SE CHIEDI AL VENTO DI RESTARE
PAOLA CEREDA
SE CHIEDI AL VENTO DI RESTARE
PIEM M E
Seconda copertina
Agata non sa nulla dell’amore e della bellezza. È una ragazza semplice, cresciuta su un’isola nel mezzo del Mediterraneo, da un padre distante, che è solo capace di toccare il ferro della sua fucina, e una zia bigotta, invecchiata anzitempo e terrorizzata all’idea di volerle bene. Al posto di una madre, un’assenza, sotto forma di un vestito azzurro sepolto in un armadio. Al posto delle carezze che meriterebbe, parole dure che feriscono come schiaffi. È la scoperta della passione a cambiare per sempre il corso della sua esistenza. Per la cucina, grazie alla creazione di una salsa capace di dispensare il buonumore e far gustare il mondo. Per un giovane addestratore di cavalli in un circo, Dumitru, che le fa capire, in un muto linguaggio di soli gesti, che la vita non è un inferno, come le hanno fatto sempre credere. È il piacere di un istante, un paio di scarpe rosse che danno scandalo, un ballo silenzioso con l’uomo amato e la pienezza che si prova solo realizzando i propri sogni. Così Agata inizia finalmente a vivere, a ribellarsi a un mondo chiuso, schiacciato dal moralismo, dalla corruzione, dalla prepotenza. Ma lì è nata, e lì vuole rimanere. Capirà che l’amore e la bellezza, in fondo, sono come il vento. Se non chiedi loro di restare, rimarranno a riempire i tuoi giorni. Un romanzo mediterraneo, forte, fantasioso, originale, allegro e profondamente umano.
Terza copertina
PAOLA CEREDA Nata in Brianza, è psicologa e appassionata di teatro. Dopo un lungo periodo come assistente alla regia in ambito professionistico, è andata in giro per il mondo fino ad approdare in Argentina, dove si è avvicinata al teatro comunitario. Tornata in Italia, vive a Torino e si occupa di progetti artistici e culturali nel sociale. Vincitrice di numerosi concorsi letterari, è stata finalista al Premio Calvino 2009 con il romanzo Della vita di
Alfredo (Bellavite).
Foto di copertina: © Miguel Sobreira/Arcangel Images Art Director: Cecilia Flegenheimer
Quarta copertina
Che cos’era l’amore? Roba da femmina, da sciagurata. Roba da figlia, da fidanzata. Roba da viva, da sacrificata. Ecco cos’era, l’amore. Un mattino ventoso e il frusciare dell’erba dentro al petto.
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell'autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.
Realizzazione editoriale: Elàstico, Milano
ISBN 978-88-566-3438-9 © Paola Cereda 2014. Published by arrangement with Silvia Meucci Agenzia Letteraria – Milano I Edizione 2014 © 2014 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano www.edizpiemme.it Anno 2014-2015-2016 - Edizione 12345678910
A Nicola, che sa di mare.
1
La più distante tra le isole dell’arcipelago era l’unica senza nome. O meglio, un nome lo aveva, ma si era perso tra le carte geografiche e le memorie della gente. L’isola era l’isola, e tale rimase fino al giorno del suo battesimo che avvenne per caso o, come qualcuno dice, per disegno divino. Tutto cominciò la notte in cui Agata venne al mondo. Suo padre era il fabbro del paese, un uomo di poche parole e nessuna allegria. Si sposò con una cugina che gli avevano portato in dote, insieme a due paia di stivali e a un’incudine ritirata da un fallimento del continente. La moglie rimase incinta dopo due anni e molta fatica, perché la passione del Fabbro era null’altro che la fucina. La pancia crebbe in modo particolare. Era allungata. Pareva un sacco di farina messo di traverso. Per fortuna le doglie arrivarono un mese prima del dovuto, per togliergli quell’ingombro dal letto. La notte del parto il Fabbro andò a dormire nel sottotetto, lasciando che le donne finissero di fare la spola dal pozzo alla casa, in un viavai di urla e pentole messe a bollire: «È una femmina» annunciò Teresa, la sorella, correndo di buon passo su per le scale. Il Fabbro avrebbe preferito un maschio ma si sarebbe comunque accontentato. Le femmine, pensava, sono buone per la casa e la vecchiaia, specialmente se nessuno se le piglia. Il Fabbro si girò su un fianco e ricominciò a dormire. Non valeva la pena di andare a curiosare. Fu svegliato prima dell’alba dalle grida di Teresa che lo pregavano di vestirsi, per carità, e scendere in fretta le scale, che era capitata una disgrazia perché Dio dà e Dio leva e chi lo sa quali sono i disegni dell’Altissimo e cosa vuole da noi quando toglie senza domandare. L’uomo si mise addosso i pantaloni e fece i gradini uno per volta, poggiandosi con le mani al muro. Il pianterreno puzzava di sudore e sangue: «Tua moglie è morta» gli disse Teresa. Il Fabbro vide il corpo della donna disteso sul letto, sereno e per sempre addormentato. Non pianse per l’anima della puerpera. Le lacrime, per lui, erano fastidi da deboli e da mendicanti.
Buttò un’occhiata alla bambina appena nata e tornò a dormire nel sottotetto. L’indomani andò alla fucina a battere il ferro che tardava a obbedire. Lo picchiò per cinque ore, lo picchiò fino a farsi mancare il fiato. Smise nel pomeriggio, all’ora del funerale. Si lavò dietro la fucina e indossò la giacca del matrimonio che aveva appeso all’ingresso. Scivolando dentro le maniche di lana, si accorse che il tempo gli aveva rubato le spalle, insieme agli anni. Dalla fucina, si incamminò lungo le vie del borgo e si diede il tempo di tardare. La moglie non se la sarebbe presa a male. Respirò il vento del Mediterraneo, gli porse una guancia nella speranza di sentirsi accarezzare. Erano anni che non guardava il passo lento delle nuvole. Le sue giornate si ripetevano sempre uguali, aggrappate al suono del martello che batteva sull’incudine e rimbalzava dalle pareti alle sue orecchie per conficcarsi dentro il petto. Teneva gli occhi socchiusi per impedire alla luce del giorno di rammentargli che si era perso troppe albe, troppi tramonti. Il funerale della moglie lo obbligava a ricordare. C’era da essere arrabbiato con quella donna fatta di fianchi e riccioli. Gliel’avevano messa in casa perché era la volontà del mondo. Si era abituato al respiro sottile delle sue notti, alla ritrosia di quel corpo da femmina. Di lei restavano il solco del parto scavato nel letto e il pianto di una creatura nata per disturbare. Giunto alla chiesa patronale, il Fabbro affidò a don Carmelo il compito di compiangere la defunta: «Devo dire qualche cosa di particolare?» domandò il prete prima della cerimonia, mentre il vedovo gli allungava la mano e tre lire di mancia per le anime del purgatorio. «Dite soltanto che non sapeva cucinare.» «Come?» chiese il prete, sorpreso dalla richiesta. «Dite quello che volete.» Il Fabbro fece il segno della croce e annuì a don Carmelo che, dal pulpito, elogiava una vita che non conosceva affatto perché, era cosa buona e genericamente giusta, «chi muore nel sacrificio di Dio, muore nella luce eterna della Divina Grazia». Durante la settimana successiva, il Fabbro si chiuse nella fucina e lasciò alla sorella il compito di liberarlo dai doveri. Teresa entrò nella casa del vedovo con due confezioni di cera Bentivoglio - il tuo pulito è il nostro orgoglio - che si fece spedire dal continente apposta per lavare via i dolori. La donna credeva in Dio e specialmente nel malocchio. Aveva le spalle larghe e le vene spesse. Ci avrebbe pensato lei a cambiare l’aria che odorava di afflizione. Teresa spalancò le finestre, aprì gli armadi e infilò tredici teste di aglio tra la biancheria del
fratello. Chiuse i vestiti della defunta in un sacco e li gettò nel fuoco insieme agli stracci che erano serviti per il parto. Spazzò la polvere e diede due passate vigorose di cera Bentivoglio ai pavimenti, incurante della neonata che dormiva nella culla. Bisognava dare un nome a quella creatura, fin troppo buona, fin troppo rosea per essere la portatrice di tanta disgrazia. Alla fine Teresa si decise. Si sarebbe chiamata Agata, come la pietra che un fidanzato lontano le aveva regalato in segno di promessa. Il mascalzone aveva tradito il voto ed era partito per le Americhe: «Tornerò a prenderti» le aveva detto, e lei era rimasta ad aspettare. Non ci fu mai una lettera, non ci fu neppure un’ultima, definitiva mortificazione che potesse darle la voglia di ricominciare. Teresa conservava la pietra nel primo cassetto del suo comò da eterna signorina. Il nome Agata le avrebbe ricordato quell’affronto e le avrebbe impedito di affezionarsi alla nipote. L’amore, dopotutto, era un sentimento perfido. Teresa mandò a balia la creatura dalla moglie di un pastore, che aveva dieci figli e un seno bianco di latte. Agata si abituò in fretta all’odore del petto che la nutriva. Si accoccolava in mezzo ai seni grandi e, il più delle volte, si addormentava succhiando. I figli del pastore giravano attorno alla straniera che cresceva nella loro casa e in mezzo ai loro affetti. Se la udivano balbettare la parola mamma, le pizzicavano le gambe per farla piangere: «Non è tua mamma» la rimproveravano. «Tu non sei nulla, per noi.» La donna li lasciava fare perché «Agata è un mestiere» le aveva detto il marito acconsentendo al lavoro di balia. Eppure, per consolarla dal fastidio di quei dispetti, la moglie del pastore prendeva la piccola tra le braccia e le avvicinava alla bocca l’indice intinto nel miele di castagno. In tutti i suoi giorni a venire, il miele di castagno avrebbe ricordato ad Agata che l’amore si mangia. Si lascia mangiare. Teresa visitava la nipote a ogni compleanno e per le feste comandate. Non appena bussava alla porta, la bambina si nascondeva dietro la credenza: «Esci da lì» la chiamava la zia. «Ti ho portato il gozzo della gallina.» Teresa soffiava nella membrana e la piccola usciva dal nascondiglio per giocare con il palloncino che volteggiava nella stanza. Quando Agata compì cinque anni, la moglie del pastore la fece sedere sulle ginocchia. Le donò un pupazzo con una gamba sola e le accarezzò la fronte per liberarla dai riccioli: «Domani te ne andrai» le spiegò. «C’è un posto migliore in cui devi stare, un posto dove nessuno ti farà piangere.» Agata la guardò e si accorse che aveva un occhio spento. Si sollevò fino alla palpebra e la donna si lasciò baciare.
«Tu verrai con me?» «No, ma te la saprai cavare.» L’indomani Teresa giunse all’alba: «Ha già fatto colazione» disse la balia. La piccola si voltò verso di lei: «Voglio stare qui». La donna le avvicinò l’indice sporco di miele e Agata lo guardò attraverso gli occhi confusi dal pianto. Aprì le labbra e le richiuse in fretta: «Ahi!» gridò la moglie del pastore. «Che fai!» la rimproverò Teresa assestando un ceffone sulla nuca della nipote. «Lasciala stare» disse la balia. «È il suo modo di ringraziare.» «Te la insegno io la buona creanza» sbraitò Teresa spingendo la piccola in strada e poi, a strattoni, fino alla casa paterna. «E smettila di frignare!» Giunti sull’uscio del Fabbro, le ricordò il più importante dei comandamenti: «Onora il padre» e la abbandonò insieme a due pacchi di vestiti usati. «Non ti muovere» ordinò. «Quando diventerà buio, tuo padre tornerà a casa. E tu saprai chi sei.» L’uomo trovò la figlia bagnata di aprile. Era alta poco meno di un ceppo e aveva addosso un vestito di tela che assomigliava a una tovaglia. Aveva gli occhi rotondi dei bambini e l’odore delle capre nei giorni di fango: «Puzzi» le disse senza guardare. Aprì la porta e la fece entrare. La luce della lampada a olio illuminava le pareti e nascondeva il soffitto. Il Fabbro indicò il cortile: «Pesca l’acqua dal pozzo e datti una lavata. Prima dammi questo». Le strappò dal petto il pupazzo con una gamba sola e Agata strinse le mani a pugno: «Come osi?» chiese il Fabbro, minacciando la bambina con la mano grande. La piccola si nascose dietro una sedia. L’uomo si allungò verso di lei e le afferrò l’orecchio destro. Agata ficcò gli occhi rotondi dentro quelli aguzzi di lui e trattenne le lacrime tra le ciglia lunghissime. Era coraggiosa: forse non gli avrebbe dato problemi. Non così tanti. La mattina seguente Agata si svegliò con le ossa appesantite. Aveva dormito su due coperte buttate a terra, accanto al tavolo della cucina. Il Fabbro la chiamò con la punta della scarpa: «In piedi» ordinò. «Ti sveglierai ogni giorno prima dell’alba per prepararmi il pasto.» Le fece indossare un completo nero che Teresa aveva ricavato da una gonna ormai dismessa e le insegnò a cucinare la frittata di cipolle: «Rompi sei uova, sbattile nella scodella. Aggiungi due prese di sale e una manciata di prezzemolo. Mezza tazzina di latte e due cipolle tagliate sottili, così. Capito?».
«Sì» mormorò Agata tra le labbra di ciliegia. Come aveva potuto, la moglie del pastore, sbarazzarsi di lei? «Metti tutto nell’olio bollente, un cucchiaio è sufficiente. L’olio deve essere caldo, caldissimo. Conta cinque volte cinque, prima di continuare.» Agata non sapeva contare. «Tua madre, quella buona a nulla, era incapace di cucinare. Girava la frittata sempre troppo presto, non le dava il tempo di indorare.» Ne era certo? Lei l’aveva vista. La moglie del pastore sapeva come fare. Il Fabbro tirò in aria la frittata e la fece cadere nel centro esatto della padella. Si chinò, sguardo nello sguardo della bambina: «Deve essere alta, profumata e calda. Portamela tutti i giorni alla fucina, alle undici in punto» disse. «Senza sgarrare.» Per accontentare il padre, ogni mattina Agata saliva sullo sgabello della cucina e si alzava in punta di piedi. Rompeva i gusci con le dita piccoline e sbatteva l’uovo insieme alle cipolle sempre troppo grosse, sempre così maledettamente capaci di farla piagnucolare. Teresa le aveva detto di lavarle con l’acqua della fonte: «Così non ti faranno piangere» e il consiglio aveva funzionato. Agata pescava l’acqua dal pozzo del cortile. Mentre la carrucola girava, il secchio sbatteva contro le pareti di pietra. La bambina lo tirava a sé e lo appoggiava tra la polvere dell’aia. Immergeva le cipolle nel secchio e le guardava sparire sul fondo. Le piaceva intingere la punta delle dita nell’acqua. L’acqua era benedetta perché annegava i cattivi propositi, l’acqua era benedetta perché liberava dalle lacrime. Il bagno del sabato pomeriggio era un sollievo. Prima del tramonto, Agata si lavava con le scaglie di sapone bianco che zia Teresa le faceva trovare sul davanzale della cucina. La bambina riempiva la tinozza di legno e immergeva i capezzoli piccini. I bottoni, li chiamava, e quando parlava in quel modo, Teresa faceva la faccia scura. Guai ad appoggiarci le mani, c’era il rischio di diventare cieca muta e sorda: per lavare i bottoni era sufficiente far scorrere l’acqua dalle spalle fino all’orlo della vasca. I bottoni erano esseri vivi e particolari. Abitavano sul corpo minuto di Agata, si nutrivano della sua stessa carne e nascondevano le domande, quelle che Agata conosceva e quelle che non aveva mai fatto. Sua madre, per esempio. La donna che l’aveva cresciuta non era sua madre. Glielo avevano detto i figli del pastore: «Tu non sei nulla, per noi». Eppure persino lo scemo del paese aveva una madre: «Tenco, Tenco!» gridava la
donna dalla porta di casa. E lui correva come un dannato, pur di tornare da lei. L’agnello del cortile aveva una madre. Agata la sentiva belare - implorare - due giorni prima di ogni Pasqua. Una mela nasceva dall’albero. Il ranuncolo dal suo seme. L’uovo dalla gallina. E Agata? Era nata da una donna oppure il padre l’aveva raccolta per pietà dentro un cespuglio di more, come le aveva detto un giorno, per farla disperare? Quando rompeva le uova contro la tazza di porcellana, sentiva un’inquietudine che le palpitava nel petto. A covarle bene, a tenerle al caldo, quelle uova sarebbero diventate pulcini polli e galline. I figli dell’ovaiola. Rompere le uova era come uccidere. Era come ricordarsi ogni volta che da qualche parte si deve pur incominciare. Lei da dove cominciava? Suo padre, da solo, non era sufficiente. Era un uomo scuro, incapace di guardare. Non parlare con nessuno, la rimproverava: «Tieni gli occhi bassi e vieni alla fucina tutti i giorni alle undici in punto». Se Agata tardava, erano due colpi di catena per ogni respiro di preoccupazione: «E ricordati che la frittata di cipolle mi piace alta, profumata e calda». Agata lanciava in aria la frittata. La seguiva mentre ruotava su se stessa e ricadeva nel centro della padella. Le domande senza risposta si espandevano sotto la crosta dorata e restavano immobili, a raffreddare.
2
L’appuntamento delle undici nella fucina del Fabbro fu l’unica occupazione di Agata fino a quando non ebbe l’età per la scuola. «Scuola?» domandò il padre. «Io non so scrivere, eppure ho un mestiere.» Andò in municipio a lamentarsi: «Mia figlia è buona per la casa e lì deve restare». «Sua figlia deve studiare» si impose il funzionario. «È la legge.» Ma quale legge e legge, urlò il Fabbro, l’unica legge che conosceva era quella dello stomaco e quella legge lì gli diceva che alle undici il sole è alto e il corpo stanco. È l’ora migliore per mangiare, l’unica legge cui sottostare. La milizia gli fece cambiare idea con un paio di discorsi e qualche bastonata. L’Italia era in guerra e, nel continente, la santa impresa uccideva gli uomini e lasciava vedove le donne. Rubava il lavoro, obbligava alla fame i vecchi e i bambini. L’isola non era stata toccata: «È il paradiso in terra» dicevano i marinai che attraccavano al porto. Una preghiera a Dio e una al Duce, ordinava il maestro, per preservare l’isola dal fuoco dell’inferno. Era il tempo dell’ordine e della disciplina. Il maestro aveva una bacchetta di legno che serviva a punire le alunne con le orecchie sporche e quelle che non sapevano risolvere i problemi: «Diciotto giovani italiane partecipano a una gita» dettava l’insegnante dall’alto della predella. «Se tutte pagassero, la quota sarebbe di 17,50 lire. Siccome pagano soltanto quindici giovani italiane, quanto paga ciascuna di esse?» Quel problema, per Agata, era una tribolazione. Perché tre giovani italiane non potevano pagare? Forse erano povere, oppure disgraziate. Eppure don Carmelo predicava dal pulpito della chiesa patronale che «siamo tutti uguali davanti agli occhi di Dio». Agata alzò la mano durante l’ora di calligrafia: «Signor maestro, il parroco dice che siamo tutti uguali davanti agli occhi di Dio». «E allora?»
«Se tre giovani italiane non possono pagare, significa che don Carmelo è un bugiardo.» Il maestro si fece rosso, ma solamente in faccia. Prese Agata per i capelli e la trascinò per la classe e poi oltre, lungo il corridoio: «Guardate che fine fanno le teste calde. Bisogna raffreddarle!». In quegli anni, sull’isola sbarcavano decine di prigionieri: «Comunisti» si mormorava, e la semplice parola costava due notti di galera. La locanda chiudeva al tramonto. Per andare al porto di notte, i pescatori dovevano avere un permesso firmato dal Podestà. I maiali si macellavano nei giorni comandati e i bambini della scuola imparavano a marciare. Dest sinist dest sinist, gridava il maestro, uno due uno due, ripeteva Agata nella sua testa, stando attenta a non abbassare il mento. Marciare per non marcire. Il sabato andava nel piazzale della scuola, per i pomeriggi della salute che facevano bene al corpo e allo spirito. In camicetta bianca e gonna nera, si allenava rincorrendo cerchi di metallo e nastri di raso. Ripeteva Dux mea lux fino a farsi mancare la voce e salutava l’alzabandiera con il gesto sicuro del braccio destro, altrimenti il Podestà avrebbe umiliato e punito. Il cambiamento fu così rapido che Agata non ebbe neppure il tempo di rendersene conto. Successe un giorno, all’improvviso. La gente, abituata a nascondersi e a obbedire, si fece coraggio e scese per strada. Si affacciò ai balconi e alle finestre. Chi comandava scappò, chi fuggiva tornò, l’amico si trasformò in nemico, il nemico divenne amico, in una gran confusione di ruoli, colori e accadimenti. Fu il miracolo più grande cui Agata ebbe il piacere di partecipare, l’unico nel quale infilò il dito per il gusto stesso di rigirare. Zia Teresa disse che era tutto merito dell’Altissimo e Agata non ebbe motivi per dubitare. Dio aveva liberato l’isola dalle marce e dalle bacchettate. Aveva saldato i debiti delle giovani italiane che non potevano pagare. Aveva svuotato le celle e lasciato partire decine di navi, cariche di persone con il tricolore al collo. Aveva cacciato il maestro nero e lo aveva messo ad arrostire insieme alle anime immeritevoli di redenzione. Al suo posto aveva mandato sull’isola una maestra dal sorriso grande. Al porto i marinai masticavano il tabacco insieme alla parola libertà. «Cos’è la libertà?» chiese Agata. «È un’idea migliore delle altre» le sussurrò la maestra in un orecchio, chiudendo le mani a conchiglia come se quella frase fosse un segreto o forse una bestemmia. Agata rise per il piacere che la confidenza solleticava al suo orecchio. Rise per il piacere di ridere.
«La guerra continua» gracchiava la radio dell’osteria, eppure per Agata cominciava un tempo nuovo. Ogni lunedì mattina, la maestra accompagnava la classe al molo: «Guardatevi attorno» diceva agli alunni. «È il modo migliore per imparare.» Vicino alla spiaggia, i cacciatori di polpi spiavano i fondali attraverso i vetri montati al fondo delle latte di conserva. Poco lontano, i pescatori usavano i fili di rame per spingere i granchi fuori dagli scogli e infilzarli con le fiocine artigianali. Le zaccarene, di ritorno dal mare aperto, odoravano dell’ultimo carico di pesce e di reti stese al sole. Sotto l’arcata del porto un vecchio aggiustava le nasse, mentre la venditrice di corredi trascinava i suoi borsoni fino ai vicoli del borgo, per vendere biancheria ricamata e qualche sogno. Agata era una bambina curiosa. La sera scriveva sul quaderno ciò che aveva visto e imparato, stando attenta a non sporcare la pagina con una sbavatura d’inchiostro. Scriveva di maree, dei venti e dei cocci antichi che, ogni tanto, si impigliavano nelle reti a strascico. La maestra le diceva: «Sei intelligente. Devi andare sul continente, devi studiare». Agata non conosceva il continente. C’era un noi e c’era un loro a separare gli isolani dal litorale. Il continente era lontano uno due dieci giorni di navigazione e i suoi abitanti erano verdi con i capelli blu, mangiavano sterco di vacca e respiravano dalle branchie. Eppure la maestra, che veniva dalla Liguria, aveva i boccoli dorati e il sorriso profumato di liquirizia. Diceva che il continente era un posto non troppo lontano dove la gente indossava vestiti eleganti, viaggiava sulle automobili, leggeva libri rilegati in pelle e discuteva di politica. Sull’isola non esisteva la politica. C’era bianco e c’era nero. Guai a dire rosso. C’era giusto e c’era sbagliato. Possibile e impossibile. Vero e falso. Il pensiero degli isolani non conosceva l’opinione: «Un’opinione si forma. Un credo si sposa» diceva l’insegnante come se Agata fosse grande abbastanza per comprendere. «Anzi, è lui a sposare te, che tu lo voglia oppure no.» Agata non voleva sposare nessuno, men che meno il signor Credo che le sembrava un vero prepotente. Se ne sarebbe andata, un giorno, proprio come fece la maestra dopo averla salutata dalla banchina del porto. «Sai cosa significa il tuo nome?» le domandò prima di partire. «No.» «Buona. Sarai una donna buona. Ne sono sicura, anche se non ti vedrò crescere. Sono stata trasferita» disse sfiorandole il volto. «Questo è il mio nuovo indirizzo. Cercami. Posso fare molto per te». La maestra sorrise e Agata sentì il profumo della liquirizia. «Se conto fino a tre, ritorna» mormorò Agata chiudendo gli occhi. «Uno, due...» Li
riaprì: «Tre!». Cercò la rampa dell’imbarco e vide le spalle della maestra avvolte in una giacca pallida. La donna non si girò a salutare. Agata prese il foglio a righe piegato nel mezzo e lo nascose sotto il vestito, tra il colletto e la maglia di lana che serviva per l’inverno. Non lo avrebbe mai aperto. Il foglio a righe sarebbe rimasto nel suo petto fino a diventare nero di sudore e sabbia. Era la prima volta che il suo petto conteneva qualche cosa di concreto. Un nome, un indirizzo, una possibilità. Con gli anni avrebbe accolto un uomo, una figlia e una serie di dolori. A quel tempo Agata non lo sapeva. Strappò senza aprirle le lettere della maestra che arrivavano con cadenza quindicinale dal continente, fino a stancarsi, fino a rinunciare. Al termine dell’obbligo scolastico, arrotolò il diploma in un foglio di giornale e lo mise nel sottotetto con i quaderni e i libri di lettura dove il suo nome appariva in bella calligrafia sul frontespizio. Cominciò a lavorare come sguattera alla locanda del porto. Non era un posto da donne, rimproverava Teresa al fratello che obbligava la figlia a darsi da fare: «Sopravvivrà» rispondeva il Fabbro. Agata puliva il pesce e le verdure, serviva in tavola, lavava le stoviglie e stava appresso alla padrona che aveva sempre un acciacco da maledire o un cliente da bistrattare. La sola pausa della giornata era quella, inevitabile, delle undici in punto.
3
La memoria degli isolani si perdeva nel tempo in cui lo stato aveva ordinato la costruzione del Monte, così sull’isola chiamavano il carcere. Il Monte era un complesso di quattro edifici disposti a croce, ampliato da due nuovi bracci che spuntavano dall’ala nord della struttura. Per raggiungerlo bisognava risalire uno sterrato e attraversare un tratto di pietre trascinate a valle da un temporale. Il Monte poteva ospitare fino a quattrocento carcerati in regime di stretta sorveglianza. Situato nel punto più alto dell’isola, era esposto ai venti e alla natura ed era, insieme, un luogo di pena e contemplazione per le rare anime capaci di resistere alla noia della detenzione. Nei giorni di brezza, dalle sbarre del Monte si vedevano le altre isole dell’arcipelago, adagiate sul mare come bagnanti appagati dal sole. L’isola senza nome invece era aspra. Lungo i suoi pendii, la natura incastrava le radici nella terra e tendeva i rami verso il Monte. L’isola intera spingeva, premeva, si affaticava per finire contro il tetto piatto della prigione. Nel borgo costruito attorno al porto, gli abitanti vivevano di attività utili al carcere. Tra loro, il padre di Agata batteva il ferro per tutto il santo giorno per tutti i santi giorni della sua misera vita, per fare e rifare le sbarre che i detenuti provavano a forzare. Il Fabbro era abituato alla violazione e alla ricostruzione, e di quei ritmi era fatta la sua giornata. Ogni mattina alle undici Agata gli portava pane vino rosso e frittata di cipolle. Pane vino rosso e frittata di cipolle. Pane vino rosso e frittata di cipolle. Ogni mattina e senza sgarrare, altrimenti il Fabbro l’avrebbe punita con un ceffone. Aveva preso un ceffone quando si era fermata lungo le pendici del paese a guardare i papaveri che avevano avuto l’ardire di fiorire tutti insieme, durante la notte. Si era presa un ceffone il sabato in cui era diventata donna e si era trovata impreparata davanti al sangue e all’ignoranza. Infine, il giorno dopo aver conosciuto Dumitru Serban, il cavallerizzo del circo Vallone.
Agata sapeva che gli uomini e le donne corrono il rischio di innamorarsi. Glielo aveva spiegato zia Teresa, quando Agata le aveva detto che stava per morire perché il sangue le aveva sporcato le cosce e non la smetteva più di scendere: «Non morirai, sciocca ragazza. Sei appena nata». La sola cosa alla quale avrebbe dovuto fare attenzione erano gli uomini «perché sono gentaccia. Ti prendono e poi ti sbattono a fare la serva. Pace all’anima di tua madre, che ti ha lasciata qui da sola a dovertela cavare». Portare il circo sull’isola era stata un’idea del Direttore. Quell’uomo era un pazzo, lo dicevano le guardie quando scendevano in paese. Voleva uno spettacolo per celebrare i settant’anni del carcere, settant’anni di storie chiuse dentro celle troppo strette. Il Direttore si era messo in testa di festeggiare il Monte durante la festa del patrono. Chissà cosa voleva dimostrare o quali desideri voleva risvegliare. Sapeva che, per i detenuti, la festa di sant’Elmo era l’ennesimo orizzonte da desiderare. Il 2 giugno i carcerati si ammassavano contro le finestre del settore orientale per guardare i fuochi di artificio sul mare, con i gomiti del vicino in testa e le ginocchia conficcate nelle cosce del dirimpettaio. Anni prima, dal carcere erano arrivate le proteste di cucchiai, pitali, sedie e tavoli che battevano contro le inferriate. Sull’agorà dei poveri c’era stata la rivoluzione, destinata a perdersi in una nuvola di fumo nero. Per evitare il ripetersi di tanta confusione, il Direttore si era recato di persona a Roma. Voleva convincere il Ministero della bontà della sua intuizione. Invitare il circo sull’isola per i settant’anni del Monte sarebbe servito a rallegrare gli occhi dei detenuti e ad acquietarne gli animi. Aveva portato carte, fotografie e la ricerca di un certo dottor Pastello, noto scienziato brasiliano e specialista in benessere, che aveva messo nero su bianco «i benefici della risata in contesti di elevata frustrazione. E il carcere, signori miei, è uno di questi» aveva detto ai commissari riuniti per ascoltarlo. Il Direttore era un originale. Portava pantaloni bianchi a sigaretta e scarpe a punta. I baffi erano sottili e ben curati. Profumava di acqua di colonia. Il Ministero lo aveva mandato sull’isola perché il Monte era un inferno di anime vive e un tipo del genere doveva respirare lo zolfo, per farsi i polmoni spessi. Lui, che aveva sempre sognato di fare l'étoile e leggeva Maupassant, si era laureato in legge per far piacere al padre magistrato. Appena arrivato al Monte, aveva dato una rinfrescata alle pareti. Proprio così. Aveva chiamato il vicedirettore e aveva detto: «C'è puzza di chiuso. Diamo una rinfrescata alle pareti».
E tutti, detenuti guardie e direttivo al gran completo, col pennello in mano lì a passare due mani di color Sahara. Anche su questo non aveva voluto sentire storie: «Color Sahara» aveva ordinato, e al vicedirettore cerano voluti due viaggi nel continente, cartoline del Nord Africa e quindici latte di prova prima di riuscire a soddisfare le richieste del superiore. Quelli di Roma si erano subito allarmati: non s’era mai vista una cosa del genere in una casa circondariale. Avevano sfogliato i codici, eppure il Direttore non violava nessun regolamento. Lavori di miglioria della struttura, aveva scritto sul foglio di ordinanza, e in effetti la miglioria c’era stata. Non solo nell’ambiente che, a detta delle guardie, era diventato decoroso, quanto nell’umore dei detenuti. Godere di una discreta libertà all’interno delle mura del carcere, l’impegno quotidiano e la strana situazione di vedere accanto a sé, pennello in mano, niente meno che il capo e i vicini sottoposti, avevano creato un’atmosfera talmente irreale da generare rispetto. Durante l’orario di lavoro nessuno parlava. Ci si limitava a spennellare con vigore, dall’alto verso il basso e tutti nella stessa direzione, si era tanto raccomandato il Bianco, il Direttore. E lui era lì, il primo a cominciare e il solo a non fumare. L’unica sigaretta era quella del Pantalone, per l’occasione color Sahara, quasi a confondere le macchie. Due furono gli effetti di quella follia: i detenuti tornarono nelle proprie celle senza bestemmiare e le proteste, che tante volte avevano incendiato il Monte, presero la via della parola. Dopo il felice esperimento, il Bianco proseguì con le riforme. Fece recintare la riva sud del Monte e la adibì all’allevamento di capre. Chiese a un isolano di insegnare ai detenuti l’arte del formaggio. I detenuti impararono a preparare il caglio e a lasciarlo riposare. Fecero un formaggio così profumato da diventare famoso persino sul continente. Caprini alle erbe del Monte. Prigionieri del gusto, diceva la confezione artigianale. I detenuti essiccarono il timo e l’origano, per conservarlo dentro i barattoli che il Bianco aveva recuperato dalla farmacia di un convento. Ora et labora, scrivevano i benedettini sui vasi di ceramica. E don Carmelo non mancava di ripeterlo: «Il lavoro avvicina a Dio». Anche il piacere, anche la bellezza, e ci pensava il Bianco a far ritornare a un Dio che sapeva di umano e di presente. Il Direttore fece montare dieci arnie sul versante occidentale del Monte. Le api facevano un miele di castagno amaro e così scuro da mortificare l’occhio: «È squisito» diceva il Bianco. Ogni tanto, per addolcirlo, qualche detenuto aggiungeva del millefiori.
Quando il Bianco se ne accorgeva erano dieci giorni di sospensione dal lavoro. Dieci giorni di noia. Alcuni lo facevano apposta. Per loro il lavoro era un castigo. Restavano nelle celle a riposare, ma presto si accorgevano del tempo che si allungava soltanto per farli disperare. Allora chiedevano di avvicinarsi all’orto, per chinarsi sull’insalata novella e sui pomodori che cominciavano a spuntare. Davanti ai risultati, quelli del Ministero chiusero codici, regolamenti e occhi, per poi tornare a spalancarli di fronte alla nuova richiesta del Direttore: «Il circo?» si stupirono i commissari. «Certo, e non uno qualsiasi. Voglio il circo Vallone.» Quello degli zingari! Quello dei mascalzoni! La mano destra che lava la sinistra! La paglia vicino al fuoco brucia! Ne uscirà uno scandalo! Una vergogna! Un’offesa alla pubblica morale! Il Bianco tirò fuori un sorriso e un tomo di duecento cartelle redatte dal mai sentito prima dottor Pastello che, a detta del Direttore, era il massimo esponente nel campo del benessere: «...consulente niente meno che del presidente degli Stati Uniti in persona e anche, è notizia fresca e non ancora diffusa, del temibile governo dell’Unione Sovietica che, con il Pastello, si apre al rinnovamento e alla tutela dei suoi cittadini». La storia di Mosca aveva impressionato. Come avrebbe potuto spararle tanto grosse, il Bianco, se non fosse stato sicuro di sé? Certo, la questione andava verificata perché un circo in un carcere non si era mai visto. Il pericolo di evasioni sarebbe stato elevatissimo. «Lo escludo» sostenne il Direttore, prendendosi persino la libertà di uno sbadiglio. «Su che basi?» «Queste» e giù un colpo deciso sul tomo del Pastello. «Pagina 23, secondo capoverso. L’interazione positiva con il mondo esterno responsabilizza il gruppo, a tutela del beneficio ottenuto. È qui, leggete, signori, non conto frottole. Nero su bianco: nessuno scapperà.» A garanzia dell’affermazione, allungò una busta chiusa con la ceralacca: «Queste sono le mie dimissioni. In caso di fuga di uno solo degli ospiti del Monte, sono pronto a lasciare. Io mi prenderò qualsiasi responsabilità e voi vi toglierete dall’impiccio». La busta scivolò sull’ovale di noce.
Ci sono fruscii che suonano a festa. Levarsi il Direttore di mezzo e uscirne innocenti come dopo il battesimo, valeva il rischio di un’evasione. Le dita grassocce dei commissari cominciarono a tamburellare. Gli sguardi si incrociarono. Le lingue si seccarono. «Come ha detto che si chiama, l’esperto brasiliano?» «Dottor Pastello.» «Deve essere un tipo in gamba.» «Proprio così.» «Un luminare.» «Il massimo esponente internazionale.» Il Bianco ebbe l’autorizzazione del Ministero. Tornò da Roma con il mercantile del martedì e risalì al Monte dentro le scarpe a punta, troppo cittadine per gli sterrati dell’isola.
4
Gli abitanti lo chiamavano il Bianco per il colore dei pantaloni e il pallore della carnagione che non si abbronzava mai, nemmeno durante i mesi estivi quando l’aria, da sola, era sufficiente ad arrossare. Il Direttore profumava come una donnicciola e, prima di parlare, si passava la mano destra sul volto. Si faceva una carezza. Eppure era capace di dire sì e dire no. Si faceva rispettare persino dagli isolani che, la sera, lo incrociavano alla locanda del porto, seduto a un tavolino come uno qualunque dei marinai che transitavano da lì. Diceva buonasera e grazie, parole che facevano vergognare i maschi, «quelli veri». Ordinava frutti di mare, branzino, pesce spada, zuppa di cozze. Ogni sera qualche cosa di diverso. Ogni sera un ringraziamento all’universo che gli aveva concesso il piacere di quel pasto: «Ah bambina, bambina,» diceva ad Agata che nel frattempo era diventata femmina «quanto è bello il mondo e quanto è buono Dio». Agata nascondeva nel grembiule la moneta di mancia che il Bianco le lasciava sul tavolo, per paura che la padrona la obbligasse a riportarla insieme al conto. Quella moneta era roba sua e, prima o poi, le sarebbe servita per comprare quattro metri di raso bianco. Un giorno si sarebbe sposata, come diceva zia Teresa, «ché la donna, se nessuno se la piglia, è una gamba zoppa». Lei non voleva essere una gamba zoppa. Sarebbe stata una sposa meravigliosa, chissà quando, chissà per chi. La nuova stagione della vita, che si era aperta col sangue, le aveva portato seni pesanti e fianchi robusti. Sani. I capelli sfuggivano dal fazzoletto di cotone che la padrona la obbligava a tenere in testa. Appena uscita dalla locanda, Agata si sfilava il fazzoletto e i riccioli scendevano giù, sotto le spalle. I marinai cominciavano a guardarla. Quand’era bambina, e ossuta, e sprovveduta, le davano un buffetto sulla guancia: «Vuoi una caramella, la vuoi?» le chiedevano.
Da quando aveva avuto il sangue, nessuno le aveva più offerto caramelle. Nessuno l’aveva più sfiorata. Aveva avuto il sangue e si vedeva, anche se zia Teresa la costringeva a nasconderlo sotto due gonne nere e a lavare le pezze al mare, la notte, mentre gli isolani dormivano e i marinai bevevano. Agata correva alla spiaggia, sotto una fetta di luna insufficiente e benevola. Lavava le pezze con la stessa tenacia con la quale, di giorno, sfregava le camicie del padre sempre sporche di sudore. Ma quelle erano le sue pezze, le sue sporcizie. Pregne e benedette, misteriose e malefiche. Qualcuno l’avrebbe sposata, sì. Non sarebbe rimasta una gamba zoppa. Aveva braccia forti e non si stancava mai. Qualcuno l’avrebbe sposata. Un uomo che, chissà dove, dormiva o si ubriacava. Un isolano oppure un marinaio perché di questi uomini era fatto l’universo. E il Bianco che cos’era? I clienti della locanda dicevano che ci sono uomini che amano come le donne. Il Direttore era uno di loro. A lei era sembrato bellissimo. In fondo, che male c’era? Ma la risata degli isolani e l’alito pesante dell’osteria avevano trasformato l’impressione. Forse si sbagliava. Non era bellissimo. Cos’era bello e cosa no? Iniziava a confondersi. Una volta il Bianco le lasciò una mancia più generosa del solito: «Ricorda, bambina» si raccomandò. «La bellezza non si compra.» Perché continuava a chiamarla bambina? Lei aveva il sangue, non se n’era mai accorto? Stupido essere, i marinai facevano bene a ridere di lui. La sera in cui la padrona se ne andò dalla locanda reggendosi la pancia di nove mesi che iniziava a scalpitare, Agata si ritrovò da sola con il Direttore. Era lunedì, gli isolani erano già tornati a casa e i marinai sarebbero arrivati con il cargo dell’indomani mattina. «Il solito quarto di rosso e una porzione di capretto arrosto, bambina mia» ordinò il Bianco seduto al fondo della sala vuota. «Come dice?» chiese Agata avvicinandosi sulla punta dei piedi scalzi, per non fare rumore. «Un quarto di rosso e capretto arrosto.» Agata si fece prendere dall’agitazione: «La padrona non c’è. Io non so se...». «Grazie» la congedò il Direttore, sfogliando il giornale. Agata tornò in cucina e si appoggiò al bancone di marmo. Lei non era capace di cucinare, sapeva soltanto lavare le stoviglie e servire in tavola. Rientrò in sala: «Purtroppo il capretto... La padrona non c’è» disse servendo al Bianco
il quarto di vino. «Vuole una frittata di cipolle? So fare la migliore frittata dell’isola. O preferisce il polpo con prezzemolo e patate? La signora ne ha lasciate due porzioni, sono fresche di giornata.» «Capretto arrosto, bambina mia» confermò il Direttore sorseggiando il rosso. Agata non sapeva come fare. Le sarebbe dispiaciuto deludere il Bianco, proprio lui, che la ringraziava sempre: «Arrivederci e grazie» diceva facendo scivolare la mancia sul tavolo. Corse in cucina, si mise in vita il grembiule della padrona e strinse forte il laccio, a volersi obbligare. La cucina puzzava di mare. Sul bancone c’erano i gusci di una cena di cozze e due saraghi da pulire. Cercò nella ghiacciaia: «Sarei capace di friggere un paio di verdoni. Basta metterli nella padella e aspettare» si disse picchiando con un batticarne. «Invece no, capretto arrosto! Proprio questa sera.» Agata liberò un pezzo di carne dal ghiaccio e si preoccupò del suo cattivo aspetto. «Sarà capra?» si domandò. «Chi lo sa!» Mise a rosolare l’olio con il rosmarino e due spicchi d’aglio, la padrona faceva così. Buttò la carne nella padella, scostandosi in fretta per evitare la fiamma scatenata dal contatto. Il colore non era certo invitante. Più la carne rosolava, più si anneriva. Bisogna darle un aspetto invitante. Dopotutto anche le donne si mettevano il belletto. Non quelle dell’isola, pena lo zitellaggio, ché ai maschi piaceva l’odore del sapone o quello più sincero della pelle. Agata avvicinò il naso all’olio che sfrigolava e il gusto rancido che le invase le narici la convinse alla contraffazione. Non poteva deludere il Direttore, proprio lui, che si era tanto raccomandato. La bellezza non si compra, le aveva insegnato. Se suo padre avesse avuto più fantasia, Agata avrebbe preparato arrosti al vino, totani ripieni e frittelle di riso. Invece frittata di cipolle, alle undici in punto e senza sgarrare. Per colpa dell’abitudine era diventata un’incapace. Doveva rimediare. Si guardò attorno. Sul ripiano centrale della credenza c’era del miele di castagno. La padrona lo usava per le crostate e i decotti per la tosse. Era miele scuro, denso ed eccessivamente profumato. Consolava dai mali di stagione e profumava come i seni tondi della moglie del pastore. Il latte di capra ne avrebbe schiarito l’aspetto e ingentilito il sapore. Il rosmarino e il timo, perché il timo sull’isola si mette dappertutto. Una manciata, anzi due. La scorza di un limone, un pugno di sale e un cucchiaio di olio di oliva. Mele. Di mele ce n'erano in abbondanza, certe mele piccole e bacate che cadevano per compassione dall’albero dietro la locanda e che finivano col marcire dentro le giare di terracotta, tanto erano
selvatiche. La locandiera le raccoglieva insieme ai ramoscelli e alle foglie e, per conservarle, le cospargeva di miele: «La padrona non se la prenderà, se ne uso un paio». Le tagliò a fette sottili e le buttò nella padella, ammorbidendole con il vino bianco. Il cucchiaio di legno corse appresso al condimento che cominciava a indorare. «Da quanto tempo aspetta il Bianco?» Era passata un’ora o mezza vita, chissà. Agata aggiunse due cucchiai di latte, poi un bicchiere intero. A furia di girare, la salsa divenne pastosa, con un pizzico di luce sulla superficie croccante. Solleticava le narici e si espandeva dalla gola allo stomaco, fino a stuzzicare la fame. La ragazza mise il dito nel condimento. Aveva un sapore particolare, un misto di crema e muschio. Sapeva d’isola, di fianchi aspri e spiagge assolate. Agata accomodò la carne sul piatto e la ricoprì di salsa. Due cucchiai abbondanti. Tre, per non sbagliare. Uscì dalla cucina reggendo il piatto sopra la spalla destra. Per fortuna il Bianco era ancora seduto al suo posto. Quando la vide arrivare, il Direttore sistemò il giornale sulla sedia accanto a sé e aprì il tovagliolo. Gli uomini dell’isola si pulivano la bocca dentro l’avambraccio, le donne sollevavano il grembiule. Il Bianco invece stringeva il tovagliolo tra l’indice e il pollice e lo faceva dondolare davanti al petto, prima di farlo scivolare sulle ginocchia. Che vergogna. Lui era un uomo di classe, un gran signore. Quel pasto improvvisato avrebbe disonorato i suoi riti, Agata ne era convinta mentre posava la pietanza sul tavolo. Quel pasto raffazzonato avrebbe smorzato i buoni consigli, messo fine alle generose mance, assassinato il piacere con il quale il Direttore condiva il quotidiano. Ah, si maledisse Agata, se solo il piatto non avesse fatto rumore, battendo contro le posate. Se la padrona non avesse avuto le doglie. Se la carne non avesse avuto quel terribile colore. Se il Bianco si fosse accontentato di un paio di verdoni. Se suo padre fosse stato un uomo di fantasia. Il Direttore guardò il piatto. Avvicinò il naso: era un naso a punta, con una ruga profonda nel mezzo. Afferrò la forchetta e rigirò la salsa. Mela? Che idea! Il Bianco fece una smorfia e Agata promise due messe ai defunti e un mazzo di rose per la cappella dell’Incoronata: avrebbe fatto anche questo pur di togliersi dall’imbarazzo. Avrebbe venduto l’anima alla Vergine, e la semplice intenzione le costava. La Santissima le aveva sempre fatto una certa impressione. Fin da quando era bambina, zia Teresa la costringeva a inginocchiarsi davanti alla statua dell'Immacolata e lei fingeva un giramento di testa o una fitta al ginocchio per potersi rialzare. Santa Vergine delle vergini, si mise a invocare.
Il Bianco impugnò il coltello e cominciò a tagliare. Prega per me. Sotto la salsa, si intravedeva il colore della carne andata a male. Per fortuna il miele l’aiutava. Il Bianco portò la forchetta alle labbra. Agata ne era sicura. Il Bianco si sarebbe riempito la bocca di carne, avrebbe masticato in maniera circolare e infine avrebbe vomitato una poltiglia. La giumenta della zia Teresa faceva così, quando voleva protestare. Invece il Bianco deglutì. Tagliò un secondo pezzo di pietanza e lo accolse tra le labbra sottili. Un altro, un altro ancora. Sorrise. Ride. Sorride. Ride o sorride? Chi lo sa. «Bello» disse il Direttore. «Buono?» chiese lei. «Bello.» Indecisa tra il dispiacere e la domanda, Agata si ritirò in cucina. Tornò soltanto a fine pasto, con il caffè e un bicchierino di anice. «Il conto?» chiese il Bianco. «Il solito» rispose Agata ritirando il piatto vuoto. Il Bianco pagò e aggiunse una banconota da cento lire alla moneta di mancia: «Questo è per te e per il tuo capretto in salsa. Ce l’ha un nome, la ricetta?». «No.» «Chi te l’ha insegnata?» «L’ho inventata.» «Hai fatto tutto da sola?» «Sì.» «E allora capretto in salsa Agata. Cento lire al piatto. Nessuno si lamenterà per il prezzo, vedrai.» L’indomani il Bianco tornò. La padrona no, sudava ancora tra le lenzuola del parto: «Formaggio in salsa Agata» ordinò.
«Pollo in salsa Agata.» «Donzelle in salsa Agata.» «Sarde in salsa Agata.» E a furia di sentir nominare la salsa, gli avventori della locanda la vollero assaggiare. Di solito i marinai mettevano il sale grosso sulla carne, e l’olio verde dell’isola. Quella salsa invece toglieva la fatica dai denti, sollevava dalle pene della fretta, obbligava a masticare adagio. Ci vollero almeno due porzioni a testa per farli abituare. La padrona tornò la settimana successiva con il figlio giallo di parto. Stava in cucina e supplicava: «Prendi sta tetta, Giovanni, prendi sta tetta e piantala. Mi farai morire di dolore». In sala, intanto, c’era la rivoluzione. Alla locanda non si era mai vista tanta gente. La padrona aveva chiamato la nipote a servire in tavola, adesso che Agata era impegnata dietro un pentolone dove mischiava senza misura miele, latte e cotogne. Quell’anno il melo selvatico avrebbe dovuto dare più frutto, maledetto l’albero e maledetto l’uomo che l’aveva piantato. Cento lire al piatto e venti clienti a pasto: «Di questo passo ingrandirò la locanda. Comprerò i fuochi nuovi» ragionava la padrona «e il raso per la culla di Giovanni, se Dio lo conserva in salute. Prendi ’sta tetta e piantala, figlio mio, prendi sta tetta e piantala». Prima o poi avrebbe obbligato Agata a dirle che cosa metteva dentro la padella, per quanto tempo e in quale quantità. Finalmente non avrebbe più avuto bisogno di quella ragazzina che, a dirla tutta, la spaventava. La figlia del Fabbro s’era portata via la madre, e non c’era malocchio peggiore del sangue che succhia il proprio sangue. La salsa di Agata era frutto di Satana perché piaceva alle donnicciole e anche ai marinai. Agata ci metteva il dente di aspide sminuzzato con il pestello. La padrona l’aveva vista con i suoi occhi ed era corsa a dirlo al parroco: «È una strega, glielo dico io». Don Carmelo le aveva detto di non preoccuparsi, ché il Signore vede e provvede. La clemenza del prete non le aveva dato soddisfazione. Dopotutto che cosa pretendeva da un vecchio che non beveva vino? Nemmeno durante la messa. Don Carmelo ci metteva il succo di mirtillo, in paese lo sapevano tutti, e se i chierichetti per scherzo riempivano l'ampolla di vino rosso, lui faceva finta di bere e alla fine della messa li prendeva a cinghiate. Ci avrebbe pensato da sola, a sbarazzarsi della ragazza. Per prima cosa, avrebbe cambiato il nome della salsa. Pollo in salsa Giovanni, dopotutto l’erede si chiamava così. Capretto in salsa Giovanni. Zucchine in salsa Giovanni. E che onestà, che gran cuore di madre aveva, nel preparare la strada all’amato figliolo:
«Intanto prendi ’sta tetta e mangia, disgraziato, tu perdi tempo e quella s’ingrassa». Agata doveva sopportare le scortesie della padrona e le lamentele dei clienti: «Allora, questi involtini in salsa!» gridavano dalla sala. Allora, queste sarde in salsa, queste melanzane in salsa, queste alette in salsa. Perché da quando c’era la salsa, la gente era diventata più esigente. Prima gli avventori si accontentavano di salsiccia e uova, adesso piantavano i gomiti sui tavolacci e impugnavano le posate. Volevano gustare. Avere la soddisfazione di cambiare. Alle sette del mattino Agata era già alla locanda. Si stringeva il grembiule in vita, puliva le verdure e infarinava il pesce. Sul fuoco piccolo, il tegame del soffritto. Su quello grande, il latte a bollire. Al centro le donzelle messe a friggere, nel forno il capretto. Grazie alla salsa Agata, la padrona si era comprata una bottega di alimentari proprio davanti alla chiesa patronale mentre ad Agata entravano in tasca gli stessi denari del suo tempo da sguattera. Soltanto il Bianco la premiava ogni sera con due monete di mancia. La padrona non poteva sopportare l’affronto: «Ladra» le gridò un martedì, prima della chiusura. «Dammi quei soldi, dammeli. Sono miei, ladra, ladra e sciagurata!» Le strappò la tasca del grembiule a furia di tirare e Agata tornò a casa piena di vergogna. «Promettimi una cosa» le disse il Bianco dopo aver fatto scivolare l’ennesima mancia sul tavolo. «Che cosa?» «Se qualcuno ti domanda la ricetta della salsa, tu sorridi. Sorridi sempre e sbaglia ingredienti e dosi. Me lo prometti?» «Perché?» «Prometti e basta.» «Lo prometto.» Scostò il tovagliolo dalle ginocchia e si alzò. «Ti piace il circo?» chiese. «Non l’ho mai visto.» «Domani al porto attraccherà un mercantile. Vai ad aspettarlo. Sbarcheranno gli elefanti e le giraffe, i nani e i giocolieri. Vai a vedere, ti piacerà.» E Agata andò, con addosso la gonna di stracci e il grembiule da lavoro. Il fazzoletto no, quello lo stringeva tra le mani. I suoi riccioli, splendidi e corvini, brillavano sulla riva tra le ghiaie d’argento.
5
Quando la carovana del circo Vallone sbarcò sull’isola senza nome, gli abitanti comparvero alla spicciolata lungo il molo. Curiosi i bambini, timorosi gli adulti, induriti dalla convinzione che ci si debba accontentare dell’abitudine. La nave che accompagnava i circensi era un mercantile diretto in Spagna, ben lieto di alleggerire il carico da animali, zingari e casse di vestiti. Quel giorno, esseri davvero strani fecero la loro comparsa sull’isola: dromedari, lama, buoi watussi, persino elefanti indiani. Due zebre dal manto a strisce, dodici andalusi bianchi, tre palomini e una giraffa. E infine un popolo disordinato di bambini mezzi nudi, donne dalle carni esposte, vecchi soddisfatti di un sigaro e uomini dagli odori forti. Tabacco, sudore e ţuică. Grappa di prugne. Gli artisti riempirono la riva e gli abitanti rimasero a guardare. Si mantennero a distanza perché l’isola, da che esisteva il vento e da che esisteva Dio, era un luogo da attraversare a testa bassa, rasente ai muri a secco delle abitazioni. Bisognava confondersi con la natura nel tentativo, un po’ goffo, di non prevaricare. Le isolane si nascondevano sotto abiti neri senza fantasia. Portavano il fazzoletto in testa per le fatiche della casa e il velo per le domeniche del Signore. Sgranavano il rosario e si lasciavano maritare perché quello era il destino e non si doveva cambiare. E allora, si domandava Agata, perché le donne del circo avevano seni che traboccavano dai reggipetti? Cos’era quel rossore sulle loro guance, così lontano dall’imbarazzo? E i sorrisi, soprattutto, gli sguardi rivolti a catturare altri sguardi. Gli atteggiamenti scomposti, la voce sguaiata, una certa audacia di atti e intenzioni? Dumitru Serban era della carovana. Aveva la pelle olivastra e un nome scuro. Parlava una lingua che Agata non conosceva. Madre, si chiama così la lingua che ci sta bene addosso. E a lui, il romanes stava bene come la camicia aperta sul davanti e la croce ortodossa che scendeva in mezzo al petto. Era alto, di corporatura nervosa. Portava un cappello che
non c’entrava nulla con la sua persona e che raccontava molte cose di lui. Si capiva dal modo con il quale Dumitru lo rigirava tra le dita per poi lanciarlo in aria e coglierlo al volo al suo ritorno. Quel gesto lo faceva sembrare felice. Poteva avere vent’anni e insieme cinquantasei. Agata lo vide arrampicarsi su una pila di bauli: «Vallone, Badi, Sandu, Vlal, Caldes, Manole» urlò. La carovana si organizzò per famiglie e si incamminò lungo lo sterrato che conduceva al carcere. Dumitru attese la partenza dell’ultimo drappello di circensi, poi si calò il cappello sulla fronte e prese la via del Monte. Gli isolani cominciarono a mormorare. Bisognava chiudere a chiave le case e sorvegliare i bambini. Gli artisti erano zingari. Il Direttore li aveva chiamati a festeggiare il giorno del patrono e, per colpa di un simile affronto, di certo sant’Elmo si sarebbe rovesciato dalla barca. Gli isolani avrebbero pagato il conto di quel torto con un anno di tempeste e sventura. Per fortuna lo spettacolo era riservato ai detenuti, che avevano già il loro carico di purgatorio. L’unica isolana ammessa al Monte era la figlia del Fabbro. Per una sola giornata di lavoro, il Bianco le aveva offerto più del doppio del salario mensile: «Agata, vuoi salire al Monte?» le aveva domandato il Direttore. «A fare che?» «A cucinare la tua meravigliosa salsa.» «Mio padre non mi darà il permesso.» «Ti pagherò due volte e mezzo il tuo salario.» «Due volte e mezzo il mio salario per una sola giornata di lavoro?» «Sì.» Finalmente, davanti all’abbondanza, il padre avrebbe smesso di darle dell’incapace. Per Agata sarebbe stata una rivincita, una piccola soddisfazione. In ogni porto, i marinai raccontavano che sull’isola senza nome c’era una salsa capace di allietare i vivi e risvegliare i morti. Eppure il Fabbro non aveva cambiato le proprie abitudini: la mattina, alle undici in punto, pretendeva pane vino rosso e frittata di cipolle, pane vino rosso e frittata di cipolle. Non aveva avuto neppure la curiosità di assaggiare. Forse l’offerta del Bianco gli avrebbe fatto cambiare idea. La notte prima di salire al Monte, Agata attinse l’acqua dal pozzo, riempì la tinozza e immerse le carni fredde di sonno. Sfregò mani e piedi con sale e bucce di limone. Lavò i riccioli con l’olio d’oliva. Si accarezzò la pelle con il sapone e si asciugò in un panno messo
a scaldare accanto al fuoco. La giornata era speciale: «Merita colore» le aveva suggerito il Bianco. Per l’occasione Agata mise da parte le gonne nere e indossò un vestito di cotone azzurro scovato tra le giacche del padre, dentro la fodera di una casacca da viaggio. Più volte aveva frugato tra gli armadi di casa in cerca di un segno femminile. Le sarebbe bastata una forcina o un fazzoletto ricamato per avere la certezza di essere stata partorita da una donna. Aveva trovato soltanto un libro di preghiere con due iniziali che non conosceva, IG. Tra le pagine del breviario, c’erano un’immagine benedetta e una moneta d’argento. Quegli oggetti sarebbero potuti appartenere a chiunque. Ma il vestito azzurro no. Il vestito azzurro le dava la certezza di essere nata da una donna. Era di fattura semplice. Un cotone robusto, con bordature fatte a mano. Aveva il collo tondo e la mezza manica. Scendeva dritto fino alle tasche cucite sui lati. L’orlo era doppio, calcolato da un sarto che non accettava l’idea che la vita accorciasse i giorni e, insieme, le altezze. Per il suo giorno di lavoro al Monte, Agata arrotolò il vestito tra le mani e se lo infilò dalla testa. Il cotone le scivolò addosso e arrivò sotto le ginocchia. L’abito aveva una cintura, un vezzo che all’isola non era di moda. Agata la fece scorrere nei passanti e immaginò l’altezza alla quale, anni prima, la madre aveva stretto i capi per disegnare una doppia asola. Le piaceva la parola madre. Trattenne il respiro e si cercò nel riflesso della finestra che dava sul cortile. Trovò la sua immagine tra i vetri opachi. Aveva il seno. Aveva i fianchi. Passò le mani sulla stoffa e si stupì della libertà che regalava. Aggiustò il collo che tendeva a sollevarsi e imbastì in fretta un dito di orlo che minacciava di cedere. Cacciò le gonne nere sotto il letto del padre. Lo fece con il gesto arrabbiato del piede sinistro. Sistemò i capelli con una forcina d’osso e uscì. A differenza delle donne sbarcate sull’isola con il circo Vallone, Agata non possedeva scarpe. Il giorno prima, al molo, aveva osservato le circensi che scodinzolavano in cima a scarpe coi tacchi, scarpe dorate, scarpe a punta, scarpe da ballo. Le aveva ammirate volteggiare sopra centimetri di niente, in punta a tacchi sottili come mignoli. Forse la giornata al Monte le avrebbe dato la possibilità di rimediare. Avrebbe approfittato della calura del primo pomeriggio per curiosare tra i bauli delle artiste. Avrebbe trovato scarpe di vernice. Rosse. Alte cinque dita. Le avrebbe appoggiate a terra, una accanto all’altra, e ci avrebbe infilato i piedi. Sarebbe cresciuta di una
spanna, di dieci, sarebbe cresciuta al punto da solleticare il cielo. Si sarebbe accomodata su una nuvola e da lassù, immobile, sarebbe rimasta ad aspettare. Ché camminare sopra quei trampoli non era certo cosa sua. Una statua, ecco cosa sarebbe diventata, con la cintura in vita e la caviglia finalmente snella. Una statua col sorriso. La gente si sarebbe fermata a guardare e avrebbe buttato qualche moneta a terra, proprio come si fa davanti alle cose belle. La bellezza non si compra, le aveva detto il Bianco, ma lei sognava di essere in vendita, anche solo per un giorno. Con i lembi del vestito tra le mani, Agata seguì i tornanti che salivano al Monte. Fece attenzione a non impigliarsi tra i fichi d’India e i rami di rosmarino. Accanto a lei, gli esseri umani rosolavano nell’estate e l’isola bisbigliava di cicale e polvere. Tutto attorno, il mare. Nei giorni di bassa marea il Mediterraneo odorava di pesce, in quelli di alta profumava di sale. Nei giorni tranquilli riposava, in quelli di tempesta gridava. Non conosceva misura. La settimana prima il mare si era portato via due fratelli, se li era presi a pochi chilometri dalla riva. Chiunque sull’isola sa leggere il vento. Uscire con il libeccio è una provocazione inutile. La barca dei pescatori, quel che rimaneva di lei, era stata ritrovata nella baia Verde. Si chiamava Letizia, come una donna o come la felicità. A bordo c’erano un grongo e tre saraghi, due nasse e un tozzo di pane bagnato. Il pianto della madre era arrivato fino alla locanda. Agata era convinta che sull’isola ci fosse qualche cosa che portava alla follia, e non era il semplice destino. Era la fatica di essere isolani. Isolati. Eppure i marinai dicevano che l’isola era il regno della buona fortuna. Nel resto d’Italia la guerra aveva lasciato la miseria. Agata non ci poteva credere perché sull’isola c’era sempre l’abbondanza. Le bastava uscire di casa per raccogliere le more. Se le metteva nel grembiule e le mangiava a boccate grandi. Ci si sporcava le dita e le labbra. Persino i denti prendevano colore. A non starci attenta, i fichi d’India la ferivano, così inospitali e insieme così tremendamente ricchi di zucchero e sole. Agata girava tra gli scogli con le gonne a mezza gamba per trovare le donzelle da friggere, la sera, nella padella che non si doveva pulire per non perdere il sapore del mare. Con un coltello staccava i ricci dagli scogli e li mangiava crudi. Sapeva distinguere i maschi dalle femmine. Le patelle, con il limone spremuto dentro il guscio, erano le sue preferite. Per ammorbidire il polpo, sbatteva i tentacoli sugli scogli una due venti volte, e c’era da sembrare cattiva a trattare la natura in quel modo. La sua era una preoccupazione inutile: «La natura c’è perché il mondo possa campare» le diceva il padre, mentre le mostrava come rompere i gusci delle uova contro la tazza di ceramica.
Come tutti gli isolani, Agata seguiva la regolarità perfetta della luna. Non poteva immaginare che un giorno soltanto, un unico giorno dentro una vita fatta di giorni, avrebbe scombinato i ritmi dei suoi anni a venire. Un giorno di lavoro al Monte, e non un giorno qualsiasi. Il 2 giugno, la festa di sant’Elmo. Prima di allora, Agata aveva visto il carcere dal paese o dallo sterrato che saliva sulla collina. Per avvicinarsi, bisognava fare quasi due ore di cammino e avere un permesso speciale. Poche donne erano entrate al Monte: un paio di mogli giunte dal continente con la speranza fallita di riprendersi i mariti, una suora infermiera e la figlia del sindaco che, per l’inaugurazione del braccio di massima sicurezza, aveva tagliato il nastro davanti al parroco e al prefetto. Il carcere era circondato da mura e torrette di avvistamento. NON SUPERARE LA LINEA GIALLA ordinava un cartello, DIVIETO DI ACCESSO, FARSI RICONOSCERE. Un piantone con la faccia butterata controllava l’ingresso: «Nome, cognome e documento» ordinò la guardia, irrobustendo la voce con un colpo di tosse. Agata consegnò il permesso. Il piantone indicò una seconda porta: «Laggiù». «Nome, cognome e documento» chiese il nuovo gendarme. «Al fondo» e la ragazza seguì un percorso di serrature che si aprivano e chiudevano alle sue spalle. Lungo i corridoi del penitenziario, i piedi nudi di Agata sembravano selvaggi. Maledizione, avrebbe dovuto comprarsi delle scarpe. Una volta al mese c’era il mercato, giù al porto. In mezzo alle ciabatte, Agata aveva scovato dei sandali con il tacco quadrato e le fibbie argentate: «Li voglio» aveva detto al padre. «Inutili» aveva risposto lui. Se solo avesse avuto con sé le mance del Bianco, se solo avesse fatto di testa sua. Avrebbe indossato i sandali per entrare al Monte e, al posto delle impronte lasciate dall’agitazione, avrebbe ascoltato i suoi passi fare rumori da donna. Invece aveva obbedito al padre. Per salire al Monte, Agata aveva dovuto supplicarlo: «Lasciami andare. Non tarderò». Sarebbe rientrata prima dei fuochi d’artificio e il guadagno sarebbe andato per i ferri nuovi della fucina: «Il Bianco mi pagherà due volte e mezzo il mio salario». «Due volte e mezzo il tuo salario per una sola giornata di lavoro?» «Sì.» «Perché? Tu non sai fare niente.»
La notte stessa si sarebbe presa la rivincita. Sarebbe tornata dal Fabbro e gli avrebbe sbattuto dieci banconote da cento sulla tovaglia macchiata di caffè: «Guarda» gli avrebbe detto. «Valgo.» Il rumore di un’altra serratura la riportò al Monte. Oltrepassò l’ultimo cancello e si ritrovò in un cortile delimitato da una rete metallica. Al di là della rete vide le stalle, le arnie e le officine. Alcuni detenuti con la divisa grigia si affaccendavano attorno al bestiame. «Agata.» La ragazza riconobbe la voce del Bianco. «Direttore.» L’uomo si fermò a pochi passi da lei. La guardò negli occhi e poi scese giù, lungo il vestito: «Ti sta bene, bambina». Ancora con questa storia. Agata nascose i piedi sotto l’orlo azzurro e respirò fino a gonfiare il petto. Guarda la mia carne, Direttore: bambino sarai tu. «Benvenuta al Monte. Laggiù c’è il corpo centrale del penitenziario, dove vivono i detenuti. Là non devi entrare. Sull’altro lato ci sono le stalle e le officine. Di fronte, i magazzini e le abitazioni delle guardie.» Il Bianco indicò un edificio basso, al fondo del cortile: «Per raggiungere la foresteria, vai oltre la porta che dà sulla recinzione. Troverai la cucina più grande che tu abbia mai visto e gli ingredienti che mi hai chiesto. Te li ho procurati io, uno per uno». «Grazie, Direttore.» «Avrai anche un aiutante.» «Un aiutante?» «Ti sta aspettando.» Oltre la foresteria, una bandiera bianca e azzurra sventolava in cima a un gigantesco palo: «Che cos'è?» chiese Agata. «È l’antenna del circo, i Vallone stanno montando il tendone. Ma tu stanne alla larga: gli zingari rapiscono le bambine in carne e le rivendono al mercato del bestiame.» Il Bianco scherzava. O forse no?
6
Con Dumitru Serban la sorte era stata generosa. Era nato in Oltenia, sulla sponda del Danubio che guardava la Yugoslavia. La sua era una famiglia di calderai che girava per la Romania su una carruzza, in un gran frastuono di pentole e grida di bambini. Quando il padre Mihai lasciò la Romania per la Russia, si portò appresso il figlio più piccolo, Dumitru, che aveva un dono particolare. Alla sua nascita, una biscia nera dalla pancia bianca si era infilata nella culla di stracci ed era rimasta lì, a proteggere il sonno del neonato. Cinghiali e cervi avevano cominciato a girare attorno alla carruzza, incuranti della diffidenza verso l’essere umano. Le lontre lasciavano il loro pasto nei pressi della carovana e gli aironi si posavano sui panni che le donne mettevano a stendere tra gli alberi. Mihai Serban si convinse che l’ultimogenito fosse un predestinato. Il figlio parlava con gli animali e quel dono avrebbe salvato l’intera famiglia dalla miseria e dalle persecuzioni. Andò da una famiglia di ursari e barattò gli attrezzi da calderaio con un orso bruno: «Sa ballare?» si informò. «Meglio di una femmina.» Lasciò la famiglia in una baracca di fronte al Danubio e partì con il figlio in cerca di fortuna: «Torneremo ogni sei mesi» disse alla moglie che, alla notizia, minacciò di ammalarsi di dolore. La madre di Mihai sembrò non preoccuparsene. Avrebbe campato la nuora, i nipoti e l’intera famiglia. Dopotutto aveva il dono della fantasia. Preparava rimedi contro l’angina e i mali di stagione. I ricchi partivano addirittura dalla capitale per farsi curare una forma d’impotenza conosciuta come “il male dei fermi”. Per fortuna c’era il vasdimos, il sollevatore. La zingara lo preparava con una punta di zolfo, sciroppo di tamarindo, fieno greco e chiodi di garofano. Mischiava gli ingredienti dentro un pestello e si faceva due volte il segno della croce. I maschi andavano da lei al tramonto, prima dei doveri della sera. Con il vasdimos in corpo, non avevano nulla da temere. Una volta ogni sei mesi Dumitru ritornava dai suoi viaggi: «Phurì dei!». Nonna,
chiamava scavalcando la staccionata che delimitava la baracca di famiglia. «Sono qui» rispondeva la vecchia, affacciandosi alla finestra. Dumitru lasciava gli stivali all’ingresso e si accomodava sul tappeto che copriva il pavimento della stanza. Phurì dei lo rifocillava con un piatto di riso e cavoli: «Come ti sei fatto grande» gli diceva sfregandolo con l’acqua di sorcio che preveniva le infezioni e il mal d’orecchie: «Come va il lavoro?». «Bene, nonna.» «E tuo padre come sta?» «Ha la salute di un miracolato, ma non se la merita. Ha poco cervello e nessuna grazia, specialmente con la bestia.» «Zitto, svergognato. È tuo padre, gli devi rispetto.» «La natura però non gli deve nulla. Se continuerà a maltrattare l’orso, finirà stritolato in un abbraccio mortale.» «Tu come lo sai?» «Me lo ha detto lui.» «L’orso?» «Sì. Gli animali parlano, basta saperli ascoltare.» La nonna si accomodò sul tappeto, accanto al nipote. Gli prese la mano sinistra e lesse le linee che si incrociavano sul palmo: «Anche io ho avuto una premonizione, figliolo. La disgrazia mi è apparsa in sogno». Guardò il nipote negli occhi: «Tuo padre è in pericolo. Salvalo, Dumitru, o tua madre si spegnerà dal troppo dolore». «Cosa devo fare?» «Aspetta che la luna torni a sorgere, poi prendi la strada per il Nord. Ogni sera preoccupati di dare da mangiare all’animale. Un pasto abbondante, mi raccomando. Mischia le carcasse alle foglie e alla frutta selvatica. Durante la quinta notte di viaggio, spezza la catena che tiene prigioniero l’orso. L’animale si perderà tra i boschi e tu e tuo padre farete ritorno.» «Va bene, Phurì dei.» Dopo dieci notti di attesa, la zingara si sedette all’ingresso del villaggio: «Cheavè!». Figli, chiamò vedendo da lontano il dondolio del carro. Dumitru ricoverò la carruzza sotto un tetto di rami e sistemò il padre, ubriaco, nella baracca. Nei mesi successivi Mihai Serban mise nuovamente incinta la moglie e si abbandonò al rum di contrabbando che arrivava dalla frontiera.
Dumitru invece si caricò il dovere di pensare alla famiglia. Phurì dei gli propose di aiutarlo negli affari: «Quando ci sono clienti» disse al nipote «nasconditi in soffitta e trascina questa catena sul pavimento». Le entrate aumentarono. Gli avventori si lasciavano impressionare da quei suoni di metallo che potevano arrivare soltanto dall’inferno: «Ecco lo spirito del vasdimos» gridava la vecchia, ruotando gli occhi e agitando i seni grandi. Dumitru passava il resto del suo tempo tra le gole rocciose che accoglievano l’ingresso del Danubio in Romania. Non cerano voci di umani, lassù. Lo zingaro osservava i cavalli bradi tra l’erba alta di stagione. Stava in riva al fiume e la sera si dimenticava di rientrare. Si dimenticava di mangiare. I cavalli muovevano la criniera al vento e, un giorno dopo l’altro, si abituavano alla sua presenza. Sapeva d’uomo, eppure non faceva paura. I cavalli si avvicinavano per sentirne l’odore. Gli soffiavano in faccia il fiato caldo come un solletico. Si lasciavano toccare e provavano il piacere delle carezze. Tra le colline dell’Oltenia Dumitru apprese l’arte del cavalcare. Imparò a montare a pelo e a lanciarsi al galoppo, imparò a correre, frenare e girare. La nonna previde per lui un futuro di successo e delusione. Non si stupì quando il nipote se ne andò con Ermete Vallone che passava dall’Oltenia insieme al suo famoso circo: «Mi hanno raccontato che con le bestie sai fare cose eccezionali» disse il circense allo zingaro. «Sono loro che fanno cose eccezionali.» «Ho dodici andalusi bianchi che aspettano di essere addestrati.» «I cavalli non hanno bisogno di addestratori, ma di buoni compagni.» «Tu come lo sai?» «Me lo hanno detto loro.» «I cavalli?» «Sì.» I dodici andalusi bianchi lo aspettavano nelle stalle del circo, inquieti di troppi viaggi. Dumitru camminò tra le mangiatoie. Li osservò. Avevano nomi che non assomigliavano ai loro caratteri: «E infine Omero, Cesare, Plutone e Dino» disse Ermete alle sue spalle. «Rosso» ribatté lo zingaro. «Dino.» «Si chiama Rosso.» «Ma è bianco.» «Vuole essere chiamato Rosso.»
Il Rosso era il più fiero tra tutti gli andalusi. Il più insofferente. Dumitru lo accarezzò con cura, dal muso fino alla coda. «Ha una zampa ferita. Chi si occupa di lui?» «Mio figlio Onorato.» «Non occorre tirare il cavallo dalla zampa per insegnargli l’inchino. Dillo a tuo figlio. Il Rosso ha un taglio tra lo zoccolo e la caviglia, non potrà correre fino a quando non sarà guarito.» «Parla tu con Onorato.» «Non accetterà i miei consigli.» «Perché? Sono io a decidere ciò che è meglio per il mio circo.» Il Rosso nitrì. «Che dice?» chiese il vecchio. «Vuole che mi occupi di lui.» Il Rosso si agitò, a conferma delle parole dello zingaro. «Allora vieni con noi» propose Ermete. «Prendi il posto di mio figlio. Il Rosso ne sarà contento.» «Tuo figlio mi odierà.» «Ti sbagli. Onorato ha tanto altro da imparare. Lui deve prendere il mio posto e diventare un bravo direttore.» Dumitru accarezzò il muso del cavallo. Cera qualche cosa di particolare in quell’animale, una familiarità che gli suggeriva di seguirlo. Lo avrebbe aiutato a guarire, si sarebbe preso cura di lui e dei suoi fratelli. «Va bene» disse Dumitru. L’indomani partì con il circo Vallone. La nonna gli infilò un paio di bottiglie di vasdimos nella sacca da viaggio, per assicurargli una virilità senza incertezze. Il padre lo strinse al petto e lo lasciò andare. Dopotutto il viaggio era il destino di tutti gli ursari. Gli regalò un cappello che aveva vinto da uno straniero in una notte di alcol e dadi. Era di feltro rasato, con la cinta in tono e una scritta dorata: Borsalino. Era appartenuto a un conte italiano, fuggito dalla moglie e dalla guerra. Con quel cappello in testa, Dumitru Serban avrebbe avuto fortuna: «Il famoso Ermete Vallone lo ha scelto come cavallerizzo al posto del primogenito Onorato» raccontava in giro Mihai, brindando alla salute del figlio. Ermete sapeva che Onorato sarebbe diventato un bravo direttore di circo. Primo a mettere il picchetto dove poggiava l’antenna del tendone, a fine spettacolo era l’ultimo a
coricarsi dopo aver controllato lo smontaggio e la sicurezza dell’intero campo. Eppure con le bestie non ci sapeva fare. Le temeva, e loro con lui diventavano aggressive. Dumitru invece aveva il dono della leggerezza. Dopo i primi mesi con il circo Vallone, lo zingaro era già in grado di esibirsi nel numero di Alta Scuola. Usava il frustino soltanto per schioccarlo a terra e dare il tempo alle girate. Per dirigere l’esibizione gli bastava lo sguardo. Chiamava le impennate con l’indice destro e gli andalusi rispondevano issandosi sulle zampe posteriori. Dumitru cavalcava il Rosso e poteva resistere tre giri a testa in giù sulla groppa del preferito, che manteneva il passo circolare. Lo zingaro saltava a terra e risaliva al volo. Lanciava il cavallo a tutta velocità e sfidava il vento, in piedi e senza mani. All’inizio Onorato aveva protestato: «Uno sconosciuto chiamato a eseguire il numero di Alta Scuola?». E lui, il primogenito di Ermete, scalzato da un ragazzino senza cognome. Poi, davanti al talento di Dumitru, si era rassegnato. Il numero di Alta Scuola dello zingaro divenne l’attrazione principale del circo Vallone. Su consiglio di Ermete, Onorato mandò a chiamare lo zingaro: «Abbi sempre cura degli andalusi» si raccomandò. «Sono i miei innamorati.» «Sapresti aver cura di una femmina con la stessa passione?» Lo zingaro rise. «Non ridere! La mia è una domanda seria.» Qualcuno si mosse al di là della tenda che separava la scrivania di Onorato dal resto del campino: «Sterlina!» chiamò. La ragazza scostò la tenda e avanzò fino al padre. Era alta, di spalle solide e gambe asciutte. «Conosci Sterlina.» Aveva la stessa età di Dumitru, eppure sembrava già una donna. «È mia figlia, la primogenita.» Sterlina lo guardò con i suoi occhi grandi. Vivi. «Sarà la tua sposa.» Lo zingaro sussultò: «Come?». «Hai capito bene, sarà la tua sposa. La tua famiglia non ha tradizione, però il vecchio ha ragione: con le bestie ci sai fare. Per tutti noi, il vostro matrimonio sarà il migliore dei contratti. Ricordati una cosa. Tienitela bene a mente. Avrai mia figlia, non il suo cognome. Dopo il vostro matrimonio, l’insegna dell’ingresso resterà la stessa. Niente circo Serban. Circo Vallone, da qui all’eternità.» Dumitru sentì il Rosso nitrire nella stalla. In mezzo ad altri cento, poteva riconoscere
il rumore dei suoi denti che masticavano la biada. Se avesse sposato Sterlina, sarebbe rimasto con gli andalusi e, soprattutto, con lui. «Accetti?» «Accetto» disse lo zingaro. «Saprai rispettare mia figlia? Pensare alla sua felicità e al bene del nostro circo?» Dumitru estrasse un’immagine di santa Parascheva dalla tasca posteriore del Pantalone. La mostrò a Onorato e la baciò due volte, in segno di promessa. Sterlina sorrise. Era una Vallone ed era orgogliosa del proprio cognome. Cresciuta nel circo di famiglia, aveva imparato a stare sulle mani ancor prima che a gattonare. Era un’ottima generica. Aveva le basi del trapezio e delle prese aeree. Aveva debuttato come contorsionista e domatrice di colombe e, a quindici anni, aveva scelto di essere funambola sul filo alto. Divenuta promessa sposa, aveva chiesto di esibirsi senza la rete di protezione e il padre, a malincuore, l’aveva accontentata. Da lì a pochi mesi sarebbe stata la moglie di Dumitru Serban. Aveva bisogno di essere applaudita e di mostrare tutto il suo coraggio. Lo zingaro, da parte sua, le dava poca attenzione. La vita del circo non lasciava tempo alle smancerie. C’era da pensare alle bestie, al trasporto, al cibo. C’era da strigliare i cavalli, allenarsi almeno due ore al giorno e andare sempre in pista. Dumitru decideva delle proprie giornate e di quelle della sua gente. Lo spettacolo valeva il sacrificio: «I circensi sono esseri perdutamente innamorati» ripeteva Ermete prima di ogni esibizione. E l’amore, si sa, è devozione.
7
Il giorno in cui il Bianco bussò alla porta del suo campino, Ermete Vallone era seduto davanti allo specchio nel tentativo di liberarsi dal trucco e dalla stanchezza. La tournée invernale stava per finire e, da lì a tre giorni, il circo avrebbe avuto un mese di riposo. Bisognava portare le bestie al Nord e provvedere a riparare il tendone, che si era strappato sotto il peso della neve di febbraio. Ermete aveva ascoltato la strana richiesta del Bianco: «Sono il Direttore di un carcere». «Mi dica pure.» «A fine primavera ci sarà un’occasione da festeggiare. Per quella sera voglio uno spettacolo eccezionale. Voglio che i detenuti abbiano qualche cosa di bello da ricordare.» «Qualsiasi pubblico merita un’opportunità» disse Ermete senza esitazione. Chi era lui per giudicare? I circensi erano artisti ammirati. Fuori dalla pista, però, venivano accusati di furti, imbrogli e violenze. Eppure non erano tutti uguali. Ermete era un uomo onesto, figlio di circensi e nipote di circensi. Si sarebbe lasciato morire di fame pur di campare le bestie e le quaranta famiglie che ruotavano attorno al suo tendone. Ermete conosceva l’odore dei corpi sporchi e dei cerotti messi a tamponare ferite. Nei camerini, i circensi indossavano vestaglie sciatte e maglie sformate dall’uso. A fine spettacolo, si sedevano fuori dalle baracche a bere a ruttare a infilare le dita dentro mutande troppo strette. Si infarcivano di carne di maiale e cavolo bollito. Si sciacquavano i denti con la grappa di prugne. Potevano invecchiare, perché la giovinezza era una pietanza da servire tiepida. Dovevano dare tutto e darlo in fretta. In pista no. In pista esisteva il pubblico e c’era il dovere assoluto di farlo sognare. Al sogno servivano le luci e l’orchestra nel palco d’onore. Al sogno servivano gli abiti attillati, gli strass, le piume, le sfilate di corpi perfetti e colorati. Al sogno servivano gli artisti, la loro ossessione per il bello, lo sforzo quotidiano di allenamenti e sudore: «Il circo è l’atto
pubblico da coltivare» diceva Ermete alla sua gente. «Chi fa per sé, fa male.» Sarebbero andati al Monte e avrebbero fatto uno spettacolo in quell’inferno di sbarre. Onorato si era opposto: «Su un’isola? In un carcere? Che follia!». Il vecchio non aveva dubitato: «Taci, ragazzo. Finché campo, decido». Ermete non poteva immaginare che su quell’isola proprio Dumitru, il suo protetto, avrebbe dimenticato la prima regola non scritta, la più utile alla conservazione. I dritti non si mischiano con i fermi. Mai. Eppure successe. Agata spuntò dal retro della foresteria e lo zingaro, semplicemente, si fermò a guardare. Con quel vestito addosso, la ferma sembrava un sacco di grano caduto da una carruzza. Una Madonna dimenticata in un salone delle feste, alla fine di un matrimonio con troppi brindisi. Non era bella: era concreta. Aveva i capelli raccolti, i piedi nudi e dieci splendide ditina tozze, ripiene di terra e carne. Dumitru non riuscì a distogliere lo sguardo. Gli venne voglia di passare la lingua tra dito e dito, per poi osservare la faccia della ferma riempirsi di terrore. Aiuto, uno straniero, uno zingaro! Uno che attenta alle vergini e mangia i bambini. Non tutti, però, solo quelli fino al quarto mese. Altrimenti la fibra diventa nervosa. Dumitru seguì Agata che si avvicinava al tendone: «Tu» la indicò lo zingaro. «Che ci fai qui?» Le fissò i piedi e la ragazza sentì un solletico particolare, quasi un prurito umido e indecente che la fece vergognare. «Ho il permesso del Direttore» disse la ragazza, ritraendo le caviglie sotto il vestito. «Ja dracu, il tuo Direttore!» Quel tipo beveva. Agata gli aveva sentito il fiato. Aveva un odore più forte del vino, più fruttato della grappa: «Ţuică!» brindò lo zingaro alzando al cielo una bottiglia: «Vattene in fretta. Questo posto non è per te». Attorno all’antenna del tendone si affaccendavano uomini, cavi e tiranti. Una donna, una ferma per di più, sarebbe stata un problema. Che andasse al campo, oltre il parco zoo. Avrebbe visto le giraffe, i buoi watussi, persino gli elefanti. Aveva mai visto le tigri? E il leone? Il circo Vallone aveva un leone bianco, si chiamava Superbo perché stava sempre sulle sue. Mangiava otto chili di carne al giorno. Se non si fosse data una mossa, avrebbe sbranato anche lei. Era ancora in tempo per lo spuntino del mattino. Uh che paura, il leone affamato! Di carne addosso ne aveva parecchia, la bambina. Certi polpacci
solidi come colonne. C’era da costruirci sopra un monumento alla salute. «Via!» ripeté il circense: «Oltre le gabbie degli animali». Tra i baracconi avrebbe incontrato le donne. Le avrebbero insegnato a cucinare la ciorba con la carne macinata e il riso. Quelle erano cose da femmine. Le avrebbero insegnato a preparare la grappa santa. L’aveva mai bevuta? Raffreddava gli animi in estate e li scaldava nelle notti d’inverno. Bastava mischiare la ţuică con lo zucchero e i granelli di pepe nero che Dumitru portava appesi alla cintura in un sacchetto di velluto: «Il pepe nero allontana l’occhio e dà vigore alla carne» le disse. «Mi capisci oppure no?» Agata gli diede le spalle e tornò alla sua salsa che era cosa da femmina, sì, era cosa da ferma, forse, ma chi la mangiava vedeva gli angeli e i santi. I marinai raccontavano dei prodigi della salsa Agata in tutti i porti del continente. Lo zingaro credeva forse di mettere in soggezione l’artefice di un miracolo così saporito? Il Direttore in persona era convinto del suo talento e glielo aveva dimostrato. Poveraccia la donna che si prendeva in casa il circense, ci avrebbe perso il sonno, la fede e persino il fegato. Dalla foresteria avrebbe fatto sapere al Bianco di servire tutti ma non lui, il ragazzo con il cappello sarebbe rimasto a digiuno. Cosa voleva dimostrare con quei modi grezzi? Voleva forse metterle paura?
8
Quando Agata entrò nella foresteria, era di cattivo umore. L’immagine della zia si materializzava tra le padelle per ricordarle che «gli uomini sono tutti uguali, sono nati per crocifiggerci». Teresa spariva da una pentola per riapparire dentro un tegame: «Fa’ attenzione» ripeteva. «Il ragazzo con il cappello ti metterà nei guai.» Agata si lavò la faccia con l’acqua fredda. Buttò due prese di sale dietro le spalle e mangiò uno spicchio d’aglio per dissolvere il fantasma dentro la presa decisa dello schiacciapatate. Finalmente in pace, Agata si guardò attorno. Sul tavolo centrale, trovò la spesa e un mazzo di margherite di buon augurio. Contò quaranta litri di latte di capra, venti vasetti di miele di castagno, trentacinque chili di mele sotto conserva, una damigiana di olio d’oliva e una di vino bianco, due casse di limoni, farina, cipolla, rosmarino e timo in quantità. La cucina della foresteria era enorme. C’erano due quattro, addirittura sei fuochi. Alla locanda si doveva accontentare di tre e la padrona - la spilorcia - le diceva di ringraziare la Madonna e tutti i santi per quell’abbondanza. Ma quale Madonna e quali santi, Agata doveva ringraziare soltanto se stessa se riusciva a campare cento persone al giorno attorno a tre fuochi piccoli come frittelle. Presto avrebbe salutato la padrona e avrebbe aperto una locanda a suo nome. DA AGATA avrebbe detto l’insegna. VENDITA MERAVIGLIOSA SALSA. Avrebbe avuto sei fuochi, proprio come al Monte, e tante cameriere che ripetevano buongiorno buonasera e grazie, come faceva il Bianco. Lui sì che era un signore, lui sì che aveva un cuore. Andassero al diavolo le malelingue che sparlavano del Direttore! Il Bianco l’aveva voluta per celebrare i settant’anni del Monte. Aveva chiamato dei cuochi dal continente per cucinare le pietanze perché Agata si sarebbe occupata soltanto della sua me-ra-vi- glio-sa-sal-sa. Le aveva detto così, scandendo bene le parole. Il Bianco ne aveva parlato a quelli del Ministero: «Vi stupirà. La salsa dell’isolana è il paradiso in terra» e i funzionari avevano sospirato. Un’altra delle stranezze del Direttore... per fortuna il Bianco aveva sigillato le dimissioni
con la ceralacca e questa volta rischiava di perderci la faccia. «Vostra signoria?» mormorò una voce alle spalle di Agata. La ragazza si voltò a guardare. Doveva essere l’aiutante mandato dal Bianco. Era un uomo di gamba corta e testa grossa. Forte di naso, con la pelle rovinata dal sole: «Vostra signoria comanda» disse. «Per qualsiasi necessità.» Agata non lo voleva, un aiutante. «Totò» riprese il garzone. «Mi chiamo Totò, ma tutti mi conoscono come ’o fellato.» Era al Monte per un errore di gioventù, «perché a tenere ’a capa fellata si sconta una pena lunga». Sua Illustrissima, però, il Direttore, era stato gentile con lui. In carcere gli aveva dato da lavorare. Se lavorava non pensava, se non pensava dormiva, se dormiva si svegliava. Se si svegliava, tirava a campare. Spazzava i corridoi, puliva i bagni, aiutava in cucina. Per i settant’anni del Monte, Sua Illustrissima gli aveva promesso una giornata speciale: «Aiuterete la cuoca più brava dell’isola». «Mi ha chiamata così?» chiese Agata, asciugandosi le mani dentro il grembiule. «Morte mi prenda se mento. Lavorerete per l’intera giornata e la sera andrete al circo. Lascerò un posto in prima fila per voi. Così mi disse Sua Illustrissima che io ci presi i polsi per fargli il baciamano. No no che fate Totò che fate! Faccio che tengo devozione, Direttore!» Agata non era abituata alle parole e il fellato era un uomo di molte chiacchiere. Indicò un coltello: «Comincia dalla cipolla» gli disse. «Bagnala sotto l’acqua corrente.» Non voleva vederlo piagnucolare. La cena sarebbe stata servita prima dei fuochi di sant'Elmo. Se fosse riuscita a preparare la salsa entro il tramonto, anche Agata sarebbe andata al circo. Il Direttore si era tanto raccomandato: «Non mancare. Il circo è il più grande spettacolo del mondo». Non che le interessasse... Le bestie in gabbia le facevano compassione e, inoltre, il ragazzo con il cappello mancava di buona educazione. Non voleva essere costretta ad applaudirlo. Certo, quando il circo era sbarcato sul molo, le era presa una gran voglia di sapere a cosa servissero tutti quei bauli, tutte quelle corde e piume e scarpe. Le donne del circo profumavano di borotalco e avevano gambe muscolose e sode. Sarebbe andata a curiosare. Con poche parole e uno sfrigolio continuo di cipolla, Agata avrebbe chiuso la cucina prima delle sette. Ci avrebbe provato. Le sue mani sapevano lavorare. Erano cresciute insieme ai fianchi, si erano fatte vigorose e robuste. Aggiungevano il latte e lo lasciavano evaporare. Il miele serviva ad
amalgamare. Le mele andavano tagliate sottili, più sottili, diceva al fellato, di più: «Trasparenti come l’ostia consacrata!». «Che ne so io dell’ostia consacrata? Sono ateo e comunista». Comunista? Agata alzò la testa e cominciò a fissarlo. Allora era vero. I comunisti esistevano, avevano le gambe corte, la testa grossa e non andavano in chiesa, non ci andavano mai! «I comunisti vanno in chiesa?» domandò. «Mai» rispose ’o fellato. «Però vostra signoria, vi voglio dire un segreto: i comunisti in fondo al cuore tengono un’adorazione immensa.» «Per che cosa?» «Per il creato. E per chi l’ha inventato.» Cosa pensava ’o fellato della Madonna? Agata ce l’aveva con la Santissima da quando zia Teresa aveva minacciato di sconfessarla dal pulpito della chiesa patronale: «Zia Teresa» aveva detto mentre camminavano verso casa, di ritorno dalla messa domenicale. «Don Carmelo dice che Maria Vergine è senza peccato.» Teresa aveva accelerato il passo e si era stretta attorno alla borsetta della festa. «Appunto.» «Anche mia madre era vergine e senza peccato?» «Una madre è sempre benedetta dalla grazia di Dio.» «E tu?» «Cosa?» «Tu non sei madre. Sei piena di peccato?» Teresa si era fatta viola in faccia e, occhi al cielo, aveva cominciato a sbraitare. Come osava dubitare della sua onestà, proprio lei che era sacrilega e rea, ebbra di peccato originale e portatrice di catastrofe? La bava le colava dagli angoli della bocca e, quando Agata le aveva allungato un fazzoletto, Teresa era finita a terra, preda di una convulsione che le era costata la punta della lingua, ingoiata insieme alla saliva dopo un paio di brutte - sacrileghe - parole. Gliele aveva tirate fuori la nipote, e alla fine le aveva dovute confessare a don Carmelo dal suo letto di dolore. Il prete non capiva. Per forza, parlare a mezza lingua era una gran fatica. Il parroco le aveva dato una penitenza sulla fiducia, roba da poco, due misteri dolorosi e un coniglio nostrano da lasciare in sacrestia. La nipote invece era stata punita dal padre con dieci giorni di digiuno e due cucchiai di olio di ricino, ai quali Teresa aveva aggiunto un pellegrinaggio nel continente. Da quel momento, Agata si era guardata bene dal ritornare sul tema. ’O fellato, però,
era ateo, comunista e in più aveva la testa grossa, segno di buon ragionamento. «E la Madonna?» domandò all’aiutante, rosolando la domanda insieme alla cipolla. «La Santissima Beatissima Illustrissima? Ah no, signora mia. Il giorno della Comunione non sono mai arrivato in chiesa. Mi sono fermato al Circolo dei lavoratori e mi sono giocato la Bibbia alle tre carte. Tenevo sette anni. Ero un senza Dio e un senza Dio sono rimasto. Però alla Vergine ci porto più rispetto che al creato!» Anche lui. Anche ’o fellato davanti alla Madonna perdeva la ragione. Possibile che la Santissima avesse dalla sua persino gli atei e i comunisti, mentre a lei - peccatrice e umana - restava la fatica di campare? Risentita per l’affermazione del fellato, Agata ordinò di girare la salsa: «A fuoco lento e sempre nella stessa direzione». L’uomo obbedì e continuò a chiacchierare. Raccontò di come fosse duro vivere dentro tre metri di cella, insieme a due farabutti che aprivano gli occhi solo per pisciare dentro la gamella dove lui metteva il latte della colazione e la zuppa della cena. Con Sua Illustrissima si poteva parlare: «Direttore, intercedete voi perché al Monte la vita può essere fetente». Il Bianco gli aveva dato da lavorare e il lavoro era un buon motivo per svegliarsi la mattina. Il Direttore non faceva miracoli, ma dava delle opportunità e praticava con l’esempio. Si era messo addirittura a ridipingere il corridoio e bisognava vederlo, come spennellava. ’O fellato nella prossima vita avrebbe messo giudizio: «In questa è troppo tardi, signora pregiatissima». La redenzione ha bisogno di buoni maestri e molte possibilità. Prima del tramonto, Agata finì di versare la salsa dentro il terzo fusto di alluminio. Chiuse il tappo spingendo la leva verso il basso, pulì il bordo del contenitore e si tolse il grembiule. Di certo il ragazzo con il cappello avrebbe disprezzato la sua salsa. Lo avrebbe fatto pubblicamente, mettendola in cattiva luce davanti al Direttore e ai funzionari del Ministero. Non glielo avrebbe mai perdonato. La mattina, camminando nei pressi della carovana dei Vallone, Agata aveva sentito l’odore del cavolo nero messo a bollire e della verza cotta con l’aceto. Il sapore era questione di mammelle, e le mammelle delle zingare facevano un latte che sapeva di broccoli. La salsa Agata invece profumava di miele. Il ragazzo con il cappello avrebbe riso di lei e, per umiliarla, le avrebbe di nuovo guardato i piedi. Che avevano di strano i suoi piedi? Avevano dieci dita, cinque per parte, e le unghie sporche di terra. Gli isolani andavano scalzi. Si mettevano le scarpe soltanto per i matrimoni e i funerali. «Ci vediamo al circo?» chiese al fellato. «Se la sorte mi accompagna» rispose l’aiutante. Agata uscì senza salutare. Se fosse rimasta ancora nella foresteria, si sarebbe
affezionata. ’O fellato meritava piÚ della semplice rassegnazione e lei era un’isolana scalza. Non era abituata alla compagnia, figurarsi alla partecipazione.
9
La sera del 2 giugno i boeri - così i Vallone chiamavano i manovali del circo abbandonarono le canottiere per indossare le divise con le mostrine dorate. Negli anni le divise erano passate di manovale in manovale, senza tener conto dei pesi e delle altezze. Il risultato era un bizzarro accostamento di spalline troppo grandi e pantaloni troppo corti, addosso a corpi fuori misura. Di solito i boeri accoglievano gli ospiti parlottando tra loro nelle tante lingue del campo. Quella sera no. Si schierarono in silenzio tra gli spalti, in attesa dello strano pubblico. C’era un’aria particolare, viziata dal caldo e dall’idea che quel giorno fosse speciale. Persino ’o fellato si ripulì per l’occasione. Sopra la divisa grigia del carcere, indossò una giacca recuperata da un completo del Direttore. Non era della sua misura. Le spalle erano abbondanti rispetto al fisico minuto. Agata non lo riconobbe: «Signoria vostra, sono io, ’o fellato!». Agata si presentò con i piedi scalzi e il vestito azzurro che puzzava di cucina. Non si era nemmeno rinfrescata. Dopotutto, cosa ne sapeva di spettacoli e circhi? Aveva voglia di scappare via, spinta da un formicolio che le eccitava le caviglie. Il ragazzo con il cappello le avrebbe nuovamente guardato i piedi. Se avesse comprato i sandali al mercato, si sarebbe accomodata in platea tenendoli bene in vista, uno accanto all’altro. Invece era scalza e per di più sporca di olio e fatica. L’unica cosa che poteva fare era confondersi con il velluto della poltrona che era rosso, accidenti a lui, lontanissimo dall’azzurro del suo abito di cotone. Un gruppo di giornalisti e funzionari del Ministero si accomodò a bordo pista. Nel mezzo, Agata riconobbe il Bianco: «Vostra Illustrissima, Vostra Illustrissima!» gridò ’o fellato, agitando la mano. Il Direttore fece finta di non vedere: «Ma come, una civile e un detenuto nella tribuna d’onore?» avrebbero chiesto gli ospiti. Era meglio evitare le domande per sfuggire le spiegazioni. Li conosceva bene, quelli del Ministero. Il capo
delegazione aveva un bastone nero e il respiro pesante degli obesi: «Dottor Angelo Greco» lo chiamò il Bianco. «Si accomodi.» Il Greco trascinò la gamba zoppa e prese posto. Il Direttore andò a sedersi lontano da lui. Non appena i funzionari ebbero finito di sistemarsi, i detenuti invasero il tendone con un gran vociare. Chi spingeva, chi parlava, chi si guardava attorno senza riuscire a crederci. Qualcuno urlò «Direttore!», qualcun altro si precipitò a occupare il posto migliore. Quelli del Ministero si voltarono a guardare: i delinquenti erano troppo vicini. Che combinavano le guardie? Tra la tribuna e gli spalti c’era un unico cordone di protezione. Bisognava fare qualcosa, bisognava tutelare. Chissà cosa sarebbe successo se uno dei malviventi avesse deciso di trascinare gli altri in una protesta o, peggio, in una rivoluzione. L’unico a mostrarsi compiaciuto fu il Bianco. Si alzò in piedi e fece un gesto di benvenuto. I detenuti risposero con un applauso. I funzionari ebbero di che chiacchierare. Uno così dava troppa confidenza, lo avrebbero scritto sulla relazione finale, lo avrebbero raccontato al Ministro. Che ne era della disciplina? Non ci si poteva confondere, era questione di distanza. Altro che il manuale del dottor Pastello, tanto citato dal Direttore. Loro lo avevano cercato, questo Pastello, avevano scritto persino all’ambasciata del Brasile: «Il vostro connazionale dottor Pastello, massimo esponente nel campo dell’educazione» eccetera. I brasiliani non ne sapevano niente. Non lo avevano mai sentito nominare. Si erano forse fatti infinocchiare, aveva suggerito l’ambasciatore agli italiani, mettendo un punto di domanda leggero al fondo di un’affermazione. Per fortuna da lì a poco il Direttore avrebbe firmato la sua lettera di congedo. A Roma avevano già pensato a un incarico minore in Lucania o presso il confine svizzero. Nessuno si sarebbe ricordato del Bianco. Solo un arrogante poteva credere che uno spettacolo servisse al Monte più di quindici nuove guardie. Nei giorni precedenti il Bianco aveva parlato con i suoi uomini. Lui li chiamava così, i detenuti. «Il 2 giugno andremo al circo» aveva detto loro. «Dove?» «Qui sotto, nel piazzale dietro la foresteria.» Ai carcerati era sembrata una follia. Il femminiello se nera inventata una nuova, c’era da volergli bene a un tipo del genere. Fosse stato un delinquente, c’era persino da giurargli fedeltà. Alcuni erano contrariati. Il circo è una cosa da bambini. Qui siamo uomini, il ricchiuto non lo sa. Qualcuno sera fatto persino mezzo ragionamento. Lo
spettacolo era l’occasione giusta per scappare: occhi impegnati e gambe che corrono. Il Bianco non si era preoccupato. Si era preso la responsabilità del rischio perché, secondo lui, era sufficiente far arrivare i detenuti sotto il tendone. Il circo li avrebbe convinti a restare: «Cosa c’è di più bello di una carezza in un giorno di dolore?» si era domandato. E la vita dei suoi uomini era fatta di tanti giorni, di tanti dolori. Era pronto a scommettere. Nessuno sarebbe scappato dal Monte, non quella sera. Chiamò il capo delle guardie: «Sono tutti qui?» si assicurò. «Sì» rispose l’ufficiale. Le luci dello chapiteau si spensero, il brusio sugli spalti si fece leggero. Ermete Vallone entrò in pista in un completo rosso che gli toglieva il peso di molti anni. Schiarì la voce e diede il benvenuto al «più grande spettacolo del mondo». La fanfara cominciò a suonare: «Che inizi la parata». Il velluto del fondale si aprì e dalle quinte spuntarono gli artisti. «Gentili signori, ecco a voi» annunciò il vecchio Ermete. I detenuti applaudirono: «Guarda che meraviglia» dissero. Guarda che colori! Laggiù c’è un pagliaccio, laggiù un giocoliere. Lì c’è una donna, un’altra e un’altra ancora. Femmine! E chi se le ricordava così belle. I clown inciamparono nelle scarpe grosse, gli acrobati rimbalzarono, le ginnaste si arrampicarono sui tessuti. Ermete invitò in pista gli animali: «Ecco a voi la giraffa, i lama e gli elefanti indiani». La giraffa piegò il lungo collo a salutare. Le ballerine si sdraiarono a terra: forza, elefanti, è il momento di attraversare. Ma senza inciampare: ne va della vita di queste splendide fanciulle. Ecco a voi il giocoliere dalle sette palline, capace di far volare in aria otto clave, afferrare cinque mattoni e farli ballare, al diavolo le leggi dell’universo, vi facciamo vedere noi cosa vuol dire l’impossibile. Un applauso per la donna cannone che vola attraverso il tendone. Il lanciatore di coltelli sfiora il corpo dell’innamorata: un centimetro, per errore o per vendetta, vale il rimorso dell’eternità. La contorsionista? Un miracolo, una follia. Sta tutta dentro una valigia. Gentili signori, ecco le are danzanti. Da dove arrivano questi uccelli dai colori così accesi? Deve esistere un paradiso terrestre da qualche parte, nel continente. Per cortesia, un po’ di silenzio per la mangiatrice di spade, per gli uomini volanti, per la piramide umana. I boeri più veloci del mondo, un applauso, più forte. Di più. In soli venti secondi montano la gabbia circolare del leone. Venti, diciannove, diciotto, diciassette... Il leone? Il leone, gridò il pubblico. L’animale attraversò un tunnel metallico e fece il suo ingresso nel tendone. Ciondolò
da un lato all’altro della gabbia e si mise a sedere nel centro esatto della pista. “Com’è triste” pensò Agata. Superbo conosceva ogni comando e lo eseguiva piano. La bellezza può essere malata. Il domatore schioccò a terra la frusta, aprì la bocca dell’animale e infilò la testa tra le fauci enormi. Zitti tutti, per carità! E adesso... respirate: «Ecco a voi» disse il vecchio Ermete. Il prestigioso numero di Alta Scuola di Dumitru Serban, il nostro miglior cavallerizzo. Così giovane, così sgradevole, così dannatamente sicuro di sé. Agata lo vide sorridere, saltare, correre in groppa al fedele Rosso. Ecco a voi lo zingaro che incrocia il trotto di sei andalusi bianchi con quello di altri sei. Ordina il galoppo e la frenata. Separa l’insieme in coppie, le coppie in quadri, i quadri in danze. Bifolco che non è altro. C'è da lasciarlo indorare, un fastidio del genere. Chiudere gli occhi per evitare di guardare, poi prendere lo zotico e scaldarlo a fuoco lento. Aggiungere due spicchi di diffidenza, miele di castagno, una manciata di sorpresa e un pizzico di timo. Le mele a metà cottura, per non disturbare. Sale quanto basta, proprio come nella vita. Un applauso per Dumitru Serban, poi la grancassa tornò a rullare. Gentili signori, sono lieto di presentarvi l’ultima artista della serata: «Sterlina Vallone!». La primogenita, la preferita, di certo la più amata. La ragazza camminò fino al centro della pista e salutò il pubblico alzando la mano destra al cielo. I detenuti risposero con fischi di ammirazione. Il costume di raso fasciava il corpo di Sterlina e lasciava intravedere il petto giovane. Con uno scatto, Sterlina si arrampicò su una corda e raggiunse il filo alto, altissimo. Posò le scarpette sul cavo d’acciaio. Aprì le braccia per cercare l’equilibrio. Quella sera avrebbe inaugurato il numero con la bicicletta a una ruota. Restando sulla gamba destra, spinse il sellino sotto il sedere. Il monociclo si incastrò nel filo metallico e le scarpette si appoggiarono una dopo l’altra sui pedali. La ruota cominciò a girare. Il pubblico mormorò. Il monociclo avanzò, poi si mise a ondeggiare. Sterlina giocò con le braccia aperte: «Oh» sospirò la platea. La ragazza si sistemò con un movimento leggero delle spalle. Ritrovò l’equilibrio e riprese a pedalare. Percorse metri infiniti sopra le teste del pubblico, tutte rivolte all’insù. Attorno il silenzio e Sterlina nel mezzo, gambe sode e braccia alate, a tagliare l’aria con la ruota della bicicletta: «Guardami, Dumitru. Sono bellissima, lo sono per te». A vederla così, c’era da credere ai miracoli. Un metro, due metri, venti, le distanze erano sottili come il filo di metallo sopra il quale Sterlina si ostinava a pedalare: «Vai, Sterlina, non ti fermare» la pregavano i detenuti. Se ti fermi, se tentenni, ci costringi a uscire dal sogno. Quando la ragazza raggiunse la pedana, il pubblico esplose in un applauso: «Brava! Brava!» gridarono i detenuti. Persino i funzionari del Ministero si lasciarono andare.
Direttore, chiesero battendo le mani, è vero che sono zingari? «Quasi tutti.» Anche la ragazza sul filo alto? «Sì.» Anche il domatore di cavalli? «Sì.» Ermete Vallone annunciò la fine dello spettacolo: «Un ultimo applauso, gentili signori». La fanfara tornò in pista insieme agli artisti e agli animali. I cannoni spararono petali e lustrini d’argento. Applausi, musica, luci, colori e festa. Sotto il tendone c’era allegria e, insieme, l’idea precisa di essere nel mondo. Agata non ci poteva credere: “Che mestiere incredibile il circo” pensò. Sull’isola si facevano lavori normali, la pesca, la locanda, l’officina. Alla fine della giornata gli isolani si ritiravano nei letti con le ossa rotte e il peso di un altro risveglio. Quelli del circo, invece, si divertivano. Agata lo vedeva dalle loro facce, dall’espressione luminosa dei visi. Sudavano, faticavano. A volte sbagliavano. Atterravano con un piede storto, si intestardivano su un passaggio, trattenevano uno starnuto per non confondersi con l’umano. Lo facevano perché, sotto il tendone, il pubblico potesse godere di un’aria diversa dal quotidiano. Che importa se dura poco, che importa se finisce. Ciò che conta, di un sogno, è esserci nel mezzo. Allora non era tutto uguale, si disse Agata, non tutto era una condanna. Zia Teresa si copriva la faccia con le mani e sospirava perché «l’inferno è quello che viviamo». Invece c’era gente che di mestiere portava l’allegria. La scoperta fece l’effetto di una rivoluzione: Agata non si sarebbe più accontentata. E se fosse scappata? Sarebbe ripartita con il circo l’indomani stesso. Si sarebbe infilata in una cassa e sarebbe sbucata fuori sul continente: «Sono qui, sono arrivata» avrebbe detto. Il ragazzo con il cappello l’avrebbe guardata: «Che brutti piedi» l’avrebbe umiliata. No, non era una buona idea. Non era bella come Sterlina. Non aveva un cognome nobile. Non sapeva andare sul filo alto, non aveva nemmeno il senso dell’equilibrio. L’avevano vista scivolare su un manico di scopa dentro la foresteria e rotolare fino all’ingresso insieme a un paio di padelle. Certo, sapeva cucinare. Cucinare era il suo modo di stare dentro il sogno. Anche la sua salsa portava l’allegria. A fine spettacolo, i detenuti del Monte distribuirono enormi vassoi di carne condita con la meravigliosa salsa. I circensi si lamentarono: «Salsa Agata? Che roba è?». Erano abituati alla crosta croccante della brace, alle fibre del maiale che si aprono tra i
denti insieme ai grani grossi del sale. Non si sarebbero lasciati involgarire da una salsa che dava l’impressione di essere gentile. Una salsa da femmina, una cosa da ferma. Poteva causare il malocchio e persino l’impotenza. Nemmeno il vasdimos avrebbe risollevato la questione. Invece Dumitru non si lasciò impressionare: «Voglio assaggiare» disse afferrando un vassoio di carne. Iniziò dal sottocollo. Un po’ appiccicosa, la salsa, addirittura dolciastra. Un gusto particolare, fatto di terra, fatto di sabbia. Eppure ogni morso, ogni singolo colpo di mascella era un invito a continuare. «Un altro vassoio» ordinò lo zingaro. Dumitru assaggiò una salsiccia, poi succhiò il midollo di un ossobuco. Alzò l’indice al cielo: «Un altro ancora». Cosce, costine e zampe. «Un altro!» Orecchie di maiale, coda di vacca, testicoli di toro. «In fretta, per carità!» Stinco, sottofiletto e spalla. La carne, dentro quella salsa, girava e rigirava, nuotava, si ubriacava e arrivava dritta in gola. Che delizia mordere, provare, affondare i denti alla ricerca del sapore. Buona, la salsa Agata, meravigliosamente buona. Ci sono fermi capaci di cose da dritti. Sulla «Domenica del Corriere» della settimana successiva, apparvero Sterlina sul filo alto, Dumitru in groppa al Rosso e Agata davanti a una pentola di salsa. Miracolosa, la definiva il giornalista, un concentrato di allegria.
10
Agata era abituata al pane e al sole, al cambio delle stagioni e al mare sempre sveglio. Vedeva le donne diventare mogli e i bambini nati dalle pance delle loro madri. Vedeva gli uomini con la fretta di partire e i vecchi con le attese lunghe quanto le giornate. Non aveva mai pensato all’esistenza perché, per averne una, era sufficiente lasciarsi vivere e accatastare un giorno dopo l’altro. Grazie alle mance del Bianco, aveva comprato i quattro metri di raso che servivano al suo vestito da sposa. Li conservava sotto il letto, avvolti in una velina leggera che l’ambulante le aveva regalato insieme a una manciata di bottoni. Aveva ignorato gli sguardi delle comari che le giravano attorno: «Agata, qualcuno ti si piglia?». Aveva tirato fuori le monete dal fazzoletto e le aveva contate una a una. Il modo migliore di far tacere i pettegolezzi era quello di raccontarli a voce alta. C’erano delle espressioni comuni nel parlare della gente che Agata non riusciva a sopportare. Si piglia un sarago, un chilo di zucchero e qualche volta un malanno. Come si fa a pigliare marito, o peggio, a essere pigliata al posto di un sarago, di un chilo di zucchero e di un malanno? Ad Agata piaceva la soddisfazione implicita nella conquista o quella, umana, della rassegnazione. I circensi creavano uno spazio in cui c’era posto per chiunque, per gli eletti e i reietti. Ecco perché erano così vicini a Dio. Come si poteva resistere al loro richiamo? «Ehi» la chiamò Dumitru. «Ehi!» le urlò tra i tornanti dello sterrato. Al Monte stavano ancora gustando la meravigliosa salsa e il Fabbro già la aspettava con le mani incrociate sopra la tovaglia macchiata di caffè. «Dove vai?» domandò lo zingaro. «È tardi» rispose Agata, continuando a camminare. «Mio padre mi aspetta.» «Lascialo aspettare.» La ragazza accelerò il passo: «Gli ho promesso che sarei rientrata prima dei fuochi di sant’Elmo». «Hai giurato incrociando due volte le dita sulla bocca, così?»
«No.» «Ti sei messa la mano destra sul cuore?» «No.» «Allora non vale». Dumitru si mise di fronte ad Agata, fermando la sua discesa: «Portami a vedere il mare». La ragazza incontrò gli occhi dello zingaro e abbassò lo sguardo: «Vacci da solo» disse. «Siamo su un’isola, basta camminare per incontrare il mare.» «Accompagnami.» «Perché? Questa mattina mi hai cacciata dal tendone del circo. Via, mi hai urlato, oltre le gabbie degli animali.» «Il mondo dei dritti non è fatto per i fermi.» «Allora fai attenzione. Adesso sei nel mondo dei fermi, quello in pericolo sei tu.» Lo zingaro le afferrò i polsi. Agata sentiva l’odore di ţuică mischiato al profumo del meraviglioso condimento: «Lasciami» lo pregò. «Non ti conosco.» «Sono Dumitru.» «Lo so.» «Il mio nome significa “legato alla terra”. Chi si chiama come me, non conosce il riposo.» La presa si fece più salda: «E tu? Come ti chiami?». Attorno cresceva il canto dei grilli. «Agata.» «Agata?» «Significa “buona”.» «Bella.» «Buona.» Dumitru sorrise. Per lui la bellezza era qualche cosa da guardare. Bello era lo zoccolo del Rosso che batteva sulla terra e rilanciava il passo, bella la criniera carica di vento. Bello il Danubio in mezzo alla sua terra, bello il Borsalino sulla testa. Bello è il buono che si mangia, pensò. «Sei mai uscita dalla tua isola?» le domandò lo zingaro. «Una volta soltanto, e ho avuto voglia di tornare.» «Non sei curiosa di sapere com’è fatto il mondo?» «Qui non mi manca nulla.» «Hai ragione» disse Dumitru avvicinandosi alla fronte della ragazza, calda di
imbarazzo. «In fondo vivere in un circo è come abitare su un’isola. Esistono un dentro e un fuori. Chi sta dentro, è nel giusto. Chi sta fuori, sbaglia o rincorre.» Agata si sottrasse alla vicinanza forzata: «Devo andare». «Ti accompagno.» «Vado da sola.» «Prima, però, portami a vedere il mare.» Dumitru la spinse verso il bordo del sentiero e la ragazza ciondolò, indecisa tra il partire e il restare. Provò a liberarsi dalla presa dello straniero. Le gambe si irrigidirono: «Lasciami» disse. I piedi si puntarono sullo sterrato, ma il corpo tradì l’intenzione. Le ditina tozze cominciarono a muoversi, agitate dalla disobbedienza. Si staccarono da terra - dieci piccole bambine entusiaste della vita e di quella giornata - e fecero quello che la testa rifiutava di fare. Seguirono Dumitru. «Non posso» ripeté la ragazza correndo. «Taci» la zittì lo zingaro, provando ad accelerare. «E corri!» Dumitru si buttò nella macchia e spinse Agata lungo il pendio. Aumentò il passo: «Forza» la incoraggiò. La ragazza si lasciò andare. Il peso del corpo la obbligò a rotolare giù e giù: «Aspettami» gridò. I due sbucarono tra l’erica, si fecero solleticare dai rovi e si arrampicarono sui castagni. Giunti di fronte al mare, si fermarono su uno sperone di roccia. Avevano il fiato corto e i vestiti zeppi di bosco. In lontananza, la statua di sant’Elmo dondolava tra le barche dei pescatori: «Questo posto si chiama lo scoglio dell’aquila» disse Agata mettendosi a sedere con l’orlo del vestito raccolto nel grembo. «Eppure non ho mai visto un’aquila volare sul mio mare.» Un falco sì, un pellegrino dal petto bianco. Dumitru si accomodò vicino a lei e appoggiò il cappello sulla roccia. Dal mare arrivarono i tre colpi che annunciavano l’inizio dei fuochi. Lo zingaro sfiorò i piedi di Agata con l’indice sinistro e si dimenticò di loro, di lei, intento com’era a guardare il cielo. La sua faccia si fece rossa, verde, arancione e blu. Dopo i fuochi, ci sarebbero state le stelle. Dopo le stelle, i colori gentili del mattino. E poi il primo sole, le nuvole bianche dell’estate. “Gli essere umani si accontentano degli istanti” pensò Agata, desiderando che la notte durasse oltre il mattino. Si addormentò con il viso sulla spalla dello zingaro. Era un luogo comodo in cui stare. Si svegliò sola, all’alba, con la testa poggiata sulla roccia e il ricordo di una presenza. Tornò dal Fabbro con i piedi sporchi di sale e il rossore che la vita disegna sulle facce degli innamorati.
Il padre la aspettava con le mani incrociate sopra la tovaglia macchiata di caffè. Quando la sentì entrare, le andò incontro e la prese per il braccio. «Dove sei stata?» «Allo scoglio dell’aquila.» «Con chi?» «Mi fai male.» «Ho detto: con chi?» Agata non rispose. Sentì un ceffone sul viso e pensò che il padre fosse un codardo, sì, un vero codardo, a non dargliene un altro e un altro ancora: uno schiaffo solo non era sufficiente. Non era sufficiente a farla ritornare. Le sue ditina tozze l’avevano trascinata appresso a uno sconosciuto che le aveva sussurrato che la vita non era un inferno, come sosteneva zia Teresa. Non era un cumulo di tempo bruciato dentro una fucina. La vita era un solletico colpevole tra le dita dei piedi, era il piacere di un istante destinato a scomparire. Agata si sfiorò la guancia e si chiuse in camera. Avrebbe avuto nostalgia dello zingaro? Si sdraiò sul letto ma non riuscì a riposare. Si rassettò i capelli e il vestito e andò dritta alla locanda. Il lavoro l’avrebbe tolta dall’imbarazzo dell’emozione. Il circo si imbarcò il giorno seguente, portandosi appresso animali, bauli e artisti. Gli uomini caricarono le casse e le donne abbracciarono i curiosi radunati sul molo. Dalla cucina della locanda, Agata salutò il ragazzo con il cappello. Era uno zotico e un beone, l’aveva portata in riva al mare per poi dimenticarsi di lei. L’aveva persino sfiorata. Gentilmente, però, come si fa con le cose belle. «Addio» disse Agata. Lo zingaro se n’era andato. La giornata al Monte, però, non era passata invano. Le aveva lasciato un ricordo che andava oltre l’ordinaria sicurezza delle cose. Da quel momento le stagioni tornarono a susseguirsi, il mare continuò a togliere e a dare. I fichi maturarono al sole e i ricci caddero a terra, con il loro carico di castagne. Agata invece seguì la spaccatura profonda che le correva sulla pelle. Era bastata una carezza a far partire la crepa. Un uomo che non conosceva le aveva sfiorato le dita dei piedi e lei aveva sentito un turbamento nascerle nel petto. Aveva visto quell’uomo saltare sulla groppa di un cavallo, lo aveva visto correre, sorridere e sudare. Lo aveva visto accarezzare la criniera del Rosso e sussurrargli parole che somigliavano all’amore.
Che cos’era, l’amore. Roba da femmina, da sciagurata. Roba da figlia, da fidanzata. Roba da viva, da sacrificata. Forse il Bianco avrebbe fatto meglio a non invitarla al Monte perché conoscere Dumitru, esserne sfiorati, valeva una condanna. Non si sarebbe mai più accontentata. Ecco cos’era, l’amore. Un mattino ventoso e il frusciare dell’erba dentro al petto.
11
Il mercantile salpò puntuale e sparì all’orizzonte con il suo carico di circensi. Agata lo salutò dalla finestra della locanda: «Addio». Tempo prima aveva bruciato l’indirizzo che la maestra aveva scritto su un foglio a righe. Lo aveva gettato perché, a furia di tenerlo in mezzo al petto, l’inchiostro era diventato illeggibile. Lo aveva buttato via senza chiedersi il permesso. Se avesse avuto una madre, si sarebbe seduta accanto a lei e avrebbe appoggiato la testa sulle sue ginocchia: «Mamma,» avrebbe domandato «cosa è giusto per me?». Il Fabbro non era capace di ascoltarla e Teresa tirava sempre in ballo i santi del paradiso che vedono e provvedono in maniera molto generale. Agata invece aveva bisogno di un consiglio. Si sentiva soffocare. Aveva conosciuto lo zingaro e, all’improvviso, le pareti della locanda le erano sembrate insufficienti. Aveva passato gran parte della vita ad accontentare le richieste del padre, della zia, della padrona. La giornata al Monte l’aveva caricata di una stanchezza particolare. Il ragazzo con il cappello era ormai lontano, eppure scorreva sotto pelle insieme al sangue. Era la prima volta che Agata lo sperimentava: il ricordo è la memoria di un corpo. Non poteva più restare nella cucina della locanda a obbedire agli ordini altrui. La ragazza si sfilò il grembiule da lavoro: «Me ne vado» disse alla padrona. La salsa era sul fuoco: «Te ne vai?» chiese la donna impallidendo. «Sì.» «Dove vai? Perché vai? Non puoi. Non te lo permetto. È un ordine!» A nulla servirono le minacce: «Corro a chiamare tuo padre». Neppure le lusinghe: «Vuoi un aumento? Il tuo nome sull’insegna?». «No» rispose Agata. «Voglio qualche cosa di mio.» Qualche cosa da far crescere. Da conservare. Agata tornò nella casa del Fabbro. Dormì un giorno e una notte, senza sognare. L’indomani si alzò di buon’ora e tirò fuori i quattro metri di raso bianco da sotto il
letto. Li portò al mercato per rivenderli all’ambulante dal quale li aveva comprati: «Nessuno ti si piglia?» si informarono le comari mentre l’ambulante contava le monete a voce alta. Agata non rispose e mise le monete in mezzo al petto. Con il ricavato comprò un barattolo di vernice, due secchi di latte di capra, mele, timo, olio, vino e miele di castagno. Entrò nella camera del padre e tolse un’anta dall’armadio per farne l’insegna della sua nuova attività. DA AGATA scrisse con l’indice destro pescando la vernice dal barattolo. Ecco che cosa avrebbe fatto. Si sarebbe messa in proprio e avrebbe aperto uno spaccio di fronte a casa: vendita meravigliosa salsa, cinque lire al mestolo. Il padre avrebbe detto no, la zia si sarebbe scandalizzata. Ma lei sapeva cucinare, glielo aveva detto il Bianco. Lo zingaro glielo aveva confermato, e Agata non aveva motivo di dubitare. Sentiva un formicolio nuovo tra le dita dei piedi, un piacere che la spingeva a provare. La cucina del Fabbro sarebbe diventata la sede della sua nuova attività. Certo, con un unico fuoco a disposizione doveva fare attenzione a indorare bene il soffritto e a non farlo raffreddare. Avrebbe ampliato la cucina con i primi guadagni che, secondo i conti buttati giù in fretta su un foglio di giornale, sarebbero arrivati dopo sei settimane. Agata si diede da fare. Indorò le cipolle, aggiunse il rosmarino e il vino bianco. Tagliò le mele a fette sottili, le insaporì con il miele e le ammorbidì con il latte di capra. Fece cuocere a fuoco lento e attese. Quando la salsa fu pronta, sistemò il pentolone sull’uscio di casa. Il profumo richiamò i passanti. «Prego, accomodatevi» invitò la ragazza, offrendo a tutti un pezzo di pane zuppo del meraviglioso condimento. «La mia salsa mette l’allegria.» Fino a quel momento Agata aveva lavorato al porto, dove le donne perbene non dovevano andare. Di solito i mariti le lasciavano sole per cenare alla locanda. Tornavano sazi e si buttavano nel letto, pieni di un benessere che non avevano voglia di condividere. Le comari del borgo non avevano mai assaggiato la meravigliosa salsa che, al loro olfatto, faceva l’effetto di un sortilegio. Le pie donne chiacchieravano di Agata e degli strani effetti che il condimento aveva sulla loro vita familiare. La ragazza era una strega, una dannata. Rubava i mariti dalle case e li spingeva a perdersi nel vizio. Donna Brigida, in particolare, non poteva sopportare l’affronto. Lei era una signora
vera. Arrivava dalla capitale, dove i fratelli gestivano una macelleria in via del Grillo. Aveva sposato in terze nozze il barbiere dell’isola ed era riuscita a correggerne alcuni terribili difetti, come una balbuzie da stanchezza e la passione per le riviste erotiche. Eppure non era riuscita a farlo smettere di mangiare: «Pollo in salsa Agata, patate in salsa Agata, calamari in salsa Agata» delirava il barbiere durante il sonnellino del pomeriggio, e la sera trovava una scusa per scappare al porto. Donna Brigida si consolava con un pregiato cane portoghese, comprato a una fiera canina del continente. Il pregiato portoghese era un figlio, la sua sola compagnia. Figurarsi la delusione quando il pregiato portoghese la tradì per una boccata di misera salsa. Durante una passeggiatina, il cane alzò il naso per odorare il vento e tirò dritto verso la rivendita. Agata gli lanciò un pezzo di pane e il pregiato portoghese ululò, si prostrò, restò a guardare la cuoca con gli occhi colmi di devozione. Donna Brigida gridò allo scandalo, alla circonvenzione. Non bastava il marito, adesso anche l’animale! La poco di buono aveva esagerato. Bisognava mettere un freno alla situazione. Donna Brigida radunò una delegazione di vicine nella bottega del barbiere: «Carissime» esordì. «Tutte noi conosciamo gli effetti della famosa salsa sulla nostra vita coniugale. Solitudine, beffe e bieche comparazioni. Vi ho riunite qui, stasera, per dire basta.» «Hai ragione» convennero le comari. «Siamo stanche di essere umiliate.» «Questo non è buono, l’altro non è cotto, l’altro ancora non ha il sapore della salsa Agata.» «Cosa avrà mai questa salsa da essere così speciale?» «La ragazza ci mette il dente di aspide, la padrona della locanda l’ha vista con i suoi occhi mentre lo sminuzzava con il pestello.» «Il dente di aspide è figlio di Satana.» «Bisogna pregare.» «Lassù hanno problemi più urgenti da sistemare» tagliò corto donna Brigida. «Ho in mente una soluzione più sbrigativa. Ci penseremo noi a risolvere la questione.» «Come?» «Conosceremo il nemico: assaggeremo la meravigliosa salsa.» «È peccato!» «Non si fa.» «Basterà attraversare la strada...» Brigida scostò la tendina del negozio e indicò
Agata, seduta davanti all’uscio di casa: «E provare. Datemi retta. Se assaggeremo la salsa, potremmo inventarne una ancora più buona». In effetti la proposta portava un doppio beneficio. Seguendo il consiglio, le comari avrebbero riavuto i loro mariti e si sarebbero levate lo sfizio. L’aroma che arrivava dalla rivendita metteva loro un enorme, insaziabile appetito. Le donne si decisero. Scesero in strada, ignorarono Agata e tirarono dritto fino al pentolone. Si chinarono sulla bocca fumante. Le narici si dilatarono, i peli si rizzarono, la saliva iniziò a correre tra le labbra serrate: «Basta» urlò Brigida. «È ora di finirla!» Chi mise il dito, chi inzuppò il pane, chi tentò addirittura di leccare, una dopo l’altra le comari cominciarono a sparlare: «Non è buona». «Non è affatto particolare.» «Sa di piede.» «Sa di cane.» «Sa di pelo di maiale.» «I nostri mariti sono proprio degli stolti.» «Una vera delusione.» La sera stessa, si ritrovarono nella cucina di donna Brigida, che aveva quattro fuochi e persino una sguattera. La salsa Agata era abbastanza buona, ammisero, ma non era nulla di speciale: due cotogne, un po’ di timo e mezza scorza di limone. Loro erano in tante e avevano anni di cucina alle spalle. Potevano cucinare una salsa migliore. Tirarono fuori coltelli e padelle. Tagliarono, mischiarono, dosarono. Alcune si azzuffarono: «Ho detto di levare». «Ho detto di aggiungere.» Gira, affetta, assaggia. Togli, prova, lascia fare. Dopo ripetuti tentativi e qualche defezione per oltraggio personale, il risultato fu simile. Vicino. Non proprio uguale. La salsa non aveva la stessa consistenza. Cerano dei grumi. Il gusto era troppo dolce, il colore non invitava. Per forza, loro non avevano il dente di aspide. Solo le anime invise a Dio potevano maneggiare un ingrediente così pericoloso. Chi lo toccava, finiva dritto all’inferno. Mangiarlo no, non era peccato. Una volta bollito, il dente perdeva tutto il suo veleno. Le comari ne erano sicure? Assolutamente. Bastava confessarsi nei giorni dispari per tenere puliti l'intestino e l’anima. Le donne provarono. Riprovarono. Riprovarono ancora. Dopo due notti di tentativi, ammisero che la ricetta di Agata era discreta e,
purtroppo, inimitabile. Che cosa potevano fare? In fondo, la rivendita non era una cattiva idea. Potevano comprare la salsa e aggiungerne due cucchiai alla zuppa, per convincere i mariti a restare. Andare allo spaccio sarebbe stata un’umiliazione? «Sempre meglio che vedere i nostri mariti pendere dal mestolo di una ragazzina» ammise donna Brigida. Le pie donne si misero in coda davanti al pentolone: «Due porzioni». «A me tre.» «Per me un secchio, ho dieci figlioli da sfamare.» La sera stessa, le donne prepararono primi e secondi e li impreziosirono con il condimento. Si tolsero i grembiuli e indossarono l’abito della domenica per celebrare il martedì. I mariti rincasarono puntuali. Dalle finestre illuminate salirono profumi di cucina e rumori di forchette. Si udirono chiacchiere, risate e, più tardi, gridolini imbarazzati di felicità. L’indomani le comari si ritrovarono al mercato: «Allora, come andata?» chiese donna Brigida. Tutte nascosero i sorrisi e, spingendosi l’un l’altra, presero la via della rivendita.
12
Dopo l’addio di Agata e l’apertura della rivendita, la locanda si svuotò e la padrona precipitò nella disgrazia. Pensare che era stata lei a dare una possibilità a quella ragazzina. Le aveva messo a disposizione la cucina e il buon nome dell’esercizio. Ad averlo saputo, l’avrebbe lasciata marcire nella fucina, insieme al Fabbro. Per contrastare la concorrenza di Agata, si mise il figlio in collo e scese in strada: «Salsa!» cominciò a gridare. «Venite al porto a provare!» Si era inventata una salsa ancora più gustosa: salsa Giovanni, si chiamava. Volevano assaggiare? Come no? Era un incanto! Prugne, miele e burro. No? Perché? Meglio la salsa Agata? Ecco, tutti uguali, gli esseri umani: capre e caproni appresso allo stesso ciuffo d’erba. Lei aveva lavorato una vita intera, si era spaccata le ossa per dare un futuro a suo figlio. Cosa ci aveva guadagnato? Nulla! Giovanni era giallo e, come se non bastasse, gattonava stanco. Era nato col mal di vivere. Adesso ci si metteva pure Agata. Per colpa sua la locanda era in rovina. Gli isolani cenavano a casa e i marinai mangiavano pane e salsa davanti alla rivendita. Il Bianco non si era più visto. Restava al Monte insieme ai delinquenti che, per farle un torto, si rimpinzavano di quella porcheria e diventavano più buoni, proprio così, tranquilli come agnellini sopravvissuti alla Pasqua. Si era rivolta al prefetto, al sindaco e in ultimo - al parroco. Non si aspettava granché da un uomo che non beveva vino, e infatti il curato aveva elargito la solita benedizione di circostanza. Davanti alla rivendita di Agata, intanto, si formavano lunghe code di clienti. Tra i complimenti e le lusinghe, qualche malalingua ci infilava una puntura. Riunite sopra la bottega del barbiere, le comari si ingozzavano di tartine in salsa e riconoscevano che sì, Agata era stata baciata dalla divina grazia. A dirla tutta, però, una ragazza senza madre, e in età da marito, avrebbe dovuto pensare più a sposarsi che a lavorare. Con che ardore rimestava nel pentolone! Si era fatta le braccia forti come quelle di un uomo. Una così audace faceva paura. Nessuno se la sarebbe presa. Sarebbe rimasta una gamba zoppa.
Teresa partecipava alle riunioni e, di solito, restava ad ascoltare. Dopotutto Agata l’aveva tirata su lei, con il sudore della fronte. Una difesa della nipote poteva sembrare una giustificazione personale. I pettegolezzi delle comari, però, si facevano insistenti. Teresa avrebbe voluto guardarle in faccia e cantargliele di santa ragione: sua nipote cucinava una salsa che metteva l’allegria. La vendeva. Si faceva anche pagare. E allora? Che male c’era nel mettere a frutto i doni del buon Dio? La nipote aveva ricevuto cinque talenti e ne avrebbe ricavato cinque volte tanto. Lo diceva anche il Vangelo ma l’invidia, lei lo sapeva bene, era il peggiore dei vizi capitali. Le maldicenze le davano l’emicrania. Per purificarsi, Teresa si concesse due settimane di acque termali, dalle quali rientrò leggermente dimagrita e con il fastidio di una colica renale. Per non parlare dello scandalo. Scandalo? Ne discutevano già tutte le comari. Quale scandalo? Bentornata, Teresa. Che bella pelle. Ti sei purificata. Avete detto scandalo? Sciocchezze. Che sciocchezze. Pure fantasie. Non ti farà piacere saperlo. Sapere cosa? È solo un pettegolezzo. Vi decidete a parlare? Mentre eri sul continente, il circense è ritornato. Il circense? Lo zingaro. Dumitru Serban è arrivato con il mercantile del martedì e una cassa di monete d’oro. Dicono abbia rubato il forziere dei Vallone e lo abbia seppellito sull’isola, sotto un pino marittimo. Che farabutto! Lo hanno visto chiacchierare con Agata. Mia nipote? Proprio lei.
La sera Agata ritirava l’insegna del suo spaccio e lo zingaro le girava attorno come un randagio. Aspettava che gli ultimi clienti se ne fossero andati per cominciare a sproloquiare. Che diamine avevano da dirsi, quei due? Agata era una persona di poche parole. E allora cos’erano quei risolini di complicità, gli occhi buttati a terra e l’inequivocabile pigolio tra le labbra in risposta all’invadenza del barbaro? Teresa, una mano sui reni e una sul cuore, bussò alla moglie del barbiere: «Donna Brigida» la pregò. «Mi faccia entrare. È una questione di vita o di morte.» Teresa e donna Brigida si accomodarono dietro le finestre socchiuse del primo piano e si misero a spiare. Agata e lo zingaro non si sfioravano, eppure tra loro c’era un alone di peccato. Donna Brigida, lo vede anche lei? Luminoso e chiaro. Per non parlare del giovedì sera: «Un vero mistero, un rompicapo». Agata consegnava cinque fusti di salsa allo zingaro. Dumitru si imbarcava sul notturno delle ventitré e tornava sull’isola il sabato mattina, con un mazzo di banconote in tasca e qualche stupido regalo. Teresa non aveva dubbi: la nipote aveva perso il senno appresso a un uomo che da lì a poco si sarebbe dimenticato di lei, anche se per il momento lui la corteggiava, era chiaro a tutti, persino a don Carmelo che era uno spirito buono e vedeva il male soltanto se glielo indicavano con l’indice. Teresa si precipitò in canonica e tirò il prete per il collo: «Lui!» disse additando il ragazzo col cappello. Aveva sedotto Agata e non c’era verso di farla ragionare. Bisognava vedere la tenacia che lo zingaro metteva nella conquista. Dumitru si sedeva sulla panchina di pietra e tirava fuori dalla sacca una collana, un vestito, una scatola di cioccolata. Per questo la ragazza si ingrassava. Nelle ultime settimane era cresciuta di almeno due taglie. Era fiorita di carne e sorrisi e indossava certi abiti che sull’isola non si erano mai visti. Avevano spacchi sul davanti, a scoprire il petto, e colori che imbarazzavano l’occhio. Glieli aveva regalati lui: «Lui!». Li aveva rubati alle donnacce del circo e li usava per comprare la ragazza e qualche mestolo della sua preziosa salsa. Per non parlare dell’affronto: «L’affronto!». Dumitru le aveva regalato un paio di decolté. Rosse, di vernice, alte almeno cinque dita di marinaio. La moglie del barbiere e le pie donne erano testimoni. Un sabato mattina lo zingaro aveva appoggiato le scarpe sulla panca di pietra. Agata le aveva sfiorate, le aveva annusate. Poi le aveva messe a terra e ci aveva infilato i piedi, prima il destro poi il
sinistro. La ragazza si era allungata fino al cielo, allungata fino a Dio. Gli angeli e i santi si erano scandalizzati. Come osava, la peccatrice, tentare l’ascensione? Con quelle diavolerie ai piedi, Agata si presentava persino in chiesa. Lo faceva apposta, lo faceva per farsi notare. La ragazza ancheggiava lungo la navata centrale: «Tutta!» e i suoi passi erano pesanti come i vizi capitali. Si accomodava sulla prima panca. Permesso permesso, chiedeva, e le comari si stringevano l’un l’altra per non farla passare. Agata era tenace. Poggiava il tacco sulla carne viva e lo strumento, figlio di Satana e nemico di Dio, era più convincente di Mosè davanti alle acque del Mar Rosso. Teresa faceva cadere due lire e si chinava. Eccolo. In mezzo ai talloni screpolati delle pie donne rifulgeva il peccato mortale. Di vernice, alto cinque dita di marinaio. Le veniva voglia di allungare una mano e sradicare le radici del male dal pavimento della chiesa patronale. Per forza al Fabbro si guastava la salute! Un uomo gli stava portando via la figlia. Che fosse un circense e, peggio, uno zingaro aggiungeva veleno alla questione. Dallo stomaco del poveraccio salivano certe fiammate di malumore che arrivavano dritte in bocca, lasciandogli un gusto marcio che toglieva qualsiasi soddisfazione. Il Fabbro si era rifugiato nella fucina, non usciva più nemmeno per andare a messa. Ormai la frittata di cipolle lo disgustava. Agata si ostinava a preparargliene due porzioni al giorno, che il padre rifiutava. Sarebbe campato a pane e formaggio, piuttosto che essere nutrito dalla donna che lo esponeva alla vergogna. E di vergogna si flagellava anche Teresa, che aveva cresciuto la nipote a giaculatorie e l’aveva tirata su con l’esempio. Doveva immaginarlo. Quei discorsi sulla Beata Vergine erano una bestemmia, una profanazione: «Ma lo sa, don Carmelo, cosa mi ha chiesto? Cosa mi ha domandato?». Avrebbe dovuto raddrizzarla con la verga, metterla in ginocchio e batterle la schiena fino a farle uscire il sangue. Invece Teresa era stata indulgente, si era limitata a qualche cucchiaio di olio di ricino e a un pellegrinaggio. Cosa ci aveva ricavato? Nel santuario del continente, Agata si era illuminata: «È nera, è nera» aveva urlato davanti all’immagine della Madonna. Teresa l’aveva tirata via per le orecchie mentre i pellegrini si facevano il segno della croce. Ne era certa. Sua nipote era figlia del demonio. Si era mangiata l’anima della povera madre, aveva sepolto il padre sotto un mucchio di vergogna e provava a trascinare anche lei nel fango e nella dannazione. Ah no, lei avrebbe resistito. Si sarebbe ancorata mani e piedi al crocefisso della
sacrestia, si sarebbe incatenata all’inginocchiatoio del confessionale, ma lei - il buon Gesù glielo aveva promesso - sarebbe andata in paradiso o, al massimo in purgatorio per smaltire qualche faccenda, roba da poco, un paio di zucchine rubate dall’orto della vicina e la lingua ormai mozza che ogni tanto si seccava, a furia di chiacchiere e cicalecci. Teresa ci aveva anche provato: «Don Carmelo» aveva sussurrato nel segreto del confessionale. «Non riesco a tenerla a freno.» Da quando si era mangiata la punta della lingua, parole frasi discorsi le uscivano ininterrotti, come l’acqua dal rubinetto termale. Adesso quel gran spettegolare le si rivoltava contro. L’isola intera mormorava alle sue spalle. Teresa era la madrina di Agata, colei che aveva appoggiato la mano sulla sua spalla destra durante i sacramenti. Che ne sarebbe stato della virtù, della sua buona reputazione, del fazzoletto che si metteva in testa per sedersi a destra dell’altare per la messa settimanale e per quella solenne dei giorni di festa. Agata la voleva umiliare. La ragazza è fiorita, mormoravano le pie donne. Teresa provava a mascherare. Macché, è soltanto rotonda. Le sue guance sono rosse di salute e sentimento. Vampate che salgono dall’inferno. La pelle risplende. È il sole dell’estate. Il petto è gonfio. Tutta la sua povera madre. La salsa è sempre più buona. Quello sì, non si può negare. Da quando lo zingaro era sbarcato sull’isola, la salsa era ancora più cremosa. Pareva addirittura cinguettasse. Se si appoggiava l’orecchio al pentolone, si udiva il coro degli arcangeli. Quali erano le novità, se non le attenzioni del circense? Il fannullone voleva prendersi la nipote. Mai e poi mai. Teresa non lo avrebbe permesso. Prima avrebbero dovuto tagliarla a fette sottili e spedirla al Creatore, ricoperta di meravigliosa salsa. Calmati, Teresa, sminuivano le donne. La reazione era esagerata. Che facevano di male i due ragazzi? Chiacchieravano sottovoce mentre Agata ritirava l’insegna. Lo zingaro spazzava l’uscio e dalla cucina arrivava il rumore delle pentole messe ad asciugare. Si era mai visto un gesto tra loro o, che il cielo ci perdoni, un bacio? Dumitru dormiva in un
bivacco, lungo lo sterrato che saliva verso il Monte. Il giovedì partiva per il continente, rientrava il sabato con una sacca di regali: «È solo uno zingaro» gridava Teresa. «Uno sfaticato!» Non era vero. Era la rabbia che le confondeva la ragione. Gli uomini del paese dicevano che lo zingaro era un gran lavoratore. Il Bianco lo aveva chiamato al Monte per pareggiare la ferratura di un cavallo e lo aveva voluto con sé, a lavorare. Era capace di fare molte cose. Aveva insegnato ai detenuti a ferrare i cavalli. Aveva migliorato l’alimentazione delle bestie e la qualità delle carni. I polli del Monte erano troppo magri. Occorreva toglierli dalle gabbie e lasciarli razzolare. Aveva proposto al Bianco di variare la granaglia, mischiare amaranto e fagioli al mais. Le capre avrebbero prodotto più latte con due pasti settimanali di capraggine. Dopotutto perché l’erba si chiamava in quel modo? Le capre ne erano golose e le zinne diventavano gonfie di latte, gonfie così. La nonna dello zingaro, in Oltenia, ne dava anche alle madri con i seni asciutti. Dumitru aveva mostrato ai detenuti come cavalcare a pelo e all’inglese. Ai più sfaticati chiedeva di accumulare lo sterco, rigirare la terra, concimare gli orti, così da far sentir loro la fatica della sera. Aveva addirittura portato dal continente tre casse di palle, corde, clave e cerchi e, durante l’ora d’aria, insegnava ai prigionieri qualche numero circense. Tra le guardie c’era un po’ di malcontento. Chissà se nella capitale sapevano cosa stava capitando. Il Monte era diventato una colonia estiva. Lavoro, circo e una razione giornaliera di salsa. Avanti così e sarebbe stato un piacere diventare un disgraziato.
13
La visita di Angelo Greco, per il Bianco, fu del tutto inaspettata. Il Ministero non aveva inviato nessuna comunicazione. Il vicedirettore bussò alla porta dell’ufficio: «C’è il dottor Greco» disse. «Le vuole parlare». Il Bianco alzò la testa dalle carte e lo vide entrare. Aveva un ghigno, quell’uomo, un modo particolare di sollevare l’angolo destro della bocca che invitava al sospetto. Il Greco si accomodò di fronte al Bianco. Le gambe aperte, l’unghia del mignolo tra i denti: «Buongiorno, Direttore» disse. «Buongiorno a lei, dottore.» «L’isola è così bella. Al confronto, le altre isole dell’arcipelago sembrano le sorelle cattive. Il mare pulito, questa bella collina. Le coste deserte.» «È qui per una vacanza?» «Me lo dica lei. Giungono voci, al Ministero, di zingari e allegria. Si gode la vita, Direttore? Eppure qui non siamo al circo. Questo è un carcere, c’è poco da scherzare.» «Nessuno scherza.» «Ho parlato con il Ministro. C’è una buona opportunità per lei, in Lucania.» «Non mi spaventa.» «Non la voglio spaventare. I tempi sono cambiati. La miseria se ne va, ci abbandona. La guerra è un ricordo, per fortuna, e c’è tanto da fare per ricostruire la nostra bella Italia. Cosa pensa? Di starsene qui a consolare la vita del prossimo? Per lei abbiamo altri progetti, altri desideri.» «Sono curioso di conoscerli.» «Si guardi attorno, Direttore. L’isola è un paradiso. Tanta grazia per un pugno di delinquenti è uno spreco, bisogna rimediare.» Si alzò, andò alla finestra: «Vedo con piacere che i detenuti sono di buon umore. Merito dello zingaro e della meravigliosa salsa. Il Ministro sarà contento di sapere che il Monte è sempre in festa.» Sul vetro rimase un alone grasso: «Direttore, sono qui per dirle che il Monte chiuderà. La struttura
sarà ceduta e i suoi ospiti saranno rimandati sul continente. Le rimangono sei mesi». «Sei mesi... E poi?» «Aria pulita e tanta campagna. Conosce la Lucania, Direttore? C’è mai stato?» «No.» «Si porti appresso lo zingaro ma ci lasci la ragazza, quella la vogliamo. Arriveranno fin dal continente per gustare la sua meravigliosa salsa.» Il Bianco riordinò le carte davanti a sé: «Vuole scusarmi? Ho molto da fare». «Direttore, mi perdoni. Posso avere un piatto di pasta in salsa Agata? Sa, il viaggio mi ha messo appetito. No, non si scomodi. Chiami la cucina e mi faccia portare il pranzo. Se non le dispiace, mangio sulla sua scrivania. Lei continui pure a lavorare. Non mi dà nessun fastidio.»
14
La rivendita di Agata divenne il ritrovo degli isolani. Fin dalla mattina, i clienti si mettevano in coda per comprare qualche mestolo della meravigliosa salsa. La gente bivaccava sullo sterrato e i marinai pranzavano con le schiene appoggiate ai muri di cinta. Il sindaco mandò a chiamare Agata: «Si vergogni» la rimproverò. La rivendita portava scompiglio e confusione, bisognava spostarla in uno spazio più grande. C’era il salone parrocchiale, ma don Carmelo non glielo avrebbe mai concesso. Il luogo ideale restava la vecchia locanda. La padrona non riusciva più a tirare avanti e gli unici avventori erano un paio di ubriaconi che la sera dormivano sui tavoli per non fare la fatica di ritornare a casa. La padrona aveva provato a vendere a un cugino del continente. L’affare non era andato a buon fine. Avrebbe ceduto l’attività a chiunque ma non a lei, alla causa della sua rovina. Agata lo sapeva bene, per questo si presentò alla locanda con una borsa di cotone tra le mani. Bussò alla porta sul retro: «Sono Agata». «Vattene» urlò la donna. «Mi faccia entrare.» «Mai.» «Posso pagare.» «Piuttosto che venderti l’osteria, le do fuoco.» «Sono soldi puliti» insistette Agata. «Li ho guadagnati con il mio lavoro.» «Con il mio lavoro, vorrai dire!» «Le faccio una proposta. La lascio sulla porta, in una borsa di cotone.» Nella cucina, la padrona si mise a spadellare: «Oggi zuppa di cozze». Parlava da sola, in mezzo alla stanza spoglia di cibo e clienti. «Non spingete, per favore. Ce n’è per tutti.» «Tornerò questa sera, dopo il tramonto.» La ragazza prese la via del borgo. La padrona socchiuse la porta e afferrò la borsa,
ricavata da una gonna dismessa. Poteva riconoscerne l’orlo e i segni lasciati dalle tasche. Era morbida al tatto. L’aprì e cominciò a contare. Dieci, venti, cento. Lei lo aveva sempre detto: la ragazza era figlia del demonio. Duecento, trecento, trecentocinquanta. Era stata nutrita e aveva ricambiato con il tradimento. Cinquecento, seicento, seicentoventi. Voleva comprarla con pochi spiccioli? Mille, millecento, mille e due. E se non l’avesse assecondata? Il povero Giovanni sarebbe diventato ancora più giallo. Il figlio aveva bisogno di cure e lei era stufa, stufa marcia di pagare i debiti suoi e quelli degli altri. Tremila, tremila e duecento. Forse si sbagliava. Con quei soldi non sarebbe diventata ricca. Seimila e novecento. Forse un po’ più ricca. Quindicimila. Quindicimila e cento, quindicimila e due. Al diavolo! Meglio un po’ più ricchi sul continente che pezzenti su un’isola di capre e ladroni. Agata tornò a sera inoltrata. Trovò la porta aperta e le chiavi appoggiate sul marmo della cucina. La padrona era partita con l’ultimo mercantile, insieme al figlio giallo e alla borsa di cotone. La ragazza si guardò intorno e si accomodò al tavolo in fondo alla sala, dove di solito si sedeva il Bianco. Immaginò la locanda con le pareti ridipinte e le tende colorate alle finestre. Vide i tavoli rallegrati da tovaglie fiorate e mazzolini di mentuccia. Lesse il suo nome sull’insegna: DA AGATA. CUCINA CASALINGA E VENDITA MERAVIGLIOSA SALSA. Immaginò il menù sulla parete principale: zuppe, primi e grigliate, tutto rigorosamente in salsa. C’era da assumere i camerieri e un aiuto cuoco, in attesa che il fellato finisse di scontare la sua pena. I clienti avrebbero brindato alla riapertura della locanda e le donne, che non si erano mai avvicinate al porto, si sarebbero concesse almeno il pranzo domenicale. L’indomani Agata si trasferì nei locali sopra la locanda. Portò con sé il vestito azzurro e il breviario con le misteriose iniziali, in attesa dell’armadio che lo zingaro avrebbe costruito per lei. La mattina seguente, Dumitru la raggiunse. Ormai era ufficiale. Non si poteva più nascondere. Lo sapevano anche i sassi. Persino le onde del mare. I gabbiani, i cormorani e il falco pellegrino. Agata e Dumitru vivevano mole ussorio. L’espressione l’aveva tirata fuori don Carmelo che aveva studiato latino al Pontificio
Seminario Maggiore. Donna Brigida lo aveva illuminato: «Reverendo» gli aveva detto nel segreto del confessionale. «Mi perdoni perché ho peccato.» «Dimmi, figliuola.» «Ho peccato di acutezza.» «Che peccato è?» «Vedo un’anima in pericolo.» «Si tratta di te?» «No.» «Di chi, allora?» «Di Agata, la figlia del Fabbro. Viene in chiesa con certe scarpe da città che fanno voltare i maschi, li fanno agitare.» «Ognuno è responsabile delle proprie azioni.» «Ha ragione, don Carmelo, ma la ragazza cucina una salsa che fa cadere in tentazione.» «Non di solo pane vive l’uomo.» «Ci mancherebbe altro, reverendo. Infatti Agata...» «Cosa combina?» «Vive sopra la locanda...» «Sì?» «Insieme a Dumitru Serban.» «Lo zingaro?» «Proprio lui. È tornato sull’isola con il tesoro dei Vallone e lo ha seppellito chissà dove.» «Lo zingaro e la ragazza vivono insieme?» «Sì.» Il prete abbassò la voce: «More uxorio?». «No, don Carmelo, gliel’ho già detto. Abitano sopra la locanda.» «Non mi interessa dove, ti ho chiesto se vivono sotto lo stesso tetto, al di fuori del matrimonio.» «Appunto! E quel che è peggio, mi perdoni se la mia lingua corre, è che...» «Parla, figliuola.» «Non è peccato?» «Io ti assolvo dai tuoi peccati.» «Un’ave un pater e un gloria?»
«Parla!» «Agata è come la luna.» «In che senso?» «Crescente. Uno spicchio, due spicchi, tre spicchi.» «Intendi dire che...» «Intendo dire che.» «Nel senso di...» «Esattamente.» «Sia benedetto il cielo!» «La ragazza è sempre stata un po’ particolare. Adesso la situazione è sotto gli occhi di tutti. Per la vergogna, il padre si lascia morire di fame. Teresa è diventata uno straccio. Non viene nemmeno più in chiesa, tanta è l’umiliazione. Allora, don Carmelo?» «Cosa c’è?» «Posso andare?» «Vai in pace.» «E la penitenza?» «Un’ave, un pater e un gloria.» «Valgono quelli di prima?» «Vai!» La domenica successiva, dall’altare, don Carmelo, osservò la ragazza camminare lungo la navata centrale, sulle scarpe rosse e alte cinque dita di marinaio. In effetti si era un po’ ingrassata. Le fedeli affollavano la prima panca per non farla accomodare: «Permesso, permesso» domandava. Durante la predica don Carmelo tuonò contro i vizi capitali: «La lussuria, in particolare, è figlia di Satana, nemica di Dio». Era la prima volta che il buon parroco sudava. Alzò una mano al cielo, poi due, infine si issò sulle punte dei piedi: «Chi vive nella lussuria, morirà nei patimenti!». Le pie donne della prima fila, occhi sgranati e rosari bollenti, annuivano a labbra strette: «Mm mm». Agata invece si annoiava. Qualche sbadiglio, un mal di schiena che la faceva agitare. Alla fine della messa, don Carmelo fece cenno ad Agata di seguirlo in sacrestia. No, rispose la ragazza agitando l’indice destro, ho lasciato la salsa sul fuoco e i clienti della domenica mi aspettano. Don Carmelo si scurì.
Di là, e in fretta. Due minuti, però, devo proprio scappare. «L’isola è piccola» esordì il parroco. «Lo so.» «Mi dicono che hai ritirato la locanda del porto.» «Da più di un mese.» «Come vanno gli affari?» «Non mi lamento. Ho due ragazze e un garzone che mi danno una mano.» «E tuo padre?» «È sempre stato un solitario.» «Tua zia Teresa?» «Non la vedo da un po’ di tempo.» «So che ospiti qualcuno, giù alla locanda.» «Sì.» «Un parente?» «Un conoscente.» «Un fidanzato?» «Un amico.» «Lo zingaro?» «Don Carmelo, devo andare.» «Dimmi come si chiama.» «Chi?» «Dumitru Serban, il circense.» «Se sa come si chiama, perché me lo domanda?» «Dio ha benedetto la vostra unione?» «Io. Io ho benedetto la nostra unione.» «Non mi prendere in giro, ragazzina, stai vivendo nel peccato mortale!» «Non è vero.» «Stai fiorendo.» «Non ho nulla da nascondere.» «Tu e lo zingaro vi dovete confessare.» «Lo zingaro non c’entra niente.» «Mi stai dicendo che vivete sotto lo stesso tetto come fratello e sorella?» «Proprio così.»
«E allora chi è stato?» «Non lo so.» «Dimmi chi è stato.» «Non lo conosco.» «Pensaci bene.» «Cosa vuole che le racconti, che un angelo è apparso in sogno allo zingaro? Non temere di prendere con te Agata, gli ha detto, perché quel che è generato in lei viene dal mare.» Il prete si fece paonazzo. «Come osi, ragazzina?» Il curato si agitò, le ginocchia cominciarono a tremare. «Bisogna che vi sposiate.» «Arrivederci, padre.» Agata uscì dalla sacrestia sui tacchi di vernice. Si sarebbe ripresentata la domenica successiva, con le scarpe rosse ai piedi e il velo bianco in testa. Non sarebbero riusciti a cacciarla via. Dopotutto, qual era il suo peccato? Non avrebbe pagato le colpe degli altri, specialmente quelle di chi non conosceva affatto.
15
Dumitru? Dimmi, Agata. Come l'Oltenia? Ci sono prati grandi e manciate di case. Il Danubio scorre in mezzo alle montagne. Da bambino vivevo sulla sponda romena, in una baracca che dava sul fiume. Bastava che mi sporgessi sulla riva per vedere un’altra nazione, un altro confine. La radio prendeva le stazioni jugoslave. Mio cugino Marian imparò a suonare la fisarmonica ascoltando la loro musica. Ai matrimoni non lo facevano mai esibire perché dicevano che fosse uno straniero. Che fine ha fatto tuo cugino Marian? Ha sposato una ferma. Una gaggé. È felice? Chi lo sa. La felicità si muove insieme ai dritti. Tu però ti sei fermato. Non mi sono fermato. Sono ritornato. Sentivo nostalgia ed era la prima volta: non l’avevo mai provata. Sentivi nostalgia di me o della mia salsa? Che differenza c’è? La stessa che c’è tra te e il tuo cavallo. Presto ripartirò. Andrò sul continente e tornerò insieme al Rosso e ai suoi undici fratelli. Quando ho lasciato il circo Vallone, gliel’ho giurato: «Stai tranquillo» ho detto al Rosso. «Presto verrò a riprenderti e ti porterò sull’isola senza nome.» Potrai costruire le stalle nel cortile dietro la locanda. I cavalli te ne saranno riconoscenti. Tu come lo sai? Me lo hanno detto.
In quale lingua? La loro. Come riesci a parlare con i cavalli? Osservo e chiedo, senza comandare. Vale anche per gli essere umani? Certo. Eppure, quando ci siamo conosciuti, con me sei stato un arrogante: «Via» mi hai ordinato. «Oltre le gabbie degli animali». Ti ho detestato. La sera dello spettacolo, volevo nascondere la faccia tra le mani ed evitare di guardare. Non avrei voluto applaudirti, costringermi ad ammettere che mi ero sbagliata. Non potevi essere prepotente come pensavo, se riuscivi a comunicare con il Rosso in quel modo così... Così? Delicato. Il Rosso è il mio preferito. Quando l’ho conosciuto, aveva una zampa ferita. L’ho curato. Voglio essere chiamato Rosso, mi ha detto. Sei bravo, zingaro. Non sono bravo. Sono paziente. Anche con me. Specialmente con te. Il giorno dello spettacolo ti aggiravi nei pressi del tendone. Indossavi un vestito azzurro e guardavi il mondo - il nostro mondo - come se non riuscissi a credere che ci fosse qualcuno capace di vivere al di fuori dell’isola che avevi addosso. Non potevo staccare gli occhi dai tuoi piedi. Tu li nascondevi sotto il vestito. Pensavo ti prendessi gioco di me. Di loro. E perché mai avrei dovuto prendermi gioco di te? Di loro? I tuoi piedi erano conficcati nella terra, ti legavano a un mondo - il tuo mondo - fatto di giorni sempre uguali. Quelle ditina erano radici e tu, Agata, eri un noce dai tanti frutti. Volevo appoggiare la schiena al tronco, godere l’ombra dei rami. Dire a me stesso: «Qui posso tornare». Non ho niente da offrirti, zingaro. Se fossi in te, ripartirei domani. Lasciami decidere della mia vita. Della tua vita, non della nostra. Ci sono cose che succedono e basta. Risparmia le parole. Non sai nulla di me. È vero, però conosco la tua salsa e la dose sapiente degli ingredienti: una cipolla, due mele cotogne, la scorza di un limone e tre gocce di rabbia.
Che cos’è la rabbia, zingaro? Un sorso di ţuică che va giù, dentro una gola assetata. Ti sbagli, la rabbia non scorre. Sedimenta. Guardami. La rabbia si è raggomitolata dentro il mio ventre. Ne sono certa, Dumitru: qualcuno che non conosco abita in me. Non so chi sia e non so da dove venga. Quando ho scoperto l’intruso, mi sono picchiata lo stomaco e ho mangiato semi di cavolo mischiati a segale cornuta. Eppure l’essere è rimasto lì, attaccato al mio corpo. Le cose devono fare il proprio corso. Anche quando non le scegliamo? Scegliamo quanto latte mettere nella salsa, che tipo di miele utilizzare. Scegliamo l’abito da indossare, il colore del sottosella. Non scegliamo quando invecchiare. E io sto invecchiando. Siamo nati invecchiando. Mi starai vicino? Adoro i tuoi polpacci, Agata. La forma tornita delle caviglie. E queste ditina tozze, dieci foglie di verza ripiene di riso e carne. Sei il pasto della domenica al villaggio. Hai l’odore della baracca quando è inverno e la stufa sa di leccio. Mi piace girarti attorno e saperti sempre ferma. Ferma e mobile. Sono una contraddizione. Sei una meraviglia. E non mi chiedi di restare. La domenica Agata e Dumitru danzavano sul terrazzo sopra la locanda. Mentre la radio cantava, la mano dello zingaro sfiorava la schiena della ragazza e contava i giorni scritti sulla pelle. La pressione del palmo invitava a cominciare. Le dita suggerivano la direzione, il polso chiamava il giro. A destra, dentro l’abbraccio dello zingaro. A sinistra, in uno spazio che pretendeva di essere violato. La musica pulsava nelle tempie insieme al battito sordo del contatto. Con gli occhi chiusi, i colori si accendevano. Attorno azzurro mare, sotto verde isola. Sopra giallo sole. Dentro, rosso piccante pudore. La gente li osservava dalle finestre e chiacchierava della loro insolenza. Come potevano essere così sfrontati? Così dannatamente svergognati? Zitta, Agata. Continua a danzare. Soltanto i corpi vivi sprigionano calore.
16
Nei mesi successivi, la pancia di Agata continuò a crescere. Don Carmelo scomunicò la ragazza dal pulpito perché «chi vive nel peccato non è degno di entrare nella casa del Padre». Le proibì di assistere alla messa e mise una decina di chierici e chierichetti a guardia del portone principale. Donna Brigida corse a riportare la notizia a Teresa, che si lasciò svenire sul pavimento della cucina. A curare il dispiacere non bastarono i sali, le acque benedette e neppure i rosari delle pie donne riunite in consesso sotto il suo balcone. La famiglia era in disgrazia. Agata straparlava. Diceva in giro che lo zingaro non l’aveva mai toccata. Un arcangelo aveva annunciato che sarebbe diventata madre, e Dumitru aveva accettato di starle accanto. Lo zingaro aveva comprato due quintali di legno di pino e trafficava nel retro della locanda. Cosa combinava, la sera, alla luce della lanterna? Batteva il legno, piantava chiodi, perforava. Lo scandalo fu generale. Don Carmelo imbastì una veglia di preghiera. Le donne proibirono ai mariti di andare al porto, ma Agata non si impensierì. Lo zingaro avrebbe venduto la salsa ai ristoranti del litorale e ci sarebbe stato di che campare. I due continuavano a vivere mole ussorio. Insieme si addormentavano. Insieme si risvegliavano. Quando aprivano la locanda, spazzavano l’uscio dagli insulti. Facevano a meno della compagnia della gente e rispondevano alle occhiate con un saluto cortese. Cucinavano la meravigliosa salsa il cui profumo tentava i piatti tristi di minestra. La domenica alzavano il volume della radio perché gli isolani potessero spiarli mentre danzavano davanti al mare. A vederli così c’era da invocare un’alluvione che spazzasse via la tentazione e il vizio. Le pie donne li guardavano da dietro le tende ricamate e accennavano un passo di danza, anzi due, provando a immaginare la musica sul terrazzo. Poi si fermavano, guardandosi attorno nella speranza che nessuno, oltre a se stesse, avesse visto e riconosciuto il desiderio dell’amore.
Agata e Dumitru indossavano gli sguardi altrui e sorridevano dei turbamenti degli isolani. Erano uniti e sufficienti. Una preoccupazione, però, agitava i loro sonni. Non potevano nominarla perché non aveva nome, anche se aveva già la forma di un sacco di farina messo di traverso. Ogni notte, l’essere sconosciuto che abitava il ventre di Agata tirava calci vigorosi. «Cosa vuole?» si domandava la ragazza. «Nulla» la rassicurava Dumitru. «Ti sta solo dicendo che esiste.» Sul comodino Agata teneva il libro di preghiere che, anni prima, aveva trovato nella casa del padre. Nel mezzo c’erano una moneta d’argento e l’immagine di una Madonna nera. Una Madonna nera era una stranezza, una contraddizione. Quando zia Teresa l’aveva trascinata in pellegrinaggio, Agata si era rallegrata: «È nera, è nera!» aveva urlato davanti al volto scuro della Santissima che le toglieva ogni dubbio. Esistevano Madonne dalle facce sporche, piene di umanità e quindi di dolori. Non erano pallide e rassegnate. Erano vere, erano arrabbiate. L’immaginetta dentro il breviario non era un’ipotesi o il frutto della fantasia. Quella figura era il ritratto di sua madre, di colei che l’aveva partorita. Ritraeva anche Agata, così come era diventata. Esposta al giudizio: tutti la potevano guardare. Miracolosa: la sua salsa era un regalo del cielo. Forse innamorata. Agata conosceva l’odore di Dumitru. Sigaro, sudore e ţuică. Conosceva il respiro pesante delle sue notti e quello più leggero dei risvegli. Conosceva il suo cuore. Era occupato, era un affitto già fermato. Dumitru amava i suoi cavalli al di sopra di se stesso. Di lei. Uno dopo l’altro, aveva ricomprato i dodici andalusi che i Vallone avevano ceduto a un circo francese. Li aveva accomodati nelle stalle costruite per loro dietro la locanda. L’ultimo a tornare era stato il Rosso. Il complice, il preferito. Agata sapeva che non c’era da esserne gelosi. C’era da accontentarsi di un pezzo d’anima dentro il quale addormentarsi e stare. Quando aveva lasciato il circo Vallone, lo zingaro aveva chiesto a Ermete il permesso di portare con sé gli andalusi: «No» aveva detto il vecchio. «Almeno il Rosso, almeno lui.» Onorato si era messo nel mezzo con i suoi discorsi sul rispetto e il tradimento. Dumitru aveva tradito i Vallone e ripudiato il cognome. Aveva umiliato la primogenita e sfruttato la loro gente. Che se ne andasse pure, e solo, e senza una lira, perché questo gli spettava e questo avrebbe ricevuto. Prima di lasciare il circo Vallone, Dumitru aveva accarezzato le criniere degli andalusi.
Li aveva chiamati per nome. Orione, Mosca, Andromeda. E Rosso, soprattutto il Rosso. Mi mancherai. Mi mancherai come un braccio. Come una gamba. Sarò monco e zoppo, senza di te. A Sterlina non aveva detto niente. L’aveva salutata con la mano aperta ed era partito. Eppure lei voleva essere bellissima, per lui. Andare in bicicletta sopra il filo alto. Ammaestrare le colombe, rubare gli occhi con le illusioni, domare gli elefanti. Le sue gambe lunghissime lungo le proboscidi. La sua pelle olivastra dentro stoffe raffinate. Era capace di qualsiasi cosa. Avrebbe trasformato i suoi capelli in serpenti e venduto la faccia a un mercante di anime, pur di sbalordire. Possedeva la forza e l’incanto, ma non possedeva lui: «Sterlina, guarda la mia mano». Addio. Dopo la partenza dello zingaro, Sterlina aveva chiesto al nonno di vendere gli andalusi, nonostante il parere contrario di Onorato: «Quei cavalli valgono l’intero circo. Gli andalusi resteranno con noi». Il vecchio Ermete invece aveva dato il suo consenso. Prima o poi Dumitru sarebbe ritornato per rivedere il Rosso: «Mi manchi» gli avrebbe detto. «Mi manchi come un braccio. Come una gamba. Sono monco e zoppo, senza di te.» A Sterlina invece non avrebbe detto niente, si sarebbe limitato a salutarla con la mano ben aperta e lei sarebbe morta, per colpa della sua indifferenza. Ermete Vallone non lo poteva permettere. La nipote valeva il prezzo di una perdita. Il rischio della successione.
17
Angelo Greco fumava tabacco e beveva whisky invecchiato in botti di rovere americano. Era un uomo di molte chiacchiere. Al Ministero, si era fatto notare per la sua capacità di gestire e accomodare. Era stato ospite del Monte in occasione dei settant’anni del penitenziario e dopo poco tempo era ritornato, richiamato dal desiderio della meravigliosa salsa e dalle bellezze dell’isola. Quell’angolo di Mediterraneo era un paradiso, possibile che nessuno se ne fosse mai accorto? Ci avrebbe pensato lui, a risvegliare la provvidenza. Aveva grandi progetti e, per realizzarli, avrebbe avuto bisogno del consenso degli isolani. Chiese al sindaco di convocare un’assemblea generale. Fu montata una predella davanti alla chiesa e, al tramonto del primo lunedì del mese, la folla si radunò sulla piazza principale. Il sindaco prese la parola: «Cittadini» esordì. «Siamo qui per dare il benvenuto all’uomo che cambierà i nostri destini.» Angelo Greco aggiustò il microfono e cominciò a parlare, sollevando l’angolo destro della bocca in un ghigno che lo rendeva maligno. Ma forse era solo un’impressione, perché le sue parole erano festose come la buona novella: «L’ultima festa di sant’Elmo è stata speciale» disse il funzionario. Il Direttore del Monte aveva avuto la splendida idea di invitare il circo, e non uno qualsiasi: «Il migliore del continente!». Un applauso per il Direttore. Lo spettacolo del Vallone era diventato un caso nazionale, ne avevano parlato anche i giornali. Donna Brigida alzò la mano per confermare. La settimana prima era stata sul continente e aveva visto con i suoi occhi una rivista che mostrava l’isola più selvaggia dell’arcipelago, con le sue bellezze rare e i tesori contaminati. Incontaminati, corresse il Greco. Esatto, confermò donna Brigida, orgogliosa della pubblica occasione. Grazie all’ottima idea del Bianco, il Ministero e l’Italia intera avevano ammirato lo
splendore dell’isola, l’unica dell’arcipelago a non avere un nome. In realtà un nome c’era, intervenne il sindaco, ma si era perso negli anni. Per tutti, l’isola era senza nome e l’opinione generale aveva convinto i cartografi a definirla così, in modo troppo personale. Angelo Greco detestava essere interrotto. Il Ministero, continuò, aveva deciso di concedere all’isola il privilegio di diventare popolare: «Sarò io a organizzare il cambiamento». Cosa significa, chiese la folla. «Cambieranno le abitudini» gridò il Greco nel microfono. «Arriverà il benessere.» Il benessere? «Diventerete ricchi, proprio così. Comprerete automobili e gioielli. Il vostro lavoro darà da mangiare a voi e ai nipoti dei vostri figli.» E come? «Il Monte chiuderà.» Il Monte! «I detenuti saranno mandati sul continente e il nostro amato Direttore partirà per la Lucania.» Non è possibile! Come vivremo? Qui si campa con il carcere. «Silenzio. Abbiate fiducia, cari isolani, e vedrete crescere la prosperità. Noi del Ministero apriremo le rotte, favoriremo gli arrivi. Arriveranno nuovi abitanti e, con loro, centinaia di turisti dal continente. Sarete voi, cari amici, i primi a godere dei benefici dello sviluppo. Alberghi, ristoranti, nuove costruzioni. L’isola diventerà più popolare di Capri, più attraente dell’Elba. Chi ha una casa» suggerì il funzionario «inizi, qui e ora, a costruirne un’altra. Bisognerà rifornire le botteghe, migliorare i trasporti, aprire nuove strade per collegare le estremità dell’isola.» Il carcere era stato una condanna, li aveva esclusi dai benefici che la ricostruzione aveva regalato al resto d’Italia e dell’arcipelago. Non si dovevano preoccupare, ci avrebbe pensato lui, Angelo Greco, a far arrivare i fondi direttamente dalla capitale. Nel giro di pochi anni, l’isola sarebbe stata irriconoscibile: «È una promessa che faccio con la mano sul cuore» e con il sostegno di don Carmelo, che con l’acqua santa si dava un gran daffare. Qualcuno protestò: «Quelli del continente sanno sempre cosa è meglio per tutti», ma la maggioranza disse che sì, si poteva anche provare. Automobili, grandi alberghi e pane eterno: «Che sant’Elmo sia con noi!» gridarono gli isolani. Angelo Greco annunciò una festa da ballo per suggellare le promesse che faceva agli isolani. Presto lo avrebbero adorato più del Bambinello del presepe. Dopotutto era stato
lui a fiutare l’affare. Aveva buttato l’occhio sulle baie deserte dell’isola, sui pendii fitti di vegetazione. Quel pugno di terra era destinato alla gloria. Angelo Greco si era già fatto qualche conto. Al demanio aveva un cugino del padre che, tempo prima, lo aveva chiamato per un affare andato a buon fine. Di sicuro il parente gli avrebbe restituito il favore. Si trattava di agevolare una vendita. Il Ministro aveva già firmato: il Monte avrebbe chiuso e l’immobile sarebbe stato ceduto a gente fidata, di sua conoscenza. Il Bianco non avrebbe avuto modo di protestare, dal suo deserto lucano di capre e sassi. Altro che il dottor Pastello, noto pedagogista brasiliano e specialista in benessere: il Direttore avrebbe perso la voglia di scherzare e lui, Angelo Greco, sarebbe diventato l’uomo della provvidenza. Colui che toglie i peccati dall’isola. Il Greco non perse tempo. Si installò nella foresteria del penitenziario, da dove gestì i contatti e diresse il cambiamento. Durante l’autunno i detenuti furono imbarcati per il continente: «Direttore!» urlarono dal molo. «Arrivederci!» Il Bianco sentì le loro grida dall’ufficio. Non rispose. Raccolse le sue carte e staccò dal muro la copertina della «Domenica del Corriere», incorniciata dentro un profilo di radica. Nel famoso disegno Dumitru correva in groppa al Rosso, Sterlina pedalava sul filo alto e Agata cucinava la sua meravigliosa salsa. Il Direttore mise tutto in un cartone e scrisse Il Monte, con la calligrafia ordinata che lo distingueva. Si sedette per l’ultima volta sulla poltrona di cuoio arrivata l’anno prima da Fez. Accese una sigaretta, proprio lui che non aveva mai fumato, e sopportò il fumo che scendeva fino al petto. Prima di partire, andò al porto. Vide Dumitru cavalcare il Rosso nel retro della locanda e si rese conto che quella tra i due era una forma assoluta di comunicazione, la più diretta che avesse mai incontrato. Il Bianco alzò la mano per attirare l’attenzione: «Ehi» chiamò. Lo zingaro frenò la corsa del cavallo. «Sono venuto a salutarti» disse il Direttore. «Me ne vado.» Dumitru lo raggiunse. Gli porse la mano: «Arrivederci». «Chi l’avrebbe mai detto? Il fermo parte e il dritto rimane. Avrei scommesso sulla tua fuga, non sulla mia.» «Dove andrà?» «Sono stato trasferito in un deserto di pietre e capre. Il Monte sarà venduto e
trasformato in un albergo. Ciò che si poteva salvare, è stato imbarcato per il continente. I detenuti sono già stati sistemati in altri penitenziari, chi al Nord, chi vicino alla capitale.» «Mi dispiace.» «Anche a me. Moltissimo.» «Direttore?» «Dimmi, Dumitru.» «Avrei sempre voluto chiederle una cosa.» «È il momento giusto per farlo.» «Perché la chiamano il Bianco?» «Ti sarai fatto un’idea.» «Per i pantaloni» disse lo zingaro «e la faccia pallida.» «C’è un’altra ragione, la più importante. Quando avevo cinque anni mio padre mi portò a vedere il carnevale. Fu un giorno fortunato. Feci due giri sulla giostra dei cavalli. Pescai nelle bocce trasparenti, vinsi un pesce rosso e un pacchetto di noccioline tostate. Al tramonto, dal fondo della piazza arrivò il circo, con la sua parata. Aprivano i clown rossi e bianchi, seguivano le giraffe, i pony e insieme a loro i nani. E donne bellissime, con costumi luccicanti. Mi sentivo pieno di cose da guardare. Giurai a me stesso che un giorno o l’altro sarei fuggito dalla casa di mio padre per diventare un bianco.» Il clown bianco. L’elegante, il dignitoso. «Durante la parata gli acrobati si misero a saltare, roba da rompersi l’osso del collo, brontolò mio padre. Montarono su un carro guidato da un cocchiere a petto nudo, incurante di quel febbraio così nebbioso. Accanto a lui contorsionisti, ragazze dai seni scoperti e mangiatori di fuoco. Niente era perfetto e tutto era bello. A guardarla bene, Dumitru, la bellezza era deforme. Il circo era quanto di più deforme e bello io avessi mai visto. «Mio padre era un magistrato» continuò il Direttore. «La lampada sulla sua scrivania faceva una luce calda. Se avessi avuto bisogno di lui, lo avrei trovato là, sotto quella luce, intento a studiare una causa o a consultare un codice. Ma ormai avevo deciso di diventare il Bianco e non volevo più avere bisogno di nessuno. I dritti non si mischiano con i fermi, mai. Non ero un dritto, per questo scelsi di diventare un fermo che si muove. Un camminante di sogni. Infatti, eccomi qua. In partenza.» Agata arrivò dalla locanda con sei bottiglie di salsa avvolte dentro la carta di giornale. Aggiunse un filone di pane e due barattoli di carne secca: «Addio, Direttore» disse porgendogli i regali. «Ci mancherà.» Lui la abbracciò come si fa con i bambini, nella speranza di non farle troppo male.
Forse gliene aveva già fatto e, purtroppo, non poteva rimediare. La settimana prima Agata aveva partorito in casa, da sola, perché la levatrice si era rifiutata di aiutarla. Dumitru era partito per il continente e le doglie erano arrivate un mese prima del tempo. Agata era rimasta in piedi, con la schiena appoggiata alla parete della cucina. Spingi, spingi, si raccomandava. La creatura sarebbe venuta al mondo, sarebbe nata nonostante il dolore e nonostante il rancore. Dopo dieci ore di travaglio, la testa era sbucata dal fondo del suo ventre. Agata ci aveva lasciato il fiato e quasi tutto il suo sangue. La creatura era sgusciata fuori con la fretta dei vivi. Agata le aveva tagliato il cordone e l’aveva lavata sotto l’acqua della fonte, un’acqua troppo fredda per lasciarla indifferente. Eppure la creatura non si era decisa a piangere, neppure dopo due colpi sulla schiena e un pizzicotto di invito. La madre si era rassegnata al suo silenzio e l’aveva avvolta in un lenzuolo di lino. Si era messa nel letto ad aspettare. Dumitru sarebbe tornato due giorni dopo e le avrebbe trovate entrambe, vive e serenamente addormentate. Dopo quel parto così difficile, i capelli di Agata erano diventati bianchi. Prima di andarsene, il Direttore li aveva sfiorati con le dita della mano: «Abbi cura di te, bambina». Agata annuì. Aveva il petto gonfio di latte che non poteva dare. Una madre che non allatta, pensò, è una bambina piena di grazia. «Manterrai la tua promessa?» chiese il Bianco. «Non rivelerò mai a nessuno il segreto della mia salsa» rispose la ragazza. «E ricordati l’altra cosa.» La più importante. La bellezza non si compra.
18
La modernità promessa dal Greco arrivò all’improvviso, insieme a centinaia di manovali sbarcati dal continente. C’era l’urgenza di abbattere per ricostruire. Ovunque furono scavate fondamenta, piazzate gru e innalzati ponteggi. I cantieri rubarono metri alla costa. I trapani e i martelli picchiarono di giorno e di notte, senza rispetto per il riposo e le feste comandate. Furono costruite strade, scavate gallerie. Si progettarono ponti, piazze e edifici alti almeno sei piani. Fu eletto un nuovo sindaco, un parente stretto del Greco. Grazie alla sua generosità, le concessioni filarono via dritte e giunsero a destinazione. Ai bolli e ai carteggi, il nuovo sindaco preferì solide strette di mano. Sostituì i bandi e le attese con i favori dei conoscenti. Distribuì licenze e aspettò l’inaugurazione degli alberghi e dei negozi. Nel centro dell’antico borgo spuntarono caffetterie, gastronomie, persino una gioielleria che fece perdere la testa alle locali. Le pie donne, tutte, si indebitarono per un filo di perle o una parure, da indossare a messa prima e da nascondere sotto il collo di volpe per non far sparlare la gente. Nel continente, i giornali mostrarono il mare dell’isola, le insenature inviolate e i pregi di un clima benevolo. I mercantili furono dirottati nel Nord dell’isola, e il vecchio molo fu rinnovato per accogliere i traghetti in arrivo dal continente. L’isola cambiò in fretta e i suoi abitanti indossarono il vestito buono, in attesa del benessere che - secondo le previsioni del Greco - sarebbe sbarcato insieme ai turisti. Gli isolani si misero sul molo ad aspettare. I turisti giunsero durante la stagione estiva. Arrivarono con il notturno delle ventitré. Eccoli, finalmente. Il Greco li aveva descritti come gli artefici di un’immensa fortuna e c’era voglia di guardarli in faccia, di vederli arrivare. I locali si prepararono allo sbarco con sei casse di vinsanto e dolci fatti in casa. Rassettarono le camere vuote, ordinarono gli armadi, misero
brande e materassi lungo i corridoi. Il Greco aveva parlato di sostegno all’offerta locale e i turisti, di certo, si sarebbero precipitati ad affittare le abitazioni degli isolani. «Piano, piano. C’è posto per tutti» li avrebbero rassicurati. Il primo traghetto ad attraccare si chiamava Angelo, come l’uomo della provvidenza. Aveva fatto bene, il Greco, a scrivere il suo nome sul fianco della nave. Chi poteva dargli torto? Un nome del genere garantiva protezione. Il traghetto calò le rampe e i turisti delle ventitré scesero a terra zeppi di valigie e creme solari. Nessuno fece caso agli abitanti radunati sul molo. Forse non erano stati avvisati, forse il Greco si era dimenticato di dire che l’isola era fatta di gente ospitale. Quelli del continente si misero in fila dietro graziose signorine in divisa blu e sparirono nei nuovi alberghi costruiti a ridosso delle baie. Il giorno dopo, gli isolani attesero l’arrivo del secondo traghetto. I turisti sbarcarono, bevvero un bicchiere di vinsanto e si misero in fila dietro le graziose signorine in divisa blu. Il terzo giorno, il vinsanto terminò e gli isolani si sentirono addirittura rimproverare: «Che mancanza di ospitalità!». Che maleducazione. Passò una settimana. Passò un mese. Passò l’intera estate. I turisti continuarono ad arrivare e ad allontanarsi insieme al benessere e alle graziose signorine in divisa blu. Con il passare delle stagioni, i turisti aumentarono. Gli alberghi si fecero più alti, gli ospiti sempre più internazionali. Gli isolani impacchettarono materassi, vino e brande e si rassegnarono a cercare lavoro negli hotel e nei cantieri, che non smettevano di moltiplicarsi. Il vecchio carcere fu trasformato nell’albergo più esclusivo dell’arcipelago. Grand Hotel Il Monte. Ci andarono persino tre divi di Ollivùd e un presentatore della televisione nazionale. Un regista decise di girare un film sull’isola e mise un avviso nella piazza del municipio: Attori non professionisti cercansi, meglio se brutti e un po’ deformi. L’intera comunità locale fece la fila davanti a una macchina da presa e si lasciò intimorire da un paio di attrici americane e altissime. Nome, cognome, sorridi, profilo, cosa fai nella vita, cosa ti piacerebbe fare, alla fine del provino gli isolani se ne tornarono a casa con l’illusione che qualche cosa sarebbe cambiata e con un pacco di caffè in grani, gentile omaggio della produzione. Angelo Greco lasciò definitivamente il Ministero per dedicarsi all’imprenditoria. Aprì un’attività a suo nome, la Angelo Greco Costruzioni, che divenne il simbolo dell’isola, l’immagine del successo e della buona volontà che tanto sapeva fare grazie all’impegno e a una certa dose di fortuna.
Persino donna Brigida si lasciò attrarre dal profumo degli affari. Confinò il marito barbiere in una stanza alla periferia del borgo e tenne per sé casa e bottega, che adibì a pensione. Il Pregiato Portoghese, così si chiamava l’attività, era gestito da donna Brigida e dalla fidata Teresa, che organizzava le pulizie e il lavoro delle cinque ragazze arrivate dal continente. Le selvagge parlavano un dialetto incomprensibile. Erano sporche, avevano le unghie nere e la terra tra i capelli. Giravano scalze e c’era voluta tutta la pazienza di Teresa e un po’ di cattiveria per costringerle a indossare le ciabatte. I clienti erano persone rispettabili, arrivavano dalle città e non volevano vedere le loro impronte sudaticce sui pavimenti delle stanze. Angelo Greco si era tanto raccomandato: «Bisogna offrire la qualità» e lui, l’uomo della provvidenza, andava ascoltato. Certo, tra gli isolani correvano i primi malumori, i primi malcontenti. Con la chiusura del carcere, pochi si erano arricchiti. La maggior parte degli isolani sopravviveva in una terra difficile da riconoscere. Eppure, quando il Greco passava per il paese a bordo della sua automobile bianca, gli abitanti si toglievano il cappello. In molti lo consideravano un eroe, un benefattore. Non avrebbe dimenticato le promesse fatte nella piazza centrale. L’imprenditore si era finalmente sposato con una straniera alta e giovane, giovanissima. Una bambina, si raccontava. Il matrimonio fu un evento. Il Greco invitò gli amici bene del continente e qualche attore di Cinecittà. Alla festa di nozze invitò anche gli isolani e l’annuncio scatenò il panico. Furono le pie donne, in particolare, a buttarsi nella faccenda. Parure al collo e giaccone di lapin, bussarono alla pensione di donna Brigida che aveva buon gusto e sapeva consigliare. Lei frequentava le esposizioni canine del continente e aveva i parenti macellai in una via bene della capitale. Donna Brigida propose modelli e acconciature importanti. Allestì un atelier nella cucina del Pregiato Portoghese per dare alle pie donne la possibilità di tagliare, cucire e provare. Il Greco, però, la convocò al Monte. Per la sua festa di matrimonio, precisò il costruttore, gli isolani erano invitati in qualità di comparse: «Comparse? Cosa significa?» si informò donna Brigida. Non avrebbero certo voluto rubare la scena alla futura moglie portoricana. No, no, non volevano rubare niente alla portoamericana. Per gli isolani, il Greco si era immaginato un ruolo particolare. Alle sue nozze, avrebbero indossato gli abiti tradizionali. «Quali?» chiese donna Brigida. I pescatori si vestivano di stracci. Le vecchie portavano le gonne nere e si mettevano il fazzoletto in testa.
No, no, niente fazzoletto in testa. Gli invitati, quelli del continente, volevano vedere il folclore, il colore. Se non c’era, lo avrebbero inventato. Nessuno se ne sarebbe accorto e gli isolani, in cambio di quella comparsata, avrebbero avuto l’onore - stimabilissimo - di una serata al Monte e di una fetta di torta nuziale. Il Greco suggerì il tema, «Le quattro stagioni», che i costumi avrebbero dovuto richiamare. «Le quattro stagioni?» chiesero le pie donne a Brigida. «Proprio così.» «In che senso?» «Non lo so, ma ci dobbiamo adattare.» Le isolane misero da parte le ambizioni e il lapin e si presentarono al Monte dentro costumi improvvisati. Grappoli d’uva in testa, fiori nel petto, babbucce invernali e spighe di grano, la loro presenza ebbe un discreto successo. Gli invitati si commossero per «la genuinità semplice del volgo», scattarono foto di gruppo, qualcuno lasciò persino la mancia. Il Greco fece montare un palco nel cortile dietro la foresteria, lo stesso che - anni prima - aveva ospitato il nobile circo Vallone. Un’orchestra di fiati suonò fino all’alba. Furono accese più luminarie che alla festa del patrono. Tutto sarebbe stato perfetto, nulla sarebbe mancato, se non fosse stato per la stupida locandiera e il suo amico zingaro. Il Greco aveva mandato il cugino sindaco a ordinare: «Dieci fusti di salsa e trenta chili di capretto alla brace». Agata si era rifiutata: «Riferisca al suo padrone che la cucina è chiusa. Non sto bene di salute e mi devo riposare». Il Greco era furente. Tra gli isolani, lei e lo zingaro erano i soli a mancargli di rispetto. Alla locanda non era il benvenuto, gli avevano mandato a dire, e quando il Greco voleva mangiare una porzione della meravigliosa salsa, doveva pregare un isolano di portargliela in ufficio, di nascosto, come se fosse stato un assassino o un ladro. Tramite il cugino sindaco, aveva tentato di cacciare Agata, lo zingaro e le bestie che popolavano il retro della locanda. Cavalli, oche e capre, quel posto stava diventando un circo. Purtroppo la locanda era un’attrazione, una delle più importanti. Nonostante il boicottaggio degli isolani, i turisti si mettevano in fila davanti all’osteria e ci sarebbero rimasti l’intera giornata, pur di gustare la famosa salsa. Decine di giornalisti italiani e stranieri avevano recensito la specialità. Vellutata, delicata, avvolgente, stravolgente. Per tutti i piatti, per tutti i tipi di palato. La rivoluzione in cucina. Il paradiso in terra. Un universo di felicità. Agata aveva assunto sei cameriere e due garzoni. Persino ’o fellato
era tornato sull’isola, dopo aver finito di scontare la pena in un carcere campano: «Se sua signoria vostra illustrissima acconsente...». Agata lo aveva assunto come capo aiuto cuoco e garzone fidato. ’O fellato conosceva gli ingredienti della salsa, li preparava lui stesso la sera, prima di concedersi un bicchiere di ţuică che conciliava il sonno. Eppure nemmeno lui conosceva il segreto che Agata sminuzzava nel pestello, in mezzo alle sue gonne. Il Greco ci aveva provato. La ricetta valeva milioni e lui l’avrebbe venduta a qualche industria francese. Aveva fatto chiamare ’o fellato e glielo aveva domandato: «Tu che conosci così bene la cucina della tua signora, potresti scoprire se...». «No!» «Ti pago.» «Ho detto no.» «Ti rispedisco in carcere.» «Fate pure, commendatore. Io sono un uomo d’onore e porto rispetto alla mia padrona.» In pochi anni, ’o fellato aveva visto Agata invecchiare. Dopo il parto, i capelli erano diventati bianchi. La pelle si era indurita. I seni si erano gonfiati ed erano rimasti gravidi e insieme asciutti. Il fellato sapeva la ragione di tanto imbrunire: la signora teneva dentro le sue malinconie. Se le avesse raccontate, si sarebbero trasformate. Invece Agata le portava in mezzo al petto, nel luogo esatto dove, tanti anni prima, aveva nascosto l’indirizzo della maestra con il sorriso grande. ’O fellato glielo ripeteva: «Benemerita, vi vedo stanca. C’è qualche cosa che non va?». Agata si asciugava la fronte con il dorso della mano: «Tutto bene» rispondeva. ’O fellato non l’avrebbe tradita nemmeno sotto tortura: «E voi, illustrissimo beato santo e commendatore Angelo Greco, lo dovrete accettare». Niente da fare: l’isolana era un cancro. Roba da cavarsi gli occhi, roba da mangiarsi il fegato. Purché squisitamente in salsa.
19
La figlia di Agata era una bambina particolare. Uscita dal corpo di sua madre senza lacrime e senza pianti, si sarebbe messa addirittura a camminare, se Agata non l’avesse presa a sé e avvolta in un lenzuolo di lino: «Ti chiamerai Isola» le disse. Per la gente del borgo sarebbe stata l’Annunciata, predetta da un angelo apparso in sogno allo zingaro. Appena nata, Isola rifiutò il latte materno, quello di capra, di vacca, di asina. Dumitru chiamò l’amico di un amico che andò fino al confine occidentale dell’Oltenia per chiedere consiglio alla vecchia zingara: «Latte di carrube» fu il responso. Bisognava macinare la polpa e mischiarla all’acqua della fonte. Agata mescolò acqua e polvere di carrube e ne fece un latte leggero, di poco sapore. La piccola sopravvisse, ma si portò appresso la fatica degli inappetenti. La notte la bambina riposava nella culla di legno che Dumitru aveva costruito per lei. Quando la madre si avvicinava, si metteva su un fianco e cominciava a gridare. Erano strilli, i suoi, acuti e prepotenti. Erano la sola espressione del suo malcontento perché il benessere, per Isola, stava tutto nel silenzio. A due anni, camminava incerta e non si decideva a parlare. ’O fellato si convinse che avesse il malocchio. Per aiutarla, le legò ai polsi due nastri benedetti dalla cugina Carmela, che al paese aveva guarito qualche zoppo e un cavallo con il cimurro. ’O fellato annodò da destra a sinistra, due nodi con il rosso, tre con il verde, uno solo con il blu, ma i nastri non ebbero effetto sul carattere chiuso della creatura. Lo fece presente alla cugina, tornando al paese per la festa patronale: «Che ci vuoi fare» gli disse lei alzando le spalle al cielo. «Chi piscia contro viento se ’nfonne!» Per invogliarla a giocare, Dumitru le regalò clave, birilli e palline. Costruì un piccolo trapezio nel retro della locanda, disegnò una pista dove la bambina potesse divertirsi in groppa a un pony che lo zingaro aveva comprato per lei. Niente. Isola non si interessava. Ai giochi e agli animali preferiva il cortile, dove disegnava cerchi tra la polvere. Agata non si avvicinava alla figlia perché, a ogni suo gesto, a ogni sua
preoccupazione, la figlia rispondeva allontanando lo sguardo da lei. La scuola fu un periodo di quiete: «Deve assolutamente frequentare,» diceva la maestra «anche se non impara nulla. La bambina ha la testa piena di scirocco». Forse non era intelligente. Era meglio portarla sul continente e farla visitare da uno specialista, da uno bravo però. Isola si sedeva al banco e fissava il mare oltre la finestra. Aveva un volto così candido che pareva la Beata Vergine. A guardarla, c’era da accenderle un cero e invocarne la grazia. Aveva un’espressione serena ma, quando si arrabbiava, il volto si macchiava di rosso. Era il segno. Da lì a poche ore sarebbe arrivata la tempesta. Al suono della campana, i compagni correvano a casa: «L’Annunciata dice pioggia» strillavano per le strade, e i pescatori ritiravano le barche prima che si perdessero nel mare. Isola era capace di svegliare le acque e scatenare le tempeste. Gli isolani la temevano perché era figlia di una bestemmia: un arcangelo aveva predetto il suo arrivo. La madre le aveva dato il suo cognome e non l’aveva battezzata, con grande sdegno di don Carmelo che dal pulpito spaventava i presenti e gli assenti con la minaccia del limbo. Isola iniziò a ricamare un pomeriggio di ottobre, di ritorno da scuola. Nessuno le insegnò a infilare il cotone nell’ago e ad aggiungere i colori alla lavorazione. Imparò da sola e fu uno dei tanti miracoli che la gente attribuì alla sua persona. Cominciò con uno strofinaccio dimenticato sul tavolo della cucina. Isola lo afferrò e lo aprì davanti a sé. Prese la scatola da cucito dalla credenza, sfilò un ago e scelse con cura il filo verde e quello blu. Agata rientrò la sera, dopo aver lasciato al fellato il compito di chiudere la locanda. Trovò Isola china sul canovaccio: «Che cosa fai?» domandò, ma la piccola non si diede la pena di rispondere. «Fammi vedere» insistette Agata. Sfilò il panno dalle mani della bambina e vide due iniziali ricamate, le stesse che - anni prima - aveva letto sul breviario della madre. IG. La donna si sentì mancare: «Cosa significano?» chiese. «Perché?» Isola non rispose e si mise a dondolare. Dondolava, la piccina, sulle punte dei piedi scalzi, dentro il corpo intrappolato su una sedia troppo grande. Quando Dumitru tornò dalle stalle, trovò l’ago conficcato nello straccio e la scatola da cucito buttata a terra dall’esasperazione di Agata: «Dov’è Isola?» domandò. «Non lo so.» Lo zingaro cercò nelle stanze, sotto i letti, dietro le ante degli armadi. Isola non c’era. Cercò tra i sacchi di riso della dispensa e in mezzo ai gerani del terrazzo. Si sporse verso il mare. La bambina era seduta sull’uscio e continuava a dondolare.
Senza fretta scese le scale. Si sedette accanto a lei e rincorse la sua agitazione. La afferrò, la strinse a sé e la fece acquietare: «Domani andremo in paese» disse. Isola appoggiò il viso contro la spalla dello zingaro e guardò il cielo, invaso di stelle. Il giorno seguente Dumitru si svegliò all’alba. Si scostò dal corpo di Agata ancora addormentato e lasciò la stanza senza fare rumore. Aprì gli scuri e vide Isola in attesa, sulla panca dell’ingresso. La bambina indossava il vestito azzurro e le scarpe rosse della madre. Li aveva presi di nascosto, la notte, dall’armadio dove Agata conservava le sole cose che per lei valessero la fatica della cura. Isola teneva le mani in tasca e sventagliava i piedi nell’aria del mattino. Vedendo la figlia con i suoi vestiti addosso, Agata si sarebbe arrabbiata. Avrebbe scambiato quel gesto per insolenza. Guardami, sono te. Sono meglio di te. Dumitru bevve un bicchiere di acqua fresca e mangiò due fette di pane e lardo. Si rase con cura davanti allo specchio del bagno e strofinò le guance con l’acqua di colonia. Da lì a pochi minuti sarebbe sceso al pianterreno e avrebbe raccolto Isola tra le sue braccia, invitandola a non protestare: «Tua madre non se ne accorgerà» le avrebbe sussurrato. «Rimetteremo il vestito nell’armadio e le scarpe sotto l’anta destra.» Aprendo la porta che dava sull’ingresso, Dumitru sentì la luce del giorno sul viso e udì i gabbiani all’orizzonte. Ciò che vide, fiaccò i suoi propositi. In quell’abbigliamento fuori misura, Isola era finalmente una bambina. Il vestito azzurro cadeva sulle spalle minute e il collo lasciava spazio a un petto in attesa. I talloni morbidi rimbalzavano contro le solette. Isola era lì, davanti a lui, e aveva soltanto otto anni. Come aveva fatto a dimenticarsene? Lo zingaro si avvicinò e la prese in collo. Profumava di latte di carrube: «Andiamo» disse reggendo con la mano sinistra le scarpe di vernice, per impedire loro di cadere. Dumitru e Isola si mossero verso il paese e aspettarono che la merciaia sollevasse le serrande della bottega. Quando la padrona li vide entrare, si fece il segno della croce e scomparve dietro il bancone: «Celestina» ordinò lo zingaro. «Esci da lì.» La vecchia restò immobile. «Altrimenti sono vent’anni di disgrazia.» Nulla. «Quaranta, se la bambina si arrabbia. E la bambina si arrabbia, te lo posso assicurare.» La vecchia emerse da un trionfo di riccioli turchini, ultima moda lanciata dalla
futuristica donna Brigida. «Sì?» domandò. «Tutto quello che Isola desidera.» Il viso della piccola si illuminò, le guance si fecero più tonde. Isola si guardò attorno. Sgranò gli occhi, socchiuse le labbra e alzò l’indice destro a indicare: «Voglio» disse, e fu la sola volta in cui Dumitru la udì desiderare. Voglio era un’affermazione. Una parola lunga un giorno. Voglio questo quello e l’altro ancora. Voglio filati di tutti i colori. Voglio rocchetti, aghi, spilli, cinque gessi e un ditale, il più piccolo, il più prezioso, con un decoro di foglie dorate sul bordo. Voglio due manicotti da lavoro. Voglio una scatola di legno. La voglio rosa, con due cassetti laterali e il manico di sughero. Celestina preparò la comanda e la sistemò dentro la scatola da cucito, che spinse sul bancone con la fretta di ritrarsi. Isola l’afferrò. Fece scorrere le dita sul legno laccato e uscì dalla merceria senza aspettare. Si tolse le scarpe rosse e le abbandonò sul selciato. Si sfilò il vestito azzurro e lo lasciò volare. Agata la vide rientrare a piedi scalzi e con addosso la sottoveste di lino. Si affrettò a coprirla con un grembiule da cucina: «Che succede?» domandò a Dumitru che arrivava poco distante. «Nulla» rispose lo zingaro. «Nulla?» «Lascia stare, Agata. Te l’ho già detto. Le cose devono fare il proprio corso.» Isola si accomodò sull’uscio della locanda. Aprì la scatola da cucito e scelse un rocchetto di cotone. Indossò il ditale con le foglie dorate sul bordo e cominciò a ricamare. Prese l’abitudine di farlo ogni giorno. Dopo la scuola, mangiava pane e pomodoro e poi sedeva sull’uscio della locanda con il capo chino sul tessuto. Gli avventori provavano a parlarle. Isola non rispondeva: «Com’è bella» diceva o’ fellato. «Pare ’a Maronna.» «Taci, disgraziato,» lo rimproverava Agata «che le metti in testa la confusione.» Isola non aveva i colori scuri della madre, la sua inquietudine di tratti ed espressioni. Non sembrava nemmeno figlia sua. Del padre... chi poteva saperlo? Non aveva cognome e allo zingaro, di certo, non assomigliava. Prima del parto, Agata aveva buttato in giro quella storia dell’annunciazione e don Carmelo aveva gridato alla bestemmia. Altro che miracolo, la bambina era frutto della perdizione. Invece il tempo passava e i sospetti si facevano importanti: Isola era somigliante, precisa, assolutamente uguale alla statua della Santissima che stava vicino all’altare della
chiesa patronale. Le pie donne giravano attorno alla statua, ne cercavano il profilo, la guardavano dal basso verso l’alto, alla luce delle candele o a quella più impietosa del neon. Teresa, in particolare, si appostava nei pressi della locanda e confrontava la nipote con l’immaginetta rubata durante un offertorio. Lo stesso sguardo, le stesse dita lunghe e sottili. Il volto rosa, con deliziosi pomelli di angelico pudore. Gli stessi colori, lo stesso modo di chinare il capo. Roba da non crederci: erano identiche. Maria pregava, Isola ricamava. Come avesse fatto a uscire dalla pancia di sua madre, nessuno poteva spiegarselo. Isola era una bambina dai bisogni semplici. Abbandonato il latte di carrube, si accontentava di pane e pomodoro. Era l’unica a non affondare le dita dentro la salsa Agata. Se sentiva l’aroma salire dalla cucina, tuffava il naso nel vestito. La salsa le dava una nausea talmente insistente, da costringerla a mettersi nel letto: «Perché fai così?» domandava la madre. Non era il solo rifiuto a preoccuparla. Isola evitava le carezze, sfuggiva agli sguardi e alle conversazioni. Forse la colpa era del nome al quale la bambina aveva finito con l’assomigliare. Per Agata era stato un regalo, un pensiero pieno di sole di mare e dei frutti che la sua terra era in grado di donare. Invece Isola stava tutta dentro quelle poche lettere, che erano diventate lei e null’altro di differente. La distanza tra Isola e Agata abitava dentro il nome. Asciutto e sufficiente quello di Isola, il nome di Agata si era invece impossessato della salsa ed era diventato più vasto della persona. Salsa Agata: la tradizione. Salsa Agata, un’emozione. Salsa Agata, il meglio che c’è. La sua faccia, rubata da un fotografo di una rivista di cucina, era appiccicata sulla porta dei ristoranti più importanti del paese. Qui vendita meravigliosa salsa. Donna Brigida, durante i suoi viaggi, aveva visto l’immagine di Agata su una vetrina e si era subito agitata: «La conosco!» aveva urlato indicandosi con l’indice. E tutti a chiederle che tipo è questa cuoca sublime, com’è la sua locanda, qual è il segreto della salsa. Orgogliosa, donna Brigida aveva raccontato di quanto fossero amiche, lei e Agata, due sorelle, due siamesi. Erano così amiche che, per farla contenta, aveva assunto la zia nella pensione Il Pregiato Portoghese, ottimo rapporto qualità-prezzo, offerte camere doppie fuori stagione. Sì, sì, però Agata com’è? Una buona donna, ma molto sfortunata. Ha una figlia bacata, perché i doni, il buon Dio, li distribuisce. Una manciata qui, una manciata lì. Sposata no, vive mole ussorio con un circense. Uno zingaro, un buffone. Il segreto del condimento? Io lo so, me l’ha svelato lei ma non lo posso raccontare. L’ho giurato sulla tomba della mia povera madre, morte mi prenda se mi scappa anche solo
una vocale. Nel continente i migliori chef tentavano di imitare la salsa, eppure c’era un ingrediente, qualche cosa di particolare, che sfuggiva al riconoscimento. Poteva essere una radice, un odore o una spezia. I cuochi ci perdevano il sonno. Aggiungi il latte, togli il limone, aumenta il timo, soffriggi le mele. Niente. La salsa non si amalgamava. Per assicurarsene un po’, bisognava andare direttamente alla locanda oppure aspettare la nave del giovedì che arrivava dall’isola. Lo zingaro era diventato milionario, a furia di smerciare. Poteva permettersi addirittura il lusso di costruire un circo stabile a suo nome, nel cortile dietro la locanda. In molte città dell’Est Europa i circhi stabili avevano insegne di legno, incorniciate da una fila di lampadine rosse. Per pochi spiccioli, la gente si accomodava sugli spalti e applaudiva gli artisti che spuntavano dai fondali dipinti. A Dumitru, fondare un circo stabile sull’isola sembrava una buona idea: «Sei sicuro?» chiedeva Agata. «Il circo è nomade.» Cosa sarebbe successo se i dritti si fossero trasformati in fermi? Certo, un tentativo si poteva fare. Ultimamente, sul continente i tendoni si svuotavano. L’arrivo della televisione aveva abituato il pubblico ai divertimenti semplici. Per aggirare il cambiamento, qualche circense cominciava a risparmiare sugli ingaggi degli artisti, sulle paghe già misere dei manovali e sui pasti quotidiani delle bestie. Dumitru non lo poteva accettare. Il suo circo sarebbe stato speciale. Lo zingaro lo spiegava ad Agata, mentre danzava con lei senza parlare, la domenica sera, sul terrazzo sopra la locanda: «Aprirò un circo stabile» le diceva. «Anzi, farò di meglio. Trasformerò l’isola nella più grande scuola circense di tutta Europa.» Un vero artista era prima di tutto un buon generico: «Gli allievi vivranno sull’isola. Impareranno le basi dell’arte circense e poi diventeranno giocolieri, contorsionisti, funamboli, cavallerizzi o clown. Vedrai, Agata, l’isola senza nome sarà un luogo sempre in festa». Dumitru aveva costruito le stalle e la pista circolare nel cortile dietro la locanda. Aveva iniziato a montare lo chapiteau e aveva chiesto a Isola di cucire il tendone bianco e rosso, a due antenne. Il sindaco aveva mandato le forze dell’ordine a verificare permessi e autorizzazioni. Dumitru sarebbe stato costretto a smantellare, se Isola non avesse guardato i gendarmi con gli occhi pieni di brutte intenzioni. Ai due era preso un tremore che dai piedi era arrivato dritto in testa: la bambina li aveva minacciati. Dall’Annunciata non ci sarebbero
più andati, che ci pensasse il sindaco in persona o, perché no, il Greco, l’imprenditore. Non volevano finire all’inferno e Isola, lo sapevano anche i sassi, era bella come la Madonna e cattiva come la Santa Inquisizione. Il Greco andò su tutte le furie. Lanciò il bastone nero contro il maresciallo corso a recapitare la missiva: «Che diamine avrà mai, quella bambina?». «Parla con il cielo, dottore». «Si sbaglia, maresciallo. Su quest’isola sono io a scegliere tra la pioggia e il sole, sono io a decidere dei vivi e dei morti». Per la gente, però, Isola aveva il dono della profezia. Agata fingeva di non accorgersene, immersa com’era tra i fumi della salsa e i clienti della locanda. Dumitru, invece, si sedeva al fianco della bambina e la osservava lavorare. Isola ricamava iniziali sempre diverse: PG, LD, MA. Possibile, si domandava lo zingaro, che fossero lettere senza nessuna storia? La scomparsa del Pagnone gli rivelò la chiave del mistero. Un cliente usciva dalla locanda: «Ah, la vita» diceva sollevando i pantaloni che cascavano sotto il peso della ţuică. «Che succede?» «Il Pagnone se n’è andato stamattina. L’hanno trovato nel letto che era già freddo. Un colpo al cuore, poveraccio. Aveva solo trent’anni.» La bambina portò il ricamo alla bocca e staccò l’ultimo filo, quello dorato. Dalla chiesa patronale salirono i rintocchi di un’agonia e Isola si fermò ad ascoltare. Aveva orecchie piccole, ben disegnate. Quando le campane smisero di suonare, Isola riprese a lavorare. Imbastì una giuntura e imbottì il raso con tre manciate di piume. Ripulì il grembiule, si alzò e lasciò sull’uscio della locanda un cuscino ricamato. Dumitru lesse due iniziali: GP. «Cosa ne devo fare?» chiese. La bambina indicò il Nord. Lo zingaro seguì il tratto disegnato dal suo indice e arrivò fino alla casa del Pagnone. Trovò la vedova che piangeva il corpo del marito. Si avvicinò al defunto, gli sollevò il capo e lo adagiò sul cuscino ricamato. Le iniziali si risvegliarono all’istante. GP. Geremia Pagnone. Dumitru vide le lettere danzare sul raso, per poi posarsi sulla testa del defunto: «Arrivederci» sussurrò. Dalla finestra entrò un aroma di rose selvatiche e mirto. La luce
delle candele tremò e la vedova si lasciò cullare dalla quiete della stanza. La notte stessa lo zingaro ascoltò il sonno leggero di Isola: «Dorme» disse Agata alle sue spalle. «Non la svegliare». Dumitru si sdraiò accanto ad Agata e si girò su un fianco, a pensare. La settimana successiva Isola ricamò un altro cuscino e tagliò l’ultimo filo, quello dorato, mentre le campane della chiesa patronale ricominciavano a suonare: RB, dicevano le iniziali. Rosa Beni, la lattaia. Poi fu la volta di CF, un pescatore ucciso dalla polmonite. Di una bambina appena battezzata: RM. PZ era il medico condotto, DL, il capraio, OI, il primo cugino del Mantide. Isola ricamò un cuscino per l’anima di ogni defunto e lo zingaro si incaricò di recapitarlo, insieme all’aroma di rose selvatiche e mirto. In paese si sparse la voce che la figlia di Agata avesse il potere di condannare. Vedendola china sull’uscio della locanda, gli isolani sapevano che un’altra anima era in partenza per il viaggio finale. Riunite nella cucina del Pregiato Portoghese, le pie donne si consolavano in via del tutto precauzionale con un vassoio di tartine in salsa. Le briciole cadevano sul cotto fatto a mano: «L’Annunciata ha ricamato» diceva donna Brigida. «Chi sarà il prossimo?» «La bambina porta male» ribatteva Celestina. «Mena rogna». Le comari arrivarono persino a esprimere qualche malumore nei confronti di Teresa, che le era un po’ parente: «Il sangue chiama sangue» bisbigliarono tirandole un’occhiataccia. Teresa masticò l’insinuazione e la ingoiò insieme alle tartine in salsa. In fondo donna Brigida le dava da lavorare. Si sarebbe tenuta le sue idee. Avrebbe continuato a masticare. Un giovedì sera, però, sputò fuori il malcontento. Celestina proponeva di preparare ghirlande d’aglio da lasciare sull’uscio della locanda: «L’aglio allontana il malocchio». «Ma che aglio e che malocchio» esplose Teresa, era ora di finirla. Sempre a criticare, a sparlare, a infamare. Che aprissero gli occhi, loro bigotte e false puritane. Che aprissero le orecchie: «Avete sommerso Agata di fango e mortificazione» le accusò. «L’avete costretta a partire per il deserto, carica dei peccati degli altri.» Le pie donne rimasero con le tartine a mezz’aria. Agata era stata sincera e Teresa poteva provarlo. La nipote sosteneva di aver ricevuto l’annunciazione. Teresa lo scandì: l’an-nun-cia-zio-ne. Dal suo ventre era nato un essere destinato a cambiare il destino dell’isola. Gli isolani avevano riso di lei, eppure chi aveva il coraggio di smentirla, chi poteva borbottare? Un messia vero, in carne e ossa, su
questa terra non si vedeva dai tempi di Gesù Bambino. Una femmina, per di più, non si era mai vista. Era un riscatto per tutte, una rivoluzione. Don Carmelo era un debole e si faceva comandare. Se Angelo Greco diceva prega, lui si metteva a pregare. Se Angelo Greco diceva raglia, lui si metteva a ragliare. Don Carmelo aveva scomunicato la nipote ma, adesso, di fronte all’evidenza, doveva riparare. Isola era identica alla statua dell’Immacolata. Prima o poi gli isolani avrebbero ringraziato il Fabbro, Teresa e la famiglia intera. Avrebbero intitolato loro una via o, perché no, la sala municipale. Agata aveva generato una figlia capace di comandare al cielo, di accompagnare i morti e consolare i vivi. Cosa volevano di più, le comari? «Vi do un consiglio» concluse Teresa. «Ingraziatevi Isola prima che l’ira celeste si abbatta su di voi come la peggiore delle piaghe d’Egitto.» Teresa si mise a sedere e allungò la mano destra verso le tartine in salsa. Le comari non riuscivano a fiatare. In effetti Isola era una bambina strana. Non somigliava a sua madre e neppure allo zingaro. Era uguale alla Beata Vergine che stava accanto all’altare patronale. Scatenava le tempeste e ordinava al sole di tornare. E poi le iniziali... I suoi ricami erano un annuncio: se Isola chiamava, l’anima partiva. E se Teresa avesse avuto ragione? Donna Brigida fu la prima a parlare: «Ci stai dicendo che la bambina non sceglie». «Accompagna.» «Non condanna.» «Consola.» «Se così fosse, Isola avrebbe un dono.» «Il dono della compassione.» Le pie donne erano state precipitose. Tutte, lei compresa, avevano giudicato senza conoscere: «Dobbiamo rimediare, e in fretta». «Cosa possiamo fare?» chiese Celestina. «Invochiamo la sua protezione. Mettiamoci in corteo domani, di buon mattino, e portiamole le nostre preghiere.» Le comari si unirono in un coro di sospiri e pentimenti. Teresa aveva ragione. Non restava che incontrarsi l’indomani davanti al Pregiato Portoghese e partire
insieme per la locanda. Le pie donne avrebbero offerto ceste di pomodori e preghiere e sarebbero tornate il giovedì successivo, alla stessa ora. E il giovedì dopo, e quello dopo ancora. La bambina era baciata dalla grazia. Anche gli uomini presero l’abitudine di togliersi il cappello sull’uscio dell’osteria. Agata e lo zingaro si occupavano della creatura e meritavano rispetto. Non si erano sposati ma, allo stesso modo, non si erano mai lasciati. La smettessero le donne, con le chiacchiere e i mormorii. Agata e Dumitru si scambiavano sguardi pieni di attenzioni e la domenica danzavano sul terrazzo. E allora? Non erano certo loro a turbare i sonni degli isolani. C’erano problemi più gravi. Che le pie donne aprissero gli occhi: l’isola si stava consumando. L’avanzata del Greco era vorace e non risparmiava nessuno. Forse la Madonna, quella nuova, quella sull’uscio, poteva far qualcosa per una terra che stava diventando una babele. Da quando Angelo Greco aveva chiuso il Monte, l’isola si era trasformata in un carcere. Il Greco era sbarcato con le sue promesse di benessere e gli isolani gli avevano creduto. Ah, quanti rimpianti per il vecchio Direttore! Il Bianco era un uomo pacato, sì, un femminiello, ma aveva a cuore il bene della comunità. Nonostante i pantaloni a sigaretta e la carnagione pallida, aveva messo tutti a lavorare: guardie detenuti dirigenti, tutti, e tutti uguali. Un vero comunista, e finalmente quella parola si poteva dire perché non faceva più paura. Certo, l’Italia non era ancora come l’Urus. Pronunciavano così gli isolani, dal cugino di un cugino di un conoscente che era stato in Unione Sovietica per conto del partito ed era rimasto impressionato dalla disciplina e dal rigore. Chissà perché il cugino del cugino del conoscente non si era fermato nell’Urus, dove la gente beveva, beveva più che alla locanda. Beveva per dimenticare. Cosa c’era da dimenticare, se nell’Urus non cerano le ingiustizie? «Alla salute del Bianco!» brindavano gli isolani, ormai abituati al gusto dolciastro della ţuică. Le mani si alzavano e la grappa brillava dentro i calici di vetro.
20
Gli isolani si erano fatti ingannare dal Greco e gli avevano ceduto le proprie case di pietra in cambio di quattro banconote posate sulle tavole insieme a una bottiglia di moscato. Gran parte della popolazione locale era stata costretta a trasferirsi dentro edifici nuovi, costruiti nella periferia del borgo. L’inaugurazione dei complessi residenziali era stata promettente, con un dolce di benvenuto nei frigoriferi di serie e le tappezzerie rallegrate da stampe di pesci tropicali un po’ fuori contesto. In quattro settimane, però, i pesci erano crollati, gli scarichi si erano intasati e i soffitti si erano scrostati. Le pareti sottili rendevano pubblici gli amori, i malumori e l’insofferenza per spazi troppo piccoli dai quali non si vedeva il mare. I vicini litigavano per un pezzo di balcone e per la pulizia delle scale che toccava sempre a qualcun altro. Le case di pietra, un tempo appartenute agli isolani, erano state ristrutturate e affittate ai turisti con costi settimanali che valevano tre mesi di lavoro nei cantieri o nei negozi del borgo. La vita dell’isola era diventata monotona nei mesi freddi e faticosa quando il clima cominciava a riscaldare. Che ne era del tempo, si domandavano gli isolani, della quiete del loro lavorare. Che ne era del clima, del vento, del mare, del loro incontestabile potere. Prima del Greco, ogni stagione aveva qualche cosa da regalare: una sorpresa, un frutto e un’occupazione. Dopo l’invasione, le stagioni erano state scalzate dalla logica del sole, l’unica che piaceva ai turisti e la sola da cui farsi comandare. In inverno il paese si svuotava, in estate brulicava. I turisti strombazzavano bestemmiavano si infuriavano per andare a rilassarsi in questa o quella baia dove litigavano per un fazzoletto di spiaggia o un ombrellone. I prezzi salivano, le botteghe chiudevano, i supermercati si moltiplicavano. Il Greco arrivò persino a recintare le spiagge più belle e ad affiggere cartelli che insultavano l’orgoglio locale: VIETATO L’ACCESSO AI RESIDENTI. Grandi uomini con occhiali scuri presidiavano gli ingressi: «Documenti»
pretendevano. Persino le feste di sant’Elmo erano cambiate. Da sempre il 2 giugno era il giorno della preghiera, la richiesta al santo di un anno benigno e provvidenziale. Da quando il Greco aveva invaso l’isola, la festa patronale era ridotta all’evento che apriva ufficialmente la stagione turistica. La tradizionale statua di sant’Elmo era stata rimpiazzata da una in vetroresina, illuminabile, che i turisti potevano vedere dal Grand Hotel Il Monte. I motoscafi sostituivano le barche dei pescatori nella processione sul mare. Gli isolani erano obbligati a fare folclore indossando gli abiti tradizionali. Archiviato il tema delle quattro stagioni che pareva troppo dozzinale, Angelo Greco ritirò i costumi di una Cavalleria rusticana che aveva avuto un discreto successo al Teatro dell’Opera della capitale. Il costruttore distribuì personalmente i costumi e pretese che gli isolani li indossassero alla festa del patrono, per il piacere di tedeschi e americani che non si sarebbero certo soffermati sulle fogge un po’ troppo meridionali. Gli stranieri amavano la tradizione, sosteneva il Greco. Pagavano per farsi sedurre dai riti e lui, il Greco, era un mercante di illusioni. Per questo, il 2 giugno invitava uno dei circhi più famosi del continente, per ricordare il primo spettacolo dei Vallone che aveva segnato la fortuna dell’isola. La televisione trasmetteva l’evento in diretta nazionale. Tutto andava a vele spiegate, nei sogni economici del Greco. Gli unici fastidi, per lui, erano le teste calde che rifiutavano gli abiti rusticani e tentavano addirittura di accendere la protesta tra i locali. Agata e Dumitru, con la loro locanda, erano i più sfacciati. Il Pregiato Portoghese era un’altra spina, un altro dolore. A due piani, di pietra e con i balconi fioriti, attirava i turisti che cercavano un’alternativa ai grandi alberghi. Per non parlare di donna Brigida e della fedele Teresa. Quando gli agenti immobiliari del Greco suonavano con l’intenzione di comprare, venivano scacciati a male parole. Le due comari sorridevano soltanto ai clienti e li deliziavano con vassoi interi di tartine in salsa, introvabili negli altri alberghi dell’isola. Agata si era intestardita. Aveva registrato il marchio ed era ricorsa agli avvocati: il Tribunale aveva stabilito che, sull’isola, la salsa si poteva gustare solo nella locanda di Agata, fatta eccezione per Il Pregiato Portoghese e le tavole degli isolani. Il Greco aveva tentato di aggirare il divieto con acquisti nel continente o la corruzione di qualche locale ma, per un’inspiegabile ragione, la salsa che arrivava per quelle vie finiva col guastarsi prima di raggiungere destinazione. Ogni anno, per la festa di sant’Elmo, Agata preparava il capretto in salsa e lo offriva agli isolani. La sua esistenza non era andata sprecata. Aveva ricevuto un dono e lo aveva moltiplicato. Col tempo, anche la gente dell’isola aveva imparato a rispettarla: «Questa
salsa è una mano santa» le dicevano per ringraziarla. La locanda era sempre affollata e la meravigliosa salsa era ormai famosa in tutto il continente. Agata sentiva che Dumitru le stava vicino e partecipava al suo presente. Aveva come unico rimpianto l’indifferenza di Isola, la sua incapacità di gioire e provare dolore. Si chiedeva se la lontananza della figlia fosse una colpa o, più semplicemente, una condizione. Ogni mese aspettava uno spicchio di luna per scendere al mare, come quando era ragazzina e lavava le pezze sporche di sangue. Camminava lungo la ghiaia sopra i tacchi perché voleva fare la fatica di arrivare. Giunta sulla riva, toglieva le scarpe e le appaiava con cura. La luna brillava sulla vernice rossa. Agata sollevava la gonna e il velo leggero della sottoveste. Si metteva in grembo la stoffa e si immergeva nell’acqua, con le gonne pesanti di acqua e sale. Le cosce, le anche e poi il brivido che saliva dritto all’ombelico. Durante i bagni della notte, i capezzoli - i bottoni - diventavano ritti e tesi. Amuleti in attesa di ammirazione. Le onde risalivano la pelle e obbligavano le labbra al sorriso. I riccioli erano i tentacoli di un polpo senza inchiostro. In quell’attimo preciso, Agata era e non era. Era mare ed era argento. Era madre. Era l’idea che ci si potesse trasformare. Tornava a galla spinta dal bisogno di respirare e restava così, quieta, in mezzo all’acqua soffice. Sulla riva, Agata scorgeva le scarpe rosse che Dumitru le aveva regalato per proteggerla dal passato. Quando le indossava, arrivava fino al cielo. Quando le toglieva, tornava a terra. Tornava a sé. Con quel dono lo zingaro le aveva dato la possibilità di scegliere. Doveva essere riconoscente. Per questo, una volta al mese, lasciava Dumitru nel letto caldo di sonno e spariva sotto la superficie del mare.
21
Dumitru? Dimmi, Agata. Che tipo era tua madre? Una donna magra, di poca fantasia. La nonna diceva che mio padre l’aveva sposata soltanto perché portava in dote un cavallo, un ronzino con gli occhi tormentati dalle mosche. Mia madre si chiamava Andana. Aveva poca salute, eppure partorì dieci figli. Le gravidanze l’avevano consumata. Se ne stava tutto il giorno nella baracca, buttata su un materasso. Le volevi bene? Sì. Morì di polmonite dodici anni fa. Nonna la fece seppellire in riva al Danubio e, ogni primavera, pianta degli anemoni sulla sua tomba. Io invece non ho mai conosciuto mia madre. So solo che aveva un vestito azzurro. Non hai chiesto di lei? Com’era fatta? Che donna era? Era di animo sorridente o scuro? Ho chiesto a mio padre, a zia Teresa, ho domandato persino al prete: «Don Carmelo,» gli ho detto «per favore». Non mi ha risposto. Sono stata al cimitero, ci sono ritornata. Ho cercato tra le lapidi e ho letto le date di morte nella speranza di trovarne una che coincidesse con la mia nascita. Mia madre se n’è andata dandomi alla luce. Non ho mai visto neppure una sua fotografia. Io me la immagino nera. Nera? Una madonna scura, con una cintura in vita a sottolinearne i fianchi. Ai suoi tempi le cinture non erano ancora di moda e lei già le indossava. In tasca aveva un breviario che non apriva. Le piacevano il vino buono e l’acqua fresca del pozzo. Come lo sai? Quando era incinta, si accarezzava la pancia e mi parlava. Cos’altro ricordi? Due volte a settimana mangiava la zuppa di mare. La preparava con le gallinelle, lo
scorfano, gli scampi e le cicale. Li metteva a bollire insieme al sedano e alle carote. Soffriggeva il prezzemolo con l’aglio e aggiungeva il polpo tagliato fine. A parte abbrustoliva il pane, per poi ricoprirlo di zuppa. Per insaporirsi l’appetito, si accomodava a tavola e respirava il vapore che saliva dal piatto. Mio padre, però, la rimproverava: «Zuppa di pesce?» urlava. «Voglio pane vino rosso e frittata di cipolle.» Pane vino rosso e frittata di cipolle. «Non sai nemmeno fare da mangiare!» le diceva. Di nascosto, mia madre continuava a cucinare. Affettava, mischiava, girava e ripeteva la storia della zuppa perché anch’io, nella pancia, la potessi imparare. Un giorno un pescatore andò in mare con la sua barca, mi raccontava. La tempesta se lo prese e i suoi figli scesero al porto: «Nostro padre non torna e noi non abbiamo di che sfamarci» dissero i bambini. I pescatori che stavano sulla riva regalarono loro una cicala, una seppia, un polpo. La madre mise a cuocere il pesce e lo rovesciò sopra il pane. L’aroma della zuppa arrivò fino al mare. I pescatori bussarono alla porta della vedova: «Da dove arriva questo profumo?» domandarono. «Dal vostro buon cuore» rispose la donna, e li invitò a entrare. Fu così che a lei e ai suoi figli non mancò mai da mangiare. È una bella storia. Quando ero incinta di Isola, anche io le raccontavo belle storie. Quella della zuppa, per esempio, o quella della ragazza con le ditina tozze. Voglio sentirla. La conosci. Non importa. Ti potresti annoiare. Lascialo decidere a me. Sull’isola senza nome viveva una ragazza con le ditina tozze. Un giorno la ragazza incontrò un circense che indossava un cappello elegante. Un Borsalino. Proprio così. Dalla falda del cappello uscivano terre mai viste, arcobaleni e cavalli dalla criniera bianca. La ragazza con le ditina tozze non si stancava mai di guardare. Poi lo zingaro ripartì, perché quello era il suo destino. La ragazza si chiese: «Come posso farlo ritornare?». Affettò due mele cotogne e le mise in padella, insieme a una cipolla tagliata fine. Prese del miele di castagno e lo mischiò al latte di capra. Cucinò la sua salsa speciale, un misto di crema e muschio. Chi la mangiava scopriva che il cibo - la vita aveva un gusto particolare. E lo zingaro tornò?
Tornò con la voglia di restare. È una bella storia. Isola non ha mai voluto ascoltarla. Se l’avesse fatto, avrebbe sentito il bisogno di parlare. Invece è rimasta in silenzio. Non so nemmeno che voce abbia, mia figlia. Dimmelo tu, Dumitru. Com’è la voce di Isola? Siediti accanto a lei mentre ricama. Potrai sentirla sussurrare. È inutile. Quando mi avvicino, Isola si irrigidisce. Pare un’aringa sotto sale. Sono stata una cattiva madre. Mentre ero incinta, pensavo che tenerla in grembo fosse un’ingiustizia, un’invasione. Lo era. Lo credi davvero? Sì. Dumitru? Dimmi, Agata. Che fine ha fatto il tuo cappello? L’ho venduto per ritornare sull’isola. Mi servivano i soldi per la nave. Per fortuna le terre mai viste, gli arcobaleni e i cavalli dalla criniera bianca erano nella mia testa. Li ho portati con me e non li ho mai dimenticati. Anche questa è una bella storia. Certo, Agata. Le belle storie sono quelle che fanno bene.
22
Per festeggiare i dieci anni dall’esibizione del circo Vallone al Monte, il Greco si mise in testa di organizzare un evento ancor più spettacolare. L’isola non aveva un nome. Era l’isola e basta, come era sempre stata. Il Greco decise che l’avrebbe battezzata. Aveva già scelto la madrina. A tagliare il nastro inaugurale non ci sarebbe stata una donna qualsiasi. Non ci sarebbe stata una cantante o un’attrice americana. Ci sarebbe stata lei, Sterlina Vallone. Dieci anni prima il Greco l’aveva vista pedalare sopra il filo alto e aveva scommesso la gamba buona sul futuro della ragazza che, infatti, era diventata la circense più conosciuta d’Europa. Nella sua fortunata carriera, era stata capace di reinventarsi: aveva cominciato con il numero delle colombe, poi si era esibita sul filo alto. Era stata addestratrice di are, illusionista e domatrice di elefanti. Il volto zingaro piaceva alle donne e le gambe lunghissime facevano innamorare gli uomini. Soltanto Dumitru aveva avuto l’audacia di non appassionarsi. Per lui Sterlina aveva pianto, si era disperata. Si era buttata persino dal filo alto, cavandosela con due polsi rotti e la frattura scomposta della caviglia. Lo zingaro era stato il suo promesso sposo. Quando se ne andò, Sterlina si tagliò una ciocca di capelli e la seppellì sotto un noce, dentro una bottiglia di vetro. Karina, l’anziana della carovana, predisse che se i capelli fossero diventati oro, Dumitru sarebbe ritornato. Niente si trasformò e Sterlina minacciò di ferirsi con un coltello. Ermete asciugò le lacrime della nipote: «Basta» le disse. «Non fare l’errore più grande. Non regalare a nessuno il dovere della tua felicità. Ti deluderà, è la natura umana, e tu ti ritroverai impotente.» Per guarire dal dolore, Sterlina si chiuse nella roulotte. Scelse un fondotinta chiaro e un ombretto dorato. Si diede due pennellate di fard e passò la matita blu attorno alle labbra. Mise ciglia lunghissime e unghie di porcellana rosse. Indossò una parrucca viola, color dell’uva. Divenne Sterlina Vallone, nome e cognome.
«Nonno, sono pronta per ricominciare» annunciò con le braccia al cielo e il mantello di strass che ruotava sulla pista: «Signore e signori, buonasera» disse al pubblico. «Bentornati allo straordinario circo Vallone, il più grande spettacolo del mondo.» Da quel momento interpretò la storia di un’artista, la vita di una stella. Durante la carriera non ebbe cedimenti. Se la delusione ritornava a galla, quando ci provava, Sterlina la copriva con un altro strato di fondotinta, con un’altra riga di matita blu. Conquistò pubblici, principi e premi. Si sposò. Scelse il maggiore dei fratelli Zorzoli, domatori da cinque generazioni. Il matrimonio fu celebrato nella gabbia dei leoni e le riviste del tempo diedero la notizia in copertina: Si sposa la regina del circo. Sorridevano i Vallone, dentro le fotografie, sorridevano gli Zorzoli. I leoni erano distratti, il prete sudava e Sterlina pensava. Chissà come sarebbe stata la mia vita se. Il Greco la contattò tramite amici della capitale: «Si ricorda di me?» le chiese. «No.» «Il 2 giugno di dieci anni fa, il circo Vallone fece uno spettacolo sull’isola senza nome. Lei era una ragazzina e io ero già un suo ammiratore. Quella sera debuttò sul filo alto. Ce l’ho ancora davanti agli occhi: durante il suo numero, il pubblico si dimenticò di respirare.» «Cosa vuole da me?» «Le propongo un ritorno in grande stile. Ho deciso di festeggiare i dieci anni da quella indimenticabile serata e, con l’occasione, vorrei battezzare l’isola. Lei, signora Sterlina Vallone, sarà la nostra splendida madrina.» «Se ne vada» si innervosì la diva. «Posso pagare.» «Non importa.» «Il doppio.» «No.» «Tre volte il doppio.» «Neppure.» Il Greco si agitò: ma come, gli amici della capitale gli avevano assicurato la presenza di Sterlina Vallone e lui aveva già avvisato i giornali. Quelli del canale nazionale volevano l’esclusiva, ci sarebbero stati fior di invitati. Onorevoli, attori, intellettuali, un regista francese e addirittura un cardinale. Sterlina pensò allo zingaro.
Quando la nave aveva lasciato l’isola, dieci anni prima, Dumitru sedeva a poppa con il Borsalino sulle ginocchia e il suo sguardo cercava il profilo dell’isola. Pochi giorni dopo Dumitru aveva rotto la promessa di matrimonio. Sterlina lo aveva visto congedare gli andalusi, lo aveva sentito ripetere i loro nomi attraverso le carezze infilate con cura dentro le criniere bianche. Orione, Mosca, Andromeda. E Rosso, soprattutto il Rosso. Mi mancherai. Mi mancherai come un braccio. Come una gamba. Sarò monco e zoppo, senza di te. A lei invece non aveva detto niente. L’aveva salutata con la mano bene aperta e se n’era andato. Rinunciando a Sterlina, Dumitru rinunciava al circo, al cognome, all’onore della tradizione. Dopo quel tradimento, nessuna famiglia l’avrebbe accolto tra le sue grazie. Sterlina sapeva del circo stabile che Dumitru stava costruendo sull’isola. Glielo avevano detto gli artisti che lo zingaro incontrava quando si esibiva in qualche occasione eccezionale. Un circo stabile: che idea bizzarra. Da che esisteva il mondo e da che esisteva Dio, i circhi erano nati per viaggiare. Chi era Dumitru, per stravolgere la storia? Non era diventato il miglior circense d’Europa, come il vecchio Ermete aveva ingiustamente predetto. Era un fallito, un essere mezzo dritto e mezzo fermo. Sterlina lo avrebbe punito mostrandogli la sua mediocrità. «Sì» disse al Greco. Avrebbe accettato la sua offerta e sarebbe sbarcata sull’isola nel pieno del suo splendore. Avrebbe mortificato Dumitru con i suoi venti camion, le quaranta roulotte, gli abiti cuciti con l’oro e i sessanta artisti internazionali. Lui si sarebbe mangiato le dita a vederla così, magnifica e potente. Si sarebbe rimangiato la superbia, il silenzio, la sua pigrizia d’amare. «Ci sarò.» Anche solo per compatirlo, ci sarò. Tre mesi dopo, il circo Vallone arrivò sull’isola tra una folla di ammiratori in festa. I camion scesero dal traghetto e i turisti applaudirono la gigantografia di Sterlina stampata sui rimorchi dei tir. La sua faccia era il circo. Non esistono labbra più scure della notte, eppure non c’era nulla, in Sterlina, che sembrasse inappropriato. La diva viaggiava poco distante dal tir, su un’Alfetta color dell’uva: «Eccola, eccola» gridarono gli ammiratori, intravedendo la parrucca e le dita guantate che salutavano dal finestrino. L’auto strombazzò e prese la via del Monte. La regina si sarebbe concessa la sera, sotto le luci dello spettacolo. Mentre l’automobile saliva verso il Monte, la vera Sterlina si preparava a scendere
dalla nave. Poco prima di raggiungere l’isola, aveva chiamato la cugina Teodora: «Siediti, ho bisogno di te». Le aveva chiesto di indossare la parrucca color dell’uva e uno dei suoi abiti da passeggio: «Devi salire sulla mia macchina» l’aveva obbligata. «Devi prendere il mio posto.» «Perché?» «Perché, per un giorno soltanto, voglio stare in mezzo alla gente senza essere indicata: guarda laggiù, guarda chi c’è!» La regina del circo si era lavata la faccia con acqua di lavanda. Si era passata del cotone sulle labbra, si era pettinata i capelli - i suoi capelli, sottili e castani - in una coda alta. Si era guardata allo specchio per vedersi così come non si ricordava. Non aveva nemmeno trent’anni e si era già portata addosso almeno due esistenze. L’infanzia era stata il tempo delle rinunce e degli allenamenti quotidiani. L’età adulta si era mangiata l’adolescenza. Sterlina sapeva restare in equilibrio tra l’illusione e la bugia con la stessa concentrazione con la quale, un tempo, camminava sul filo alto. Le luci della pista la rendevano perfetta e, allo stesso tempo, svelavano le sue imperfezioni. Aveva bisogno di alleggerirsi. Scese dalla nave dentro un pantalone estivo e una maglietta chiara. Sentì l’odore del sale. La luce del mezzogiorno la costrinse a socchiudere gli occhi: vide il Mediterraneo. Riconobbe i pendii e la cima del Monte. Ascoltò i gabbiani e cercò i fichi d’India già carichi di frutti. Eppure l’isola era differente. Il molo era diventato un porto. La costa era invasa da alberghi, case e negozi. Gli strilloni si accalcavano attorno ai traghetti in arrivo. Affittasi una stanza, due locali, tre. Da me, signora, da questa parte, dall’altra, dall’altra ancora. Sconto per una grigliata di pesce, laggiù, al primo ristorante. Qui gratis il caffè e il dolce della casa. Taxi! English, Français, Deutsch. Le migliori spiagge. I migliori alberghi. Venga, signora, da questa parte, non si faccia abbindolare. Cosa diamine era capitato? Per fuggire dalla confusione, andò in cerca dell’unico segno capace di rassicurarla. Riconobbe la locanda dalle antenne dello chapiteau che spuntavano oltre il tetto: Dumitru era là, non poteva essere altrove.
23
Sterlina si avvicinò alla locanda. Sull’uscio vide una bambina: «Ehi» la chiamò, ma la piccola tenne gli occhi fissi sul ricamo. Di certo non era figlia dello zingaro. Non aveva i suoi colori: «Come ti chiami?» domandò. Isola non rispose. Sterlina entrò nella locanda, tra i rumori delle posate e il brusio degli avventori: «Prego». Una cameriera la invitò a sedere: «Ecco il menù con le specialità della casa. Sulla lavagna trova i piatti del giorno. Sarde, capretto e fritto di paranza». Tutto rigorosamente in salsa. Oltre la porta girevole della cucina, Sterlina riconobbe la ragazzina dai piedi scalzi. Anche lei era diventata donna. Aveva i fianchi robusti di un tempo, eppure l’esistenza l’aveva maltrattata. I capelli erano bianchi e c’era qualcosa nei suoi gesti che faceva pensare alla rassegnazione. Quando lo zingaro se n’era andato, i circensi dicevano che Agata lo avesse ammaliato con il veleno dei fermi. Sterlina aveva proibito alla sua gente di nominare Dumitru. Si era sbarazzata della sua roulotte, aveva bruciato i costumi di scena e costretto il padre a vendere gli andalusi a un circo francese. I manifesti furono ristampati e il numero di Alta Scuola fu cancellato dalla lista delle attrazioni principali. Dello zingaro non doveva rimanere nulla. Eppure l’odore del campo raccontava che lui era passato di lì e che si era innamorato. Non di una donna, però. Degli andalusi bianchi. Lo zingaro non permetteva ai boeri di strigliare i suoi cavalli. Era lui stesso a passare la brusca con movimenti circolari che, dalla criniera, scendevano lungo le spalle e sui toraci. Puliva le narici con una spugna imbevuta di acqua calda. Invitava gli andalusi a sollevare le zampe e toglieva il fango dai loro zoccoli. Dumitru sellava i cavalli, Dumitru li accompagnava, Dumitru asciugava i loro dorsi sudati. Il Rosso, in particolare, riceveva le prime attenzioni della giornata e l’ultima carezza
della sera. Li aveva sentiti chiacchierare. Sterlina non era pazza, non era squilibrata. Era entrata nelle stalle e aveva udito il Rosso spiegare allo zingaro che aveva uno zoccolo da pareggiare. Quale, aveva domandato Dumitru. Il solito, aveva risposto il Rosso. Corse a dirlo a Ermete: «Nonno!». Il vecchio le fece trangugiare due cucchiai di olio di pesce e le vietò di tornare nelle stalle. Eppure lei ne era sicura: li aveva sentiti chiacchierare. «Vuole ordinare?» chiese la cameriera. «Sì. Capretto in salsa» disse. «E patate in salsa, olive in salsa, acciughe in salsa.» Ermete Vallone si era spento serenamente nel suo campino. Andandosene, aveva stretto la mano della nipote: «Mi raccomando il cognome» aveva detto. «E la tua felicità.» Tutte e due le raccomandazioni non potevano stare nella stessa vita, per questo Ermete aveva scelto in che ordine parlare. Agli occhi del suo pubblico, Sterlina era una donna capace di osare. Invece le era mancato il coraggio: «Nonno, credimi» mormorava la notte, quando il rimpianto non la faceva riposare. «Li ho sentiti chiacchierare.» Agata si affacciò alla porta della cucina. La guardò senza riconoscerla. No, si disse la diva. Non era stata lei a incantare Dumitru perché di nessuna donna era mai stato il cuore dello zingaro. Da ragazza, Sterlina si era buttata sull’innamorato. Aveva richiamato la sua attenzione con numeri di agilità e bravura, gli aveva solleticato la carne prendendogli la mano e facendola scivolare tra la riga dei seni bianchi. Lo zingaro avrebbe potuto sollevarla in aria e farla ricadere tra le sue gambe. Farle sentire la forza, zittirla con la soddisfazione. Sterlina raccontava che lo zingaro non era un uomo, che gli mancava la voglia e persino il coraggio. Stava con le bestie perché con le femmine non ci sapeva fare mentre lei era una femmina, eccome. Dumitru aveva continuato a cavalcare e non aveva risposto alle occhiate del campo. Il Rosso era il luogo, l’affetto, il momento in cui voleva stare. Il rifiuto dello zingaro le tolse il sonno. Per fortuna l’anziana del campo la prese per mano. L’accompagnò sotto un albero di mele: «Siediti» ordinò. Passò un’ora, passò un giorno. «Cosa aspettiamo, Karina?» «Che cadano le pere.» «Non è possibile!» disse Sterlina guardando i frutti ancora acerbi. «Siamo sotto un melo.»
«Proprio così. Adesso devi decidere: o ti accontenti di una mela o cambi albero.» Sterlina fu convinta dalla logica semplice dell’affermazione. Ci sono fatti contro i quali non si può andare. Solo i sentimenti sopravvivono in silenzio. «Cameriera?» «Sì?» «Paranza in salsa Agata, per cortesia.» Ottimo il condimento, meglio di come se lo ricordava.
24
Angelo Greco fece esporre decine di manifesti dove annunciava che l’isola sarebbe stata battezzata. Gli isolani si radunarono attorno alla faccia dell’imprenditore che sorrideva dai cartelloni: L’Isola del Greco diceva la scritta. Il nostro futuro. Il nostro presente. Ormai tutti sapevano che nostro, per il Greco, voleva dire suo. Suo e basta. Era il proprietario di molte cose e la sua fame pareva inarrestabile. Adesso pretendeva persino di giocare al Battista. Un battesimo, per di più profano, avrebbe creato disaffezione e una generale confusione geografica. Agli isolani non era andata giù la storia delle spiagge vietate ai locali, e neppure il raggiro immobiliare. Alcuni avevano svenduto la casa e si erano ritrovati con poche lire e senza un tetto. Molti avevano ceduto le attività commerciali nella speranza, tradita, di un posto fisso. I grandi alberghi dell’isola erano gestiti dagli amici del Greco che costringevano i lavoratori a sborsare il costo dei propri contributi, in cambio di contratti stagionali che tardavano ad arrivare. I salari erano al minimo. Il pane costava il doppio del normale da quando si chiamava il pane dell’isolano: «Il pane dell’isolano?» si lamentavano le pie donne radunate nella cucina del Pregiato Portoghese. Un tempo era il nostro pane, e rallegrava la tavola di tutti. Davanti a un vassoio di tartine in salsa, le comari ammettevano di aver creduto all’uomo della provvidenza: «Diceva che avrebbe fatto la fortuna dell’isola, ma se l’isola potesse parlare, sarebbero solo lamenti!». Persino il mare era cambiato. Una schiuma dall’odore acre copriva la battigia. I sacchi di sporcizia rotolavano tra le onde e si arenavano sulle spiagge. Gli orizzonti si erano ristretti. Non erano più vasti come un tempo, quando il limite era pari all’occhio umano. I nuovi limiti erano gli edifici, al di là dei quali era difficile persino immaginare. «Solo una cosa è rimasta la stessa.» «Corposa.»
«Muschiata.» «Vitale.» La salsa era buona come un tempo. Decine di professionisti avevano corteggiato Agata per conoscerne il segreto, l’avevano accerchiata e minacciata. Le avevano promesso denaro e ristoranti sul continente. Niente. Agata aveva sempre rifiutato: «La bellezza non si compra» ripeteva a chi la avvicinava, e la sua salsa era bella. Buona? Bella. «Teresa, avevi ragione tu.» Erano state ingiuste con Agata. L’avevano giudicata. Avevano fatto in modo che fosse additata ed esclusa dai sacramenti. Invece lei si era portata addosso la vita con la naturalezza con la quale si indossa un capo fatto a mano. Si era infilata lo zingaro e se l’era abbottonato al petto, come una giacca di buona fattura. Si era stretta ai fianchi una figlia rifinita d’oro. Aveva camminato dentro scarpe di vernice, nel tentativo un po’ goffo di avvicinarsi al cielo. Agata portava una borsa di progetti andati a buon fine: la locanda, il presente e i balli domenicali sul terrazzo. I capelli imbiancati dopo il parto non erano la macchia di un peccato: «I capelli bianchi erano per noi» dissero le pie donne. «Perché vedessimo che qualche cosa di grande era capitato.» Don Carmelo era il solo a conservare intatta l’antica opinione. Per forza, era incapace di vedere una grazia anche se ci sbatteva contro. Era stato lui, più degli altri, a additare e il popolo - il bue - si era affrettato a condannare: insulti, risate, improperi. Agata era stata ostracizzata, aveva detto donna Brigida, che aveva imparato quella parola così importante in un corso di bella scrittura della capitale. Gli ultimi fatti obbligavano le pie donne ad ammettere che la ragazza non era l’incarnazione del male. Il Greco, invece, aveva la faccia caprina e i piedi da ungulato. Si vedevano, nonostante i mocassini fatti a mano. Era lui il demonio, il traditore che aveva comprato l’isola e che, adesso, voleva battezzarla. Darle un nome significava riscriverne la storia. «Non vogliamo che il Greco decida per noi, per il nostro futuro» disse donna Brigida. Certo che no. «Dobbiamo salvare l’isola. Dobbiamo impedire il battesimo profano.» «Chiederemo aiuto ai nostri mariti.» «Macché! Gli uomini sono buoni soltanto a tirare su le spalle e a chiudersi nell’osteria. Saremo noi a svegliare la gente.»
«In che modo?» «Saboteremo il santo illuminabile e rapiremo la prestigiosa madrina circense.» Forse non avrebbero cambiato il destino dell’isola ma, di certo, avrebbero rovinato la festa al Greco. Donna Brigida buttò sul fuoco dieci saraghi e un brodo di patate e invitò le pie donne a restare. Dovevano pianificare. Avrebbero passato l’intera notte a organizzare. La mattina del 2 giugno, le comari si sparsero per le vie del borgo: «Veniamo per conto del Greco» dissero suonando i campanelli degli isolani. «Dovete consegnarci i costumi della Cavalleria rusticana.» Anche le bisacce, sì, i calzari e le basette posticce. «Perché?» «Il dottor Greco ha cambiato programma.» Niente battesimo dell’isola e niente mascherata al Monte. A rallegrare la festa del patrono ci avrebbero pensato fior di attori venuti apposta dal continente. Gli isolani potevano ritenersi liberi. Sollevati. «Davvero?» «Sì.» A chi chiedeva di assistere allo spettacolo del circo Vallone, le donne rispondevano scandalizzate: «No! Il circo Vallone è solo per i turisti e per i divi di Ollivùd». Gli isolani si sarebbero divertiti molto di più al circo dello zingaro, dietro la locanda. Come, non lo conoscevano? Si chiamava circo stabile Dumitru Serban e si inaugurava proprio quella sera con trenta artisti internazionali arrivati dal continente per sostenere il collega e amico zingaro. Ci sarebbe stata persino una fanfara venuta apposta dall’Oltenia. Dov’era l’Oltenia? Lontano lontano, dall’altra parte del mare. Gli isolani non potevano mancare. Il circo stabile Dumitru Serban sarebbe stato «il primo al mondo senza bestie esotiche». Sterlina aveva visto il manifesto sulla porta della locanda e si era meravigliata. Uno spettacolo senza giraffe e senza leoni? Senza tigri ed elefanti? Per fortuna il vecchio Ermete era andato al Creatore prima di vedere tanta desolazione, lui che si toglieva il pane di bocca per sfamare le sue bestie. Certo, qualche circo minore era finito sui giornali per maltrattamenti agli animali, però le grandi famiglie avevano una tradizione da rispettare. Loro alle bestie ci tenevano come ai figli. Eppure Superbo, il leone bianco, si era lasciato morire di fame. Il veterinario del circo Barnum era arrivato dagli Stati Uniti per curare l’animale e ne aveva constatato la tristezza. Il leone era stanco, voleva morire. Non era possibile, protestava Sterlina, aveva avuto un’esistenza piena di attenzioni. Ci sono nostalgie che abitano sottopelle, aveva risposto il dottore, chiudendo la valigetta color pavone.
Al pubblico quella morte era sembrata un peccato di distrazione. Sterlina aveva regalato interviste e sorrisi, si era data ai fotografi e alle telecamere pur di dimostrare che Superbo si era addormentato, sì, per sgarbo e non per convinzione. Decise che sarebbe andata a vedere il circo stabile Dumitru Serban, il primo al mondo senza bestie esotiche. Avrebbe riso della sua banalità: esseri umani e animali da cortile, era tutto quello che lo zingaro poteva offrire? Teodora aveva cominciato a urlare: «Non lo puoi fare!». Si era già messa nei panni della cugina e aveva salutato il pubblico dal finestrino della sua automobile. Gli ammiratori si erano fatti convincere dal trucco pesante e dalla parrucca color dell’uva. Teodora si era anche divertita, «non dico di no», ma sostituire Sterlina durante lo spettacolo sarebbe stato un tradimento: «Il pubblico vuole vederti, è lì per te». «Nessuno se ne accorgerà» aveva insistito Sterlina. «Il circo è la bugia più vera che esista.» La cugina aveva continuato a protestare. «Non so mentire.» «Sei una circense, vendi illusioni.» «E poi non so fare il numero degli elefanti.» «Racconta che ti sei fatta male, il pubblico capirà. Presenta lo spettacolo e lasciati ammirare. Poi battezza l’isola e sorridi, sorridi sempre. Te la caverai.» «E tu?» «Andrò al porto. Voglio vedere lo spettacolo dello zingaro, senza bestie esotiche e costumi eccezionali.» Senza il baracchino della frutta caramellata, i venditori di fotografie istantanee e il biglietto extra per lo zoo, da visitare durante l’intervallo. «Voglio godere della sua miseria.» «Cosa vuoi dimostrare?» «Nulla, ed è la prima volta dopo dieci anni.»
25
Il giorno in cui Dumitru lasciò il circo Vallone, il vecchio Ermete aveva la fronte carica di preoccupazioni: «Pensavo che avresti portato avanti il mio cognome» rimproverò allo zingaro. «Tu però hai altre idee.» «Voglio semplicemente andare.» «Cosa farai?» «Non ho progetti, ho soltanto sensazioni.» «Allora vai, ma non voltarti a guardare. Ho deciso di vendere gli andalusi perché non ti venga voglia di tornare. No, non ascolterò le tue proteste. Vattene stasera stessa. Io avrò cura di Sterlina: per questo mi dimenticherò di te.» Sul tavolo davanti al vecchio, c’erano dei cetrioli in salamoia e un pezzo di pane. Dumitru si ricordò di avere fame. «Accanto alla porta ho appeso un vestito. È l’abito con il quale ho presentato il circo Vallone negli ultimi cinquant’anni. Non mi va più. La vecchiaia mi ha rimpicciolito le ossa e, tra poco, se le porterà via. Prendi il vestito e portalo con te. Lo indosserai in un’occasione speciale.» Dumitru toccò la stoffa rossa e le mostrine dorate: «Onorato non sarebbe d’accordo.» «Addio, stupido zingaro.» Se non fosse stato per l’abito che gli occupava le mani, Dumitru avrebbe abbracciato il vecchio. Il regalo era un modo per dirgli che c’era qualche cosa di buono nella sua partenza. Un pazzo, un presuntuoso, un irriconoscente, gli altri del campo lo avevano sbeffeggiato: «Un dritto che si lascia incantare da una ferma è condannato all’infelicità». Dumitru uscì dalla roulotte. Andò appresso all’istinto e all’indecifrabile sensazione che qualche cosa, nella sua vita, fosse destinata a precipitare. Anni prima, la nonna aveva previsto per lui un futuro di successo e delusioni. Lo zingaro si era preparato a quell’incontro. Aveva riconosciuto Agata - le sue ditina così saporose di terra - e aveva desiderato baciare là dove la carne si separa. Succhiare quelle ditina tozze e impedire a
chiunque di guardarle. Di sporcarle. Era tornato sull’isola con un paio di scarpe di vernice. Agata si era seduta al suo fianco, all’entrata della rivendita: «Non ho più il sangue» gli aveva detto muovendo le ditina a ventaglio. Dumitru si era avvicinato alla ragazza nel tentativo riuscito di confortare. Sentiva il dovere di custodirla per vederla maturare. Le avrebbe impedito di guastarsi. Per starle accanto, Dumitru si era separato dagli amati andalusi: «Aspettami» aveva detto al Rosso. «Verrò a riprenderti e ti porterò con me.» Dumitru aveva mantenuto la promessa. Il Rosso era stato l’ultimo dei dodici andalusi ad arrivare sull’isola senza nome: «Non ti vogliono vendere» gli diceva lo zingaro. «Sei il migliore della scuderia.» Il Rosso capì e si ribellò. Cominciò a tradire in pista e a scalpitare nelle stalle, per innervosire gli altri cavalli. Chiamarono dalla Francia: «Portatelo via». Dumitru preparò un giaciglio di paglia corta e si imbarcò sul mercantile del martedì mattina: «Io e il Rosso torneremo venerdì» promise. Agata lo guardò partire. Era la prima volta che dubitava. Contò le ore che la separavano dal ritorno e ogni sera scese al molo ad aspettare. Quando vide la nave attraccare, si portò le mani al petto. «Ti presento il Rosso» disse lo zingaro. «Benvenuto» disse Agata accarezzando l’andaluso. Il Rosso si sistemò sul giaciglio di paglia corta e Agata si abituò alla sua presenza. Lei e il Rosso impararono a dividersi le attenzioni di Dumitru. Entrambi sapevano che il modo migliore di restare accanto allo zingaro era quello di godere dello spazio che lui poteva dare. La sera dell’inaugurazione del circo stabile Dumitru Serban, Agata e il Rosso si ritrovarono sotto il tendone. Le pie donne si accomodarono in prima fila. Liberi dai costumi rusticani e dall’obbligo d i fare folclore, gli isolani applaudirono dalla platea. Sterlina si sistemò al fondo, sulle gradinate. Per quella occasione così speciale, Dumitru indossò il completo del vecchio Ermete. Non ci fu nemmeno bisogno di spostare un bottone o aggiustare l’orlo. Il vestito era della misura giusta. «Signore e signori» disse lo zingaro schiarendosi la voce. «Benvenuti al più grande spettacolo del mondo.» Il Rosso entrò al galoppo e, con un salto mortale, Dumitru gli
atterrò sul dorso. Che farabutto, pensò Sterlina. Lo zingaro aveva la faccia dei vent’anni e la divisa di Ermete Vallone. Quel maledetto l’aveva rubata. Quanto tempo perso a cercarla. Alla fine dello spettacolo sarebbe andata a reclamare. «Vai, vai» chiese Dumitru al Rosso, che aumentò la cavalcata. Lo zingaro cercò l’equilibrio, fece una piroetta all’indietro e ricadde sulla sella con le briglie tra le mani. Con un fischio chiamò gli altri andalusi. I cavalli entrarono al galoppo ed eseguirono incroci e girate. Sterlina si guardò attorno. Mancava il leone, mancavano gli elefanti. Non c’era il baracchino della frutta caramellata e neppure il biglietto extra per lo zoo, eppure gli occhi degli spettatori brillavano di meraviglia. Il pubblico si alzò in piedi. Applaudì. «Grazie!» disse lo zingaro. Sterlina si sentì chiamare: «Vallone, come stai?» chiese il Rosso dal centro della pista. «Dici a me?» «A te, a te soltanto. Senza la parrucca sei molto più carina.» Il cavallo si inchinò e lo zingaro salutò con la mano destra ben aperta. Sterlina chiuse gli occhi. La giornata era stata lunga e la stanchezza le confondeva le idee. Di due cose però era sicura: il Rosso parlava e Dumitru Serban era il miglior circense d’Europa. Sullo zingaro, il vecchio Ermete non si era affatto sbagliato.
26
Mentre Dumitru Serban debuttava nel cortile dietro la locanda, la finta Sterlina presentava gli artisti internazionali del circo Vallone che si esibivano al Monte. Per dare un tocco locale allo spettacolo, il Greco aveva promesso ai turisti la compagnia degli isolani in costume rusticano. Gli ingrati, però, non si erano presentati. Il Greco si era innervosito. Un dipendente gli aveva riferito che erano sotto lo chapiteau del porto, ad applaudire lo zingaro. Come osavano. Se non fosse stato per lui, per la generosità delle sue buone intenzioni, l’isola sarebbe rimasta un covo di pietre e capre. Non avrebbe conosciuto il benessere, non si sarebbe riempita di tedeschi e americani. Avrebbe dovuto saperlo: cosa poteva pretendere da pescatori e contadini affezionati ai propri stracci? Il Greco restò al suo posto, nella poltrona d’onore, e finse di godersi lo spettacolo. Durante la parata finale lanciò una rosa a Sterlina Vallone, poi si precipitò nel mezzo della pista: «Presto» disse alla finta diva avvolgendola in una stola di seta: «Corriamo al porto. Il battesimo non può aspettare». Il Greco aveva un presentimento che gli consigliava di accelerare. Da nord-ovest saliva il maestrale, più freddo di un vento qualsiasi di inizio estate. Nel frattempo le pie donne stringevano le gonne tra le mani, per non farle gonfiare. Avevano lasciato gli isolani sotto il tendone dello zingaro, per dirigersi alla chiesa patronale. Giunte sul sagrato, recuperarono il ferro nascosto la sera prima dietro l’ingresso principale. Lo infilarono tra lo stipite e la porta della sacrestia: «Spingete» ordinò donna Brigida alle comari. «Di più!» Con gran sollievo, il legno cedette e le donne sgusciarono dritte in sacrestia: «Se ci scoprono?» disse Celestina. «Non ti preoccupare» le rassicurò donna Brigida. «Don Carmelo è al servizio del Greco e per fortuna il buon Dio è troppo intelligente per mettersi a gridare.»
«Da questa parte» sussurrò Teresa. Dietro una tenda di velluto, c’era la vecchia statua in gesso di sant’Elmo che non era più servita, da quando era stata sostituita da quella in vetroresina illuminabile: «Come bella» disse donna Brigida. «Sant’Elmo ci perdonerà?» chiese Celestina. «Sant’Elmo ci amerà. Forza, giriamolo su un fianco.» Le pie donne scricchiolarono sulle ginocchia e, tra una spinta e un incoraggiamento, si caricarono in spalla il santo. Dondolando, si incamminarono lungo una strada laterale: «Pesa troppo». «Salvate il fiato» le rimproverò Teresa. Giunte al porto, donna Brigida mandò a chiamare il marito della merciaia. «Che succede?» chiese il Mantide. «Prendi la barca.» «La mia?» «Carica sant’Elmo e raggiungi il motoscafo del Greco. Dobbiamo fermare il battesimo dell’isola.» «Tornate alle vostre faccende da femmine» rise il pescatore. «Se non ci darai ascolto, chiederemo all’Annunciata di occuparsi di te» minacciò Teresa indicando la locanda. «L’Annunciata è dalla nostra parte» disse Celestina, aggiustando il trionfo di capelli turchini. «Fa’ come ti diciamo». Il Mantide gettò a terra il berretto: «Maledetto il suo sangue». Di malavoglia, caricò il santo e lo fissò con due cime agli scalmi. Le pie donne intanto corsero a chiamare gli isolani, impegnati a gustare il capretto in salsa sotto il tendone dello zingaro: «Venite, forza. Sant’Elmo ci sta aspettando». «Per fare che?» «La rivoluzione!» Il peschereccio prese il largo tra le prime gocce di pioggia e si diresse verso il motoscafo del Greco. Il battesimo dell’isola era già cominciato. Per l’occasione don Carmelo indossava la stola che l’imprenditore aveva fatto confezionare per lui dal sarto di sua Santità. Era stato un vezzo, un peccato di vanità che di certo l’Altissimo gli avrebbe scontato a fronte dell’audacia con la quale maneggiava l’aspersorio, nonostante il temporale che minacciava di complicare il rituale. «In nomine Patris et Filii et.»
«Che succede?» domandò il Greco. «Il vento.» «Prosegua, padre.» «In nomine Patris et Filii et.» «E adesso?» «Laggiù.» «Cosa?» «Arriva un peschereccio.» Per colpa del circo o di una lieve demenza che ormai gli confondeva i pensieri, don Carmelo vedeva due sant’Elmo, roba da non crederci, uno illuminato e uno più tradizionale che lui stesso aveva nascosto dietro la tenda della sacrestia. Il santo avanzava. Non c’erano dubbi, era proprio lui. Che ci faceva in mezzo al mare? «Si sbrighi, don Carmelo» lo incitò il Greco. Il reverendo era indeciso: cosa doveva fare? Benedire i due sant’Elmo o discriminare? Era una notte particolare e con due patroni in mare c’era da sentirsi spaesati: «Tu!» disse il Greco al pescatore. «Vattene!» Dalla riva le pie donne si misero a protestare: «Vattene tu» gridarono in direzione del motoscafo dove la finta Sterlina aspettava di lanciare una bottiglia benaugurale contro la statua illuminata del santo. Era il suggello che il Greco provava a forzare: «Avanti don Carmelo, la benedizione!». Don Carmelo agitò l’aspersorio, ma il motoscafo ondeggiò e il sacro orpello cadde in mare. «Oh santissima Vergine» esclamò il prete mentre i tuoni cominciavano a montare. «Che succede?» «L’aspersorio.» «Che me ne importa. Improvvisi! Usi le dita!» «In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti» ricominciò il prete. Le imbarcazioni sobbalzarono, le statue ciondolarono a destra e a sinistra. Vortici di acqua e vento salirono dal mare. La pioggia aumentò. Bisognava rientrare: «No!» gridò il Greco, sdegnato per l’imprevisto. «È l’Annunciata! È l’Annunciata!» urlarono gli isolani. Le onde si moltiplicarono. Le imbarcazioni si piegarono su un fianco, poi sull’altro. Il mare crebbe, il vento ululò. Il profilo dell’isola scomparve dall’orizzonte. La statua illuminata precipitò in mare e si portò appresso la finta Sterlina con tutta la bottiglia inaugurale: «Oh che disgrazia, che maledizione» si disperò il Greco. Si sporse per
afferrare la diva ma la sola cosa che gli riuscì di agguantare fu la parrucca viola, color dell’uva. La finta Sterlina implorò: «Aiuto!». A nulla servì il salvagente buttato in acqua e il tuffo di un coraggioso: la diva si perse tra le onde gonfie di maestrale. «Dove andate? Come osate?» si lamentò il Greco agitando al cielo la parrucca color dell’uva, mentre le imbarcazioni provavano a rientrare. I giornalisti accorsi per raccontare il battesimo dell’isola non rimasero a penna asciutta. La televisione fece un colpo eccezionale: «La regina del circo travolta dalla furia del mare» avrebbe intitolato il notiziario del giorno successivo. Un elenco di preoccupazioni sfilò davanti agli occhi del Greco: avvocati, bolli, assicurazioni e beghe, quel colpo di vento equivaleva alla catastrofe. Colpa degli isolani che avevano invocato la sciagura, colpa della bambina che comandava al cielo. L’Annunciata, si chiamava. Era stata lei a invocare la tempesta. Il Greco si sarebbe vendicato, nonostante il buio calato sull’isola in quella notte di vento e sale. Le imbarcazioni si avvicinarono alla costa. Il Greco intuì il profilo del molo: «Isola, te la farò pagare!» gridò. Si buttò in acqua e sfidò le onde. La gamba buona. Doveva affidarsi a lei, lasciarsi trascinare. Bevve, lottò e sputò fino a toccare la riva. Uscì dall’acqua e guardò il borgo. Si incamminò verso la locanda, seguendo la fiamma della candela che vibrava al di là della finestra.
27
Isola lo sentì entrare e fermò il filo dorato che correva sul raso. La fiamma della candela disegnava la sua ombra sulle pareti della locanda, la allungava fino a sfigurarla. La corrente elettrica se n'era andata con la tempesta: «Sei tu l’Annunciata?» chiese il Greco. La bambina non rispose. «Sei colei che decide i destini dell’isola?» L’uomo si avvicinò, fradicio di pioggia e mare: «La gente dice che hai il potere di scatenare il cielo, che puoi ordinare al sole di tornare. È la verità?». Le passò una mano tra i capelli: «Quanti anni hai, bambina?». Isola scostò il capo: «Ricordati che non conti niente». Il Greco le strappò il ricamo e lo buttò a terra: «Su quest’isola sono io che comando». Il raso fece rumore: «Guardami. Ti ho detto di guardarmi!». Due macchie rosse si accesero sul volto di Isola e scesero giù, a chiazzarle il petto. La bambina alzò gli occhi feroci sul Greco. L’uomo si ritrasse: «Non mi spaventi» disse agitando la gamba buona tra le gonne di Isola. «Vieni qui. Ti insegnerò il rispetto.» Le mani del Greco si gonfiarono, la testa crebbe a dismisura. Il petto uscì dalla camicia, i piedi sfondarono le scarpe. L’uomo spinse il petto minuto di Isola contro il suo. La bambina si dimenò: «Cagna» gridò il Greco stringendola più forte. Isola gli morsicò l’indice destro. Il Greco le diede un ceffone, la afferrò per i capelli e la sollevò da terra: «Figlia bastarda di un’isolana!». Urla. Grida e colpi nel tentativo di prendere. Scappare. Poi un suono asciutto. Nulla più. Il rumore di una bottiglia in frantumi e la corsa silenziosa della ţuică sul pavimento della locanda. Correva, la ţuică, e il sapore delle prugne si mischiava all’odore della pioggia e a quello acre del sangue. Il maestrale smise di soffiare.
La tempesta si spense, le onde ripresero a cullare. Un ronzio anticipò la corrente che tornava a funzionare. Isola raccolse il ricamo e si accomodò accanto alla finestra. Controllò la precisione dei punti, avvicinò il filo dorato alle labbra e, con un gesto secco, lo recise. La coda del filo dorato volò sul pavimento, senza fretta di arrivare. La bambina sollevò la testa del Greco e la adagiò sul cuscino. Le iniziali iniziarono a danzare. AG, raccontavano. Angelo Greco.
28
Il giorno di sant’Elmo, Agata rimase alla locanda a preparare la meravigliosa salsa. Voleva festeggiare l’inaugurazione del circo stabile Dumitru Serban e portare nello chapiteau un po’ del suo profumo. Isola sedeva sull’uscio, con il ricamo tra le mani e gli occhi rivolti al Nord. Quel giorno Isola non aveva lo sguardo assente. Era lì, presente, e guardava. Grandi chiazze di rossore le correvano dalle guance verso il petto. Agata la sentì mormorare. Era vero o si sbagliava? Si avvicinò e accostò l’orecchio alle labbra della figlia. Isola parlava con il cielo: «Venite, nuvole» diceva. «Correte.» Fatevi nero fatevi acqua fatevi lampo. Agata sentiva ogni singola sillaba e il suono lucido del loro insieme. Proprio lei che aveva sempre sperato di conoscere la voce di Isola, che chiedeva a Dumitru di raccontarle le sue parole, in quel momento poteva udire. «Venite, nuvole, correte.» Raccogliete la tempesta, moltiplicatela, gonfiatela e poi scagliatela a terra, buttatela giù senza guardare, spazzate via il bene, spazzate via il male. No, bambina, no. Non può essere la tua voce. Non può essere il tuo cuore. «Taci» la zittì Agata. Preferisco ascoltare il cucchiaio di legno che gira appresso alle cotogne. Preferisco lo sfrigolio della cipolla e la docilità del latte che si mischia alla farina. Zitta tu, zitta. Agata vedeva la propria immagine riflessa nella finestra della cucina. Si accorse di avere il viso e il petto chiazzati di rosso. Si schiaffeggiò per confondere la somiglianza con la vergogna: era uguale alla figlia o era la figlia a essere uguale a lei? Si rivide bambina, con i piedi scalzi e le gonne nere di zia Teresa addosso, mentre correva su e giù per i sentieri nella speranza di incontrare un pezzo d’isola ancora sconosciuta. Che illusione. Che inganno. Si coprì il petto con uno scialle chiaro. Riempì in fretta due fusti di salsa e lasciò Isola sull’uscio della locanda. Voleva dimenticare, fingere che la figlia non le appartenesse, che fosse qualche cosa di lontano da sé.
Andò sotto il tendone per contribuire al sogno di Dumitru. Quella sera la meravigliosa salsa avrebbe rallegrato la cena degli isolani accorsi a festeggiare lo zingaro. Era il tempo della gioia. Del sorriso. Dopo lo spettacolo, Dumitru le chiese di rientrare: «Isola ci aspetta». «No,» rispose Agata «Isola è incapace di aspettare.» Scesero al molo e videro i due sant’Elmo litigare. Avrebbero scommesso sulla vittoria del più tradizionale, se il maestrale non si fosse alzato all’improvviso: «Presto» disse Dumitru. «Il peggior nemico del circo è il vento.» Corsero al tendone. Misero in sicurezza i picchetti laterali e si preoccuparono di appesantire i tiranti. Chiusero i cavalli e le oche dentro le stalle. Quando tornarono alla locanda, trovarono il Greco sul pavimento, in mezzo al sangue e alla ţuică. Isola sedeva accanto al morto con le dita sporche di sangue e il sorriso beato del niente. «Che hai fatto, bambina?» chiese Agata. Che cosa hai fatto. Dumitru le mise una mano sulla bocca. La tirò a sé. Quella mano sapeva di loro due. Di loro due soltanto. Si erano conosciuti al Monte, in un unico giorno dentro una vita fatta di giorni. Lei cucinava, lo zingaro cavalcava. Non potevano mentire. Erano quello che facevano. Quando Agata aveva confessato a Dumitru il suo segreto, lui aveva acceso la radio. «Balliamo» le aveva detto. Che gli isolani li guardassero pure da dietro le tende delle loro case, che sparlassero della loro felicità. Che importava? Erano legati da un filo dorato. Con la morte del Greco, quel filo si era spezzato. Agata lo aveva sentito correre tra i denti di Isola. Aveva udito il rumore secco dello strappo e avvertito il peso, più dolce, del distacco. Aveva ragione zia Teresa quando diceva che l’amore è un sentimento perfido. Dumitru coprì il cadavere del Greco con una tovaglia: «Andate a casa». Agata finse di non sentire. «Mi stai ascoltando? Tu e Isola, adesso, salite a casa.» Agata non voleva restare sola con la figlia, non voleva starle accanto. «E tu dove vai?» «A chiamare le guardie.» «Non mi lasciare, Dumitru. Isola è un cuore vuoto. Non restituirà mai la tenerezza che le hai dato.» «Le cose devono fare il loro corso.»
Lo zingaro se ne andò e Agata lo attese sull’uscio. Dentro la locanda c’era un odore di grappa che nauseava, tanto ricordava l’allegria. Dumitru tornò insieme a due agenti. Indicò il corpo steso a terra e si sedette in un angolo, in attesa che gli uomini sigillassero l’entrata. Gli agenti fecero gli accertamenti. Scattarono foto, misurarono le distanze. Infilarono il corpo del Greco dentro un sacco. «Sono stato io» mentì lo zingaro. «Gli ho spaccato una bottiglia di ţuică sulla testa.» «Non credetegli» urlò Agata. «È un bugiardo.» «Addio» le disse lo zingaro allontanandosi da lei. «Devo andare. Ci rincontreremo ogni domenica sera, sul terrazzo di fronte al mare.» Agata lo vide partire in mezzo agli agenti. Si domandò che ne sarebbe stato di lui, della figlia, del Rosso e del tendone che spuntava oltre il tetto della locanda. Cosa ne sarebbe stato della propria misera esistenza. Il giorno successivo Dumitru fu imbarcato per il continente. Viaggiava su una nave che si chiamava Libra, insieme al cadavere del Greco e agli artisti del circo Vallone: «Che disgrazia» si lamentavano i circensi. Sterlina era scomparsa tra le onde del mare. Si sbagliavano, Dumitru avrebbe voluto dirglielo. Sterlina non era caduta in mare. Lui stesso l’aveva vista sugli spalti, durante l’inaugurazione del circo stabile. La donna guardava la divisa del vecchio Ermete e pensava che lo zingaro l’avesse rubata. «Invece era un regalo. La vita mi ha fatto molti doni. Me li aspettavo.» Phurì dei gli aveva predetto un futuro di successo e delusioni. Lo disse anche al Direttore, quando lo rivide in Lucania. Fu proprio il Bianco ad accoglierlo all’ingresso del penitenziario. Indossava i pantaloni a sigaretta e le scarpe a punta dei suoi giorni al Monte: «Dumitru, amico mio. Il destino ci ha fatto rincontrare». «Non voglio favori» disse lo zingaro. «Non era mia intenzione offrirtene. Sai come la penso. I miei uomini devono lavorare.» Il Direttore gli affidò un appezzamento dietro il braccio centrale. La Lucania è arsa, difficile da coltivare. Lo zingaro zappò la terra bruciata dal sole. Camminò lungo i solchi scavati dal suo lavoro. Seminò e attese il tempo del raccolto. Il grano spunta in silenzio. Si affaccia alla superficie della terra e cresce perché quella è la natura. Segue il suo corso. Con il primo raccolto Dumitru fece un pane giallo, dalla crosta spessa: «Deve essere
buonissimo con la meravigliosa salsa» disse il Bianco accarezzandone la forma tonda. «Come sta Agata?» domandò. «È una donna coraggiosa.» «Per lei non sarà facile.» «Lo so, ma deve continuare. Voglio un buon motivo per tornare. Agata ripartirà da dove mi sono fermato e trasformerà l’isola in un posto pieno di allegria. Il Rosso cavalcherà ogni giorno fino al porto per ricordarle che io ci sono e la sto guardando.» Dumitru lo sapeva bene. Per vivere, c’è bisogno di un sogno.
29
Dopo l’omicidio del Greco e la scomparsa di Sterlina Vallone, la vita dell’isola si era fatta più lenta. Certo: il sole spuntava e la notte arrivava eppure, a parte l’ordinario scorrere del tempo, le ore erano lunghe come settimane. Il battesimo dell’isola era stato un fallimento. I turisti si erano spostati su coste meno capricciose perché non volevano avere a che fare con la sventura e, soprattutto, con gli isolani. I giornali dicevano che erano stati loro a invocare la natura e a rivoltarla contro il Greco. Se rimpiangevano gli anni bui del Monte, che tornassero pure sufficienti a se stessi. I cantieri furono chiusi. Gli alberghi e i negozi si svuotarono. I manovali si imbarcarono per il continente e i traghetti dimezzarono le corse. Sotto l’insegna VENDITA MERAVIGLIOSA SALSA,
Agata aggiunse la scritta
CHIUSO PER SEMPRE.
Dopo la morte del Greco, persino l’Annunciata cambiò le sue abitudini. Al pane e pomodoro, preferì la pasta al burro. Divenne vorace di stomaco e rotonda nelle forme, quasi che la disgrazia, a lei, facesse l’effetto benevolo dell’appetito. Soprattutto, smise di ricamare. Sedeva sull’uscio della locanda e, invece di chinare il capo sul lavoro, teneva lo sguardo fisso davanti a sé. Le pie donne proseguivano le processioni del giovedì, ma si sentivano demotivate. L’Annunciata guardava l’orizzonte e rideva, rideva come una bambina davanti al numero dei pagliacci. Che cosa aspettava? La sua prossima ascesa al cielo? Il ritorno dello zingaro? Le guardie lo avevano sbattuto in carcere e gli avevano dato trent’anni. Le comari si lamentavano: «L’Annunciata ride di noi». Non mostrava rispetto neppure per la madre. Agata aveva perso la voglia di cucinare e le pie donne non avevano più la consolazione del meraviglioso condimento. Senza la salsa, le riunioni nella cucina del Pregiato Portoghese si erano ingrigite. Alla compagnia delle comari, Teresa preferiva le risate di Isola. Si sedeva accanto alla
nipote e guardava l’orizzonte, nel tentativo di leggervi un presagio. «Perché ridi?» le domandava. La nipote batteva la mano destra sul ginocchio e rideva, rideva fino a scoppiare. Una domenica sera, Isola smise di ridere. Rimase con la bocca aperta e la mano destra sospesa: «Che ti prende?» domandò la zia. Isola allungò l’indice e indicò la casa sopra la locanda. Da quando lo zingaro se nera andato, Agata continuava a danzare sul terrazzo davanti al mare. Teresa girò attorno alla taverna. Spinse il portoncino laterale e salì le scale che portavano al primo piano. Trovò la nipote da sola, con un velo di rossetto sulle labbra e i capelli confusi dal disordine. I piedi erano nudi, le dita tozze e incredibilmente giovani. Dal porto arrivava un odore di pesce andato a male. Accanto alla radio c’erano le scarpe di vernice, antico marchio del peccato. «Spegni la musica» disse Teresa. Alzò la voce per farsi ascoltare: «Ti ho detto di spegnere la musica». Teresa andò dritta alla radio e la zittì. Agata si voltò. Vide la zia, si rese conto della sua presenza: «Che c'è?». «Bambina.» «Non sono più una bambina. Sono passati molti anni da quando ero soltanto una bambina. Te lo ricordi? Preparavo la frittata di cipolle e correvo fino alla fucina. Tutti i giorni alla stessa ora. Pane vino rosso e frittata di cipolle. Pane vino rosso e frittata di cipolle. Alle undici in punto, e senza sgarrare. Il Fabbro la voleva alta, profumata e calda. Da quando gli ho disubbidito non ne ha più mangiata. Ho continuato a lasciarla sulla porta della fucina. Se ne nutrono i randagi, e lui li lascia fare.» «Si vergogna di te.» «Delle mie scelte?» «Della tua determinazione. Tuo padre è un uomo debole.» «Ieri mattina ho bussato alla fucina. Ho chiesto permesso. Il Fabbro ha finto di non vedermi e ha continuato a lavorare. Possibile, mi sono detta, che chi mi è caro pretenda da me lo sforzo del silenzio?» «Agata, ti devi riposare.» «Ieri ho cucinato una frittata speciale. Ho sbattuto sei uova insieme al latte. Ho aggiunto il sale, il timo e il prezzemolo tagliato fine. Ho messo nell’olio bollente e, quando la frittata si è indorata, l’ho cosparsa di salsa. L’ho piegata in due, così, e l’ho portata alla fucina. Era una frittata ripiena d’Agata. Permesso, ho domandato. Il mio aroma ha spazzato via l’odore acre del ferro e quello acido del sudore. Il fuoco si è
spento, il fumo sulle pareti è diventato bianco. Il sole si è infilato sotto il battiporta e ho visto mio padre, zia Teresa. L’ho rivisto dopo troppi anni. I capelli erano radi, il corpo asciutto. Il labbro gli tremava: che ci fai qui, ha domandato. Sono venuta a portarti da mangiare. Ho appoggiato la frittata sul banco da lavoro, era avvolta in un panno tiepido. Quando mi sono voltata, ho cercato gli occhi del Fabbro. Non li ho trovati. Ho visto soltanto una lacrima sottile che correva in mezzo alle sue rughe. Papà, gli ho detto, non farlo. Le lacrime sono fastidi da deboli e da mendicanti. Lui si è nascosto il volto tra le mani. Vattene, mi ha implorata. Mi è dispiaciuto. Non avrei dovuto parlare.» «Il Fabbro ti ha perdonata?» «Sono io ad averlo perdonato. L’ho perdonato per avermi nascosto il vestito azzurro di mia madre. Ciò che so, nella vita, l’ho imparato nonostante lui.» «Non essere severa.» «Vieni con me.» Agata entrò in casa, accese la luce della cucina e indicò un baule sul quale era poggiato un piatto con gli avanzi di una cena: «Aprilo» disse alla zia. «Che cos’è?» Teresa sgombrò il baule e sollevò il coperchio. «Che il cielo mi porti» esclamò la donna. «Sono i miei risparmi. Li ho guadagnati io, con la meravigliosa salsa.» «Nipote, sei milionaria.» «Ho un favore da chiederti. Siediti.» Teresa si accomodò: «Ti darò questi soldi». «Per fare che?» «Voglio che tu e le comari ricompriate tutto quello che il Greco ha rubato agli isolani: le vecchie case, i terreni sulla costa, i negozi e soprattutto il Monte. Non dovete dimenticare nulla.» «Per ricomprare tutto quello che il Greco ha rubato, non basteranno dieci di queste casse.» «Ne ho altre quindici, nel magazzino della locanda. Saranno sufficienti.» «Perché vuoi farlo?» «La bellezza non si compra, diceva il Bianco, ma ciò che ci circonda è stato messo in vendita. Io lo voglio, per preservarlo. Per fare in modo che si conservi. Trasferirò al Monte lo chapiteau dello zingaro. Me lo ha chiesto lui. In questi mesi ho ballato con Dumitru sul terrazzo davanti al mare.» «Lo zingaro è in carcere, in Lucania. Ci resterà per i prossimi trent’anni.» «Ti sbagli, zia. È stato lui a chiedermi di continuare. Continua il mio sogno da dove si
è interrotto, mi ha detto. Il Rosso ti darà una mano. Voi mi darete una mano.» «Nipote, hai perso il senno.» «Ascoltami bene. Voi comari siete tante, avete cervello e buone mani. Aiutatemi. Vi ricompenserò, farò in modo che possiate riavere quello che vi è stato rubato.» «Non stai bene, figlia mia.» «Se non credi a me, credi almeno all’Annunciata. È stata lei a scatenare la tempesta, la notte del battesimo profano. L’ha fatto per dirci che è arrivato il tempo di riappropriarci della nostra isola.» «L’Annunciata.» «Perché mai riderebbe tanto, se non ci fosse nulla di buono verso il quale andare?» Teresa si guardò le mani. Erano grandi e capaci di lavorare. «Credimi. Non sempre l’amore è un sentimento perfido. Esci da qui, vai a chiamare le altre. Abbiamo molto da fare.» La zia si aggiustò la gonna, indecisa tra il rimanere e l’andare. «Un’ultima cosa» aggiunse Agata. «Sull’isola vive una straniera, ha più o meno la mia età. Ha le spalle forti e porta i capelli legati in una coda di cavallo. La notte della tempesta era sotto il tendone dello zingaro. Dorme nel bivacco del vecchio sterrato. Cercala e dille che sarà lei a occuparsi del circo stabile Dumitru Serban.» «Chi è?» «È nata in una famiglia di circensi. Sarà lei a realizzare l’idea dello zingaro. Trasformerà l’isola nella migliore scuola che sia mai esistita.» «Una scuola?» «Sì, una scuola di circo. Centinaia di giovani verranno sull’isola per imparare. Studieranno, si alleneranno e poi andranno in giro per il mondo a far sorridere la gente. Ne sono certa, zia. Andrà bene. Per vivere, me lo ha spiegato Dumitru, c’è bisogno di un sogno.»
30
Per la riunione convocata in tutta fretta nella cucina del Pregiato Portoghese, Teresa indossava un vestito color dell’uva con una leggera scollatura e una frivolezza in vita che le disegnava i fianchi. Un po’ troppo audace per i suoi anni, commentavano le pie donne con gli sguardi. «Vi ho riunite qui per darvi una grande notizia» disse Teresa. «L’Annunciata ha parlato.» «Ha parlato?» «Poche parole ma di buon senso.» «Cosa ha detto?» «Ha detto che ci dobbiamo organizzare. Proprio così. È stata lei a scatenare la tempesta per spazzare via il Greco dall’isola. Adesso tocca a noi, dobbiamo preservare la nostra terra dall’arrivo di un altro Greco. Ci riprenderemo quello che ci è stato rubato e impediremo a quelli del continente di decidere per noi.» Di certo Teresa, con quel vestito color dell’uva, aveva buttato giù qualche bicchiere di novello. «L’hai sentita tu, con le tue orecchie?» «Me lo ha riferito Agata. È sua madre, di lei ci si può fidare.» E poi quello dell’Annunciata era semplice buon senso. Da quando il Greco aveva messo piede sull’isola, il mondo si era capovolto. Gli stranieri erano diventati i padroni, gli isolani erano stati sfruttati. Le coste erano state violate e le stagioni si erano accorciate. La bambina aveva smesso di ricamare per cominciare a ridere, e la sua risata era il segno che dava il via alla rivolta. Era un anticipo dell’allegria che, da lì a poco, si sarebbe rovesciata sull’isola. Era il momento di agire. Bisognava rimpossessarsi di ciò che era stato rubato. «L’idea è buona» intervenne donna Brigida. «Le motivazioni alte. Però noi cosa possiamo fare?»
«Nella vita abbiamo sopportato uomini sfaticati, campato decine di marmocchi, contato centinaia di uova, organizzato feste e processioni» disse Teresa. «Saremo in grado di amministrare.» «Quali soldi? Il Greco ci ha costrette alla miseria.» «È vero. Noi non abbiamo soldi, ma Agata sì.» «Agata?» Il destino le aveva tolto e le aveva dato. Le aveva tolto Dumitru che, benché zingaro, benché concubino, in fondo era un cristiano come un altro e aveva dimostrato un attaccamento alla famiglia e all’isola più forte del sangue, più profondo di una radice. Il destino le aveva dato una figlia mezza santa, il dono della salsa e la fortuna di guadagnare. Era stata a casa della nipote e aveva visto con i suoi occhi un baule pieno di denaro: «Ce ne sono altri nel magazzino della locanda e sono a nostra disposizione». L’idea era semplice: avrebbero usato il capitale di Agata per ricomprare i beni del Greco. Allo stesso tempo avrebbero concesso piccoli prestiti alle isolane. Le donne avrebbero usato quei soldi con buon senso perché non si perdevano all’osteria e, soprattutto, «perché di esse è il Regno dei cieli». Gli interessi sarebbero stati giusti, niente affari da strozzini: «Presteremo cento e chiederemo cento e tre. Il denaro è come il sangue» disse Teresa impressionando l’uditorio con un taglio dimostrativo del dito indice: «Deve circolare». Le pie donne si coprirono il volto, per non guardare. «Potrebbe anche funzionare» disse donna Brigida. «Ma una volta recuperata l’isola, come camperemo? Il carcere è chiuso, ci sono rimasti soltanto alberghi vuoti e spiagge per turisti.» «Agata ha pensato a tutto» spiegò Teresa. Avrebbero ritirato il Monte e trasferito lo chapiteau dello zingaro dietro l’antica foresteria. Il circo stabile Dumitru Serban sarebbe diventato una scuola di circo, la migliore d’Europa: «Farà la fortuna dell’isola, quella vera». Ci sarebbero state centinaia di giovani artisti da accompagnare, nutrire e sistemare: «E noi ci riapproprieremo della nostra terra». Altro che i costumi rusticani! «Una scuola di circo?» «Che follia.» «Che ne sappiamo noi del circo?» Agata aveva pensato anche a quello. C’era una famosa circense nascosta nel bivacco del vecchio sterrato. Era lì dal giorno della tempesta e aspettava soltanto loro, per
iniziare a lavorare. Aveva vent’anni di circo sulle spalle. Come si chiamava? Non aveva nome: «La chiameremo Sterlina Vallone, come la diva scomparsa tra le onde durante la notte di sant’Elmo». Quel battesimo improvvisato sembrò un segno di buona fortuna. «Credetemi, il nostro lavoro sarà utile a tutti. Se faremo quanto ci ha chiesto, Agata tornerà a cucinare la sua meravigliosa salsa.» «La meravigliosa salsa?» «Sì, me l’ha giurato sulla testa in gesso di sant’Elmo.» Le donne buttarono gli occhi al cielo, sospirarono di contentezza, si strinsero in abbracci di buon appetito. «Io ci sto!» disse donna Brigida. «Ho fatto due anni di commerciali. Da signorina tenevo i conti della macelleria in via del Grillo e oggi tiro la baracca di mio marito e quella, stimabilissima, del Pregiato Portoghese. Sarò la contabile.» «Io cucirò le divise da lavoro» disse Celestina. «Merletti, pizzi e colli macramè, saremo elegantissime.» «Io penserò alla pubblicità.» «Io avevo un negozio di verdura. Mi occuperò delle aree verdi.» «A me piacerebbe lavorare nel settore edilizio. Sfratto, ricollocazione e recupero ambientale.» Anche io. Io pure. Io voglio. Io posso fare. Donna Brigida stappò due bottiglie di spumante e dalla cucina del Pregiato Portoghese si alzarono canti e bicchierate.
31
Chi imparò l’arte circense sull’isola senza nome, portò in giro per il mondo l’idea che il circo fosse un modo di vivere con gusto. Non era soltanto un’illusione: era il piacere e, insieme, la convinzione necessaria a motivare il sacrificio. Gli allievi della scuola si svegliavano all’alba e la mattina si allenavano nel cortile del Monte. A pranzo si riunivano nella vecchia foresteria e si mettevano in fila dietro i vassoi che le pie donne riempivano di appetitose pietanze. La salsa Agata non era mai la stessa: prendeva il gusto del cibo che accompagnava. I ragazzi mangiavano in silenzio, per non disturbare. Volevano sentire il cibo che portavano alla bocca, lo volevano ascoltare. Nel pomeriggio lavoravano alle diverse specialità. Alcuni sceglievano l’Alta Scuola, altri preferivano le clownerie. Qualcuno sceglieva il trapezio, per il piacere assurdo di volare. La Direttrice spingeva i giovani artisti a misurarsi con gli errori: «Il circo» spiegava Sterlina «è uno spazio sospeso tra la perfezione e lo sbaglio». La famiglia Vallone denunciò Sterlina per plagio e uso indebito di nome e cognome, ma lei non si presentò nemmeno in Tribunale. Pagò l’ammenda e sull’isola tutti continuarono a chiamarla come la diva scomparsa tra le onde del mare. In quegli stessi anni la PPPP, Pregiato Portoghese Prestiti e Progetti, assorbì la Angelo Greco Costruzioni, finita all’asta dopo la morte dell’imprenditore. Il consiglio di amministrazione, con sede nella cucina dell’omonima pensione, fece smantellare i cantieri inattivi e ordinò la demolizione delle costruzioni a ridosso della costa. Gli isolani rientrarono nelle vecchie case del borgo principale. Le spiagge furono riaperte ai locali e comitati spontanei presidiarono il porto per impedire ai turisti di sbarcare: PER SEMPRE ESAURITO
dicevano i cartelli che si affacciavano sul mare.
Il capitale di Agata fu investito in immobili e in piccoli prestiti a disposizione delle donne che avevano un’idea per ricominciare. Il consiglio d’amministrazione, in divisa color dell’uva e colletto macramè, valutava le proposte ogni primo lunedì del mese: «Perché
solo le donne?» si lamentavano gli uomini. «Perché hanno campato il mondo per migliaia di anni» rispondevano le novelle imprenditrici. «Saranno pur capaci di salvare un’isola grande come un pugno, no?» Il borgo ricominciò a vivere di attività utili al Monte. Gli isolani riaprirono le botteghe e ripresero i vecchi mestieri. La domenica andavano al porto a salutare i giovani circensi che arrivavano sull’isola senza nome. Li accoglievano con vinsanto e biscotti di carrube. Il Pregiato Portoghese inaugurò una succursale con caffetteria, dove abbondavano le tartine in salsa che avevano fatto la fortuna di Brigida. DA AGATA. CUCINA CASALINGA E VENDITA MERAVIGLIOSA SALSA tornò a rallegrare e il CHIUSO PER SEMPRE sparì sotto due strati di vernice nera. Il sabato la scuola di circo apriva lo chapiteau agli isolani, che si accomodavano al Monte per assistere allo spettacolo settimanale. Dalla Lucania, il Direttore spediva forme di pane giallo che si accompagnavano alla salsa come il bacio di un innamorato: Dal Bianco diceva il biglietto, e da Dumitru. Le pie donne inzuppavano la mollica nel condimento e benedicevano la provvidenza che, in un modo o nell’altro, vegliava sul destino dello zingaro. Sterlina passava la brusca sul collo e sulle spalle del Rosso: «Stai invecchiando, amico mio, ma camperai abbastanza per vederlo ritornare». L’andaluso abbassava il muso e annuiva, soffiando un vento caldo dalle narici. Ogni giorno il Rosso cavalcava fino al porto per ricordare ad Agata che Dumitru sarebbe ritornato: «Lo zingaro arriverà con il mercantile del martedì mattina». Non pagherà il biglietto. Semplicemente, si lascerà portare.
32
È stato un colpo al cuore, ha detto il dottore. Una malattia o forse una malformazione. In realtà, la sua anima è salita in cielo, contenta, nel momento esatto in cui ha deciso di volare. Isola indossava il vestito azzurro, quello con le bordature fatte a mano e il collo tondo. L’aveva preso dal mio armadio senza chiedere il permesso. Se me lo avesse domandato, le avrei detto sì o le avrei strappato il vestito dalle mani? Non lo so, ancora adesso non so rispondere. Ero gelosa di quel pezzo di stoffa. Dentro c’ero io e l’idea di qualcuno che chiamavo madre. Non ero abituata a mia figlia, al suo dovere strano di sopravvivere al mio corpo. A me. La natura detta gli ordini e, quando non li esegue, ci lascia con il dubbio della colpa. Il giorno della morte di Isola soffiava un vento caldo. Era scirocco. Che strano, disse il dottore, la carnagione di Isola non ha sofferto. L’espressione era tranquilla, i pomelli rossi e sani. Vennero a chiamarmi alla locanda: «Agata, corri» gridarono. «L’Annunciata!» Quando la strinsi al petto, non respirava. Non riconoscevo l’odore della sua pelle, la forma generosa dei fianchi. Per forza: non l’avevo mai abbracciata, mentre tu... Mentre tu. Quando ti sedevi accanto a Isola sull’uscio della locanda, ti detestavo. Detestavo il silenzio, la complicità dei vostri atti. Disprezzavo la sopportazione, la logica e persino l’affetto. Voi stavate lì, senza dire una parola, e non mi facevate entrare. Mi tenevate lontana, vi prendevate gioco di me e della mia inettitudine. Solo ora mi accorgo di quanto fosse stupida la mia gelosia, il mio modo infantile di chiedere attenzione. Le donne pensavano che fosse stata Isola a dare il via alla rivoluzione. «L’Annunciata ha parlato» avevo detto per convincerle. Mia figlia comandava al cielo e le comari si fidavano di lei. Per questo non dubitarono delle intenzioni di Isola. La sua morte, per loro, era un atto di volontà. Il giorno della sua scomparsa si inginocchiarono davanti alla locanda. Il mormorio delle loro preghiere mi accompagnò fino al primo piano. Fui io a adagiare sul letto il corpo senza vita. Slacciai la cintura e sfilai il vestito azzurro per lavare Isola con una spugna imbevuta di acqua e sale: «Ti pulirà dai mali del mondo,» sussurrai «dalle mancanze e dalle azioni insufficienti». Fu
allora che le vidi, Dumitru. Vidi due lettere. Due iniziali sorelle e dorate. Isola se le era ricamate sulla sottoveste, la stessa che portava la mattina in cui tornò dalla merceria con la scatola da cucito tra le mani. Ti ricordi, Dumitru? Isola correva come una bambina. Era una bambina. Non me ne ero mai accorta. Guardai le iniziali. IG. Molti anni prima, avevo letto le stesse iniziali sul breviario di mia madre. Il loro ricordo apparteneva a un tempo che avevo scelto di dimenticare. Sentii una fitta nello stomaco e tutto ciò che mi stava intorno si oscurò. Rischiò di evaporare. IG. Quelle due iniziali furono il primo ricamo di Isola e l’ultimo - il più raffinato - cucito con un filo d’oro. Perdonami, dissi a mia figlia. Non sono stata capace. Non ho saputo comprendere. La vegliai per due giorni e due notti. Le rimasi accanto senza bere né mangiare, senza rispondere alle domande di zia Teresa che chiedeva cosa sarebbe stato del suo corpo. Di noi. Il terzo giorno aprii gli scuri e feci entrare il sole. Era arrivato il tempo. Isola non era stata battezzata e don Carmelo di certo non l’avrebbe accolta tra le anime degne di redenzione eterna. La presi in collo, nuovamente. Scesi le scale reggendomi al muro, per paura di lasciarmi andare. Attraversai la locanda, uscii dalla porta principale e mi incamminai verso la chiesa patronale. Le pie donne pregavano in ginocchio nel cortile. Zia Teresa fu la prima ad alzarsi, le altre la seguirono. Al nostro passaggio, gli isolani ci guardarono attraverso gli usci socchiusi. Venite con noi, invitarono le comari. Lo scirocco crebbe. Gli isolani spalancarono le porte e scesero in strada, assecondando il vento. Si unirono al corteo e alle preghiere. Giunta davanti alla chiesa patronale, mi fermai. Sollevai la bambina al cielo e chiesi allo scirocco di restare. Gonfia la sottoveste di Isola, domandai. Fallo per me, per le giornate trascorse e per quelle che verranno. Lo scirocco soffiò da sud-est con il vigore della festa, entrò dentro le mie orecchie e la mia bocca, dentro le narici e la sottoveste di lino. Così piena di vento, mia figlia era una regina. IG. Tutti potevano vedere le iniziali brillare al sole. Ripresi a camminare. Dove vai, chiese zia Teresa. A casa, risposi. La vita è rotonda, non lo sai? Presi il vecchio sentiero che portava al Monte e salii fino al cotogno che, anni prima, aveva dato in prestito le mele per la meravigliosa salsa. Aveva il tronco sottile e i rami zeppi di frutti acerbi. Mi inginocchiai con la bambina in grembo e cominciai a scavare. Scavai a mani piene, sotto gli occhi degli isolani che benedicevano il luogo che avrebbe accolto Isola, preservandola dalla vergogna di una sepoltura mancata. Fu lì che successe, fu in quell’istante. Quando la prima manciata di terra cadde sul volto di mia figlia, scoprii che le lacrime hanno il gusto del mare. Piansi per Isola, per me, per le lacrime che non avevo mai dato. Piansi per la madre che non avevo avuto e per le carezze perdute. Piansi per te, zingaro, per la memoria del tuo corpo e la grazia del tuo spirito. Ora che mia figlia riposa sotto il cotogno, te lo posso
raccontare. Avevo sedici anni quando salii al Monte. Ti vidi cavalcare il Rosso, ammirai il tuo presente e decisi che, sì, anche io avrei avuto un’esistenza piena di bellezza. La bellezza non si compra, diceva il Bianco. Si crea. Avrei creato la mia salsa e portato l’allegria. La mattina seguente, salutai il mercantile dalla finestra della locanda: «Addio» dissi agitando la mano. Da lì a poco, sarei andata a vendere i quattro metri di raso bianco e avrei cominciato la mia nuova vita. Capitò in quel momento. Durò pochi minuti. Durò una vita intera. Uno straniero entrò in cucina: «Sono qui per la tua salsa» annunciò. Le voci dei clienti arrivavano dalla sala: «Allora, è pronto oppure no?» gridavano. «Si racconta che la tua salsa abbia un segreto» disse l’uomo. «E che sta qui, sotto le tue gonne.» Lo allontanai: «Via!». Lui insistette: «Fammi vedere, ragazzina». Impugnai il mestolo, ancora tiepido di salsa. «Fa’ la brava, mettilo giù.» «Vattene. Vattene via» gridai, ma nessuno venne in mio aiuto. Via, via, via! «Su, non fare l’isolana.» Le mani dell’uomo si arrampicarono tra le mie carni. Le sentii crescere, le sentii ansimare, le sentii godere del mio corpo con la distrazione degli egoisti. Un dolore acuto mi scosse il ventre. L’uomo gemette e si scostò. Sistemò la cerniera dei pantaloni e mi schiacciò l’indice sul naso: «Zitta» ordinò. «Non parlare.» Non parlai. Non piansi. Asciugai il sangue che scorreva tra le gambe e mi rassegnai alla creatura che, nove mesi dopo, sarebbe nata da quell’affronto. IG, Isola Greco. Ho fatto la fatica di amarla. Ho fallito. Adesso conosci il segreto che abita in mezzo alle mie gonne. Non l’avevo mai rivelato a nessuno e un giorno lo porterò via con me, insieme alla meravigliosa salsa. Dumitru? Dumitru! Mi stai ascoltando? Dumitru! Ti sei addormentato. Spengo la radio, per non disturbare. L’accenderò tra trent’anni per festeggiare il tuo ritorno. Intanto ti aspetterò danzando, sul terrazzo di fronte al mare. Qui su quest’isola. L’Annunciata.
Ricetta della salsa Agata
La salsa Agata è una ricetta tipica del Mediterraneo, utilizzata per insaporire tutti i tipi di piatti, dalle carni al pesce, fino ai tradizionali biscotti di carrube. Conosciuta come la salsa che mette l’allegria, prende il nome dalla proprietaria della famosa locanda Da Agata. Ingredienti per quattro persone: 1 mela cotogna polpa pulita circa 250 gr 1 scalogno pulito 25 gr 120 gr yogurt magro 50 gr di ricotta salata aromatizzata con scorze di arancio e limone di costiera Olio extravergine di oliva 15 gr 1 noce di burro 20 gr Vino bianco 1 dl 1 cucchiaino scarso di miele di castagno Timo limone q.b. Sale marino e peperoncino q.b. Succo di limone q.b. Latte q.b. per dare la giusta densità Preparazione: Far rosolare una piccola quantità di scalogno nella noce di burro e in due cucchiai di olio di oliva extravergine. Quando lo scalogno inizia ad appassire, spruzzare con del vino bianco, far evaporare l’alcol e unire la mela tagliata a dadini. La mela deve cuocere fino ad ammorbidirsi. Aggiungere, fuori dal fuoco, lo yogurt, la ricotta salata, il latte, il peperoncino e il sale. A questo punto passare la salsa con un passaverdure e un setaccio fine in modo da avere una crema liscia. Mixare con una frusta regolando di sapore con il miele, il succo di limone e il sale. Insaporire con il timo limone. Servire tiepida o a temperatura ambiente su tutti i tipi di piatti.
Nota: La salsa Agata qui descritta potrebbe non corrispondere all’originale a causa di un ingrediente mai identificato. Si consiglia di provare con un dente di aspide, da sminuzzare accuratamente con un pestello. Prima di utilizzare il dente, immergerlo per una notte nell’acqua di lavanda mischiata ad argilla. La salsa Agata crea dipendenza e buon umore. Usare senza cautela, soprattutto in compagnia.
Ringraziamenti
Scrivere i ringraziamenti è ricordare con piacere le persone che hanno contribuito al romanzo. Grazie a Silvia Meucci, la mia agente, per l’entusiasmo con il quale ha tenuto per mano Agata durante questo straordinario viaggio. Ringrazio Francesca Lang, editor Piemme, e tutta la casa editrice per la passione, la fiducia e la competenza. I miei genitori e la famiglia al gran completo, per il sostegno negli anni. Le persone a me care che hanno letto le prime stesure e dato consigli, in particolare Carmela, Mariel, Anna e Paolo N. Le amiche e gli amici che hanno spadellato attorno alla salsa Agata, aggiungendo togliendo e dosando. Lo Chef Gian Domenico Melandri, per il sapiente tocco mediterraneo all’ultima versione. Le sorelle Mibelli. I ragazzi, i volontari e gli operatori di ASAI che sono casa. Umanità. Grazie a Nicola che mi ha portata sull’isola senza nome, ha ideato la prima versione della salsa e mi ha accompagnata su e giù per l’Italia alla scoperta di circhi e circensi. Ci siamo divertiti. Infine grazie a te, cara lettrice/caro lettore. Alla tua voglia di immaginare mondi possibili.