Focus Storia 188 - Giugno 2022

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Storia SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE

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21 MAGGIO 2022 GIUGNO 2022

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Sgozzato e gettato nel Tevere: la brutta fine di Giovanni Borgia, il figlio del papa

Masaniello, Che Guevara, l’imperatore Claudio, Giovanna d’Arco, Omar al-Mukhtar, Caterina Sforza, Zelensky...

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PER CASO

L’UOMO DELLA REPUBBLICA

Alcide De Gasperi raccontato dalla figlia Maria Romana, nella sua ultima intervista

SCANDALO WATERGATE

Cinquant’anni fa, l’inchiesta giornalistica del Washington Post che fece dimettere Nixon

GIOVANNI FALCONE

Capaci, 23 maggio 1992: l’attentato al giudice più temuto – e odiato – dalla mafia


Giugno 2022

focusstoria.it

Storia

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a guerra nel cuore dell’Europa occupa il pensiero di tutti. E ci condiziona anche nelle scelte lavorative. Il presidente ucraino Zelensky, per esempio, è stato l’ispiratore del Primo piano di questo numero. Non parleremo a lungo di lui – scriviamo di chi è passato alla Storia, non di chi la sta facendo – però ci ha indicato un filo conduttore che finora non avevamo mai seguito. I leader per caso sono personaggi che hanno fatto grandi cose (guidato la resistenza, governato con saggezza, animato rivolte o rivoluzioni...) trainati più dagli eventi che da una reale volontà di leadership. Insomma, le circostanze li hanno costretti, obtorto collo, a scendere nell’arena mettendo al servizio di un obiettivo comune le proprie capacità. Le storie da raccontare erano tantissime, diverse l’una dall’altra ma accomunate da una tensione morale che forse, alla fine, è la vera molla che spinge gli esseri umani ad assumersi rischi e responsabilità. Cinquecento anni fa Machiavelli scriveva che un bravo leader deve avere “virtù e fortuna”. Aggiungiamo: anche una buona causa. Emanuela Cruciano caporedattrice

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LA PAGINA DEI LETTORI NOVITÀ & SCOPERTE UNA GIORNATA DA... CHI L’HA INVENTATO? NEL PIATTO COMPITO IN CLASSE CURIOSO PER CASO PITTORACONTI AGENDA

CREDITI DI COPERTINA: (DAL CENTRO IN SENSO ANTIORARIO) MONDADORI PORTFOLIO/ZUMA PRESS, PORTFOLIO/BRIDGEMANART, BRIDGEMAN IMAGES, SHUTTERSTOCK (2), MONDADORI PORTFOLIO/ BRIDGEMANART

THE FITZWILLIAM MUSEUM

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CI TROVI ANCHE SU:

In copertina: Zelensky e altri leader inattesi.

IN PIÙ...

16 IlRINASCIMENTO lume d’Italia

Nel 1422 nacque Federico da Montefeltro il duca che rivoluzionò Urbino.

22 LaBATTAGLIE spada e lo

scudo di Roma Fabio Massimo e Claudio Marcello, i difensori dell’Urbe contro Cartagine.

Giovanna d’Arco in una raffigurazione ottocentesca.

LEADER INASPETTATI 34 Professione leader

Si sono trovati al comando di una nazione o alla guida di un popolo quasi per caso, ma hanno saputo adattarsi alla situazione.

38 Claudio chi?

Era lo zimbello della famiglia imperiale. Ma alla morte di Caligola, nel 41 d.C., era l’unico a poter regnare.

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Sebben che siamo donne

Matilde di Canossa e Caterina Sforza sfidarono gli uomini più potenti del loro tempo. E la “pulzella” Giovanna d’Arco non fu da meno.

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Non passa lo straniero

Il libico Omar al-Mukhtar a oltre sessant’anni divenne l’indiscusso capo della rivolta contro i colonizzatori italiani.

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Rivoluzioni di velluto

Ecco come un drammaturgo, Václav Havel, e un elettricista, Lech Walesa, portarono i loro Paesi fuori dalla dittatura comunista.

54 Inaspettati giganti

Genesi di uomini e donne, più o meno comuni, che hanno saputo indossare la maglia del leader.

GIALLO STORICO 28 C’è un cadavere

nel Tevere

Chi fu l’assassino di Giovanni, fratello del più famoso Cesare Borgia?

L’INTERVISTA 72 Era mio padre

Maria Romana De Gasperi parla del padre Alcide, politico e fondatore della Dc.

76 IlMAFIAgiorno della vendetta

Il 23 maggio di trenta anni fa la strage di Capaci, in cui morì Giovanni Falcone.

PROTAGONISTI 80 Garibaldi

L’uomo che da semplice marinaio, con le sue capacità politiche divenne l’Eroe dei due mondi.

86 LaARTEmagia del

Mediterraneo

Joaquín Sorolla, il pittore spagnolo “maestro della luce”.

I GRANDI TEMI 92 L’inchiesta

Giugno 1972: lo scandalo Watergate travolge gli Stati Uniti. 3

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SPECIALE

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toria in Podcast, la grande audioteca di Focus, con oltre 350 puntate a disposizione, ha superato i 2.500.000 ascolti. In particolare, in questo periodo ci siamo dedicati alla realizzazione di un nuovo ciclo di podcast dedicato all’Antico

Egitto, la cui civiltà – tra le più longeve del genere umano – è una delle più affascinanti del mondo. In una prima puntata, la storica Paola Buzi, docente di Egittologia e Civiltà copta presso il Dipartimento di Storia Culture Religioni della Sapienza di Roma,

americane che da quelle sarde: le Tranvie del Campidano lo misero in azione nella tratta che collegava Cagliari a Quartu. Nel 1968 Augusto Bìssiri si spense nella sua casa di Los Angeles e la sua figura venne dimenticata. È oggi ricordato solo a Seui dove a lui e al fratello Attilio è intitolato un Liceo scientifico. Roberto Mette, Alà dei Sardi (Ss)

Superstizione in Piemonte

Ho letto con interesse l’articolo “Caccia alle streghe” pubblicato su Focus Storia n° 185. A tal proposito volevo ricordare il romanzo La chimera di Sebastiano Vassalli che narra la storia di Antonia, una ragazza orfana poi accusata di stregoneria. Il racconto è basato su fatti realmente accaduti tra la provincia di Novara con le sue risaie e il territorio della Valsesia coronato dal Monte Rosa. Il romanzo rappresenta uno spaccato della vita e della superstizione popolare piemontese del Seicento. Edda Foglio, Borgosesia (Vc)

si sofferma su diversi periodi dell’Antico Egitto e sull’evoluzione della produzione letteraria: le autobiografie, la letteratura sapienziale, i racconti, i cicli e le liriche amorose. Un viaggio nei diversi tipi di produzione letteraria attraverso racconti affascinanti.

I discendenti del Barbarossa

Riguardo all’articolo “Controverso Federico”, pubblicato su Focus Storia n° 187, vorrei ricordare una curiosa vicenda che avvenne nel Lazio negli Anni ’30. Hitler e il capo delle Ss Himmler, fondatore di un’associazione che finanziava ricerche su storia, cultura e antropologia della cosiddetta “razza ariana”, erano così ossessionati dal mito del Barbarossa che quando nel 1938, durante una visita a Roma, in occasione del banchetto con Mussolini e Vittorio Emanuele III, venne raccontato loro che si favoleggiava di alcuni suoi discendenti ancora vivi nella regione, vollero cercarli. Nel 1939 ci riuscirono e li gratificarono con una ingente somma di denaro, ma i due capi nazisti non riuscirono a condurli nel Terzo Reich. Della ricerca storicogenealogica venne incaricato nell’autunno 1939 un funzionario del Centro di Cultura Tedesco di Roma, che identificò all’”Ufficio ricerche razza” della Cancelleria del Reich, il discendente di Federico I in Antonio Corrado, un misantropo dall’aspetto aristocratico, residente ad Anticoli Corrado (Roma), paese nella Valle dell’Aniene, feudo dal 1256 di Corrado I di Antiochia, nipote dell’imperatore Federico II Hohenstaufen (1194-1250). Quando però l’ambasceria di Hitler e Himmler andò a trovarlo era già morto! Scoprirono che aveva tre figli, che, fuggiti dal padre, si erano

Online. Per ascoltare tutte le puntate di Storia in Podcast, basta collegarsi al sito storiainpodcast.focus.it. Gli episodi di Storia in Podcast – disponibili anche sulle principali piattaforme online di podcast – sono a cura del giornalista Francesco De Leo.

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rifugiati nel borgo di Ceri (Cerveteri) dove facevano i carrettieri tra la via Aurelia e i Monti della Tolfa. La ricerca continuò, ma quando il presunto erede li vide, per timore si diede alla fuga. A Ceri i nazisti parlarono così solo con le due sorelle sdegnate che protestavano l’innocenza del parente. Alla fine, a sorpresa si ritrovarono in mano un assegno, chi dice di 30.000 lire, chi di 100.000, un capitale per l’epoca. Fabio Lambertucci, Santa Marinella (Roma) 5

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NEL PIATTO

A cura di Roberto Roveda, illustrazione di Antonio Molino

LA PASTA E LA NORMA

Poche cose evocano la Sicilia come la pasta alla Norma, un piatto che secondo la leggenda ha uno stretto legame con l’opera omonima di Vincenzo Bellini.

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uno dei piatti più amati dagli italiani, almeno a guardare analisi di mercato e sondaggi, e forse per questo in Sicilia è sempre accesa la tenzone per accaparrarsi la paternità della pasta alla Norma. In prima fila c’è la città di Catania, che da tempo rivendica la creazione di questo piatto che unisce con sapienza olio extravergine di oliva, pomodori, melanzane e pasta, cioè i capisaldi della tradizione culinaria mediterranea. Anche se a ben vedere parliamo di un Mediterraneo sorprendentemente allargato. Anzi, globale.

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Un piatto che viene (anche) da lontano Molti pensano che le origini della pasta alla Norma siano antichissime e rigorosamente sicule. Ci si scontra però con due ordini di problemi. Il primo è che le melanzane sono ortaggi di origine orientale (indiana o cinese) e vennero introdotte nel bacino del Mediterraneo grazie agli arabi. Si diffusero però in Occidente solo nel XV secolo e non godevano di una buona fama, tanto che la parola melanzana significava “mela non sana”. A lungo, infatti, si è pensato che questo ortaggio causasse malattie mentali e solo in età moderna entrò nei ricettari occidentali. E qui incontrò il pomodoro, giunto nel Cinquecento dalle Americhe e introdotto nel Meridione d’Italia dagli Spagnoli, che dominavano quelle terre.

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Una pasta per risollevare il morale di Vincenzo Bellini Quello che sappiamo con più certezza è che tra Settecento e Ottocento era diffusissima in Sicilia l’usanza di condire la pasta con pomodoro, melanzane fritte e ricotta di pecora, salata e stagionata. Ma allora perché chiamare “alla Norma” un piatto che con ogni probabilità apparteneva alla cucina popolare? Qui entrano in campo due storie legate al mondo della musica lirica. Una leggenda si collega alla prima rappresentazione della Norma, opera del catanese Vincenzo Bellini. Era il 26 dicembre 1831 e la Scala di Milano tributò un’accoglienza fredda, anzi glaciale, al suo capolavoro. Si dice che dopo la rappresentazione uno chef siciliano decise di risollevare il morale al compositore

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conterraneo preparando una pasta con melanzane e pomodori. La chiamò “alla Norma”, in onore di un’opera destinata a un grande successo... come la sua ricetta.

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“Chista è ‘na vera Norma!” Sempre all’opera di Vincenzo Bellini è legato un secondo racconto sulle origini del nostro piatto. Questa volta siamo nel 1920, in quel di Catania. In un giorno imprecisato di più di un secolo fa il grande commediografo catanese Nino Martoglio (1870-1921) si ritrovò a pranzo con gli attori Janu Pandolfini

e Angelo Musco. Quando venne portato in tavola il piatto principale, una pasta con melanzane, pomodori e ricotta grattugiata, Martoglio venne colpito dal profumo e dal sapore della ricetta servita, tanto da esclamare: “Chista è ’na vera Norma!”. Insomma, era di fronte a un capolavoro al pari dell’opera di Bellini. E per tutti quella pasta spettacolare si chiamò Norma.

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Una pasta a norma e regola Secondo altri, però, la Norma della ricetta andrebbe scritta con la lettera minuscola:


FOOD LOFT BY SIMONE RUGIATI

LA RICETTA DI SIMONE RUGIATI

Simone Rugiati

La versione dello chef

Lo chef Simone Rugiati propone una versione della pasta alla Norma in cui punta tutto sull’incontro tra il gusto della melanzana e quello del pomodoro. Le verdure. Prendete delle melanzane strette e lunghe, lavatele, punzecchiatele con la forchetta (in modo che escano i liquidi e all’interno si abbia una polpa molto cremosa). Senza sbucciarle, cuocetele intere alla griglia, sul barbecue oppure in forno. Sempre in forno oppure sulla griglia cuocete dei pomodori a grappolo. Questo tipo di cottura farà abbrustolire la parte zuccherina dei pomodorini dando loro un sapore particolare.

il nome richiamerebbe soltanto il fatto che si tratta di una pasta da cucinare a regola d’arte, rispettando alcuni princìpi imprescindibili. Il primo è che è meglio usare le melanzane nere e lunghe, tagliandole a fette dello spessore di pochi millimetri. La frittura va eseguita rigorosamente con olio extravergine di oliva. Terzo caposaldo: il pomodoro deve essere pelato, niente passate oppure sughi a pezzettoni, ma solo pelato fatto in casa, con l’aggiunta di sale e basilico. Alcuni pretendono che si usi la stessa pentola per friggere le melanzane e cuocere il sugo così da mescolare i sapori già

Quindi passate i pomodorini, una volta cotti, con un passaverdura (se volete eliminare bucce e semi) oppure in un frullatore a immersione (se volete tenere bucce e semi). La pasta. Cuocete in abbondante acqua salata una pasta grossa (paccheri o calamarata), scolate e condite con la polpa interna della melanzana, usata come una crema, e i pomodorini passati. Impiattate, irrorate con olio extra vergine di oliva e distribuite generosamente su ogni piatto ricotta salata e basilico. Potete anche condire a freddo: basta lasciare raffreddare la pasta prima di procedere.

in cottura. Infine, la pasta, che deve essere corta, cioè rigatoni, maccheroni e paccheri. Niente spaghetti, linguine o affini.

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La ricetta che oltrepassa i confini della Sicilia Come molti piatti italiani, la pasta alla Norma è stata oggetto di reinvenzioni, specie all’estero. Nel menù di un ristorante italiano di Filadelfia (Usa) è spuntata una ricetta con gamberi e salsa di soia! In Sicilia si tollera la pizza alla Norma, mentre per perpetrare la tradizione è nata la “Giornata nazionale della Pasta alla Norma”, il 23 settembre.

La ricetta

Ingredienti (per 6 persone) 500 g di pasta corta 1 kg di pomodori 1 cipolla 4 melanzane 100 g di ricotta salata di pecora Basilico fresco Olio extravergine d’oliva Sale

Preparazione Lavate le melanzane, affettatele e disponetele in uno scolapasta salandole fra uno strato e l’altro. Lasciate produrre acqua per un’ora, poi asciugatele con carta da cucina. Lavate i pomodori, immergeteli per una decina di secondi in acqua bollente, scolateli e spellateli. Tagliateli, eliminando i semi, e riduceteli a pezzetti. Sbucciate la cipolla e affettatela sottilmente. In una pentola scaldate l’olio, soffriggete la cipolla e aggiungete i pomodori, per poi farli cuocere lentamente. Una volta pronto il sugo, friggete le melanzane nella stessa pentola in cui avete cotto i pomodori. Mescolate pomodori e melanzane, tenendo da parte qualche fetta. Cuocete la pasta e conditela con la salsa. Impiattate con le fette di melanzane fritte disposte sulla pasta, completate con un’abbondante grattugiata di ricotta salata e foglie di basilico fresco.

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Sebben che

PRIMO PIANO

HERITAGE IMAGES/MONDADORI PORTFOLIO

Matilde di Canossa

Due vedove indomite, che sfidarono gli uomini più potenti del loro tempo.

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edove, anche se siete donne, cercate di comportarvi da uomini!”. Né Matilde di Canossa (1046-1115) né Caterina Sforza (1463-1509) erano presenti alla predica di Bernardino da Siena per la Quaresima del 1425, ma entrambe fecero molto più di quanto ordinava l’austero francescano: vedove sì, ma soprattutto fiere e carismatiche, non si comportarono “da uomini” ma da donne forti e indomite quali erano, reggendo in prima persona le sorti dei loro possedimenti. E ritagliandosi così un posto da protagoniste nella storia di due secoli, l’XI e il XV, troppo spesso declinati al maschile. «Matilde e Caterina, donne talentuose che agirono oltre il ruolo e i limiti imposti al loro genere, furono eccezioni in un’epoca che teneva il sesso femminile sulla soglia della vita sociale e culturale e ben lontano dalla politica», dice Maria Giuseppina Muzzarelli, già docente di Storia medievale all’Università di Bologna. «Se poterono esprimere le loro potenzialità, fu in ragione di circostanze favorevoli, ma anche perché appartenevano ad ambienti privilegiati, in cui, soprattutto nell’Alto e nel pieno Medioevo, le donne avevano maggiori possibilità di farsi valere».

MOGLIE PER POCO. Fu chiaro da subito che non sarebbero state due mogli come tante, quelle il cui unico ruolo era stringere o rafforzare alleanze politiche attraverso il matrimonio e, a Dio piacendo, mettere al mondo eredi maschi. «Matilde è un caso particolare. Il suo potere non le viene perché “moglie di” o “vedova di”: lei quel potere già ce l’ha, in quanto membro di una potentissima famiglia feudale e unica discendente in vita di Bonifacio di Canossa, ricco e potente vicario del sovrano del Sacro romano impero in Italia. Si sposò per garantirsi una discendenza, ma quando la sua unica bambina, Beatrice, morì pochi giorni dopo il parto, lei lasciò il marito, il


siamo donne duca di Lorena Goffredo il Gobbo, e se ne tornò nella sua fortezza a Canossa, nell’Appennino reggiano», prosegue la storica. Era il 1072: quattro anni dopo, l’uomo venne ucciso in un’imboscata, infilzato come un pollo sullo spiedo mentre si stava per sedere sulla latrina. Di lì a poco, alla morte di sua madre, la vedova trentenne si ritrovò da sola, sovrana di un territorio enorme, esteso dai passi appenninici alla Pianura padana, dall’Emilia alla Toscana, fino all’Umbria e all’Alto Lazio, in posizione chiave tra la Germania dell’imperatore Enrico IV, di cui era cugina e vicaria, e la Roma del pontefice Gregorio VII, di cui era amica e sostenitrice.

Caterina Sforza

ALAMY/IPA

di Maria Leonarda Leone

LA TIGRE DI FORLÌ. Per quanto distante cronologicamente, Caterina era vicina per molti aspetti a Matilde. Figlia legittimata del duca di Milano Galeazzo Maria Sforza e della sua amante Lucrezia Landriani, era diventata signora di Imola e contessa di Forlì andando in sposa al nipote di papa Sisto IV, Girolamo Riario. Caratterino irruento e tutt’altro che arrendevole, quando il pusillanime marito venne assassinato (1488) in una congiura di alcuni nobili forlivesi, lei organizzò la resistenza. Con un trucco riuscì a chiudersi nell’imprendibile rocca di Ravaldino, fece voltare tutti i cannoni in direzione dei principali edifici di Forlì e mentre i nemici minacciavano di ucciderle i figli, da sopra le mura li esortò spavalda a farlo davvero, mostrando, racconta Niccolò Machiavelli, “come ella aveva seco il modo a rifarne degli altri”. La spregiudicata venticinquenne non era nuova a questo genere di performance: solo 4 anni prima, alla morte di Sisto IV, incinta di 7 mesi del suo quinto figlio si era barricata per 12 giorni a Castel Sant’Angelo, minacciando il Vaticano con l’artiglieria. Voleva che il conclave le garantisse l’elezione di un papa favorevole ai Riario e il mantenimento della posizione e dei possedimenti che il marito aveva avuto dall’influente zio defunto. Ma se all’epoca il marito,  43

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Vinte e vincitrici

BRIDGEMAN IMAGES/MONDADORI PORTFOLIO

A sinistra, Caterina Sforza prigioniera a Roma di Cesare Borgia in Castel Sant'Angelo, dopo aver perso Imola e Forlì (1501). A destra, l’imperatore tedesco Enrico IV, in atteggiamento di dispetto, si assoggetta all’umiliazione di Canossa, per ottenere la revoca della scomunica.

Matilde e Caterina misero in difficoltà imperatori e papi accordandosi per soldi con i vescovi, la costrinse ad abbandonare la posizione, a Forlì, con l’aiuto militare dello zio Ludovico il Moro, ottenne ciò che voleva: il controllo diretto delle sue signorie, come reggente del primogenito Ottaviano. «Durante il Medioevo, abbastanza di frequente le donne acquisivano visibilità e importanza grazie alla vedovanza», spiega Muzzarelli. «L’emergenza dava loro l’opportunità di mostrare apertamente quel che sapevano fare».

INDOMITE GUERRIERE. Animo da monaca, modi da guerriera e spiccate doti diplomatiche, una volta al comando Matilde si impegnò in una missione impossibile: riconciliare i due massimi esponenti del potere 44

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temporale e religioso, in guerra per la cosiddetta “lotta per le investiture”, un braccio di ferro politico per evitare la compravendita delle cariche ecclesiastiche. Ci riuscì, anche se solo per breve tempo, il 28 gennaio 1077. In che modo? Umiliando l’imperatore. Per tre giorni, lo lasciò fuori, davanti al portone della fortezza di Canossa, inginocchiato sotto la neve, prima di ammetterlo al cospetto del pontefice suo ospite perché implorasse il suo perdono e il ritiro della scomunica che rischiava di costargli il trono. In cambio, la Gran contessa ci guadagnò ingiurie e commentacci da bar: venne accusata di essere l’amante del papa e di altri prelati e alcuni insinuarono persino che fosse stata lei a far uccidere il marito. «Succedeva spesso: i cronisti leggevano

la realtà con tutti i loro pregiudizi e i luoghi comuni del loro tempo», nota l’esperta. «Le donne che andavano oltre il loro genere spaventavano gli uomini». Ancora di più se prendevano in mano le armi. Nel 1080, quando la labile tregua seguita all’umiliazione di Canossa si ruppe, Matilde indossò la cotta di maglia. E per l’imperatore furono dolori. Deposta e bandita, “più fiera di un uomo”, alla fine riconquistò a uno a uno i castelli caduti nelle mani del cugino e lo rispedì in Germania. Da parte sua, Caterina stava alla guerra come un’anatra a uno stagno. Calamity Jane tardomedievale, nella sua veste di raso con lo strascico, in testa un cappuccio maschile con mantellina di velluto nero e in vita una cintura da uomo con la scarsella


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Giovanna d’Arco

MONDADORI PORTFOLIO/FOTOTECA GILARDI

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ra una semplice contadinella della Lorena eppure, contro ogni previsione, a 16 anni conquistò il cuore e la fiducia dei cavalieri francesi e, armata di spada e di fede, li guidò nella Guerra dei cent’anni contro gli invasori inglesi. Da tre anni la devota Giovanna d’Arco (14121431) diceva di sentire “voci celestiali”, accompagnate da visioni dell’arcangelo Michele, di santa Caterina e di santa Margherita: da loro aveva ricevuto l’ordine di presentarsi all’incredulo delfino di Francia, Carlo VII, per offrirgli il suo aiuto in guerra (a destra). Carismatica. Partita tra le risatine dei compaesani, col suo carisma conquistò il sovrano e i suoi uomini: trascinò le armate, con cui liberò la città di Orléans e gran parte delle terre cadute in mano agli inglesi, grazie al suo esempio, alle preghiere di gruppo e al bando di bestemmie e violenze. Ma per lei non finì bene: vittima di un processo politico manipolato dal vescovo di Rouen, sostenitore degli interessi inglesi in Francia, venne bruciata viva dall’Inquisizione a 19 anni, come eretica. Riabilitata 25 anni dopo, fu proclamata santa nel 1920 e oggi è un simbolo del patriottismo francese.

nell’XI e nel XV secolo, tempi in cui dominavano gli uomini piena di ducati d’oro appesa accanto alla spada, si occupava tanto di ridurre le tasse al popolo e di organizzare matrimoni politici per i suoi figli, quanto dell’addestramento delle milizie e dell’approvvigionamento di armi e cavalli. “Ella era savia, animosa, grande: complessa, bella faccia, parlava poco; [...] e tra i soldati a piè, e a cavallo era temuta assai, perché quella donna coll’armi in mano era fiera e crudele”, la ricorda il coevo storico fiorentino Bartolomeo Cerretani. L’indole guerriera ce l’aveva nei geni presi dagli Sforza: non solo l’avrebbe lasciata in eredità al suo ultimo e più famoso figlio, il futuro capitano di ventura Giovanni dalle Bande Nere, ma ne avrebbe fatto buon uso per tutto il tempo in cui dominò su Imola e Forlì.

MAI VINTE. Per quanto poca cosa in confronto a quelle di Matilde, anche le terre di Caterina si trovavano in una posizione geografica fondamentale, sul tragitto che conduceva gli eserciti dal Nord al Sud. Autorevole interlocutrice delle maggiori potenze dell’epoca, a volte la contessa scelse di rimanere neutrale, ma più spesso si schierò e combatté insieme ai suoi uomini, guadagnandosi sul campo il soprannome di “tigre di Forlì”. Eppure un uomo riuscì a metterla in gabbia. Cesare Borgia, il figlio di papa Alessandro VI. Sceso dal Nord con l’esercito francese, nel 1499 puntò alle terre di Romagna: senza colpo ferire prese Imola, poi passò a Forlì. Caterina si arroccò di nuovo a Ravaldino, con 2mila uomini: resistette per tre

settimane, rispondendo colpo su colpo. Ma le mura della fortezza non ebbero la sua stessa tenacia e il 12 gennaio 1500 la rocca cadde. Fatta prigioniera e costretta dal papa a firmare la rinuncia ai suoi domini, Caterina si ritirò a Firenze: qui, senza smettere mai di brigare per riavere il potere, morì di polmonite a 46 anni. Un epilogo amaro come quello di Matilde, che, con quasi vent’anni più di lei sulle spalle, non ebbe la voglia o la forza di rimettersi in gioco: nel 1111 cedette al volere del nuovo imperatore e gli lasciò in eredità tutti i suoi feudi, annullando la famosa donazione alla Chiesa che trent’anni prima aveva scatenato la bellicosa reazione di Enrico IV. Spirò quattro anni dopo. Non vincitrice, ma neppure vinta. • Proprio come Caterina. 45

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