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Padre Ambrosoli Il Medico Missionario ora proclamato Beato

La storia dell’erede dell’omonima dinastia del miele che nel 1956 andò come missionario comboniano a Kalongo in Uganda, dove aprì un ospedale all’avanguardia che oggi cura mezzo milione di persone in una delle zone più povere e martoriate dell’Africa. Il racconto della nipote Giovanna che guida la Fondazione: «Fu un uomo del fare animato dal Vangelo»

Quando Giuseppe Ambrosoli andò dal padre Giovanni Battista per dirgli che non avrebbe lavorato nell’azienda di famiglia, quella del miele e delle caramelle, ma sarebbe diventato medico e missionario, il padre, un tipo liberale ma poco devoto, gli disse: «Fai quello che ti senti però, se diventi prete, tieniti lontano dal potere. Sporcati le mani, resta con i piedi per terra, sii persona semplice»

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È esattamente la vita di padre Giuseppe Ambrosoli, penultimo di otto figli, venuto al mondo nel 1923 insieme con l’azienda del miele, resa celebre dal ce- lebre motto “Che bontà!” che negli anni Sessanta spopolava in Tv con Carosello, che è stato proclamato beato domenica 20 novembre 2022 dal Nunzio apostolico in Uganda, monsignor Luigi Bianco, in rappresentanza di papa Francesco.

Anche se per gli ugandesi, padre Ambrosoli è santo da oltre mezzo secolo. Da quando, era il 1956, arrivò come medico a Kalongo, nel nord del Paese, ai piedi della Montagna del Vento, dove ancora oggi l’aspettativa di vita non arriva a 56 anni e malaria e malnutrizione sono tra le prime cause di morte. S’imbarca a Venezia, arriva a Mombasa, e da lì su un camion per milleduecento chilometri fino a Kalongo, nella diocesi di Gulu. Ci trova una capanna col tetto di paglia, gli dicono che è un dispensario per le donne incinte. Sotto la sua guida, lo trasforma in un vero e proprio ospedale formando medici e infermieri e dotandolo di vari reparti, dall’Ostetricia alla Chirurgia. Tre anni dopo fonda anche la Scuola per ostetriche e infermiere con la collaborazione delle missionarie comboniane. venne a casa nostra a Milano e mi chiese cosa stessi studiando. È come un flash: il sorriso mite dello zio che si affaccia sulla porta della camera».

Quando padre Giuseppe, sul camion che lo porta per la prima volta a Kalongo, all’autista che chiamandolo per cognome gli chiede il cambio alla guida risponde: «Lasci stare i titoli pomposi, chiamatemi Giuseppe e certo che so guidare un camion». «Bene, allora tocca a te».

«Appena arriva in Uganda si mette a di- la e trovare un rifugio per le ostetriche in un luogo protetto, ad Angal. Gli fu fatale. Quando arrivò l’elicottero per portarlo in ospedale a Gulu e farlo sottoporre alla dialisi era morto da cinque minuti».

Dopo due anni, ospedale e scuola, affidati alle cure del comboniano padre Eugenio Tocalli, vengono riaperti e sette anni dopo tornano a Kalongo, dove si trovano tuttora e dove, nel piccolo cimitero cittadino che si trova lì accanto, riposano le spoglie mortali di Ajwa- ricoveri, vengono assistiti ogni anno oltre cinquantamila persone con tremila interventi chirurgici, parti cesarei compresi, e quattromila parti naturali».

Giovanna va due volte l’anno in Uganda: «La prima volta nel gennaio 2010 per il cinquantesimo anniversario dell’ospedale, quando ho deciso di dedicarmi a tempo pieno alla Fondazione. L’ultima a luglio scorso dopo due anni di stop imposto dalla pandemia».

La malaria è la prima causa di ricovero, fia: dal bisnonno di padre Giuseppe, che nell’Ottocento era il bibliotecario all’Accademia di Brera, al padre Giovanni Battista, chimico di professione, che nel 1923 trasferisce la passione per i bachi da seta alle api e assocerà per sempre il suo cognome al loro miele. Oggi l’unico fratello rimasto di padre Ambrosoli è Alessandro, 90 anni, il papà di Giovanna, presidente e amministratore dell’azienda che dà lavoro a sessanta persone e il

Come mai la storia di padre Ambrosoli, “quello del miele”, è così poco conosciuta e anche sui media se ne parla pochissimo?

«Lo zio», risponde Giovanna, «non voleva raccontare ciò che faceva. Quando gli assegnarono il premio Carlo Erba come miglior medico, non venne in Italia a ritirarlo, pensando di non meritarlo. Anche i suoi fratelli, compreso mio padre, erano restii a raccontare la sua missione, nel timore che si offendesse».

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