di avvicinarmi quella sera. E comunque sì, l’ho capito subito.» Ridacchiò al ricordo. «Certo, mi ci volle un po’ per convincere suo padre. Era un osso duro. Si addolcì solo quando aprii la terza panetteria. Me lo ricordo come fosse ieri.» Sfiorò la guancia di


Issy. «Ti avrebbe voluto molto bene.» Issy affondò il viso nella sua mano. «Grazie, nonno.» «Allora dammi un cupcake.» Lei lanciò uno sguardo d’intesa all’infermiera che sostituiva Keavie. Più tardi, mentre la accompagnava all’uscita, osservò: «Ma dove sono finiti gli uomini romantici? Oggi ti rimorchiano e il giorno dopo non ti chiamano. Suo nonno si comporterebbe diversamente, ovvio» si affrettò a precisare. «Ma non gli altri uomini. Non credo che oggi qualcuno mi si avvicinerebbe in discoteca con l’idea di sposarmi e avere dei figli. Certo, se lo facesse, dovrebbe sbrigarsi.» Issy, che la capiva perfettamente, sorrise. «Buona fortuna. Vuole un altro cupcake?» «Certo.»


17

Graeme guardò la posta e sospirò: non aveva nessuna voglia di aprirla. Una busta grossa dall’ufficio urbanistica, piena di brochure e informazioni. Era un buon segno. Busta piccola significava “no”; busta grossa voleva dire “Siete pregati di compilare i moduli allegati per passare allo step successivo” e cartelli da appendere ai lampioni intorno a Pear Tree Court. Non aveva nemmeno bisogno di guardare il contenuto. Però doveva farlo. Una testa bionda si affacciò alla porta del suo ufficio. Era Marcus Boekhoorn, uno dei soci olandesi della Kalinga Deniki e di un altro centinaio di società, in visita alla sede londinese. «Il nostro astro nascente!» esclamò, entrando a grandi passi. Marcus faceva tutto rapidamente; non si fermava mai, come uno squalo. Graeme balzò in piedi. «Sissignore.» Per fortuna indossava il completo di Paul Smith che gli stava a pennello. Marcus era in forma smagliante e si diceva che apprezzasse i luogotenenti magri dall’aria famelica. «Mi piace questo progetto sul territorio» disse Marcus, dandosi dei colpetti sui denti con la Montblanc. «Il nostro settore deve muoversi proprio in questa direzione. Affari, clienti, finanza, costruttori: tutti sul territorio. Così sono tutti contenti. Capisci?» Graeme annuì. «Vedo che mi segui. Credo tu abbia ottime prospettive di carriera. Questi progetti sono il futuro. Sono molto soddisfatto.» Marcus lanciò un’occhiata alla scrivania di Graeme. Sebbene fosse al contrario e in un’altra lingua, anche lui riconobbe subito la busta. Non gli sfuggiva mai niente. «Hai ottenuto il via libera?» gli chiese, allegro. Graeme tentò di dimenticare che aveva rimandato il momento di aprirla. «Pare di sì» rispose, sforzandosi di apparire disinvolto. «Te l’ho detto, è il futuro» ripeté Marcus, dandogli una pacca sulla spalla. «Buon per te.» Billy, il grintoso venditore della KD, irruppe nel suo ufficio dopo che Marcus uscì per raggiungere l’eliporto di Battersea. «Sei entrato nelle grazie del capo» disse, un po’ contrariato. La Kalinga Deniki non favoriva la solidarietà al suo interno: lì c’erano solo vincitori e vinti. Graeme si irrigidì. Alzò gli occhi e vide il collega con i suoi mocassini eleganti, l’anello d’oro con il sigillo e la barba corta e curata sul mento prominente. «Già» borbottò, restio a svelare qualsiasi cosa a quella testa di cavolo che avrebbe solo sfruttato le informazioni a proprio vantaggio. «È bello il tuo progetto, sai?» osservò Billy riflettendo. «Ma devi risolvere il problema dei mutui con la banca. I contratti d’affitto sono sempre un casino, e dovrai convincerli a darti i soldi.» «Ho già pensato a tutto» replicò Graeme con finta nonchalance, anche se era una seccatura non avere a che fare con le grandi banche d’affari, come gli capitava di solito. «Bene. Solo che, non so, ho l’impressione che tu non sia entusiasta. Non ci stai mettendo tutto te


stesso. C’è del lavoro sporco da fare. Se vuoi che se ne occupi qualcun altro... voglio dire, so che sei oberato.» Graeme lo fulminò con lo sguardo. «Giù le zampe dal mio progetto» sibilò. Avrebbe voluto sembrare scherzoso, ma fu più aggressivo del previsto. «Ooh, scusa...» ribatté Billy, alzando le mani. «Volevo solo evitare che facessi il passo più lungo della gamba.» «Grazie dell’interessamento» replicò Graeme, fissando Billy finché non uscì dall’ufficio chiudendosi la porta alle spalle. Un attimo dopo Graeme afferrò la busta e la lanciò contro il muro.


18

Cupcake per le feste pasticcione dei bambini 150 g di burro morbido 150 g di zucchero extrafine 175 g di farina autolievitante 3 uova 1 cucchiaino di estratto di vaniglia Glassa, marshmallow, bottoni di cioccolato, praline di zucchero colorate, stelline commestibili, fette di gelatina d’arancio e limone, coloranti alimentari (di tutti i colori), foglie d’oro e d’argento commestibili, lecca-lecca, Smarties, fiori di zucchero, liquirizie assortite, mandorle tritate, salsa di cioccolato e di toffee, vermi di gelatina Riscaldate il forno a 180 °C e disponete su una teglia 12 pirottini per cupcake. Rompete le uova in una tazza e sbattete leggermente con una forchetta. Mettete tutti gli ingredienti in una grossa ciotola e montate con un frullino elettrico per qualche minuto, fino a ottenere un composto leggero e cremoso, che verserete nei pirottini. Fate cuocere per 18-20 minuti finché non lievitano e non diventano solidi al tatto. Lasciate raffreddare per alcuni minuti, poi trasferiteli su una griglia. E poi... ehm... decorate.

Mentre Issy si gettava a capofitto nel lavoro per mettere a tacere la tristezza e, insieme, il sollievo che provava da quando aveva rotto con Graeme e quest’ultimo cercava di escogitare un piano per riconquistare la fiducia di Issy almeno finché il progetto non fosse andato in porto; mentre Pearl tentava di ottenere una risposta da Ben e Helena cercava un appartamento da comprare, Austin si struggeva. Lesse più volte la proposta ma non c’erano dubbi: la Kalinga Deniki stava cercando di sbrogliare gli intricati accordi bancari riguardanti Pear Tree Court, ottenere un altro prestito e ricostruire l’intero complesso. E al diavolo la ferramenta e l’edicola. Austin ripensò al regalo di compleanno che il tipo strano della ferramenta aveva fatto a Issy. Lei sembrava così felice e così commossa di essere stata adottata dalla comunità. E invece... Quello che lo lasciava sbigottito era la sua doppieza. Pensava fosse una persona onesta, schietta, genuina. Fu solo quando capì che Issy era completamente diversa da quello che aveva sperato che si rese conto di quanto gli piaceva l’immagine che lei aveva dato di sé. Finalmente arrivò il compleanno di Louis. «Sei allegra stamattina, Issy» osservò Pearl, piegando i tovagliolini colorati. «Certo. È il compleanno di Louis, no?» « È mi compliano» confermò il piccolo, che se ne stava seduto sul pavimento a giocare con Barbapapà e Barbamamma (regalo di Issy), che si baciavano e preparavano cupcake immaginari. «Mi piace cinque anni.» «Non hai cin...» cominciò Issy, ma poi decise che quel giorno nessuno avrebbe dovuto vedere infrante le proprie illusioni. «In effetti sono una bellissima età» concordò. «La cosa che mi piace di più è che quando sei un ometto di cinque anni dai un sacco di baci a tutti.»


Louis capì che Issy lo stava prendendo in giro, ma aveva un animo talmente gentile che non si indispettì. «Io do bacio a Issy.» «Grazie» rispose lei, abbracciandolo. Forse non avrebbe mai avuto accanto altri bambini oltre a Louis, quindi meglio approfittarne. «E fai una festa oggi?» «Sì. Tanti amici vengono alla festa di Louis.» Issy lanciò un’occhiata a Pearl, che annuì. «Be’, hanno detto tutti di sì» confermò, leggermente perplessa. «Perché avrebbero dovuto fare altrimenti?» Pearl alzò le spalle. Continuava ad avere qualche dubbio. Un conto era invitare i bambini a venire a giocare nel negozio di cupcake di Issy, conosciuto, sicuro e vicino a casa. Se li avesse invitati lei, sarebbe stato un altro paio di maniche. In quel caso, ci sarebbero state scuse e lezioni di nuoto e nonni in visita. Essere i primi bambini del quartiere ad avere accesso a una festa come quella era troppo allettante. Quanti avevano accettato per Louis? «Chi altro viene?» chiese Issy. Le piaceva l’idea di diventare una maga delle feste per bambini. «Mia madre. Il mio parroco. E un paio di persone della chiesa.» Non aggiunse che non aveva invitato nessuno dei suoi amici. Non perché si vergognasse di dove lavorava o perché Louis frequentasse nuovi bambini. Molte sue amiche non potevano lavorare: avevano più di un figlio e non potevano contare sull’aiuto di nessuno, mentre Pearl aveva sua madre. Non voleva pensassero che si fosse montata la testa e avesse organizzato una grande festa al Cupcake Café perché il McDonald’s del quartiere non era all’altezza di suo figlio. Presto Louis sarebbe andato a scuola. E la vita era già abbastanza difficile nel loro quartiere. Soprattutto non menzionò Ben. Non poteva. Negli ultimi tempi era stato così dolce, così adorabile. Lo aveva visto spesso. Aveva cominciato a pensare che... Ben stava lavorando al sito olimpico, e guadagnava bene. Sua madre poteva restare nella casa popolare dove vivevano, ma nulla impediva loro di... be’, magari di trovare un altro appartamento in affitto da quelle parti. Piccolo, non troppo lontano da dove lavorava Ben e abbastanza vicino all’asilo di Louis... Poi, l’anno successivo, avrebbero potuto iscriverlo a una delle meravigliose scuole del quartiere, piene di luce e bambini felici con le loro divise eleganti. Li aveva visti. Non le sembrava un sogno così ambizioso. Di sicuro era più di quanto avrebbe potuto immaginare l’anno prima. Ed era terrorizzata all’idea di rovinare tutto. Ben sapeva dov’era la festa e aveva promesso che sarebbe venuto. «Bene, ci divertiremo un mondo» disse Issy, sistemando gli ingredienti in tante ciotoline. Aveva comprato anche una dozzina di grembiulini. Pearl la scrutò attentamente: c’era qualcosa sotto. «È mi compliano!» annunciò Louis a gran voce, visto che nessuno lo aveva ricordato negli ultimi tre minuti. «Ah sì, caro il mio ometto?» disse Doti entrando. «Meno male che ho dei biglietti per te, allora.» Aprì la borsa mostrando una mezza dozzina di buste dai colori vivaci. Le ragazze e Louis gli si fecero intorno. Alcune erano indirizzate “all’ometto del Cupcake Café”. «Hai detto a tutti che è il tuo compleanno?» gli chiese Issy con aria grave prendendolo in braccio. Il piccolo annuì. «Sabato, mi compliano. Ho detto: “Vieni a mia festa di compliano. Mia festa è in un caffè!». Pearl e Issy si scambiarono un’occhiata allarmata. «A chi hai chiesto di venire alla tua festa, amore?» gli domandò Pearl dolcemente.


«Be’, a me, tanto per cominciare» rispose Doti. «Pensavo di passare alla fine del turno. Ho un bel regalo per te, giovanotto.» «Sì!» esclamò Louis, correndogli incontro e abbracciandogli le ginocchia. «Louis piace regali, signor postino.» «Be’, perfetto» disse Doti. Poi frugò nella borsa e aggiunse: «Oh, ci sono altri due biglietti qui». «Oddio» mormorò Pearl alzando gli occhi al cielo. «Ha invitato mezza città.» «Sei un animaletto sociale?» chiese Issy, pizzicando il nasino al piccolo. «Io letto sociale!» esclamò Louis, annuendo. Pearl rimase a guardarli con aria sorniona, tanto che quasi non si accorse che Doti le si era avvicinato. «Oggi ho una borsa pesante» disse lui. «Forse dovrei bermi un caffè. E mangiare uno dei vostri favolosi cupcake.» Pearl gli lanciò la sua consueta occhiata divertita. «Che ne dici di un tè verde?» propose. «Potrei persino berlo con te. A quanto pare, sei un grande amico di mio figlio.» Doti si illuminò e lasciò cadere la borsa. «Molto volentieri» rispose, mentre alla radio passava una canzone degli Owl City. Era una giornata così bella. Pearl e Doti si sedettero a un tavolino mentre Issy faceva ballare Louis, tenendolo in braccio e sentendo il suo cuoricino vicino al suo. Lo abbracciò così forte da lasciarlo senza fiato. «Hip hip irrà!» strillò il bimbo. «Accidenti. Ahia. Ahia. Ahia. Darny!» esclamò Austin, accasciandosi sul pavimento. «Ma ti sei mosso!» ribatté Darny, bellicoso come sempre. «No, che non mi sono mosso» disse Austin, allontanando la mano dalla faccia. Come immaginava, c’era del sangue. «Torna all’orso di peluche!» «Non diventerò mai Robin Hood se non mi fai fare pratica» protestò Darny. «E poi l’orso ha detto basta con le frecce.» «E perché?» chiese Austin, salendo al piano di sopra per andare in bagno. «Ehm... perché... fanno male» ammise Darny con un filo di voce. «Esatto!» Austin si guardò nello specchio che, notò, era terribilmente sporco. Aveva abbastanza soldi da pagare una donna delle pulizie, ma non abbastanza per una brava. Sospirò e lo pulì con un panno. Come temeva, aveva una bella ferita sulla fronte. Non sanguinava molto, ma era abbastanza profonda da lasciare una cicatrice. Gemette. Non avrebbe dovuto permettere a Darny di usarlo come bersaglio, ma dopotutto erano frecce giocattolo, e suo fratello sapeva essere molto convincente... Si imparavano molte cose facendo i genitori putativi, pensò, tamponandosi la fronte con un fazzoletto. Tornò di sotto. Aveva una montagna di corrispondenza da leggere: la sera prima l’aveva buttata nella borsa uscendo dalla banca. Ma ignorare un problema non serviva a risolverlo, come amava ripetere ai suoi clienti con uno scoperto sul conto. «Okay» disse, aprendo la porta del soggiorno. Una freccia lo mancò di un soffio. «Guarda pure quei cartoni animati giapponesi che ti piacciono tanto. Io ho del lavoro da fare.» «Oggi pomeriggio dobbiamo andare a una festa» disse laconicamente Darny. Austin lo guardò con aria sospettosa. Suo fratello non riceveva molti inviti. Darny gli aveva spiegato che era perché portava i pantaloni della tuta, ma gli aveva anche detto che non gli importava, visto che era un motivo stupido per non piacere a qualcuno. In realtà, a volte venivano


invitati entrambi, ma Austin si era presto reso conto che le organizzatrici erano madri single di bambini o bambine che a volte non erano neppure in classe con Darny, il quale protestava a gran voce, sostenendo che «non era mica un pappone». «Il problema» aveva osservato la maestra, la signora Khan «è che ha un vocabolario molto ricco per la sua età. Il che è sia un bene sia un male.» «Quale festa?» chiese Austin con aria dubbiosa. «E smettila di tirare frecce in casa.» «Non sei il mio capo.» «E invece sì, eccome. Chiudi il becco o non ti porto alla festa. A proposito, mi vuoi dire di chi è?» «Di Louis» rispose il ragazzino, scoccando una freccia che si incastrò nel lampadario. La guardarono entrambi con interesse. «Niente male» mormorò Darny. «Sappi che non ho nessuna intenzione di recuperarla» disse Austin. «Chi è Louis?» «Il bambino del caffè.» Austin socchiuse gli occhi. «Ma chi, il piccolo Louis?» «Sei pieno di pregiudizi. Cos’è, devo avere solo amici della mia età?» «Oggi è il suo compleanno? E ti ha invitato alla sua festa?» «Sì» rispose Darny. «Quando sei andato al caffè con la roba della banca.» In effetti Austin era passato al Cupcake Café la settimana prima. Dopo la festa di Issy, aveva voluto vederla, solo per accertarsi che non ci fosse tensione o imbarazzo tra loro. E poi, anche se faticava ad ammetterlo a se stesso, gli mancava. Ogni volta che passava davanti al pub che un tempo era frequentato dagli ubriaconi e ora invece andava a gonfie vele, pensava alle colazioni con lei. Non c’era niente da fare: gli piaceva trascorrere del tempo con quella ragazza. O meglio: gli era piaciuto. Perché ormai era finita. Di sicuro in quel pub lei non ci avrebbe più messo piede. Un giorno era andato al Cupcake Café dopo essere passato alla scuola di Darny, ma lei non c’era. C’erano Pearl e quella donna inquietante con la mascella quadrata che gli si era rivolta con una buffa voce roca. Non aveva capito se voleva essere sexy o era solo affamata. Nel frattempo Darny e Louis si erano messi a giocare per terra. A un certo punto, il piccolo aveva dichiarato di aver visto un topo e Pearl si era messa le mani nei capelli. A quanto pareva, c’era un topo all’asilo del figlio, ma strillare «Un topo! Un topo!» in un caffè non era un buon modo di farsi pubblicità. Da allora, Darny aveva urlato «Un topo! Un topo!» in almeno cinque pub e fast food in cui erano andati nei giorni successivi. Nessuno aveva apprezzato. «Mm» mormorò Austin. Be’, era una bella giornata di luglio e non aveva programmi quel pomeriggio. «Prima però devi tagliarti i capelli.» «Neanche per sogno» ribatté Darny, che ormai doveva scoprirsi continuamente la fronte per vedere qualcosa. Austin sospirò. «Vado a lavorare nello studio, okay? Non tenere la musica troppo alta.» «Un topo, un topo» replicò Darny imbronciato. Austin si stava domandando se avrebbe avuto il tempo di comprare un regalo per Louis, quando aprì la prima delle lettere di lavoro che si era portato a casa. Dovette leggerla e rileggerla più volte prima di capire. Era una richiesta di prestito per un progetto edilizio da parte della Kalinga Deniki... compilata correttamente e in ogni sua parte. Guardò l’indirizzo. Lo guardò di nuovo. Non era possibile, non poteva essere quello giusto. Pear Tree Court... l’intero complesso. Un nuovo modello di vita e di lavoro comodamente situato nel cuore del vivace quartiere di Stoke Newington , c’era scritto.


Austin scosse la testa. Era terribile. Lesse il nome scritto in fondo e chiuse gli occhi. Graeme Denton. Abbassò il foglio, scioccato. Possibile che fosse lo stesso Graeme di Issy? Ma certo... Il che significava, come aveva visto chiaramente alla festa, che stavano insieme. Dovevano aver complottato sin dall’inizio. Avevano cercato di rendere la zona più elegante aprendo un grazioso caffè per poi incassare il bottino. Molto astuto, doveva ammetterlo. Il nuovo prestigio avrebbe aumentato il valore degli immobili, e loro due avrebbero intascato i profitti ripetendo il giochino da qualche altra parte. Incredibile. Era quasi ammirato. Lanciò un’occhiata alle planimetrie dell’architetto accluse alla documentazione. Avrebbero messo un grosso cancello all’ingresso di Pear Tree Court, bloccando l’accesso a quell’incantevole cortile e trasformandolo in un’area privata. Austin ripensò a poche settimane prima: l’alberello decorato dalle luci colorate e Felipe che suonava il violino. Era così bello. Si domandò come avessero convinto il proprietario della ferramenta a trasferirsi. Be’, gente spregiudicata come quella non si fermava davanti a niente. Eppure, non poteva fare a meno di ripensare a quanto Issy gli fosse sembrata entusiasta del Cupcake Café, a quanto avesse lavorato duro, a quanto fosse stata convincente. Ci era cascato: lei doveva considerarlo un idiota totale. Camminava su e giù per la stanza. Che stupido... Issy aveva chiesto un prestito alla banca e aveva quasi finito di rimborsarlo, e ora a lei e Graeme servivano altri soldi. Avevano ottime garanzie. Era una semplice proposta di affari, che, normalmente, lui avrebbe accettato. La società di Graeme era rispettabile e ottenere un prestito da una banca locale anziché da un colosso della City era conveniente per tutti. Anche gli urbanisti ne sarebbero rimasti favorevolmente colpiti. Eppure, non riusciva a credere che l’impressione che aveva avuto di Issy fosse stata così sbagliata. Giunse persino a mettere in dubbio le sue capacità di giudizio. Issy non era affatto come pensava, neanche un po’. Incredibile. «Okay, quindi abbiamo Amelia, Celia, Ophelia, Jack 1, Jack 2, Jack 3, Jacob, Joshua 1, Joshua 2, Oliver 1 e Oliver 2» disse Issy, leggendo la lista degli invitati. «Harry non può venire.» «Harry ha la varitella» annunciò Louis. Pearl alzò gli occhi al cielo: nel giro di una settimana l’avrebbero avuta tutti quanti. «Mangia tanto gelato» aggiunse solennemente Louis, rivolto a Issy. «Be’, quando avrai la varicella, lo mangerai anche tu» ribatté lei, dandogli un bacio sulla testa. «Tanto gelato» ribatté lui. Era una giornata meravigliosa; Issy e Louis avevano giocato a lungo a rincorrersi intorno all’albero. Pearl continuava a osservarla. Issy le aveva raccontato quello che era successo ed era convinta che avesse preso la decisione migliore. Graeme le era sembrato insopportabilmente capriccioso. E se fosse arrivato un figlio, Issy avrebbe dovuto avere a che fare con due bambini anziché con uno solo. La sua mente andò a Ben. Le persone potevano cambiare, ne era sicura. I ragazzi crescevano e diventavano uomini. E si comportavano come tali. Guardando Issy fare il solletico a Louis, pensò che una famiglia la si poteva trovare anche altrove. Se Ben non fosse tornato da lei... be’, pazienza. Però, si disse con un sospiro, c’era sempre quel bel tipo arruffato della banca. Certo, era un po’ buffo, ma sembrava un vero uomo. Un uomo che sapeva occuparsi delle persone a cui voleva bene. «Ci siamo!» esclamò Issy, vedendo il primo SUV accostare su Albion Road. Scesero una giovane mamma ben vestita dall’aria un po’ nervosa e un bambino impeccabile in camicia e pantaloni color cachi, che stringeva fra le mani un grosso pacco regalo.


Louis corse fuori ad accoglierli. «Jack! Ciao, Jack!» «Ciao, Louis!» rispose l’altro. Louis guardò il pacco, speranzoso. «Dai il regalo a Louis» gli ordinò la madre. Jack guardò il regalo, Louis guardò il regalo. «Daglielo subito» ripeté lei, irrigidendosi. «Ricordati che è il suo compleanno.» «Mio compliano» disse Jack, nascondendosi dietro il pacco. «Non è il tuo compleanno, Jack» lo corresse la madre. «Daglielo, per favore.» «Mio compliano.» «È mio compliano!» cinguettò Louis. Jack lo guardò e iniziò a tremargli il labbro. Issy e Pearl si precipitarono fuori. «Ciao» disse Pearl. «Grazie per essere venuti.» «Guardate cos’ho qui per voi!» esclamò Issy, accucciandosi accanto a Jack e a Louis con due minuscoli grembiulini. «Allora, volete diventare grandi chef e fare i cupcake?» «Mangiamo i cupcake?» chiese Jack con aria sospettosa. «Certo! Prima li prepariamo, poi li mangiamo» rispose Issy. Jack lasciò, seppure a malincuore che lo prendessero per mano, mentre cominciarono ad arrivare anche altri bambini. E non solo: c’erano la signora Hanowitz, elegantissima con il suo cappello color porpora; tre muratori con i rispettivi figli; Mira ed Elise, ovviamente; Des e Jamie; i due studenti che, anziché lavorare alle tesi, si erano messi insieme; due vigili del fuoco e Zac, Helena e Ashok. «È stato Louis a invitarvi?» domandò Issy, felice di vederli. Ashok e Helena erano avvinghiati l’uno all’altra. «Sì. Gli abbiamo regalato un kit da pronto soccorso. Uno vero, ma senza gli strumenti appuntiti.» «Credevo che il servizio sanitario nazionale non avesse un soldo» osservò Issy, accendendo la macchina del caffè. Avevano accostato i tavoli in modo da formare un lungo piano di lavoro e, quando furono arrivati tutti e Oliver smise di piangere in un angolo e sua madre smise di sgridarlo perché piangeva in un angolo, la festa ebbe inizio. Graeme si era svegliato di soprassalto alle cinque di mattina. Si era tirato su di scatto, per poi accasciarsi di nuovo sul letto, fissando il soffitto con il cuore in gola. Era impazzito? Cos’aveva combinato? Che disastro... Come aveva potuto farsi lasciare da Issy così presto? In fondo, lei avrebbe potuto fare quello che voleva una volta concluso l’affare. Cancellò la partita di squash con Rob: non aveva nessuna voglia di scambiare battutine sulle ragazze della palestra. Magari sarebbe andato a fare jogging, per scaricarsi un po’. Tornò a casa tutto sudato, un po’ per la corsa, un po’ per il nervosismo. Controllò la posta: un messaggio dalla banca a cui aveva chiesto il prestito. Proponevano un incontro lunedì. Cazzo cazzo cazzo, avrebbero accettato. Passi metà della vita a cercare di far muovere le cose quando sembra tutto fermo, poi quello che vorresti evitare succede in un batter d’occhio. Si alzò per andare a buttarsi sotto la doccia, quando vide qualcosa che gli gelò il sangue nelle vene: in fondo all’e-mail c’era un nome familiare... Austin Tyler. Scosse la testa. Era quell’amico di Issy alto e allampanato. Proprio lui. Erano informazioni riservate, ovviamente, ma... Austin era alla festa di compleanno di Issy, quindi dovevano essere amici. Se aveva letto la loro richiesta di prestito, gliel’avrebbe certamente riferito. Era lui che gestiva le sue finanze, no? Sarebbe stato molto strano se non l’avesse interpellata in merito. E se lei fosse venuta a saperlo da qualcun altro... Graeme sentì un brivido lungo la schiena. Non lo avrebbe


apprezzato. Le conseguenze per lui, per loro, per il suo lavoro... Fece una doccia veloce, infilò i primi vestiti che trovò, cosa piuttosto insolita per lui, e si precipitò in macchina. «Okay!» esclamò Issy quando tutti quanti ebbero finalmente bevuto il caffè. Era incredibile quanta gente fosse venuta, e adesso erano tutti stretti come sardine. C’erano persino le educatrici di Louis, che, dopo aver combattuto con un branco di bambini per cinque giorni di fila, si erano presentate di loro spontanea volontà. Issy era incredula. Pensandoci bene, era una bella cosa. Quell’asilo era davvero delizioso. Anche le altre mamme se ne erano accorte e si stavano domandando perché non avessero pensato a invitarle. Sapeva di favoritismo, si dissero, guardandosi intorno con aria di disapprovazione. Pearl ricambiò i loro sguardi sprezzanti. Certo che si trattava di favoritismo. Chi non avrebbe preferito Louis, così radioso, a Oliver, che aveva bagnato i pantaloni e il pavimento ed era sull’orlo di un attacco isterico, proprio come sua madre? Pearl si guardò intorno. Mancava ancora una persona. «Okay!» ripeté Issy, e tutti si sedettero. Abbassò il volume assordante della musica preferita di Louis. «Ora, innanzitutto, vi siete lavati le mani?» «Sììì» risposero i bimbi in coro, anche se la quantità di muco visibile lasciava intendere che le torte sarebbero state abbastanza umide. «Allora, prima prendiamo la farina...» “Stronzo” pensò Graeme quando un furgoncino bianco rifiutò di farsi tagliare la strada. Era assurdo dover attraversare mezza Londra tutti i santi giorni. Il traffico era un incubo e, siccome era una bellissima giornata, i londinesi erano tutti in giro: passavano in massa sulle strisce pedonali o ciondolavano agli angoli delle strade, rallentando la circolazione. Aveva fretta, porca miseria. «Austin!» «No.» «Voglio andare alla festa!» «Ho detto no.» «Sono stato buonissimo.» «Mi hai colpito con una freccia.» «Ci vado da solo. Non mi puoi fermare, ho dieci anni.» Darny si sedette e cominciò ad allacciarsi le scarpe. Gli ci sarebbe voluto un po’, ma prima o poi ci sarebbe riuscito. Austin non sapeva cosa fare. Non lo aveva mai toccato con un dito, nemmeno quella volta che aveva preso il suo portafoglio e, tenendolo sopra il water, lo aveva svuotato lentamente, tessera dopo tessera, guardandolo dritto negli occhi. Darny aveva ragione, si era comportato bene, o se non altro non peggio del solito. Non meritava una punizione. Ma Austin non voleva vedere Issy. Era arrabbiato: si sentiva deluso e ingannato, anche se si rendeva conto di non averne nessun diritto. Issy non gli aveva mai promesso nulla, ma... Si era presa un angolino del quartiere in cui lui era cresciuto e che amava, rendendolo più bello; aveva riempito il cortile di fiori, aveva messo un tendone colorato e dei graziosi tavolini. Era un bel posto dove andare per vedere altre persone e godersi un po’ di tranquillità o una chiacchierata davanti a una torta deliziosa. E ora Issy lo avrebbe chiuso. Austin non aveva nessuna voglia di andare a una festa per bambini. Quindi non ci sarebbero andati. Punto. A scuoterlo dai suoi pensieri fu il rumore della porta


di casa che sbatteva. «Ora» disse Issy. «Questa è la parte più difficile. Le mamme potrebbero darci una mano con le uova, per favore?» «Nooo!» esclamarono in coro una dozzina di vocine. «Facciamo noi!» Le madri si scambiarono occhiate perplesse. Issy alzò le sopracciglia. «Va bene, tanto ho parecchie uova in più. E se vi faceste aiutare da un’altra mamma? Forza, mamme, venite avanti e scegliete un bambino.» Ovviamente, i piccoli furono più che contenti. Avrebbe dovuto ricordarselo per il futuro. Un raggio di sole filtrava dalle finestre, illuminando un quadretto felice: gli adulti che chiacchieravano e facevano amicizia da una parte e una fila di bimbi e bimbe tutti concentrati su ciotole e cucchiai di legno. Louis era a capotavola, con un cappellino da chef di carta, che batteva allegramente le manine e commentava il lavoro dei suoi amichetti. «Motto bene, Alice, bel cupcake» osservò, come si conveniva all’autorità del caffè che, pensò Issy, era ormai diventato. Le gemelle di Kate stavano cercando di preparare due cupcake identici mescolando il composto alla stessa velocità. La madre intanto si affannava a dividerle, facendo una gran confusione e osservando in tono pungente: «Avremmo potuto preparare cupcake nella nostra cucina, se fosse stato per degli operai pigri e buoni a nulla». «Parla per te, cara» ribatté il capomastro, il cui figlio di tre anni impastava come un dannato accanto alle gemelle. Seraphina gli si avvicinò e gli diede un bacio, lasciando Kate a bocca aperta. Se le sue sopracciglia avessero potuto staccarsi dalla faccia, sarebbero schizzate fino al soffitto. Un attimo dopo anche Jane si avvicinò al bimbo e lo baciò. «Anch’io ti volio bene, Ned» disse, mentre il capomastro sorrideva compiaciuto e Kate fingeva di guardare qualcosa di interessante fuori della finestra. «Achilles, tesoro» cinguettò una voce da dietro il bancone. «Stai dritto! Una postura corretta è il segreto di una buona salute.» Il piccolo Achilles raddrizzò la schiena, ma non si voltò. Issy gli fece una carezza sulla testa passandogli accanto. Hermia se ne stava timidamente in un angolo. «Ciao, piccola» disse Issy, chinandosi. «Come va la scuola?» «Benissimo!» sbraitò Caroline in risposta. «Stanno pensando di metterla in un gruppo di bambini dotati. E sapessi come suona bene il flauto!» «Davvero?» rispose Issy. «Beata te. Io ero negata per la musica.» La bambina fece cenno a Issy di chinarsi ancora di più e le sussurrò all’orecchio: «Anch’io». «Sta’ tranquilla» la rassicurò Issy. «Ci sono tante altre cose da fare nella vita. Non preoccuparti. Ti va di preparare un cupcake? Scommetto che ti verrà benissimo.» Hermia sorrise lieta e, mettendosi accanto a Elise, si tirò su le maniche allegramente. Issy si diede da fare perché tutti avessero qualcosa da bere. Mentre ascoltava il tintinnio delle stoviglie, il brusio e i gridolini dei bambini, sentì improvvisamente un gran senso di pace e di soddisfazione: aveva creato qualcosa dal nulla con le sue mani. “Sono io l’artefice di tutto questo” pensò, e le si riempirono gli occhi di lacrime dalla felicità. Avrebbe voluto abbracciare Pearl, Helena e tutti quelli che l’avevano aiutata a trasformare il suo sogno in realtà dandole la possibilità di guadagnare coprendosi di farina per la festa di compleanno di un bimbo bellissimo.


«Bravi tutti» disse ai piccoli chef. «Bravi davvero.» Darny irruppe nel caffè, rosso in viso, un po’ perché aveva corso e un po’ perché aveva attraversato la strada senza aspettare Austin, che lo inseguiva furibondo. Darny contava sul fatto che il fratello non avrebbe voluto dare in escandescenze davanti a tutti. Forse avrebbe aspettato che fossero di nuovo soli, o forse, trattandosi di Austin, avrebbe lasciato perdere. Valeva la pena rischiare. «Ciao, Louis!» esclamò allegramente. «Daniii» strillò il piccolo con aria adorante. Corse ad abbracciarlo senza ripulirsi dall’impasto, ricoprendo di farina la camicia già sporca di Darny. «Buon compleanno. Ti ho portato l’arco e le frecce più belli che ho.» E glieli porse solennemente. «Sììì!» Pearl e Issy si scambiarono un’occhiata allarmata. «Li nascondo in un posto sicuro» suggerì Pearl, togliendoli con nonchalance dalle manine del figlio e mettendoli sopra lo scaffale delle tisane, fuori dalla sua portata. «Ciao, Darny» salutò Issy sorridendo. «Vuoi preparare un cupcake anche tu?» «Sì, okay.» «Bene. Dov’è tuo fratello?» Lui abbassò gli occhi. «Ehm... sta arrivando...» E, proprio quando Issy stava per fargli un’altra domanda, si sentì la campanella sopra la porta. Era Austin, rosso in viso. «Cosa ti avevo detto?» Darny si voltò e indicò la sala piena di persone. Al suono della voce alterata di Austin, Oliver si rannicchiò sul pavimento e ricominciò a piangere. «Okay, fuori» ordinò Austin, visibilmente agitato. «Non può restare?» chiese Issy, senza pensare. «Stiamo facendo i cupcake...» Austin la scrutò. Impossibile. Eccola lì, con il suo grembiule a fiori, le guance rosse, gli occhi scintillanti, in mezzo a un branco di mocciosi intenti a preparare torte. Non sembrava certo un’affarista senza scrupoli. Distolse lo sguardo. «Gli avevo detto che non poteva venire» borbottò, sentendosi a disagio con tutti gli occhi puntati addosso. «Ho invitato mio amico Dani a mia fetta» disse una vocina all’altezza delle sue ginocchia. Austin abbassò gli occhi. Fantastico, ci mancava solo quello. Nessuno poteva negare qualcosa a Louis. «È mio compliano. Io tre, non cinque!» aggiunse il piccolo. «No, cinque, no» ripeté perplesso, come se faticasse ancora a crederlo. «Dani mi regala acco e frecce.» Austin batté le palpebre mentre traduceva mentalmente la frase. Poi guardò stupito il fratello. «Gli hai regalato l’arco e le frecce?» Darny alzò le spalle. «È amico mio, no?» «Bene, hai fatto bene. Bravo.» «Quindi può restare?» domandò Caroline da dietro il bancone. «Oh, bene. Ciao, Austin, caro, vuoi qualcosa da bere?» Darny corse da Pearl, che stava aiutando i bambini a versare il composto negli stampini. «Ora andiamo tutti fuori a fare un girotondo intorno all’albero» propose lei. «Quando avrete finito, i cupcake saranno pronti.» «Sìììì!» strillarono i bimbi in coro. «No, grazie» rispose Austin a Caroline, ma poi ci ripensò. «Anzi, sì, un latte macchiato, per


favore. È l’ultima occasione di bere un caffè decente.» Issy trasalì, suo malgrado. «Perché? Vai da qualche parte?» «No» replicò Austin guardandola dritto negli occhi. «Ma tu sì.» «In che senso?» ribatté Issy, accorgendosi che all’estremità opposta del tavolo uno dei bambini aveva fatto cadere l’impasto e che Oliver lo stava leccando da terra come un cagnolino. Provò compassione per la madre. Poi si scosse e aggiunse: «Quindi non vai da nessuna parte?». Che sollievo. Ma perché si sentiva sollevata? E perché Austin la guardava così? Era uno sguardo pieno di curiosità, ma con una punta di disprezzo. Lo fissò a sua volta. Era strano: quando si erano conosciuti, aveva notato così pochi dettagli di lui, a parte il fatto che fosse un po’ trasandato, ma ormai ci si era abituata. In quel momento, invece, si rese conto di quanto fosse bello. Non come i modelli delle pubblicità, tutti spigoli, mascelle volitive e capelli perfetti. Non come Graeme. Bello in un modo aperto, onesto, gentile, sorridente, con la fronte spaziosa, gli occhi grigi penetranti sempre un po’ ironici, il largo sorriso con le fossette, i capelli ribelli come quelli di un bambino. Non aveva notato tutti quei particolari prima. Be’, non era mai troppo tardi. Non c’era da stupirsi che avesse avuto voglia di baciarlo alla sua festa. Ma era acqua passata, si disse fermamente. «Incredibile» mormorò Austin, voltandosi. «Lasci perdere il latte macchiato, ehm...» «Caroline!» cinguettò lei. «Sì, okay. Darny, torno a prenderti fra un’ora. Aspettami fuori.» Il fratello lo salutò distrattamente, entusiasta come i bimbi di tre anni alla prospettiva di vedere l’enorme forno al piano di sotto, dove Pearl li stava portando, dopo averli minacciati di non avvicinarsi neanche con un dito. «Quell’uomo» sospirò Caroline all’orecchio di Issy mentre Austin si dirigeva verso la porta «è incredibilmente sexy. Da paura.» «Da paura?» ripeté Issy, seccata. «Cos’è, ultimamente hai visto una di quelle trasmissioni con le signore stagionate? Non sono vere, lo sai.» «Non sono stagionata!» esclamò Caroline, offesa. «Sono una donna moderna che sa quello che vuole. E poi, è pur sempre un consulente finanziario. Potrei presentarlo ai miei amici.» «Be’, vedo che hai già pensato a tutto» ribatté distrattamente Issy. Perché Austin era così turbato? Forse perché l’aveva vista con Graeme? Il suo ego non poteva fare a meno di provare un brivido di felicità all’idea di piacergli davvero. Magari quella sera non avevano flirtato solo perché erano un po’ brilli. Ma, se così fosse stato, cos’avrebbe dovuto fare? Non poteva evitarlo per sempre. Mentre rifletteva, la porta si aprì quasi in faccia a Austin, che dovette fare un balzo indietro. Graeme irruppe nel caffè senza nemmeno degnarlo di un’occhiata. Graeme si guardò attorno, costernato. Chi era tutta quella gente? Di solito il sabato pomeriggio non c’era nessuno. Squadrò Issy che, vedendolo, parve inorridire. Austin si ritrovò incastrato tra la porta e un branco di bimbi con i grembiulini che Pearl e il postino stavano portando fuori, al sole, per fare il girotondo. «Lei!» sibilò Graeme. Austin chiuse la porta. «Il nostro incontro è fissato per lunedì.» «Quale incontro?» chiese Issy. «Di cosa state parlando?» Austin si voltò verso di lei. Tutti i presenti seguivano attentamente la scena. «Lo sai benissimo, Issy. L’incontro per il prestito per il vostro progetto.» «Cosa? Quale progetto?» Austin la fissò a lungo e lei si sentì confusa e agitata.


«Cosa sta succedendo?» «Mi stai dicendo che non lo sai?» «Io non so nulla. Devo mettermi a lanciare cupcake per avere delle spiegazioni?» Austin guardò Graeme: quel tizio era ancora più stronzo di quanto pensasse. «Non gliel’ha detto?» «Detto cosa?» Il caffè piombò nel silenzio. «Ehm...» balbettò Graeme. «Possiamo parlarne in un posto tranquillo?» «Parlare di cosa?» insisté Issy. Stava tremando. Graeme sembrava così strano, e anche Austin. «Dimmelo subito. Cosa devo sapere?» Graeme si strofinò nervosamente la nuca, scompigliando i capelli. Aveva una chioma ribelle che in genere domava con quantità industriali di gel. Ma a Issy piaceva di più spettinato. «Ehm, in realtà, è un’ottima notizia. Per noi. Abbiamo ottenuto una licenza edilizia per trasformare Pear Tree Court in un residence.» «In che senso “per noi”?» lo incalzò lei, sentendosi gelare il sangue. «Non c’è nessun “noi”.» «Be’, io, te, la Kalinga Deniki, insomma...» rispose precipitosamente Graeme. «Questo complesso diventerà il fiore all’occhiello di Stoke Newington.» «Non vogliamo un fiore all’occhiello» intervenne qualcuno dal fondo. «Vogliamo il Cupcake Café.» Issy gli si avvicinò. «Vuoi dire che stavi pensando di far chiudere il mio locale senza che io lo sapessi?» «Ascolta, tesoro» cominciò lui, lanciandole una delle sue occhiate intense che usava per convincere le segretarie a fare gli straordinari. «Ascolta,» ripeté con voce sommessa in modo che nessuno lo sentisse (anche se Austin colse il succo del discorso) «pensavo che io e te potessimo concludere l’affare insieme. Stavamo così bene, e potrebbe essere ancora così. Potremmo fare un sacco di soldi. Comprare una casa più grande, tutta per noi. E tu non dovrai più alzarti alle sei di mattina, sgobbare sulle scartoffie fino a notte fonda, litigare con i fornitori e farti bacchettare dalla commercialista.» Issy alzò gli occhi su di lui. «Ma... ma...» balbettò. «Hai fatto un ottimo lavoro qui, e questo progetto ci garantirà l’indipendenza economica. Potremo davvero sistemarci a vita. Così poi potrai trovarti un lavoro meno impegnativo. Che ne dici?» Issy lo guardò con un misto di rabbia e di incredulità. Non verso di lui – Graeme era uno squalo e si comportava come tale –, ma verso se stessa. Per essere stata con lui tutto quel tempo, per aver lasciato che quella serpe entrasse nella sua vita, per aver creduto stupidamente che potesse cambiare, che quell’uomo affascinante, intelligente, egoista, allergico all’impegno potesse trasformarsi, come per magia, in ciò che lei voleva che fosse, solo perché lo desiderava più di ogni altra cosa. Che idiota. «Ma non puoi!» esclamò. «Ho un contratto d’affitto!» Graeme parve dispiaciuto. «Barstow... non vede l’ora di vendere. Ne abbiamo già parlato. E i sei mesi stanno per scadere.» «Ma dovresti ottenere il nullaosta...» «È in arrivo. Questa non è esattamente una zona di straordinaria bellezza naturale.» «E invece sì!» ribatté Issy sentendo, con suo enorme disappunto, un nodo alla gola e le lacrime salirle agli occhi. Fuori, i bambini ridevano e giocavano intorno al loro adorato alberello, sgraziato e striminzito.


«Non capisci?» esclamò Graeme esasperato. «È per noi! L’ho fatto per noi, amore! Possiamo ricominciare da capo.» Issy lo fulminò con lo sguardo. «Sei tu che non capisci. Mi piace alzarmi alle sei, mi piace occuparmi delle scartoffie, mi piace persino quella vecchia babbiona della signora Prescott. E sai perché? Perché questo posto è mio. Non tuo, né di nessun altro e di sicuro non della Kalinga Deniki!» «Non è tuo» mormorò Graeme. «È della banca.» Issy si voltò verso Austin, che tese le mani verso di lei e rimase scioccato dalla sua espressione furibonda. «Tu lo sapevi?» urlò. «Lo sapevi e non me l’hai detto?» «Credevo ci fossi dentro anche tu!» protestò lui, colto alla sprovvista dalla sua rabbia. «Pensavo fosse il tuo piccolo piano! Abbellire questo buco per poi rifilarlo a qualche fighetto della City!» A quelle parole qualcosa dentro Issy si spezzò. Non sarebbe riuscita ad arginare le lacrime ancora per molto. «Hai pensato che fossi capace di una cosa del genere?» mormorò, mentre la rabbia svaniva per lasciare il posto a una tristezza infinita. «Hai pensato che ne fossi capace.» Ora toccava a Austin sentirsi male. Avrebbe dovuto dare retta al suo istinto. Fece un passo verso di lei. «Stammi lontano» gli intimò lei. «Statemi lontani tutti e due. Andatevene. Fuori di qui.» Austin e Graeme si lanciarono un’occhiata carica di odio. Poi Austin attese che l’altro uscisse per primo. «Aspettate!» gridò improvvisamente Issy. «Quanto... quanto tempo ho?» Graeme alzò le spalle. Quella cicciona che arrossiva a ogni piè sospinto e che aveva scelto tra le segretarie, Cristo santo... Come si permetteva di dirgli che non era abbastanza per lei? Brutta stronza. Come aveva osato scaricarlo e ostacolare i suoi piani? A un tratto si sentì invadere da una collera fredda. «Lunedì dovremmo ottenere il nullaosta» rispose. «Hai un mese di tempo.» Nel caffè scese il silenzio, proprio nel momento in cui il timer del forno trillò. I cupcake di Louis erano pronti. Pearl vide Issy in lacrime e una folla di persone preoccupate che la circondavano mentre riportava dentro i bambini, così decise che era il momento di tirare fuori il vino bianco per le emergenze, e al diavolo la licenza. Due mamme, elettrizzate dal fatto di aver assistito a quella scena drammatica, scelsero i cupcake che avrebbero decorato con glassa rosa o azzurra e praline di zucchero colorate e argentate. C’erano anche delle ciotole piene di frutta tagliata a pezzi, semi di sesamo, carote, hummus e salatini, opera di Caroline, che aveva voluto «fare un regalo al caro Louis». Il quale l’aveva fulminata con lo sguardo quando aveva visto le ciotole, disposte in un angolino. Pearl e Helena accompagnarono Issy di sotto. «Stai bene?» le chiese Pearl, preoccupata. «Quella serpe!» gridò Issy. «Lo ammazzo. Gliela faccio vedere io. Lo trascineremo in tribunale. Faremo volantinaggio in tutto il quartiere! Lo voglio seppellire! Ci aiuterai, vero, Helena? Possiamo contare sul tuo sostegno?» E così, dicendo, si voltò verso Helena, che, avendo lasciato Ashok di sopra, sembrava un po’ distratta. Raccontò tutto dall’inizio, versando qualche lacrima qua e là, soprattutto quando ricordò che Austin aveva pensato che lo avesse fatto di proposito. «Insomma,» concluse «non possono farlo. Non possono venire qui e prendersi tutto, vero? Vero?» Pearl alzò le spalle. «Be’, l’intero edificio appartiene a Barstow.»


«Troverai un altro posto» disse Helena. «Non come questo» ribatté Issy, guardando il magazzino immacolato, la finestrella da cui si intravedevano i ciottoli della strada, il suo bellissimo forno. «Non sarà mai lo stesso.» «Magari sarà meglio» osservò Helena con aria incoraggiante. «Trova un posto più grande. Puoi farcela, lo sai. Forse è giunto il momento di allargarsi. La gente fa la fila fuori dalla porta, ormai.» Issy mise il broncio. «Ma io sto bene qui. E poi è una questione di principio.» Helena fece una risatina beffarda. «Be’, non mi hai mai voluto dare retta quando ti dicevo che Graeme era uno stronzo.» «Lo so» ammise Issy. «Lo so. Perché non ti do mai retta?» «Boh.» «Non dà mai retta neanche a me» intervenne Pearl. Helena alzò il mento con aria eloquente. «E voglio fargli vedere» riprese Issy «che la gente non si può vendere e comprare così. E che non si può semplicemente dire a qualcuno di fare le valigie e andarsene. Ah, Lena, sei sicura che non ti dà fastidio se resto con te e Ashok ancora per un po’? Può darsi che ci voglia del tempo per risolvere la situazione.» «Veramente» rispose Helena con un’aria nervosa del tutto inedita per lei «credo che io e Ashok dovremo trasferirci.» «Perché?» Helena sembrava anche elettrizzata ed emozionata, e lanciò un’occhiata in cima alle scale, come a voler cercare il fidanzato. «Be’, non pensavamo accadesse così presto, ma...» Issy la fissò, confusa. Pearl, invece, intuì subito di cosa si trattava. «Un bambino!» esclamò. Helena annuì timidamente. Ci avrebbe messo un po’ ad abituarsi all’idea. Issy fece appello a tutto il suo coraggio. Ce l’aveva quasi fatta. Le sue labbra erano quasi riuscite a piegarsi nel sorriso che avrebbe tanto voluto fare, e che Helena meritava. Ma le forze la abbandonarono proprio sul più bello. Sentì un nodo alla gola e le lacrime agli occhi. «Congr...» balbettò e, un attimo dopo, scoppiò a piangere. Lei non aveva niente, mentre Helena aveva tutto. Era così difficile da accettare, così ingiusto. «Oh, Issy... che c’è? Mi dispiace. Credevo ti avrebbe fatto piacere» disse Helena premurosamente. «Oh, tesoro, scusami. Dovremo trovare una nuova casa, certo, ma non sarai sola... È stato un incidente, siamo tutti e due felici, però...» «Oh, cara Lena,» rispose Issy «sono così contenta per te.» E la abbracciò. «Certo. Sarai la migliore madrina che sia mai esistita. E gli o le insegnerai a fare le torte.» «E potrai partorire da sola!» esclamò Issy. «Oddio, qualcuno mi dia un fazzoletto.» Una mamma apparve in cima alle scale. «Ehm... cantiamo Tanti auguri a te?» «Il mio amore!» esclamò Pearl. «Arrivo, arrivo.» Di sopra, Louis, sorrise radioso, guardò le tre candeline e disse: «Volio cinque candeline» facendo sentire Pearl così fiera del suo ometto che sapeva già contare. Quando Issy riemerse dal seminterrato, venne circondata da una folla di persone che le espressero il loro rammarico per il caffè, le offrirono il loro aiuto e minacciarono di scrivere all’ufficio urbanistica, di organizzare un sit-in o di boicottare gli agenti immobiliari. Anche se Issy non era sicura che tutto ciò le sarebbe stato di grande aiuto, fu comunque commovente.


«Grazie a tutti» disse infine Pearl. «Faremo... be’, non so esattamente cosa, ma di sicuro tutto ciò che è in nostro potere per cercare di tenere aperto il Cupcake Café. E ora godiamoci la festa di Louis!» Alzò di nuovo la musica e osservò i bambini ballare, i visini ignari e appiccicosi pieni di felicità. E Louis al centro. Neanche lei voleva che il caffè chiudesse. Non era solo un lavoro. Era la sua vita, ormai. Ne aveva bisogno. Fu una tortura per Issy resistere finché anche l’ultimo bambino non se ne andò a casa con una pallina e un cupcake, quindi salutare gentilmente clienti e amici, mettere tutto a posto e impacchettare gli stuzzichini di Caroline, ancora intatti, per Berlioz. Era quasi insopportabile. E la attendevano giorni ben più duri. Pearl notò la sua tristezza. «Devi proprio andare a casa di Graeme?» le chiese. «Non cambia nulla se recuperi la tua roba più avanti.» «No» rispose Issy. Con tutta quell’ansia, le sembrava di avere una voragine nello stomaco. «No. Voglio togliermi il pensiero. Farò in fretta: entro ed esco. Tanto non c’è molto. È sempre stato tirchio con gli armadi. Aveva bisogno di spazio per il gel.» «Così mi piaci!» approvò Pearl. Poi entrambe guardarono Louis, che esplorava felice i regali sparsi sul pavimento. «Sai,» riprese Pearl «non cambierei niente della mia vita adesso, niente. Ma a volte... be’, diciamo che è più facile rompere prima che dopo. Non so se mi spiego.» Issy annuì lentamente. «Ma... ho trentadue anni. E se questa fosse stata la mia ultima occasione per avere un figlio? Se dovrò andarmene e cominciare a lavorare da qualche altra parte... Come farò a conoscere qualcuno? Se andrò a finire nella cucina di qualche catena di ristoranti... Non posso ricominciare da zero, Pearl, non posso. Questo posto ha assorbito tutte le mie energie.» «Ma certo che puoi! Sei già passata attraverso difficoltà ed errori. La prossima volta sarà una passeggiata. E trentadue anni non sono niente al giorno d’oggi. Certo che incontrerai qualcun altro. E quel bel consulente finanziario? Sarebbe perfetto per te.» «Austin?» chiese Issy, irrigidendosi. «Non ci posso credere che abbia pensato che c’ero anch’io dietro a questa storia. Che avrei venduto tutto senza battere ciglio. Credevo di piacergli.» «Infatti gli piaci. So che sei leggermente pessimista...» Si guardarono un istante, poi scoppiarono entrambe a ridere. Issy, ancora scossa, alternava il riso alle lacrime. «Eh sì,» disse quando riuscì a riprendere fiato «leggermente pessimista.» «Dai, lo sai cosa intendo» protestò Pearl. «Sì, ho avuto una giornata leggermente difficile.» Pearl rise ancora di più. «Ce ne sono state di migliori.» «Già. L’ultimo pap-test che ho fatto è stato più divertente.» Louis si avvicinò barcollando, curioso di sapere perché ridessero. Issy lo guardò con aria malinconica. «Ciao, barattolino.» Louis tese le braccia verso la madre. «Milior compliano» dichiarò, tutto fiero. «Milior compliano di Louis.» Tacque un istante, poi aggiunse: «Dov’è papà?». Ben non si era presentato, alla fine. Pearl rimase impassibile.


Le finestre dell’appartamento di Graeme non davano sulla strada, perciò Issy non aveva modo di sapere se fosse in casa se non suonando il campanello. E non aveva intenzione di rivolgergli la parola a meno che non fosse strettamente necessario. Nervosa, ritardò il momento di scendere dal taxi. «Tutto bene?» le chiese il tassista. Lei fu sul punto di raccontargli tutto, ma poi si ricompose e scese. «Sì» rispose. Quella era l’ultima volta che metteva piede in quel posto. Doveva essere uscito. In fondo, era sabato sera. Forse era fuori con gli amici, a bere birra e a rimorchiare qualche ragazza in discoteca. A ridere e a tirare un sospiro di sollievo per essere di nuovo libero; a parlare di quanti soldi avrebbe fatto col suo nuovo progetto. Non gliene fregava niente di lei. Anzi, non gliene era mai fregato niente. Per lui contava solo il denaro. L’aveva presa in giro e lei c’era cascata come un’idiota. Issy era talmente convinta che lui fosse da qualche parte a divertirsi che, quando entrò, non si aspettava certo di trovarlo lì. Anzi, nella luce fioca dell’ingresso rischiò persino di non vederlo. Se ne stava seduto sulla poltrona simil Le Corbusier, con indosso una vestaglia (Issy non sapeva che ne possedesse una) e un bicchiere in mano, lo sguardo fisso fuori dalla finestra che dava sul giardinetto dove nessuno andava mai. Sentendola arrivare, trasalì, ma non girò la testa. Lei rimase immobile, il cuore che le batteva all’impazzata. «Sono venuta a prendere la mia roba» annunciò a voce alta. Dopo il baccano di quella giornata, l’appartamento le parve silenzioso come la morte. Graeme strinse il bicchiere e Issy si rese conto di stare ancora aspettando un segno che le dimostrasse che le aveva voluto bene, che quello che c’era stato tra loro aveva significato qualcosa per lui. Qualcosa che le facesse capire che non era stata solo una ragazza dell’ufficio che gli aveva fatto comodo. Una da usare per ottenere ciò che voleva. «Fai pure» disse lui, sempre senza guardarla. Issy mise le sue cose in una piccola valigia. Non c’era molto. Graeme non mosse un muscolo. Poi lei andò dritta in cucina, che aveva riempito di provviste, e ruppe cinque uova in una ciotola, quindi versò 250 grammi di farina, un intero barattolo di melassa e una confezione di praline di zucchero, mescolando il tutto con un cucchiaio di legno. Quindi tornò in soggiorno con la ciotola e, con un abile movimento del polso, la rovesciò sulla testa di Graeme. Nelle ultime due settimane, il suo appartamento le sembrava diverso, ma non avrebbe saputo dire perché. E non era semplicemente la presenza di Ashok. Qualcosa era cambiato. Ora in casa c’erano pile di giornali di annunci immobiliari e una copia di Che cosa aspettarsi quando si aspetta. Aveva l’impressione che tutto il mondo si muovesse, eccetto lei. E si sentiva sempre meno a suo agio a entrare nella cucina rosa e a lasciarsi cadere sul grosso divano morbido: era come se quella non fosse più casa sua. Assurdo. Ma, soprattutto, provava una profonda vergogna per la sua prima esperienza di convivenza, finita così presto e così male. Helena sapeva che continuare a sottolineare che Graeme era sempre stato quello sbagliato non era particolarmente utile, ma stare vicino a Issy sì, così fece del suo meglio, anche se tendeva a addormentarsi ogni cinque minuti. «E ora che farai?» le chiese, pragmatica come sempre. Issy se ne stava seduta con lo sguardo perso nel vuoto. «Be’, lunedì mattina apro il caffè... Dopo non lo so.» «Ti sei già trovata in questa situazione» osservò Helena. «Puoi superarla.»


«È che sono stanca. Tanto stanca.» Helena la accompagnò a dormire, nonostante Issy fosse convinta che non sarebbe riuscita a chiudere occhio. Invece dormì fino al pomeriggio della domenica. Il sole che filtrava attraverso le tende la fece sentire un po’ più ottimista. Solo un po’. «Potrei cercare un lavoro in una pasticceria» disse. «Il problema è che l’orario è ancora peggiore di quello che ho adesso, e poi a Londra c’è un milione di bravi professionisti, e poi...» «Basta» la interruppe Helena. «Forse avevano ragione quando dicevano che avrei dovuto fare la podologa.» Il lunedì mattina trovò una busta sopra lo zerbino. Era la disdetta del contratto d’affitto da parte del signor Barstow. Eh, già. Legati ai lampioni di Pear Tree Court c’erano cartelli con la bozza del progetto. Issy non riuscì nemmeno a guardarli. Iniziò la giornata con il pilota automatico, preparando il primo caffè e affidandosi alla routine nella speranza di soffocare il panico che sentiva crescere dentro di sé. Sarebbe andato tutto bene. Avrebbe trovato qualcosa. Si sarebbe rivolta a Des, che avrebbe saputo cosa consigliarle. Nella sua confusione, lo chiamò prima di rendersi conto che erano ancora le sette di mattina. Lui rispose immediatamente. «Oh, scusami» disse Issy. «Non fa niente. Sono sveglio da ore. I denti, sai.» «Oddio. Hai chiamato il dentista?» «Ehm... i denti di Jamie.» «Ah, sì, certo.» Issy scosse la testa. «Ehm...» «Mi dispiace» disse subito Des. «Scusami. Mi hai chiamato per insultarmi?» «Perché dovrei?» «Perché è probabile che dovrò occuparmi della vendita del Cupcake Café. Mi dispiace. Non è stata una mia decisione, ma sai...» Issy non ci aveva nemmeno pensato. In realtà, gli aveva telefonato per chiedere informazioni su altri locali in affitto. «...gli affari» aggiunse in tono incolore. «Esatto» mormorò Des. «Pensavo lo sapessi.» «No, non lo sapevo.» «Mi dispiace» ripeté ancora Des, e sembrava sincero. «Stai cercando un altro posto? Vuoi che faccia qualche ricerca? Chiamerò tutti, okay? E vedrò di trovare qualcosa che vada bene per te. È il minimo che possa fare. È solo che... spesso queste speculazioni finiscono in una bolla di sapone, quindi non volevo spaventarti senza motivo. Mi dispiace davvero.» Issy udì Jamie lamentarsi all’altro capo del filo. «Dispiace anche a Jamie» aggiunse Des. «Non fa niente. E smettila di scusarti, non è stata mica colpa tua. E sì, se trovi qualcosa... grazie.» «Okay. Okay. Mi dispiace. Ecco. Sì» farfugliò Des. Quando Issy riagganciò, lui si stava ancora scusando. Pearl aveva l’aria cupa. «Su con la vita» esclamò Caroline. «Vedrai che troveremo qualcosa.» «Non è quello» ribatté Pearl. Ben era sparito per due giorni. Il giorno del compleanno di Louis era uscito con gli amici, le aveva detto, e non capiva dove fosse il problema. Il piccolo avrebbe fatto molte altre feste; gli aveva anche comprato un regalo (un’enorme pista per automobiline che non entrava nemmeno nel loro minuscolo


appartamento). Pearl aveva ascoltato le sue ragioni, poi gli aveva chiuso la porta in faccia. «Non posso credere che non sia venuto al compleanno di suo figlio» spiegò a Caroline. «Capirai» sbuffò l’altra. «Il mio ex marito si è perso ogni compleanno, ogni concerto di Natale, recita scolastica, partita... tutto. “Devo lavorare” diceva. Col cavolo.» «Appunto» replicò Pearl. «Ecco perché è il tuo ex.» «Non è questo il motivo» precisò l’altra. «In questo quartiere, i padri non si occupano dei figli. Devono lavorare per mantenere le loro belle case. Nessun bambino sa che faccia abbia il padre. Io l’ho scaricato perché andava a letto con quella puttana, mostrando di avere pessimi gusti. Se dovessimo lasciare gli uomini perché trascurano i figli... Ah!» La campanella sopra la porta trillò. Era il capomastro, quello che aveva portato il figlio alla festa di Louis. «Sorridete!» esclamò, come faceva sempre. Caroline lo squadrò dalla testa ai piedi, notando i muscoli tonici, l’aria sfrontata e l’anulare senza fede. «Be’, tu di sicuro mi fai sorridere» disse, appoggiandosi al bancone e mettendo in evidenza la scollatura (che non aveva). «Un sorriso al giorno... mi piace...» «E a me piacciono le ragazze dei quartieri alti...» sussurrò l’operaio, poi sorrise e aggiunse: «Mi fate un bel cappuccino?». Pearl alzò gli occhi al cielo. In effetti alla festa di Louis c’erano parecchie tate, alcune mamme ben vestite, Austin, ma nessun papà. Sospirò. «Per caso è andato a letto con qualche tua amica? Non vorrei trovarmi in situazioni imbarazzanti» disse Caroline dopo che il capomastro se ne fu andato con una strizzata d’occhio e un numero di telefono. «Non ancora.» «Bene» ribatté Caroline. «Perché non ho intenzione di rinunciare subito a lui.» Poi aggiunse, sventolando una lettera: «Indovina cosa ho ricevuto stamattina». «Cosa?» «Una lettera dei suoi avvocati. A quanto pare, se avessi continuato a lavorare qui, lui sarebbe stato disposto a lasciarmi la casa, che è vicina alla scuola dei bambini, ma io non avrei avuto bisogno di una tata che andasse a prenderli» spiegò Caroline scuotendo la testa. «Ora però sono al punto di partenza. Presto sarò disoccupata, ma ho dimostrato di poter lavorare, quindi dovrò cercare qualcosa. E dovrò anche trovarmi un altro posto in cui vivere. Dio, per forza ho bisogno di flirtare un po’.» «Mm» mormorò Pearl, tornando alle sue carte. «Che fai?» le chiese Issy, emergendo dal seminterrato. «Scrivo una lettera all’ufficio urbanistica.» «Ah.» «Non pensi sia una buona idea?» «Mm... no. E poi conosco la Kalinga Deniki. Non si muovono mai se non hanno la certezza di avere il risultato in tasca.» «Okay, allora non fare nulla» replicò Pearl, rimettendosi a scrivere. Era il momento più tranquillo della mattina, dopo l’ondata delle otto e prima delle mamme delle undici. Issy guardò fuori dalla finestra e sospirò. «E smettila di sospirare, che mi fai diventare matta.»


«Quindi dovrei ringhiare ogni cinque minuti come fai tu?» «Io non ringhio.» Issy alzò le sopracciglia, prese la sua tazza e uscì nel cortile. Da quando era arrivata la bella stagione, avevano apportato qualche miglioria. Ora avevano un tendone a strisce bianche e rosa, che era fresco e grazioso alla luce del sole e si intonava alle sedie e ai tavoli del nonno. Nelle ore più calde l’ombra era molto invitante, il portachiavi scintillava al sole e le piante che Pearl aveva sistemato ai lati della porta contribuivano a rendere il tutto ancora più bello. Ricacciò indietro le lacrime. Non riusciva più a piangere. Ma neanche a immaginare di ricreare quella piccola oasi da qualche altra parte; era il suo angolo di mondo, il suo piccolo regno. E sarebbe stato chiuso, fatto a pezzi e trasformato in un garage per uno stupido appartamento di lusso che costava un occhio della testa... Si avvicinò alla ferramenta. Chissà come l’aveva presa Chester... Si erano sbarazzati anche di lui, o era riuscito a schivare il pericolo? Non sapeva nemmeno se il proprietario del suo negozio fosse Barstow. Erano le dieci e la saracinesca era ancora abbassata. Issy socchiuse gli occhi e sbirciò dai forellini, anche se il sole splendente le impediva di vedere bene. Cosa c’era lì dentro? Man mano che gli occhi si abituavano, cominciò a distinguere delle sagome dall’altra parte della vetrina. A un tratto, qualcosa si mosse. Issy lanciò un grido e fece un balzo indietro, mentre la saracinesca si sollevava con un rumore assordante. Doveva esserci qualcuno dentro. La porta si aprì verso di lei e apparve Chester, in pigiama. Issy rimase di stucco. Le ci volle un istante per ricomporsi. «Ma lei... vive qui?» gli chiese sorpresa. Lui annuì con quel suo modo formale e le fece cenno di entrare. Era la prima volta che Issy metteva piede nel negozio. E ciò che vide la lasciò senza parole. Sul davanti c’erano pentole e padelle, scope e cacciaviti. Sul retro, invece, c’erano un bellissimo tappeto persiano e un letto matrimoniale di legno intagliato, un comodino con sopra una pila di libri e una lampada Tiffany, e un grosso armadio a specchio. Issy batté le palpebre. «Oddio. Vive davvero qui» ripeté. Chester parve imbarazzato. «Ehm... sì. In genere di giorno chiudo la tenda... o abbasso la saracinesca quando ho l’impressione che qualcuno stia per entrare a comprare qualcosa. Caffè?» In fondo al negozio, Issy intravide una piccola cucina immacolata. Sopra il fornello gorgogliava una costosa macchina da caffè Gaggia da cui veniva un profumo meraviglioso. «Sì, grazie» rispose Issy, sebbene ne avesse già bevuti fin troppi quella mattina. Quel piccolo rifugio segreto sembrava finto. Chester le indicò una poltrona rivestita con un tessuto a fiori. «Si accomodi, prego. Lei mi ha reso la vita molto difficile, sa.» «Ma sono anni che passo da questo vicolo e il suo negozio è sempre stato qui.» «Eh, già. Sono ventinove anni» disse lui. «Vive qui da ventinove anni?» «E nessuno mi ha mai disturbato. È questo il bello di Londra.» Mentre parlava, Issy notò di nuovo il suo accento. «Nessuno sa cosa fai. A me piace così» continuò Chester. «Finché non è arrivata lei, ovviamente. Che faceva avanti e indietro, mi lasciava i cupcake sulla porta e mi riempiva di domande. E i clienti! È la prima persona che è riuscita a portare gente in questo vicolo.» «E ora...»


«Ora ce ne dobbiamo andare, sì.» Chester guardò la notifica che aveva in mano. «Doveva succedere prima o poi. Suo nonno come sta?» «Vado a trovarlo più tardi.» «Ah bene, è in grado di fare conversazione?» «Non proprio, ma vederlo mi fa stare meglio. So che è un po’ egoista da parte mia, però...» Chester scosse la testa. «Non è vero.» «Mi dispiace così tanto di aver attirato quella gente. Non era mia intenzione.» Chester scosse la testa. «Non è stata colpa sua. Sa, un tempo Stoke Newington era a mezza giornata da Londra. Era un grazioso paesino, lontano dalla città. Quando sono arrivato io, era un posto fatiscente, ma ci si poteva fare quello che si voleva. Si poteva vivere liberamente. Essere un po’ diversi, anticonformisti.» Servì il caffè con il latte in due tazzine di porcellana finissima con i piattini coordinati. «Ma prima o poi tutto cambia. Soprattutto gli angoli pittoreschi come questo. Non è rimasto molto della vecchia Londra, ormai.» Issy abbassò gli occhi. «Non sia triste! Quella nuova non è poi così male. E lei può andare dove vuole.» «Ma non so dove.» «Mm... siamo in due.» «Aspetti un attimo... ma lei è abusivo?» chiese Issy. «Non può semplicemente chiedere la residenza?» «No» rispose Chester. «Devo avere un contratto d’affitto... da qualche parte.» Rimasero in silenzio per un po’, sorseggiando il caffè. «Dev’esserci qualcosa che posso fare» disse infine lei. «Non si può fermare il progresso» ribatté Chester, poggiando il cucchiaino con un lieve tintinnio. «Mi creda, io lo so bene.» Per una volta, Austin era in anticipo. Era anche elegante, per quanto fosse possibile per lui vestirsi bene senza rivelare a Darny dove teneva il ferro da stiro. Si passò nervosamente le mani tra i capelli folti. Stava per rischiare tutto. E per cosa? Per uno stupido locale che, probabilmente, si sarebbe trasferito comunque. Per una ragazza che non lo guardava neanche. Con lui c’era anche Janet, ovviamente, vivace ed efficiente come sempre. Anche lei era presente alla festa di compleanno di Louis, e sapeva cosa li aspettava. Lanciò un’occhiata al suo capo. «È terribile, quello che ha intenzione di fare quel tizio.» Austin la guardò. «A quella ragazza così carina, poi. Trasformare un delizioso caffè nell’ennesimo residence anonimo per stupidi ricconi. È terribile, punto e basta.» «Grazie, Janet. Mi sei di grande aiuto.» «Stai bene vestito così.» «Non sei mia madre.» «Dovresti chiamare quella ragazza.» «Non ho nessuna intenzione di farlo» ribatté lui. Issy non l’avrebbe toccato nemmeno con un bastone ormai, e aveva le sue buone ragioni. «E invece dovresti.» Austin ci rifletté mentre beveva il caffè che Janet era andata a prendere apposta al locale. Si era raffreddato, ma lui immaginò di sentire ancora l’odore dolce di Issy da qualche parte. Si accertò che nessuno lo vedesse e inspirò profondamente, chiudendo gli occhi.


In quel momento, Janet bussò alla porta. «È arrivato» annunciò, e accompagnò Graeme dentro l’ufficio con insolita freddezza. Graeme non ci fece neanche caso. Voleva chiudere in fretta l’affare. Quegli stupidi microfinanziamenti locali. Odiava le piccole banche e la rogna dei mutui più di qualsiasi altro aspetto del suo lavoro. Bene. Ora non doveva fare altro che ottenere il prestito, chiamare Boekhoorn e tirarsene fuori. Magari farsi una bella vacanza. Una per soli uomini, ecco cosa gli serviva. I suoi amici non si erano mostrati molto solidali quando aveva annunciato di essere tornato single. Molti avevano cominciato ad accasarsi e a fare i piccioncini con le fidanzate. Che andassero a quel paese. Lui aveva bisogno di un posto con fiumi di alcol e ragazze in bikini che avessero rispetto e ammirazione per gli uomini d’affari. «Salve» disse, aggrottando la fronte mentre stringeva la mano a Austin. «Salve.» «Facciamo una cosa veloce?» gli chiese Graeme scorrendo rapidamente i documenti. «Voi avete in mano i mutui sulle proprietà esistenti, e noi abbiamo bisogno di metterle insieme, così potrete darci un nuovo tasso sul prestito cumulativo. Vediamo cosa potete fare, okay?» Austin si appoggiò allo schienale della sedia e sospirò. Stava per fare una sciocchezza. Se i suoi capi avessero esaminato la pratica con attenzione, gli avrebbero stroncato la carriera. Cosa importava a lui se quell’angolo di mondo fosse diventato anonimo e fosse stato infestato da manager rampanti. Però gli importava. Eccome. Gli piaceva che Darny avesse tanti amici diversi, non solo ragazzini di nome Felix. Gli piaceva poter comprare cupcake, falafel, hummus, mithai o bagel ogni volta che gli andava. Gli piaceva il misto di locali dove si fumava il narghilè, negozi africani di prodotti per capelli, empori di giocattoli di legno e fumi di scappamento del suo quartiere. Non voleva che fosse conquistato dai colletti bianchi, dai soldi facili, dai Graeme di questo mondo. E soprattutto non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine del viso di Issy, felice e luminoso sotto le luci dell’albero di Pear Tree Court. Quando aveva creduto che fosse una di quelli, una che pensava solo al proprio tornaconto, era rimasto sconvolto. Ora che sapeva che Issy condivideva il suo modo di sentire, che credeva nelle sue stesse cose... ora che si era reso conto di aver voluto sin dall’inizio mischiare gli affari con il piacere, era troppo tardi. Cazzo, pensò. Ma c’era una cosa che poteva fare per lei. Si sporse in avanti, appoggiando i gomiti sulla scrivania. «Mi dispiace, signor Denton» cominciò, cercando di non sembrare troppo formale. «Abbiamo un programma di investimenti locale...» Era vero, anche se nessuno in banca l’aveva mai letto. «...che non è compatibile con il suo progetto. Temo che non potremo liberare i mutui.» Graeme lo guardò. Sembrava non credere alle sue orecchie. «Ma l’ufficio urbanistica è dalla nostra parte. Il progetto è nell’interesse della comunità.» «La banca non la pensa così» ribatté Austin, augurandosi che i suoi capi non venissero mai a sapere che aveva rifiutato un investimento più che solido. «Mi dispiace. Le cose resteranno così come sono.» Graeme lo fissò a lungo, poi sbottò. «Che cavolo significa? Mi sta prendendo per il culo? Cos’è, ha preso una sbandata per la mia ragazza?» Austin tentò di rimanere impassibile. «Assolutamente no» rispose, fingendosi offeso. «È solo la politica della banca, tutto qui. Mi dispiace. Ma cerchi di capire: nel clima finanziario attuale...» Graeme si sporse in avanti. «Non mi parli del clima finanziario attuale» sibilò, scandendo ogni


parola. «Come vuole, signore.» Tra loro calò il silenzio, e Austin non aveva nessuna intenzione di romperlo. Alla fine Graeme alzò le mani. «Quindi mi sta dicendo che la sua banca non mi concederà il prestito.» «Esatto.» «Che dovrei rivolgermi a un altro istituto e pagare una commissione affinché districhi la matassa di tutti i vostri stupidi prestiti che saranno stati mescolati con chissà cos’altro e venduti a chissà chi?» «Già.» Graeme si alzò in piedi. «Stronzate. Sono tutte stronzate.» «Ho sentito dire che quelli dell’ufficio urbanistica sono piuttosto combattuti sul vostro progetto. Potrebbero persino tornare sui loro passi.» «Non possono farlo.» «Possono fare quello che vogliono.» Graeme era rosso di rabbia. «Li troverò i soldi, sa. Vedrà. E lei farà la figura dell’idiota con i suoi superiori.» I suoi capi lo consideravano già un idiota, pensò Austin. Con una certa sorpresa si rese conto che non gliene importava nulla. Forse l’opinione dei superiori non era poi così rilevante. Graeme gli lanciò un’ultima occhiata prima di andarsene. «Tanto non sceglierà mai uno come lei» disse in tono beffardo. «Non è il suo tipo.» Neanche tu, pensò Austin mentre archiviava la pratica nel cestino della carta straccia. Sentì una fitta al cuore. Ma non aveva tempo per i rimpianti. Prese il telefono e compose il numero che aveva davanti. Quando gli risposero, diede una serie di istruzioni che provocò una sfilza di imprecazioni. Seguirono una pausa, un sospiro e un ordine: aveva quindici minuti per smetterla di fare il cretino e tornare a occuparsi di cose serie. Sollevò di nuovo il ricevitore. Avrebbe chiamato Issy dal telefono della banca per essere sicuro che gli rispondesse. Incrociò le dita e compose il numero con il cuore in gola. Lo sapeva a memoria. Che idiota che era. «Pronto?» disse lei con voce incerta e nervosa. «Issy!» esclamò Austin, senza fiato. «Ehm, ti prego, non riattaccare. Senti, lo so che sei arrabbiata e lo so che ho fatto una stupidaggine, ma credo... credo di poter fare qualcosa. Per il caffè, intendo, non per te. Ovviamente. Ecco... oddio, non c’è tempo. Senti. Devi uscire subito dal caffè.» «Non posso» rispose Issy, il panico nella voce. Issy riconobbe a malapena il vecchio disteso sul letto. Era il fantasma di se stesso. Il suo adorato nonno, così combattivo, con le sue mani che sapevano essere forti per impastare e delicate per modellare una rosellina di zucchero. Le aveva fatto da madre e da padre; le era sempre stato accanto quando aveva bisogno; era il suo porto sicuro. Eppure, proprio quando Issy era più in difficoltà e sentiva i sogni scivolarle fra le dita, non poteva fare nulla per lei. Disteso sul letto mentre Issy gli raccontava tutta la storia, a un tratto sgranò gli occhi e cercò di tirarsi su a sedere. «No, nonno. Non sforzarti, ti prego. Andrà tutto bene» mormorò Issy, sentendosi profondamente in colpa.


«Puoi farcela, tesoro» disse lui, con il respiro affaticato e irregolare, gli occhi umidi e il viso di un pallore inquietante. «Ti prego, nonno» ripeté Issy angosciata. Mentre tentava di calmarlo e farlo stendere di nuovo, suonò il campanello per chiamare l’infermiera. Keavie comparve in un attimo e, vedendo Joe, perse la consueta compostezza. Sembrava allarmata. Cercò immediatamente rinforzi e due colleghi accorsero con una bombola d’ossigeno e la mascherina. «Mi dispiace, mi dispiace» ripeté Issy. Fu allora che il cellulare squillò e Keavie la accompagnò fuori mentre gli infermieri tentavano di stabilizzare il nonno. Issy tornò in camera dopo che Austin ebbe riattaccato. Era terrorizzata, ma il nonno era lì, con la mascherina, e sembrava essersi calmato. «Mi dispiace così tanto» disse. «Non preoccuparti» rispose Keavie. «Non è colpa tua. Gli capita spesso ultimamente.» Strinse forte il braccio di Issy e la fece girare verso di sé. «Issy...» riprese, con voce gentile ma ferma, il tono che usava quando doveva darle una cattiva notizia. «È normale. Fa parte del processo.» Lei soffocò un singhiozzo e si avvicinò al nonno. Aveva ripreso colore e poté togliersi la mascherina. «Chi era al telefono? Tua madre?» «Ehm, no. Era... la banca. Avevano trovato il modo di salvare il caffè, ma bisognava agire subito. Credo che ormai sia troppo tardi.» Joe le strinse forte la mano. «Vai!» esclamò, fermo. «Corri a salvare il tuo locale! Dico sul serio, Isabel. Vai e lotta per il tuo lavoro.» «Non ti lascio» ribatté lei. «E invece sì» insisté lui. «Keavie, diglielo anche tu.» Le lasciò andare la mano e si voltò verso il muro. «Vai!» «Potresti davvero salvare il Cupcake Café?» chiese Keavie. «E tutte quelle torte squisite?» Issy alzò le spalle. «Non lo so. Forse è troppo tardi.» «Sbrigati allora!» la incalzò l’infermiera. Issy si precipitò alla stazione e, per una volta, le ferrovie londinesi furono dalla sua parte. Il treno che l’avrebbe lasciata a Blackhorse Road era lì ad aspettarla. Saltò a bordo e telefonò a Austin. «Sto prendendo tempo» le disse lui in tono grave, non volendo informarla del rischio che stava correndo. «Cerca di arrivare prima possibile.» «È quello che sto facendo.» «Come sta tuo nonno?» «Abbastanza bene da essere arrabbiato con me.» «Be’, è già qualcosa.» «Stiamo entrando in stazione.» «Corri più veloce che puoi! Qualsiasi cosa ti offra, accettala! Un anno, due, qualsiasi cosa!» Issy si ritrovò a gareggiare con uno degli autobus a due piani nuovi di zecca che stava percorrendo Albion Road. A bordo, al piano superiore, c’era Linda. Issy la vide e la salutò con la mano e Linda ricambiò, sorridendo. Un’enorme auto nera si fermò proprio davanti a lei. Issy sbirciò dentro. Non riusciva a vedere chi fosse all’interno per via dei vetri oscurati; poi il finestrino posteriore si abbassò lentamente e Issy si


chinò, socchiudendo gli occhi. «Tu, ragazza dei cupcake! Dammene uno!» ordinò Barstow in tono brusco. Issy gli porse un cupcake al miele tra quelli avanzati dopo la visita alla casa di riposo. Barstow lo prese nella mano grassoccia e, per alcuni secondi, non si sentì altro che il rumore delle sue mascelle. Alla fine si affacciò al finestrino, con i soliti occhiali scuri. «Ho sentito dire che quegli immobiliaristi hanno avuto difficoltà a trovare i soldi. Be’, a me non importa. Basta che tu mi paghi. Tieni. Firma.» E le passò un contratto. L’affitto era più alto, ma non impossibile. E il contratto parlava di diciotto mesi. Diciotto mesi! Issy ebbe un tuffo al cuore. Il caffè non sarebbe certo diventato suo, ma avrebbe avuto più tempo per consolidare l’attività. E forse, se le cose fossero andate bene, alla fine dei diciotto mesi persino lei sarebbe stata felice di cercare un posto più grande. A meno che... «Resti qui» gli ordinò, e sfrecciò attraverso il cortile, con la gonna svolazzante, per andare a bussare alla porta della ferramenta. Quando Chester aprì, lo prese per un braccio e lo trascinò verso la macchina. «Anche lui» disse, spingendolo. «Firmerò anche per lui. O viceversa.» Barstow sospirò e si accese una sigaretta. «Non posso restare» protestò Chester. «Per me è finita.» «No» ribatté Issy. «Non capisce? Posso rilevare anche la ferramenta. Ho bisogno di spazio per allargarmi, guardi» e indicò il caffè, con la fila di gente affamata e sorridente che si riversava nella tiepida piazzetta, ansiosa di fare scorta di deliziosi cupcake. «Ho già in programma quattro feste per bambini. E, se avessi più spazio, potrei accettare più ordini per confezioni regalo...» spiegò. Poi, abbassando la voce, aggiunse: «Ho il sospetto che avremo bisogno di un custode, visto che non abbiamo un cancello. Qualcuno che tenga d’occhio il locale di notte. Certo, non potremmo pagarlo tantissimo, ma...». Chester firmò i documenti, entusiasta. Un attimo dopo, lui e Issy si ritrovarono sul marciapiede a fissare increduli l’auto nera che si allontanava nel traffico. «Così non dovrà più nascondersi» disse Issy. «Che ne pensa?» «Penso che suo nonno aveva ragione sul suo conto.» «Sìììì!!!» strillò Issy, rendendosi conto di quello che era appena successo. Si precipitò nel caffè. «Pearl! Siamo salve! Siamo salve!» Lei sgranò gli occhi. «In che senso?» Issy sventolò il contratto. «Abbiamo ottenuto un prolungamento dell’affitto! La banca non ha concesso il prestito a Graeme.» Pearl abbandonò le sue faccende e la guardò a bocca aperta. «Stai scherzando.» «Diciotto mesi. Abbiamo diciotto mesi!» Pearl aveva fatto di tutto per nasconderle quanto fosse importante quel lavoro per lei. Quanto sarebbe stato difficile trovare qualcos’altro. Quanto le sarebbe dispiaciuto strappare Louis all’asilo in cui era così felice e persino, dovette ammetterlo, amato. Si era tenuta dentro tutta la preoccupazione per l’imminente disastro, e, appresa la notizia, si sedette sullo sgabello dietro il bancone e scoppiò a piangere. «E poi,» aggiunse Issy «ci allargheremo! Rileveremo la ferramenta! Tu gestirai l’altra parte del Cucpake Café, che si occuperà del catering e delle confezioni regalo. È una specie di promozione.» Pearl si asciugò gli occhi con uno degli strofinacci a righe. «Non posso credere di essermi affezionata così tanto a uno stupido lavoro» piagnucolò, scuotendo la testa.


Issy lanciò un’occhiata ai clienti perplessi mentre Caroline si avvicinava. «Lo sapevo che ce l’avresti fatta» esclamò. «Quindi posso restare! Posso restare! Dio, ti ringrazio, non so come avrei fatto con solo tre bagni. Grazie, Signore!» E si abbracciarono tutte e tre. Alla fine Issy guardò i clienti. «Scusateci, eravamo convinte di dover chiudere e invece abbiamo appena scoperto di no.» Tutti sorrisero soddisfatti. «Quindi questo significa... Ho sempre desiderato poterlo dire...» aggiunse poi facendo un profondo respiro. «Cupcake gratis per tutti!!!» Ne era valsa la pena, pensò Austin. Anche solo per vedere l’ammirazione sul volto di Janet. Più o meno. «Per ora l’ho messo in fuga» disse. «Ma non durerà. Andrà a cercare rinforzi e tornerà più forte di prima. Come gli scarafaggi.» «Comunque hai fatto bene» approvò Janet. Aggrottò la fronte e aggiunse: «Dammi i documenti. Cercherò di abbellirli un po’ in modo da rabbonire i capi. E ora vai a fare cinquecento investimenti strabilianti per distrarli». «Non subito. Mi sento pieno di adrenalina e virilità. Vado a prendere Darny a scuola e lo porto a pranzo al parco, così possiamo andare a caccia di leoni.» «Devo dire così al tuo appuntamento di mezzogiorno?» gli chiese Janet in tono affettuoso. «Certo.» Era rimasto sorpreso dal fatto che Issy non lo avesse richiamato. O forse, a pensarci bene, era normale. Era appena uscita da una storia importante e se l’era vista brutta con la sua attività. Doveva essere intenta a festeggiare o a fare progetti o... Be’, insomma, aveva detto chiaramente che non voleva più avere niente a che fare con lui. Quindi pazienza. Comprò dei panini e delle patatine al negozio all’angolo e andò a prendere Darny. A volte, pensò, tutti i grattacapi, le urla, i tentativi di persuasione, le restrizioni imposte alla sua vita sociale e sessuale, i suoi progetti in stallo... venivano spazzati via dalla felicità di un bambino di dieci anni di fronte a un inaspettato pranzo al parco. Darny fece un sorriso da un orecchio a sventola all’altra. «Auusssttttiiinnnn!» «Forza, moccioso. Ah, sappi che il tuo fratellone è un eroe.» «Hai fatto una buona azione?» «Sì.» «Signor Tyler, posso dirle una cosa?» gli domandò la preside prima che se ne andasse. «Possiamo fare in un altro momento?» rispose lui. Kirsty aveva deciso di prendere il coraggio a due mani e chiedergli di uscire una volta per tutte. Ma sembrava così irrequieto e distratto che forse avrebbe fatto meglio ad aspettare. «Dopo pranzo?» propose lei. «Certo» disse Austin, notando che, oltre a essere una maestra, era anche carina. Forse era giunto il momento di cercare una ragazza che ricambiasse la sua simpatia e non uscisse con delle teste di cavolo. Visto che non poteva avere quella che voleva veramente, sarebbe uscito con qualcun’altra. Un giorno. Magari. «Ma ora abbiamo dei leoni da uccidere. Li pugnaliamo al cuore e poi glielo strappiamo e glielo bruciamo e poi mangiamo....» «Vai, Darny» lo interruppe Kirsty. E li guardò allontanarsi insieme.


Austin si tolse la giacca e allentò il nodo della cravatta. Era una splendida giornata e il sole era caldo. A Clissold Park c’erano furgoncini dei gelati che stazionavano come sentinelle davanti al cancello e famigliole allegre, impiegati che prendevano il sole e vecchietti che si scaldavano le ossa. Darny e Austin seguirono il flusso di persone attraverso il cancello. A un tratto, Austin udì qualcuno chiamare il suo nome. «Austin! Austin!» Si voltò: era Issy, rossa come sempre e con una grossa scatola in mano. «Sei tutta rossa» osservò Austin. Issy chiuse gli occhi. Aveva avuto una pessima idea. E ovviamente era di nuovo rossa come un peperone. E anche sudata, magari. Era una follia. Li seguì nel parco. Darny, non appena l’aveva vista, le era andato incontro e l’aveva presa per mano. Lei l’aveva stretta, in cerca di rassicurazione. «Mi piace. Il rosso ti dona» aggiunse Austin, maledicendosi immediatamente per aver detto una cosa così stupida. Si guardarono per un po’. Lui, nervoso, abbassò gli occhi sulla scatola. «Sono per me? Perché lo sai che non posso accettare nessun...» «Sta’ zitto» lo interruppe Issy. «Volevo solo ringraziarti. E comunque non sono per te, sono per Darny. E non sono venuti neanche tanto bene, anzi, sono venuti proprio male, e...» Senza pensare e senza degnare i cupcake di uno sguardo, Austin afferrò la scatola e la gettò lontano con tutte le sue forze. Issy seguì con lo sguardo il nastro rosa che svolazzava contro l’azzurro del cielo e il verde degli alberi prima di finire in un boschetto lì vicino. Stranamente, la scatola non si ruppe. «Darny,» disse Austin «quella scatola era veramente enorme. Trovala e i cupcake sono tutti tuoi.» Il ragazzino sfrecciò via come un fulmine. Issy guardò Austin costernata. «Erano i miei cupcake! Con un messaggio!» Austin le prese le mani, sentendo di avere poco tempo. «Puoi farne altri. Ma Issy, se vuoi mandarmi un messaggio, ti prego, dimmi qual è.» Issy avvertì la stretta delle sue mani calde e si ritrovò a guardarlo intensamente. E a un tratto, forse per la prima volta in vita sua, si sentì in pace con se stessa. Ogni tensione svanì e smise di preoccuparsi di cosa passava per la testa di Austin o del proprio aspetto, di come si stava comportando, di quello che pensava la gente. Non provava altro che il desiderio travolgente di essere tra le braccia di quel ragazzo. Fece un profondo respiro e chiuse gli occhi. Austin le prese il mento e lei si abbandonò completamente al suo bacio appassionato, perfetto, nel bel mezzo di un parco affollato di una delle città più caotiche del mondo. «Che vuol dire “Bicamia”?» chiese da lontano una voce perplessa. Austin e Issy fecero un balzo indietro e si allontanarono, a malincuore, entrambi rossi e accaldati. Darny li guardava con aria interrogativa. «È il messaggio sui cupcake.» E mostrò a entrambi la scatola ammaccata con i resti di sette dolcetti. Darny aveva disposto le lettere in modo da formare la parola B-I-C-A-M-I-A. «È questo il messaggio che volevi mandarmi?» chiese Austin. «Ehm... non proprio» rispose Issy. Le girava la testa tanto che per un attimo temette di svenire. «Okay» disse Austin sorridendo. «Allora, Darny, adesso pranziamo, cinque minuti di leoni, e poi io e Issy abbiamo del lavoro da fare, okay?» «Mangi con noi?» chiese Darny prima di mettersi a rincorrere dei piccioni. «Fico!» Loro lo guardarono sorridendo. Poi Issy guardò Austin, gli occhi spalancati. «Wow» mormorò.


«Be’, grazie» rispose lui imbarazzato. Poi le lanciò un’occhiata e sbottò: «Santo cielo, vieni qui, mi sembra di averti aspettato per anni». E la baciò di nuovo con trasporto, poi rimase a fissarla così intensamente che Issy si sentì scoppiare il cuore. «Ti prego, resta sempre dolce come sei.»


19

TORTA SIMNEL 6 once di burro 6 once di zucchero di canna 3 uova sbattute 6 once di farina 00 1 pizzico di sale 1 cucchiaino di spezie miste tritate (facoltativo) 12 once di uvetta e ribes secchi 2 once di canditi Scorza di un limone 1-2 cucchiai di marmellata di albicocche 1 uovo sbattuto per la glassa Compra la pasta di mandorle al supermercato. Potresti farla da sola, ma mica siamo pazzi. Lavorala per un minuto finché non diventa liscia e morbida. Stendila e ritaglia un cerchio di 18 cm di diametro. Imburra una teglia delle stesse dimensioni e rivestila con carta da forno, quindi riscalda il forno a 280°F. Per la torta, sbatti il burro con lo zucchero fino a ottenere un composto chiaro e soffice. Aggiungi le uova una alla volta fino a incorporarle completamente e unisci la farina setacciata, il sale e le spezie (se hai deciso di usarle). Unisci infine l’uvetta e il ribes, i canditi e la scorza grattugiata del limone. Mescola bene e versa metà dell’impasto nella teglia, uniformalo e coprilo con il cerchio di pasta di mandorle. Aggiungi il resto del composto e uniformalo di nuovo, lasciando un lieve avvallamento al centro per permettere alla torta di lievitare. Fai cuocere nel forno caldo per 1 ora e 45 minuti. Controlla la cottura inserendo uno stuzzicadenti al centro: se viene fuori pulito, è pronta. Togli dal forno e lascia raffreddare su una griglia. Completa con un altro sottile strato di pasta di mandorle. «Ultimamente è peggiorato» sussurrò l’infermiera. Issy lo sapeva già: erano settimane che non riceveva lettere né ricette. «Va bene» disse, anche se non andava bene per niente, accidenti. Non era giusto. Il nonno era tutto per lei, e meritava di vederla felice. La stanza era immersa nel silenzio: si udiva solo il rumore di un paio di macchine in un angolo. Joe era, se possibile, ancora più magro. Austin avrebbe voluto accompagnarla, ovviamente. Durante una delle loro lunghe notti di vino e interminabili chiacchiere, aveva raccontato a Issy del padre e della madre e dell’incidente d’auto che aveva posto fine alla sua pigra vita da studente, trasformandolo nel baby sitter di un bambino di quattro anni, presuntuoso e adorabile, che lo aveva


costretto a mettersi una giacca e una cravatta prima del previsto. Issy aveva dovuto fare uno sforzo sovrumano per non dirgli che lo amava. Più lo conosceva, più diventata difficile. Ma era troppo presto e sarebbe stato del tutto inopportuno. Il problema era che Austin eclissava tutti gli uomini che lei aveva conosciuto in vita sua. Tutti quanti. E, ora che ne era sicura, voleva dirlo, anzi urlarlo al mondo intero. Ma non era ancora il momento. Solo che non le restava molto tempo per farlo. «Nonno» sussurrò Issy. «Nonno! Sono io! Isabel!» Niente. «Ti ho portato una torta!» aggiunse, armeggiando con la scatola. Per una volta aveva preparato quella preferita di Joe, anziché la sua: la torta Simnel, piatta e compatta, quella che gli faceva sempre sua madre, la bisnonna di Issy, tanti anni prima. Lo abbracciò e gli parlò, raccontandogli le belle novità degli ultimi giorni; ma lui non reagì alla sua voce, né al suo tocco. Respirava appena. Keavie le appoggiò una mano sul braccio. «Non credo manchi molto.» «Volevo... lo so che è stupido, ma volevo tanto che conoscesse il mio ragazzo» disse Issy. «Gli sarebbe piaciuto.» Keavie rise. «È strano: anch’io avrei voluto presentargli il mio nuovo fidanzato. Credo che avrebbe approvato.» «Che tipo è?» le chiese Issy. «Be’, è forte... buono e non si fa prendere in giro né mettere i piedi in testa da nessuno. È anche divertente e sexy... Insomma, è fantastico. Ogni volta che mi chiama e vedo il nome sul display mi sciolgo. Sono così felice. Oh, scusa... Scusa. Sono stata inopportuna.» «No, figurati. Finalmente ho incontrato anch’io qualcuno che mi fa sentire così.» Si scambiarono un sorriso. «Ne è valsa la pena aspettare tanto, no?» disse Keavie. Issy si morse il labbro. «Eh sì.» L’infermiera lanciò un’occhiata a Joe. «Secondo me lo sa... Però non dirgli che il mio fa il macellaio.» «Il mio è un consulente finanziario!» esclamò Issy. «Ancora peggio.» «In effetti!» concordò Keavie. Poi il suo cercapersone squillò e si allontanò in fretta. Issy giocherellò con i fiori che aveva portato e si sedette, senza sapere cosa fare. A un tratto qualcuno socchiuse la porta. Issy alzò gli occhi e vide una donna incredibilmente familiare e, insieme, quasi sconosciuta. Aveva lunghi capelli grigi, che potevano sembrare strani, ma la facevano somigliare a Joni Mitchell, e indossava un ampio mantello. Aveva il volto sereno, ma solcato da rughe profonde che parlavano di sole e giorni difficili. Ma era anche un viso gentile. «Mamma» mormorò, quasi in un sospiro. Si sedettero entrambe al capezzale del nonno, prendendogli le mani. Marian gli disse quanto gli aveva voluto bene e quanto le dispiaceva; Issy le assicurò, ed era sincera, che non aveva niente di cui rimproverarsi, perché alla fine era andato tutto bene. Ebbero l’impressione che il nonno capisse, ma Issy sentiva un nodo alla gola a ogni suo respiro più debole. «Che cos’è?» le chiese la madre, sollevando la scatola con la torta. «Oh, Issy!» esclamò vedendola. «Mia nonna la preparava quando ero piccola. Aveva lo stesso identico profumo. Davvero! Mio padre la adorava, ne mangiava tonnellate. Era la sua preferita.» Issy lo sapeva già, ma non immaginava che sua madre lo ricordasse. «Oddio, mi riporta al passato» disse Marian, e cominciò a singhiozzare. Poi si avvicinò a Joe, il


viso rigato di lacrime, e si sedette sul letto, mettendogli la scatola vicino, in modo che riuscisse a sentirne l’aroma speziato. Issy aveva letto da qualche parte che, anche quando tutti gli altri sensi erano compromessi, l’olfatto rimaneva, ed era un filo diretto con il cuore della consapevolezza, con le emozioni, l’infanzia e la memoria. Ma quanto restava ancora del nonno? Joe fece un profondo respiro irregolare. Poi aprì improvvisamente gli occhi, spenti e acquosi, facendole trasalire. Respirò di nuovo, percependo l’odore della torta, e poi ancora più profondamente, come a volerne assorbire l’essenza. Quindi batté le palpebre e cercò di mettere a fuoco ciò che aveva intorno, senza riuscirci. Un attimo dopo, però, il suo sguardo parve fissare qualcosa che Issy e Marian non potevano vedere. «È qui» disse dolcemente, con uno stupore da bambino. «È qui!» Sorrise debolmente e chiuse di nuovo gli occhi. Marian e Issy capirono che se n’era andato.


Epilogo

Febbraio «Non avrei mai creduto che le tue tette potessero diventare ancora più grandi» osservò Pearl rivolta a Helena. «Quando ti metti davanti alla finestra, non si vede più niente. Sono più grosse delle mie.» La luce pallida del pomeriggio filtrava dalle finestre del Cupcake Café – era arrivato l’autunno, freddo e ventoso, e avevano tolto il tendone – illuminando i tavoli, le alzate cariche di cupcake rosa e azzurri e il pavimento coperto di carta da regalo, biglietti e doni per il bimbo di Helena e Ashok. Lei sedeva come un’enorme nave imperiosa a vele spiegate, i capelli rosso tiziano che le ricadevano sulle spalle e il vestito marrone aderente che sottolineava spudoratamente il pancione e il seno florido. Ashok, eclissato dalla sua maestosità, la guardava pieno d’orgoglio. L’amica non era mai stata così bella, pensò Issy. Fuori, Louis correva qua e là con Ben. Non si poteva avere tutto, rifletté Pearl. Ma suo figlio stravedeva per il padre. Ben non c’era sempre, ma, quando c’era, Louis si illuminava e sua madre non avrebbe mai fatto nulla per rovinare la sua felicità. Non sarebbe stato da lei. Vide Doti passare davanti all’entrata del vicolo. Si guardarono per un lungo momento, poi distolsero entrambi gli occhi. Helena si accarezzò la pancia, compiaciuta. «Amore mio, ti voglio tanto bene, ma è ora che vieni fuori. Non riesco più ad alzarmi.» «Non c’è bisogno che ti alzi» saltò su Issy. «Cosa ti serve?» «Devo andare in bagno. Di nuovo» rispose Helena. «Ah, okay. Allora non ti posso aiutare» disse Issy. Le offrì comunque il braccio, che l’amica accettò con gratitudine. Pearl attraversò il cortile con altri cupcake. Avevano trasformato l’ex ferramenta nella nuova ala del caffè in un batter d’occhio e lei faceva affari d’oro con l’aiuto di Felipe il violinista, che si rivelò piuttosto abile in cucina, quando non si esercitava. Persino Marian aveva contribuito durante i weekend, finché il richiamo della strada non si era fatto così forte da indurla a tornare da Brick. Non prima però di aver fatto lunghe chiacchierate con la figlia e di aver imparato a usare l’e-mail. Nel frattempo Issy aveva assunto due allegre ragazze australiane che affiancavano Caroline con reciproca soddisfazione e l’attività sembrava quasi andare avanti da sola. Negli ultimi tempi si era ritrovata a chiedersi più volte se non ci fosse posto per un altro caffè da qualche parte... magari in qualche punto un po’ appartato di Archway. Ems, la moglie di Des, con le sue gonne strette e il viso tirato, stava incoraggiando Jamie a stare in piedi da solo contro il divano ed elargiva consigli non richiesti a Helena. Quest’ultima, che aveva maneggiato più neonati di quanti ne avesse mai visti Ems, annuiva in silenzio. Louis intanto era immerso in una conversazione tra se stesso, il pancione di Helena e un piccolo dinosauro di plastica che stringeva fra le dita. «Ma lui è un dinosauro buono» stava spiegando. «Non mangia i bambini.»


«Volio mangiare bambino!» protestò il dinosauro. «No» lo ammonì Louis. «Cattivone.» Pearl gli lanciò un’occhiata amorevole entrando nel caffè. Aveva deciso di non parlarne con Issy e non avrebbe sopportato i “Te l’avevo detto” di Caroline, ma prima o poi sarebbe venuto fuori, quindi... «Ehm... ho mandato una lettera» esordì. «A quanto pare ci trasferiamo.» «Dove?» chiese Issy, entusiasta. Pearl alzò le spalle. «Be’, visto che mi hai dato un aumento, posso permettermi un’altra casa... e pensavamo... cioè, io e Ben pensavamo...» «Quindi è ufficiale?» domandò allegramente Caroline. «È quello che è» replicò Pearl in tono grave. «È quello che è.» «Ma cosa? Cos’hai intenzione di fare?» la incalzò Issy. Caroline, che era di ottimo umore dopo l’ennesima notte trascorsa tra le braccia del talentuoso capomastro (e come dava fastidio all’ex marito sapere chi frequentava la sua camera da letto! Era il pettegolezzo del quartiere), indovinò subito. «Ti trasferisci qui» disse. Poi, dopo una pausa, aggiunse, portandosi la mano alla fronte: «No, aspetta... Ti trasferisci a Dynevor Road. O da quelle parti.» Pearl la guardò incredula. «Be’...» «Come? Perché, cosa c’è in Dynevor Road?» chiese Issy, che moriva dalla curiosità. «Niente, solo la William Patten, la migliore scuola di Stoke Newington» rispose Caroline, tutta compiaciuta. «Le madri lottano con le unghie e con i denti per iscrivere i figli lì. C’è un laboratorio di ceramica e un centro per le arti.» Lanciò un’occhiata a Louis, che aveva avvicinato il dinosauro alla pancia di Helena in modo che le desse un bacio. «Credo che passerà il colloquio.» «Ma è una bellissima notizia!» esclamò Issy. «Non è che tradisci le tue radici se iscrivi tuo figlio a una buona scuola.» «No» concordò Pearl, pur sembrando poco convinta. «Il fatto è che, sai, credo che Louis sia dotato e abbia bisogno di cure speciali, e questo non è sempre possibile nelle altre scuole...» Caroline le mise un braccio intorno alle spalle. «Sentitela!» cinguettò, tutta orgogliosa. «Parla già come una mamma di Stoke Newington.» Helena radunò tutti intorno a sé. «Non posso aspettare Austin» cominciò. «È sempre in ritardo... Grazie a tutti per i regali; io e Ashok siamo davvero commossi. E, Issy, grazie per aver ospitato la festa del bambino.» Lei sventolò modestamente uno strofinaccio. «Abbiamo qualcosa per te. Ci abbiamo messo un’eternità perché Zac è sempre oberato di lavoro.» «Merito tuo» disse Zac imbarazzato, lisciandosi la cresta verde acido. «Comunque abbiamo un regalino da darti.» Issy si fece avanti e Helena le porse un pacchettino. Quando lo aprì, ebbe un sussulto. Era un libro con la copertina rosa, il colore del Cupcake Café, intitolato semplicemente Ricette. All’interno erano raccolte le copie dei fogli, delle lettere, dei biglietti scritti a macchina e delle buste strappate su cui il nonno aveva annotato le sue ricette. In altre parole, erano le indicazioni per la preparazione di ogni singolo dolce sul menu del Cupcake Café, con i graziosi motivi floreali di Zac lungo i margini. «Così la pianti di lasciarle in giro per casa» spiegò Helena, porgendole gli originali. «Oh...» mormorò Issy, troppo commossa per riuscire a parlare. «È meraviglioso. Sarebbe piaciuto tanto anche al nonno.»


La festa continuò fino a tarda sera; Austin era in ritardo (Janet, da brava assistente, aveva già elencato i difetti di Austin durante quella che a Issy era sembrata una piacevole chiacchierata tra suocera e nuora), e Issy lo stava aspettando per dare a Helena il delizioso porte-enfant che avevano comprato insieme. Si era sentita un po’ a disagio a vagare con lui e Darny nel reparto bambini dei magazzini John Lewis alla ricerca di un regalo speciale per l’amica. Poi, però, appena si era abituata ai commessi che le chiedevano: «È suo figlio quello si sta arrampicando lassù?», era riuscita anche a divertirsi. In realtà si divertiva ovunque, purché fosse con Austin. Si erano sbellicati dalle risate persino quando avevano portato Darny dal medico per il richiamo dell’antitetanica. Le mancava, pensò con impazienza. Le mancava a fine giornata e appena se ne andava la mattina, e moriva dalla voglia di fargli vedere il suo bel libro. Quando la luna spuntò dietro le case, scorse finalmente la sua figura alta e un po’ trasandata, ed ebbe un tuffo al cuore, come sempre. «Austin!» esclamò, correndo fuori. Darny fece capolino dietro di lui e strillò un «Ciao» a Issy, quindi sfrecciò nel caffè per salutare Louis. «Tesoro» disse Austin abbracciandola e baciandola sulla testa. Sembrava distratto. «Dov’eri finito? Volevo farti vedere una cosa.» «Ah, sì. Ho avuto una notizia» rispose lui. Poi, sollevando il porte-enfant, che aveva evidentemente incartato al buio, aggiunse: «Diamo prima il regalo a Helena?». «No!» protestò Issy, dimenticandosi del ricettario. «Una notizia è una notizia.» In quel momento le luci dell’albero, di cui Austin aveva regolato il timer, si accesero. Chester si alzò per chiudere le tende del caffè e li salutò con la mano. L’alberello si illuminò: era bellissimo. «Riguarda il lavoro» spiegò Austin. «A quanto pare, sono soddisfatti di me...» Era vero. La faccenda di Graeme e l’incontro con la ragazza dei suoi sogni lo avevano come scosso dal suo torpore, quasi a volergli ricordare che doveva sbrigarsi a realizzare qualcosa prima che fosse troppo tardi. In più, l’influenza più o meno sottile di Issy, che aveva messo ordine nella sua vita e nella sua casa (praticamente ora vivevano insieme), gli aveva fatto ritrovare l’entusiasmo e la voglia di cogliere nuove opportunità. «Comunque il punto è questo: volevano sapere se mi piacerebbe andare... ehm... all’estero. Via, insomma.» «Via?» ripeté Issy, avvertendo una morsa allo stomaco. «Dove?» Lui alzò le spalle. «Non lo so. Hanno semplicemente parlato di un “trasferimento”. In un posto dove ci sia una buona scuola per Darny.» «E anche un aeroporto, magari» aggiunse Issy. «Oddio...» «Sai,» riprese Austin «non ho viaggiato molto in vita mia.» E la guardò speranzoso. Il bel viso di Issy era serio, la fronte aggrottata. «Be’, forse» disse infine «è arrivato il momento di espandere l’impero.» Lui ebbe un tuffo al cuore. «Davvero?» le chiese, tutto felice. «Magari in un posto dove i consulenti finanziari siano corruttibili» rifletté Issy. Si sorrisero. Lei aveva gli occhi lucidi. «Dio, Austin. È una cosa enorme, però. E mi fa paura.» «Ti aiuterebbe se ti dicessi che ti amo?» «Solo se aggiungi un bacio sotto le luci colorate. A quel punto, ti seguirei ovunque... Be’, magari non in Yemen.» «Io sto bene qui a Stokey» rifletté lui. «Anche se... sai una cosa? Forse la mia casa è ovunque siate


tu e Darny. E la baciò con trasporto sotto i rami illuminati del piccolo pero striminzito, che già sognava la primavera.


Nota dell’autrice

Sono andata via di casa poco prima di compiere diciassette anni e, prima di allora, avrei accolto l’idea di imparare a cucinare con una classica alzata di spalle adolescenziale. Da bambina ero molto schizzinosa e mi rifiutavo di mangiare persino la cheesecake; quando studiavo all’università, invece, mi nutrivo essenzialmente di patatine, fagioli, salsa piccante e birra o sidro, o tutti e due insieme. A ventun anni avevo un ragazzo che si era scandalizzato per il fatto che non sapessi cucinare nemmeno un uovo, così, per disperazione, mi insegnò la ricetta della besciamella. Da quel momento ho cominciato a fare un passo avanti e due indietro a partire dalla zuppa di cipolle (pensavo che bastasse buttarle nell’acqua bollente), per continuare poi con la torta al limone, in cui troppo bicarbonato di sodio reagiva con l’acidità dei limoni dando come risultato qualcosa di simile alla composizione chimica del gesso. Ora, invece, ho più o meno novemila ricette per gli scones perché, sia che usi acqua tonica, latte montato o qualsiasi altro ingrediente a temperatura ambiente, non ottengo altro che dischi duri come il marmo che non sanno di nulla. Mia madre, che è un’ottima cuoca e che, quando ero piccola, mi metteva a sedere sui mobiletti della cucina e mi faceva leccare le fruste del frullino mentre preparava torte da sogno, sostiene che devo lasciar perdere e usare le miscele già pronte: persino lei lo fa, ormai. Ma io non voglio arrendermi. Comunque sia, poi sono diventata mamma e, mossa dal desiderio disperato che i miei figli non soffrissero le pene dell’inappetenza, ho fatto in modo di fornire loro il più ampio repertorio di gusti possibile. Il che, ovviamente, ha significato imparare a cucinare. Per alcuni, cucinare è un dono innato; mia cognata, per esempio, è una cuoca formidabile. Lasciatela dieci minuti in cucina e preparerà un piatto squisito con un niente, assaggiando e modificando le ricette in corso d’opera. Io non sarò mai come lei. Ancora oggi non sopporto quando mio marito porta in tavola le barbabietole.1 Adesso, però, so cucinare piatti buoni e sani (sorvolerò sull’episodio delle interiora di pesce) e, stando in cucina, ho scoperto che, con un frullatore, non ci vuole poi così tanto a preparare un pan di spagna al cioccolato o dei biscotti al burro d’arachidi. Credo ciecamente nel mantra di Jamie Oliver: «Qualunque cosa mangiate, fate in modo che abbia il minor numero di ingredienti possibile», e mi rendo conto che, anche nelle giornate più frenetiche, basta mezz’ora per prendere farina, zucchero, burro e un uovo e preparare i dolci più facili in assoluto, i cupcake, riuscendo oltretutto a passare per una vera cuoca in stile Nigella Lawson (ma senza i suoi boccoli splendenti e il suo magnifico seno). Certo, ora i miei figli danno per scontato che cucini, mi chiedono a gran voce cosa c’è di buono e litigano per usare il frullatore, proprio come facevamo noi da piccoli, però va bene così. In fin dei conti mi diverto. E, a un tratto, ho scoperto di non essere sola. I cupcake café hanno iniziato a spuntare ovunque come funghi. A Londra si tiene persino un festival annuale dei cupcake (www.cupcakecamplondon.co.uk).


La storia di Issy, la protagonista del romanzo, è stata ispirata da tutto questo e, più semplicemente, dal desiderio di preparare qualcosa di dolce per le persone a cui si vuole bene. Spero che il libro vi sia piaciuto, sia che cuciniate già, sia che desideriate imparare un giorno (date un’occhiata alla fantastica guida per principianti di The Caked Crusader qui di seguito), sia che pensiate, come me un tempo: “No, grazie, non mi lascerò mai trascinare in una cosa del genere”, sia che siate semplici consumatori soddisfatti. Su, prendete posto a tavola... Con i miei migliori auguri, Jenny 1 Oh, andiamo, ho ragione. Le barbabietole le mangiano i cavalli. Uno dei momenti peggiori della mia vita è stato la sera in cui sono tornata stanca morta da un viaggio, e la mia dolce metà mi ha accolto con queste parole: «Lo so che odi le barbabietole. Ma vedrai che, fatte così, ti piaceranno». Per poco non mi mettevo a piangere, giuro.


Come preparare i vostri primi cupcake dal blog The Caked Crusader

Ora che avete letto questo favoloso romanzo, oltre a pensare “Dio, voglio leggere tutti gli altri libri di Jenny Colgan” vi starete anche dicendo: “Voglio imparare a fare i cupcake”. Congratulazioni! State per partire per un viaggio che vi porterà dolci squisiti e tanta felicità! Innanzitutto vi confesserò un piccolo segreto che nessun altro pasticciere vi rivelerà mai: i cupcake sono facilissimi da preparare, veloci ed economici. Vi assicuro che, anche al primo tentativo, otterrete dolcetti molto più buoni di quelli che trovate in commercio. Il bello dei cupcake è che richiedono pochissimi strumenti. È probabile che abbiate già la teglia apposita (quella con dodici stampini) da qualche parte nella credenza e, anche se non l’avete, potete comprarla a poco prezzo in qualsiasi supermercato. L’altra cosa di cui avrete bisogno è una confezione di pirottini di carta, che troverete in qualunque negozio. Prima di cimentarci nella preparazione dei cupcake alla vaniglia, però, è importante assimilare quelli che considero i quattro principi fondamentali della pasticceria (detto così, sembrano molto più altisonanti di quanto non siano in realtà!). Portate sempre gli ingredienti (soprattutto il burro) a temperatura ambiente. In questo modo non solo otterrete cupcake più buoni, ma l’impasto sarà anche molto più facile da lavorare. Perché non rendervi le cose più semplici? Accendete il forno alla temperatura desiderata venti o trenta minuti prima di infornare, così che i cupcake ricevano subito la giusta temperatura, dando inizio ai processi chimici necessari a ottenere un pan di spagna leggero. Fortunatamente, per preparare dolci squisiti non vi serve sapere quali siano questi processi chimici! Pesate gli ingredienti su una bilancia e non dimenticate nulla. La pasticceria non è come la cucina in generale: non potete sostituire gli ingredienti o misurarli a occhio e ottenere il risultato sperato. Se dovete preparare un pasticcio che richiede due carote e decidete di usarne tre, è probabile che sarà comunque ottimo (sebbene leggermente più “carotoso”); se la ricetta dei vostri cupcake richiede, per esempio, due uova, e voi ne utilizzate tre, otterrete un impasto che sa di uovo anziché un soffice pan di spagna. Questo potrà sembrarvi un limite, ma in realtà è un vantaggio: non dovrete fare altro che seguire la ricetta e vi prenderete tutto il merito per aver preparato dolci deliziosi. Usate solo ingredienti di buona qualità. Se mettete il burro sul pane, perché dovreste mettere la margarina in un cupcake? Se in genere vi concedete del buon cioccolato, perché dovreste usarne di scadente per preparare un cupcake? I vostri dolcetti saranno tanto buoni quanto gli ingredienti che li compongono. Ecco la mia ricetta a prova di fallimento per cupcake alla vaniglia con glassa alla vaniglia. Gli ingredienti si intendono per 12 cupcake.


Per i cupcake: 125 g di burro a temperatura ambiente 125 g di zucchero extrafine 2 uova grandi a temperatura ambiente 125 g di farina autolievitante setacciata 2 cucchiaini di estratto di vaniglia (N.B. “estratto”, non “essenza”. L’estratto è naturale, mentre l’essenza contiene sostanze chimiche ed è cattiva) 2 cucchiai di latte (intero o parzialmente scremato, ma non scremato, perché non sa di niente) Per la glassa: 125 g di burro non salato a temperatura ambiente 250 g di zucchero a velo setacciato 1 cucchiaino di estratto di vaniglia Un goccio di latte (con questo intendo dire che dovete iniziare con un cucchiaio, aggiungerlo agli altri ingredienti, verificare che la glassa sia della consistenza desiderata e, se non lo è, aggiungere un altro cucchiaio di latte, e così via.) Riscaldate il forno a 190 °C, 170 °C se è ventilato. Disponete i pirottini sulla teglia per cupcake. Sbattete il burro e lo zucchero fino a ottenere un composto chiaro, soffice e omogeneo. Ci vorranno diversi minuti anche se il burro è a temperatura ambiente. Non abbiate fretta, perché è qui che l’aria entra nel composto. Scegliete voi come sbattere gli ingredienti. Quando ho iniziato a preparare i cupcake, usavo un cucchiaio di legno, poi sono passata al frullatore a immersione e ora uso un’impastatrice. Danno tutti e tre lo stesso risultato, ma se usate il cucchiaio farete anche un bel po’ di esercizio per i bicipiti: chi ha detto che i cupcake fanno male alla salute? Unite le uova, la farina, l’estratto di vaniglia e il latte e mescolate fino a ottenere un composto omogeneo. Alcune ricette consigliano di aggiungere tutti questi ingredienti separatamente, ma è la stessa cosa. L’importante è che la consistenza sia “a prova di cucchiaio”, cioè il composto deve sgocciolare da un cucchiaio capovolto: se non lo fa, continuate a sbattere; se proprio continua a non farlo, aggiungete un altro po’ di latte. Versate l’impasto nei pirottini. Non c’è bisogno di uniformare il composto: ci penserà il calore del forno. Mettete la teglia sul ripiano alto e lasciate cuocere. Dopo venti minuti (non prima), controllate la cottura inserendo uno stuzzicadenti al centro di un cupcake. Se viene fuori pulito, i cupcake sono pronti e potete tirarli fuori. In caso contrario, rimetteteli in forno e lasciate cuocere altri due minuti. Essendo così piccoli, passano da poco cotti a troppo cotti molto rapidamente, quindi non distraetevi! Non vi preoccupate se hanno bisogno di più tempo rispetto a quello indicato dalla ricetta: i forni non sono tutti uguali. Dopo aver sfornato i cupcake, trasferiteli subito su una griglia a raffreddare. Se li lasciate nella teglia, che è rovente, continueranno a cuocersi e i pirottini potrebbero cominciare a staccarsi dalla pasta, e il risultato non sarà il massimo. Sulla griglia, invece, si raffreddano rapidamente: basta una mezz’ora. Ora concentratevi sulla glassa: sbattete il burro in una ciotola, da solo, finché non si ammorbidisce e non assume la consistenza della panna montata. Questo passaggio è molto importante per la buona riuscita della glassa. Aggiungete lo zucchero a velo e sbattete fino a ottenere un composto soffice e leggero. All’inizio


andateci piano, altrimenti lo zucchero a velo si solleverà imbrattando voi e la vostra cucina! Continuate a mescolare fino a incorporarlo perfettamente; il test migliore consiste nel mettere un po’ di glassa sulla lingua e premerla contro il palato. Se la consistenza è granulosa, dovete continuare a sbattere; se invece è omogenea, potete passare allo stadio successivo. Unite l’estratto di vaniglia e il latte. Se la glassa risulta troppo compatta, aggiungete un altro po’ di latte, ma non esagerate, o diventerà troppo liquida. Stendete la glassa (è più facile e non richiede strumenti particolari); ma, se volete che i cupcake siano più belli, procuratevi una tasca da pasticciere con una bocchetta a forma di stella. Ci sono anche quelle usa e getta, così dovrete lavare meno piatti. Aggiungete qualsiasi decorazione desideriate: è qui che potete dare libero sfogo alla vostra creatività. In passato ho usato fiori di zucchero, praline colorate, palline o scaglie di cioccolato, codette, paillette commestibili. Avete solo l’imbarazzo della scelta. Contemplate beati la meraviglia che avete preparato. E poi mangiatela.



Ringraziamenti

Un ringraziamento speciale a Ali Gunn e Jo Dickinson. Grazie anche a Ursula Mackenzie, David Shelley, Manpreet Grewal, Tamsin Kitson, Kate Webster, Rob Manser, Frances Doyle, Adrian Foxman, Andy Coles, Fabia Ma, Sara Talbot, Robert Mackenzie, Gill Midgley, Alan Scollan, Nick Hammick, Andrew Hally, Alison Emery, Richard Barker, Nigel Andrews, e a tutta la straordinaria squadra della Little, Brown, “casa editrice del 2010”. Grazie a Deborah Adams per l’editing. Grazie inoltre al meraviglioso The Caked Crusader (www.thecakecrusader.blogspot.com), la cui vera identità non dovrà mai essere svelata; alla Pâtisserie Zambetti, di cui ho sperimentato ripetutamente e con grande soddisfazione l’intero repertorio e in cui, anche nelle giornate piovose, hanno sempre un sorriso, una tazza di caffè e una fetta di millefoglie (scusate, millefeuille). E poi ancora a Geri e Marina, a Mads per quel pranzo, a Lise, la migliore collega del mondo; alle famiglie Waring, Dingle, Lee-Elliott e McCarthy per la vostra amicizia e la vostra gentilezza. E infine grazie a Mr B. e ai miei tre piccoli B.: vi adoro, siete davvero eccezionali. No, non potete mangiare un altro cupcake, se no vi rovinate la cena. Neanche tu, Mr B.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.