Scoprire e capire il mondo
i dinosauri è ancora possibile? Sì. Ma oggi la tecnologia potrebbe cambiare il corso della storia e salvarci dall’estinzione.
38 DA DOVE VENGONO QUESTE MINE VAGANTI
Da quelli della Fascia principale ai transnettuniani, fino ai Centauri e ai Troiani. Ecco l’identikit dei diversi tipi di asteroidi del Sistema solare (e oltre).
Pagine animate
Animazioni, video, audio... Potete fruire di tanti contenuti aggiuntivi grazie ai QR Code, nelle pagine dove troverete l’icona Focus+. Basta inquadrare il QR Code con la fotocamera attiva (se si usa un iPhone o un iPad), oppure usando Google Lens o una qualsiasi app per la scansione di QR Code (se si ha uno smartphone o un tablet Android). Se invece siete al computer, andate alla pagina del nostro sito, all’indirizzo web segnalato.
56 scienza
FANTASIE SCIENTIFICHE DI OGNI TIPO
La formula “E se...” è un gioco in cui molti divulgatori scientifici si cimentano. Come l’americano Randall Munroe.
62
psicologia MINORE ETÀ, MAGGIORE ANSIA
Un malessere degli adulti adesso ha contagiato i giovani. Come districarsi tra cause e rimedi.
70 comportamento
A CHE COSA SERVE RIDERE
Raramente lo facciamo in risposta a una battuta: il più delle volte usiamo la risata per entrare in comunicazione con chi ci circonda. 78
corpo umano CI VUOLE FEGATO
Una sofisticata fabbrica chimica lavora in silenzio nel nostro corpo. È un organo forte e capace di guarire da sé... entro certi limiti. 84
scienza COGLI L’ETIMO
Un noto scienziato italiano ci spiega come vengono dati i nomi alle nuove specie.
86 natura NON CHIAMATECI FUNGHI
I nomi con cui sono noti, come muffe melmose, non riconoscono la bellezza dei mixomiceti. Che si rivelano organismi davvero straordinari.
92 tecnologia
LE SCATOLE CHE NON SI ROMPONO
Tecnicamente sono due e si chiamano “registratori di eventi”, e non sono nere, bensì arancioni. Come fanno a essere indistruttibili i congegni che “raccontano” gli incidenti aerei.
98 spazio RITORNO ALLA LUNA
La missione Artemis I ha avuto pieno successo. È il primo passo per rimettere piede sul nostro satellite.
100 animali ARCHITETTI SENZA LAUREA
Grattacieli, teatri, case sotterranee e dighe. I costruttori della natura creano opere straordinarie. 106
tecnologia
VINCENT VAN ROBOT
Ci siamo improvvisati artisti chiedendo all’AI di tradurre in immagini i nostri comandi “creativi”.
Lo scorso 19 novembre, un asteroide grande circa un metro è caduto in Canada, senza produrre danni, poche ore dopo essere stato individuato. È stato solo il sesto in assoluto che abbiamo visto prima che impattasse, anche se le collisioni di oggetti di queste dimensioni con la Terra in media avvengono ogni due settimane. Insomma, gli asteroidi sono là fuori, anche se spesso, almeno quelli più piccoli, non li notiamo. E sono tantissimi. Di fatto, è la famiglia di corpi del Sistema solare di gran lunga più numerosa: se i pianeti sono 8 e le lune (cioè i satelliti naturali dei pianeti) poco più di 200, gli asteroidi si contano a milioni. E quelli individuati sono soltanto una parte di quelli che si presume esistano.
ASTEROIDE O COMETA?
Ma per poter contrastare qualcosa di potenzialmente pericoloso (v. articolo a pag. 32) è necessa-
rio innanzitutto definire un identikit preciso del “nemico”. «Gli astronomi classificano come corpi minori, asteroidi o comete, tutti gli oggetti in orbita attorno al Sole di origine naturale, di forma non sferica, che siano gli unici nella loro regione di spazio», spiega Albino Carbognani, astronomo dell’INAFOsservatorio di Astrofisica e Scienza dello Spazio di Bologna, e autore del libro L’asteroide di Sodoma e Gomorra, che parla degli asteroidi near-Earth, cioè quelli che si avvicinano alla Terra. «La differenza fra un asteroide e una cometa non è così netta come si potrebbe pensare e si basa sull’aspetto al telescopio: tutti i corpi minori che non mostrano una chioma che li circondi sono considerati asteroidi, gli altri comete». Un asteroide possiamo immaginarlo come un corpo roccioso di forma irregolare e colore molto scuro, dimensioni di qualche decina di chilometri e con una superficie ricca di rocce, massi e crateri da impatto. Oggetti più piccoli di un metro non sono considerati asteroidi ma meteoroi-
DA DOVE VENGONO
di Gianluca RanziniDa quelli della Fascia principale ai transnettuniani, fino ai Centauri e ai Troiani. Ecco l’identikit dei diversi tipi di asteroidi del Sistema solare (e oltre).
di, con dimensioni sempre più piccole fino a quelle di un grano di polvere.
LA FASCIA PRINCIPALE
L’altro fattore critico è capire dove si trovi il nemico, e qualcosa sulla sua origine. La maggior parte degli asteroidi è localizzata in una regione del Sistema solare chiamata Fascia principale, tra le orbite di Marte e di Giove, dove si stima ne esistano tra 1 e 2 milioni di dimensioni superiori a 1 km. Quelli di cui si hanno sufficienti informazioni (per esempio per definirne l’orbita), e che quindi sono ufficialmente catalogati, sono oltre 1,25 milioni. A ciò si dedica il Minor Planet Center (www. minorplanetcenter.net), l’istituzione che attribuisce una sigla agli asteroidi appena scoperti. Ma da dove arrivano? «Tutti i corpi minori, quindi anche gli asteroidi, sono il residuo del processo di formazione dei pianeti avvenuto nella nebulosa protoplanetaria che circondava il nostro Sole cir-
ca 5 miliardi di anni fa», spiega Carbognani. «Nei primi milioni di anni di storia del Sistema solare, i grani di polvere presenti nella nebulosa hanno iniziato un processo di accrezione in seguito alle reciproche collisioni, e sono aumentati gradualmente di dimensioni formando piccoli grumi. Quando questi hanno raggiunto una massa sufficiente, hanno attratto altri grumi grazie alla loro forza gravitazionale fino a diventare quelli che chiamiamo planetesimi. L’accrescimento gravitazionale dei planetesimi ha portato alla rapida formazione dei pianeti. Ma le orbite dei planetesimi all’interno della regione che sarebbe diventata la Fascia principale erano troppo perturbate dalla gravità di Giove per formare un pianeta: nel 70% dei casi essi sono stati espulsi e scagliati verso l’esterno del Sistema solare, mentre i rimanenti hanno continuato a orbitare attorno al Sole e a collidere fra loro dando origine alla Fascia principale che vediamo oggi».
CICATRICE
Il Meteor Crater, in Arizona, è il cratere da impatto più famoso. Ampio 1.200 m, è stato formato 50.000 anni fa da un asteroide metallico grande 50 m.
QUESTE MINE VAGANTI
QUA E LÀ
La Fascia principale
PIÙ GRANDE
LE TIPOLOGIE
Esistono asteroidi di diversi tipi, che gli astronomi classificano in base a due criteri. Il primo è quello delle orbite che percorrono. E allora ecco gli oggetti transnettuniani, così chiamati perché si trovano oltre l’orbita di Nettuno, dove formano un’altra regione densa di corpi minori: la fascia di Edgeworth-Kuiper. Ricchi di ghiaccio, se fossero più vicini al Sole potrebbero essere classificati come comete. Poi ci sono i Centauri, che hanno orbite tra quelle di Giove e di Nettuno. «Alcuni sono più simili a comete, come Chirone, altri sono senza chioma e quindi asteroidi a tutti gli effetti: un esempio è 5145 Pholus, che ha dimensioni poco inferiori ai 200 km», precisa Carbognani. E, ancora, una popolazione di asteroidi molto interessante è quella dei Troiani, che si muovono sull’orbita di Giove in due gruppi, che precedono e seguono il pianeta di 60°; si stima che numericamente abbiano una popolazione simile a quella degli asteroidi della Fascia principale.
Il secondo modo di classificare gli asteroidi, che fornisce anche informazioni fisiche sulla loro composizione, è lo spettro. Gli asteroidi sono opachi e non emettono luce propria ma riflettono quella del Sole. Con telescopi e sonde questa luce riflessa può essere raccolta e studiata, separandola nelle sue diverse lunghezze d’onda: facendo, appunto, uno “spettro”. «A seconda dello spettro, gli asteroidi possono essere raggruppati in tre grandi classi: C, S e X. I C sono carboniosi, poco evoluti e a bassa densità media, come Mathilde. Gli S inve-
DA VICINO
Alcuni degli asteroidi e delle comete avvicinati da sonde. Non sono inclusi Cerere e Plutone (oggi pianeti nani), Vesta e Dydimos e Dimorphos, oggetto della missione Dart (2022).
ce sono asteroidi rocciosi più evoluti dei C e con densità media più elevata: un esempio è Eunomia. Infine, gli X sono tutti quelli che non ricadono nella classificazione precedente: in buona parte si tratta di asteroidi metallici come Psyche, probabili frammenti di nuclei metallici di asteroidi primordiali differenziati che sono andati distrutti in seguito alle collisioni», precisa Carbognani.
INFORMAZIONI PREZIOSE
Non dobbiamo pensare che gli asteroidi siano solo massi vaganti che potrebbero caderci addosso. In realtà, il loro studio è fondamentale perché essi portano informazioni del lontano passato del Sistema solare. «Le rocce terrestri non sono più quelle dei planetesimi originari da cui si è formato il nostro pianeta per via dell’intensa evoluzione geologica della Terra», sottolinea Carbognani. «Invece i materiali che costituiscono i corpi minori sono quanto di più vicino ai materiali originari possiamo ancora trovare. Per questo, studiare asteroidi e comete significa andare alla ricerca delle nostre lontane origini. Per esempio, l’acqua che riempie gli oceani terrestri è per la maggior parte di origine asteroidale: se non ci fossero stati gli asteroidi a portare l’acqua sulla Terra, la vita non avrebbe mai potuto iniziare a evolvere».
DALLO SPAZIO INTERSTELLARE
Una scoperta importantissima è stata fatta nel 2017, quando fu identificato un asteroide proveniente addirittura dall’esterno del Sistema solare.
Venne chiamato ’Oumuamua, che in lingua hawaiana (alle Hawaii si trovava il telescopio che lo aveva rivelato) significa “messaggero che arriva da lontano”. La sua traiettoria e la sua velocità non lasciavano dubbi sul fatto che provenisse da fuori del nostro sistema planetario: un evento mai accaduto prima. E la sua bizzarra forma a sigaro fece pensare ad alcuni che potesse addirittura essere una sorta di astronave aliena. Dopo essere passato relativamente vicino alla Terra, oggi ’Oumuamua si sta allontanando, con tutti i suoi misteri. Ma ci ha mostrato che gli asteroidi possono portarci messaggi e informazioni anche da fuori del Sistema solare.
Una foglia per tutte le stagioni
Le conifere in inverno non smettono di trasformare la luce del sole in energia, al contrario di ciò che fanno moltissimi altri alberi. Ecco perché.
di Marco Ferrari
Inverno. I boschi sono spogli, e le foglie tappezzano il suolo. Eppure, nonostante le temperature bassissime, il rischio di gelate e il poco sole, alcune piante insistono a tenere foglie sui rami in modo da continuare il loro “lavoro”: la fotosintesi. Nei boschi di montagna, pini, abeti rossi (Picea abies) e cembri (Pinus cembra) spiccano verdi in un mare di altre piante le cui foglie diventano rosse o gialle per poi cadere, come nel caso dei faggi.
FOSSILI VIVENTI?
Tenere le foglie anche in inverno, la tattica tipica delle conifere, potrebbe apparire un residuo della loro evoluzione che risale a migliaia di anni fa. A prima vista sembrerebbe sia così. Per questo le conifere (che tecnicamente sarebbero da definire Gimnosperme) vengono spesso descritte come un gruppo di specie meno “avanzate” delle latifoglie (o Angiosperme), che invece hanno raggiunto una maggior efficienza di fotosintesi e che fanno cadere le loro larghe foglie in autunno per non andare incontro a gelate. Ma è proprio così? «No, va invece detto che Gimnosperme e Angiosperme usano due strategie diverse per sopravvivere all’inverno. E questo dipende dalla struttura delle foglie, dalle loro dimensioni e da come sono fatti i vasi conduttori di queste piante», spiega Marco Caccianiga, che insegna botanica all’Università di Milano.
È vero che le foglie larghe, quelle di alberi come faggi, castagni, betulle o altri, sono più efficienti nell’effettuare la fotosintesi, e anche il trasporto di acqua e sali minerali dalle radici alle foglie è più veloce. Ma questo non significa che le conifere siano più “primitive”. Tutto dipende dalla presenza o meno di acqua: «A causa della loro struttura, le foglie delle conifere possono continuare a fare la fotosintesi anche quando c’è poca acqua bloccata dal gelo nel terreno», continua Caccianiga. Mentre le foglie delle Angiosperme devono cadere prima dell’inverno, perché la loro ampia superficie le espone alle gelate, sono più facilmente preda del vento forte e possono essere danneggiate o strappate, le foglioline di abeti e pini, cembri
TENACI
Le cellule che costituiscono le foglie aghiformi delle conifere sono ricche di zuccheri, e questo le rende più resistenti alle gelate invernali.
Pini e abeti non sono più
“primitivi” delle piante a foglia larga. Hanno solo scelto adattamenti diversi per superare l’inverno
e mughi sono ricoperte da un leggera cuticola, in modo da perdere meno acqua per traspirazione. E sono molto più resistenti alle intemperie. Gli episodi di cattivo tempo in montagna sono spesso sinonimo di grandi nevicate: e qui alle conifere viene in aiuto anche la struttura a piramide del tronco, in cui la disposizione dei rami – più lunghi in basso che in alto – aiuta a far cadere la neve a terra, così la pianta se ne libera. I rami, infine, sono più flessibili nelle conifere che nelle latifoglie, basta un po’ di vento per agitarli e scrollare la neve.
VALVOLE E COMPARTIMENTI
Anche i vasi conduttori che trasportano le sostanze nutritive all’interno della pianta hanno una struttura e un comportamento differenti: quelli delle conifere sono più adatti alle temperature invernali. Ancora una volta, le Angiosperme hanno vasi più efficienti e che trasportano più velocemente la linfa (acqua e sali minerali) dalle radici alle foglie, ma si bloccano più facilmente. Ciò accade perché la sottilissima colonna che percorre il tragitto dalle radici alle foglie dev’essere continua: «Se si forma una piccolissima bolla d’aria nel vaso che trasporta il liquido, tutto si ferma. Un po’ come quando si travasa l’acqua da un contenitore a un altro; basta una bolla d’aria, e si blocca tutto», spiega Caccianiga. Le conifere hanno invece delle “valvole di controllo”, che possono arrestare momentaneamente il trasporto della linfa e riprenderlo quando le condizioni ambientali lo permettono. Inoltre, i vasi sono molto più robusti e resistenti all’espansione provocata dai cristalli di ghiaccio. Persino l’esterno del tronco delle conifere è più adatto a sopportare i rigori dell’inverno. La corteccia delle latifoglie è di solito più sottile, e nelle giornate invernali fredde ma soleggiate può raggiungere temperature molto più alte dello zero. Se il liquido nei vasi scorresse sotto la corteccia, al calare della notte l’improvvisa gelata danneggerebbe l’albero. Cosa che non accade nelle conifere, che hanno una corteccia più spessa e che meglio protegge i tessuti sottostanti.
All’interno delle foglie, abeti e cembri adottano poi altri “trucchi” per ostacolare il pericolo più grande: «Esistono diverse strategie per impedire che l’acqua nelle cellule geli: per esempio aumentare la quantità di zuccheri presenti in modo da alzare la pressione osmotica e quindi abbassare il punto di congelamento sotto lo zero», afferma Caccianiga. Una strategia adottata anche da certe piante con i fiori, come il ranuncolo dei ghiacciai, che mantengono le foglie anche in periodi freddi: invece di avere come sostanza di riserva l’amido (come molte altre specie), utilizzano gli zuccheri semplici, in modo che
all’interno delle cellule i fluidi abbiano una pressione osmotica più alta. Un altro adattamento tipico dell’anatomia delle conifere è la cosiddetta “compartimentazione” che ostacola la formazione di ghiaccio nel citoplasma, cioè all’interno delle cellule, e la permette solo negli spazi tra una cellula e l’altra. In questo modo non si spezzano le membrane cellulari. «A volte si formano aghetti di ghiaccio, ma questi rimangono comunque fuori dalle cellule», conclude Caccianiga.
Lungi, in definitiva, dall’essere specie più primitive, le foglie delle conifere sono semplicemente meno efficienti quando le condizioni sono ottimali, ma molto più performanti (se non altro perché rimangono sull’albero) in momenti difficili, quando fa cioè molto freddo. Con questo “armamentario”, continuare a fare la fotosintesi anche in condizioni critiche, come l’inverno, permette di sfruttare ogni minimo raggio di luce e soprattutto, di riuscire a ripartire in fretta quando il clima migliora, senza aspettare le ricrescita delle foglie, come fanno le Angiosperme.
TAVOLOZZA DI COLORIQUELLE PIATTE
IL LARICE È DIFFERENTE
Anche tra le conifere ci sono specie che perdono le foglie in autunno. Le gialle macchie sulle cime più alte delle Alpi sono gli aghi del larice (Larix decidua), che affronta l’inverno appunto perdendo le foglie. Questo perché le specie del genere Larix (esistono specie differenti anche in Nord America e in Asia) hanno sviluppato durante l’evoluzione una strategia simile a quella delle latifoglie. In ambienti come quello dell’alta montagna, i nutrienti (principalmente azoto) scarseggiano e il larice li tiene all’interno del tronco, evitando di disperderli negli aghi, che infatti ingialliscono e cadono. Questo adattamento lo rende resistente al clima rigido. Anche perché così il larice ha meno probabilità di perdere rami a causa di forti carichi di neve, rispetto agli alberi sempreverdi che conservano i loro aghi. La capacità di produrre nuovi aghi ogni anno, rende infine il larice più resistente anche ai danni causati da insetti e incendi.
EQUILIBRIO FRAGILE
In realtà, le cose sono un po’ più complesse di così: «C’è una quota di rischio anche per le conifere, ovviamente», fa notare Caccianiga. «Per esempio l’abete rosso soffre tantissimo quello che si chiama “disseccamento da gelo”: in una bella giornata invernale la pianta si scalda e comincia a traspirare per la fotosintesi, ma non riesce a rimpiazzare l’acqua perché il terreno è gelato. Tutta la parte di piante al di sopra della quota alla quale nevica perde le foglie», conclude. Inoltre, anche le foglie della maggior parte delle Gimnosperme cadono, ma non con frequenza annuale, come quelle di molte Angiosperme. Hanno una vita di due o tre anni, e non cadono tutte contemporaneamente: «Le foglie non sono organi destinati a durare a lungo e anche pini e abeti le fanno cadere durante tutto l’anno, e intanto le rinnovano», conclude Caccianiga.
Come accade molto spesso nel caso di adattamenti evolutivi complessi, si verifica un compromesso tra efficienza nell’uso
dell’acqua e velocità di fotosintesi. I due grandi gruppi di piante hanno così adottato due strategie molto diverse per la loro sopravvivenza: si potrebbe dire che le latifoglie sono le Formula 1 della vegetazione, le conifere sono affidabili berline. Le prime sono veloci ed estremamente efficienti in pista, quando non ci sono ostacoli e il terreno è liscio. Ma è preferibile avere una berlina (lenta e sicura) a disposizione quando il terreno è sconnesso, l’asfalto è fessurato e ci sono altre automobili sulla strada. Allo stesso modo, negli ambienti in cui le condizioni ecologiche consentono la presenza costante di acqua e luce, la foglia larga è vantaggiosa. Nelle condizioni invernali, col rischio di gelate, poca luce e pochissima acqua a disposizione, una conifera si comporta molto meglio. In fondo non è molto diverso da ciò che accade ai mammiferi e agli uccelli rispetto ai rettili. Gli animali dei primi due gruppi devono nutrirsi molto spesso perché bruciano rapidamente l’energia ingerita. Serpenti e altri rettili possono invece resistere anche mesi senza mangiare, perché usano meno energia per la sopravvivenza. Si potrebbe dire che le conifere sono “i rettili” tra le piante: diverse, quindi, ma certo non “meno evolute”.
SU FOCUS STORIA IN EDICOLA un articolo ripercorre il ruolo degli alberi nelle religioni, nelle credenze e nella mitologia
Le foglie larghe sono più efficienti per la fotosintesi ma disperdono molta acqua.
Gorilla e scimpanzé possono diventare amici?
Pare proprio di sì. Nessuno studioso se l’era mai chiesto, ma quando scimpanzé e gorilla condividono le stesse zone, si ignorano, combattono o diventano amici? Una ricerca della primatologa Crickette Sanz, della Washington University, rivela, su iScience, che la terza ipotesi è quella giusta. Analizzando i dati di 20 anni di osservazioni di scimpanzé e gorilla nella foresta del Congo, ha scoperto che non è raro che si formino gruppi misti delle due specie. Giochiamo insieme? «L’ipotesi era che lo facessero per essere più protetti dai predatori», ricorda Sanz. Invece pare che scimpanzé e gorilla amino piuttosto “cenare assieme”, condividendo aree ricche di piante commestibili, solo per il piacere di stare vicini e condividere informazioni. «Durante questi incontri, succede spesso che giovani delle due specie giochino insieme, e che alcuni individui vadano a cercare la compagnia di altri della specie opposta: loro amici, si potrebbe dire». L’osservazione aiuta anche a immaginare cosa accadesse quando Homo sapiens condivideva il Pianeta con i Neanderthal: non è detto che i rapporti tra loro fossero sempre e solo conflittuali. L’unico difetto di questo idillio forestale? Il rischio di passarsi malattie. A.S.
I pesci provano prurito?
Certo che sì. Il prurito è una sensazione molto utile per qualunque animale che soffra a causa dei parassiti della pelle, permettendo di individuare quelli più molesti e sloggiarli grattandosi o strusciandosi contro qualcosa. I pesci in questo non fanno eccezione: devono staccare le squame morte, bloccate dal muco che le ricopre, e soffrono di diversi parassiti cutanei, per cui il prurito li spinge a strusciarsi contro cose rugose, come i coralli, oppure a farsi pulire da pesci specializzati, che, come compenso, si mangiano parassiti e pelle morta (e talvolta pure la viva, facendo infuriare il “cliente” che da quel momento eviterà il pulitore “imbroglione”).
Grattate rischiose. Adesso il biologo Chris Thompson, della University of Western Australia, visionando migliaia di ore di filmati di telecamere subacquee automatiche nel Pacifico, ha scoperto la più rischiosa delle “grattatine”. Come riportato su Plos One, i tonni pinna gialla non solo passano il 44% del loro tempo a grattarsi, ma più della metà delle volte usano come “grattugie” gli squali, cioè i loro peggiori nemici. «Sembra pericoloso, ma gli squali non paiono curarsi molto dei tonni che si strusciano contro di loro, e del resto quei predatori, con la loro pelle rugosa come carta vetrata, sono in effetti il grattatoio ideale», dice Thompson. A.S.
Perché a volte i pesci muoiono dopo un cambio d’acqua?
Perché cambiano i valori e la temperatura del loro ambiente, causando gli un pericoloso shock. I cambi d’acqua nell’acquario aiutano infatti a reintegrare i livelli di ossigeno disciolto, ma sostituirla tutta improvvisamente non è una buona idea. In natura, i mutamenti dell’ambiente circostante (compresa la temperatura) avvengono gradualmente e i pesci vi si adattano, ma per quanto riguarda le vasche bisogna far sì che i livelli di nutrienti, ossigeno, ammoniaca e nitrati non si modifichino troppo rapidamente.
Acquari. Come andrebbe cambiata l’acqua? Dipende dalle dimensioni della vasca e da quanti pesci vi sono dentro. In generale, più è piccolo l’acquario e più animali vivono al suo interno più di frequente va cambiata l’acqua, senza tuttavia mai superare la quota del 30% per ogni volta e cercando di mantenere costante la sua temperatura. I.P.
GLI STRUZZI NASCONDONO DAVVERO LA TESTA SOTTO LA SABBIA?
No, ma l’origine di questa diffusa leggenda deriva da un comportamento caratteristico di questi simpatici animali di origine africana (Struthio camelus). In breve, di fronte alla possibile minaccia di qualche predatore, pur non arrivando a nascondere la testa sotto la sabbia, gli struzzi tendono a piegare in avanti il collo fino ad adagiarlo sul terreno. Il motivo di questo atteggiamento risponde a un’esigenza di mimetizzazione. Abbassando il capo, infatti, questi animali, non in grado di volare, confidano sul fatto che, se un predatore li scorge da lontano, può confondere il loro corpo con un cespuglio o una roccia.
DOPPIO STRATAGEMMA. Vi è poi un secondo motivo dietro al tipico atteggiamento degli struzzi, legato a esigenze riproduttive. Questi animali sono infatti soliti nascondere le loro uova in piccole buche scavate nel terreno, e spesso vi mettono il muso dentro per controllarne lo stato, dando appunto l’impressione di nascondere la testa sotto la sabbia.
Matteo Liberti PER SFUGGIRE AI PREDATORI SI LIMITANO AD APPOGGIARLA AL TERRENO. FA ECCEZIONE IL CASO IN CUI... TUTTI BENE LÌ?SONO STATI ADDOMESTICATI PRIMA I CAVALLI O GLI ASINI?
Prima gli asini, che furono addomesticati 7.000 anni fa da pastori che vivevano in Kenya e nel Corno d’Africa. L’allevamento dei cavalli sarebbe cominciato solo 3.000 anni dopo. La ragione di questa priorità sarebbe stata
la migliore adattabilità degli asini come animali da trasporto. ALLEVAMENTO ROMANO. Lo ha proposto un folto gruppo internazionale di scienziati che ha da poco pubblicato su Science un articolo che ricostruisce la storia dell’espansione dell’asino domestico a partire dall’analisi accurata del genoma di 207 asini moderni e 31 antichi, vissuti tra 4.000 e 100 anni fa, oltre a quello di 15 equini selvatici. È stato così scoperto che
le prime tracce di un addomesticamento degli asini risalivano al 5.000 a.C. circa, in Africa Orientale. Più o meno dopo 2.500 anni, gli asini domestici si sarebbero diffusi anche in Europa e in Asia. Sono anche stati trovati i segni dell’ibridazione prodotta da un allevamento di asini in epoca romana, dove erano presenti contemporaneamente sia asini europei sia asini asiatici per selezionare asini giganti. D.V.
Come fanno i polpi a cambiare colore?
La capacità di mimetizzarsi, tipica non solo dei polpi ma di molti altri invertebrati marini, è un processo particolarmente complesso, che coinvolge diversi organi. Nel caso dei polpi, a giocare un ruolo fondamentale sono i cromatofori, cellule di cui è punteggiata la pelle dell’animale, contenenti dei microscopici granuli di pigmento. Questione di muscoli. Quando i cromatofori si contraggono, la minuscola “sacca” contenente il colore si allunga, consentendo a una quantità maggiore di luce di entrare nella cellula e creando così un mutamento cromatico. Esistono tre strati di cromatofori nella pelle di un polpo e ognuno di essi ha particelle che riflettono una diversa colorazione (dal giallo al rosso al marrone). Ogni singolo cromatoforo è controllato poi direttamente dal cervello del polpo, il quale decide se contrarre o rilassare i muscoli che circondano il sacco (un po’ come avviene compiendo degli esercizi in palestra) quando vuole mimetizzarsi e sfuggire ai predatori. M.M.
ESISTE UN MODO SICURO PER INVESTIRE UN ALCE?
In Scandinavia e nel Nord America, scontrarsi al volante con uno di questi massicci animali è un evento tutt’altro che insolito: solo in Svezia, sarebbero oltre 5.000 gli incidenti stradali che ogni anno coinvolgono alci. L’ingegnere informatico svedese Magnus Gens ha quindi realizzato un manichino per crash test a forma di alce, assemblato con 116 lastre di gomma potenziate con varie parti in acciaio, che le
case automobilistiche possono utilizzare nelle loro attività di ricerca e sviluppo sulla sicurezza.
MANICHINO. L’opera è valsa al suo ideatore un premio IgNobel, ma il manichino consente di studiare la fisica di una reale collisione fra un alce e un’auto, mostrando i punti critici dell’impatto, ad esempio riguardo al parabrezza.
Roberto
MammìUna scimmia può diventare “umana” allevandola come un bambino?
Quasi. La risposta arriva da un esperimento che oggi non sarebbe ritenuto etico, ma che lo psicologo comportamentalista Winthrop Kello g g condusse con sua
moglie negli anni ’30: i due avevano un figlio di dieci mesi, Donald, e adottarono Gua, uno scimpanzé di sette mesi, per allevarli assieme nello stesso modo, dando loro gli stessi stimoli e identiche attenzioni. Comunicazione. Nel documentario realizzato per seguire l’esperimento, i coniugi Kello g g sottolineava no che Gua camminava eretta, rispondeva a venti semplici comandi e a dodici mesi la definirono più “intelligente” di Donald. Che però a sedici mesi iniziò a parlare, mentre Gua non poteva; inoltre, il bimbo usava il viso per
identificare le persone, la scimpanzé gli odori. Quando dopo nove mesi dall’inizio dell’esperimento si accorsero che il figlio, per comunicare con la “sorella”, tendeva a gesticolare e imitare i suoni scimmieschi, i Kello g g sospesero lo studio e riportarono Gua allo Yerkes Primate Research Center in Florida. Le conclusioni? Gli animali di certo sono intelligenti e alcuni primati hanno le capacità vocali per formare i suoni, ma mancano dello sviluppo cerebrale adeguato a produrre un vero linguaggio e questo fa una gran de differenza per diventare “umani” E.M.
Che succederebbe se la Terra di colpo girasse più velocemente?
Normalmente la Terra ruota a circa 460 m al secondo (all’Equatore). Il 29 giugno 2022, però, gli scienziati hanno misurato il giorno più corto da quando sono iniziate le registrazioni, negli anni ’60: la Terra ha “accelerato” di 1,59 millisecondi. Comunque, se la Terra di colpo accelerasse di 1,5 km rispetto a oggi, i satelliti non sarebbero più nelle posizioni corrette, e quindi le comunicazioni e le trasmissioni tv potrebbero interrompersi. Tutto in briciole. Noi perderemmo peso, ma a parità di massa, perché la maggiore forza centri fuga contrasterebbe la gravità. Se invece l’accelerazione fosse tale da far durare un giorno solo un secondo, il Pianeta in un attimo finirebbe disgregato: la forza centrifuga diventerebbe molto più forte della gravità e tutto il materiale che costituisce la Terra verrebbe scagliato verso l’esterno. La crosta e il mantello terrestre si frantumerebbero in grossi pezzi e l’atmosfera sarebbe troppo rarefatta per respirare. E.V.
Come fare ad avvicinare di più le bambine alle discipline scientifiche?
Perché se lecchiamo del metallo gelato ci resta incollata la lingua?
Se si prova a leccare un oggetto di metallo con temperature al di sotto dello zero, vi si resta incollati per due motivi: perché la saliva sulla nostra lingua si congela all’istante, aderendo perfettamente sia all’oggetto sia alle mucose, e poi perché il metallo è un ottimo conduttore. Niente strappi. È possibile vedere una scena del genere in diversi film comici, ma la più nota è forse quella di Scemo e più scemo, nel quale Jeff Daniels ( nella foto) resta attaccato al palo di una seggiovia. Se succede, viste le tante terminazioni nervose che rivestono il nostro organo del gusto, non è consigliabile strappare con forza Mo lto meno doloroso sarebbe versare un po’ di acqua calda sul punto di contatto. S.V.
Una strategia utile può essere quella di coinvolgerle in giochi in cui devono impersonare una scienziata: è emerso da uno studio della Yale University e dell’Università di Chicago che ha coinvolto 240 bambini di età compresa tra 4 e 7 anni, divisi in tre gruppi. Facciamo finta. Nel primo, i bambini hanno svolto un “gioco scientifico” con un ricercatore. Nel secondo hanno svolto lo stesso gioco, ma prima di cominciare i ricercatori hanno loro parlato di uno scienziato (Marie Curie o Isaac Newton). Nel terzo gruppo ai bambini è stato chiesto di giocare immaginando di impersonare quegli scienziati. Dopo ogni turno di gioco, i bambini sceglievano se volevano giocare di nuovo o fare altro. I maschi di tutti e tre i gruppi facevano in media 14 round di gioco senza annoiarsi. Le ragazze del primo gruppo hanno completato solo 5 round, quelle del secondo 9, ma impersonando una scienziata arrivavano a 12 round, avvicinandosi alle performance dei ragazzi. R.P.