Prometeo - 155 - Settembre 2021

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Rivista trimestrale di scienze e storia

Anno 39 Numero 155 €. 7.90

Settembre 2021


Rimadesio

Velaria pannelli scorrevoli, Eos mensole.

Design Giuseppe Bavuso


Rivista trimestrale di scienze e storia DIREZIONE SCIENTIFICA Sabina Pavone Storia Severino Salvemini Economia Giorgio Vallortigara Neuroscienze COMITATO EDITORIALE Stephen Alcorn, Roberto Battiston, Gianluca Beltrame, Carlo Boccadoro, Piero Boitani, Umberto Bottazzini, Patrizia Caraveo, Pier Luigi Celli, Luisa Cifarelli, Luca Fezzi, Chiara Franceschini, Antonio Lucci, Alberto Oliverio, Mariagrazia Pelaia, Giorgia Serughetti.

DIREZIONE RESPONSABILE Gabriella Piroli prometeo@mondadori.it PUBLISHER Pamela Carati

www.prometeomondadori.it FONDATORI E COMITATO SCIENTIFICO Francisco Rodríguez Abrados (filologia greca, Universidad Complutense, Madrid) - Marc Augé (antropologia, École des hautes études en sciences sociales, Parigi) - Maurice Aymard (storia, École des hautes études en sciences sociales, Parigi) - Carlo Bordoni (sociologo e scrittore) - James Beck (storia dell’arte, Columbia University) - Peter Burke (storia, Emmanuel College, Cambridge) - Valerio Castronovo (storia, Università di Torino) - Antoine Danchin (biologia, Università di Hong Kong) - Marcel Detienne (antichista, École pratique des hautes études, Parigi) - Ernesto Di Mauro (biologia molecolare, Università di Roma) - Umberto Eco (semiologia, Università di Bologna) - Irenäus Eibl-Eibesfeldt (etologia, Max Planck Institut für Verhaltensphysiologie, Seewiesen) - Lucio Gambi (geografia, Università di Bologna) - Giulio Giorello (filosofia della scienza, Università di Milano) - Maurice Godelier (antropologia, École des hautes études en sciences sociales, Parigi) - Jack Goody (antropologia, Cambridge University) - Françoise Héritier (antropologia, Collège de France, Parigi) - Albert O. Hirschman (economia, Institute for Advanced Study, Princeton) - Gerald Holton (storia della scienza, Harvard University) - Albert Jacquard (genetica, Università di Ginevra) - Jürgen Kocka (storia, Freie Universität, Berlino) - Jean-Dominique Lajoux (antropologia visuale, Centre National de la recherche scientifique, Parigi) - Vittorio Lanternari (etnologia, Università di Roma) - Jacques Le Goff (storia, École des hautes études en sciences sociales, Parigi) - Edmund Leites (filosofia morale, Università di Queens) - Richard C. Lewontin (biologia, Harward University) - Giuseppe O. Longo (teoria dell’informazione, Università di Trieste) - Claudio Magris (letteratura tedesca, Università di Trieste) - Vittorio Marchis (storia della tecnologia, Politecnico di Torino) - Paolo Maria Mariano (meccanica teorica, Università di Firenze) - Francesco Marroni (letteratura inglese, Università di Chieti-Pescara) - Predrag Matvejević (slavistica, Università di Roma) - William H. Newton-Smith (filosofia della scienza, Balliol College, Oxford) - Alberto Oliverio (psicobiologia, Università di Roma)- Alexander Piatigorsky (School of Oriental and African Studies, London University) - Carlo Poni (storia economica, Università di Bologna) - Tullio Regge (fisica, Università di Torino) - Jacques Revel (storia, École des hautes études en sciences sociales, Parigi) - Ignacy Sachs (economia, Centre international de recherches sur l’environnement et le développement, Parigi) - Vittorio Strada (letteratura russa, Università di Venezia) - Keith Thomas (etnostoria, Corpus Christi College, Oxford) - Nathan Wachtel (etnostoria, École des hautes études en sciences sociales, Parigi). JOHN ALCORN

Progetto grafico originario



SOMMARIO 6

David Bidussa LA SOLITUDINE DEL RIFORMISTA Imprenditore, ministro, ebreo e tedesco. La figura di Walther Rathenau a Weimar.

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Patrizia Caraveo L’ATTRAZIONE FATALE PER LA LUCE Necessaria ma anche eccessiva. Una disamina scientifica sui pericoli globali della luminosità.

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Piero Boitani RIPENSARE LA MACCHINA DEL MONDO Haroldo De Campos e la sublime coniugazione tra poetica e astrofisica, da Dante a Mallarmé.

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n.155

Yanis Varoufakis UN FUTURO TECNOFEUDALE Il capitalismo che verrà. L’analisi breve e spietata dell’ex Ministro delle finanze greco.

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Exhibition MARIO SIRONI Al Museo del Novecento di Milano.

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Crossover GENDER OR NOT GENDER Una ricognizione completa sulle tematiche di genere: nella filosofia, nel femminismo, nella storia, nella medicina, nella biologia.

COVER

Stephen Alcorn

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Etimologie IL LUNGO VIAGGIO DELLE PAROLE

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Lucio Biasiori IL PRIMO A VEDERE TUTTO La storia di Francesco Carletti, mercante che in otto anni ha circumnavigato il globo.

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Anthony Tuck IL TELAIO DI OMERO E se fossero state le arcaiche tessitrici a creare le prime metriche e le prime poesie?

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Paolo Legrenzi LA PREVALENZA DEL BIAS Breve anatomia degli errori inconsapevoli.

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Le storie nell’arte LO SGUARDO DI ESCHER A Palazzo Ducale di Genova, dal 9 settembre.

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Gianfranco Marrone SIAMO TUTTI MATHESIS SINGULARIS Omaggio a Roland Barthes.

90

Matilde Perrino IN PRINCIPIO ERANO I METAZOI Nelle acque profonde, in cerca di risposte sull’evoluzione della vita e della mente.

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Luisa Cifarelli e Raffaella Simili LA RELATIVITÀ DA BOLOGNA A STOCCOLMA Albert Einstein all’Archiginnasio nel 1921. Tre conferenze italiane e un Nobel pasticciato.

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Luca Fezzi SPARTACO, O L’EROICA SCONFITTA Le fonti originali sul gladiatore ribelle, mito politico mondiale a partire dal Settecento.

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Elena Cattaneo ANCHE LE FORMICHE, NEL LORO PICCOLO... Sono industriose, competenti, strategiche. E si muovono con estrema intelligenza sociale.

Nunzio La Fauci PRASSI DELLA SCRITTURA Per chi si scrive? Perorazione contro il divulgazionismo, con Calvino e Sciascia.

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Francesco De Leo PERSIA ÆTERNA L’Iran di oggi e il glorioso passato imperiale.

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LIBRIXIME

La presentazione di dieci saggi. Opera Omnia per Roberto Calasso. Il pamphlet di Walter Siti. Un ritratto breve di Emmanuel Carrère. L’intervista a Timothy Morton. Kafka per Prometeo.


SECOLO BREVE

LA SOLITUDINE DEL RIFORMISTA La figura di Walther Rathenau traccia un arco che parte da Weimar e si estende fino a noi. Imprenditore e ministro, ebreo e tedesco, ha cavalcato l’idea della svolta in una Germania ferita e insofferente. Assassinato nel 1922, resta emblema di potenza, fragilità e isolamento nell’Europa vecchia e nuova. David Bidussa

L

a «solitudine del riformista» è un’espressione che riprendo da Federico Caffè [1982]. Caffè la usa per indicare la condizione sociale e relazionale di chi prova a proporre cambiamenti in regimi politici democratici riscontrando una sostanziale diffidenza da parte di tutti gli attori collettivi (politici, ma soprattutto sociali) coinvolti dalle sue proposte. «La derisione è giustificata – scrive – in quanto il riformista, in fondo, non fa che ritessere una tela che altri sistematicamente distrugge». E poi – forse non dimentico che, come il Sisifo di Camus [1980, p. 119], la forza del riformista consista nel non arrendersi e dunque «a riprovarci» – aggiunge: «Essendo generalmente uomo di buone letture, il riformista conosce perfettamente quali lontane radici abbia l’ostilità a ogni intervento mirante a creare istituzioni che possano migliorare le cose». La storia di Walther Rathenau non è lontana da questo profilo. FIGURE DELLA SOLITUDINE

«Il giorno in cui lo Stato parlamentare crollerà sotto i nostri colpi della dittatura, sarà il giorno della festa

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più bella». Così, nel luglio 1925, Ernst Jünger [Breuer 1995, p. 99] rivendica la lunga scia di sangue che ha segnato i primi anni della Germania di Weimar per opera dei “Corpi franchi” (Freikorps). Al centro di quella rievocazione la scena del 24 giugno 1922, il giorno in cui Walther Rathenau, Ministro degli Esteri viene ucciso da due ex ufficiali dell’esercito tedesco membri dei “Corpi Franchi”. Rathenau non è l’unica loro vittima: nell’agosto 1921, capita anche al Ministro delle Finanze Mathias Erzberger (18751921). La loro morte assume immediatamente un carattere simbolico. Entrambi – Erzberger e Rathenau - convinti sostenitori della strada inaugurata con il Trattato di Versailles; entrambi considerati traditori dell’anima tedesca dai lori loro assassini. Dunque entrambi «soli», pur con due profili diversi. La solitudine di Erzberger discende da una condizione di declino e dunque appare più che altro la conseguenza di un isolamento. Ministro delle Finanze (191920), Erzberger è accusato di corruzione e sospeso dal partito da ogni attività politica, e dunque in quel tempo si trova a non essere più difeso «dai suoi» (una condizione che si è ripetuta altre volte nelle fasi di


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SECOLO BREVE transizione in cui i sistemi di tutela si abbassano fino lasciare senza difesa le persone al centro di scandali pubblici che ne delegittimano la figura). La solitudine di Rathenau ha una natura diversa: nasce dal ritenerlo simbolicamente il traditore della Germania. La sua solitudine chiama in causa l’ideologia e le convinzioni profonde di una parte dell’opinione pubblica tedesca. Non riguarda solo ciò che ha fatto, ma chi è, ovvero la sua identità e il giudizio sulla sua azione politica come conseguenza della sua identità. In Italia il giorno dopo la sua uccisione, Benito Mussolini [1922], che da giornalista nel marzo 1922 a Berlino lo ha intervistato, scrive: «I circoli estremisti della destra germanica non potevano perdonare due cose a Rathenau. Primo, la sua direttiva in politica estera, che consisteva nel fare tutto il possibile per adempiere agli obblighi del trattato di Versaglia. In secondo luogo la sua origine semita. Per gli estremisti tedeschi di destra, i quali si ritengono di stirpe ariana purissima, era intollerabile che un ebreo dirigesse e rappresentasse la Germania in faccia al mondo». Dunque la solitudine è quella condizione che consente ai “Corpi Franchi” di colpire. Quella solitudine discende da un doppio profilo: da una parte è conseguente alle scelte politiche della Germania uscita

sconfitta dalla guerra; dall’altra è l’immagine che una società ha di sé, di chi considera cittadino o di chi è chiamato a dare un supplemento di prove di lealtà per poter godere della fiducia dei suoi connazionali. Come non ha mancato di richiamare all’attenzione Hobsbawm [2021, pp. 29-41] molte altre volte nella storia contemporanea quella duplice condizione è connessa sia con le scelte intellettuali e politiche che si compiono, sia conseguenza dell’immagine che, in un tempo storico dato, si costruisce intorno all’idea di identità e di appartenenza. LA NECESSARIA TRASFORMAZIONE

«Soltanto nell’ora della responsabilità, allorché dopo il crollo militare, nel 1919, gli fu imposto il compito più duro, rendere di nuovo vitale lo Stato sconvolto strappandolo al caos, le inaudite forze che esistevano in lui potenzialmente si trasformarono d’un tratto in energia unitaria. Ed egli si creò la grandezza innata al suo genio, prodigando la propria vita per un’unica idea: salvare l’Europa». Così Stefan Zweig descrive Rathenau nel suo Il mondo di ieri [2014, p. 158]. Intorno a quel progetto Rathenau lavora già da prima della guerra, da direttore della AEG, l’azienda di famiglia che produce impianti elettrici. Progetto a cui inizia a dare forma nel 1917, quando è responsabile

L’economia in Germania negli anni della Repubblica di Weimar (1918-1933). Il tasso di inflazione tedesco dopo la Prima Guerra Mondiale ha raggiunto l’iperbolica cifra del 662,6% annuo.

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del Dipartimento per l’approvvigionamento delle materie prime per uso bellico presso il Ministero della guerra e che sistematizza in forma scritta nelle sue note dedicate al «mondo a venire» [Rathenau 1917] e nel più famoso L’economia nuova [Rathenau 1976], libro quest’ultimo, che stende nel 1917 e che sarà promosso da Gino Luzzatto nel 1919. Tra i suoi lettori critici, ma interessato a prendere sul serio le sue proposte, Luigi Einaudi. «Il passato è caduto e non risorgerà mai più; se esso era un paradiso, è ormai un paradiso perduto» [Rathenau 1976, p.19]. Dunque occorre pensare il futuro producendo una rottura irreversibile. La guerra da questo punto di vista è stato uno spartiacque che obbliga a ripensare l’idea di essere comunità maturando una visione organica del pensarsi collettività, rispetto a un’immagine di società fondata sulla contrapposizione e sulla divisione. Le pratiche economiche e sociali del pensare nazione durante la guerra hanno cioè segnato non solo il vocabolario pubblico, ora maggiormente sensibile all’idea di nazione, ma anche favorito l’idea di organicità dei singoli gruppi nazionali. La proposta di Rathenau è dentro il vocabolario di chi la guerra l’ha vissuta direttamente in prima linea, ma senza concedere niente all’ethos del guerriero. Sotto questo punto di vita la sua riflessione non è assimilabile all’ideologia del fascismo. Al centro sta il produttore, non l’eroe che torna dal fronte. Questo primo dato è ciò che lo rende nemico irriducibile di coloro che dal fronte tornano e si sentono traditi da “chi è rimasto a casa”. Qui si apre un secondo fronte che riguarda la questione delle forme di rappresentanza politica e sociale dei mondi del lavoro. Il tema è: come far coabitare e collaborare i diversi attori del lavoro in nome della ripresa, inaugurando un paradigma industriale diverso da quello conflittuale che è stato dominante nell’anteguerra. Riflessione che ha sintonie con la riflessione dei laburisti in Inghilterra, con la forma della concertazione industriale su cui in Italia pensano e si confrontano segmenti del movimento nazionalista italiano (per esempio Filippo Carli) ma anche del mondo sindacale (per esempio Rinaldo Rigola), ma a cui non sono estranei almeno nelle riflessioni (le soluzioni proposte saranno radicalmente diverse se non opposte) anche i “consigliaristi” e su cui convergono anche figure del movimento socialista europeo (per esempio Otto Bauer). Il tema, per tutti, è il superamento del socialismo ortodosso e il tentativo di riconnettere

Walther Rathenau nel ritratto di Edvard Munch, 1907. Bergen Kunstmuseum, Norvegia.

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SECOLO BREVE mondo dell’industria e delle sue trasformazioni con i soggetti e le loro sensibilità. Vuol dire fare della concertazione il nucleo essenziale della riflessione politica. Ma anche significa mettere al centro le competenze professionali e le conoscenze tecniche. Ovvero ridiscutere radicalmente il precedente modello relazioni industriali. Su questo Rathenau sia nelle pagine di L’economia nuova, come in un saggio che pubblica nei primi mesi del 1919, Lo stato nuovo, laddove scrive «Lo stato dell’economia è in prima linea uno stato professionale ed uno Stato unitario nei limiti in cui tutti coloro che agiscono professionalmente – quindi, in futuro, tutti – sono in esso rappresentati» [1980, p. 32]. La guerra, dunque, sostiene Rathenau, ha dissolto molte cose, peraltro già in fieri prima del suo scoppio, come aveva sottolineato già nel 1913 [Rathenau 1979]. Per esempio la vecchia distinzione tra eroi e mercanti figure su cui Werner Sombart nel 1915 aveva chiamato all’appello l’opinione pubblica tedesca [Sombart 2014] e su cui si stava ricostruendo il mito della sconfitta come conseguenza della fronda. La sfida del dopoguerra, per Rathenau, era dunque allontanare l’immagine di una Germania che aveva venduto e DAVID BIDUSSA David Bidussa (Livorno 1955), è uno storico delle idee, con particolare attenzione a quelle che si sono sviluppate nel e sul Novecento. Ha pubblicato: Il mito del bravo italiano (il Saggiatore 1994); La mentalità totalitaria (Morcelliana 2002); Dopo l’ultimo testimone (Einaudi 2009); La misura del potere (Solferino 2020), Siamo Stati fascisti (con Giulia Albanese e Jacopo Perazzoli, Fondazione Feltrinelli, 2020). Ha inoltre curato: Antonio Gramsci, Odio gli indifferenti (Chiarelettere 2011); Norberto Bobbio e Claudio Pavone, Sulla guerra civile (Bollati Boringhieri 2015); Zygmunt Bauman, Visti di uscita e biglietti di entrata (Giuntina 2015); Yosef H. Yerushalmi, Verso una storia della speranza ebraica (Giuntina 2016); Benito Mussolini, Me ne frego (Chiarelettere 2019); Claudio Pavone, Gli uomini e la storia, (Bollati Boringhieri 2020); Victor Serge, La rivoluzione russa (Bollati Boringhieri 2021); George Orwell, Millenovecentottantaquattro (Chiarelettere, 2021).

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perso l’anima e sostenere che quell’anima era rifondabile su un progetto di ricostruzione dell’Europa. Rathenau è stato ucciso proprio per contrastare questo progetto. NELLA TERRA DI NESSUNO

Ma la solitudine di Rathenau non discende solo da questo primo elemento. Ad esso se ne accompagna un secondo: il suo essere ebreo tedesco. La rivendicazione orgogliosa della sua germanità non lo salva, agli occhi di chi si considera “vero tedesco”. Per loro Rathenau è un «intruso». Una condizione che indica come quel processo che conduce gli ebrei tedeschi tra seconda metà del XVIII secolo e fine XIX secolo a intraprendere il percorso di emancipazione si risolva in una integrazione solo apparente. Percorso che Zygmunt Bauman [2015] ha definito con chiarezza. L’emancipazione ha le sue antinomie. Dalla propria condizione di minoranza sorvegliata, comunque marginalizzata, si esce forse collettivamente, ma si entra nella nuova società individualmente. La storia di quel passaggio, tortuoso, complicato e tormentato – precisa Bauman – comunque, non si esaurisce anzi tende a perpetuarsi all’infinito. Il meccanismo della più accelerata assimilazione produce nuovamente distacco e, alla fine, quel loro percorso non li salva dall’antisemitismo di cui sono vittima e che spesso sceglie proprio loro come bersagli. Rispetto alla generazione precedente, quella che ha avviato il processo di emancipazione, tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento e che poi la nuova stagione post napoleonica riconduce nella condizione precedente la apertura dei ghetti, «essi – scrive Bauman - non possono più tornare indietro e dunque ripiegare sulla loro identità di partenza. Il processo che si avvia a metà dell’Ottocento apre a una condizione che rappresenta una condizione di stallo: la loro condizione di marginali o di fuoriusciti dal gruppo di provenienza li rende deboli, li colloca cioè in una “terra di nessuno”». [Bauman 2020, p.121 e sgg.] Il risultato è che alla fine dell’Ottocento il processo di distacco si interrompe. L’uscita dal gruppo originario non produce ingresso. Quello che inizialmente era un processo liberatorio diviene una condizione di radicale solitudine. Sinteticamente: se il processo assimilativo allude al desiderio e all’auspicio di sfuggire o comunque di annullare lo stigma di essere minoranza, allora, conclude Bauman, occorre osservare che quel processo ha sostanzialmente mancato il suo obiettivo.


«La società non esiste per distribuire dividendi a lorsignori, ma per far andare i battelli sul Reno». Con queste parole Walther Rathenau aveva risposto agli azionisti della Norddeutscher Lloyd, delusi per i mancati utili. Da allora, i battelli sul Reno sono diventati metafora di interesse collettivo e di critica all’accumulazione parassitaria.

CONCLUSIONE

L’epilogo della vicenda di Walther Rathenau non racconta soltanto della difficoltà culturale a prendere in carica le trasformazioni che la guerra ha reso ineludibili e forse anche fatali (la sua solitudine non è diversa da quella del Keynes di Le conseguenze economiche della pace negli stessi anni) oppure le difficoltà di integrarsi. Quell’epilogo indica anche la vera incapacità della cultura europea a misurarsi, allora, con le sfide che ha di fronte, liberandosi da quei pregiudizi che ne hanno segnato la storia. Una sfida che, allora, ma anche ora, riguarda “ripensarsi” per dare forma al “sogno europeo”. Un contenuto che ancora oggi è privo di un progetto o che si vive come «nostalgia di passato» e non di «attesa e scommessa di futuro» [Assmann 2021]. ■

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI WALTHER RATHENAU, Von kommenden Dingen, S. Fischer, Berlin, 1917 L’economia nuova, Einaudi, 1976 - La meccanizzazione del mondo, in Tecnica e cultura. Il dibattito tedesco tra Bismark e Weimar, a cura di Tomás Maldonado, Feltrinelli, 1979, pp. 171-201 - Lo Stato nuovo, in id., Lo Stato nuovo e altri saggi, a cura di Roberto Racinaro, Liguori, 1980, pp. 3-37. ASSMANN, ALEIDA Il sogno europeo. Quattro lezioni dalla storia, Keller, 2021. BAUMAN, ZYGMUNT Visti di uscita e biglietti di entrata, Giuntina, 2015 BAUMAN, ZYGMUNT Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri, 2020. BREUER, STEFAN La rivoluzione conservatrice. Il pensiero di destra nella Germania di Weimar, Donzelli, 1995. CAFFÈ, FEDERICO La solitudine del riformista, in «il Manifesto», 29 gennaio 1982 [poi in Id., La solitudine del riformista, a cura di Nicola Acocella e Maurizio Franzini, Bollati Boringhieri, 1990, pp. 3-5]. CAMUS, ALBERT Il mito di Sisifo, Bompiani, 1980. HOBSBAWM, ERIC Nazionalismo. Lezioni per il XXI secolo, a cura di Donald Sassoon, Rizzoli, 2021 . MUSSOLINI, BENITO Rappresaglia, in “Il Popolo d’Italia”, n. 151, 25.6. 1922. SOMBART, WERNER Mercanti ed eroi, ETS, 2014 . ZWEIG, STEFAN Il mondo di ieri, Mondadori, 2014.

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ELOGIO DEL BUIO

L’ATTRAZIONE FATALE PER LA LUCE Emblema della vita (Fiat lux!) e metafora della conoscenza, da indispensabile è diventata eccessiva. La nostra civiltà ne ha sottovalutato gli impatti negativi, che sono numerosi. Una critica scientifica argomentata. Patrizia Caraveo Una delle immagine più iconiche ottenute nel corso del programma Apollo è certamente la prima foto a colori del nostro pianeta visto dagli astronauti dell’Apollo 8, i primi a raggiungere la Luna e a orbitare intorno ad essa. Mentre stavano uscendo dall’ombra della Luna, gli astronauti – William Anders, Frank Borman e Jim Lovell – hanno visto sorgere la Terra. Le registrazioni delle loro conversazioni testimoniano la loro meraviglia davanti allo spettacolo. Stavano facendo foto della superficie lunare con un macchina equipaggiata con un rullino in bianco e nero, ma, comprensibilmente, hanno sentito il bisogno di passare alla macchina con una pellicola a colori per immortalare il momento storico. Erano i primi esseri umani a godere di questo spettacolo: la Terra splende illuminata dalla luce del Sole mentre tutt’intorno domina un buio profondo. Per la cronaca, l’immagine è stata scattata proprio da Bill Anders, il 24 dicembre 1968, ed è riprodotta nella pagina a fianco Apparentemente disponibile in quantità illimitata nello spazio che ci circonda, il buio è diventato merce rara nella nostra illuminata civiltà che si deve confrontare con un nemico subdolo ma certo non invisibile: l’inquinamento luminoso. Si tratta di un

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prodotto della moderna tecnologia combinata con la nostra ancestrale paura del buio che ci spinge ad illuminare la notte, dimenticando che, per essere utile, la luce deve essere rivolta verso il basso, dove noi viviamo, e non verso l’alto, dove splendono le stelle. È al tempo stesso uno spreco economico e un danno estetico perché se noi illuminiamo male la notte spegniamo le stelle, oltre a fare male a noi e al pianeta. La visione notturna della Terra ad opera dei satelliti è un mezzo straordinariamente potente per rendersi conto del grandissimo spreco che viene perpetrato dalla nostra civiltà. È interessante descrivere con maggior dettaglio questa seconda immagine della Nasa, anch’essa iconica ma allo stesso tempo allarmante (pubblicata nella pagina seguente). È la visione della Terra di notte. Gli incendi delle foreste sono evidenziati in rosso, quelli dei pozzi petroliferi in verde mentre le luci usate dalle flotte da pesca sono in blu. È una fantastica mappa socioeconomica del nostro pianeta dal momento che evidenzia il connubio tra densità abitativa e ricchezza. Con l’eccezione di qualche incendio causato da fulmini, si tratta di luci di natura artificiale, o collegate all’operato dell’uomo.


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CREDIT NASA


CREDIT NASA

ELOGIO DEL BUIO

IL BISOGNO DEL BUIO

L’inquinamento luminoso è una forma di alterazione delle condizioni naturali che, oltre a impoverire il nostro cielo, incide sul bioritmo degli essere umani così come su quello degli animali, degli insetti e delle piante. La grande maggioranza delle forme di vita sulla Terra ha bisogno della notte. La rotazione della Terra impone il ritmo giorno-notte cioè l’alternarsi della luce e del buio. Questo ha portato allo sviluppo di orologi biologici che regolano quello che viene chiamato ritmo circadiano attraverso la produzione di ormoni responsabile del ciclo del sonno e, in generale, del nostro metabolismo. Questo è ancora più vero per il mondo animale, sia tra vertebrati che tra invertebrati, che conta una vasta percentuale di specie notturne. Durante la notte, molte specie vanno a caccia e buona parte degli uccelli migratori volano al buio, magari sfruttando la luce della luna, l’unica sorgente luminosa naturale che, con il suo ciclo, fornisce un altro orologio. Il ciclo giorno-notte è fondamentale per la fotosintesi clorofilliana alla base alla vita delle piante e di tutti gli animali che si nutrono di piante. Questo ciclo naturale è ora radicalmente alterato dall’illuminazione artificiale e questo può causare

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effetti negativi sulla salute degli essere umani, oltre che sulla flora e sulla fauna del nostro pianeta. La presenza delle luci artificiali causa cambiamenti dell’habitat di piante e animali, disturba le migrazioni, la riproduzione, il rapporto predatore-preda causando morti accidentali in quantità tale da fare temere l’estinzione di alcune specie. Negli essere umani, l’illuminazione artificiale ha un impatto molto pesante sulla produzione della melatonina quindi sulla regolazione del ritmo circadiano con aumento dei rischi di tumori ormonali e di altre serie malattie. ILLUMINAZIONE E SALUTE DELLA POPOLAZIONE

La luce è lo stimolo più importante per regolare il ritmo circadiano del nostro corpo. Al calare della sera la ghiandola pineale inizia a rilasciare melatonina, una sostanza che viene prodotta solo di notte e che è uno dei biomarcatori più studiati della fisiologia umana. La melatonina regola il ciclo del sonno: dopo due ore dall’inizio della produzione l’organismo dovrebbe dormire. L’esposizione alla luce durante la notte causa l’immediata soppressione della produzione della melatonina. L’effetto è tanto maggiore quanto più blu e quanto più intensa è la sorgente luminosa anche se è ormai chiaro che gli esseri umani sono fisiologicamente


molto sensibili anche a bassi livelli di illuminazione, tanto al chiuso che all’aperto. Un’illuminazione pubblica eccessiva e mal progettata, oltre a disturbare la visione notturna con pericolosi effetti di abbagliamento finisce per avere effetti negativi sulla salute specialmente nei paesi dove la luce esterna non viene bloccata in modo efficace da tende o tapparelle ed entra negli spazi privati. Anche se sembra difficile da credere, i dati parlano chiaro. In Korea del Sud è stata evidenziata una chiara correlazione tra l’intensità della luce rivelata dai satelliti e la vendita di sonniferi. Sempre in Korea del Sud, paragonando le abitudini le persone che vivono in aree più o meno illuminate si trova che chi vive in zone con maggiore illuminazione ha il 20% di probabilità in più di dormire meno di 6 ore con una differenza media di 30 minuti di sonno tra i due campioni di popolazione. Anche negli Stati Uniti il fatto di abitare in zone molto illuminate aumenta la probabilità di dormire meno di 6 ore e di avere un sonno di scarsa qualità. Una ricerca americana ha evidenziato che il 29% delle persone che vivono in aree molto illuminate lamenta scarsa qualità del sonno mentre nelle aree più buie il numero scende al 16% degli intervistati. Un altro studio condotto su oltre 10mila adolescenti ha messo in evidenza che i disturbi del sonno, connessi con stati di ansia, sono più frequenti nelle aree urbane che nelle aree rurali.

Dormire in una stanza anche debolmente illuminata dall’esterno causa frequenti risvegli e può aumentare il rischio di obesità, alta pressione, diabete e depressione. Ovviamente non possiamo essere matematicamente sicuri che tutte queste conseguenze avverse derivino direttamente dall’illuminazione notturna che altera il ritmo circadiano. Poiché l’illuminazione è correlata al consumo di energia e, quindi, all’inquinamento causato da combustibili fossili, è possibile che la correlazione sia reale ma indiretta: le persone si ammalano a causa dell’inquinamento che però è molto più difficile da misurare rispetto alla luce dispersa verso il cielo. Tornando al legame assolutamente certo tra illuminazione notturna e soppressione della melatonina, occorre notare che, oltre a regolare il ciclo del sonno, la melatonina è un efficace inibitore della crescita delle cellule tumorali. Minor quantità di melatonina significa una maggiore probabilità di sviluppare alcuni tipi di tumore. In un grande studio condotto dall’Università di Harvard su 110mila donne tra il 1989 ed il 2013, l’illuminazione esterna è stata direttamente correlata ad una più alta probabilità di sviluppare il cancro al seno. Le donne che vivevano in zone più illuminate hanno fatto registrare una probabilità di sviluppare il cancro al seno del 14% superiore a quella misurata per donne residenti in aree più buie. Un effetto simile potrebbe essere presente anche per il cancro alla pro-

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ELOGIO DEL BUIO

stata, ma i numeri dei pazienti monitorati non sono così alti come quelli dello studio sul cancro al seno. Sulla base di questi studi, appare evidente che le lampade che usiamo per illuminare tanto gli spazi esterni che quelli interni devono essere progettate per minimizzare le conseguenze negative per la nostra salute ricordando soprattutto che le frequenze blu sono 5 volte più efficaci nella soppressione della melatonina (quindi nel disturbo del ritmo circadiano) rispetto alle lampade di colore più caldo che non emettono radiazione blu. Gli amministratori locali dovrebbero tenere conto di questi dati quando scelgono le lampade da utilizzare per l’illuminazione pubblica. Basta poco per evitare un prodotto potenzialmente nocivo. EFFETTI SU PIANTE E ANIMALI

Circa il 30% dei vertebrati ed il 60 % degli invertebrati è costituito di specie notturne. Questo significa che si sono adattati alle condizioni notturne sviluppando capacità sensoriali adeguate alla poca luce disponibile, sfruttando il ritmo imposto dal ciclo lunare. L’illuminazione artificiale può alterare radicalmente tutto questo causando effetti avversi, purtroppo anche letali, alla vita selvatica. Tutti sappiamo che le luci attirano gli insetti. D’estate capita spesso di vedere vere e proprie nuvole di insetti raccolti intorno ai lampioni stradali specialmente quelli che emettono anche luce blu e violetta. Per quanto comune, è un fenomeno locale ma, in

presenza di grandi concentrazioni di luci, le nuvole di insetti possono assumere proporzioni tali da essere viste dai radar metereologici. È successo a Las Vegas che, tra giugno e luglio del 2019, ha vissuto un’invasione di decine di milioni di cavallette il cui cammino attraverso il Nevada è stato tracciato con i dati radar delle stazioni meteo. Anche se questi mega affollamenti sono abbastanza rari, rimane vero che, anche a livello locale, le luci alterano la distribuzione sul territorio degli insetti che lasciano il loro habitat naturale perché attirati dalle luci. Alcuni predatori imparano la lezione e li vengono a cercare dove si affollano mentre altri, timorosi della luce, fanno molto più fatica a nutrirsi. È quello che succede per specie già in pericolo come certi pipistrelli e anfibi, ma, in ultima analisi le luci artificiali sono nemiche delle biodiversità perché possono influire negativamente su tutto il ciclo vitale ad iniziare dalla riproduzione. Infatti sono moltissimi gli insetti che utilizzano la luce per attirare un partner e procedere all’accoppiamento. Nel caso degli uccelli migratori, le luci artificiali possono esercitare azione di disturbo che può essere tanto attrattiva quanto repulsiva. Molte specie sono attratte dalle luci e deviano dalle loro rotte per avvicinarsi, mentre altre le evitano accuratamente. L’attrazione può avere conseguenze fatali, come già notato un secolo fa in vicinanza dei fari e cinquant’anni più tardi per le luci degli aeroporti. Gli uccelli sensibili

UN LIBRO PER APPROFONDIRE IL TEMA Inquinamento luminoso e inquinamento di materiali geospaziali. Mentre il cielo è abbagliato dalle luci antropiche delle nostre metropoli, l’atmosfera terrestre è satura di satelliti artificiali, con i detriti che vagano nello spazio. Un problema che Patriza Caraveo affronta analizzandone le differenti cause, nella speranza che l’Onu affronti seriamente la questione, magari anche aggiornando l’Outer Space Treaty, e ponendo un limite alla proliferazione di entrambi. (G.P)

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al fascino della luce sono presenti in numero troppo alto nelle aree urbane che offrono meno cibo rispetto ad aree rurali. Inoltre, in città c’è un alto rischio di collisioni mortali con i palazzi specialmente se hanno grandi superfici di vetro. Sicuramente, gli stormi di uccelli volano ad altezza maggiore sopra le città rispetto alle aree rurali. Anche i movimenti degli animali che non volano sono influenzati dalla presenza delle luci artificiali. Le aree illuminate possono diventare Blind ecological spot, evitate dalle specie notturne, disturbate dalla luce, e poi anche da quelle diurne che hanno meno cibo a disposizione. Nelle zone illuminate delle Alpi, per esempio, l’assenza degli impollinatori notturni ha come conseguenza una diminuzione anche di quelli diurni, che hanno perso una sorgente di cibo, con conseguenze negative per tutta l’ecologia dell’ambiente alpino. L’assenza di animali si riflette anche sulla vegetazione che risente della riduzione dell’impollinazione e della dispersione di semi. Passando dalla terra all’acqua, è ben noto come la presenza di luci artificiali confonda le piccole tartarughe marine appena nate che, invece di dirigersi verso l’oceano, procedono in direzione sbagliata, con conseguenze catastrofiche. Moltissime specie acquatiche variano la loro profondità in funzione della luce e possono reagire all’illuminazione artificiale vuoi avvicinandosi alla superficie, vuoi inabissandosi. Questi spostamenti alterano il rapporto predatorepreda perché uno dei due (o entrambi) non si trovano alla profondità dove dovrebbero essere. Le creature marine sono anche molto disturbate dall’inquinamento sonoro che viene continuamente prodotto dalle eliche delle navi e dai potenti cannoni ad aria compressa utilizzate per le prospezioni sottomarine. È un altro esempio della nostra capacità di variare le condizioni naturali di un ecosistema

fondamentale per la salute del nostro pianeta. Dal punto di vista delle piante, le luci artificiali allungano la durata del giorno e questo può indurre un albero illuminato ad avere foglie più grandi ma più sensibili all’inquinamento perché i pori stomatici rimangono aperti per più tempo. Inoltre, un albero illuminato perde la percezione della diversa lunghezza del giorno in relazione alle stagioni e, finita l’estate, continuare a crescere anche quando sarebbe meglio fermarsi in attesa dell’inverno. Se un albero non perde le foglie a tempo debito, rischia danni significativi durante le tempeste di neve invernali. Ovviamente, non tutti gli alberi sono ugualmente sensibili alla luce artificiale e questa diversa suscettibilità dovrebbe essere tenuta in considerazione quando si scelgono le piante da mettere a dimora in aree illuminate. Tuttavia, rimane vero che bisognerebbe evitare di proiettare luce sulle piante. Un giardino illuminato può essere gradevole da vedere ma se le piante potessero parlare chiederebbero di essere lasciate al buio. ■ PATRIZIA CARAVEO È stata direttore dell’istituto di Astrofisica Spaziale e Fisica Cosmica di Milano ed è coinvolta in diverse missioni: NASA Swift, Agile e NASA Fermi, progetto Cherenkov Telescope Array. Nel 2009 ha ricevuto il Premio Nazionale Presidente della Repubblica. Nel 2017, è stata nominata Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana. A giugno 2021 le è stato riconosciuto il Premio Enrico Fermi 2021 della Società Italiana di Fisica (Sif). Fa parte del “Gruppo 2003” per la ricerca scientifica e anche delle “100donne contro gli stereotipi”.

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IL CIELO STELLATO SOPRA DI ME

RIPENSARE LA MACCHINA DEL MONDO Coniugare poetica e astrofisica, Genesi e Big Bang, Dante e Mallarmé. L’opera in versi di Haroldo de Campos. Piero Boitani

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ra i tremila e i duemilacinquecento anni fa, la Grecia arcaica elaborò la prima meditazione sulla natura e la formazione del cosmo. Aristotele ci ha trasmesso nella Metafisica un elenco di pensatori che avevano proposto una serie di cause materiali della struttura del cosmo, i “principi”: Talete, l’acqua; Anassimene e Diogene, l’aria; Eraclito, il fuoco; Empedocle, tutti e quattro gli elementi; Anassagora, principi infiniti. Omero e altri avevano puntato su Oceano e Teti, Esiodo e Parmenide su Eros. Alcuni presocratici si erano accorti di quanto inutile fosse postulare solo principi materiali ed erano ricorsi alle cause che Aristotele chiamerebbe «efficienti», cioè a un livello di astrazione superiore. Empedocle aveva pensato alla Amicizia e alla Discordia, o Conflitto; Anassagora era andato ancora più in là, immaginando una Nous, un’Intelligenza ordinatrice. Nella recensione di Aristotele vengono poi gli Atomisti Leucippo e Democrito, e infine i Pitagorici. È importante notare almeno un particolare: tra tutti questi autori, almeno quattro – Omero, Esiodo, Parmenide ed Empedocle – scrivono in versi, come del resto farà il romano Lucrezio nel suo bellissimo De rerum natura. Nessuno tra gli antichi si sarebbe scandalizzato del fatto che la «filosofia naturale», cioè la fisica e l’astrofisica, si servissero della poesia

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per esprimersi. E gli esempi non mancano, da Arato a Manilio nell’antichità, a Bernardo Silvestre, Alano di Lilla e Dante nel Medioevo, Scève e Du Bartas nel Rinascimento, sino a Erasmus Darwin nel Settecento, e oltre. Ogni poeta di rilievo sentiva l’obbligo di descrivere e interpretare l’universo nella propria opera. Nella tradizione portoghese, questo obbligo viene assolto da Luis de Camões nei suoi Lusiadi, il poema che divenne il classico portoghese per eccellenza e che narra la spedizione di Vasco da Gama verso l’India. Nel Canto X, la dea Teti mostra a Vasco quella che chiama a máquina do mundo: «eterea, elementare, fabbricata / come fu dal Sapere alto e profondo / che principio non ha, né fine data». È la struttura del cosmo, con i cieli aristotelico-tolemaici e l’Empireo che tutti concentrici li contiene, le stelle splendenti e i pianeti, la Terra (e la sua geografia, dall’Europa all’India). Una visione, probabilmente, ispirata dal Tratado da Esphaera di Pedro Nunes (1537), esso stesso una rielaborazione del Sacrobosco e del Peurbach. Poesia “alta”, per molti versi sublime. Negli anni Trenta del Novecento fu ripresa da Carlos Drummond de Andrade, il maggiore poeta brasiliano della prima metà del secolo, con una lunga lirica di inclinazione esistenzialista e a un tempo


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IL CIELO STELLATO SOPRA DI ME PIERO BOITANI Piero Boitani, socio di Accademia dei Lincei, British Academy, Medieval Academy of America e Istituto Nazionale di Astrofisica, ha insegnato Letterature comparate alla Sapienza di Roma e all’Università della Svizzera Italiana. Dantista, anglista, studioso del mito e della Bibbia, ha svolto anche attività di traduzione. Dirige la Collana degli “Scrittori greci e latini” della Fondazione Lorenzo Valla. Scrive su L’indice dei libri del mese e Il Sole 24 ore. Ha vinto il Premio Feltrinelli dei Lincei per la Critica Letteraria, il Premio De Sanctis, il Premio Balzan Letteratura.

metafisica, A Máquina do Mundo, essa stessa entrata nel canone dei classici di lingua portoghese: una visione che si apre all’improvviso, con calma, per il poeta mentre percorre una strada petrosa nel Minas Gerais: «maestosa e circospetta», senza suono, «quella ricchezza / superiore ad ogni perla, / quella scienza sublime e formidabile, ma ermetica, / quella totale spiegazione della vita», e tutto ciò che è, l’«assurdità primordiale» con i suoi enigmi: ecco, appare «in quel frangente» e poi, quando lui è incapace di accoglierla e di risponderle, e abbassa gli occhi rifiutando l’invito, allora la macchina del mondo, respinta, va rifacendosi nella «tenebra più stretta», mentre il poeta prosegue «vago», valutando ciò che ha perso, «con le mani abbandonate». Quella di Drummond de Andrade è la cronaca di una sconfitta autoimposta, di una rinuncia alla conquista o all’accoglimento della scienza. Ma quando, nel 2000, il maggiore poeta brasiliano della seconda metà del secolo XX, Haroldo de Campos, pubblicò la sua A Máquina do mundo repensada, tutto cambia. Haroldo si prepara accuratamente per quell’impresa, dando alla luce Xadrez de estrelhas già nel 1976 e Signantia Quasi Coelum nel 1979, poi Galaxias nel 1984, e soprattutto traducendo – «transcreando», come diceva lui – Dante (Umberto Eco la definiva la migliore traduzione in assoluto della poesia dantesca) e studiando a fondo i Libri biblici della Genesi, di Giobbe e di Qohelet con Bere’shith. A Cena da Origem: mentre leggeva con entusiasmo le opere maggiori di Galileo, Newton, Laplace, Maxwell, Poincaré, Einstein, Planck e Monod. In Crisantempo, la raccolta immediatamente precedente alla Máquina, che alla fine comprese anche il bellissimo poemetto su Ulisse,

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Finismundo: a última viagem, Haroldo ha incluso una «transluminura» del frammento di Saffo sugli astri, e aperto la collezione con This planetary music for mortal ears, una lirica che prende il suo titolo dalla Defence of Poetry di Shelley per celebrare la musica delle sfere. Il tentativo di Haroldo non è dissimile da quello compiuto da un altro poeta latino-americano, il nicaraguense Ernesto Cardenal, col suo fenomenale Cántico cósmico del 1989, del quale mi sono occupato altrove. Tuttavia, mentre Cardenal compone un lungo, possente poema, Haroldo sceglie la brevità di centocinquantadue terzine e un verso, la concentrazione di poesia, astrofisica e mito biblico per allusioni e immagini rapidissime e cangianti. Come Drummond de Andrade imposta in primo luogo l’opera in termini esistenziali, collocando nel suo settantesimo anno il mezzo del cammin dantesco e, su quel modello, il «varcare cantando» di Paradiso II: «vou cantando / e no cantar tresvairo». Distribuisce quindi la materia in tre sezioni: la prima legata al cosmo aristotelico-tolemaico di Camões, la seconda a quello di Copernico, Galileo, Keplero e Newton, la terza infine a quello di Einstein, di Planck e dell’astrofisica moderna: radiazione di fondo, Big Bang, espansione. Non è facile far poesia della scienza di oggi, senza far uso dei suoi criteri quantitativi (matematici) e senza neppure toccare le impostazioni qualitative degli antichi, o le teorie dell’emanazione neoplatonica, oppure le categorie aristoteliche (forma e maeria, potenza e atto) impiegate da Dante in Paradiso XXIX. L’unica cosa sulla quale il poeta contemporaneo può fare affidamento è la lingua, fortemente improntata al Joyce di Ulisse e di Finnegans Wake: la variazione più o meno eclatante sul testo dei Lusiadi, l’invenzione di neologismi e sequenze verbali e ritmiche che intrighino e streghino il lettore. Per esempio, Haroldo asciuga, purifica, contrae la prima descrizione della máquina di Camões, quella del cerchio dello Zodiaco, mantenendo però, e anzi esaltando, i tratti più caratteristici. Olha estoutro debaxo, que esmaltado De corpos lisos anda e radiantes, Que também nele tem curso ordenado E nos seus axes correm cintilantes. Bem vês como se veste e faz ornado Co largo Cinto d’ouro, que estelantes Animais doze traz afigurados, Apousentos de Febo limitados Vedine sotto un altro, che smaltato


è di lucidi corpi e rutilante: percorso, dentro lui, fanno ordinato e corron nei propri assi scintillanti. Osserva come sta vestito e ornato d’una cintura d’oro, che stellanti reca dodici fiere figurate, ch’offrono a Febo soste limitate. Haroldo ‘transcrea’ al modo seguente (i corsivi indicano le mutuazioni): «i vivi // stellanti lumi risplendenti / nell’aurea cintura di smalto vario / a concatenare i segni sempremoventi»: os vivos estelantes luzeiros resplendentes em áureo cinturão de esmalte vário encadeando os sinais sempremoventes Il modello dantesco lo porta a eliminare i versi (e i particolari) che giudica superflui o eccessivi, e un’intera ottava viene ridotta a terzina. Naturalmente, non manca il gioco di parole. Un momento divertente, ma non superficiale, di questo, sul piano filosoficopoetico, presenta l’azione del caso, citando la celebre frase di Einstein, «Dio non gioca ai dadi», e subito dopo invertendo quella altrettanto famosa di Mallarmé, «un coup de dés jamais n’abolira l’hasard», in «ao azar / jamais abolirá un coup de dés».

Una rappresentazione iconica e colorata del Cosmo e delle interazioni tra differenti galassie.

HAROLDO DE CAMPOS Nato a São Paulo nel 1929 e morto a São Paulo nel 2003. Con il fratello Augusto e Decio Pignatari ha fondato negli anni Cinquanta la «poesia concreta». Ha insegnato a lungo all’Università Cattolica della sua città, ma anche a Yale e alla University of Texas at Austin. Vincitore del Premio Octavio Paz per la poesia e la saggistica nel 1999, ha segnato la cultura brasiliana con la propria lirica e le proprie traduzioni, che comprendono l’Iliade, la Genesi e altri libri della Bibbia, brani della Divina commedia, di Joyce e Mallarmé.

Trasposizioni ovvie fanno marciare il poemetto verso la modernità: la selva dantesca all’inizio dell’Inferno diventa il sertão di Guimarães Rosa, l’alfa cristiano alef ebraico e borgesiano. Ma è nella terza sezione del poemetto che Haroldo combatte la sfida decisiva, quello che Dante chiamava «aringo», la lotta con l’inespresso e sin lì inesprimibile. Sa che è la scommessa definitiva della parola e della vita, tanto che richiama in una sola terzina «l’anno settuagesimo della sua età» e l’esplosione dell’uovo cosmico. Ed è qui che si incontrano l’astrofisica moderna e il Bereshit, il Principio (o «capo») della Genesi, le «estilahaços de fogo de primeva pulsão», le schegge di fuoco della pulsazione primeva, e il «fogoágua»: e la radiazione di fondo che ne è testimonianza «surge da lonjura / de galáxias perdidas como envio / de memória estelar revivescente»: sorge dall’oltre (ma anche: dalla lontananza) di galassie perdute come invio di memoria stellare che rivive. Sono presenti qui, per dichiarazione esplicita dell’autore nel testo stesso, i libri «cabalistici» («no començar/no encabeçar») e il commento di Rashi di Troyes alla Genesi («shamáyin / “fogoágua”»). Come già in Bere’shith, Haroldo infatti segue il midrash che scompone shamayim (cielo) in ’esh (fuoco) e mayim (acqua), e legge in reshit, secondo una parte della tradizione, la forma del costrutto della parola rosh, che vuol dire «testa»: perciò «no encabeçar» insieme a «no començar». È evidente però come il tessuto della poesia si avviluppi in grumi che, a partire dalla terzina 89 e sino alla 94, rendono il cammino accidentato prima di giungere allo scioglimento nella terzina 96. Vediamo: in 89, conclusa l’interiezione sulla sua età,

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IL CIELO STELLATO SOPRA DI ME il poeta affronta l’esplosione dell’uovo cosmico e il Big Bang; in 90, prosegue con l’eiezione delle schegge infuocate dalla «pulsione primeva», e subito vi associa il bereshit biblico, con le varianti interpretative che abbiamo visto – libri cabalistici e Rashi – le quali occupano tutte le terzine da 91 a 93 e forniscono le immagini del «mitico nome del cielo», «dal cielo alla terra sopra-assente» e del «bruciante / cristallo che intorno fluisce al sublime / trono divino». Ritorna poi al Big Bang con lo straordinario enjambement concettuale tra la fine di 93 e l’inizio di 94. La «figura» del Big Bang rilevata dagli strumenti moderni nella radiazione di fondo occupa le terzine 94 e 95. Quindi, si scioglie nella 96. Si tratta, nel complesso, di cinque balzi da un livello all’altro – da quello scientifico a quello biblico a quello esegetico a quello mitico e di nuovo a quello scientifico – che formano per il lettore una sorta di sequenza da montagne russe. Se ci si ferma a considerarla con calma, si vede la portata dell’invenzione di Haroldo, che parifica i cinque tipi di discorso, introducendo per di più in essi quello esegetico: in tutto alieno, normalmente, dalla poesia. Alla fine, tuttavia, la scrittura s’impenna, e i primi due versi della terzina 96 segnano il culmine del poemetto nella fusione di poesia e scienza, quando il «bruciante / cristallo che intorno fluisce al sublime / trono divino» diviene Big Bang in figura «vermiglio-

estrema» di un «desvio / espectral da luz» che sorge «de galáxias perdidas como envio / da memoria estelar revivescente». Lo scostamento dello spettro luminoso si trasforma in deviazione spettrale della luce che scaturisce dalla distanza – dall’allontanarsi delle galassie perdute – quasi inviasse stellare memoria “rivivescente”. Il neologismo finale, di stampo dantesco, suggella l’eco del lontanissimo lume astrale che pure si rinnova continuamente. Sono versi che personalmente associo ad alcuni fra i più belli di Giacomo Leopardi, che ne La ginestra descriveva il cosmo come appariva a chi sapesse d’astronomia all’inizio dell’Ottocento. Essi possiedono, in tutt’altro contesto, la medesima potenza evocativa: Sulla mesta landa in purissimo azzurro veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, cui di lontan fa specchio il mare, e tutto per lo vòto seren brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, ch’a lor sembrano un punto, e sono immense ... e quando miro quegli ancor più senz’alcun fin remoti nodi quasi di stelle, ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo e non la terra sol, ma tutte in uno, del numero infinite e della mole,

IL NUOVO LIBRO DI PIERO BOITANI Si chiama Verso l’incanto (Laterza) e sfidando ogni tautologia possiamo dire che, in effetti, si tratta di un libro incantevole. Un’erudizione sconfinata ma senza affettazione, anzi sempre scorrevole, è la cifra stilistica di queste “lezioni sulla poesia”. Nell’introduzione Boitani, non senza un filo di compiaciuta ironia, cita quel Michael Longley che aveva detto: «Non ho la più pallida idea da dove venga la poesia, o dove vada quando scompare. Il silenzio fa parte dell’impresa». Tuttavia, è una vera disamina quella che l’autore offre lungo 280 pagine alla ricerca del senso poetico. Da cosa scaturisce, per quali motivi? Come scrive l’autore, «c’è, nella poesia, un elemento consistente di follia: comune peraltro nei tempi più antichi anche alla filosofia e alla “scienza”. Nella Grecia arcaica, “scienziato” e poeta erano la stessa persona, e perfino a tener conto dell’avvertimento di Aristotele che mettere Erodoto in versi non fa poesia, nessuno nella

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Grecia più antica avrebbe considerato pazzo un filosofo naturale». Si potrebbe convenire che il farsi della poesia attraversi tre stadi. Il primo, come si può notare nel “tondo” che Raffaello le ha dedicato, parte come «Numine afflatur: è ispirata da un Nume». E quasi mai pacificamente. C’è del furore, benché nel sublime; c’è anche il Daimon che, come ha scritto William Butler Yeats, «è il nostro destino». Il secondo step è la meraviglia. Una linea di ammirato stupore che attraversa i millenni, dagli Inni Omerici a Shakespeare. Il terzo è l’incanto. Con ingiusta semplificazione, diciamo che ne costituisce la versione matura e stabilizzata, scevra dagli affondi degli dei irati. Come scrive Piero Boitani: «L’incanto non comporta un colpo, una ekplexis, né uno “stordimento d’animo”, ma ha gradazioni che vanno dallo stregare all’addolcire, dal mitigare al sedurre, dall’avvincere al dilettare». (Gabriella Piroli)


con l’aureo sole insiem, le nostre stelle o sono ignote, o così paion come essi alla terra, un punto di luce nebulosa… Chi guarda al Principio, però, non può non pensare anche alla Fine. La creazione iniziata nella Genesi termina soltanto con l’Apocalisse. Cosa, quindi, viene dopo? «Uma épica»? Un «desastre de astros»? La caduta di una «gigantesca stella blu»? Una «danzante poetica dell’universo»? Una «inestática vibrância»? L’universo si espande a partire dal Big Bang. Ma l’espansione finisce? E quando? E in qual modo? Forse è «ocaso de escarlate supernova» divenuta ora «estrela de nêutrons em vacância»: pronta a svanire quando sia messa alla prova di resistenza alla gravità e soccomba «à negra / voragem» di un buco nero. All’espansione potrebbe seguire la contrazione, verso l’entropia terminale: «stelle moriture / in una cadaverica oscurità / fredde tracce d’astro e fori-sepolture». «Desconsolada gesta», commenta Haroldo, «assim termina? / no fim do fim o que há? o que futura // no ante-início do início e o ilumina?». La tensione espressiva di questa escatologia fisica è enorme, e il poeta, che sente farsi «meriggio / nel suo tempo terracqueo», rimpiange per un attimo la «via stretta» di Dante, il «sertão d’entro-sentieri» e il confortevole cosmo tolemaico di Camões e Vasco de Gama. Prosegue, invece, verso i neutrini, i processi urca, e, dopo un lungo excursus, verso i dubbi e le domande con i quali il poemetto si chiude: «dov’è il bereshit – il primo gene – / imbevuto di elohim»? Soprattutto, deve il poeta – l’uomo – «fingere un’ipotesi tra il no e il si», o guardarsi nello «specchio del perplesso»? Raccogliersi in sé oppure cercare il «nesso» esterno a tentoni. Osservare il paradosso dell’«allo stesso modo» o discutere «l’angelo e il sesso» dell’«all’altro modo». La conclusione è un’invocazione ripetuta e lasciata in sospeso nell’ultimo verso, quello che eccede le centociquantadue terzine: «O nexo o nexo o nexo o nexo o nex». Fare poesia dell’astrofisica e della cosmologia dei nostri giorni – senza impiegare la matematica – è molto difficile. Ma Haroldo de Campos ci mostra che non è impossibile, che usando le parole come particelle elementari, torcendo il linguaggio in nodi e giochi, mescolando la Bibbia e Dante alla relatività e all’indeterminazione, Einstein e Mallarmé, si può riuscire a creare quella che egli chiama un’ombrapenombra dell’universo e a mostrarne l’importanza

La costellazione di Cassiopea è nota dall’antichità e Tolomeo la include nell’elenco di 48 ammassi stellari.

nella vita di ciascuno. Il cosmo del XXI secolo è, ancora una volta, aperto: gli scienziati cercano la Teoria del Tutto, il poeta invoca il «nesso». Per inciso: la serata del 23 marzo 2001, quando Haroldo venne a casa mia a Roma portandomi in dono A máquina do mundo repensada, terminò abbastanza presto. Dopo cena, verso le 10, Haroldo si congedò. Aveva, disse, prenotato un taxi per le 4 di mattina per andare a Recanati a vedere il «Colle dell’Infinito», l’altura del Monte Tabor dalla quale Giacomo Leopardi tentava, oltre la siepe, di guardare verso «l’ultimo orizzonte» e immaginava «interminati spazi» e «sovrumani silenzi» e «profondissima quiete». Negli occhi di Haroldo brillava già un sorriso d’anticipazione. Forse si aspettava che l’Infinito concludesse la sua Máquina. ■

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI HAROLDO DE CAMPOS, L’educazione dei cinque sensi, a cura di Lello Voce, con testi a fronte e traduzioni di Daniela Ferioli (e due ricordi di Umberto Eco e Augusto de Campos), Edizioni Metauro, 2005. HAROLDO DE CAMPOS, Traduzioni, transcreazioni, saggi, a cura di Andrea Lombardi e Gaetano D’Itria, nota introduttiva di Umberto Eco, Oèdipus, 2016 HAROLDO DE CAMPOS, Pedra e Luz na Poesia de Dante, Imago, 1998. HAROLDO DE CAMPOS, Bere’shith. A Cena da Origem, Edit. Perspectiva, 2000. HAROLDO DE CAMPOS, Crisantempo, Perspectiva, 1998, che include anche il poemetto su Ulisse, Finismundo: A última viagem (1996). HAROLDO DE CAMPOS, Depoimentos de oficina, Unimarco Editora, 2002.

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CICLI MACROECONOMICI

UN FUTURO

TECNOFEUDALE Cresce il dibattito tra gli economisti sulla formula che potrà sostituire il capitalismo del Novecento. È originale e radicale la visione dell’ex Ministro delle finanze greco. Yanis Varoufakis

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cco come sta finendo il capitalismo: non nel clamore di una rottura rivoluzionaria, ma con una piagnucolante evoluzione. Proprio come esso ha sostituito il feudalesimo poco alla volta, in modo impercettibile, finché un giorno la maggioranza delle relazioni umane ha avuto una base mercantile e il feudalesimo è stato spazzato via, così il capitalismo oggi viene rovesciato da una nuova modalità economica: il tecno-feudalesimo. Si tratta di una affermazione forte che arriva sulla scia di molte previsioni premature sulla fine del capitalismo, formulate specialmente da sinistra. Ma questa volta potrebbe essere tutto vero. Gli indizi erano visibili da un po’. I prezzi delle obbligazioni e delle azioni, che dovrebbero variare con tendenza nettamente opposta, sono saliti alle stelle all’unisono, di tanto in tanto calando, ma sempre con andamento correlato. Allo stesso modo, il costo del capitale (il tasso di rendimento che spetta al possessore di un titolo) avrebbe dovuto diminuire con la volatilità; invece è aumentato man mano che i rendimenti futuri diventavano più incerti. Forse il segno più chiaro che sta accadendo qualcosa di serio si è manifestato il 12 agosto dello scorso anno. Quel giorno abbiamo appreso che nei primi sette mesi del 2020 il Pil del Regno Unito ha subito un calo del 20%, ben oltre le più allarmanti previsioni. Pochi minuti dopo, la Borsa di Londra ha registrato un rialzo del 2%. Non era mai accaduto nulla di simile. La finanza

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si era completamente sganciata dall’economia reale. Ma questi aumenti di valore senza precedenti significano davvero che non viviamo più in un regime capitalista? Dopotutto, il capitalismo ha già subito trasformazioni fondamentali in passato. Non dovremmo semplicemente prepararci alla sua prossima incarnazione? Io ritengo di no. Quello che stiamo vivendo non è semplicemente l’ennesima metamorfosi. È qualcosa di più profondo e preoccupante. Il capitalismo, infatti, ha subito almeno due trasformazioni estreme dalla fine del XIX secolo. La prima grande trasformazione, il passaggio dal primato competitivo all’oligopolio, è avvenuta con la seconda rivoluzione industriale, quando l’elettromagnetismo ha dato avvio alle grandi concentrazioni aziendali e alle megabanche necessarie a finanziarle. Ford, Edison e Krupp hanno sostituito il fornaio, il birraio e il macellaio di Adam Smith come motori primi della storia. Il successivo ciclo turbolento di mega-debiti e mega-rendimenti ha portato infine al crollo del 1929, al New Deal e, dopo la seconda guerra mondiale, agli Accordi di Bretton Woods – che, con i loro vincoli finanziari, hanno garantito un raro periodo di stabilità. La fine di Bretton Woods nel 1971 ha innescato la seconda trasformazione del capitalismo. Mentre il crescente deficit commerciale dell’America è diventato il fornitore mondiale di domanda aggregata – risucchiando le esportazioni nette di Germania, Giappone e, più tardi, Cina – gli Stati Uniti hanno alimentato la


fase di globalizzazione più energica del capitalismo con un flusso costante di profitti tedeschi, giapponesi e, in seguito, cinesi verso Wall Street che finanziava il tutto. Per svolgere il loro ruolo, tuttavia, i funzionari di Wall Street hanno chiesto l’emancipazione da tutti i vincoli del New Deal e di Bretton Woods. Con la deregolamentazione, il capitalismo oligopolistico si è trasformato in capitalismo finanziario. Proprio come Ford, Edison e Krupp avevano sostituito il fornaio, il birraio e il macellaio di Smith, i nuovi protagonisti del capitalismo erano Goldman Sachs, JP Morgan e Lehman Brothers. Anche se queste trasformazioni radicali hanno avuto ripercussioni epocali (la Grande Depressione, la Seconda Guerra Mondiale, la Grande Recessione e la Lunga Stagnazione iniziata dopo il 2009), non hanno alterato la caratteristica principale del capitalismo: un sistema guidato dal profitto privato e dalle rendite stabilite da un mercato. Sì, la transizione dal capitalismo alla Adam Smith al capitalismo oligopolistico ha aumentato i profitti in modo smisurato e ha permesso alle multinazionali di usare il loro enorme potere di mercato (grazie a una ritrovata libertà dalla concorrenza) per ricavare grandi rendite dai consumatori. Sì, Wall Street ha accumulato utili sotto forma di rapine pubbliche alla luce del giorno basate sul mercato. Tuttavia, sia l’oligopolio che il capitalismo finanziario sono veicolati da profitti privati alimentati da rendite ricavate dal mercato – monopolizzato per esempio da General Electric o Coca-Cola o manipolato da Goldman Sachs. Poi, dopo il 2008, tutto è cambiato. Da quando le banche centrali del G7 si sono associate nell’aprile 2009 con l’intento di potenziare la propria capacità di conio per rilanciare la finanza globale, è emersa una profonda discontinuità. Oggi l’economia globale è alimentata dall’emissione costante di moneta della banca centrale, non dal profitto privato. Nel frattempo, la ricerca di remunerazione si è spostata sempre più dai mercati alle piattaforme digitali, come Facebook e Amazon, che non operano più come aziende oligopolistiche, ma piuttosto come feudi o proprietà private. Il fatto che siano i bilanci delle banche centrali, e non i profitti, a sostenere il sistema economico spiega cosa è successo il 12 agosto 2020. Dopo aver sentito la triste notizia, i finanzieri hanno pensato: «Fantastico! La Banca d’Inghilterra, in preda al panico, stamperà ancora più sterline e ce le girerà. È il momento di comprare azioni!». In tutto l’Occidente le banche centrali emettono valuta che i finanzieri prestano alle

Altre informazioni al sito www.yanisvaroufakis.eu

società, che poi la usano per riacquistare le loro azioni (i cui prezzi non sono più collegati ai profitti). Nel frattempo, le piattaforme digitali hanno sostituito i mercati come luogo in cui i privati possono accumulare ricchezza. Per la prima volta nella storia, quasi tutti producono gratuitamente capitale sociale per le grandi società. Ovvero caricando materiali su Facebook o spostandosi mentre si è collegati a Google Maps. Non è, ovviamente, che i settori capitalistici tradizionali siano scomparsi. All’inizio del XIX secolo, molte istituzioni sociali di tipo feudale sono ancora intatte, ma quelle capitalistiche hanno cominciato ad assumere il predominio. Oggi queste ultime mantengono le posizioni, ma quelle tecnofeudali hanno iniziato a superarle. Se ho ragione, ogni misura di correzione è destinata a essere al tempo stesso troppo stimolante o troppo blanda. Nessun tasso di interesse potrà essere conciliabile con la piena occupazione senza provocare bancarotte aziendali a catena. È finita la politica impostata sulla lotta di classe tra partiti che favoriscono il capitale e altri che sostengono i lavoratori. Ma mentre il capitalismo potrebbe finire con un debole gemito, il botto a seguire potrebbe non farsi attendere a lungo. Se coloro che sono i destinatari dello sfruttamento tecno-feudale e della disuguaglianza ipnotica troveranno il modo di far sentire la loro voce collettivamente, potrebbe essere un botto molto forte. Traduzione a cura di Mariagrazia Pelaia ■

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EXHIBITION

MARIO SIRONI Duro, energico, grandioso, disperato. Al Museo del Novecento di Milano, fino al 27 marzo. Elena Pontiggia

L Dal 23 luglio scorso al 27 marzo 2022 è possibile ammirare 110 opere di Mario Sironi al Museo del Novecento di Milano. È una grande retrospettiva, curata da Elena Pontiggia e Anna Maria Montaldo, accompagnata da un catalogo della casa editrice Ilisso, sponsor della mostra, allestita in collaborazione con Andrea Sironi-Strausswald (Associazione Mario Sironi, Milano) e Romana Sironi (Archivio Mario Sironi di Romana Sironi, Roma).

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a mostra del Museo del Novecento ricostruisce tutto il percorso espressivo dell’artista. Sironi è stato un pictor classicus intriso di romanticismo e un romantico innamorato della classicità. Nella sua pittura la dimensione classica convive infatti con una tonalità drammatica ed espressionista, e proprio in quella concordia discors consiste l’altezza della sua arte. Nell’Autoritratto del 1904-5, uno dei più intensi della sua stagione giovanile, non si rappresenta “da pittore”, con pennelli e tele davanti al cavalletto, ma sottolinea la dimensione drammatica della sua sensibilità. L’arte, sembra dire, non è ornamento e mestiere, ma tensione e pathos. Nel 1913 Sironi aderisce al futurismo, dunque con un certo ritardo rispetto alla nascita del gruppo (1910), nonostante la precoce amicizia che lo aveva legato a Boccioni e a Severini. La sua stagione più famosa però è legata ai Paesaggi urbani, che dipinge tutta la vita ma che intensifica dopo l’arrivo a Milano nel 1919. Sironi è stato, con de Chirico, il maggior pittore di architetture del Novecento. Per lui, anzi, la pittura coincide con l’architettura: non perché rappresenta degli edifici, ma perché edifica delle forme. Le sue Periferie sono architetture compatte, imponenti, simbolo di una radicale volontà di ricostruire la forma dopo le scomposizioni e le frammentazioni delle avanguardie. Per questo sono prive di quegli elementi irregolari e volatili (nuvole, foglie, fiori, erbe, acque) che avevano contraddistinto le città dipinte dagli impressionisti, come sono prive di quegli elementi dinamici e analitici che avevano contrassegnato le città dipinte dai futuristi. Sono composizioni dure, senza ornamenti, e si possono considerare un simbolo della durezza della vita. Occorre però non equivocare sull’asprezza della pittura sironiana. In questo senso può esserci d’aiuto Margherita Sarfatti, che vi coglieva già nel 1920 non solo la gravità e la tragicità della visione, ma anche la saldezza classica, l’energia, la grandiosità delle forme. Insomma, una risposta alla sfida.



Il camion giallo, 1919. A fianco, Il pescivendolo, 1925. Nelle pagine precedenti, Autoritratto, 1904 e Paesaggio urbano, 1925-28. Tutte le immagini sono Credit Siae 2021



Pandora, 1921-22. A fianco, Nudo e albero, 1931. Credit Siae 2021



Composizione (Cavalli in fuga e caduto), 1942. A fianco, Composizione (La fata della montagna), 1928. Credit Siae 2021



CROSSOVER

GENDER OR NOT GENDER (THAT IS THE QUESTION) Giorgia Serughetti

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a parola “genere” è entrata nel lessico accademico e politico italiano a partire dalla metà degli anni Settanta, attraverso la ricezione e traduzione di saggi importanti del dibattito e della ricerca femminista in lingua inglese. In particolare, è con l’articolo dell’antropologa Gayle Rubin, The Traffic in Women (1975), che fa la sua comparsa la distinzione tra “sesso” e “genere”. Qui l’autrice analizza quello che lei chiama «sex/gender system», ovvero l’insieme dei dispositivi tramite i quali una società trasforma la sessualità biologica in prodotto dell’attività umana, cioè attraverso cui «il bruto istinto biologico del sesso e della procreazione è organizzato e soddisfatto». Ciò che si deve intendere per gender, in questa lettura, è l’insieme delle norme sociali che organizzano la distinzione tra donne e uomini e l’attribuzione di ruoli. Scrive Rubin, «noi non siamo oppresse solo come donne, siamo oppresse per dover essere donne o uomini, a seconda dei casi». Pertanto, per lei, il movimento femminista dovrebbe ambire a eliminare i ruoli imposti, a «costruire una società androgina, senza genere (anche se non senza sesso), nella quale l’anatomia di una persona sia irrilevante per stabilire cosa si deve fare e con chi si deve fare l’amore». Negli ultimi quarant’anni, intorno a simili articolazioni concettuali è maturato un dibattito di straordinaria ricchezza, che ha fatto però del genere/gender anche un territorio di contestazioni e conflitti. Non solo contrasti di carattere teorico, ma anche forti polarizzazioni politiche sono oggi alimentate dai diversi posizionamenti rispetto a questa nozione – come ha

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dimostrato di recente, in Italia, lo scontro tra favorevoli e contrari al “ddl Zan” sui reati di omofobia e transfobia. Alla controversia in corso contribuisce il carattere polisemico, spesso indefinito, della parola, ormai impiegata nei contesti più vari d’ambito accademico, politico e giuridico. Esiste infatti un uso diffuso a livello internazionale – per esempio in espressioni come “eguaglianza di genere” o “politiche di genere” – in cui “genere” appare come semplice sinonimo di “donne” o di “uomini e donne”, e ha gradualmente sostituito nelle sue ricorrenze la parola “sesso” mantenendo più o meno lo stesso significato. Esiste però anche un impiego codificato a livello giuridico della distinzione tra “sesso” e “genere”, per esempio nella Convenzione di Istanbul per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e la violenza domestica”, in cui è specificato che «con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini». Questo è, d’altra parte, il significato più comune in cui la categoria è entrata stabilmente nel linguaggio degli studi filosofici, politici, sociologici, antropologici e di molte altre discipline: se maschi e femmine si distinguono per caratteristiche fisiche (quali i cromosomi, i gameti, gli organi sessuali, gli ormoni), il genere rimanda invece a caratteristiche storicamente mutevoli. Con ciò, si pone l’accento sul carattere costruito, non “naturale”, delle prescrizioni sociali legate ai due sessi, al fine di contrastare le forme di determinismo biologico. Inoltre, la categoria di genere rimanda all’aspetto


relazionale di questo codice binario, che dà forma non solo a ciò che è “femminile”, ma anche a ciò che è “maschile” e alle interazioni tra le due . Intorno alla distinzione tra sesso e genere, così intesi, esiste oggi un consenso ampio. Tuttavia, per la riflessione femminista le questioni aperte rimangono molte. Per esempio, una volta messo da parte l’essenzialismo biologico, e assunto il genere come un costrutto variabile, cosa permette di fare delle donne una categoria unificata e un soggetto della lotta politica? È il sesso o il genere? E come trattare i casi in cui le persone “transitano” da un genere all’altro (transgender), o nascono con caratteri sessuali non riconoscibili nell’ordine binario dei generi (intersessuali)? I generi (e i sessi) sono solo due o più di due? Esiste insomma un problema di interpretazioni confliggenti dei termini “sesso” e “genere” e del loro rapporto, che per molte autrici non è riducibile alla dicotomia di natura e cultura. Inoltre, provoca aspri dissidi l’ulteriore spostamento semantico che la parola “genere” compie quando si lega alla nozione di “identità”. SESSO E GENERE: UN RAPPORTO COMPLICATO

Va detto, innanzitutto, che non tutte le autrici e i centri di elaborazione di teorie femministe hanno accolto l’uso del termine e del concetto di “genere”. Tradizioni importanti hanno infatti continuato a preferire parlare di “differenza sessuale”. Anche questa nozione è declinata in modi diversi, andando dalle posizioni più chiaramente essenzialiste, che valorizzano la funzione materna come origine della differenziazione sociale e psicologica di donne e uomini, a quelle – come il femminismo della differenza sessuale in Italia – che intendono il corpo sessuato femminile come origine e fondamento ineludibile del soggetto donna, ricercando al contempo il senso libero della differenza sessuale al di fuori dei ruoli imposti. Per chi invece ha considerato la categoria di genere un valido strumento critico per il pensiero e la lotta femminista, si è trattato, fin dal principio, di mostrarne il carattere non neutrale. Adottare questo concetto non significa limitarsi a constatare l’esistenza di ruoli distinti per i due sessi, ma segnalare lo squilibrio, la disparità che essi implicano. In un famoso articolo del 1987, Il “genere”: un’utile categoria di analisi storica, Joan Scott parte da due proposizioni: «il genere è un elemento costitutivo delle relazioni sociali fondate su una cosciente differenza tra i sessi», e «il genere è un fattore primario del manifestarsi

dei rapporti di potere». Dire che è un elemento costitutivo delle relazioni sociali significa intendere il genere in un’accezione ampia, che include l’ordine simbolico, i saperi dominanti, le strutture della parentela, ma anche il mercato del lavoro, l’istruzione, il sistema politico, e infine l’identità soggettiva. La seconda proposizione aggiunge una più netta presa di posizione teorica: «il genere è un terreno fondamentale al cui interno o per mezzo del quale viene elaborato il potere». In quanto manifestazione dei rapporti di potere, il genere agisce sui corpi. Ma in che modo? Anche qui, non c’è affatto uniformità di visioni nelle teorie femministe, e bisogna parlare di due orientamenti distinti. Il primo vede la biologia come il dato originario a partire da cui le diverse società elaborano il genere come sistema di ruoli, attribuzioni, significati. Il sesso, insomma, determina il genere o ne è il sostrato fondamentale. Il secondo orientamento supera invece questo tipo di determinismo – quella che Linda Nicholson ha chiamato la concezione «attaccapanni» dell’identità, con il corpo sessuato come costante su cui la cultura appende i suoi manufatti variabili – per rendere invece il sesso stesso una variabile storica. Il genere, in questo caso, precede il sesso. Non si tratta, per chi difende la seconda tesi, di negare la realtà di cromosomi, gameti o caratteri sessuali. Piuttosto, di notare che la visione dicotomica dei sessi, e il loro significato, sono anch’essi un portato storico nonché variabile tra le culture. Lo mostrano gli studi di antropologia richiamati da Mila Busoni nel suo Genere, sesso, cultura. Per esempio, gli Inuit dell’Artico vedono ogni nuovo nato come la reincarnazione di una persona già vissuta in precedenza, di cui assume il nome e il genere, anche se non coincidente con il sesso. Per i Vezo del Madagascar, il sesso è rilevante per la procreazione, ma l’identità di genere rimane fluida, mutevole, processuale. Altre riflessioni, in ambito filosofico e sociologico, nascono dalla considerazione delle persone intersesGIORGIA SERUGHETTI Ricercatrice in Filosofia politica all’Università di Milano-Bicocca. Si occupa di genere e teoria politica, fa parte del Comitato Editoriale di Prometeo ed è editorialista per Domani. Tra i suoi ultimi libri: Democratizzare la cura/Curare la democrazia (ebook Nottetempo, 2020); Libere tutte. Dall’aborto al velo, donne del nuovo millennio (con C. D’Elia, minimumfax, 2017).

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CROSSOVER suali, che presentano caratteri non definibili come interamente femminili o maschili, e che di regola, alla nascita, sono sottoposti ad adeguamenti chirurgici dei genitali per assumere un aspetto “normale”. Judith Butler, filosofa divenuta un riferimento mondiale per il pensiero post-strutturalista sulla sessualità, considera questo il terreno in cui si manifesta in modo più eloquente il carattere normativo (non descrittivo) del binarismo sessuale. Le norme e le regole relative al genere, sostiene nel suo Undoing Gender, definiscono cornici di intelligibilità sia per l’attribuzione del sesso, sia per il riconoscimento del genere, mentre determinano il mancato riconoscimento delle situazioni in cui tra le due dimensioni non vi è coincidenza, come è il caso delle persone intersex e transgender. (DIS)FARE IL GENERE O DISFARSI DEL GENERE?

Nella visione di Butler, «fare e disfare il genere» – come recita la bella traduzione di Undoing Gender proposta da Federico Zappino – non è un’operazione individualistica, nelle mani dei singoli soggetti, perché implica sempre processi di riconoscimento che sono calati nel vivere sociale. Tuttavia, ai soggetti appartiene un potenziale di contestazione delle norme, che esistono solo fintanto che vengono riprodotte. Si danno, infatti, «occasioni di improvvisazione entro un terreno di costrizioni», che rappresentano altrettante possibilità di contestazione del genere come sistema di potere. La lotta femminista e delle minoranze Lgbti dovrebbe essere rivolta a far guadagnare visibilità politica, e vivibilità umana, a tutte le espressioni del genere e della sessualità che oggi restano illeggibili, non riconoscibili. Gli scritti della filosofa di Berkeley hanno ispirato in modo profondo e significativo gli studi queer, mossi dall’intento di denaturalizzare le categorie del binarismo sessuale, insistendo sul loro carattere di costrutti storici e sulla loro valenza normativa. Di contro, si è fatta più forte, in anni recenti, la risposta critica di studiose femministe che vedono annidarsi, in queste istanze decostruttive, il pericolo della riduzione del corpo sessuato all’irrilevanza e della cancellazione del soggetto donna. In particolare, il conflitto si produce, in ambito politico, quando il genere è declinato non (o non solo) come insieme di norme e strutture sociali, ma come dimensione dell’identità individuale, per dare conto della non corrispondenza tra sesso e genere che caratterizza la condizione transessuale o transgender. La nozione di “identità di genere” è stata definita a livello internazionale, nei “Principi di Yogyakarta dell’Interna-

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tional Service for Human Rights”, come «l’esperienza interna e individuale del genere profondamente sentita da ogni persona, che può corrispondere o meno con il sesso assegnato alla nascita». Per il femminismo che si definisce “gender critical”, da qui nascono una serie di questioni. Come ha scritto Daniela Danna nel suo Sesso e genere, il problema di quelli che promuovono il concetto di identità di genere «non è chi sono, ma cosa vogliono». È problematico, secondo l’autrice: il fatto di voler attribuire a tutte e tutti un’identità di genere, per cui chi non è trans è cisgender (al di qua del genere); la pretesa di negare la distinzione tra donne o uomini trans e donne o uomini biologici; e ciò che ne consegue, per esempio la neutralizzazione del linguaggio, l’«ingresso di maschi biologici in spazi femminili», gli interventi di modificazione dei caratteri sessuali fin dalla minore età. Per contrastare questa tendenza, il femminismo deve tornare a riconoscere la differenza tra i sessi – la divisione morfologica fondamentale tra maschi e femmine –e lavorare a liberarla dalle imposizioni sociali. Ciò significa che «il genere deve essere abolito». Ci troviamo, con ogni evidenza, di fronte a un conflitto senza possibilità di conciliazione. La distanza è quella che passa tra chi crede che siamo inevitabilmente condizionati da norme relative al genere, e che per cambiare quelle oppressive la forma più efficace di contestazione sia la sovversione del binarismo, e chi invece pensa che il binarismo sessuale sia condizione per la liberazione femminista. Il dilemma è: disfare il genere o disfarsi del genere? Questo per quanto riguarda la teoria. Il femminismo, però, non è solo teoria, è anche pensiero dell’esperienza e pratica politica. Il ritorno all’ascolto dei vissuti, dei percorsi complessi, né autopoietici né interamente razionali, attraverso cui soggetti differenti si riconoscono come donne, è forse l’unica strada per costruire nuove alleanze possibili. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI BUSONI, M., Genere, sesso, cultura. Uno sguardo antropologico, Carocci, 2000. BUTLER, J., Fare e disfare il genere, a cura di F. Zappino, Mimesis, 2014. DANNA, D., Sesso e genere, Asterios, Trieste 2019. NICHOLSON, L., Per una interpretazione di «genere», in S. Piccone Stella e C. Saraceno, Il genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile, il Mulino, Bologna 1996, pp. 41-66. RUBIN, G., The Traffic in Women. Notes on the «Political Economy» of Sex, in R. Reiter (a cura di), Towards an Anthropology of Women, Monthly Review Press, New York 1975, pp. 157-210. SCOTT, J., Il “genere”: un’utile categoria di analisi storica, in Ead., Genere, politica, storia, a cura di I. Fazio, Viella, Roma 2013, pp. 31-63.


STORIA DI GENERE PASSATO, PRESENTE E FUTURO Raffaella Sarti

Il genere, un’utile categoria di analisi storica: questo articolo del 1986 di Joan Wallach Scott è il riferimento principe quando si parla di storia di genere. Negli anni precedenti, grazie al femminismo si erano moltiplicate le ricerche sulla storia delle donne. Uno stuolo di studiose aveva cominciato a disseppellire dagli archivi documenti dimenticati, mettendo in discussione una storia in gran parte scritta al maschile da uomini interessati soprattutto alle vicende di altri uomini. Le ricerche portavano alla luce una molteplicità di figure femminili: non solo “donne illustri”, ma anche streghe, prostitute, serve, operaie, contadine, donne sole, madri illegittime... E poi sante, monache, benefattrici, rivoluzionarie, protofemministe... Dunque le donne non erano state sempre e solo spose e madri. Addirittura il parto e la maternità apparivano esperienze storicamente determinate. Lo studio della storia (e quello dell’antropologia) risultavano cruciali per dare alle donne strumenti per rivendicare nuovi ruoli e diritti. Era sempre più evidente che non c’era alcun nesso naturale tra il sesso biologico femminile o maschile e i ruoli di donna o uomo. Diversi a seconda dei contesti, tali ruoli apparivano socialmente e culturalmente costruiti. La parola genere cominciava a venir usata per distinguerli dal sesso. Nel suo articolo, Scott sottolineava l’importanza di studiare il genere come elemento costitutivo delle relazioni sociali e dei rapporti di potere. A suo avviso, i diversi modi di percepire le differenze sessuali tra maschi e femmine non concorrevano solo alla costruzione degli asimmetrici ruoli di uomini e donne in carne e ossa. Sostanziandosi in simboli e norme, plasmavano anche la politica, le istituzioni e la sfera pubblica. In effetti, la pervasività del genere è evidente se ad esempio si pensa al disvalore storicamente attribuito all’uomo “effemminato” e al valore riconosciuto alla

“donna virile”. Oppure si considera l’esistenza di vestiti femminili e maschili, e addirittura di biciclette da donna e da uomo, come se le cose avessero un genere. DONNE, GENERE, MASCOLINITÀ

Nel suo articolo, Scott sviluppava proposte di studiose, come Natalie Zemon Davis e Joan Kelly, secondo le quali non ci si poteva limitare a inserire le donne nelle categorie storiografiche esistenti (ad esempio il Rinascimento). Non si trattava di colmare una lacuna, scrivendo una storia “aggiuntiva”. Le donne, come notava Gerda Lerner, erano almeno la metà dell’umanità. Se a lungo erano state trascurate dagli studi storici, scoprirne le vicende doveva modificare la percezione complessiva del passato. Implicava una riscrittura completa della storia. L’approccio di genere, nella visione di molte, rispondeva perfettamente a tale scopo. Altre, invece, temevano che annacquasse la forza dirompente della storia delle donne. Molte storiche e alcuni storici si sono comunque impegnati nell’ambiziosa impresa, svelando la parzialità di una storia che si presentava come neutra e universale mentre era scritta dal punto di vista maschile (soprattutto di maschi bianchi occidentali). Ha contribuito a questo risultato il fatto che l’approccio di genere indaga anche la storia degli uomini. Studi come quelli di John Tosh hanno così mostrato l’identità maschile – precedentemente assunta come norma tanto ovvia da risultare invisibile – nella sua variabilità storica. GENDER, RACE AND CLASS: INTERSEZIONALITÀ

Fin dagli anni Sessanta e Settanta, le femministe nere avevano contestato alcuni assunti prioritari delle femministe bianche, come la critica al ruolo di casalinga: poche donne di colore potevano occuparsi solo delle loro

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CROSSOVER famiglie senza svolgere un lavoro pagato. Chiaramente la “razza” – sempre più intesa come “razzializzazione”, come imposizione di un’identità sociale a partire da una caratteristica di per se stessa insignificante come il colore della pelle – si intrecciava al genere, dando vita a diversi modi di essere donna. D’altronde, i dibattiti su borghesi e proletarie e sulla difficoltà di creare alleanze tra donne divise da barriere di classe non risalivano addirittura all’Ottocento? Gender, race and class sono pertanto divenute categorie le cui relazioni sono al centro dell’attenzione: la prospettiva “intersezionale” (proposta da Kimberle Crenshaw) è quasi imprescindibile. Il genere è importante anche per capire globalizzazione, colonizzazione, mondo post-coloniale. Mrinalini Sinha, ad esempio, ha indagato l’identità maschile nell’Impero coloniale britannico, dove gli inglesi erano socio-culturalmente costruiti come virili, i bengalesi come effemminati. E se la mobilità è fattore cruciale nello sviluppo del mondo globale, gli studi sui flussi migratori in chiave di genere hanno smontato la rappresentazione del migrante ideal-tipico come giovane maschio adulto, rivelando che la presenza di donne nelle migrazioni, anche internazionali, non è un fatto recente. PRESENTE E PROSPETTIVE STORICHE

Nata dal femminismo degli Anni Sessanta e Settanta, la storia di genere tratta oggi temi legati al femminismo contemporaneo. Il persistere e talora l’acuirsi delle disparità ha ampliato l’attenzione per la violenza di genere, intesa (secondo la Dichiarazione ONU del 1993 e la Convenzione di Istanbul del 2011) non solo come violenza sessuale ma anche come espressione di asimmetrici rapporti di potere e mezzo per mantenerli. Anche ai fini di comprendere il presente, la violenza è indagata con prospettiva storica attenta a continuità e rotture. Nuove forme di violenza sono legate alla reclusione domestica dovuta al Covid. Tale reclusione comporta anche nuovi rischi di “neodomesticità” a danno delle donne. Se le asimmetrie di genere e le forme storiche di esclusione femminile dalla cittadinanza sono state giustificate richiamando una presunta destinazione naturale delle donne alla vita familiare, la casa e le cosiddette “sfere separate” – quella pubblica e quella privata – sono state oggetto di studi che hanno illuminato la storicità e i limiti di tale costruzione dicotomica. La casa è indagata anche come luogo di lavoro. Numerose sino al XVIII secolo, le attività praticate nell’ambito domestico si sono ridotte con l’industrializzazione, e quelle che hanno continuato ad esservi svolte sono state declassate a “non lavoro”: la casalinga non lavora,

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RAFFAELLA SARTI Presidente della Società Italiana delle Storiche, insegna Storia Moderna e di Storia dei Generi all’Università di Urbino Carlo Bo, dove dirige il corso di perfezionamento in Storia di genere, globalizzazione e democrazia della cura. È autrice di circa duecento pubblicazioni in nove lingue, tra le quali Vita di casa. Abitare, mangiare e vestire nell’Europa moderna (Laterza, 1999) e Servo e padrone, o della (in)dipendenza. Un percorso da Aristotele ai nostri giorni (Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2015). Lista completa: http://people.uniurb.it/RaffaellaSarti.

anche se che sgobba da mattina a sera; la colf e la lavoratrice a domicilio hanno un profilo lavorativo debole. Certo oggi questa svalutazione è contestata, ma non sradicata. E quali scenari si aprono, ora che lavorare a/da casa diventa sempre più comune? Conoscere i mutevoli rapporti tra i lavori svolti - a pagamento o gratis - da donne e uomini dentro e fuori casa, così come il variabile ruolo della sfera domestica rispetto al mercato del lavoro può aiutare anche a orientare le politiche. Questo è importante in un momento in cui la parità di genere è considerata (auspicabilmente non solo a parole) obiettivo prioritario del Piano nazionale di riforma e resilienza. Il Pnrr, almeno sulla carta, mira anche a valorizzare le attività di cura, oggi al centro del dibattito in accezioni declinate sulla cura di sé, degli altri e del mondo, e indagate anche in prospettiva storica. La parità di genere è un obiettivo pure dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Se da tempo si è sviluppata una lettura di genere della storia ambientale, è prevedibile che in futuro essa attiri crescente attenzione. Significativamente, proprio all’Ambiente è dedicata la prossima Scuola Estiva della Società Italiana delle Storiche (25-28 agosto 2021), l’associazione nata nel 1989 cruciale per gli studi di storia delle donne e di genere in Italia (si veda la sua collana di studi presso Viella, la rivista Genesis, la collana «Storie nella Storia» presso Settenove). IDENTITÀ, CORPI, SESSUALITÀ

Nei variegati studi descritti, la nozione di genere si riferisce alla costruzione socio-culturale dei ruoli maschili e femminili. Il genere, in questa accezione, è etero-determinato: le società assegnano un genere ai neonati e questo condiziona la loro formazione, tanto


da divenire spesso un habitus tanto interiorizzato da apparire naturale. Ma non tutt* sono a proprio agio nell’identità attribuita alla nascita. Di fatto, una diversa accezione del termine genere è stata introdotta, fin dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, da studiosi come lo psichiatra Robert Stoller o il controverso psicologo e sessuologo John Money, proprio per distinguere la classificazione alla nascita dalla percezione soggettiva di sé, definita, appunto, identità di genere. In un contesto in cui i ruoli sessuali erano ricondotti a presunte inclinazioni naturali di maschi e femmine, si trattava di capire perché persone intersessuali potessero comportarsi da donne o da uomini, oppure perché alcuni neonati classificati come maschi crescendo si sentissero donne, e viceversa. In questa prospettiva, il concetto di genere non si riferiva a qualcosa di etero-determinato, ma alla percezione di sé, a qualcosa che poteva essere rivendicato soggettivamente anche in contrasto con l’identità attribuita alla nascita. Tra le due accezioni non mancano le relazioni, soprattutto se, con Judith Butler, si assume una prospettiva performativa: perché i generi continuino a esistere, gli attori sociali devono continuamente mettere e rimettere in scena il loro essere uomini o donne. Così, se molte persone alterano in modo analogo i ruoli di genere ereditati dal passato, finiscono per modificarli. A livello individuale, questa dimensione performativa può permettere l’emergere di soggettività che non si riconoscono nel binarismo eterosessuale che domina molte culture. Quanto tale binarismo fosse pervasivo nelle società del passato, quali e quanti spazi di espressione, ovvero forme di repressione, esistessero per identità di genere non riconducibili al dualismo cisgender sono alcuni dei temi trattati dagli studi storici sulla percezione soggettiva del genere. Queste ricerche si intrecciano con quelle sulla storia dei corpi e della sessualità, indagando la storia dell’intersessualità, dell’omosessualità, del travestitismo, della sessuologia, della scoperta e uso degli ormoni, delle transizioni di genere... Con ovvie differenze tra contesti, ne emerge un passato meno binario di come spesso lo si immagina. IL CONGRESSO SIS

Ottimo luogo di osservazione delle attuali tendenze storiografiche, il recente Congresso della Società Italiana delle Storiche (SIS) ha ospitato vari panel su tali temi. Dedicato a La storia di genere: percorsi, intrecci, prospettive (9-12 giugno 2021) è stato aperto da una lectio magistralis di Joanna De Groot su genere

e spazio in Iran in memoria di Anna Vanzan, autrice di importanti studi sul genere nel mondo islamico. Arricchito dalla partecipazione di circa 180 studiose e studiosi, il Congresso ha ospitato relazioni – relative a molteplici contesti geo-politici e culturali dall’antichità ad oggi – che spaziavano dall’analisi dei corpi alle voci e scritture femminili, dalla critica al binarismo alla costruzione e decostruzione dei modelli di genere, dal lavoro nelle sue diverse declinazioni all’interazione fra genere e sacro, dalle migrazioni alle prospettive coloniali, dalle varie forme dell’agency individuale all’agire collettivo, dai diritti di cittadinanza ai femminismi e ai movimenti ambientalisti, dai linguaggi politici alle rappresentazioni mediatiche dei generi, per non citarne che alcune. Per chi voglia conoscere lo stato dell’arte della storia di genere, tali panel – da ottobre disponibili sul canale youtube della SIS – costituiscono senz’altro un’opportunità. Essi confermano che il genere è chiave di lettura non solo utile, come diceva Joan Scott, ma imprescindibile per capire la realtà del passato e, con essa, quella presente. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI BARCA, S. GUIDI, L., Ecostorie. Donne e uomini nella storia dell’ambiente, in Genesis, 12, 2 (2013). BECCALOSSI, C., Types, Norms, and Normalisation: Hormone Research and Treatments in Italy, Argentina, and Brazil, c. 1900-50, in History of the Human Sciences 34, 2 (2021), pp. 113-137. CROCETTI, D., L’invisibile intersex: storie di corpi medicalizzati, ETS, 2013. DE LEO, M., Queer. Storia culturale della comunità LGBT+, Einaudi, 2021. DONATO, K.M., GABACCIA, D., Gender and International Migration, Russell Sage Foundation, 2015. FECI, S., SCHETTINI, L., La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secoli XV-XXI), Viella, 2017. FILIPPINI, N.M., Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta, Viella, 2017. FIORINO, V., Il genere della cittadinanza. Diritti civili e politici delle donne in Francia (1789-1915), Viella, 2020. GUARDI, J., VANZAN A., Che genere di Islam. Omosessuali, queer e transessuali tra shari’a e nuove interpretazioni, Ediesse, 2012. SARTI, R., BELLAVITIS, A., MARTINI, M., (a cura di), What is Work? Gender at the Crossroads of Home, Family, and Business from the Early Modern Era to the Present, Berghahn, 2018. SCHETTINI, L., Il gioco delle parti. Travestimenti e paure sociali tra Otto e Novecento, Le Monnier, 2011. SCOTT, J., Il “genere”: un’utile categoria di analisi storica, in Ead., Genere, politica, storia, a cura di I. Fazio, Viella, 2013, pp. 31-63 (I ed. 1986). SINHA, M., Colonial Masculinity: The “Manly Englishman” and the “Effeminate Bengali” in the Late Nineteenth Century, Manchester U.P., 1999. TOSH, J., A Man’s Place: Masculinity and the Middle-Class Home in Victorian England, Yale U.P., 1999. VOLI, S., Il parlamento può fare tutto, tranne che trasformare una donna in uomo e un uomo in una donna. (Trans)sessualità, genere e politica nel dibattito parlamentare sulla legge 164/1982, in Italia Contemporanea, n. 287 (2018), pp. 75-103.

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PER UNA MEDICINA DI GENERE Ricerca, sperimentazione e farmacologia vanno differenziate Alessandra Carè

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’Organizzazione Mondiale per la Sanità ha definito “Medicina di Genere” lo studio dell’influenza delle differenze biologiche, definite dal sesso, e delle disparità socio-economiche e culturali, definite dal genere, sullo stato di salute e di malattia di ogni persona. I dati epidemiologici dicono chiaramente che essere uomo o donna ha di per sé un ruolo importante sulla nostra salute e che porre attenzione a sesso e genere nella pratica medica è fondamentale per ridurre le disuguaglianze di salute e fornire cure adeguate. Le donne vivono più a lungo degli uomini, ma gli ultimi anni della loro vita sono spesso caratterizzati da malattie croniche e, di conseguenza, dall’assunzione di molti medicinali. A fronte di ciò, siamo ancora lontani dall’ arruolamento bilanciato di uomini e donne negli studi clinici sui nuovi farmaci. Infatti, in particolare nelle prime fasi, le donne sono sottorappresentate e i risultati disponibili spesso non vengono neppure analizzati stratificando per sesso/genere con possibili conseguenze su una valutazione corretta dell’efficacia nonché sui possibili effetti avversi. Esempi di disparità di genere sono stati riscontrati in tutti i principali gruppi di patologie, a partire dalle malattie del sistema cardiovascolare che, considerate un problema maschile, sono in realtà la principale causa di morte delle donne. Differenze sono anche presenti per alcuni tipi di tumore, nell’incidenza, nella prognosi, nella risposta alle terapie e nella sopravvivenza. Inoltre differenze importanti sono state poste all’attenzione dell’opinione pubblica dalla pandemia da Covid-19. I dati italiani mostrano infatti che il virus contagia uomini e donne a livelli molto simili, ma che la letalità è diversa, poiché il numero di decessi negli uomini è significativamente superiore (57% del totale dei decessi). Inoltre le donne decedute dopo aver contratto infezione da SARS-CoV2 hanno un’età più alta rispetto agli uomini (età mediane: donne 85 anni – uomini 80 anni, dati ISS 22 giugno 2021). A fronte dei tanti possibili esempi, possiamo dire che l’attenzione al genere costituisce un passo importante

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verso la razionalizzazione delle cure e rappresenta un obiettivo strategico per i sistemi sanitari. Già da parecchi anni l’Istituto Superiore di Sanità ha cominciato a interessarsi dei tanti aspetti legati alle differenze di genere e a gennaio 2017 è stato istituito il Centro di riferimento per la Medicina di Genere (MEGE) con l’obiettivo di promuovere, condurre e coordinare attività che tengano conto dei differenti bisogni di salute della popolazione associati a disparità di sesso e/o di genere. Il passo fondamentale è stato poi l’approvazione della legge 3/2018 che, prima in Europa, garantisce l’inserimento del parametro “genere” nei tanti aspetti che riguardano la salute. Il Centro MEGE dell’ISS e il Ministero della Salute, con AIFA e AGENAS, hanno quindi predisposto un Piano attuativo che indica le principali azioni da compiere per includere concretamente la variabile genere nel Servizio Sanitario Nazionale. Con decreto firmato a settembre 2020 è stato istituito presso l’ISS un Osservatorio con il compito di monitorare le attività e proporre possibili azioni di miglioramento in termini di appropriatezza ed equità nelle cure. Lo sviluppo di questo nuovo approccio rappresenta un obiettivo strategico per il nostro sistema sanitario e la sua diffusione sul territorio nazionale come pratica ordinaria consentirà lo sviluppo di una medicina più efficace ed economica. Certamente il raggiungimento degli obiettivi richiederà una concreta collaborazione tra l’Osservatorio, le Istituzioni centrali, le Regioni e tutti gli attori coinvolti, auspicabilmente affiancata da un generale cambiamento culturale. ALESSANDRA CARÈ Biologa, specializzata in Genetica medica. Dal 1985 ricercatrice Iss: fino al 2017 Direttrice del reparto di Oncologia Molecolare del Dipartimento di Oncologia e Medicina molecolare, dal 2018 Direttrice del Centro di Medicina di Genere.


IL GAMETE DELLA DISCORDIA Dalla biologia un racconto scientifico sulla genesi del sesso Andrea Pilastro

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a teoria darwiniana ha rivoluzionato la nostra visione del mondo naturale, obbligandoci a cercare una spiegazione dei fenomeni biologici che, per effetto della loro universalità, tendiamo inconsapevolmente a considerare l’unica opzione biologica. Un esempio è rappresentato dalla riproduzione sessuale e dal fenomeno maschio-femmina: la totalità delle specie di organismi complessi, come piante ed animali, sono costituite da individui che producono gameti piccoli, gli spermatozoi (che chiamiamo maschi), e individui che producono relativamente gameti più grandi, le uova (che chiamiamo femmine). Tertium non datur. Il fenomeno è così universale che perfino Darwin si interroga su questo dato di fatto. Anche se negli anni della Nuova Sintesi il problema verrà invece posto (tra gli altri del nostro Franco Scudo), sarà solo nel 1972 che un giovanissimo entomologo, Geoff Parker (con i colleghi Baker e Smith) risolverà il problema: i primi organismi complessi multicellulari che hanno “inventato” i gameti, nota Parker, dovevano inizialmente produrli tutti delle stesse dimensioni. La transizione dall’isogamia (gameti uguali) all’anisogamia (gameti diversi) e quindi al fenomeno maschio-femmina, è la conseguenza del vantaggio che hanno i gameti piccoli nella fecondazione e quelli grandi nel favorire la sopravvivenza dello zigote a scapito dei gameti di dimensioni intermedie. È la dimostrazione che maschi e femmine sono l’inevitabile conseguenza della riproduzione sessuale, non il prerequisito. LA CHIAVE DEL SUCCESSO RIPRODUTTIVO

Risolto un problema se ne aprono molti altri (il bello della teoria evolutiva, verrebbe da dire). Perché caratteri come piumaggi colorati, vistosi comportamenti di corteggiamento, o corna imponenti evolvono a dispetto dell’evidente costo per la sopravvivenza? Perché sono i maschi ad evolvere questi caratteri sfavoriti dalla selezione naturale? La risposta alla prima

domanda l’aveva già trovata Darwin: le lotte tra i maschi e la preferenza delle femmine per i maschi più attraenti favoriscono in questi ultimi l’evoluzione di “armamenti” e “ornamenti”. La risposta alla seconda domanda sta invece nell’anisogamia e la fornirà Bateman nel 1948: il successo riproduttivo delle femmine è limitato dal numero di uova prodotte, mentre nel caso dei maschi è limitato dal numero di partner riproduttivi. I caratteri che aumentano il successo di accoppiamento tenderanno a diffondersi nei maschi – perché tanti accoppiamenti significa tanti discendenti – ma non nelle femmine. La selezione sessuale, determinata dall’anisogamia, spinge perciò maschio e femmina verso fenotipi divergenti, il primo maggiormente influenzato dalla selezione sessuale, il secondo dalla selezione naturale. Con due conseguenze evolutive importanti: la prima è rappresentata dal conflitto evolutivo pressoché universale tra maschi e femmine sulle modalità riproduttive (es. sul numero di partner riproduttivi o sulle cure parentali). La seconda è che le varianti genetiche favorite nei maschi non sono necessariamente vantaggiose quando vengono ereditate dalle figlie. Il conflitto sessuale è assente solo nelle specie monogame, molto longeve, e che formano legami di coppia permanenti. Probabilmente qualche decina di specie di uccelli marini. Quantificare costi e benefici della riproduzione sessuale, e dell’inevitabile “cascata evolutiva” che essa determina, è certamente una delle più affascinanti sfide della biologia evolutiva moderna . ANDREA PILASTRO È professore di Zoologia presso l’Università di Padova, dove insegna etologia e biologia evoluzionistica. Studia il comportamento riproduttivo, la selezione sessuale e la competizione spermatica in pesci e uccelli.

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UNA QUEER È UNA QUEER È UNA QUEER.... IL SAGGIO DI MAYA DE LEO Quello di Maya De Leo è un libro necessario: oggi le questioni legate al genere, alla sessualità, alle soggettività lgbt+ sono al centro del dibattito eppure l’editoria italiana ha fornito pochi strumenti scientifici e ancor meno divulgativi. Questo volume con analisi rigorosa, ricchezza di fonti e chiarezza nell’esposizione risponde a entrambe le esigenze. Queer (Einaudi) è un’azione di politica culturale che restituisce un passato là dove era stato negato, è un saggio storico ma è anche un’opera di grande attualità dalla vocazione chiarificatrice: oggi milioni di persone si dicono lesbiche, gay, bisessuali, trans, intersessuali, queer, a livello globale esiste una comunità lgbtq, questo libro ci racconta come ci siamo arrivati. È una lunga cavalcata attraverso la storia, 250 anni in 250 pagine, che parte dal diciottesimo secolo e arriva ai primi anni Duemila per guidarci nel tempo e nello spazio, geografico e sociale, attraverso le modalità con cui le persone fuori dalla norma eterosessuale hanno affermato le proprie esistenze. Raggiunge quello che non può non essere l’obiettivo di un libro che porta il queer nel titolo, ossia scardinare la naturalizzazione della norma semplicemente mostrandone la storicità:

l’eterosessualità ha una nascita e uno sviluppo storico, non è quindi eterna né immutabile e sono individuabili, come fa De Leo, le istituzioni che la fabbricano e la sostengono nelle diverse epoche. Il libro è strutturato in tre parti: la prima racconta generi e sessualità alle soglie dell’età contemporanea e, partendo da sodomiti, tribadi ed ermafroditi nelle metropoli del XVIII secolo, affronta come la medicina ottocentesca ha costruito la figura dell’omosessuale e ne ha decretato la separazione dal corpo sociale; però, al contrario di altre opere di ricostruzione storica, propone anche uno sguardo dall’interno di questo gruppo sociale e ne indaga le strategie di resistenza. La seconda parte è dedicata alle conseguenze dei grandi sconvolgimenti politici degli anni Trenta, quando le sottoculture queer vengono risospinte nel closet, “invisibilizzate”, e rintraccia quali spazi queste hanno saputo difendere. L’ultima prende le mosse dalla Rivolta di Stonewall (28 giugno 1969), mito fondativo dei movimenti lgbtiq del presente, e attraversa lesbismi, femminismi, transgender, Aids activism, queer fino agli asterischi del Trans* oltre il binarismo di genere. (Elena Biagini)

LA RIVOLUZIONE E LA CITTADINANZA DELLE DONNE. IL SAGGIO DI VINZIA FIORINO Il genere della cittadinanza. Diritti civili e politici delle donne in Francia (1789-1915), Viella, è uno studio documentato e ricco dal punto di vista bibliografico sugli «aspetti ontologici del femminile» (p. 156) attraverso la storia politica francese, elettorale ma non solo, dalla Rivoluzione dell’89 alle soglie del Primo conflitto mondiale. L’Autrice interseca il tema classico della cittadinanza femminile alla prova dell’universalismo rivoluzionario settecentesco prima, e del nazionalismo e colonialismo ottonovecenteschi poi, con una serie di categorie (il genere e l’intersezionalità fra tutte) acquisite dalla ricerca storica e filosofica, dagli studi sociali quanto da quelli culturali, per provare a «cogliere le ragioni strutturali per le quali a lungo le donne sono state escluse dai diritti politici e riflettere sulle attuali conseguenze di tale assetto» (p. 26). Il risultato è un percorso denso intorno alla natura femminile stretta fra «spirito di famiglia [e spirito] di cittadinanza» (p. 57), in una tensione costante tra fisiologia e patologia del corpo delle donne e loro rappresentazione morale nella società francese fra XVIII e avvio del XX secolo. Il tutto in un’ottica che si vuole profondamente gendered in quanto al tempo

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stesso segnata dalla presa in carico, in negativo, del patriarcato e, in positivo, dell’opposizione anti-patriarcale e femminista, dove il “femminismo” è applicato a figure singole e a gruppi di donne, soprattutto suffragiste, con una traiettoria ininterrotta che va da Olympe de Gouges alle femministe (auto)dichiarate della Terza Repubblica, Auclert e Pelletier in modo speciale. In questo percorso tanti i luoghi di approfondimento e di digressione documentale e teorica: il modello del “cittadino in armi” e le strategie di virilizzazione femminile; il mito della Marianne e il culto della Vergine Maria; il concetto di civilisation; l’impatto del pensiero scientifico/scientista (e razzista) sullo sviluppo della scienza medica in generale, e sulla rappresentazione della donna in particolare. E tra i tanti luoghi, svariati punti di fuga dalla realtà d’oltralpe, che diventano sovente punti di contatto con una realtà altra da quella francese, la realtà al di qua delle Alpi, presente nel testo più di quanto il piano stesso dell’opera e il richiamo alla tradizione nobile del femminismo francese e italiano della seconda parte del Novecento farebbero presagire. (Paola Persano)


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ALBERT EINSTEIN

LA RELATIVITÀ

DA BOLOGNA A STOCCOLMA

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Un secolo fa, nel 1921, Einstein era in visita a Bologna. Tre conferenze all’Archiginnasio, a fare luce su una teoria che era epocale per tutti (ma non per il Comitato Nobel). Luisa Cifarelli e Raffaella Simili

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ALBERT EINSTEIN 1. BOLOGNA.

«Siamo qui [con la sorella Maja] insieme a Firenze», scriveva Einstein in una cartolina all’amico Besso il 20 ottobre 1921, «domani partirò [...] per Bologna dove devo tenere una conferenza in italiano, poveretti!». Si trattava della sua visita a Bologna, l’unica città italiana ove Einstein tenne tre conferenze sulla relatività aperte al pubblico. Einstein vi giungeva dietro invito di Federigo Enriques, l’illustre matematico allora professore a Bologna, intraprendente organizzatore di imprese culturali e antico direttore della rivista Scientia. A proposito di queste conferenze Einstein ed Enriques si erano scritti a lungo. Pare, fra l’altro, che i loro contatti risalissero a ben prima della lettera di saluti scritta dall’amico comune Heinrich Zangger nel 1917, direttore dell’Istituto di medicina legale di Zurigo. In ogni modo, nel 1920, Enriques si scusava di non aver potuto rispondere a una cartolina di Einstein a causa «della malaugurata guerra» e si augurava di venir perdonato esprimendo «consenso e stima» ad «uno spirito superiore come il suo». Nel proseguire, Enriques, dopo qualche convenevole, esprimeva, per un verso, la più fervida ammirazione nei confronti dell’ultimo grande successo di Einstein, la relatività generale; per l’altro, confessava di «non aver ben assimilato lo spirito delle sue idee direttive», augurandosi di poterlo incontrare «in condizioni favorevoli ad una riposata conversazione». L’occasione per appagare questa «vivissima aspirazione» si presentò neanche un anno dopo: in una lettera del 19 gennaio 1921, Enriques informava Einstein che si era pensato di far inaugurare proprio a lui («Nessun nome è sembrato pari al suo e nessun

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soggetto così appassionante per il mondo scientifico come la relatività») un ciclo di incontri promosso dall’Università per invitare nel nostro paese intellettuali stranieri di chiara fama. Einstein rispose affermativamente ricordando nostalgicamente i suoi «bei ricordi della giovinezza», ovvero i periodi trascorsi a Milano, Pavia, Casteggio tra il 1895 e il 1902. Enriques fu entusiasta anche del fatto che le conferenze sarebbero state in italiano; il che avrebbe reso ancor più «fruttuosa la Sua parola». A fine settembre Enriques passava alla fase organizzativa: «Caro e illustre collega, ricevo con grande interesse la gentilissima Sua, dalla quale ho la conferma della Sua venuta a Bologna, nella seconda metà del mese prossimo. In seguito ad essa le Sue tre conferenze rimangono stabilite per i giorni: Sabato 22, Lunedì 24 e Mercoledì 26 Ottobre. In tal guisa vi sarà agio, come Ella gentilmente accenna, [...] di disporre qualche riunione en petit comité; giacché molti di noi sono ansiosi di avere da Lei tante spiegazioni, come può ben immaginare [...]. In ogni caso La prego di favorire in casa mia, a prendere un thè, la sera del giorno di Venerdì 21 alle ore 9 (ossia 21) [...]. S’intende che verrà con Lei il suo figliuolo, che ha proprio l’età del mio». Fu così che Albert Einstein tenne nei giorni 22, 24, 26 ottobre 1921 tre conferenze presso l’Archiginnasio, sede dell’Antico Studio, che ebbero un grande successo di pubblico. Di quelle conferenze restano tre memorabili fotografie che ritraggono una, Albert Einstein e Federigo Enriques nelle logge dell’Archiginnasio; l’altra, da solo; la terza Einstein, Enriques e un gruppo di professori dell’Ateneo, scattate entrambe, pare, dal

LUISA CIFARELLI

RAFFAELLA SIMILI

Professoressa ordinaria di fisica sperimentale all’Università di Bologna, i suoi interessi di ricerca sono sempre stati nel campo della fisica subnucleare ad altissime energie, con esperimenti presso i principali laboratori europei come il CERN di Ginevra. Si occupa anche di attività editoriali come La Rivista del Nuovo Cimento, EPJ Plus e NIM, dirige Il Nuovo Saggiatore, fa parte del Comitato Editoriale di Prometeo. È stata Presidente del Centro Fermi (2011-19), della Società Europea di Fisica (2011-13), e Società Italiana di Fisica (2008-19).

Professoressa emerita di Storia della Scienza presso l’Università di Bologna, si interessa di storia della scienza e della cultura, delle istituzioni scientifiche in Italia dopo l’Unità, di prospettive di genere. È Presidente emerito della Società Italiana di Storia della Scienza e Life Member di Clare Hall (Cambridge, UK). È stata Visiting Fellow in Inghilterra e negli Stati Uniti. Ha curato, insieme a Sandra Linguerri, il volume Einstein parla italiano (Pendragon, 2008).


All’Archiginnasio, 1921. I professori sono, da sinistra: Tarozzi, Pincherle, Errera, Perozzi, Majocchi, Bortolotti, Burgatti, una persona non identificata, Einstein, Bompiani, Enriques, Bianchi, Brini. Credit Archivio Zanichelli

figlio giovinetto di Enriques, Giovanni, con una macchina Kodak. Successivamente, egli si recò all’Università di Padova per rendere omaggio all’artefice del calcolo differenziale assoluto Gregorio Ricci-Curbastro e per manifestargli personalmente tutta la sua stima e la sua più profonda gratitudine. Albert Einstein – così la cronaca locale – «parlò per un’ora, lentamente, accuratamente, in lingua italiana, con una precisione scientifica che pareva quasi acquistasse risalto e perfezione dalla precisione linguistica dell’oratore, buon padrone, assoluto e dovizioso, della nostra favella». Accogliere Einstein padre e figlio al loro arrivo a Bologna toccò alla secondogenita di Enriques, Adriana, allora matricola di matematica. «Sotto la pensilina della stazione di Bologna, Anselmo Turazza, Emilio Supino ed io coi nostri berretti goliardici, attendevamo l’arrivo del treno. Come faremo per riconoscerlo? Viaggerà in prima o in seconda classe? Parlerà in italiano? A noi modeste matricole dell’Università, sembrava che il compito di ricevere Einstein fosse troppo superiore ai nostri meriti». Ma ecco, proseguiva il suo racconto. «Si udì un fischio prolungato: il treno entrava in stazione. Emilio doveva osservare i viaggiatori di seconda classe, Anselmo quelli di prima. Io vagavo qua e là smarrita e trepidante. Ma quando da un vagone di terza classe scese un alto signore coll’aspetto imponente, il cappello nero a larghe falde come quello che portavano

gli artisti, i capelli ricadenti fin su le orecchie, non avemmo alcun dubbio. Tutti e tre, aprendoci un varco tra la folla che gremiva la stazione, ci precipitammo verso quel signore. Era lui, non poteva che essere lui, Alberto Einstein. Non lo conoscevamo nemmeno in fotografia, eppure lo avremmo riconosciuto fra migliaia di viaggiatori. L’impronta del genio sembrava scritta sulla sua fronte». Alla soirée del 21 organizzata a casa Enriques in onore del grande scienziato parteciparono pure alcuni giornalisti: «È arrivato oggi a Bologna il prof. Alberto Einstein proveniente da Firenze», scriveva l’inviato del Corriere della Sera, raccontando del ricevimento offerto in casa del prof. Enriques dove questi aveva raccolto con larga e brillante ospitalità attorno al suo illustre invitato «il meglio dell’intellettualità bolognese [...] pochi minuti dopo essere giunto egli si era già ingolfato in una discussione con due luminari della scienza italiana, il [Tullio] Levi-Civita e il [Quirino] Majorana, fortissimo matematico l’uno, fortissimo fisico l’altro». Le cronache delle sue conferenze ebbero una vasta eco sui principali quotidiani locali e nazionali. Per stare ai loro resoconti, l’impatto di Einstein sul pubblico fu teatrale, simile «a quella di un divo del bel canto su una scena lirica». Alla prima conferenza la curiosità «fra tutti coloro che vogliono poter dire in ogni occasione ci sono stato anch’io» si era talmente acuita che la Stabat Mater, l’Aula Magna dell’Archi-

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ALBERT EINSTEIN ginnasio, risultò del tutto insufficiente. Anche nei giorni successivi l’interesse per le conferenze sulla relatività continuò ad aumentare richiamando il solito «pubblico numeroso», soprattutto di studenti, che avevano preso l’abitudine di sparpagliarsi nell’androne dell’Archiginnasio e sotto il portico del Pavaglione. Secondo Adriana Enriques, quasi nessuno comprendeva la teoria della relatività, tuttavia l’Archiginnasio era gremito non solo di scienziati venuti da ogni parte d’Italia, ma anche di studenti di tutte le Facoltà, di umili artigiani, di operai. Il popolo commosso faceva ala al passaggio di Einstein e lo seguiva in lunghe colonne come per manifestargli la riconoscenza di aver prescelto Bologna per un primo contatto con l’Italia, dopo tanti anni di assenza. «Alberto Einstein non ha bisogno di esservi presentato», così esordiva pomposamente Enriques in apertura del suo discorso di presentazione, secondo un’abile regia di cui egli era ormai consumato esperto avendola a suo tempo sperimentata con successo al Congresso internazionale di filosofia del 1911, «la fama che è, in questo caso, annunciatrice di gloria, vi ha già gridato il suo nome». Le sue teorie «fra le più astruse [...] sollecitano oggi l’attenzione di tutto il mondo, e non soltanto dei matematici o dei filosofi, ma del grande pubblico» giacché, continuava Enriques, egli sovverte colla sua critica i comuni concetti dello spazio, del tempo e del movimento [...] la ragione non ha limiti necessariamente segnati, [...] non offre ai dati sperimentali un ordine prestabilito, ma trova in sé il potere di allargare i quadri in cui si compone l’esperienza famigliare delle cose vicine [...]. Certo vi è qualcosa di sorprendente e quasi di pauroso in questo progresso del pensiero che supera i limiti della propria intuizione [...]. La sua dottrina «rivoluzionaria» ha offerto «nuova occasione per gridare alla bancarotta della scienza», sottolineava Enriques ribadendo posizioni polemiche già assunte in passato, ma «chi giudica in tal guisa è lontano, non solo dal pensiero di Einstein, ma dal concetto storico della scienza [...]». «Così la teoria di Einstein non significa la morte della teoria di Newton, anzi la conquista di una verità più vera [...]». Ecco, concludeva Enriques in nome di quel vessillo fatto di ragione e di libertà da lui sempre praticato nel corso del suo iter intellettuale, «il vero motivo della commozione suscitata da Alberto Einstein. Egli ci ridà fiducia nella ragione» ovvero «c’invita» a «volgerci alla contemplazione dell’ordine che la mente riesce a scoprire fuori di sé, nella meravigliosa

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Una rara fotografia di Albert Einstein giovanissimo. Credit Image Archive ETH-Biblioteck Zürich

opera d’arte della natura». È per questo che occorreva ascoltare «reverenti la parola del Maestro: con quella reverenza che si deve ai liberi spiriti e che vuol essere libera discussione delle idee». Presa la parola in italiano, il Maestro spiegò anzitutto come la teoria della relatività fosse sorta da problemi collegati direttamente o indirettamente dall’esperienza quali il concetto di contemporaneità dato per autoevidente nonché il presupposto dell’abitudine che consiste nel ritenere che la forma dei corpi sia indipendente dal movimento di essi. Si addentrava poi nell’illustrazione della teoria della relatività ristretta partendo dal principio di relatività in senso stretto e dalla legge della costante velocità di propagazione della luce nelle diverse direzioni, indipendentemente dal moto della sorgente luminosa, allo scopo di mostrare come queste due leggi valide e derivanti dall’esperienza solo apparentemente risultino in contrasto fra loro. Nella seconda, mentre riassunse brevemente i concetti della relatività ristretta esposti nella prima conferenza, affrontò i problemi connessi alla relatività generale mettendo in evidenza, fra l’altro, come ad essa fossero collegati metodi di misura forniti dalla geometria non euclidea e come fosse possibile estendere ai sistemi accelerati (o non inerziali) i risultati della teoria ristretta della relatività e giungere alla conoscenza della legge generale del campo gravitazionale. Tale legge è una legge non nuova rispetto alla


classica legge di Newton, bensì più ampia, in quanto rende conto di certe anomalie relative ai pianeti che la legge di Newton da sola non riesce a spiegare. Nella terza si soffermò su una conseguenza della teoria, suscettibile di conferma sperimentale, per passare ad esporre, sulla base di tutti i risultati ottenuti, la concezione «relativistica» dell’universo. Al termine di questa conferenza, Einstein non mancò di aggiungere che lo strumento matematico di cui si era servito derivava dai calcoli di Gauss e Riemann nonché di Ricci-Curbastro e Levi-Civita. Quest’ultimo venne intervistato al termine delle conferenze dall’inviato del Messaggero, il quale accennava naturalmente al carattere rivoluzionario della teoria nonché al contributo italiano di RicciCurbastro e Levi-Civita, esteso per amor di patria a Guido Castelnuovo, Roberto Marcolongo, Gian Antonio Maggi, Attilio Palatini. Tornando alle giornate bolognesi, quel grande scienziato di Einstein prendeva commiato dalla città anche con una riunione presso l’Accademia delle Scienze, ove si tenne una seduta straordinaria ai fini di approfondire alcuni punti della teoria della relatività. Il presidente, Giuseppe Ruggi, porse un saluto di benvenuto ad Einstein, che era stato eletto socio straniero nell’aprile 1921, mentre Enriques espose le linee della discussione. Intervennero Burgatti, Ciamician, Majorana, Amaduzzi, Levi-Civita, Castelnuovo e naturalmente Enriques. A tutti, stando al verbale, rispose brillantemente Einstein, il quale si guadagnò così i più vivi ringraziamenti del presidente. Pochi mesi dopo, Enriques, il quale era fin dal 1906 consulente scientifico della casa editrice Zanichelli, promosse la prima traduzione italiana dell’opera di Einstein del 1917, Sulla teoria speciale e generale della relatività, con una prefazione di Levi-Civita. Di lì a poco, uscirono due volumi di Roberto Marcolongo: il primo, Relatività (1921), raccoglieva le lezioni tenute all’Università di Napoli ove era professore ordinario; il secondo, Uno sguardo sintetico alla teoria speciale e generale della relatività (1922), si proponeva di esporre in maniera sintetica e divulgativa la relatività ristretta e quella generale. Un anno dopo, edito sempre da Zanichelli, usciva l’ampio trattato di Castelnuovo sui fondamenti della relatività dal titolo Spazio e tempo secondo le vedute di Albert Einstein. A segnare una continuità dell’interesse bolognese nei confronti della relatività furono le conferenze di Luigi Donati, professore di fisica matematica, tenute

Bologna,1921. Albert Einstein e Federigo Enriques sotto le logge dell’Archiginnasio. Credit Archivio Zanichelli

fra il dicembre 1921 e febbraio 1922, alle quali seguirono un anno dopo quelle di Paul Langevin sulla struttura dell’atomo e le proprietà magnetiche, presso l’Archiginnasio e l’Istituto di Fisica. Collega e amico tanto di Enriques quanto di Einstein, Langevin fu invitato nell’ambito delle iniziative del medesimo Comitato che si era fatto promotore della visita di Einstein. 2. STOCCOLMA

Il 1921 è anche ricordato come l’anno del Premio Nobel per la fisica di Albert Einstein. In realtà il premio gli fu conferito solo nel 1922 e quell’anno Einstein non poté nemmeno recarsi a Stoccolma per ritirarlo. Quando la notizia lo raggiunse, si trovava infatti in mare, tra gli Stati Uniti e il Giappone dove era diretto, e gli fu assolutamente impossibile partecipare alla cerimonia di Stoccolma. Ma poiché per poter ricevere il premio in denaro, non soltanto il riconoscimento, era indispensabile tenere una Nobel Lecture, Einstein giunse finalmente in Svezia nel 1923. Invitato da Svante Arrhenius (Premio Nobel 1903 per la Chimica) a Göteborg, l’11 luglio 1923 vi tenne una celebre lezione su Idee e problemi fondamentali della teoria della relatività, lezione che tuttavia non illustrava il lavoro per il quale gli era stato attribuito il Premio Nobel. Ma poiché la gente era ben più interessata alla nuova e straordinaria teoria della relatività che all’effetto fotoelettrico (la motivazione ufficiale del premio), gli fu espressamente chiesto di parlarne. Ciò che fece ben volentieri di fronte al re di Svezia

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ALBERT EINSTEIN Gustavo V, in un’aula gremita, alla 17ma Conferenza Scandinava delle Scienze Naturali organizzata durante l’esposizione mondiale per il giubileo di Göteborg (in svedese Jubileumsutställningen i Göteborg), tenutasi in occasione del 300° anniversario della fondazione della città. Questa tardiva lezione tenuta nel 1923 a Göteborg, invece che a Stoccolma, su un argomento estraneo al premio, divenne tuttavia la Nobel Lecture di Einstein (e fu pubblicata come tale) per il suo Premio Nobel del 1921 vinto nel 1922! Ora che le carte della Reale Accademia Svedese delle Scienze sul caso Einstein non sono più secretate, scoprire quanto fu difficile premiare il plurinominato e famosissimo fisico teorico è quasi surreale. Il motivo per cui il Premio Nobel venne sospeso nel 1921 e non venne attribuito a nessuno fu proprio l’accesa controversia in seno al Comitato Nobel sulle rivoluzionarie teorie di Einstein della relatività ristretta e della relatività generale (cioè della gravità). Il problema fu brillantemente risolto da Carl Wilhelm Oseen (fisico matematico dell’Università di Uppsala, entrato a far parte del Comitato Nobel per la fisica nel 1922) che riuscì a proporre un duo i cui lavori erano a suo modo di vedere correlati: il professor Albert Einstein, di Berlino, come Premio Nobel 1921 per l’effetto fotoelettrico («indipendentemente dal valore che, previa conferma, potrebbe essere attribuito alle teorie della relatività e della gravità») e il professor Niels Bohr, di Copenhagen, come Premio Nobel 1922 per la struttura dell’atomo. Einstein è l’unico Nobel la cui motivazione del premio indica anche per cosa non risultò vincitore. Forse si trattò di una deliberata scelta degli accademici svedesi per lasciargli la chance di poterne poi ottenere un altro. Il che però non avvenne. 3. GIORNI INDIMENTICABILI

Alcuni mesi prima delle conferenze bolognesi di Langevin, e precisamente l’8 febbraio 1923, Enriques aveva preso di nuovo la penna per scrivere ad Einstein. Questa volta però per gravi ragioni. Enriques, infatti, nel richiamare gli «indimenticabili giorni» di Bologna e nell’informarlo del suo trasferimento a Roma, gli ricordava il «desiderio che molti avrebbero in Italia di averLa qui stabilmente fra noi [...]» anche perché circolavano voci che le condizioni a [Berlino] fossero mutate e che per ragioni di antisemitismo Einstein non si trovasse più bene e stesse per lasciare quel posto e anche la Germania. «Se così è» – egli prose-

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guiva – «rinasce la speranza di poterLa guadagnare, in qualche modo al nostro Paese. [...] Io mi sono limitato a parlarne col Ministro della P. Istruzione, che è il filosofo idealista prof. Gentile, ed egli mi ha autorizzato – sebbene in stretta confidenza – a dirLe che è per parte sua disposto ad accogliere molto volentieri una iniziativa in proposito». Einstein, profondamente commosso, rispose pochi mesi dopo declinando l’invito: «Caro collega, la Sua lettera mi ha molto commosso, e devo confessarLe apertamente che preferirei la compagnia Sua, e di Levi-Civita, a quella dei mie colleghi qui. Ma [...] sono molto legato al mio attuale ambiente da rapporti famigliari, d’amicizia e d’affari. Alla mia età non è poi così facile cambiare ambiente [...] Ma se in futuro mi sentirò costretto, per l’aggravarsi della situazione, ad abbandonare questo mio nido, mi rivolgerò subito a Lei con gioia e fiducia». Grande – nei ricordi di Adriana Enriques – fu la delusione dello stabile romano di via Sardegna ove abitavano tanto gli Enriques quanto i Levi-Civita; e tuttavia occorreva informare celermente – lo sapeva bene Enriques – il ministro Gentile, un personaggio da non offendere! «Caro Ministro, mi affretto a comunicarLe la risposta ricevuta da Einstein […] Einstein esprime la più viva gratitudine per l’idea avuta a suo riguardo e anche la maggior simpatia pei colleghi con cui qui si troverebbe, ma dice che ormai egli si è foggiato a Berlino un circolo ristretto nel quale vive e che gli sarebbe difficile di lasciare. Alla mia età in genere non è così facile cambiare ambiente, perché non si è più abbastanza elastici per amalgamarsi con uno nuovo. Einstein aggiunge espressioni di simpatia per il nostro Paese e finisce la lettera dicendo che – se in avvenire – dovesse pensare a cambiare ambiente si rivolgerà a me in tutta confidenza». Secondo Adriana, il tentativo di chiamare Einstein in Italia fu ripetuto dieci anni dopo. Ma questa volta – come ebbe a precisare – fu Mussolini in persona ad opporsi; a quel tempo l’atmosfera politica era profondamente mutata da quando il regime fascista nel 1925 si era tramutato in una vera e propria dittatura. A metà ottobre del 1933 Einstein perseguitato dal regime nazionalsocialista, emigrò negli Stati Uniti per non tornare mai più in Europa, senza dimenticare, però, l’Italia, come ebbe modo di scrivere a Benedetto Croce nel 1944 augurandosi «che la sua bella patria» che «amava tanto da fanciullo fosse presto liberata dai malvagi oppressori di fuori e di dentro». ■


Niels Bohr e Albert Einstein nel 1925, premi Nobel per la fisica nel biennio 1921-22.

CARLO ROVELLI, “RELATIVITÀ GENERALE”, ADELPHI 2021 «Non è un libro divulgativo destinato al grande pubblico, è un libro di testo che nasce dalle mie note per il corso universitario di introduzione alla teoria della relatività, che ho insegnato per molti anni, prima negli Stati Uniti e poi in Francia. Un manualetto introduttivo, sintetico. Cerca di presentarne in modo profondo ma semplice le basi concettuali, filosofiche, fisiche e matematiche, e riassumerne la struttura e i risultati più importanti: onde gravitazionali, espansione dell’universo, buchi neri… gli straordinari fenomeni previsti dalla teoria, la cui verifica in anni recenti ha fatto piovere premi Nobel sulla comunità di ricerca dei «relativisti». Per me la relatività generale è stata un grande amore. Ma lo sforzo di «capirla» è stato un lungo percorso che non si è mai davvero concluso. Come capire un grande amore, d’altronde. La teoria è un salto avanti strepitoso nella nostra comprensione del mondo, di quelli che ci vuole tempo per digerire a fondo. Einstein, dopo averne completato le equazioni nel 1917, è tornato molte volte sul significato della sua teoria, cambiando ripetutamente idea sul modo in cui intenderla. A mio giudizio, la versione migliore che ne dà è in uno scritto tardo, degli anni Cinquanta. Oggi non si discute più su cosa la teoria predica. Ma si discute ancora su come meglio pensarla. In sintesi, la relatività generale è la scoperta che due entità che credevamo essere diverse sono in realtà

la stessa. Una è il campo gravitazionale, il fratellino del campo elettrico, che trasmette la forza di gravità come il campo elettrico trasmette la forza elettrica. L’altra è lo spazio in cui siamo immersi. Anzi, lo «spaziotempo», che è un po’ la casa dentro cui vive la realtà. Quando si scopre che due cose sono in realtà la stessa, se ne può eliminare una. Molti, tra cui all’inizio anche Einstein, hanno esclamato «Ah! Ma allora il campo gravitazionale in realtà è lo spaziotempo (che si incurva)». Qualcun altro però preferisce guardare la cosa dal punto di vista opposto: «Ah! Ma allora lo spaziotempo, la casa dentro cui succedono le cose, non è altro che il campo gravitazionale!». Tra questi c’è Einstein nelle sue riflessioni più mature. Secondo me questa seconda prospettiva, forse meno comune, è più lungimirante. Non perché i due punti di vista portino a predizioni diverse. In fondo si tratta solo di nomi. Ma ai nomi sono associate immagini intuitive potenti, i nomi si legano naturalmente ad altre idee, e orientano il pensiero in un modo o nell’altro. Il grande fisico americano Richard Feynman ha scritto che un buon scienziato tiene in mente modi equivalenti per comprendere gli stessi fenomeni, perché uno fra gli altri si rivelerà poi più efficace. Il lavoro della mia vita è cercare di estendere la teoria di Einstein per includere anche gli aspetti quantistici della gravità. Per farlo, è necessario prendere la teoria dal verso giusto». (Carlo Rovelli)

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L’ULTIMA GUERRA SERVILE

SPARTACO,

O L’EROICA SCONFITTA Estate del 71 a.C. La sollevazione del celebre gladiatore ribelle non intacca lo schiavismo di Roma ma crea un mito. Alimentato da autori antichi, recuperato dall’Illuminismo e rilanciato dal marxismo storico. Luca Fezzi

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oma antica è, da sempre, oggetto di reinterpretazioni, a volte di appropriazioni, che si susseguono tra epoche, sensibilità, contingenze e pubblicistiche diverse. È il prezzo della fama, e poco importa che essa sia stata guadagnata nei secoli da una civiltà complessa, stratificata, mutevole e fondamentalmente pragmatica. Anzi, proprio tali caratteristiche hanno moltiplicato le letture. Ancora oggi, la eco d’imperiali identificazioni otto-novecentesche riesce ad alimentare disinformate ostilità verso quel lontano passato. In reazione non mancano voci che, enfatizzandone gli aspetti più inclusivi, si spingono a indicarlo a modello per la società del futuro. Immune da rivalutazioni è naturalmente – e ci auguriamo che tale resti – il fenomeno della schiavitù. Esso dà la misura di una quotidianità oggi immaginabile sempre più a fatica, di una violenza – almeno in linea teorica – allo stato puro, sottratta alla sfera del diritto. Esso evoca, tra le altre cose, un nome, una storia e un mito, oggetto a sua volta di reinterpretazioni e appropriazioni. Ci stiamo riferendo, naturalmente, a Spartaco. Il gladiatore di probabili origini traci riuscì a dare vita all’ultima, più grave e celebre rivolta degli schiavi, le onnipresenti “macchine parlanti” che facevano girare l’economia dell’epoca. La ribellione, nata a Capua, guadagnò decine di migliaia di adepti, che

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sbaragliarono a più riprese gli eserciti regolari e misero in pericolo la stessa Urbe. Per mettere in crisi il loro improvvisato quanto eccezionale condottiero furono necessarie le forze di Marco Licinio Crasso, alle quali Gneo Pompeo “Magno” stava per aggiungere le proprie. Non si trattava di personaggi qualsiasi: entrambi, poi affiancati da Gaio Giulio Cesare, sarebbero stati protagonisti assoluti, per il ventennio successivo, della scena politica romana. Anche lo schiavo ideatore della rivolta incompiuta sarebbe divenuto, con il tempo – sebbene un lungo tempo – un simbolo di primissimo piano: quello dell’affrancamento delle masse, in particolar modo proletarie. FONTI AUTOREVOLI MA CONTRADDITTORIE

Partiamo dalla storia e, naturalmente, dalle fonti, numerose ma parziali e spesso contraddittorie. Al netto delle perdite drammatiche – come quella delle Storie di Sallustio, giunte a noi solo in frammenti –, dobbiamo tenere conto delle difficoltà e dei filtri attraverso i quali l’armata di schiavi e i suoi obiettivi – l’una e gli altri estranei, mobili e ostili – potevano essere interpretati prima dai romani e poi dagli storici. Sembra di poter isolare, già nell’antichità, due diverse tendenze. Una, comune a Sallustio, a Plutarco (Vita di Crasso) e ad Appiano (Guerre civili) – quest’ultimo apprezzato, tra gli altri, da Karl Marx – si sofferma


È del 1960 il kolossal hollywoodiano interpretato da Kirk Douglas e diretto da Stanley Kubrick, ispirato a un bestseller di Howard Fast, vittima del maccartismo (1951). Anche grazie a quest’opera la rivolta di Spartaco, fino ad allora presente soprattutto nella retorica comunista, divenne simbolo universale, tanto da essere citato da Ronald Reagan nella Westminster Speech (1982), decisamente anticomunista. C. M. Evans/AF Archive/Mondadori Portfolio

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L’ULTIMA GUERRA SERVILE sulla figura di Spartaco, riconoscendogli una certa nobiltà, se non di origini perlomeno di carattere e d’intenti. L’altra, derivata dai perduti libri 95-97 di Livio, pare interamente ostile alla rivolta degli schiavi. Essa esplose nel 73 a.C., a Capua, presso una scuola di gladiatori, in maggioranza celti e traci. Si trattava di una sorta di palestra-caserma-carcere, dove gli schiavi più forti erano allenati a uccidere e a morire nell’arena, sotto gli sguardi dei romani. Pare che in ben 200 avessero pianificato la fuga, ma che una delazione avesse mandato a monte il piano. Riuscirono nell’impresa solo in una settantina, tra cui Spartaco. Egli potrebbe anzi essere stato la mente dell’evasione, convincendo gli altri «a lottare per la propria libertà piuttosto che per pubblico spettacolo» (Appiano). Le fonti tutte lo descrivono come trace. Più precisamente, c’è chi sostiene che egli appartenesse a una tribù di nomadi (o dei), che fosse straordinariamente coraggioso e forte, intelligente e mite, più greco che barbaro (Plutarco). Aveva avuto un passato burrascoso: da mercenario era divenuto soldato, poi disertore, quindi latro (che in latino vuol dire “brigante” ma anche “ribelle”) e, infine, gladiatore (Floro, Epitome da Tito Livio). C’è chi ritiene che il castigo fosse eccessivo, non essendosi egli macchiato di colpe gravi (Plutarco e Varrone). Il nome di Spartaco è riportato da una pittura pompeiana che raffigura un combattimento tra gladiatori, ma alcuni hanno ipotizzato che il suo fosse un nom de guerre. La critica ha anche messo in dubbio le sue origini traci, pensando a una confusione con il ruolo di Thraex, ”trace”, il gladiatore armato alla leggera. Una fonte sostiene però che fosse un murmillo, un “mirmillone” (Floro), la specialità che richiedeva il fisico più robusto. Questo tipo di combattente aveva un pesante elmo di bronzo, protezioni per braccia e gambe, nonché uno scutum e un gladius simili a quelli dei legionari romani. Spartaco aveva una compagna, anch’ella trace, una profetessa di Dioniso che lo avrebbe accompagnato nella prigionia e ispirato nell’azione (Plutarco). L’ARMATA RIBELLE VINCE MOLTE BATTAGLIE

In ogni caso, i ribelli s’impossessarono di armi, o per avere intercettato carri che trasportavano equipaggiamenti per gladiatori o per avere catturato spade e bastoni dai viandanti. Secondo Plutarco, fu solo allora che i fuggitivi si diedero tre capi: Spartaco e, sotto di lui, i celti Crisso ed Enomao. La gerarchia è ricordata anche da Appiano ma non da altre fonti, ciò che fa riflettere sulla catena di comando e le sue criticità.

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I ribelli respinsero le forze inviate contro di loro da Capua e conquistarono armi da guerra, arroccandosi sul Vesuvio; Spartaco attirò molti schiavi fuggitivi e uomini liberi provenienti dai campi, organizzando scorrerie e dividendo equamente il bottino. Una svolta si ebbe proprio presso il Vesuvio, dove, a distanza di tempo, furono sconfitti ben due magistrati romani, probabilmente pretori. In seguito a tale successo, secondo Appiano, i ribelli avrebbero raggiunto il numero di 70 mila, ormai un vero esercito, in grado di fabbricare armi ed equipaggiamenti. C’è chi, più prudentemente, parla di un totale massimo di 60 mila (Eutropio, Storia di Roma). Pare che i due magistrati fossero giunti a comandare circa 3 mila uomini a testa, ma raccolti in fretta, in quanto, per i romani, quella contro gli schiavi non era una vera guerra. Fu un errore, oltretutto ripetuto. Dapprima i ribelli, assediati, erano riusciti a calarsi da una parete scoscesa del monte tagliando tralci di vite selvatica, poi, colti i nemici di sorpresa, si erano impadroniti dell’accampamento. Non dovevano essere ancora moltissimi (solo Floro parla già di 10 mila uomini). In ogni caso, il primo successo ne aveva accresciuto il numero. Dopo una serie di scontri contro l’altro magistrato, avvenuti sempre nell’area vesuviana, si erano impossessati di un secondo e di un terzo accampamento; Spartaco aveva catturato il cavallo e forse anche i littori del comandante nemico. I vincitori continuarono a devastare la Campania, ville e villaggi, nonché Nola e Nocera, per spostarsi poi sullo Ionio, presso Thurii e Metaponto. Nella marcia autunnale verso la Lucania, si erano dati a razzie, uccisioni, incendi e stupri, senza che il comandante riuscisse a fermarli, come invece avrebbe voluto. Sarebbero comunque riusciti a raddoppiare i loro effettivi, riorganizzando esercito e cavalleria. L’anno seguente si mossero i supremi magistrati di Roma, come ricorda Appiano, con 2 legioni (a testa, più probabilmente, con una forza complessiva quantificabile in un totale di 20 mila uomini). Si trattava dei due consoli Lucio Gellio Publicola e Gneo Cornelio Lentulo Clodiano, entrambi poco esperti di guerra. Parte dei ribelli (per alcuni ben 30 mila, per altri solo 10 mila), comandata da Crisso e staccatasi dal resto delle truppe, fu vinta presso il Gargano dall’esercito di Gellio. Tra gli sconfitti caddero sul campo 2 uomini su 3. Perché tale separazione? Il terzo comandante, Enomao, era già morto in battaglia, e forse celti e germani al seguito di Crisso erano convinti di poter continuare con le razzie sul suolo italico. Plutarco


Resta in calendario sino al 6 gennaio 2022 la mostra Gladiatori, allestita al Mann, Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Nel Salone della Meridiana sono esposti 160 reperti divisi in sei percorsi che raccontano l’ars gladiatoria. È tecnologica “Gladiatorimania”, sezione concentrata nel Braccio Nuovo del Museo. Qui sopra, una lastra rinvenuta nella necropoli del Gaudo. Nella pagina successiva, una sequenza di elmi. Credit: Mario Laporta/Kontrolab

ha ipotizzato che Spartaco, al contrario, puntasse ad attraversare le Alpi perché celti e traci potessero tornare nei luoghi d’origine. GLI OBIETTIVI DELLA RIVOLTA

La critica moderna ha posizioni più varie, e non manca chi ritiene la separazione delle forze una mossa strategica, volta ad accrescere i ranghi dei ribelli e a superare i problemi di approvvigionamento. Più in generale, si pensa che Spartaco avesse un piano ambizioso, maturato in una contingenza particolarmente negativa per Roma, segnata dalla ribellione del generale Sertorio in Spagna, dalla guerra del re Mitridate VI in Asia e da sempre più feroci scorrerie piratesche nell’intero Mediterraneo. Suo obiettivo era, forse, una ribellione su vasta scala: non solo degli schiavi ma anche delle plebi delle varie genti italiche, che solo recentemente erano riuscite, dopo una guerra sanguinosissima, a ottenere la cittadinanza romana. In ogni caso, cominciò a risalire gli Appennini verso nord. Su di lui convergeva Lentulo, mentre Gellio lo

inseguiva. Sconfisse entrambi, in due diversi combattimenti (anche se Plutarco non accenna al secondo). Gli si fece poi incontro il proconsole della Cisalpina, Gaio Cassio Longino, con 10 mila uomini; Spartaco ripeté l’impresa, forse presso Modena, e Longino riuscì a malapena a salvare la propria vita. Spartaco aveva superato ormai ogni aspettativa, e il suo esercito si era giovato «della pratica e dei sistemi imparati dai romani» (Cesare, Guerra gallica). Non fuggì però verso il nord, come avrebbe potuto fare, sempre a patto che i suoi uomini fossero decisi ad affrontare i passi alpini. Organizzò funerali in onore di Crisso, nei quali fece combattere, nel ruolo di gladiatori, centinaia di prigionieri romani. Si diresse quindi, secondo alcune versioni, verso l’Urbe, forse per incendiarla. A questo punto la narrazione si fa più confusa. Secondo Appiano, attraversato il Piceno, Spartaco sconfisse nuovamente i consoli, forte di un’armata giunta addirittura a 120 mila uomini. Plutarco, invece, non riporta tale battaglia. Rinunziò tuttavia a

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L’ULTIMA GUERRA SERVILE marciare su Roma, forse per l’incapacità di operare un assedio – già sperimentata anche dal ben più organizzato Annibale –, e occupò i monti attorno a Thurii e la città stessa, rifornendosi di materiali e sconfiggendo ancora una volta i romani. Secondo alcuni il ripensamento era dovuto all’azione di Crasso, inviato dal senato per risollevare la situazione. Il nuovo proconsole romano reclutò 6 legioni, che aggiunse alle altre già sul campo. Il senato mandò inoltre a chiamare, forse su richiesta dello stesso Crasso, il proconsole Pompeo, ancora in Spagna, e l’omologo Marco Terenzio Varrone Lucullo, allora in Macedonia: i due, insieme, avevano un totale di quasi 20 legioni. All’inizio, anche per Crasso, le cose furono difficili. C’era addirittura chi rammentava una sconfitta delle sue 8 legioni e il ricorso, da parte del comandante, alla desueta pratica della decimatio punitiva, che avrebbe prodotto, tra i soldati, ben 4 mila vittime (ma per Appiano e Plutarco la sconfitta fu più limitata e gli uomini messi a morte furono, rispettivamente, 1000 e 50). Crasso attaccò poi un gruppo isolato di 10 o 6 mila ribelli, uccidendo 2 nemici su 3. Spartaco iniziò a ritirarsi verso il mare; presso lo Stretto di Messina pattuì con i pirati il passaggio in Sicilia per 2 mila uomini. Sua intenzione era forse quella di portare il caos anche nell’isola – già teatro, nei sessant’anni precedenti, di due tremende rivolte servili – ma fu ingannato. Non riuscì neppure con le zattere, ostacolate dal mare agitato. Va detto che nell’isola governava il propretore Gaio Verre, divenuto noto per l’accusa ciceroniana di crimini e ruberie ma probabilmente efficace nel dissuadere lo sbarco. Spartaco tornò così verso l’interno; secondo alcune fonti, Crasso ricorse a opere d’assedio; per Plutarco, addirittura, decise di sbarrare l’odierna Calabria con una fossa e un muro, lunghi ben 55 chilometri. L’improbabile costruzione si sarebbe sviluppata dal golfo di Sant’Eufemia a quello di Squillace o più a sud, da Locri a Gioia Tauro; più corretto è pensare a una costruzione ridotta, solo nella strategica zona del Dossone della Melìa. Spartaco, con perdite non quantificabili, riuscì comunque a passare, giungendo probabilmente in Lucania. Crasso, forse pentitosi di avere richiesto l’aiuto di altri proconsoli, decise di accelerare gli eventi, attaccando – con una dinamica praticamente impossibile da ricostruire – reparti separati, forse di celti e germani, e riuscendo a uccidere più di 12 mila nemici (il perduto Livio ne indicava addirittura 35 mila). Spartaco si ritirò presso i monti

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Petelini (non meglio identificati); riuscì a sconfiggere due luogotenenti di Crasso, avvicinatisi troppo durante l’inseguimento. Appiano invece omette tutti questi episodi: cita l’opera di assedio, una non ben chiarita guerriglia, e poi una proposta di trattativa, avanzata da Spartaco, informato dell’arrivo di Pompeo, proposta che Crasso rifiutò sprezzante; in risposta, Spartaco si sarebbe gettato attraverso le fortificazioni costruitegli attorno, muovendosi verso Brindisi, ma presto avrebbe saputo che là era sbarcata l’armata di Lucullo, proveniente dalla Macedonia. Le fonti concordano sul fatto che venne allora a battaglia con Crasso, in un luogo che una di esse indica presso il Sele e che un’ipotesi attendibile colloca nell’alta valle del fiume. MUORE SPARTACO, NASCE IL MITO

Le fonti descrivono una fine eroica. Secondo Plutarco, Spartaco abbatté il proprio cavallo, sia per sacrificare alla divinità sia per dare un segno ai suoi uomini, poi andò a cercare di persona il comandante nemico, Crasso, uccidendo ben due centurioni che gli si erano gettati simultaneamente addosso. Morì resistendo con fierezza nonostante le ferite e combattendo sempre in prima linea. Secondo Plutarco fu accerchiato e abbattuto da una folla di nemici, mentre già i compagni erano fuggiti; secondo Appiano, invece, fu ferito alla coscia da un giavellotto e, caduto in ginocchio e gettato lo scudo, resistette agli assalitori, finché morì assieme a un gran numero dei suoi, accerchiati dai nemici. Pare che il suo corpo non sia mai stato trovato. C’è chi parla, per l’ultimo scontro, di ben 60 mila caduti. Tra i ribelli, i soli catturati vivi, circa 6 mila, furono fatti crocifiggere da Crasso lungo il percorso tra Capua e Roma (Appiano). Si trattava della via Appia (195 chilometri) o meno probabilmente della via Latina (220 chilometri). La crocifissione era la pena dello LUCA FEZZI Docente di Storia romana all’Università degli Studi di Padova, ha all’attivo numerosi contributi specialistici su temi di storia, economia e diritto del mondo greco e romano, di ‘fortuna’ dei modelli antichi nel pensiero politico moderno e contemporaneo. Tra i suoi libri: Cesare. La giovinezza del grande condottiero, Mondadori 2020; Pompeo, Salerno editrice 2019; Il dado è tratto. Cesare e la resa di Roma, Laterza 2017.


schiavo e, allo stesso tempo, un monito: lo spettacolo dovette essere atroce, con un individuo agonizzante ogni 30 metri. Altri 5 mila superstiti in fuga verso il nord furono invece massacrati da Pompeo. Gli ultimi resti della ribellione – cui si sarebbero aggiunti quelli della rivolta di Catilina, consumatasi tra il 63 e il 62 a.C. – sarebbero stati infine repressi a Thurii, nel 60 a.C., da Gaio Ottavio, il padre naturale del futuro Augusto (Svetonio, Vita di Augusto). La storia di Spartaco potrebbe aver già dato origine, nell’antichità, a un mito guerriero, quello dello schiavo che era riuscito a mettere Roma in ginocchio. Riflessioni sulla libertà degli individui e sulla ribellione nei confronti della condizione servile furono invece ben più tarde, frutto di una sensibilità moderna, capace di guardare al di là di un orizzonte economico così legato alla schiavitù. La reinterpretazione marxista fu centrale. Si ebbe già con Marx, poi tra il 1916 e il 1919 con la Spartakusbund, la “Lega degli Spartachisti”: pur nella consapevolezza delle radicali differenze tra sistema di produzione schiavistico e sistema di produzione capitalistico, Spartaco diventava un simbolo del proletariato oppresso. Fu così che, tra le molte altre cose, il nome del gladiatore – e atleta – dell’antichità fu adottato, in era sovietica, per le società sportive, tra cui naturalmente la “Spartak Moskva”. Al tempo stesso, con il nome di Spartakiada Narodov SSSR si indicò la versione olimpica del blocco sovietico. Là, tuttavia, la figura del gladiatore non apparteneva solo alla cultura di massa: basti ricordare che il compositore Aram Chačaturjan musicò il balletto Spartak (1956).

Il mito del combattente per la libertà, tuttavia, era nato e si era sviluppato già prima del marxismo. Voltaire nelle Questions sur l’Encyclopédie (1771), sotto la voce “Esclaves”, dichiarò che tra tutte le guerre quella di Spartaco era forse stata la più giusta. Charles de Brosses produsse invece il primo studio dettagliato sulla sua rivolta (1774). Bernard-Joseph Saurin fu autore di una celebre tragedia in 5 atti dedicata al personaggio (1760). La figura di Spartaco fu richiamata anche da François-Dominique Toussaint Louverture, uno tra i protagonisti della rivoluzione di Haiti, che fu appunto una sollevazione di schiavi (1791-1802). In Italia invece, non essendo andati in porto i progetti di tragedia di Alessandro Manzoni e di Ippolito Nievo, la figura di Spartaco si affermò più tardi attraverso il romanzo di Raffaello Giovagnoli (1873), che riscosse enorme successo. Questo libro fu introdotto in seconda edizione (1875) da un’epistola di Giuseppe Garibaldi, che definiva sé stesso «quasi liberto» e che lodava l’autore come un Michelangelo che aveva scolpito un «Cristo Redentore degli schiavi». Per Garibaldi, naturalmente, il primario interesse era quello politico della liberazione dei popoli e non degli schiavi. L’opera fu riedita più volte e anche sottoposta ad adattamenti stilistici e lessicali (1952), come peraltro auspicato dallo stesso Antonio Gramsci. Ebbe anche traduzioni in numerose lingue, tra cui una in ebraico, da parte del leader sionista Ze’ev Jabotinsky, che si diffuse particolarmente nei circoli ebraici russi prima della Rivoluzione. Il romanzo di Giovagnoli fece anche da base al film Spartaco, di Giovanni Enrico Vidali (1913). ■

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RICERCA FELIX

ANCHE LE FORMICHE, NEL LORO PICCOLO, CI INSEGNANO L’Italia è disseminata di storie di ricerca e di passione. Il nostro è infatti un Paese di eccellenze spesso ignorate dalla società e dalle istituzioni. Questa rubrica aspira a diventare il luogo dove raccontare storie di donne e uomini di scienza e delle loro domande. Iniziamo con l’etologo Donato Grasso. Elena Cattaneo

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U

no degli aspetti più affascinanti della scienza è l’incredibile varietà delle attività di ricerca, accomunate da un solo metodo. Ci sono studiosi alle prese con la decifrazione delle scritture antiche, altri con la ricerca sull’intelligenza artificiale, altri ancora mossi dal tentativo di raggiungere le stelle più lontane o capire gli insetti più piccoli, una malattia o le eruzioni vulcaniche. Alla base di tutto c’è una domanda. Ma come nasce la scintilla che illumina il primo istante di una ricerca? E come si accumulano le prove per rispondere con un “sì” o con un “no” a quella domanda e arrivare a conoscere domani ciò che oggi non conosciamo? «Fin da bambino ho manifestato una particolare attrazione nei confronti dei comportamenti degli animali, con un’attitudine alla ricerca, alla volontà di comprendere i fenomeni e i meccanismi che li generano e li caratterizzano». Risponde così Donato Grasso, etologo, professore associato dell’Università di Parma, autore del libro Il Formicaio intelligente (Zanichelli, 2018), esperto di mirmecologia (la branca dell’entomologia che si occupa della vita e dei comportamenti delle formiche) i cui studi ci rivelano meccanismi relazionali individuali e collettivi a tratti traslabili anche alle organizzazioni sociali umane. Complice il giardino di casa («che offre spunti di ricerca e di esplorazione quanto la foresta tropicale»), l’interesse di Grasso si è concentrato sugli insetti, che rappresentano l’80% delle specie descritte del mondo animale. «Le formiche sono animali familiari a tutti, ma sconosciuti in molte delle loro abitudini. Studiarle è un modo per sperimentare un principio generale dell’avventura scientifica: indagare l’inesplorato, ovunque si trovi, ai confini della conoscenza. Secondo il grande biologo E.O. Wilson, uno dei miei maestri, sarebbe possibile dedicare un’intera vita a un viaggio, simile a quello di Magellano, ma intorno al tronco di un solo albero». Studiando il loro variegato mondo, apprendiamo che questi piccoli insetti comunitari sono tra i più diffusi: miliardi di individui distribuiti nelle 13.200 specie attualmente descritte, di cui 270 in Italia. Meno diffusa è la consapevolezza di quanto, nel loro piccolo, possano insegnarci. Ma come si “studiano” le formiche? Proviamo a immaginarle nel nido, a migliaia, in movimento, dentro e fuori. Dormiranno? Quanto? Come? E chi le comanda? Io pensavo le comandasse una “monarca” e invece gli studiosi hanno capito che non è così. Quella delle formiche resta una società matriarcale dove i maschi, utili quasi solo alla riprodu-

zione, vivono poche settimane, ma sono le decisioni (a volte persino casuali) di pochi individui a produrre un effetto collettivo sulla massa che poi si auto-organizza. Questi insetti, infatti, alla dimensione individuale ne affiancano una sociale straordinariamente avanzata. Per capire come funzionano le loro colonie è necessario letteralmente “zoomare” nel corpo, nel cervello di questi singoli organismi e studiarne i meccanismi, penetrando nel mondo cellulare e in quello molecolare per poi ritornare alla dimensione collettiva che ingloba il singolo. Così è possibile capire le regole che governano le loro società e le conseguenze importanti persino nelle dinamiche ecologiche. Come ogni ricercatore anche Grasso aveva la “sua domanda”, l’interrogativo che ha tormentato le sue giornate alla ricerca di una risposta che, nell’attimo in cui arriva, fa quasi esplodere il cuore. «Per me si trattava di capire come certe formiche organizzassero le loro scorrerie per saccheggiare le colonie di altre specie allo scopo di catturarne la prole da cui ottenere delle “schiave”; come individuassero il nido bersaglio e come lo saccheggiassero senza opposizione da parte delle residenti. Erano interrogativi a cui nessuno aveva dato una risposta convincente». Appare avvincente, questa storia che riecheggia le “gesta predatorie” di tante popolazioni del nostro passato. Ho chiesto a Grasso di raccontarmela. LE AMAZZONI

«Le Polyergus rufescens, le Amazzoni (tutte femmine guerriere), sono formiche schiaviste (più tecnicamente “dulotiche”, dal greco dulos, schiavo). Si muovono in migliaia, ben organizzate, in una schiera compatta a formare un serpentone rosso lungo alcuni metri. Giunte al nido bersaglio, entrano in un sol colpo, scomparendo improvvisamente; in pochi minuti ne riemergono, ciascuna portando tra le mandibole le pupe delle formiche residenti, a centinaia. La prole razziata viene “allevata” nella nuova colonia; le operaie che ne emergeranno una volta adulte saranno completamente integrate nella nuova società e utilizzate come forza lavoro nella colonia adottiva. Svolgeranno mansioni domestiche, a cui le operaie parassite non sono adatte: dalla cura della prole e della regina alla manutenzione e difesa del nido, alla raccolta del cibo. Si forma quindi una colonia mista fatta di due specie diverse: le razziatrici guerriere e parassite e le loro schiave lavoratrici “inconsapevoli” che la loro cooperazione è stata carpita con l’inganno». Provo a immaginarlo, Grasso, mentre conduce le sue osser-

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RICERCA FELIX vazioni e gli esperimenti sul campo, mesi in natura a sporcarsi le mani, per poi rientrare in laboratorio a elaborare ipotesi, condurre esperimenti, analisi matematiche e chimiche, fino a sbrogliare l’enigma. Lui e il suo gruppo hanno impiegato anni a sperimentare, insieme a scienziati di diverse discipline. Dapprima hanno marcato le formiche per poterle identificare individualmente tramite codici di colori applicati sul loro dorso. Operazione non semplice e degna di un miniaturista: bisogna letteralmente catturare gli individui, uno a uno, trattenerli delicatamente, poi con pennarelli non tossici applicare la combinazione di colori identificativa (rosso-rosso, rosso-bianco e così via), il tutto in modo rapido, preciso, sperimentalmente documentabile. Seguendone il percorso anche per 200 metri, registrandone il tragitto e manipolandone il comportamento hanno dimostrato che le colonie di Amazzoni si affidano ad operaie esploratrici (scout) per la scelta del nido da razziare. «Si tratta – spiega Grasso – di operaie con dotazione sensoriale e capacità percettive e elaborative fuori dal comune: sanno valutare la posizione del nido bersaglio rispetto a casa, la specie e anche il grado di reattività. Partono in tarda mattinata per le loro lunghissime esplorazioni»”. Una volta che le scout hanno identificato il nido, le Amazzoni razziatrici, per saccheggiare senza essere contrattaccate, utilizzano una piccola ghiandola situata alla base delle mandibole che produce una secrezione di “propaganda”: l’effetto è disorientare le formiche residenti al momento dell’incursione. «Ogni razziatrice ne produce piccole quantità; quando sono migliaia, l’effetto nel nido è un fuggi-fuggi generale che favorisce il saccheggio della prole lasciata incustodita dalle residenti, prese dal panico». COME TORNANO A CASA?

Un altro aspetto curioso delle esplorazioni mattutine delle Amazzoni scout è che il percorso del ritorno a casa è sempre più breve e rettilineo dell’andata. Ecco quindi un secondo interrogativo: come fanno a sapere dov’è “casa” in qualunque punto si trovino? Le Amazzoni (scoprono Grasso e collaboratori), al pari delle formiche deserticole del genere Cataglyphis, tornano al nido usando un meccanismo di orientamento chiamato path integration (integrazione del percorso) che si basa su un calcolo vettoriale: nel percorso di andata la formica registra e integra nel suo sistema nervoso centrale ogni spostamento; ciascun tratto può essere considerato come un vettore (definibile dalla distanza percorsa e dalla direzione di movimento).

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Quando la formica decide di tornare a casa, l’integrazione di questi vettori produce un vettore “di rientro” che indica direzione e distanza da seguire per rientrare al nido in linea retta, indipendentemente da quanto tortuoso sia stato il percorso di andata. Per calcolare le direzioni degli spostamenti, queste formiche si servono della posizione del sole o, se coperto, di un parametro a essa correlato, il pattern di polarizzazione della luce nel cielo. Per quanto riguarda la lunghezza dei vettori e quindi il calcolo della distanza percorsa, il meccanismo utilizzato da Polyergus non è ancora noto ma potrebbe essere simile a quello evoluto da altre specie. Ad esempio, si è scoperto che le formiche del deserto sahariano Cataglyphis fortis, per calcolare le distanze percorse, fanno affidamento su una specie di contapassi interno. L’esperimento congegnato dagli studiosi consisteva nel disporre cibo a circa 10 metri di distanza dal nido delle formiche e poi nel modificare la lunghezza delle loro zampette. Ad alcune le hanno allungate con dei “trampoli”, ad altre accorciate. Ebbene, le formiche con le zampe più corte si fermavano prima di raggiungere il nido: i passi erano giusti nel numero ma insufficienti in lunghezza. Quelle con le zampe più lunghe, invece, superavano il nido perché ad ogni passo percorrevano più strada. Sembra tuttavia che questo non sia il solo modo di calcolare le distanze. Una specie affine, Cataglyphis bicolor, non si basa solo sulla conta dei passi ma anche sul flusso ottico percepito durante i movimenti, in pratica la velocità di spostamento dei riferimenti visivi intorno a sé. Come si è capito? A volte accade che alcuni individui ne trasportino altri verso un ELENA CATTANEO «Da circa trent’anni dedico la mia vita alla ricerca su una malattia ereditaria neurodegenerativa, la Còrea di Huntington: molti progetti, molti giovani coinvolti, molti risultati – raggiunti anche dopo vari fallimenti – di cui sentiamo, come ogni studioso sente, tutto l’orgoglio e la responsabilità. Nel 2013 sono stata nominata dal Presidente della Repubblica Senatrice a vita per meriti scientifici. Su queste pagine proverò a portare un po’ di luce nei tanti “coni d’ombra” in cui spesso si trova confinato lo straordinario mondo della ricerca italiana». Elena Cattaneo ha recentemente pubblicato Armati di scienza, Cortina Editore, 2021 (recensito a pagina 116).


luogo dove c’è bisogno di forza lavoro, sollevandoli tra le mandibole (si parla di social carrying). In questo caso, l’individuo trasportato, sebbene non abbia camminato attivamente, riesce comunque a calcolare la distanza grazie a questo meccanismo basato sul flusso di immagini. In alcuni esperimenti, infatti, si è verificato che, pur separato dalla compagna che lo stava trasportando, riesce a ritornare correttamente a casa senza aver “mosso” (e quindi contato) neanche un passo durante l’andata. Una molteplicità di capacità computazionali e di orientamento così sofisticate da lasciare attoniti, per un cervello più piccolo della punta di uno spillo. UNA NUOVA SPECIE DI FORMICA ITALICA

Mentre parliamo, è appena stato pubblicato un nuovo lavoro del team guidato da Grasso all’Università di Parma, che tratta della scoperta e descrizione di una nuova specie di formiche in Italia: Is mimicry a diversification-driver in ants? Biogeography, ecology, ethology, genetics and morphology define a second West-Palaearctic Colobopsis species (Hymenoptera: Formicidae), Schifani et al., in Zoological Journal of the Linnean Society 2021. Mi racconta con orgoglio come è avvenuta la scoperta: «Il punto di partenza è stata l’etologia che ha permesso di evidenziare peculiari comportamenti mai studiati e descritti prima. Questo ha innescato la miccia. L’ipotesi che si trattasse di una nuova entità tassonomica separata da un’altra specie simile presente in Italia e con la quale è sempre stata confusa (Colobopsis truncata) è stata confermata da evidenze etologiche, morfologiche, ecologiche, genetiche e biogeografiche. Questa nuova specie è stata denominata Colobopsis imitans. Il nome specifico “imitans” è dovuto proprio ad alcune caratteristiche di queste formiche che tendono ad imitare nel colore e nel comportamento un’altra specie di formiche arboricole molto comuni (Crematogaster scutellaris). In pratica si muovono lungo le loro piste di foraggiamento e ne seguono i percorsi intrufolandosi tra le fila delle foraggiatrici, forse per godere della protezione del numero (una diluizione del rischio di subire predazione) o del vantaggio di assomigliare a un modello aggressivo e poco appetibile per un predatore». Il lavoro è stato pubblicato sulla stessa rivista su cui nel 1858 Charles R. Darwin e Alfred R. Wallace pubblicarono per la prima volta la teoria evolutiva per selezione naturale. «Una pietra miliare per la biologia moderna – commenta Grasso – fondamento anche della scoperta di cui siamo stati protagonisti. Senza

Le immagini del servizio sono di Daniele Giannetti.

quella teoria raccontata a tutto il mondo non saremmo mai giunti a questa scoperta». IL CERVELLO DIFFUSO

Nel riflettere sugli inaspettati comportamenti sociali delle formiche, funzionali alla sopravvivenza del gruppo, viene spontaneo antropomorfizzare il mondo degli animali e di questi insetti in particolare. Ma Grasso mi avverte che sarebbe errato considerare il mondo delle formiche una versione miniaturizzata del nostro, in quanto l’uomo basa le proprie relazioni sulla conoscenza reciproca e la partecipazione emotiva, e organizza le attività in modo verticistico e gerarchizzato; nel “mondo delle formiche” invece la parola chiave è decentralizzazione. «Le loro attività collettive – puntualizza – sono svolte da individui ciascuno dei quali contribuisce al tutto con una azione guidata da regole. L’azione del singolo influenza le attività degli altri che adottano a loro volta la stessa o altre regole. Il prodotto finale ha proprietà superiori alla somma delle parti. Ma non c’è nessuno che dirige i lavori. Il cervello che governa il tutto è il gruppo. In ogni caso penso sia possibile comunque trarre qualche utile spunto di riflessione dalla loro peculiare organizzazione sociale. Penso ad esempio a questa cooperazione estrema: la “lotta” per l’esistenza si può vincere anche collaborando con gli altri». Concordiamo che sia arrivato, per noi “Sapiens”, il momento di dimostrare di essere degni dell’appellativo che ci siamo dati. La natura offre storie avvincenti, che hanno attraversato il tempo e lo spazio fino a giungere a noi. Da oltre 3,5 miliardi di anni la diversità biologica è frutto di processi evolutivi irripetibili; ogni specie è un’esperienza singolare della storia della vita che vale la pena conoscere. È nostra responsabilità custodirle e salvaguardarle per le generazioni future. ■

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ETIMOLOGIE

Il lu ngo viaggio delle parole Le parole nascono, vivono e si affermano nei modi più disparati: sono coniate, recuperate, reinventate, sbagliate. Un esempio di questa varietà arriva da alcune che curiosamente, per via diretta o incidentale, risultano legate all’astronomo tedesco Johannes Kepler.

Pe nombra

Che parola poetica, evocativa. Ci fa venire in mente immagini di vista incerta, dai forti connotati emozionali, tese fra i rifugi alla calma assolata e le insicurezze crepuscolari; richiama la frescura serena dei boschi in cui gli animali si nascondono, la stanza agostana schiarita appena dalla luce che filtra fra le stecche delle persiane chiuse, il parco al tramonto in cui gli alberi e i cespugli s’intravedono ancora, sagome sempre più scure. È una parola che per questi suoi caratteri è usata con speciale gusto: la penombra è ambigua, non lascia mai indifferenti, sa essere accogliente e protettiva, così come rischiosa e disorientante. Si ritaglia un interregno in cui molto di particolare può accadere. Indugiando ancora un po’, pensiamo a che differenza c’è fra un bacio al sole, un bacio al buio, un bacio nella penombra. Tanta forza poetica è frutto della penna del celebre astronomo Johannes Kepler (Giovanni Keplero dalle nostre parti) – scienziato in un’epoca in cui fra scienziato e letterato, spesso, non passava molta distanza. Per la verità era tedesco e il suo nome era Johannes Kepler – e ha coniato il termine penumbra nel latino scientifico (a partire dagli elementi paene “quasi” e

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umbra), il quale pare sia arrivato in italiano attraverso un passaggio in francese. Nella sua opera Ad Vitellionem Paralipomena, Quibus Astronomiae Pars Optica Traditur, trattato particolarmente importante di ottica astronomica datato al 1604, dà conto di un certo fenomeno che riguarda le eclissi, che oggi ci è noto fin dalle prime infantili fascinazioni per l’astronomia: l’ombra proiettata da un corpo celeste in un’eclissi non è omogenea, ma si divide in un cono d’ombra vera e propria, che via via si restringe (se ci siamo dentro si può apprezzare un’eclissi totale) e in un cono di penombra che invece si allarga indefinitamente (da cui invece si può godere solo di un’eclissi parziale). Questo naturalmente accade perché la fonte luminosa, il sole, non è puntiforme: se fosse un punto inesteso nello spazio, o di dimensioni trascurabili, proietterebbe ombre nette, senza penombre; invece, per quanto distante da Terra e Luna, è decisamente esteso. Ogni suo punto illumina in tutte le direzioni, quindi per restare al buio completo ci dobbiamo trovare proprio nel cono d’ombra che si stringe dietro a ciascun corpo celeste che gli gira intorno. Un cono d’ombra completa, centrato in un ampio cono rovesciato di penombra, di passaggio fra ombra e luce, che è risultato di una


copertura parziale del sole. Questa parola testimonia l’altezza dei destini delle parole ben congegnate – che traggono e identificano un elemento della realtà fino ad allora senza nome, con spirito poetico e scientifico: dopotutto, parte della professione scientifica sta proprio nel discernere i fili della realtà. Così quelle immagini di risate negli angoli nascosti dei giardini sul far della notte, quelle dei predatori invisibili nel riparo di uno sperone di roccia, quelle delle verande ventilate dove riposiamo gli occhi abbacinati mangiando il gelato, ebbene quelle ombre, che pensiamo come penombre, scaturiscono dall’urgenza precisa dell’alto scienziato, che spiega gli errori antichi sulle osservazioni delle eclissi con una parola nuova, così mirabilmente descrittiva della realtà che ora non può farne a meno nemmeno chi non ha idea di come funziona un’eclissi, di chi sia Keplero.

Satellite

Poche parole di uso comune hanno un significato che si collega in modo tanto stretto a un immaginario tanto ampio di vastità astronomica, e di progresso scientifico e tecnologico. Come sappiamo, si dicono satelliti i corpi celesti che orbitano intorno ai pianeti – pensiamo alla Luna, alle splendide lune di Giove, a quelle misteriose di Saturno. Sono anche satelliti i veicoli e i congegni che lanciamo noi nello spazio in eterna caduta parabolica, con fini scientifici, di comunicazione, militari. Ma l’origine di questa parola non è quella che ci si aspetta date queste premesse: dobbiamo tornare coi piedi ben piantati in terra e guardare a un’epoca estremamente antica. I satelliti (satelles), nella Roma monarchica dei Tarquini (diciamo grossomodo nel VI secolo a.C.), erano le guardie del corpo del Re. Il loro nome è di origine etrusca (anzi è uno di quelli su cui ci si può più serenamente sbilanciare a indicare un’origine del genere), così come di origine etrusca era la dinastia degli ultimi dei sette Re di Roma. Attraverso il latino prima e l’italiano poi, tale è rimasto il significato principale di questo termine per decine di secoli; e va notato che, se in origine era neutro, presto ha preso una sfumatura piuttosto spregiativa: gli sgherri armati del sovrano non ispirano mai fiducia nel popolo, e il loro nome diventa facilmente titolo di chi difende il peggior potere (basta un pensiero per notare che una sorte simile è toccata

ETIMOLOGIE QUOTIDIANE “Una parola al giorno” è un servizio di divulgazione linguistica online. Nato a Firenze nel 2010 con l’obiettivo di ampliare in maniera piacevole la qualità del lessico dei suoi iscritti, propone ogni giorno una parola, spiegata e commentata nei suoi significati, nella sua storia, nei suoi usi. In questi undici anni, UPAG ha elaborato una formula d’intrattenimento capace di diventare abitudine alla riflessione linguistica e di avere avere quindi un impatto profondo sul pensiero. Raduna una delle comunità più ampie e vivaci del campo, con diversi autori e con oltre 100mila iscritti in Italia e all’estero. Per ricevere la parola del giorno via mail ci si può iscrivere: unaparolaalgiorno.it Giorgio Moretti, che ha steso questi testi, ne è co-fondatore e autore principale.

anche al nome “pretoriano”). Ad esempio, Manzoni usa il termine “satellite” col significato di “sbirro” nel XV capitolo dei Promessi sposi, quando Renzo, dopo i moti di Milano, all’osteria straparla e la mattina dopo finisce in arresto. Ma a cavallo fra il XVI e il XVII secolo Keplero scelse questo nome per i corpi celesti che orbitano intorno ai pianeti. Con tutta evidenza, piacque. Probabilmente aveva in mente gli usi letterari e poetici del termine latino, per cui i satelliti erano non solo gli sgherri terreni, ma anche le figure che accompagnavano la divinità. E dato che i pianeti avevano da sempre i nomi di divinità del Pantheon romano, è stato naturale ricorrere, per i corpi in orbita intorno a loro, all’antico nome di questi cortigiani. L’uso è invalso in maniera talmente potente che oggi nessuno collega il termine satellite alla figura della guardia del corpo o dell’accompagnatore celeste: è dal satellite astronomico che oggi scaturiscono le decine di usi figurati del termine (che spesso ha funzione appositiva). Quindi si può parlare degli stati-satellite di un impero, o dei piccoli partitisatellite che gravitano intorno a un partito importante, o degli artisti-satellite che si affermano intorno a una

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ETIMOLOGIE figura di grande statura e notorietà. Questa parola ha omologhi in molte altre lingue, e oggi ha una risonanza globale: incredibile pensare che deriva dal reimpiego da parte di Keplero del nome dei bodyguard romani di ventisei secoli fa.

F ocu s

Un anglolatinismo di grande successo, che troviamo usato estesamente in italiano con profili di approfondimento, concentrazione – come quando presentiamo l’incontro dicendo che sarà un focus su un certo argomento, del focus su istruzione e ricerca del documento programmatico, del saggio che sviluppa il tema generale attraverso dei focus specifici (o dei “foci”, se ci aggrada usare i plurali latini). Potremmo dire che questo focus l’ha inventato Keplero, ma vediamo in che termini, perché l’evoluzione è splendida. Nei primi anni del Seicento, conducendo studi di ottica, Keplero parla in latino di “focus” indicando quello che conosciamo come “fuoco” di una lente, il punto di convergenza dei raggi luminosi che l’attraversano. Per quel che ne sappiamo, è il primo a usare così questo termine – permettendone l’estensione generale ai fuochi geometrici, quelli che abbiamo incontrato a scuola studiando le coniche. Prima in latino “focus” voleva dire letteralmente “fuoco” e ci era arrivato in epoca tarda, con grande vigore, sradicando nel medioevo il millenario primato di ignis. Originariamente “focus” era il focolare. Curiosamente conserva un senso del fratello “focolaio” in ambito medico (focolare e focolaio sono derivati di foculus) indicando un centro del processo patologico, o da cui si irradiano infezioni o intossicazioni. Dal fatto fisico che la concentrazione dei raggi solari attraverso la lente convergente scalda un punto fino all’incendio, Keplero trae questo termine, che naviga quindi dal concreto all’astratto. Dal focolare della casa al fuoco elementare, dal fuoco incenso dalla lente fino al fuoco quale punto essenziale nella descrizione delle sezioni coniche, e quindi punto di concentrazione in genere – significato che in inglese è quasi ottocentesco e in italiano solo degli ultimi decenni. Qui la scelta di Keplero si pone come anello di una lunga catena di progressione di significati e va a colmare una lacuna. Gli antichi conoscevano bene le curve coniche. Il Faro di Alessandria impiegava specchi parabolici girevoli, che rimasero in funzione per

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molto tempo dopo che la loro scienza di costruzione fu perduta. Ma la trattatistica matematica ellenistica che ci è arrivata è gravemente incompleta: molte opere mancano all’appello e quelle che abbiamo, come Le coniche di Apollonio di Perga, non fanno menzione esplicita di questi punti, considerandoli solo indirettamente. Non sappiamo come li chiamassero, se mai li chiamavano, Archimede, Aristeo ed Euclide. “Focus” ha anche un significato linguistico, ad ogni modo. È il rema, la parte della frase che aggiunge una nuova informazione al tema, che è noto. A uccidere il conte è stato il maggiordomo.

Collimare

Un verbo che consideriamo preciso ed elegante. Ma nato per accidente nel latino scientifico, da cui l’italiano lo prende in prestito. Non faremo un’analisi di tutti i suoi significati, perché investono una casistica sterminata; basti dire che hanno a che vedere col porre due o più cose sulla stessa linea. Ad esempio, l’apertura dell’ingresso dell’antico tempio collima con i raggi del sole sorgente nel solstizio, se la lente del telescopio non collima con l’oculare l’immagine non apparirà all’occhio, per formare e studiare un fascio di particelle queste devono essere selezionate in maniera che collimino in una precisa direzione; figuratamente le nostre vedute collimano, l’azione collima con la precedente dichiarazione, i risultati delle indagini collimano con l’ipotesi iniziale. Ora, come qualche testa acuta potrà arguire, il suo concetto non c’entra con la lima, ma con la linea. Che cos’è successo? Ebbene, con tutta probabilità è il risultato di un’errata lettura (e trascrizione) del verbo “colliniare” (variante di collineare), che si trova in diversi autori latini proprio col significato di “mettere sulla stessa linea”. In particolare, poiché l’uso di mettere il puntino sulla i si afferma molto lentamente a partire dal XII secolo, e non diventa comune fino al XV, leggendo manoscritti precedenti si poteva far confusione fra “ni” e “m”. Fu per questo che Keplero e gli altri grandi scienziati del Cinquecento impiegarono nel latino scientifico questo errato “collimare”, da cui scaturisce il nostro. Essere molto letti e seguiti è una benedizione per le idee che intendiamo comunicare; ma un maggior prestigio può essere determinante anche nell’affermazione di errori. Quandoque bonus dormitat Keplerus. ■


ETÀ MODERNA

IL PRIMO

A VEDERE TUTTO Il viaggio intorno al mondo di Francesco Carletti. Fiorentino, mercante, schiavista e avventuriero, è partito per Occidente e tornato dall’India. Lucio Biasiori

Petro Plancio, astronomo, cartografo ed ecclesiastico delle Fiandre, tra i fondatori della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, ha redatto oltre cento mappe, come Orbis Terrarum Typus de Integro Multis in Locis Emendatus (1592).

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ETÀ MODERNA

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ra i viaggiatori italiani che durante la prima età moderna misero per la prima volta in connessione le quattro parti di un mondo che fino a quel momento si erano tra loro ignorate o conosciute solo parzialmente, ce n’è uno che non è mai diventato famoso come Colombo o Vespucci. Eppure, anche lui vanta un primato che non sfigura vicino a quello di essere considerato il primo uomo a mettere piede sul continente americano o di aver notato che quelle terre erano effettivamente un nuovo mondo. Il mercante fiorentino Francesco Carletti fu infatti il primo a compiere una circumnavigazione del pianeta come privato cittadino, in solitaria e senza incarichi ufficiali o appoggi istituzionali dietro la sua partenza. Salpato ventunenne da Sanlucar de Barrameda (poco a nord di Cadice) con il padre Antonio nel gennaio del 1594, Carletti toccò Capo Verde, Città del Messico, Acapulco, Manila, Macao e Nagasaki, per arrivare a Goa, capitale dell’Estado da Índia lusitano. Da lì, fece un rocambolesco ritorno in Europa nel 1602, dopo che la nave portoghese su cui viaggiava era stata predata dagli olandesi, piccolo indizio del mutamento in corso negli equilibri globali. Solo dopo altri due anni abbondanti di traversie legali tra Olanda e Francia – «emisperio a me non meno nuovo che non mi fu quell’altro quando arrivai nell’Indie» – sarebbe riuscito a tornare a Firenze nel 1606, quindici anni dopo la sua partenza nel 1591. Forse ci arrivò deluso, di certo privo di quei guadagni che aveva sognato. Intanto però era stato il primo uomo che aveva fatto il giro del mondo con mezzi di fortuna, annotando scupolosamente tutto ciò che passava sotto il suo sguardo. Non è esagerato affermare, insomma, che fu il primo uomo che vide tutto. Non ci sono piazze o strade a ricordare il nome di chi portò a termine un’impresa così eccezionale, se non un’anonima viuzza, nell’estrema periferia di Firenze. Forse è meglio così, perché oggi non possiamo fare a meno di guardare a lui con uno sguardo un po’ strabico: da un lato continuiamo ad ammirare il coraggio della sua impresa e l’acutezza di molti suoi giudizi sulle terre e le persone che gli capitò di incontrare; dall’altro come facciamo a dimenticare che il motivo per cui si era messo in viaggio era fare incetta di schiavi africani nelle isole di Capo Verde, per tornare a Firenze avendo aumentato il proprio capitale? Meglio allora che questo personaggio controverso non abbia mai avuto statue erette in suo onore, destinate poi a diventare imbarazzanti ricordi

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Nella mappa è raffigurato l’itinerario di Carletti.

da rimuovere, ma dopo la morte sia rimasto quasi sempre nelle acque tranquille della ricerca storica. Beninteso, come per chiunque lasci traccia di sé a chi viene dopo, ogni epoca ha avuto il suo Carletti. Dopo che il resoconto vivace e dettagliatissimo recitato al cospetto del Granduca Ferdinando I de’ Medici uscì a stampa postumo nel 1701 con il titolo di Ragionamenti del mio viaggio intorno al mondo, tra Sette e Ottocento le sue parole vennero lette come un trattato di prosa scientifica – una specie di versione terrestre e mercantile del Dialogo sopra i due massimi sistemi di Galileo, per intenderci. Nonostante la lucida e ancora insuperata biografia che gli dedicò all’inizio del Novecento Gemma Sgrilli, in epoca fascista e imperialista anche i suoi Ragionamenti vennero poi usati come strumento di propaganda: nel 1941 uscirono per Bompiani con il titolo di Giro del mondo del buon negriero. Si trattava di giustificare la missione civilizzatrice dell’Italia “proletaria e fascista”, e dunque imperialista per vocazione e necessità, da un anno entrata in guerra contro le “plutocratiche” Francia e Inghilterra. E allora giù a contrapporre negrieri buoni e cattivi. UNA FIGURA CONTROVERSA

Nonostante dunque il suo nome sia stato usato anche nel discorso pubblico, è però sempre rimasto scritto sulla carta e mai sul marmo, il che, come si è già detto, è una fortuna: possiamo così provare non tanto a giudicare con i nostri occhi, ma a capire come mai la missione fallita di un mercante di schiavi lungo le coste dell’Africa atlantica si sia poi trasformata in un giro del mondo motivato dalla sete di più onesti guadagni e da una divorante, insaziabile curiosità.


Sì, perché Carletti a un certo punto si pentì di quello che lui stesso chiama un «traffico inumano dove si viene a fare incetta d’uomini e, tanto più vergogna, essendo battezzati, che, se bene sono differenti nel colore e nella fortuna del mondo, nulladimeno hanno quella medesima anima». Naturalmente a volte si ha l’impressione che il suo sia stato un pentimento infantile e autoassolutorio. Infantile perché, dopo aver scaricato la colpa sul padre, professò che la sua volontà era sempre stata «repugnante a questo negotio». Autoassolutorio perché ricorda come alla tratta partecipassero anche gli ex schiavi e perfino il vescovo di Capo Verde – così fan tutti, insomma – e poi perché ogni tanto nel resto del viaggio ricadrà nella tentazione di comprarne altri, che poi però, appena possibile, libererà. Come si vede, è difficile fissare una volta per tutte il suo atteggiamento verso la tratta. Se restiamo alle sue parole, egli interpretò, se non l’intero viaggio, almeno il suo rovinoso esito finale come una punizione divina per averla praticata: «a me questo negozio non piacque mai; pure, come si sia, noi lo facemmo e forse, ancora per questo, in-

Moro di Barbaria con giraffa, di Jacopo Ligozzi.

Costumi tradizionali cinesi, di Jan H. van Linschoten.

sieme la penitenza». Intanto però non si astiene mai dal dare istruzioni su come commerciare schiavi nel modo più redditizio al lettore dei suoi Ragionamenti. Soprattutto al più illustre di loro, quel granduca Ferdinando che, novello Alcinoo, stette ad ascoltare il resoconto dei viaggi di questo Ulisse fiorentino e nel frattempo avrà forse pensato al “Bagno degli schiavi” che aveva costruito a Livorno per tenervi prigionieri i marinai delle navi ottomane predate nel Mediterraneo dalla sua personale flotta dei Cavalieri di Santo Stefano (impresa, questa sì, immortalata da un monumento, quello dei quattro mori di Pietro Tacca, simbolo di Livorno); oppure la mente gli sarà andata alle spedizioni coloniali che, unico tra i regnanti dell’Italia di allora, avrebbe intrapreso di lì a pochi anni in Brasile e in Sierra Leone. Del resto, sappiamo che il granduca si servì dell’esperienza maturata da Carletti, conteso anche dal re di Francia Enrico IV, per lo sviluppo del porto di Livorno come centro di traffici con il Brasile e con le Indie Orientali. Quindi forse non andiamo molto lontani dal vero, se ipotizziamo che questi pensieri gli siano passati per la testa. Insomma, come in tutti i grandi libri di viaggio, anche nei Ragionamenti non mancano le ambiguità. Consoliamoci però pensando che il suo coinvolgimento nella tratta forse non è nemmeno, come invece è sempre stato considerato finora, l’aspetto più interessante del suo racconto di viaggio, tanti sono gli episodi di vita vissuta che vi brulicano. Prima però di cercare di capire che cosa abbia visto il primo uomo che ha visto tutto, bisogna provare a capire come lo abbia visto. In altre parole, come si muoveva Francesco Carletti? E come reperiva le

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Biombo con raffigurazione dell’assedio di Belgrado, conservato al Museo Nacional del Virreinato (XVII secolo).

informazioni? Che cosa catturava maggiormente il suo interesse, e perché? La sua formazione mercantile gli dava forse uno sguardo più spassionato rispetto ai viaggiatori umanisti, più colti di lui ma anche più influenzati dalle meraviglie riportate dalla tradizione classica? IL GIRO DEL MONDO IN QUINDICI ANNI

Certo, il suo è un viaggio lungo rotte già percorse da altri – da una trentina d’anni, ad esempio, era in servizio un galeone annuale che seguiva la rotta da Acapulco a Manila. E però Carletti è il primo che queste rotte già solcate le percorre tutte in una volta e – cosa da non sottovalutare – lo fa da solo e per di più non da suddito delle corone di Spagna e Portogallo. A ogni ripartenza deve perciò ricorrere a una serie di stratagemmi per garantirsi libertà di movimento (il che ci ricorda che, allora come oggi, non tutti i passaporti hanno lo stesso peso). Certo, non penetra poi mai nell’entroterra, ma rimane sempre sulla costa, cioè nelle zone in cui più forte era stata fin da subito la presenza degli europei, con tutto il carico di distorsione delle fonti sulle culture locali che tutto ciò comportava e di cui è ben consapevole: quando dice che «oggi per tutto si vive all’usanza e maniera d’Europa e cristianamente», lo

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fa in polemica verso gli spagnoli, «mutatori, per non dire destruttori d’ogni cosa». Nonostante percepisse dunque questa crescente uniformizzazione nei modi di vivere a livello planetario (sì, la globalizzazione ha un cuore antico), allo stesso tempo sa però usare informatori locali, da cui si fa dare notizie di prima mano e tradurre fonti altrimenti inaccessibili. Da questo punto di vista, la sua permanenza in Cina è esemplare: Carletti non si muove dall’avamposto portoghese di Macao, dove muore suo padre, ma si fa aiutare a usare un atlante cinese, che sarà tra le poche cose che riuscirà a portare con sé e che giace, ancora in attesa di qualcuno che lo sappia far parlare LUCIO BIASIORI Nato a Trento (1984), ha studiato nelle Università di Trento e Pisa e alla Scuola Normale Superiore, dove è stato allievo, perfezionando, assegnista e ricercatore. Ora insegna all’Università di Padova. Specialista della storia religiosa e culturale della prima età moderna, gli piace provare a capire che cosa passava per la testa degli uomini e delle donne di ieri e se, come e perché sia diverso da ciò che ci passa oggi.


a dovere, nei depositi della Biblioteca nazionale di Firenze. Dove mancano osservatori diretti della realtà locale, ricorre poi ai più esperti mediatori culturali dell’epoca, i gesuiti, di cui ammira la capacità di calarsi nelle culture asiatiche per meglio comprenderle e attirarle così al cristianesimo (sulle strategie missionarie più spicce e goffe di altri ordini religiosi è molto meno tenero). Che cosa vede, insomma, pur attraverso tutte queste lenti, Carletti? Vede il «paradiso in terra» di Città del Messico, la prima città globale, dove arrivano merci dalla Spagna e dalla Cina. Nelle case delle élite coloniali, al posto delle pareti, i biombos, paraventi di origine orientale, prodotti da manifatture locali e spesso decorati con scene di cronaca contemporanea, come l’assedio di Belgrado da parte degli ottomani. Un bel guazzabuglio, ma non per gli Asburgo di Spagna, sul cui impero, anche dopo la morte di Carlo V, continuava a non tramontare mai il sole. Vede gli abitanti dell’arcipelago indonesiano perdere la testa per i combattimenti dei loro galli. Come cinquecento anni dopo l’antropologo americano Clifford Geertz, anche Carletti coglie il profondo legame del cockfight con la sessualità degli indigeni, che ornano il loro organo genitale con speroni di ferro simili a quelli che applicano ai loro galli da combattimento. Fa poi anche esperienze di tipo più intellettuale: incontra, ad esempio, un bramino, con cui discute sulla possibilità per tutti gli uomini buoni di salvarsi, a prescindere dalla religione a cui appartengono. L’idea lo affascina, anche se alla fine, forse per cautelarsi di fronte a chi ascoltava i suoi Ragionamenti, sosterrà sempre la centralità del Battesimo. Vede poi con grande stupore cinesi e giapponesi mangiare con «due fuscellini grossi quanto una penna da scrivere», cosa che a lui, cittadino di un’Europa in cui la forchetta era un vezzo da aristocratici, dà l’impressione di trovarsi di fronte a due civiltà superiori. Superiori ma opposte: la Cina di Carletti è una società pacifica, tollerante della diversità ma al tempo stesso consapevole di essere il centro del mondo e di essere arrivata a un supremo grado di perfezione: «perciò manca in loro il desiderio d’acquistare altri paesi e si contentano del loro proprio», e sì che avrebbero avuto una flotta capace di conquistare il mondo. In Giappone Carletti vede invece una conflittualità esasperata: a Nagasaki viene subito accolto da un’esecuzione in massa di missionari cattolici, ma questa violenza diffusa e onnipresente lo accompagnerà poi per tutto il suo soggiorno, tanto che il quadro che

ci dà del Giappone è quello di un paese da incubo, popolato da samurai che provano sui corpi dei giustiziati quanto siano affilate le loro katane. Molto più attraente la sua visione dell’India, dove, quando non discute di salvezza con i bramini, pratica soprattutto con donne. Il satī, cioè il costume delle vedove di lanciarsi sulla pira funebre del marito, gli fa un effetto meno intenso di quel che fece ad altri viaggiatori a lui contemporanei, come Pietro della Valle, che qualche anno dopo intervista una di loro sotto il rogo e lei gli spiega per filo e per segno le ragioni della sua scelta. A turbarlo, ma soprattutto a eccitarlo, è invece la sensualità delle donne di Goa: finalmente libero dalla smania di dover guadagnare a tutti i costi – e forse anche affrancatosi dall’ingombrante figura paterna – Carletti racconta una serie così mirabolante di avventure sessuali da «far torto alle novelle del Boccaccio». E in effetti il tono è sempre quello spensierato e leggero del Decameron, non quello coloniale e voyeuristico di un turista sessuale ante litteram. Il primo uomo che vide tutto non si limita dunque a vedere, ma mette in moto tutti e cinque i sensi. Mosso dalla brama di profitto – «dove va la robba voglio andare con la persona», ebbe a dire con qualche secolo di anticipo sul Mazzarò di Verga – e da una curiosità altrettanto insaziabile, fu il primo a compiere, o comunque il primo a descrivere così nel dettaglio esperienze per noi quotidiane, come appunto mangiare con le bacchette, oppure assaggiare una banana o una patata, o ancora aspirare il fumo del tabacco. Leggere le parole di uno che ha visto nascere il mondo globale in cui viviamo oggi è un po’ anche per noi come vedere tutto per la prima volta. È l’esperienza dello straniamento, il primo passo per capire quel che ci sta intorno. ■

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CARLETTI, FRANCESCO Ragionamenti del mio viaggio intorno al mondo, Torino 1989. CARLETTI, FRANCESCO in Dizionario biografico degli italiani: https://www. treccani.it/enciclopedia/francesco-carletti_%28Dizionario-Biografico%29/ BREGE, BRIAN Tuscany in the Age of Empire, Cambridge Mass., 2020. DE FILIPPI, GIUSEPPE Il peccato originale di Carletti, in Il Foglio, 27/06/2020. FORTE, ANTONINO Francesco Carletti sulla schiavitù e l’oppressione, in Strumenti critici XVI (1999), pp. 1–21. SANTUS, CESARE Il «turco» a Livorno. Incontri con l’Islam nella Toscana del Seicento, Milano 2019. SGRILLI, GEMMA Francesco Carletti, mercante e viaggiatore fiorentino, Rocca San Casciano 1905.

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IL TELAIO DI OMERO Generazioni di donne che tessevano con canti sommessi. Trame e orditi da un lato, parole ritmiche dall’altro. C’era una relazione tra le due attività? Alcuni studiosi ipotizzano che forse così è nata la metrica (e poi la poetica). Anthony Tuck Intanto Iride messaggera raggiunse Elena dalle bianche braccia […] la trovò in casa, che tesseva una grande tela di porpora a due facce e vi raffigurava molte delle imprese che a causa sua affrontavano i Troiani domatori di cavalli e i Greci coperti di bronzo. Iliade, Libro 3, 121 e 126-128 (trad. di D. Marinari, La Lepre edizioni, Roma 2010, p. 107). Da questa tela il divino Omero trasse in gran parte la storia della guerra di Troia. Aristarco di Samotracia (citato da W.C. Perry, The Women of Homer, Londra 1898). Elena precede Omero. Lavorando al telaio, produce un drappo su cui sono rappresentati i protagonisti e gli eventi della storia in cui lei stessa vive. Tuttavia, nel corso dei secoli, agli studiosi è in gran parte sfuggito il ruolo centrale delle donne che si impegnavano nell’arte poetica e nella tessitura. Infatti, l’idioma diffuso di “intreccio narrativo”, che ricorre in numerose tradizioni linguistiche, riflette una pratica e una tecnologia antiche che collegavano entrambe le forme di espressione. Il mancato riconoscimento dell’antica produzione tessile è imputabile essenzialmente a due problemi. Uno è la fragilità del materiale. Gli strumenti della

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produzione tessile – fusaiole, rocchetti e pesi da telaio – sono presenti in abbondanza fra i reperti archeologici, ma il loro prodotto, cioè il tessuto, sopravvive solo raramente e si sottrae quindi all’esame moderno. In secondo luogo, forse ancora più problematico è il fatto che il lavoro tessile in tutto l’antico bacino del Mediterraneo fosse un’attività tipicamente e principalmente riservata alle donne. Di conseguenza, sfuggì in gran parte all’attenzione degli antichi commentatori maschi e a quella della successiva tradizione classica a dominanza maschile. Fortunatamente, negli ultimi anni il secondo problema è stato affrontato. Diversi studiosi visionari hanno riesaminato i dati a lungo trascurati al fine di comprendere meglio il ruolo cruciale svolto dalla produzione tessile nelle economie delle comunità antiche. E così facendo, gli studiosi hanno ampliato notevolmente la nostra comprensione non solo dell’importanza di questa antica arte, ma hanno aperto una finestra sulle esperienze vissute di generazioni di donne altrimenti anonime a cui è stata negata voce storica. Inoltre, attraverso l’osservazione di tessitori in comunità tradizionali che non fanno ancora uso di moderni mezzi di produzione meccanizzata, possiamo confrontare i reperti archeologici con le pratiche superstiti al fine di comprendere meglio il mondo dell’antica tessitrice. I poemi omerici giunti fino a noi contengono scene in cui si descrivono personaggi femminili intenti a


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TEXT & TEXTILE tessere mentre, particolare curioso, si accompagnano costantemente con canti durante il lavoro. Fino a tempi recenti i commenti accademici ritenevano che il loro canto fosse privo di significato – un mero passatempo nel monotono processo di produzione del tessuto. Tuttavia, come ipotizzato dagli osservatori di simili usanze nel XVIII e XIX secolo e come dimostrato dalla moderna etnomusicologia, tale canto è un aspetto essenziale della produzione tessile. Nell’attuale Iran, le donne impiegano ancora una pratica nota come Naqshe Khani – ovvero “canti guida”. I Naqshe Khani vengono cantati mentre si legano i nodi del tappeto. La canzone segnala ai tessitori che lavorano sullo stesso telaio il numero e il colore dei vari nodi associati ai diversi elementi del disegno sul tessuto. Ogni singolo motivo decorativo viene suddiviso in frammenti che vengono cantati in frasi tonali ripetute durante tutto il processo della tessitura. In alcuni casi e in alcune regioni sembra che i moderni Naqshe Khani siano legati a forme di narrazione, anche se non è ancora pienamente compreso il loro funzionamento. Tuttavia, un altro esempio tratto dall’ambiente sonoro della tessitura greca antica suggerisce ancora una volta che questi antichi dispositivi mnemonico-musicali potrebbero occasionalmente assumere una forma narrativa. Nello Ione di Euripide, opera curiosamente incentrata su una serie di opere tessili, il coro delle serve di Creusa osserva la decorazione scolpita del tempio di Apollo a Delfi. Non è forse Iolào, la cui storia è tessuta sui nostri pepli, il doríforo prode? Vedi, col figlio di Giove sostiene le fatiche affrontate e le pene. Euripide, Ione 196-200 (trad. di E. Romagnoli) https://www.filosofico.net/euripideione42.htm Il coro insiste a notare altre caratteristiche decorative dell’edificio raffiguranti elementi del mito della gigantomachia, narrazione ben nota al pubblico ateniese. Si trattava del mito raffigurato annualmente sui pepli intrecciati ad Atene in occasione degli eventi rituali della festa panatenaica. Ci si chiede se una qualche forma di composizione narrativa numericamente organizzata fosse stata progettata per dar luogo a un modello che rappresentasse gli eventi stessi del mito. L’archeologia o la filologia da sole sono ovviamente insufficienti per aiutarci a mettere a fuoco la natura potenziale di questo fenomeno. Tuttavia, attingendo

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a una serie di competenze di queste discipline, nonché alla scienza computazionale e al sapere pratico dei tessitori moderni, è possibile illuminare – anche se debolmente – un frammento della modalità in cui queste forme narrative codificate sono state utilizzate per documentare e creare modelli tessili. L’Iliade in cui Elena tesse non è certamente un esempio di dispositivo mnemonico somigliante al Naqshe Khani. Quel testo, che si è modificato nel corso dei secoli attraverso una tradizione orale, si fissa dopo essere stato finalmente registrato in forma scritta tra la metà e la fine del VI secolo a.C. Inoltre, gli anni fra la trasmissione orale del tardo periodo arcaico e la prima tradizione manoscritta hanno sicuramente introdotto numerose modifiche aggiuntive al testo. Tuttavia, le tracce della registrazione del testo nella forma originale dell’esecuzione orale sono probabilmente conservate nel metro del poema. Se immaginiamo che una forma più antica di variazione tonale espressa da vocali lunghe contrapposte a brevi in tutto il poema possa aver segnalato informazioni a un tessitore sulla posizione dei fili nella trama in modo vagamente simile al Naqshe Khani, è possibile ricostruire tali forme con l’aiuto di trasposizioni digitali degli schemi contenuti nel testo antico sopravvissuto. Nonostante la sua importanza economica e sociale, il telaio è uno strumento relativamente semplice. I fili perpendicolari dell’ordito assicurati a un peso sono tesi su una traversa e viene utilizzata una navetta che il tessitore tira verso di sé separando la serie pari che viene avanti da quella dispari, aprendo un varco in cui inserisce il filo di trama. Possiamo riprodurre questo effetto immaginandolo come un codice binario, con fili di trama in vista posizionati sopra l’ordito che rappresentano lo zero e fili di trama invisibili sotto l’ordito ANTHONY TUCK È professore di archeologia classica alla University of Massachusetts Amherst. Ha una specializzazione in etruscologia e dirige gli scavi di Poggio Civitate in provincia di Siena. Il suo lavoro sui dispositivi mnemonici della produzione tessile si basa su un interesse di lunga data riguardante le tradizioni della trasmissione orale di opere narrative. Tra i suoi libri: Burials from Poggio Aguzzo: The Necropolis of Poggio Civitate, Giorgio Bretschneider Editore, 2009; Cities and Communities of Etruria: Poggio Civitate (Murlo). University of Texas Press, Austin, 2021.


che rappresentano l’uno. Se dovessimo rappresentare queste variabili in modo semplice – come punti bianchi contrapposti a neri –, potremmo visualizzare meglio il processo con cui i fili di trama e d’ordito creano i disegni visibili nella produzione tessile. Ad esempio, una normale trama tabby, la più semplice, è costituita da un solo filo di trama alternato sopra e sotto i fili dell’ordito, riproducendo così i valori di bianco e nero. Le trame twill, leggermente più complesse, vengono realizzate passando il filo di trama su uno o più fili dell’ordito, quindi sotto due o più fili dell’ordito, con un varco tra le righe per creare il caratteristico motivo diagonale del twill. Disegni più complessi, come quello ipotizzato per il tessuto di Elena o per i pepli di Atena, sarebbero quindi espressi da sequenze di conteggio sempre più complesse. Ad esempio, se il suono dello spondeo (piede formato dalla successione di due sillabe lunghe) che conclude ogni riga dell’Iliade segnalasse a un tessitore il punto in una sequenza di conteggio per inserire un filo di trama dietro l’ordito, la posizione regolare dello spondeo darebbe luogo a un modello dotato di coerenza. Se applichiamo questo concetto alla scansione completa dell’intero testo dell’Iliade, rappresentata come se fosse resa su un telaio composto da 775 fili d’ordito, ecco quale sarebbe il risultato:

Tuttavia, il testo dell’Iliade a noi pervenuto non è un esempio di dispositivo mnemonico legato a una tessitura di questo tipo. Infatti, una volta che l’esecuzione della poesia orale si stacca da una tradizione tecnica associata alla ripetizione di uno schema, non deve aderire più a ritmi precisi e invariabili della recitazione durante la tessitura. In ogni caso, se immaginiamo l’ambiente di produzione tessile originale, in cui una precedente forma narrativa si è trasformata in ripetizione rigorosa di sequenze ritmiche o metriche stereotipate, emerge un grado di coerenza del modello notevolmente superiore. Ad esempio, potremmo immaginare una serie di linee “ideali” di esametro dattilico canonico, ogni linea composta da sei piedi metrici per un totale di diciassette sillabe

risultanti da cinque dattili e uno spondeo conclusivo. Quando ogni doppio spondeo conclusivo è espresso come singolo punto, i conteggi delle linee si ordinano in multipli di 17 “sillabe” per ogni linea e la direzionalità di ogni registro viene invertita a ogni riga successiva come se un tessitore invertisse la direzione dopo aver passato la navetta attraverso la trama e ritorno, formando così una gamma di schemi prevedibilmente geometrici. A titolo di confronto, l’esametro dattilico puro rappresentato con lo stesso conteggio di 775 punti dell’immagine metrica dell’Iliade mostrata sopra, risulterebbe come nell’immagine seguente: In effetti, qualsiasi numero di variazioni, prodotte

sia da una data sequenza metrica che dal conteggio orizzontale dei punti che rappresentano l’ordito di un telaio, può produrre una serie di motivi geometrici, tra cui zigzag, chevron, meandri e altro ancora. Queste forme sono rappresentate anche in medium artistici diversi come la pittura vascolare di “stile geometrico” del IX e VIII secolo a.C., uno stile da molto tempo riconosciuto come imitazione di forme decorative di tessuti contemporanei. I vasi in “stile geometrico” utilizzati come marcatori tombali nella regione dell’Attica intorno ad Atene spesso includono scene centrali di prosthesis, la composizione della salma distesa per l’esposizione e l’omaggio prima della sepoltura. È alla luce di questo processo rituale che un pubblico dell’VIII secolo a.C. in ascolto dell’esibizione omerica avrebbe compreso le azioni della moglie di Ulisse, Penelope. Lei tesse un lenzuolo funebre per il suocero, Laerte, e disfa la sua tessitura ogni notte per sviare le attenzioni dei pretendenti. Per Penelope, il design e la complessità del sudario sono fonte di orgoglio e ostentazione di status, poiché si aspetta che i suoi pari vedano il sudario e dicano:

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Un particolare del cratere Hirshfeld. Metropolitan Museum of Art

[…] è il sudario per il nobile Laerte, per quando lo raggiungerà il doloroso destino della morte, perché nessuno, nel popolo greco, possa rimproverarmi se resta senza un lenzuolo funebre chi ha conquistato tante cose. Odissea, canto 19, 145-148 (traduzione di Dora Marinari, La Lepre edizioni 2012). Un’idea della complessità di un sudario di questo genere possiamo farcela osservando molti grandi vasi in ceramica del periodo geometrico (circa 750 a.C.) provenienti dalle tombe dell’élite sociale. Ogni scena di prosthesis raffigura persone in lutto in piedi accanto al catafalco, che sollevano il sudario per mostrare la salma. In quasi tutti i casi, il pittore vascolare raffigura una tela a scacchi, un disegno sorprendentemente simile a quello dell’immagine dell’esametro dattilico puro riprodotta sopra, in cui la forma metrica viene espressa non in forma uditiva ma visiva, cioè come se fosse un tessuto. Tuttavia, il metro non è che un aspetto della forma di una poesia. Complessi dispositivi mnemonici usati per produrre immagini di narrazioni mitologiche potrebbero aver impiegato variazioni metriche altrettanto complesse associate a cambiamenti di tono del canto o di intonazione del discorso, variazioni narrative o altre forme di comunicazione inevitabilmente andate perdute. Ma nonostante le lacune, la combinazione di strumenti moderni e tradizionali per esplorare il mondo della produzione tessile e i riferimenti ad esso nei testi classici forniscono alcune informazioni su un

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mondo potenzialmente meraviglioso. Molto prima della ricomparsa della scrittura nel mondo greco, le donne possedevano una sorta di alfabeto segreto che codificava nel canto le informazioni necessarie per riprodurre i disegni sulla tela da tessere. Questi canti, apparentemente a volte anche sotto forma di narrazioni mitologiche, erano strutturati con frasi ripetute di tono e ritmo analoghi, permettendo ai tessitori sia di produrre fedeli repliche dei modelli, sia notevoli e creative variazioni. Elena, riproducendo il disegno degli eventi dell’Iliade nella sua tela compie una registrazione tessile di ciò che solo molti secoli dopo sarebbe diventato un testo rigido, noto come Odissea, il cui autore è semplicemente Omero, l’ultimo tessitore della storia. Traduzione di Mariagrazia Pelaia ■

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI AMINIAM, M., The Woven Sounds - Demo documentary by Mehdi Aminian on Pattern Singing in Iran, You Tube: 15 marzo 2019. BARBER, E.J.W., Prehistoric textiles: the development of cloth in the Neolithic and Bronze Ages with special reference to the Aegean, Princeton University Press, Princeton 1991. TUCK, A., Singing the rug: patterned textiles and the origins of Indo-European metrical poetry in American Journal of Archaeology, 539-550, 2006. TUCK, A., Stories at the Loom: Patterned Textiles and the Recitation of Myth in Euripides, “Arethusa”, 42(2), 2009. TUCK, A. et Al., Woven Witness: Philomela, Procne, and Visualized Narratives through Textiles, in Homo Textor: Weaving as a Technical Mode of Existence, E. Harlizius-Klück & G. Fanfani, Monaco, in uscita nel 2021.


NEUROSCIENZE

LA PREVALENZA DEL BIAS Sono gli errori sistematici, inconsapevoli e incorreggibili. Costellano la vita di tutti e producono quei fenomeni in cui non vale il proverbiale “sbagliando si impara”. Perché in alcune situazioni si sbaglia e si continua a farlo. Paolo Legrenzi

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a parola inglese bias è intraducibile in italiano perché indica un miscuglio di errori sistematici e inconsapevoli nei modi di vedere il mondo, pensarci su e provare emozioni. Qui i due aggettivi cruciali sono “sistematici” e “inconsapevoli”. Tutti noi ci rendiamo conto, talvolta, di aver commesso degli errori sia nelle decisioni che prendiamo sul lavoro sia in quelle della vita personale. Si tratta di errori di cui, prima o poi, possiamo accorgerci e, di conseguenza, cerchiamo di non ripeterli. Magari ci ricadiamo ma, col passare del tempo, impariamo a migliorare. Gli psicologi chiamano questo meccanismo «apprendimento per prove ed errori». Non è tipico degli umani, anzi è la forma di apprendimento più diffusa nel mondo animale. LE PRIME PROVE EMPIRICHE

Ormai più di un secolo fa, Edward Lee Thorndike cominciò a misurare come, col tempo, gli errori diminuissero quando un gatto, per raggiungere il cibo, esce da una gabbia tirando una cordicella che apre una porta: ripetendo le prove il gatto imparerà ad uscire più rapidamente. Negli anni Trenta, Edward Tolman fece una scoperta interessante. Insegnò a dei ratti a giungere alla meta (cibo) percorrendo un tragitto immerso nella sabbia. Poi utilizzò lo stesso percorso in una vasca piena d’acqua: gli animali erano costretti a nuotare, cosa che sanno fare benissimo, e non a scavare. Tolman scoprì che

i ratti erano capaci di trovare subito la strada giusta nell’acqua dopo averla imparata nella sabbia. Ma tutto nell’ambiente esterno era cambiato: non bisognava più scavare nella sabbia, bensì nuotare nell’acqua. Il ratto aveva imparato qualcosa di più di una sequenza specifica di movimenti da compiere in un ambiente particolare divenuto noto con l’esercizio. L’animale riesce a trasferire quello che ha già imparato adattandosi presto a un ambiente nuovo perché si è costruito una sorta di mappa mentale. Un bambino è capace di immaginare il percorso casa-scuola e di costruirsi una mappa mentale come risulta dai disegni in cui sono indicati i punti di riferimento e di scelta che sono necessari per trovare la strada giusta. Questa mappa può venire applicata in un ambiente nuovo a patto che abbia la stessa struttura di quello con cui ci si è familiarizzati la prima volta (per i dettagli di questa storia, cfr. il capitolo “apprendimento” nella Storia della psicologia di Legrenzi, 2021). Chi oggi usa un algoritmo come “Google maps” fa qualcosa del genere perché può seguire lo stesso percorso presentato in molte forme, modalità diverse, e per vari scopi: grande o piccolo, bidimensionale o tridimensionale, piatto o in rilievo, con alcune tappe evidenziate e altre no, con vari punti di vista, a piedi, in macchina, e così via. L’apprendimento da parte di macchine segue lo stesso principio. I computer vengono “nutriti” con esempi positivi oppure negativi delle categorie o del complesso di regole che il sistema artificiale deve imparare. Come

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NEUROSCIENZE se si presentassero a un bambino delle figure di animali per insegnargli che cosa è un cane e come distinguere un cane da un lupo: questo sì, questo no, questo sì, e così via. Oggi i sistemi artificiali sono capaci di estrarre regole molto complesse a partire da esempi positivi e negativi. Una sorta di apprendimento per prove ed errori che permette, per esempio, di isolare una firma redatta correttamente rispetto a firme fasulle, fraudolente. Oppure distinguere un certo stile grafico che corrisponde ai quadri fatti da Van Gogh rispetto a quelli fatti dal suo amico Gauguin, e così via. Sono tutte varianti dell’apprendimento associativo studiato da Pavlov in cui vengono “associati” stimoli. Pavlov, per esempio, insegnava a un cane ad associare una goccia di limone che provoca la risposta di salivazione e il suono di un metronomo. Presentando prima il suono e poi la goccia di limone, dopo un certo numero di accoppiamenti suono-goccia, il suono del metronomo, in assenza della goccia di limone, acquisiva la capacità di suscitare la risposta di salivazione. Oggi, più di un secolo dopo, sappiamo che tutti gli animali sono capaci di questa forma di apprendimento: pesci, formiche, persino i vermi. Non è ancora chiaro se le piante siano in grado di fare accoppiamenti tra stimoli e risposte apprese. Come capirlo? Le piante per solito non si dirigono verso le correnti d’aria così come i cani non salivano al suono di un metronomo. Ma se voi insegnate a una pianta ad accoppiare una corrente d’aria a una presentazione di una luce sembra che la pianta si diriga poi nella direzione della corrente d’aria anche in assenza di luce. Questa forma di adattamento a un nuovo ambiente potrebbe peraltro essere un semplice apprendimento non associativo, come quando ci abituiamo a un evento che si ripete sempre uguale (cfr. Giorgio Vallortigara, Ma quel vegetale capisce? in Il Sole24Ore, Domenica 26 luglio 2020, p. IX). L’ubiquità dell’apprendimento associativo è dimostrata dal fatto che, ben prima degli psicologi, gli economisti – con quello che è considerato il fondatore della loro disciplina, Adam Smith – lo hanno utilizzato a fondamento dei meccanismi economici con le nozioni di “incentivi positivi” e “negativi”. Intervenendo tramite incentivi positivi e negativi, spesso premi e punizioni di tipo monetario, si può influenzare il comportamento delle persone associando un premio o una punizione, per lo più guadagni o perdite economiche, a eventi o esperienze. In senso molto lato, la stessa teoria dell’evoluzione di Charles Darwin è un costrutto teorico in cui la sopravvivenza di una specie avviene selezionando gli

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organismi premiati per la loro capacità di adattarsi meglio ad ambienti in cambiamento. In tutte queste forme, dalla fondazione teorica dell’economia fino alle capacità di apprendimento di tutti gli animali, si impara sbagliando e progressivamente correggendo gli errori o eliminandoli del tutto. Nel caso della teoria dell’evoluzione di Darwin, semplicisticamente, possiamo dire che tra i varianti di una specie quelli che sono capaci di adattarsi meglio tendono a prevalere. Al contrario quelli che si adattano meno bene si riducono generazione dopo generazione. MECCANISMI MENTALI AUTOMATICI

Questa lunga premessa è stata necessaria per spiegare quanto siano eccezionali e interessanti i bias, cioè i meccanismi mentali che producono i fenomeni in cui non vale l’adagio tradizionale: “sbagliando si impara”. In alcune situazioni ben precise, si sbaglia e si continua a ripetere l’errore perché non ci accorgiamo di sbagliare. Come mai questo può succedere? In linea generale, capita perché una specie si è adattata a un ambiente rimasto immutato per periodi di tempo lunghissimi. Nel caso dell’uomo ci sono situazioni in cui l’architettura del cervello non ha avuto il tempo necessario per cambiare di fronte a un ambiente nuovo. Capita così che strategie poco efficienti prodotte dal cervello si ripetano sfociando sempre negli stessi comportamenti: questi sono i bias. Il livello di consapevolezza della ripetizione di questi fenomeni può variare. Partiamo dai processi più “bassi” e meno correggibili, quelli legati alla percezione visiva. Esaminiamo l’immagine che segue:


Da un punto di vista della descrizione fisica e geometrica, l’immagine altro non è che una figura in chiaroscuro, bidimensionale, disegnata su uno sfondo piatto. Le persone però vedono dei cerchi che sporgono o che rientrano, come in un bassorilievo o in un altorilievo. Come mai si vedono alcuni cerchi sporgere in avanti e altri incavati verso l’interno? Perché il sistema visivo interpreta il chiaro scuro come se si trattasse di un particolare tipo di ombre. Il cervello dà per scontato che la luce caschi dall’alto come è successo per centinaia di migliaia di anni quando il mondo era illuminato soltanto dal sole o dalla luna. Oggi non è più così. E tuttavia le ombre vengono viste assumendo che la luce caschi sempre dall’alto. Un altro esempio di adattamento a forme di vita prevalenti nel passato è dato dall’interpretazione degli oggetti in movimento. Rebecca Saxe, Joshua Tenenbaum e Susan Carey dell’Università di Harvard hanno pubblicato nel 2005 una ricerca intitolata Secret Agents (inPsychological Science, libero in rete). Il titolo allude ai comportamenti di infanti di 10 e 11 mesi quando vedono apparire un oggetto in movimento nel loro campo visivo. Una serie di eleganti esperimenti mostra che i neonati si comportano come se gli oggetti fossero scagliati da un “agente” che non vedono, fuori scena. Il sistema visivo innato

da per scontato che gli oggetti non caschino dall’alto, in caduta libera, ma che siano stati lanciati da una mano invisibile. Questa interpretazione intenzionale incorporata nel cervello è attribuibile al fatto che nel lungo passato della nostra specie dovevamo stare molto attenti a movimenti compiuti da agenti potenzialmente ostili e quindi pericolosi. Questa attenzione ha permeato tutto il sistema visivo nel senso che noi attribuiamo emozioni persino a oggetti geometrici in movimento. In un famoso esperimento, Heider e Simmel (1944, libero in rete, si può osservare alla pagina https://www. youtube.com/watch?v=sx7lBzHH7c8) hanno mostrato che le persone descrivono triangoli e cerchietti, grandi e piccoli, in movimento come se queste figure geometriche fossero entità animate che attaccano altre, si proteggono dagli attacchi, si vogliono bene, e così via. L’interpretazione del mondo esterno come dotato di intenzioni ed emozioni è stata adattiva ai tempi dei cacciatori raccoglitori. Permetteva infatti di riconoscere negli ambienti di vita eventuali nemici o, comunque, esseri viventi con intenzioni forse offensive. Meglio scambiare i movimenti delle foglie provocati dal vento come se fossero causati dalla presenza di un nemico nascosto che non viceversa. Un errore, certo, ma un errore sui tempi lunghi “adattivo”.

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NEUROSCIENZE

INNATISMO E REGOLE ASTRATTE

Questi sbagli inconsapevoli si ripetono sempre perché sono stati selezionati da un lungo passato in cui siamo vissuti da cacciatori raccoglitori. Oggi non viviamo più così, ma il sistema visivo innato, incorporato nel cervello, non si modifica in poco tempo quando gli ambienti cambiano radicalmente. A stretto rigore non si tratta di errori, ma talvolta vengono classificati come bias perché sono prodotti da meccanismi mentali sistematici e incorreggibili della cui azione non siamo consapevoli (cfr., per esempio, Sara Garofalo, Sbagliando non si impara. Perché facciamo sempre le scelte sbagliate in amore, sul lavoro e nella vita quotidiana, il Saggiatore, Milano, 2021). Tradizionalmente e comunemente, si definiscono bias non le strategie di visione incorporate nel sistema visivo ma soltanto gli errori che dipendono da giudizi e decisioni inefficienti o da emozioni male indirizzate. Negli anni Sessanta del secolo scorso, l’inglese Peter Wason e, in seguito, gli israeliani Daniel Kahneman e Amos Tversky scoprirono alcune situazioni in cui le persone sbagliano e poi ci ricascano. Gli studiosi hanno cercato terapie efficaci e salvifiche. Non è facile. Sembra che le persone abbiano queste strategie fuorvianti già pronte e disponibili in testa. Bisogna quindi di dis-imparare prima di imparare quella che è la strategia corretta, la soluzione giusta, l’errore insidioso da evitare. Purtroppo la nostra “natura innata” non ci aiuta. Per esempio, il dolore per una perdita è superiore alla gioia per un guadagno dello stesso valore. Di conseguenza ci

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accontentiamo di poco pur di evitare il rischio di una perdita maggiore, forse irrimediabile. Un comportamento adattivo in mondi in cui si era costretti a decidere in fretta e in presenza di gravi pericoli. Dannoso invece quando andrebbero valutate le conseguenze delle scelte sui tempi lunghi. Le condizioni di vita sono cambiate rispetto a quelle dei cacciatori raccoglitori: le perdite momentanee, talvolta con esiti fatali, possono venire, sui tempi lunghi, più che compensate da cospicui guadagni. In un pionieristico esperimento Peter Wason chiedeva alle persone di trovare la regola con cui era stata costruita questa tripletta di numeri: 2-4-6. Le persone dovevano cercare di trovarla presentando triplette nuove. Per ciascuna tripletta presentata, Wason diceva se questa seguiva, oppure non seguiva, la regola che lui aveva stabilito. Le persone inizialmente pensano subito a «numeri pari in ordine crescente», perché questo è quello che vedono nella tripletta iniziale. Se però la regola da individuare è più generale, come: «qualsiasi sequenza di numeri in ordine crescente», presentare allo sperimentatore esempi positivi delle ipotesi pensate dai partecipanti serve a poco. Lo sperimentatore ci dirà ogni volta che quell’esempio positivo obbedisce alla regola ma i partecipanti non riusciranno mai a trovarla. Per scoprirla bisogna cercare di falsificare le ipotesi immaginate e produrre esempi contrari alla regola come 6-4-2, cioè tre numeri che calano. Quando scopriamo che una tripletta di numeri calanti non segue la regola abbiamo capito quale è la regola: tre numeri qualsiasi in ordine crescente. Più in generale, noi ingenuamente crediamo che una nostra opinione sia tanto più valida quanti più sono i casi che la confermano. Questo sarà inevitabile se noi cerchiamo solo gli esempi positivi, quelli in accordo con le nostre opinioni, impedendoci così di formarci un’idea più generale e, quindi, corretta di quello che succede nel mondo (cfr. Ken Manktelow, Beyond Reasoning, Routledge, 2020). Un meccanismo analogo è quello per cui non ci accorgiamo di avere idee incoerenti tra loro, cioè che non possono essere vere allo stesso tempo. Non ci accorgiamo dell’incoerenza di molte idee e opinioni semplicemente perché le teniamo in cassetti separati della mente e non le mettiamo mai a confronto (Phil Johnson-Laird, Vittorio Girotto, Paolo Legrenzi, Reasoning from inconsistency to consistency, in Psychological Review, 2004, libero in rete). Recentemente Daniel Kahneman, Cass Sunstein e Olivier Sibony hanno approfondito il tema dell’incoerenza nel tempo, quando cioè si danno giudizi diversi in situazioni identiche


(Noise, Little Brown, 2021). Gli esempi sono molti: giudici che, in momenti diversi, pronunciano sentenze differenti a fronte di illegalità e di circostanze identiche, medici che operano in modi diversi a fronte di diagnosi del tutto uguali, assicuratori che rimborsano con cifre diverse danni che non differiscono affatto, e così via. Il titolo Noise, cioè rumore, si riferisce a giudizi che tecnicamente sono nel contempo “non-accurati” e “non precisi”, in quanto sempre diversi nel tempo. Immaginate un arciere che tira frecce su un bersaglio: se i suoi tiri si distribuiscono a caso rispetto al centro del bersaglio abbiamo “rumore”, cioè tiri che non sono né accurati né precisi. Se invece i tiri non colpiscono il centro ma si collocano in punti diversi sempre alla stessa distanza abbiamo tiri accurati ma non precisi. Se sono raggruppati e compatti, ma non colpiscono il centro abbiamo dei tiri “non accurati ma precisi” in quanto agisce una deviazione sistematica proprio come nei bias. Se infine i tiri colpiscono il centro del bersaglio abbiamo sia accuratezza che precisione. Il termine “noise” viene impiegato da Kahneman e colleghi per indicare l’incoerenza tra giudizi dati successivamente nel tempo. Al contrario i bias corrispondono a giudizi “non accurati ma precisi”, dati cioè con una deviazione sistematica rispetto a quella che sarebbe la risposta corretta. In questo esempio la risposta corretta corrisponde a centrare il bersaglio, (per approfondimenti, Paolo Legrenzi, Perché gestiamo male i nostri risparmi, 2018, Mulino). Un altro bias molto forte consiste nella capacità di ragionare solo nel caso di regole che ci sono familiari e non quando abbiamo a che fare con regole astratte e sconosciute, anche se con la stessa struttura logica delle precedenti (Phil Johnson-Laird, Paolo e Maria Legrenzi, Reasoning and a sense of reality, in British

Journal of Psychology, libero in rete). Una tendenza generale che porta sistematicamente a errori ed è difficile da correggere è l’eccessiva fiducia nelle nostre capacità, tendenza che si amplifica quanto più siamo inesperti di un dato dominio di conoscenze o di azioni (Steven Sloman, Philip Fernbach, L’illusione della conoscenza, Raffaello Cortina Editore, 2018). Tutti questi meccanismi avevano valore adattivo in un mondo ostile in cui si doveva decidere rapidamente: ci davano forza, speranza, rapidità nelle decisioni, operatività sui tempi brevi. Oggi si traducono spesso in ipotesi complottistiche, radicalizzazioni delle opinioni, varie forme di autolesionismo inconsapevole, sia nel campo della salute, sia nel campo della prevenzione sia, infine, nel campo del benessere economico. ■

PAOLO LEGRENZI Psicologo e accademico, dal 1974 è ordinario all’Università di Trieste. Ha insegnato a Ginevra, al College di Londra e a Princeton. È membro dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, dell’Association for Psychological Science, dell’Associazione il Mulino e del nucleo di valutazione di Aix-Marseille, del nucleo di valutazione della Scuola S. Anna di Pisa, del comitato ordinatore al San Raffaele di Milano e del centro di ricerca Luiss X.ITE. È professore emerito di psicologia a Ca’ Foscari. Scrive per Gazzettino, Repubblica, Sole24Ore. Ultimi libri: Si fa presto a dire psicologia (con Alessandra Jacomuzzi), Il Mulino, 2020. Paura, panico, contagio, Giunti, 2020.

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LO SGUARDO DI

ESCHER

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È un’antologia di oltre duecento opere e racconta il percorso straordinario di un’icona mondiale dell’arte moderna. A Palazzo Ducale di Genova, dal 9 settembre. Federico Giudiceandrea

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LE STORIE NELL’ARTE

L

a mostra Escher, che sarà ospitata al Palazzo Ducale di Genova dal 9 settembre 2021 al 20 febbraio 2022, presenta i lavori di Maurits Cornelis Escher, uno degli artisti grafici più conosciuti al mondo. Le opere esposte in questa mostra compongono una retrospettiva degli schizzi enigmatici e dei disegni paradossali dell’artista olandese. Il percorso espositivo inizia con le sue prime stampe e disegni realistici ispirati alla natura e ai paesaggi italiani per arrivare poi ad analizzare il lavoro svolto da Escher nell’ambito della tassellatura e della trasformazione di forme. L’obiettivo è quello di sottolineare come la metamorfosi sia diventata con il tempo una caratteristica fondamentale della sua arte, in grado di amalgamare

fantasia e geometria. I capolavori più celebri dell’artista – come Mano con sfera riflettente (1935), Vincolo d’unione (1956), Metamorfosi II (1939), Giorno e notte (1938) – nascono dalle sue ricerche nell’ambito della matematica e rappresentano l’infinito attraverso immagini incredibilmente dettagliate, eseguite con estrema precisione. Ancora oggi la comunità scientifica internazionale considera l’intera opera di Escher una pietra angolare delle interrelazioni tra arte e scienza. Benché le sue conoscenze matematiche fossero prevalentemente visive e intuitive, l’artista ha giocato con architettura e prospettiva per dare forma a universi infiniti e coinvolgenti, carichi di meraviglia. DALLA MATEMATICA ALL’INFINITO

Il lavoro di Escher continua ad affascinare milioni di persone in tutto il mondo e a ispirare intere generazioni di artisti, architetti, matematici, musicisti e designer, ammaliati dalle sue fantasie giocose e dalle sue costruzioni accattivanti. La complessità del genio olandese che attinge a piene mani ai vari linguaggi fondendoli in un nuovo intrigante percorso è evidenziato in mostra nella sezione “Paradossi geometrici” dove insieme a opere famose come Cascata, Belvedere, Salendo e Scendendo ispirate alla “tribarra”, il triangolo impossibile teorizzato del matematico e fisico Sir Roger Penrose, sono esposti alcune stampe della serie delle Carceri di Giovanni Battista Piranesi (1720-1778), incisore, architetto e teorico dell’architettura italiano, che già in precedenza aveva usato il principio della tribarra, per rappresentare un’architettura drammaticamente irreale. Le sue tavole incise, che Escher aveva conosciuto durante il suo soggiorno romano, ebbero una profonda influenza sulla produzione del maestro olandese, le cui costruzioni impossibili presentano un evidente debito sia alla costruzione di Penrose sia alle Carceri di Piranesi L’ILLUSIONE OTTICA

In merito all’illusione ottica, che fa oscillare la percezione dei cubi reversibili tra il concavo ed il convesso e che era già nota ai Romani, Escher ne fece un uso magistrale nell’opera Concavo e Convesso ma l’illusione ottica generata dai cubi reversibili si trova anche in opere di artisti suoi contemporanei, appartenenti al movimento della “Optical Art” In particolare

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Promossa e organizzata dal Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, Comune di Genova, Regione Liguria e Arthemisia, in collaborazione con M. C. Escher Foundation, la mostra è curata da Mark Veldhuysen – Ceo della M.C. Escher Company – e da Federico Giudiceandrea, uno dei massimi esperti di Maurits Cornelis Escher. La mostra ha come special partner Ricola. L’evento è consigliato da Sky Arte.

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LE STORIE NELL’ARTE Victor Vasarely (1906-1997) vi fece ricorso nella sua “cinetica visiva” (plastique cinétique) basata su illusioni ottiche indotte nello spettatore, che cosi diventa l’unico ed ultimo creatore della percezione artistica. L’arte di Escher, che le nuove tecnologie digitali sembrano rincorrere facendone propri i risultati, infatti, non accusa i segni del tempo, sebbene siano trascorsi quarantanove anni dalla scomparsa. A Genova saranno esposte circa 200 opere divise

in 8 sezioni, in cui oltre a raccontare la sua arte attraverso i lavori prodotti dagli esordi fino all’ultima opera, Serpenti, realizzata nel 1969, per la prima volta verrà dedicato uno spazio all’illustrazione delle tecniche a cui lui solitamente ricorreva e che sono riconoscibili nell’intero percorso. Sarà esposta una matrice lignea originale con inciso un paesaggio italiano e la relativa xilografia finale, insieme a brevi spezzoni di filmati d’epoca che mostrano Escher al lavoro nel suo studio. ■

Maurits Cornelis Escher, Scilla, Calabria, 1931. A fianco, Buccia,1955. Nelle pagine precedenti, a destra Mano con sfera riflettente, 1935; a sinistra Madonna, 1921. Nelle prime due pagine: sopra, Metamorfosi II, 1939; sotto, Giorno e notte, 1938. Tutte le immagini sono courtesy della Collezione Escher Foundation All M.C. Escher works © 2021 The M.C. Escher Company The Netherlands

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OMAGGIO A ROLAND BARTHES

SIAMO TUTTI

MATHESIS SINGULARIS È l’eterna contrapposizione tra oggettività e soggettività. Storia del lampo di genio di un grande semiologo. Gianfranco Marrone

T

ra i testimoni del nostro tempo, Roland Barthes ha un ruolo di rilievo. Un testimone peculiare, scomodo talvolta, inattuale nella sua urgenza di scardinare luoghi comuni, modello esemplare di un esercizio del sapere che è insieme pratica della scrittura. Il suo motto era senza appello: scuotere l’albero del sapere per far cadere i frutti ormai maturi, sperando che altri prendano il loro posto; ben sapendo che anch’essi, a un certo punto, verranno giù, e così ad libitum, nella speranza di colpire comunque il medesimo bersaglio: l’idiozia che fa tutt’uno con il potere, l’arroganza che si traveste da intellighenzia, la violenza del discorso apodittico. Tra i suoi primi bersagli: il materialismo dialettico e l’esistenzialismo svenevole, grandi miti degli anni Cinquanta. Barthes comincia la sua carriera intellettuale con difficoltà, per via di una tubercolosi che, se lo allontana dal fronte della guerra, gli impedisce gli studi dottorali. E senza dottorato, in Francia, non c’è carriera accademica. Approderà difatti tardivamente, scavalcando l’università, direttamente all’Ecole des hautes etudes en sciences sociales, e da lì farà il balzo per quel tempio della cultura mondiale che è il Collège de France. Cosa che gli attirerà molte invidie. Barthes, innanzitutto, si occupa di letteratura, sua grande passione, sotto l’ala protettrice di Albert Camus (Il grado zero della scrittura, 1953); poi, folgorato da Brecht, svolge a lungo il ruolo di severissimo critico

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teatrale per una rivista che, programmaticamente, si intitola Théâtre populaire. Finché entra in contatto col mondo della linguistica (Saussure, Hjelmslev, Jakobson, Martinet...) e in generale dello strutturalismo (Lévi-Strauss, Goldmann, Lacan, Foucault...), che lo porta a inventare quella scienza nuova che, grazie a lui, fra gli anni 60 e i 70 balzerà sotto i riflettori delle cronache intellettuali: la semiologia, scienza dei segni, di cui, con un occhio a Euclide, stilerà personalmente gli Elementi (1964). I suoi studi sul racconto, la moda, la pubblicità, i media gli garantiscono un insperato successo: quello che, appunto, gli apre la strada verso le più alte istituzioni culturali francesi e, parallelamente, lo fa diventare una star. I college americani fanno a gara per invitarlo. Libri come Miti d’oggi (1957), Saggi critici (1964) o Sistema della Moda (1967), non proprio letture da spiaggia, divengono acclamati best-seller. Ma giusto nel momento in cui sguazza nella notorietà, ecco che riprende a scuotere l’albero del sapere, questa volta quello semiologico, e dà mostra di cambiare strada; con scritti come L’Impero dei segni (1970) e Il piacere del testo (1973) ripudia l’oggettivismo strutturalista, quello che, nella sua autobiografia (Barthes di Roland Barthes, 1975), rubricherà come il suo “piccolo delirio scientifico”. Scandalo: il maestro dei simboli, spietato critico dell’ideologia piccoloborghese che essi mal nascondono, si ripiega su sé


stesso, e preferisce glorificare il mondo giapponese, stracarico – dice – di segni senza significato, o ricordare come le opere letterarie, in fondo, vadano bene se procurano godimento estetico: altro che analisi strutturale. Si capisce che Barthes dà un colpo al cerchio e uno alla botte: prova a smarcarsi da quella grande tradizione del soggettivismo che, da Descartes a Sartre, è sempre stata la cifra vincente della cultura francese; e però mal sopporta le pretese d’oggettività tipiche, prima, del marxismo imperante e, poi, di certo strutturalismo: quest’ultimo divenuto stereotipo di se stesso, e perciò preso a picconate dal decostruzionismo di Derrida e soci. Che fare? Quale terza via seguire? Non essendoci modelli a disposizione, occorre inventarli da zero, prendendo a prestito un po’ qua e un po’ là. Il grande Saussure aveva sostenuto che per spiegare il funzionamento del linguaggio occorre separare il suo lato sociale (langue) dal suo lato individuale (parole), la parte collettiva del parlare da quella idiosincratica. Cosa che sociologi e filosofi,

psicologi e letterati, antropologi e architetti avevano assunto come punto di partenza (e di arrivo) delle loro investigazioni e speculazioni. Ma adesso si tratta di andar oltre, e di provare capire se possa esistere qualcosa come un’individualità collettiva, o, che è lo stesso, una socialità individuale, espressioni che a tutta prima appaiono come degli ossimori, delle contraddizioni in termini. E che necessitano di una base teorica convincente. IL SOGGETTO È LA SUA GRAMMATICA

Un linguista allora poco noto ma straordinariamente produttivo come Emile Benveniste, proprio sul crinale tra i 60 e i 70, stava provando a elaborare una teoria del genere, mostrando come, in fondo, se esiste qualcosa come un “io” è perché esiste un pronome di prima persona, un io appunto. La soggettività, in altri termini, non esiste come essenza intima, qualità personale, ma viene fuori solo e soltanto grazie alla grammatica delle lingue. Non è un caso, del resto, che, se pure non tutte le lingue hanno verbi o ag-

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OMAGGIO A ROLAND BARTHES gettivi, tutte hanno invece pronomi personali: io è chi dice io, tu è l’interlocutore di io, egli è qualcuno che non è né io né tu. Non si scappa. Ogni lingua, spiega Benveniste, pone al proprio interno un apparato formale (fatto di pronomi, ma anche di tempi verbali, di dimostrativi, di modalità eccetera) che, nel momento in cui qualcuno comincia a parlare, si attiva e, così facendo, rende possibile la soggettività come anche l’intersoggettività, l’individualità e la collettività. La strada per superare gli ossimori di cui sopra, pensa Barthes, è spianata. A poco a poco, con tentativi ed errori, congetture e confutazioni, Barthes matura un’idea destinata a fare scalpore: occorre inventare una scienza dell’individuale, un sapere certo e condiviso per ogni oggetto possibile, una dottrina dell’unicità. Così come, nell’epoca d’oro del grande razionalismo, si era parlato di Mathesis universalis, si è tentati adesso di proporre una Mathesis singularis. Formulazione che viene fuori in modo esplicito solo nell’ultimo libro di Barthes, La camera chiara (1980), dedicato alla fotografia, ma che trova il suo fondamento nel volume precedente, Frammenti di un discorso amoroso (1977), che è sicuramente il più noto – più venduto, più letto – testo di Roland Barthes. Il libro in cui Barthes manifesta tutto il suo pessimismo per il sentimento amoroso, irrealizzabile per definizione – il discorso amoroso, sostiene, è sempre e soltanto un soliloquio. E al tempo stesso il libro più regalato all’interno delle coppiette, specie se ai primi approcci, specie se clandestine. Paradosso che, a ben pensarci, si riverbera bene nei suoi contenuti. L’AMORE, OSSIMORO PERMANENTE

Diversamente dall’opinione comune e da tutti i romanticismi o pseudo-tali della storia, secondo i quali la passione amorosa è inesprimibile, profondamente ineffabile, tragicamente indicibile, secondo Barthes non si fa altro che straparlare dell’amore. Se ne parla in tutti i tempi e in tutti i modi, con linguaggi d’ogni tipo, discorsi di varia natura, storie d’ogni sorta. Se ne parla negli inginocchiatoi dei confessionali e nei lettini degli psicanalisti (giusto nel ’76 era uscito il primo volume della Storia della sessualità di Foucault, La volontà di sapere, che portava avanti questa tesi), nelle aule universitarie, nei giardinetti sotto casa, nelle corrispondenze segrete, al telefono. La passione amorosa, per Barthes, genera una formidabile produzione di segni, volenti o nolenti, espliciti o

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meno. L’oggetto d’amore non fa altro che emanare segni, nei gesti, nell’abbigliamento, nei comportamenti, nelle azioni e ovviamente nelle parole; tutto in lui ha un significato. O almeno così è per il soggetto innamorato, in perenne delirio interpretativo: perché lui (o lei) indossa giusto quella camicia? Cosa (o chi) starà guardando? Che cosa avrà voluto dirmi con quella smorfia? E chi è quel tipo (quella tipa) a cui manda continui segnali? Come se non bastasse, l’innamorato emana segni a sua volta, missive, note, prosopopee, atteggiamenti, fremiti e tremori che, ahimè, spesso è solo lui a comprendere. Mirabile in questo la scena degli occhiali scuri: l’innamorato, tristissimo, intende attirare l’attenzione dell’oggetto d’amore; per questo cala sul viso degli occhiali scuri (come quelli di Boris Vian, per intenderci) nonostante stia arrivando la sera; «Così – pensa – lui (o lei) si accorgerà di me, si domanderà se ho pianto, si chiederà come mai, capirà che l’amo...». Ma, ed è il dramma del soliloquio amoroso, l’altro non lo nota neppure, magari ingenuamente esclama: «Che begli occhiali che hai!». Insomma, il discorso amoroso è quello semioticamente più carico di significati, di interpretazioni, di allusioni, di segni e segnacci d’ogni tipo. Fa ricorso a linguaggi variegati, si dispiega dovunque, non ha confini né, soprattutto, vuole averne. L’amore è la cosa socialmente e culturalmente più parlata che ci sia stata, e che ci sia sempre e comunque. Eppure, è il discorso più intimo di tutti, quello che ognuno sente come proprio, personale, idiosincratico. L’amore è mio, a dispetto del suo essere al tempo stesso di tutti. Si prenda l’espressione tipica del discorso amoroso, la frase pronunciata al momento d’ogni dichiarazione d’amore: «Io ti amo». Niente di più personale, niente di più banale. Frase detta miliardi di volte da chicchessia (si pensi anche soltanto alle GIANFRANCO MARRONE Semiologo, si occupa di linguaggi della contemporaneità. Ha scritto su media e brand, gastronomia e città, stupidità e pigrizia. Tra gli ultimi libri: Roland Barthes: parole chiave (2017), Storia di Montalbano (2018), La fatica di essere pigri (2020). Insegna all’Università di Palermo. Altre informazioni: gianfrancomarrone.it.


canzonette di consumo) e al tempo stesso espressione acuta della soggettività in quel momento precisissimo che è la manifestazione esplicita dell’affettività erotica dell’innamorato al suo oggetto d’amore. Dal momento in cui io dico “ti amo” a qualcuno, la situazione non sarà più la stessa, in qualsiasi modo vada a finire. Eppure è veramente un luogo comune, uno stereotipo millenario. Perché allora combattere i luoghi comuni? Siamo certi che vadano tutti male? Ecco che l’ossimoro – l’individualità collettiva, la socialità personale – si è realizzato. O, meglio, esisteva già: bastava puntare il dito verso di esso e rifletterci su. Se c’è qualcosa che è insieme soggettiva e oggettiva, intima e pubblica, questa è l’amore. Anarchico e rivoluzionario, lo definisce Barthes, proprio per questa sua essenza bipolare, per questo suo destino storico che lo fa essere in un sol colpo il luogo dell’estrema solitudine e la manifestazione della più becera banalità. «È stupido – dice l’innamorato parlando del proprio sentimento – e tuttavia è vero!». Stupisce meno, alla luce di tutto questo, l’incipit della Camera chiara, dove si sostiene di andare alla ricerca dell’essenza della fotografia, della sua verità profonda, a partire dal modo in cui chi scrive (chi dice io) la vive nella sua esperienza intima e personale, nella

sua quotidianità. Se la fotografia esiste, scrive Barthes, è soltanto per me. Da cui la sua chiarezza – espressa nel titolo antifrastico. Dinnanzi alla fotografia, anzi alle fotografie concrete (artistiche o dilettantesche che siano) occorre, dice Barthes, presentarsi come “selvaggi“, proporsi come soggetti “senza cultura”. E siamo giunti al dunque: «In questa controversia tutto sommato convenzionale fra la soggettività e la scienza, maturai un’idea bizzarra: perché mai non avrebbe dovuto esserci, in un certo senso, una nuova scienza per ogni oggetto? Una Mathesis singularis (e non più universalis)? Accettai quindi di prendermi per mediatore di tutta la Fotografia: avrei tentato di formulare, a partire da alcuni umori personali, la caratteristica fondamentale, l’universale senza il quale la fotografia non esisterebbe».Sappiamo come va a finire: l’essenza della fotografia sta nell’affetto provato verso qualcosa che non c’è più, e che quel particolare pezzo di carta che ho dinnanzi sta cercando di farmi rivivere. Barthes la ritrova in una vecchia foto della madre – scomparsa da poco – quand’era bambina. E che nel libro, manco a dirlo, non è riprodotta. In questo, il lutto e l’amore hanno molto in comune. Del resto l’oggetto erotico, leggiamo nei Frammenti, non è altri che la Madre. ■

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FILOGENESI

IN PRINCIPIO ERANO

I METAZOI

La scienza ha sempre cercato linee di demarcazione tra le specie animali. I progressi della ricerca indicano invece confini più labili nella storia evolutiva che ha dato origine alla vita delle nostre menti. Matilde Perrino

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’ambiente acquatico ci è scomodo: non consente di respirare ai nostri polmoni, la percezione del nostro peso muta e i movimenti sono ostacolati da un mezzo viscoso. In acqua siamo ospiti in un mondo di altri, di altre menti. E però, la nostra storia naturale affonda le radici in acqua, reca la relazione passata con questo medium dentro ognuna delle nostre cellule, nel e con il mare emerge la nostra biologia animale. Ma cosa significa essere animali? E qual è l’origine della mente e dell’esperienza? Detto altrimenti, cosa significa avere una mente? Questo genere di interrogativi si lega facilmente a un altro tipo di domande più strettamente inerenti alla vita, con le quali molti scienziati e filosofi a partire dal XIX secolo si sono confrontati, in una sorta di caccia al tesoro per spiegare il passaggio dalla materia inorganica alla vita: cos’è la vita? Cosa distingue il vivente dalla materia inorganica? Chi come il fisico tedesco Erwin Schrödinger si concentrò sul carattere informativo di un “cristallo aperiodico” capace di spiegare l’emergenza di un ordine a partire da un disordine fisico di fondo, altri invece come il biologo Jacques Monod si soffermarono sulla capacità di tramandare un piano per la realizzazione di un progetto (teleonomia). È con simili domande che si confrontarono due

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scienziati, Thomas H. Huxley e Ernst Haeckel. Alla ricerca di un ingrediente fondamentale che consentisse di distinguere il mondo biologico dalla materia inorganica, ritennero di averlo identificato in una sostanza trasparente gelatinosa chiamata protoplasma trovata in un organismo primigenio che chiamarono Bathybius haeckelii. La scienza nel tempo rivelò che si sbagliavano: la vita è il risultato dell’organizzazione a partire da elementi chimici comuni e non è identificabile in un materiale speciale comparso da un momento all’altro. Tuttavia questa storia racconta del desiderio di avere in mano una soluzione netta, un marcatore speciale di fattura naturale, che permetta di tracciare i confini nell’intricato mondo biologico, a partire da un salto nel vuoto tra la conoscenza del mondo fisico e una proprietà di più alto livello come l’essere vivente. A esigenze siffatte rispondono alcuni tentativi, contemporanei e non, di risolvere quesiti sulla mente, le sue origini e i suoi termini ontologici. L’idea spesso è che la mente sia una facoltà singolare definita da taluni attributi, come avere una corteccia o possedere il linguaggio o provare del dolore. E che ognuno di questi sia ben definito e isolabile, così da consentire l’accesso al mondo della mente, aprendo così le porte a una sorta di dualismo cognitivista in cui proprietà


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FILOGENESI astratte sembrano indipendenti dalle strutture fisiche di fondo. Anche in questo caso, potrebbe trattarsi di un abbaglio. Per sfuggire a questo tranello, che rischia di condurci a una metafisica che si inoltra nel sovrannaturale, una strada è quella suggerita da Peter Godfrey-Smith, nel suo recente lavoro dal titolo Metazoa (di imminente pubblicazione, nella traduzione italiana, per i tipi della collana Animalia di Adelphi): ripercorrere la storia di ciò che chiamiamo mente, ma che affonda le radici nell’evoluzione dei sistemi nervosi di quel gruppo di organismi pluricellulari chiamati animali o metazoi. Così, forse, l’apparente divario tra fisico e mentale sembrerà un po’ meno reale; per non dire che potrà dimostrarsi superabile. LA STORIA DEI PRIMI ANIMALI

Metazoa è infatti il regno animale, che comprende le spugne come le giraffe, rondini e meduse, l’homo sapiens come i tardigradi. È un mondo fatto di inseguimenti e sedentarietà, elettricità e metamorfosi, che ebbe inizio nell’Ediacarano circa 600-500 milioni di anni fa. Questo regno si divide in più di 30 phyla, come quello dei cordati cui apparteniamo o quello degli artropodi cui appartengono gli insetti. Ognuno di questi phyla condivide un comune antenato, rintracciabile nei nodi dell’albero filogenetico. Le sue trame non suggeriscono sovra o sub-ordinazione o una maggiore antichità dei viventi che troviamo sui rami più lontani dal nostro. Piuttosto, tutti gli organismi

viventi lì rappresentati sono nostri contemporanei, recanti i segni dello stesso tempo evolutivo e quindi altrettanto evoluti. Il filosofo subacqueo Peter Godfrey-Smith ci invita a compiere un cambio di prospettiva: non partire dall’umano per cercarne tracce di somiglianza in altri animali, bensì percorrere la storia del sodalizio tra cellule in un’operazione minimale, che procede per addizione a partire dagli organismi più semplici. L’acqua, in effetti, è il punto da cui partire se si vogliono affrontare questi temi. Sott’acqua la maggior parte di ciò che ci circonda, sebbene in alcuni casi sia immobile, è animale. Abbiamo davanti – è l’Autore a dircelo mentre descrive i fondali delle sue immersioni – l’equivalente di una foresta, ma una foresta animale. È in acqua che i primi organismi viventi unicellulari sono nati; e sempre sott’acqua si trovano le specie animali più distanti evolutivamente da noi, e quindi – per gli scopi delle domande prima poste – i più interessanti. I coanoflagellati sono il gruppo di eucarioti unicellulari che si ritiene essere l’antenato unicellulare più vicino ai metazoi. Sono organismi in grado di muoversi utilizzando il flagello di cui dispongono per spingersi attraverso l’acqua o radicarsi in un luogo, assumendo forma sessile. Sono soliti raggrupparsi in colonie; e analisi genetiche hanno rivelato la presenza di geni che codificano per alcune proteine, che aiutano le cellule ad attaccarsi l’una all’altra. Dalla possibilità di più cellule di unirsi, coordinarsi e quindi sentire il comportamento delle vicine, nascono gli organismi pluricellulari. Questo passaggio, com’è noto, determinò la nascita dei primi animali, i metazoi. Si pensa che i primi animali fossero molto simili alle spugne, appartenenti al phylum dei poriferi. Le spugne, tuttavia, sono degli animali sessili, ovvero rimangono fissi in un luogo e non dispongono di movimento durante la loro forma adulta. Una distinzione fondamentale tra le spugne e gli altri animali, che da un organismo comune si sono generati, è proprio la mancanza di un sistema nervoso. AZIONE E SENSAZIONE NEI SOGGETTI PRIMIGENI L’azione su scala corporea è un’innovazione che troviamo negli cnidari, come meduse e anemoni. Infatti, il movimento pluricellulare richiede una segnalazione veloce e una coordinazione del citoscheletro delle cellule. Si tratta di azioni semplici, ma che hanno un risvolto teorico fondamentale.

I primi sistemi nervosi si svilupparono in questi

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animali per la prima volta al fine di consentire una maggiore possibilità di nutrimento e non accompagnavano organi di senso, come gli occhi. La forma originaria di conoscenza dell’ambiente è un’esplorazione casuale che segue scie chimiche, così consentendo all’organismo di proseguire l’azione nella stessa direzione, nel caso di ritorno energetico positivo, o di dirigersi altrove nel caso di esaurimento della fonte di cibo. Qualcosa simile ad un “processo stocastico markoviano”, in cui la probabilità di passaggio tra due stati dipende solo dallo stato immediatamente precedente del sistema. Solo nel Cambriano, a seguito dello sviluppo della predazione, la necessità di ricevere informazioni di pericolo fa fiorire organi di senso, quali specchi di un ambiente complesso. I primi occhi appartengono agli artropodi, come i gamberi e anche le mosche, i quali ancora oggi detengono dei primati in merito alla vista. La conoscenza non sta più solo nel movimento, ma nel feedback tra ambiente e azione. La sensibilità consente così agli animali di trasformarsi in veicoli causali, capaci di influenzare in maniera condizionata l’ambiente, tramite meccanismi di feedback che intersecano il passato con il presente.

Dalla comunione e sincronia di azione e sensibilità nasce quindi la capacità di distinguere l’animale dal mondo eteronomo. Questo sguardo evolutivo sul sistema nervoso ci consegna un’informazione preziosa per chiarire e forse risolvere la domanda posta all’inizio. Questi animali hanno probabilmente il necessario per essere definiti soggetti di esperienza. Hanno un mondo che è misura delle azioni che possono compiere e dei sensi che più li guidano, ma soprattutto sanno distinguerlo da loro stessi. MATILDE PERRINO Borsista di ricerca al Centro Interdipartimentale Mente-Cervello dell’Università di Trento. Laureata in Filosofia a Torino e poi in Neuroscienze a Trento, si è fin qui occupata delle basi neurobiologiche dell’elaborazione di quantità numeriche in modelli animali non umani. Si interessa di reti neurali artificiali e modelli computazionali applicati al comportamento e alla neurobiologia animale.

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FILOGENESI

IL NUOVO LIBRO DI PETER GODFREY-SMITH

Professore di storia e filosofia della scienza all’Università di Sydney, si occupa principalmente di filosofia della biologia e di filosofia della mente. Il suo esordio italiano è avvenuto con Altre menti: il polpo, il mare e le origini profonde della coscienza (Adelphi), un saggio che ha portato l’attenzione sull’origine della sensibilità e dell’intelligenza nel regno animale, in modo particolare nei cefalopodi. Adesso arriva in libreria Metazoa (sempre Adelphi), un’appassionata ricognizione sottomarina tra spugne di mare, coralli molli e vermi simili a fiori, che ricordano più la vita vegetale di quella animale: «Eppure queste creature sono nostre cugine», racconta l’autore. «Come membri del regno animale, possono insegnarci le origini evolutive non solo dei nostri corpi, ma anche delle nostre menti». LA LEZIONE DELL’ACQUA

Il passaggio al movimento di un corpo pluricellulare segna così la nascita del sistema nervoso e lo sviluppo di organi sensoriali distingue la comparsa di soggetti-agenti. E poi? Il resto è tutto un pullulare di sensibilità peculiari e corpi diversissimi che danno vita alla ricchezza comportamentale che meraviglia e insieme ossessiona gli scienziati. Il polpo con il suo sistema nervoso decentralizzato è quanto di più simile a un alieno sulla terra. Le sue braccia agiscono in maniera indipendente, quasi come fossero tanti piccoli cervelli autonomi. In alcuni momenti l’attenzione è tutta rivolta verso l’esterno, nel tentativo esplorativo di assaggiare il mondo; in altri il cervello centrale chiama a raccolta le braccia indisciplinate per compiere azioni compatte e coordinate. Il polpo è l’incarnazione del problema della disgregazione dell’individuo. Un altro caso interessante è quello dei pesci, un gruppo parafiletico che indica la maggior parte dei vertebrati in mare. Questi, infatti, posseggono un senso tattile che prende il nome di linea laterale. Tramite piccoli gruppi di cellule ciliate, chiamate neuromasti, i pesci sono sensibili alle vibrazioni dell’acqua e così dispongono di un’intensa sensibilità al movimento, stando immersi con tutto il corpo in un mezzo denso come l’acqua, capace di condurre vibrazioni in maniera molto più diretta dell’aria. Immaginate di sentire qualsiasi spostamento d’aria prodotto da altri viventi intorno a voi: probabilmente vi sentirete sopraffatti dalla quantità di informazione che potreste ricevere ad ogni istante. Ha senso chiedersi allora – come domanda Thomas Nagel in un articolo ormai famoso – Che si prova ad essere pipistrello? O polpo? O cernia? Il sospetto è che

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l’esperienza soggettiva non possa trovare una corrispondenza linguistica esaustiva. Descrivere sistemi nervosi incommensurabili partendo da un assunto antropomorfico rischia di chiudere la questione dentro dei confini infruttuosi. Una prova ne sono i risultati contraddittori, in merito alla capacità di provare dolore o di saper apprendere dei compiti, ottenuti in esperimenti condotti su animali diversi. Gli insetti, per esempio, conducono una vita breve, che rende poco utile la capacità di accorgersi e prendersi cura di lesioni al proprio corpo. Ancora, i polpi potrebbero non essere interessati a svolgere degli esercizi nel modo in cui riteniamo sia intelligente farlo. «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo», disse Wittgenstein; e in qualche maniera torna utile pensare che il modo in cui definiamo alcuni attributi “mentali” non sempre tiene in considerazione i corpi fisici che li sottendono. Tornando all’acqua, è possibile che sia proprio quella sensazione di inadeguatezza, scaturita dal muoversi in un mondo alieno silenzioso con la fatica di un respiro trattenuto, a legarci all’istante presente e a farci notare come vi stiano invece a proprio agio forme di vita diverse. E come allora i limiti del nostro corpo, superati da chi invece ha investito in pinne e tentacoli, possano talora aiutarci a rilevare le peculiarità di quegli altri soggetti e a studiarne le strutture nervose, o anche dette menti. ■

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI MONOD, J. Il caso e la necessità, Mondadori, Milano, 1970. REHBOCK, P.F. (1975). Huxley, Haeckel, and the oceanographers: the case of Bathybius haeckelii. Isis, 66(4), 504-533, 1975. SCHRODINGER, E. Che cos’ è la vita? Scienza e umanesimo. Sansoni, 1988.


CON CALVINO E SCIASCIA

PRASSI

DELLA SCRITTURA Avanza una strana ideologia: il divulgazionismo. Liquefà la scuola come officina della conoscenza e stende il velo su una domanda cruciale: per chi si scrive? Nunzio La Fauci

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CON CALVINO E SCIASCIA

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o scaffale ipotetico è un breve saggio di Italo Calvino. A sollecitarne la composizione nel 1967 era stata un’inchiesta aperta da Gian Carlo Ferretti sul tema “Per chi si scrive un romanzo? Per chi si scrive una poesia?” e ospitata dal settimanale Rinascita, il periodico politico-culturale fondato nel 1944 da Palmiro Togliatti. Difficile immaginare, per una pubblicazione, un nome più aderente al programma di conciliazione delle diverse anime della cultura nazionale perseguito dal suo fondatore. Rinascita finì nella pressa della storia quarantacinque anni dopo la sua fondazione e vi fu definitivamente stritolato nel 1991. Dal tema dell’inchiesta che gli aveva sollecitato un intervento, Calvino prese d’altra parte a prestito un nuovo titolo per il suo scritto, quando lo ripubblicò

nel 1980. Il saggio comparve come “Per chi si scrive? (Lo scaffale ipotetico)” in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società (Einaudi, Torino). Tra il resto, esso espone un’idea degna di considerazione, oggi forse più di allora. Calvino si riferisce alla letteratura, ma quanto scrive può essere facilmente proiettato mutatis mutandis sopra altre pratiche artistiche e culturali. Ecco le sue parole, tratte dalle pag. 161-2 del volume menzionato: «Se si presuppone un lettore meno colto dello scrittore e si assume verso di lui un’attitudine pedagogica, divulgativa, rassicuratrice, non si fa che confermare il dislivello [culturale tra colti e incolti]; ogni tentativo d’edulcorare la situazione con palliativi (una letteratura «popolare») è un passo indietro, non un passo avanti. La letteratura

Italo Calvino nel ritratto di Dariush Radpour. Mondadori Portfolio

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non è la scuola; la letteratura deve presupporre un pubblico più colto, più colto di quanto non sia lo scrittore [il corsivo è di Calvino: NdA]; che questo pubblico esista o no non importa. Lo scrittore parla a un lettore che ne sa più di lui, si finge un se stesso che ne sa di più di quel che lui sa, per parlare a qualcuno che ne sa di più ancora». LA DIVULGAZIONE COME IDEOLOGIA

La prospettiva aperta e la direzione additata da queste parole stridono con quelle prevalenti nell’attuale panorama della cultura nazionale. Oltre che tema di discussione, la divulgazione è diventata in effetti la manifestazione d’elezione e il principale ramo di attività di una cultura che, anche per tale ragione, si sente orientata al bene e socialmente utile. La divulgazione è oggi un’ideologia pratica e una prassi ideologica: con un’innovazione lessicale trasparente, non è forse inappropriato parlare in proposito non di divulgazione, ma di divulgazionismo. Si designa così nel suo complesso un andazzo, nei suoi risvolti teorici, procedurali, pratici (inclusi i socio-economici). Nell’articolata compagine della società moderna, la scuola con la sua separatezza era l’istituto destinato specificamente alla diffusione delle conoscenze e della cultura. Quella compagine si è però liquefatta e la scuola, persa molta della sua ragione d’essere, oggi è quasi annichilita.Tipicamente divulgazionista è il correlato e paradossale programma di disseminarne lo spirito pedagogico in ogni dove, di renderne appunto liquido l’habitus edificante, di intriderne così la cultura nella sua totalità. Gli esiti sono stucchevoli e, come osservava Calvino, c’è un tratto politicamente regressivo e paternalista, se non apertamente reazionario nel divulgazionismo, come nelle pratiche che usurpano ruolo e funzioni sociali della scuola e, fuori dell’istituzione, si atteggiano più o meno apertamente a educative. Di conseguenza sa di Newspeak la pretesa di tale ideologia di esprimere al meglio, con i suoi prodotti, uno spirito aperto e democratico, di essere un frutto degno della modernità. Se di frutto si tratta, esso è già in avanzato stato di putrefazione e, col pretesto di avvicinarsi a platee vaste e di intrattenerle educandole, circola largamente una saggistica di qualità più che dubbia, mentre s’impone per altri versi una produzione letteraria che manifesta la sua fondamentale ispirazione bellettristica, proprio esibendo un grande impegno

Leonardo Sciascia colore del vino è un ritratto fatto con vini siciliani che Lorenzo Bersini ha creato nel 2015. Courtesy dell’artista.

nell’affermazione, nella difesa, nella diffusione delle intenzioni migliori e dei migliori sentimenti. UN VINO CHE SA DI TAPPO

Proprio sull’impegno, suona allora molto pertinente ancora oggi anche la risposta che Leonardo Sciascia diede alla medesima inchiesta e che comparve accanto a quella di Calvino nel medesimo fascicolo di Rinascita (anno XXIV, n. 46, novembre 1967). Più breve e meno sofisticato di quello del collega, lo scritto di Sciascia ha un titolo, “Tra impegno e disimpegno”, che forse oggi sa di tappo, come il vino di una bottiglia tenuta in cantina troppo a lungo. Sciascia non ripropose la nota nelle sue raccolte saggistiche ed essa è assente dalle successive edizioni

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CON CALVINO E SCIASCIA delle sue opere. Per quanto chi scrive ne sappia, non è mai stata ripubblicata e giace trascurata se non ignota. Riproporla qui è anche un servizio reso a chi ama la prosa dello scrittore di Racalmuto.

peggio. A perdere il lettore della qualità dei venticinque del Manzoni, altro non si trova che il lettore consumatore, cioè il lettore invisibile. Qui, dico, oggi. E ne vale la pena?»

CHI SONO I LETTORI?

Oggi si pensa di sì, che ne vale la pena. E si scrive sovente per imbonire, attività che non a caso è designata da un verbo che la morfologia rivela come perversamente apparentato con bontà. Ecco allora cosa il divulgazionismo vuole fare e fa: imbonire. Nell’imbonimento risiede la sua intenzione comunicativa, la sua Meinung, per dirla con l’appropriato termine fenomenologico. Molto è cambiato dunque dai tempi di Calvino e di Sciascia: cronologicamente recenti, ma culturalmente remoti. Oggi fa una scelta coraggiosa e controcorrente chi, chiedendosi “per chi scrivo?”, abbia pensieri simili ai loro e si figuri chi legge certamente come un sodale o una sodale, ma con un’esperienza della vita e del mondo e con un acume tali da imporre di innalzare, non di deprimere il livello della scrittura, naturalmente senza per questo rifiutarsi alla comunicazione. È quanto questa rivista ha provato a fare nei quasi quaranta anni della sua storia. Bisogna del resto nutrire ambizioni temerarie per sottoscrivere in piena coscienza una dichiarazione perentoria come «Preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli»: parole di Georges Bernanos. Un Leonardo Sciascia reso forse ancora più spavaldo dalla morte imminente le pose a epigrafe del suo estremo A futura memoria (se la memoria avrà un futuro). Era proprio quel 1989 che avviava verso la pressa della storia tanta parte della cultura del Secolo breve. ■

Sciascia si espresse così: «Ho cominciato a scrivere in tempi di impegno; continuo a scrivere in tempi di disimpegno. Non ho tenuto conto dell’impegno (com’era inteso); e non tengo conto del disimpegno (com’è inteso). O dell’impegno del disimpegno, del disimpegno dell’impegno del disimpegno, e così via». «Guardando alla società italiana nel suo insieme (e dico società in senso del tutto approssimativo) e a quello che in questa società accade da venti anni, da cento, da quattrocento, mi sentivo inutile ai tempi dell’impegno e mi sento inutile in questi tempi di disimpegno. Non ho mai scritto, dunque, pensando a una società pronta ad accogliere i miei libri o a respingerli; e tanto meno pensando a una classe pronta ad accoglierli e a un’altra pronta a respingerli». «D’altra parte, non ho mai scritto per me stesso: quello che scrivo è importante per me soltanto per il fatto che lo comunico agli altri; cioè per il fatto che quello che vengo a conoscere o a riconoscere scrivendo appunto lo conosco o lo riconosco nel circuito della comunicazione. Ma chi sono questi altri coi quali comunico (o mi illudo di comunicare, poiché un margine pirandelliano c’è sempre in tutto quello che faccio, in tutto quello cui credo)? È difficile rispondere indicando categorie, tipi, ambienti». «Posso solo dire: sono persone che conosco. Non il lettore-consumatore, dunque, ma il lettore-interlocutore. Un lettore individualizzato al massimo, direi, e col quale sono riuscito a stabilire un rapporto, molto somigliante all’amicizia, sulla base del senso comune (non dico buon senso per le implicazioni qualunquistiche che ha da noi l’espressione)» [i corsivi sono di Sciascia: NdA]. «E avendo raggiunto un numero piuttosto ingente di lettori-amici (cosa piuttosto difficile in un paese come il nostro), potrei anche essere soddisfatto e sicuro. E invece non sono né soddisfatto né sicuro. Questa vasta cerchia di lettori altro non è che l’allargamento della rosa manzoniana dei venticinque. E perciò come don Abbondio resto a dire: ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro; appunto perché quel che ci vuole quasi non si vede più e a tentare di mutare la situazione, il rapporto, si scivola nel

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IL FASCINO INDISCRETO DEL SUCCESSO

NUNZIO LA FAUCI Nunzio La Fauci è professore emerito dell’Universität Zürich (UZH) e insegna oggi a Palermo. Ha studiato a Pisa con Riccardo Ambrosini e fatto ricerca a Parigi con Maurice Gross. All’attivo oltre duecento pubblicazioni, tra cui un Compendio di sintassi italiana (Il Mulino) e una raccolta di saggi dal titolo Relazioni e differenze. Questioni di linguistica razionale (Sellerio). Con Carol Rosen ha pubblicato Ragionare di grammatica (ETS).


DINASTIE E CIVILTÀ

PERSIA ÆTERNA Un Paese di giovani, ma con una storia antichissima. Crocevia di culture che hanno attraversato il mondo come carovane sulla via della seta, sente nostalgia per il passato? L’Iran, da Babilonia alla Repubblica Islamica. Francesco De Leo

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DINASTIE E CIVILTÀ

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uando entrai a Babilonia non permisi a nessuno di perseguitare il Sumero e l’Accado. Per il benessere della popolazione ho rispettato le esigenze di Babilonia ed i suoi templi. Ho liberato dal giogo i cittadini di Babilonia. Ho posto fine alle loro disgrazie. Ho ricostruito le case distrutte». Parole di Ciro il Grande, fondatore dell’Impero persiano, iscritte nel 539 a.C. in un antico blocco cilindrico d’argilla sul quale in accadico cuneiforme è scolpita quella che è considerata la prima “Carta dei Diritti umani” della storia. Ciro proclama l’uguaglianza tra l’uomo e la donna, tra gli esseri umani di qualsiasi etnia e stirpe, abolisce la schiavitù e conferisce a tutti la libertà di culto. Con lui la Persia è conosciuta come terra d’asilo per i perseguitati e più di due millenni dopo, l’ultimo Scià Muhammad Reza Pahlavi, per quanto osteggiato in patria e nell’ultimo periodo anche dalla comunità internazionale, cercherà di legare la propria sovranità a un sogno politico e metastorico: «Instaurare il regno di quella luce che è l’essenza stessa della civiltà e della cultura iraniane». OLTRE QUARANT’ANNI DI “LEGGE DI DIO”

All’inizio dell’anno 1979, ha dovuto invece lasciare il Paese non facendovi mai più ritorno, mentre sei milioni di persone in festa accoglievano l’Imam Khomeini al suo ritorno dall’esilio di Parigi. Era il padre della loro rivoluzione, una mobilitazine che ha sovvertito la monarchia in Persia dopo 2.500 anni per porre le basi di un ordine sociale e politico fondato sulla sharia, “la Legge di Dio”. Per la prima volta nell’era moderna, con la rivoluzione sciita, la religione si è imposta quale fattore determinante e discrimiante nella storia delle rivolte dei popoli. «Non vi è in fondo alcuna ragione per processare un criminale; una volta stabilita la sua identità, egli dovrebbe essere subito ucciso. È deplorevole constatare fino a che punto l’occidentalismo imperversa ancora tra noi», ha detto un giorno colui che alla fine del Novecento mobilitava le masse islamiche per trovare una via alternativa alla modernità occidentale. Parole nelle quali probabilmente non avrebbe difficoltà a riconoscersi il nuovo presidente della Repubblica Islamica, l’ultraconservatore Sayyid Ebrahim Raisol-Sadati, già capo del sistema giudiziario che nel 1988, alla fine della guerra tra Iran e Iraq, ha partecipato alle cosiddette “commissioni della morte”, milizie responsabili di esecuzioni di massa per migliaia di prigionieri politici e combattenti nemici. Tuttavia, gli osservatori internazionali stanno registrando segnali, anche inconsueti, di cambiamenti nel

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mood del Paese che potrebbero dare luogo a contraddizioni forti nel corpo sociale e a trasformazioni anche radicali. Le ultime manifestazioni di protesta, nate dalla crisi economica, sono state represse nel sangue, ma in varie città iraniane è accaduto qualcosa che non era mai avvenuto in quarantadue anni di Repubblica islamica. Tra le tante parole d’ordine contro il regime, per la prima volta sono comparsi slogan che riecheggiavano le grandezze della storia patria, che guardavano al passato lontanissimo ma sorprendetemente anche a quello molto vicino. Come è possibile vedere in vari video (ad esempio https://www.youtube.com/ watch?v=zr_9s-TU_ns) tra le tante voci di piazza che si sono levate, c’era anche «Reza Shah! Ruhat Shad!» (Reza Scià, che la tua anima riposi in pace), e anche «Ey Shah-e Iran, bargard be Iran!» (Oh Re dell’Iran, torna in Iran!) e persino «Iran che Shah nadarè, Hesab ketab nadarè» (L’Iran senza lo Scià non ha stabilità). Difficile valutare se questo tipo di emotività politica preluda a una nuova stagione di rivolte, e se queste siano spontanee o organizzate. Analogamente, è difficile capire quali sentimenti agitino quella parte di popolazione che sembra auspicare il ritorno della monarchia.La maggioranza degli iraniani – il 70% ha meno di trent’anni – non ha conosciuto l’ultimo Scià che ha regnato sul Trono del Pavone, questo paradossalmente ne accresce l’aura di fascino, amplificata dai racconti dei genitori e da vecchie vecchie fotografie di un Iran che non c’è più. NOSTALGIA O PALINGENESI?

Nessuno può formulare oggi previsioni attendibili. Ma studiosi e accademici di ogni università sanno di dover contemplare, assieme a tutti gli indici classici che misurano le temperature sociali, anche un quid che potrebbe essere definito come “fierezza”. La esprimono gli iraniani nella consapevolezza di avere alle spalle una storia lunga più di venticinque secoli. Si riconoscono come eredi legittimi di una civiltà che ha contribuito in misura inestimabile al retaggio dell’umanità. In Iran la relazione tra popolo e re è stata storicamente unica, tanto che il concetto stesso di monarchia, così come oggi lo conosciamo, deve molto alla Persia. «Parte di questo retaggio», scrive l’analista indiano Ramesh Sanghvi in La Persia. Il Regno immortale (New York Graphic Society),«deriva anche da un conflitto di concetti politici nel confronto tra Persia e Grecia. Con la creazione dello Stato universale degli Achemenidi – che fecero della Persia il nucleo del più vasto impero che il mondo avesse sino ad allora conosciuto


– la storica ricerca del millennio ugualitario cominciò ad occupare le menti più illuminate ben prima della convenuta data biblica, già progredita quando nella Città-Stato di Atene si concepiva la democrazia assegnando la sovranità a una minoranza. I sentimenti “democratici” non si estendevano a tutti gli strati della società greca, non toccavano per esempio il concetto di schiavitù, poiché lo schiavo rimaneva uno strumento del suo padrone.Il governo monarchico instituito nella storia persiana poggia su un concetto chiaramente antitetico. La teoria che giustificava l’assegnamento del supremo potere a un monarca affondava le sue radici in una convinzione radicata: meglio affidare la sovranità degli individui a un singolo sovrano anziché a faziosità e fervori partigiani. Era al popolo che il sovrano rendeva ragione: la sua fedeltà era la garanzia del benessere collettivo e la fiducia collettiva era il suo mandato. Sono l’insieme degli accadimenti storici, soprattutto nel periodo pre-islamico Achemenide e Sassanide e nell’epoca della rinascita culturale della Persia tra il decimo e l’undicesimo secolo d.C., ad aver influito profondamente sulla formazione del legame tra popolo e monarchia. Dobbiamo a Dario, salito al potere dopo Ciro e Cambise, la creazione di una sorta di federazione con la suddivisione dell’Impero in regioni, le satrapie, con ampi poteri amministrativi concessi al governatore; il primo servizio di posta (la strada regia), la prima agenzia d’intelligence della storia (gli occhi del re), il primo sistema fiscale (tasse regolari proporzionali alla ricchezza e alla popolazione di ogni satrapia). Si tratta di riforme che accrebbero il benessere e il tenore di vita della gente del tempo, rafforzando la relazione dei sudditi con la figura del re. Dario assunse il titolo di Shahinshà (Re dei Re) e Ramesh Sanghvi sostiene che «proprio il ruolo eccezionale del Re durante i venticinque secoli della storia persiana, ha portato alla formazione del concetto nazionale del Re dei Re, divenuto nel corso del tempo parte intima del carattere nazionale e tradizione fondamentale della civiltà iraniana». La monarchia, nel senso moderno della parola, è quindi una creazione eminentemente persiana, sin dall’intimo significato della parola. Il grande iranista Italo Pizzi, nei suoi studi portati avanti nell’Ottocento, individua tale questione nella radice etimologica. Nell’antico persiano il verbo “Khsha” significava dominare. Nel sito archeologico di Pasargad venne ritrovata nel 1820 una scritta posta sotto un uomo alato, probabilmente l’immagine di Ciro, che recitava: «Adam kurush khshayathiya hakhamaneshiya»

Lo Scià Abbas I il Grande, della dinastia Safavidi, ha promosso il “Rinascimento persiano”.

(«Io sono Ciro, Re degli Achemenidi»). Da “Khsha” proviene quindi “Khshaya”, “Re”, e da questa stessa radice il termine turco “Pashà”, il più tardo termine persiano “Kasrà”, il termine arabo “Gheisar”, il termine tedesco “Kaiser”, il termine italiano “Cesare”, il termine russo “Zar”. In quell’immagine di Ciro, scolpita su una parete nelle rovine del giardino di Pasargad nei pressi della città di Shiraz, il sovrano è raffigurato con elmo egizio, tunica elamita, sandali babilonesi, ali che facevano parte dell’iconologia zoroastriana e quindi indo-iranica. Seppur sovrano di terre immense, Ciro è dunque mostrato come padre di tutto il popolo. LA POESIA RIUNIFICATRICE

Nell’epoca dei Sassanidi, grande dinastia al potere dal 3° al 7° secolo dopo Cristo, la concezione ontologica della sovranità – «il Re è l’ombra di Dio sulla terra» – genera quella triade concettuale che per millenni sarà l’asse del pensiero persiano: «Khoda-Scià-Mihan»

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DINASTIE E CIVILTÀ (Dio-Re-Patria). È nel sito archeologico di Naqsh-e Rostam, nel sud dell’Iran, la rappresentazione artistica dell’idea: bassorilievi del 3° e 4° secolo dopo Cristo, che raffigurano divinità scese in terra per incoronare i re. Il sovrano Nersey viene incoronato dalla dea dell’acqua, Anahita, mentre il primo re Sassanide, Ardeshir, da Ahura Mazda, l’unico Dio zoroastriano. Nella prima fase del periodo islamico, quello della dominazione araba caratterizzato da una radicale cancellazione dell’identità persiana, la tradizione monarchica sembrerebbe oscurata per sempre. Attorno all’anno Mille, invece, tutti i racconti mitologici persiani verranno raccolti e trasformati in poesia dal grande poeta Hakīm Abol-Ghāsem Ferdowsī Tūsī, noto come Firdūsī, che chiama la sua opera ShāhNāmeh, il Libro dei Re. Il maggior poeta epico della letteratura persiana medievale, forse il più celebrato, ricostruisce l’identità e la fierezza nazionale del popolo calpestata dalla dominazione araba, narrando le vicende e le gesta dei re mitologici, permeati da una sorta di Spirito Santo, detto Farrehi, che aiutava i sovrani giusti nell’atto di regnare. Nei versi di Firdūsī, diventati proverbi nella tradizione persiana, si legge: «Chè farman-e Yazdan, chè Farman-e Scià» (L’ordine di Dio è come l’ordine del re).

William Shakespeare scrisse «di quella certa maestà che circonda un Re», gli iraniani debbono al loro Poeta nazionale la riscoperta di quell’immenso fascino per la Corona che caratterizzerà i secoli a venire. «Per circa un migliaio di anni», come riporta anche l’Enciclopedia Britannica, «gli iraniani hanno continuato a leggere e a tramandarsi oralmente la sua opera principale, lo Shāh-Nāmeh, nella quale l’epica nazionale persiana trovò la sua forma finale e maggiormente duratura». La frase di Firdūsī sull’ordine del Re appariva stampata e incorniciata alle pareti di tutti gli uffici pubblici sino alla rivoluzione islamica del 1979, dopo la quale ogni rapporto degli iraniani con la monarchia è stato proibito, pena la morte. «Per secoli, si è comunemente ritenuto che lo Shahnameh legittimasse la monarchia legando la corona alla lingua persiana, e celebrasse i successi epici non solo dell’Iran ma anche delle antiche dinastie persiane», scrive l’accademico Ervand Abrahamian nel suo Storia dell’Iran. Dai primi del Novecento a oggi. «In altre parole, lo Shahnameh era una testimonianza epica del fatto che l’identità dell’Iran era inseparabile dall’istituzione della dignità regale; se non c’è Scià, non c’è Iran. Ma al tempo della rivoluzione del 1979, molti affermarono che l’epica fosse stata scritta non in lode degli Scià ma a

La celebre “Imam Square” di Isfahan è stata costruita tra il 1598 e il 1629. È patrimonio dell’umanità Unesco.

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FRANCESCO DE LEO Giornalista e conduttore radiofonico, si occupa di storia e attualità internazionale. Cura e conduce “Spazio transnazionale” su RadioRadicale, “Storiainpodcast” di Focus per Mondadori. È autore per La Repubblica di “RadioStoria”, il passato raccontato in diretta. Dirige Affari Internazionali, rivista dell’Istituto Affari Internazionali (per cui è il responsabile della Comunicazione) e per Guerini e Associati la collana “Biblioteca Reale”, al cui interno ha pubblicato L’Ultimo Scià d’Iran, Il Granduca Jean di Lussemburgo e curato Corone d’Europa. Il futuro delle monarchie democratiche. Ha scritto Elisabetta II Regina, Rubettino, 2016.

loro condanna, dal momento che gli eroi erano esterni alla famiglia reale e che la maggior parte dei monarchi era descritta come corrotta, tirannica e malvagia». Tra il 10° e il 12° secolo dopo Cristo si è acceso un autentico risveglio della cultura persiana. Il nuovo impulso proveniva da una serie di piccole dinastie che hanno avuto il merito di preservarne l’identità durante gli oscuri secoli di dominazione araba. Il persiano tornava così a essere la lingua della nazione in grado di sostituire l’arabo, nelle corti venivano accolti scienziati e studiosi che, come nel caso del celebre Avicenna, avrebbero dato forte impulso alla conoscenza, alle scienze e al progresso in tutto il mondo. I DUE SECOLI DEL RINASCIMENTO SCITA

È poi solo visitando Isfahan, gioiello dell’antica Persia, che possiamo comprendere quanto straordinaria fosse l’epoca dei Safavidi, tra il 1501 e il 1736, passata alla storia come l’età del Rinascimento persiano. Alla vista della sua celebre piazza, oggi “Imam Square”, lo scrittore inglese Robert Byron ha classificato Isfahan «tra quei rari luoghi, come Atene o Roma, in cui l’umanità trova comune sollievo». Concepita nei suoi 512 metri di lunghezza e 163 di larghezza per ospitare i gioielli architettonici dell’impero safavide, la maestosità della piazza un tempo chiamata Naqsh-e Jahan (“Modello del Mondo”) è ispirata dalla visione ideale del mondo dello Scià Abbās I il Grande, che aveva reso unica e incantevole la sua capitale richiamandovi artisti e poeti. Questo Scià illuminato ha proclamato lo sciismo duodecimano religione di Stato, rafforzato l’unità nazionale, rimesso in sesto l’esercito, stabilito relazioni economiche molto forti sia con l’Europa, sia con la Cina. Durante il suo regno, l’intero Paese è diventato

un passaggio ideale per le rotte commerciali con i suoi 999 caravanserragli ed è viva la leggenda di questo Scià che girava durante la notte in incognito nel bazar di Isfahan, per comprendere direttamente dai commercianti i loro problemi e poterli poi risolvere attraverso le proprie riforme. I Safavidi costruirono le botteghe imperiali e ancora oggi quel bazar nato grazie a loro produce il 90% dell’artigianato iraniano. Nādir Shāh Afshār fu invece l’ultimo Scià leggendario. Il suo genio militare gli valse l’appellativo di “Napoleone di Persia” o di “Secondo Alessandro Magno”. Considerato il più grande conquistatore asiatico della sua epoca, restaurò il potere persiano, ma portò alla disintegrazione l’Impero che non sopravvisse ai costi delle campagne militari. Le vicende dei Qajar e dei Pahlavi rappresentano invece gli ultimi 185 anni della storia della monarchia in questo Paese. Giusto 50 anni fa, l’ultimo Scià, Mohammad Reza Pahlavi, celebrava a Persepoli i 2500 anni dell’Impero Persiano per poi scrivere nel suo Risposta alla Storia. Il testamento politico e morale dello Scià: «Nessun popolo può vivere nel passato, ma non può nemmeno vivere senza il suo passato. Se nulla lo collega più alla nostra storia, è destinato a sparire. Per secoli e secoli - sotto il patrocinio dei nostri grandi sovrani - siamo stati il punto d’incrocio tra l’Est e l’Ovest e il centro della cultura e del sapere in Oriente». Quella iraniana è una storia che si perde nella notte dei tempi e questo giovane popolo continua ad attraversare l’angoscia della propria esistenza attingendo un aiuto dal passato con le parole dei poeti, soprattutto quelle di Hafez: In questa notte buia ho perso la mia direzione Vieni, dunque, stella e fammi da guida. Portami dove devo andare, allevia la mia angoscia, guidami attraverso questo deserto e lungo questa strada senza fine. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI BOETTI M.F., PRADI A., La Persia Qajar. Fotografi italiani in Iran 1848-1864. Edizione Illustrata, Peliti Associati, 2010. CITATI, P., Primavera di Cosroe. Venti secoli di civiltà iranica. Adelphi, 2006. GHIRSHMAN, R., La civiltà persiana antica, edizioni Ghibli, 2017. FIRDUSI, G.A., Shanameh, The Persian Book of Kings, traduzione di Dick Davis, Penguin Classic, 2016. HAFEZ, Ottanta canzoni (testo persiano a fronte), a cura di S. Pellò, traduzione di G. Scarcia, Einaudi, 2008. RUMI, J.A.D., Poesie mistiche, a cura di A. Bausani, BUR, 1980. SACCONE, C., Storia tematica della letteratura persiana classica, tre volumi, Aracne, 2014. WIESEHÖFER J., La Persia antica, Il Mulino, 2003.

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SUGLI SCAFFALI

LIBRIXIME LA PRESENTAZIONE DI 10 SAGGI. LE RISPOSTE DI TIMOTHY MORTON. OPERA OMNIA PER ROBERTO CALASSO. IL RITRATTO BREVE DI EMMANUEL CARRÈRE. L’INCIPIT DI WALTER SITI. UN RACCONTO FINALE PER PROMETEO. 106

Krzysztof Pomian IL MUSEO. UNA STORIA MONDIALE di Chiara Franceschini

109 Marta Dillon APARECIDA di Amanda Salvioni

122 Maurizio Viroli TEMPI PROFETICI di Marco Clementi

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Richard Masland

Carlo Boccadoro BACH E PRINCE di Dario Oliveri

di Alberto Oliverio

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Giulio Guidorizzi e Silvia Romani IL MARE DEGLI DEI di Damiano Fedeli

112 LO SAPPIAMO QUANDO LO VEDIAMO

Serena Luzzi IL CACCIATORE DI CORTE di Sabina Pavone

116 Elena Cattaneo ARMATI DI SCIENZA di Paolo Legrenzi

118 Paolo Mazzarello L’INTRIGO SPALLANZANI di Umberto Bottazzini

120 Armando Savignano L’ETÁ D’ARGENTO di Libera Pisano

128 Opera Omnia ROBERTO CALASSO di Gabriella Piroli

132 Incipit CONTRO L’IMPEGNO di Walter Siti

134 Emmanuel Carrère RITRATTO BREVE di Antonio Lucci

137 Timothy Morton RISPOSTE D’AUTORE di Matteo Moca

140 DULCIS IN FUNDO LA CONDANNA Franz Kafka


KRZYSZTOF POMIAN

IL MUSEO

UNA STORIA MONDIALE UNA GRANDE RICOSTRUZIONE, CHE ATTRAVERSA TRE MILLENNI, DAI COLLEZIONISTI PRIVATI ALL’ARTE “APERTA AL PUBBLIC0”. di Chiara Franceschini

È L’AUTORE Filosofo e storico, polacco emigrato in Francia. Ha lavorato al Centro nazionale per la ricerca scientifica (CNRS), insegnato all’École des hautes études en sciences sociales (EHESS), poi all’Ecole du Louvre, all’Università di Ginevra e in altre università. Direttore onorario del CNRS, emerito all’Università “Nicolas Copernicus” in Polonia, direttore scientifico del Museo d’Europa a Bruxelles.

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possibile fare una storia “mondiale” del museo oggi? Questa è la domanda – anzi la sfida – al centro del monumentale opus magnum concepito in tre volumi scanditi in tre macro-epoche da quello che è oggi il più grande studioso europeo della storia del collezionismo e dei musei, il filosofo e storico franco-polacco Krzysztof Pomian. Nato a Varsavia nel 1934 ed emigrato in Francia nel 1973, dopo essere stato privato del suo posto all’Università di Varsavia, Pomian è autore di studi fondamentali sulla storia del collezionismo e sulle categorie sottese al multiforme oggetto museo, tra cui una raccolta uscita in francese nel 1984 di saggi scritti in origine per l’Enciclopedia Einaudi (L’ordine del tempo, Einaudi, 1992), Collezionisti, amatori e curiosi e Dalle sacre reliquie all’arte moderna (Il Saggiatore, 1989 e 2004). Il museo. Una storia mondiale. I. Dal tesoro al museo, appena tradotto da Einaudi dall’edizione Gallimard (vincitrice del Grand Prix Gobert 2020 dell’Accademia di Francia), è il primo volume, riccamente illustrato (120 figure a colori), di questa nuova opera di Pomian. Nell’insieme si tratta di una vera e

propria summa che raccoglie più di trent’anni di studi su quel particolare oggetto culturale e quella multiforme istituzione che, in Occidente, è stato chiamato “museo”: «Un luogo ben strano», scrive Pomian, «al contempo inutile e indispensabile», che diamo per scontato, ma di cui dimentichiamo non solo che ebbe una data di nascita «relativamente recente», ma anche che «una frazione importante della popolazione mondiale ne ignora persino l’esistenza» (p. IX). La storia e la geografia del museo sono al centro di questa “storia mondiale”, che si apre su un panorama globale di grande interesse. Calcolando che i musei nel mondo siano oggi circa 85mila, Pomian offre due dati impressionanti. Il primo, che fino al 1960 i musei erano “solo” 10mila; il secondo, che, oggi, degli 85mila musei calcolati, appena tra 500 e 1.000 si trovano nell’Africa subsahariana (ma 300 sono tutti in Sudafrica), mentre a circa 73mila (ovvero l’85%) assommano quelli in Nord America, Europa e Australia; 6mila sono in America Latina; 5mila tra Cina e Giappone; e 1.000 in quelli definiti come «Paesi islamici». Cosa significano queste cifre


ineguali? Per capirlo dobbiamo aspettare di vedere tutti e tre i volumi dell’opera, che giungono fino all’oggi. Ma intanto possiamo cominciare dalla storia del museo, leggendo questo primo volume. Se il museo è recente, quando nasce esattamente? Il primo passo per poter rispondere è definire di che cosa stiamo parlando. CHE COS’È UN MUSEO?

Nell’Introduzione, Pomian chiarisce che suo intento è quello di integrare ma anche di distinguere la storia del museo «come istituzione specifica» dalla «storia globale delle collezioni, che si estende per millenni e della quale quella del museo costituisce solo l’ultima tappa». E qual è, dunque, la specificità del museo? È ancora nella fondamentale Introduzione che troviamo la risposta: «Comparso in una società che aveva familiarità con la collezione privata, e inconcepibile senza quel precedente, il museo si definisce proprio in contrasto ad essa. Per descriverlo in poche parole, nel suo stato attuale, diremo che il museo è una collezione pubblica e profana orientata verso un futuro indefinitamente lontano» (p. X). Questa è dunque la brevissima ma cruciale definizione scelta per definire l’oggetto “museo” e per distinguerlo dal concetto, molto più ampio e diffuso nello spazio e nel tempo, di “collezione”. La definizione include tutte le tipologie di museo, di cui viene offerta una stratigrafia che comincia dai musei di antichità e poi di arte e di storia naturale (i primi a nascere tra Quattrocento e Seicento), a quelli di storia nazionale e della medicina o della tecnica, fino a quelli di “etnografia”, che, dopo le raccolte cinquecentesche di curiosità esotiche, si svilupparono nell’Ottocento, fino

ai musei della “vita quotidiana” nati negli anni Sessanta del Novecento. Ed è una definizione, che, attraversando tutta l’opera, ne determina anche l’orchestrazione. Coprendo i tre millenni di storia che da una disamina del concetto di “collezione” nell’antichità arrivano fino alle soglie della Rivoluzione Francese, il primo volume si articola in tre parti. Si comincia con La triplice nascita della collezione privata, come oggetto e concetto preesistente e distinto dall’idea di “museo”. L’apertura geografica e cronologica di questa Parte prima è amplissima. Dai corredi sepolcrali dei faraoni egiziani (una foto del ritrovamento nel 1922 del tesoro funebre di Tutankhamon, morto nel 1323 a.C, nell’anticamera della sua tomba nella Valle dei Re è la prima illustrazione) si giunge fino agli studioli del Rinascimento, passando per un’analisi parallela delle collezioni private nell’antica Cina e nell’antica Roma. Queste raccolte sono sempre misurate sulla definizione adottata di “museo”: le collezioni private, così come i tesori regali o principeschi, o le raccolte sacre di reliquie non sono musei. Neanche le collezioni dei principi italiani del Quattrocento (Lorenzo dei Medici in testa), esposte in spazi appositi o in “studioli”, sono “musei”. Pur essendo spesso profane, il loro accesso è privato e il loro «futuro» dinastico: non si tratta di «collezioni pubbliche». La storia del museo propriamente detto comincia con la seconda parte, Il museo, un’istituzione italiana (XV-XVIII secolo). La cronologia e la geografia si restringono qui improvvisamente: i musei nascono in Italia e rimangono «per circa duecento anni, un’istituzione italiana» (p. 227). Cruciale è il ruolo della “restituzione” di un gruppo di sta-

tue bronzee antiche (comprendenti la Lupa capitolina e lo Spinario), in precedenza collocate al Laterano, operata il 15 dicembre 1471 dalla «immensa benignità» di papa Sisto IV Della Rovere nei confronti del Popolo Romano (ovvero le autorità municipali di Roma), «dal cui seno esse erano sorte». Può davvero questo «gesto di calcolata generosità sovrana» (la definizione è di Salvatore Settis nel catalogo della mostra dei marmi Torlonia del 2020) celebrato nell’iscrizione oggi ai Musei Capitolini non come “museo”, ma come «monumentum» (cioè testimonianza perenne) «della eccellenza originaria e del valore» dei romani (fig. 32), essere considerato il primo museo, cioè «una collezione pubblica, collocata in uno spazio secolare o secolarizzato, al fine di venir preservata per la più lontana posterità»? Pomian la definisce piuttosto una nascita «ante litteram»: non proprio un museo (almeno non «nel senso in cui lo intendevano gli storici del XIX secolo»), ma comunque una «operazione senza precedenti». La donazione non veniva a costituire né un “tesoro”, né uno “studiolo”, né un luogo privato di svago, ma «una collezione priva di qualunque funzione economica, cerimoniale o liturgica, affidata a un’istituzione profana al fine di poter essere preservata senza danno per i secoli a venire ed esposta in un luogo pubblico» (p. 128). È avvincente seguire, nella bella traduzione di Luca Bianco e Raffaela Valiani, le tante vicende individuali e collettive che, attraversando la mappa d’Europa, sono analizzate da Pomian. La stessa storia dell’uso del termine antico musæum – comparso in Italia, poi in Spagna e infine in Inghilterra (con la fondazione nel 1683 dell’Ashmolean Museum di Oxford) – mostra che questa è

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KRZYSZTOF POMIAN la «storia di numerosi slittamenti di significato». Tre, anzi quattro, sono le istituzioni che, in misura diversa, possono essere considerate i primi “musei d’arte”: la Galleria degli Uffizi, dal 1580-88 un «protomuseo» nato per esporre «una proprietà privata, ma […] svincolata dall’individuo fisico e detenuta dalla persona giuridica che corrisponde alla dinastia» (p. 210), che, tuttavia, fino al 1796 fu aperto solo dietro permesso granducale; lo Statuario Pubblico di Venezia (1596) e la Biblioteca Ambrosiana (1618). Infine, i Musei Capitolini (1734), eredi della “restituzione” di Sisto IV, ma aperti al pubblico e forniti di catalogo (1741). Nel frattempo erano nati anche i primi musei naturali: gli orti botanici pubblici, a pieno titolo appartenenti alla storia del museo (a partire da quello di Pisa del 1543-44), o l’Istituto delle Scienze di Bologna (1714). La Parte terza narra di come questa istituzione abbia varcato le Alpi differenziandosi sempre più chiaramente in musei d’arte e in musei di storia naturale, eredi delle Kunstkammern. Il volume si chiude con l’osservazione che, mentre, alla fine degli anni Ottanta del Settecento, il museo d’arte esisteva in Italia, nell’area germanica, nelle Province Unite, in alcune città francesi e in Svezia (ultima immagine è una veduta di Pehr Hilleström della Galleria delle Muse del Museo reale di Stoccolma del 1796), «ma non nelle capitali delle grandi potenze che decidevano il destino d’Europa, eccetto Vienna», il museo di storia naturale si trovava invece in tutte le grandi capitali, segno che, alle soglie della Rivoluzione francese, il museo d’arte era legato assai più strettamente di quello di storia naturale a ciò che presto sarebbe stato chiamato Ancien Régime. La geografia di questo primo vo-

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lume spazia quindi dall’Egitto alla Svezia passando per la Cina, ma si concentra soprattutto sull’Europa, e più specificamente sull’Italia, perché è qui che – per Pomian – nasce il museo. Questo primo atto andrà compreso nel contesto della storia più lunga e più ampia geograficamente, narrata nei prossimi due volumi. Il secondo volume dell’opera (L’affermazione europea, 1789-1850) parlerà dell’evoluzione di questa istituzione specifica in Europa a partire

«È UNA COLLEZIONE PUBBLICA E PROFANA ORIENTATA VERSO UN FUTURO LONTANO» dal 1789, coprendo il periodo delle Rivoluzioni e la nascita dei musei nazionali, fino all’Esposizione universale di Londra del 1851, individuata come cesura epocale; il terzo volume (un po’ troppo enfaticamente intitolato Alla conquista del mondo, 18502020) tratterà, infine, dell’evoluzione dell’istituzione museo dalla seconda metà del XIX secolo fino agli ultimi cinquant’anni di storia globale. Solo una considerazione complessiva della storia di questo oggetto cruciale non solo per la memoria, ma anche per il futuro delle culture umane, ci permetterà di capire se il museo, che ha certamente avuto una data di nascita, avrà anche, o dovrà avere, una data di scadenza (come le società che lo hanno prodotto). La battaglia sui musei si gioca oggi, infatti, proprio intorno alla loro definizione. L’ICOM (International Council of Museums) discute ora su come rivedere l’attuale definizione, approvata a Vienna nel 2007, in parte coincidente con quella di Pomian: «Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo

sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto». Dal 2016 una commissione è al lavoro per studiare e modificare questa definizione alla luce di una prospettiva critica che rispecchi davvero la diversità dei musei nel contesto internazionale. Pur avendo proposto una nuova definizione a Kyoto nel 2019, la commissione non ha ancora trovato un accordo su una nuova formula comprensiva e inclusiva di cosa sia un “museo” oggi (si veda Evelina Christillin e Christian Greco, Le memorie del futuro. Musei e ricerca, Einaudi, 2021). Nell’attesa che una nuova e più inclusiva definizione di museo venga condivisa da tutti, Pomian ci consegna, dalla sua prospettiva europea, l’appassionante storia di una specifica istituzione nel suo secolare sviluppo mondiale. Così facendo, alcuni temi oggi al centro del dibattito (la democratizzazione dei musei, lo spostamento del focus dallo studio e conservazione alla fruizione dei musei, il loro auspicato ruolo di critica alle odierne ingiustizie sociali, il dibattito sulle restituzioni, e la critica radicale all’oggetto stesso “museo”) restano sullo sfondo, almeno di questo primo volume. Aspettando di leggere anche i prossimi due, dispiace solo notare come, a fronte del prezzo di copertina del volume francese (35 euro), in Italia il libro costi quasi tre volte tanto (85 euro): una scelta, in parte giustificabile dall’alta qualità editoriale del grande formato, che tuttavia restringe di molto il campo di chi sarà in grado di acquistare, leggere e imparare da questa magistrale opera, frutto di decenni di studi di Krzysztof Pomian. ■


MARTA DILLON

APARECIDA STORIA DI UNA MADRE SCOMPARSA E DI UNA FIGLIA CHE ATTRAVERSA I DECENNI PER RITROVARNE ALMENO I RESTI. SULLO SFONDO, CINQUANT’ANNI DI AMERICA LATINA. di Amanda Salvioni

L’AUTRICE Marta Dillon è giornalista, autrice di programmi televisivi e documentari, sceneggiatrice, ha al suo attivo diversi libri, tra cui Vivir con virus. Relatos de la vida cotidiana (2004) e Corazones cautivos. La vida en la cárcel de mujeres (2008). Scrive per il quotidiano argentino Página/12, di cui dirige il supplemento Las12. Si occupa di femminismo e genere, e nel 2015 è stata una delle promotrici di “Ni una menos”.

Non c’è stato bisogno di tradurre il titolo di questo libro: il lettore italiano sarà in grado di cogliere facilmente il nesso con un’altra parola castigliana, adottata da decenni dalla nostra e da altre lingue del mondo con tutto il suo drammatico significato storico. Se, infatti, la parola desaparecidos evoca gli scenari politici e sociali degli anni Settanta in America latina e denota, per estensione, la sparizione forzata di persone come pratica comune a molti regimi autoritari nel mondo, il suo contrario – aparecida, appunto – allude alla riapparizione, ovvero al ritrovamento dei resti di una persona scomparsa, vittima della repressione illegale dell’ultima dittatura militare argentina (1976-1983). Declinato al plurale, quel nome collettivo rimanda a un fenomeno riconosciuto dal diritto internazionale come crimine contro l’umanità proprio in virtù della sua dimensione di ferita sociale, di trauma pubblico; chi è fatto scomparire si dissolve nella moltitudine degli enigmi senza nome. Il suo contrario, invece, è per forza un evento singolare, che restituisce un nome e un cognome alle ossa custodite nelle fosse comuni, scrive una volta per tutte la parola fine di una biografia incompiuta e permette a chi resta di

celebrare il rito funebre e, con esso, la conclusione salvifica del lutto. Ma in vicende come questa, plurale e singolare, collettivo e individuale, pubblico e privato sfumano inevitabilmente i loro confini per dar luogo a narrazioni autobiografiche che sono, al contempo, intime confessioni, riflessioni esistenziali e affreschi corali. A PARTIRE DAL 1976

Marta Dillon aveva dieci anni quando la polizia fece irruzione nel suo appartamento nella provincia di Buenos Aires e tenne in ostaggio lei e i suoi tre fratellini in attesa che rientrasse sua madre, Marta Taboada, avvocata e militante del Movimiento Revolucionario 17 de Octubre. Era il 1976, l’anno del colpo di stato che destituì la presidente Isabel Perón. A pochi mesi dal sequestro, nel febbraio del 1977, Marta Taboada fu uccisa insieme ad altri prigionieri politici per rappresaglia in seguito a un attentato contro una caserma. L’esecuzione fu camuffata e fatta passare per uno scontro armato fra esercito e guerriglieri, ma i familiari, in ogni caso, non ne furono mai informati. Trascorsero così 34 anni in cui Marta Dillon dovette dapprima prendere coscienza dell’accaduto, scalfire la barriera del silenzio e della rimozione familiare e sociale,

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MARTA DILLON iscrivere sua madre nell’incerta categoria esistenziale dei desaparecidos, posporre il lutto e poi lentamente avvicinarsi all’enigma materno, soppesarne l’eredità, cercarne il corpo, ricostruire gli eventi, fino al ritrovamento e all’identificazione dei resti, nel 2010. Solo allora, dopo la celebrazione di un funerale tanto a lungo rinviato, un rito bizzarro e variopinto vissuto con l’intera comunità di amici e parenti, è stato possibile raccontare questa storia, fatta di ricordi personali, documenti giudiziari, poesie, sogni, interviste, canzoni, filmini e fotografie di famiglia, e imprimere alla scrittura un registro parodico e trasgressivo che la natura dei fatti narrati sembrerebbe escludere a priori.

OGNI INDIZIO FORNITO AGLI ANTROPOLOGI ERA, IN REALTÀ, SOLO UN RICORDO, UN ANEDDOTO Perché in primo luogo bisognava fare i conti con il silenzio e, ancora prima, con l’assenza di pianto: «Poi, se era morta, perché non piangevamo tutti disperati invece di comportarci come se non fosse successo niente?», si domanda la narratrice. «Avevamo pianto il giorno del sequestro, questo sì. Dopo che li avevano portati via, papà era entrato in camera nostra, si era appoggiato a una parete e si era messo a piangere. […] E poi non abbiamo più pianto insieme. Fino a quando non sono comparse le ossa». Il primo effetto della sparizione forzata è precisamente questo, un annichilimento così radicale della persona tale da privarla della sua stessa morte, o meglio, del luogo che spetta ai morti nel nostro mondo, fatto di pianto e

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commemorazione dei loro cari. Ma ancora più complicato, per chi resta, è trasformare il ricordo in memoria, perché se il primo è un atto quasi meccanico, che può affacciarsi alla coscienza in maniera involontaria, la seconda è un’operazione intenzionale, che implica una visione del mondo, una ricostruzione della storia e un’attribuzione di senso. I ricordi che la figlia custodisce della madre scomparsa sono numerosi. Marta Dillon è la primogenita e all’epoca del sequestro ha un’età che le permette di serbare ampi stralci di vita con la mamma. Ha condiviso con lei una complice intimità femminile, la militanza e la clandestinità, la ha accompagnata in missioni pericolose, come l’aver trasportato i ricercati al di là della frontiera con l’Uruguay, durante lunghi viaggi notturni su strade sterrate, finiti a contemplare il cielo stellato in un atto di incomprensibile incoscienza. Unica figlia femmina, Marta è colei che, fedele a un ruolo tradizionalmente codificato, trasmette i ricordi famigliari ai fratelli maschi, troppo piccoli per averne di propri. Ma comporre i ricordi in una memoria coerente implica scendere a patti con la realtà, raccogliere, forse, l’afflato ideologico della madre militante, interrogarsi sul ruolo del padre nel sequestro (fu lui a fornire alla polizia l’indirizzo clandestino della ex moglie?), ammettere di essere figlia di una desaparecida, quindi rendere pubblica la figura materna, rivendicare per lei e per quelli come lei un posto nella storia, cercare la verità, pretendere giustizia. Il problema è che la memoria è una pulsione intermittente, urgente e breve, insostenibile per un tempo esteso e continuo: «Così si va avanti nella ricostruzione della zona scomparsa: come nel gioco dell’oca, si avanza di alcune caselle

e si retrocede di altrettante. Quando il desiderio di sapere si fa urgente, il dado ti fa spostare in avanti. Un breve successo è sufficiente. Poi torna il silenzio, la vita quotidiana, il trascorrere degli anni». ANNI DI TORTUOSO SILENZIO

Dunque, quei decenni trascorsi prima del ritrovamento delle ossa della madre sono un percorso a zig-zag, un procedere con continui mutamenti di direzione. «Cercare», ci ricorda la narratrice, «è una parola spinosa quando si tratta di desaparecidos, perché in verità non è così chiaro che li cerchiamo, che cerchiamo lei, nel mio caso. Quello che si cerca è un materiale residuale, il sedimento della sua vita prima e dopo essersi trasformata in quella irrealtà che non è, non c’è, non esiste». Marta si rivolge a intermittenza all’Equipe Argentina di Antropologia Forense (EAAF), un’associazione senza fini di lucro già attiva dalla metà degli anni ’80, dedita all’identificazione dei corpi che già allora si andavano ritrovando nelle fosse comuni di alcuni cimiteri municipali. Per lungo tempo l’EAAF non potè avvalersi del test del Dna; c’era bisogno, allora, di indizi morfologici, «protesi, otturazioni, chiodi chirurgici, segni di fratture mal consolidate», che gli scienziati raccoglievano a partire dalle testimonianze spontanee rese dai parenti dei desaparecidos. Ogni indizio fornito agli antropologi era, in realtà, il frammento di un ricordo, di un aneddoto, storie che si proiettavano sui quei resti anonimi e muti per renderli leggibili ed attribuire loro un’identità. È stato solo con l’avvento delle tecnologie genetiche che si è arrivati, dagli anni Duemila in poi, alla progressiva identificazione dei corpi ritrovati, che costituiscono comunque una


piccola parte delle trentamila persone scomparse durante la dittatura.

I FIGLI DEI DESAPARECIDOS NON SONO TORNATI DAL CAMPO DI BATTAGLIA, CI SONO NATI Per molti anni, dunque, Marta è in contatto con l’EAAF, ne segue i lavori, ne racconta i successi come giornalista del quotidiano Página 12. Ma un altro atto concreto segna l’andamento ondivago della sua volontà di memoria, quando, nel 1995, partecipa alla fondazione della associazione HIJOS (Hijos e Hijas por la Identidad y la Justicia contra el Olvido y el Silencio), organismo che riunisce figli di desaparecidos e che si somma alle storiche associazioni delle Madres e delle Abuelas di Plaza de Mayo (entrambe nate nel 1977). Proiettare così decisamente in una dimensione pubblica il suo trauma personale è un atto coerente con l’impegno civile e politico ereditato dalla madre, ma segna anche l’uscita definitiva dalla fase del silenzio e della rimozione, «la ratifica che non era andata in nessun altro luogo se non sulle rive della morte, che la sua scomparsa non riguardava solo me ma era parte di qualcosa di più grande, qualcosa di cui si parlava pubblicamente, sebbene non all’interno della sua famiglia». RIPRENDERE LA PAROLA

L’azione di HIJOS è dirompente nella società argentina da molti punti di vista, ma qui ne segnaliamo in particolare due aspetti, strettamente connessi con il libro e la vicenda di Marta Dillon: da una parte una forte e assertiva preoccupazione per l’identità personale e collettiva dei

figli di persone scomparse, ovvero di un’intera generazione nata negli anni della dittatura che raccoglie e discute i modi in cui la società ha elaborato la memoria del trauma; dall’altra l’interesse per la comunicazione sociale e la rappresentazione del trauma stesso, nell’arte, la letteratura, il cinema. I figli prendono la parola e sono testimoni sui generis: indiretti, perché non hanno vissuto gli anni della dittatura, ma allo stesso tempo protagonisti di quella storia, cui sono legati da un rapporto generativo e soggettivo. Per riprendere un’immagine dello scrittore argentino Carlos Gamerro, i figli non sono i soldati ammutoliti che tornano dalla guerra senza le parole per descriverla; il silenzio non è un loro problema, perché non sono tornati dal campo di battaglia, ci sono nati. A ben vedere, il fascino e la potenza di Aparecida risiede proprio qui, nell’esuberanza del racconto, nel flusso irrefrenabile di parole e immagini, nella varietà dei registri, dalla poesia alla parodia, dal reportage narrativo al diario intimo, dall’auto-finzione alla franca ironia. La lezione del secondo Novecento è stata appresa: qualsiasi progetto di avvicinamento al trauma storico e personale non può che svolgersi su diversi livelli di senso, la frammentarietà è una caratteristica del racconto, la fonte è sempre lacunosa. L’assenza è per definizione irrappresentabile, ma il ritrovamento delle ossa funziona un po’ come quelle poche foto del forno crematorio in funzionamento ad Auschwitz scattate da un prigioniero e analizzate da Georges Didi-Huberman come l’unica via d’accesso alla rappresentazione dell’indicibile: immagini, malgrado tutto. La storia di Aparecida è raccontata così, a partire dall’evidenza di un

femore e un teschio che, pur non sufficienti a ricostruire lo scheletro intero, rendono possibile la narrazione, anche se a sbalzi, capriole e spintoni. Gli accessi di tenerezza sono temperati dalla cupa ironia: «Ci puliva il viso bagnandosi il dito con la saliva per toglierci le macchie visibili. Mamma. Forse adesso avrei potuto ricongiungermi con una delle sue falangi». In un altro passaggio, il ritrovamento delle ossa dà luogo a un eccesso verbale che si conclude con la ripetizione anaforica del significante chiave: «Schegge di una vita. Scintillio d’avorio spogliato dagli uccelli necrofagi in aperta campagna. Lì dove si arriva quando si va a fondo, fino all’osso. […] Poi, le ossa. Scricchiolio di ossa, sacchetto di ossa, ossa scarnificate senza nulla da sostenere, né un dolore da ospitare». Ancora, la meticolosa ricostruzione giornalistica degli ultimi giorni di prigionia della madre si interrompe bruscamente con l’irrompere di una domanda infantile: «Mi voleva bene, mia mamma?». Tornando al titolo del libro, la comparsa delle ossa è senza dubbio un’apparizione, un’immagine ma anche un fantasma, una visione, perché ciò che all’impovviso diventa visibile si rivela. Aparecida inizia con un’epigrafe di Hélène Cixous che ne La venue à l’ècriture identifica l’invisibile morte del padre come il motore della scrittura: «Voglio vedere con i miei occhi la scomparsa. È intollerabile che la morte non abbia posto, che mi venga sottratta. Che non possa viverla, prenderla tra le braccia, godere sulla sua bocca dell’ultimo sospiro».In fondo, ciò che definisce desaparecidos e aparecidos è la loro evidenza: invisibili gli uni, visibili gli altri. «Perché era questo che volevo, vedere. Vedere cosa? I desaparecidos, che altro, quale magia più grande di questa». ■

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RICHARD MASLAND

LO SAPPIAMO

QUANDO LO VEDIAMO FORSE SONO SOLTANTO FRAMMENTI DI MONDO QUELLI CHE ARRIVANO AL NOSTRO CERVELLO. DALLE NEUROSCIENZE, UN GRANDE STUDIO SULLA VISIONE.

di Alberto Oliverio

L

’uomo ricorda l’impressione subita o l’oggetto da cui l’impressione è derivata? Se rammenta l’impressione, noi non potremmo ricordare nessuna cosa assente: se l’oggetto, com’è che, percependo l’impressione, ricordiamo qualcosa di cui non abbiamo la sensazione, qualcosa che è assente? […] La rappresentazione che è in noi deve essere considerata in quanto è qualcosa in sé stessa e in quanto rappresentazione di un altro». Così scriveva Aristotele, ben oltre due millenni fa, nel domandarsi cosa distinguesse la visione dalle immagini mentali e dal ricordo delle immagini, vale a dire la capacità di interpretarle e rievocarle. Da allora il tema della visione è stato al centro delle teorie dei filosofi – da Locke a Berkeley solo per citare i più classici – per approdare infine alla neurofisiologia: quale percorso segue uno stimolo visivo per approdare dalla retina ai corpi genicolati del talamo e

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infine alla corteccia visiva? Ma la descrizione del percorso di uno stimolo visivo non è sufficiente per spiegarne l’interpretazione da parte della nostra mente: così all’inizio del Novecento gli psicologi della Gestalt guardarono al modo in cui viene percepita la realtà, anziché per quella che è realmente; quindi, il primo pilastro della teoria della Gestalt fu costruito sullo studio dei processi percettivi e in una percezione immediata del mondo fenomenico. TRA OCCHIO E CERVELLO

In effetti, fisiologi e psicologi hanno notato in varie occasioni come il rapporto tra l’occhio e il cervello sia spesso ambiguo: l’occhio è un buon obbiettivo ma la fotografia che trasmette alla mente è soggetta a numerosi rimaneggiamenti. Il ruolo dell’informazione, vale a dire il messaggio visivo che proviene dall’occhio, è sempre inferiore rispetto ai complessi processi di elaborazione compiuti dal cervello

per giungere a un’interpretazione di quanto si è visto. Pochi tratti, come quelli contenuti nelle icone degli “emoticon”, in un cartello segnaletico stradale, in un graffito urbano, comunicano informazioni ben più complesse degli input visivi che giungono alle nostre retine. Altrettanto si verifica per messaggi più complessi che testimoniano di un sistema nervoso predisposto a individuare un particolare aspetto della realtà. Ma a che livello si verifica questa predisposizione? Sappiamo che una larga parte della corteccia cerebrale, la corteccia striata, è consacrata a funzioni visive. È a questo livello che il flusso dell’informazione che proviene dagli occhi viene scomposto in alcune sue caratteristiche cui partecipano anche altre aree della corteccia: ad esempio, l’area fusiforme facciale situata all’interno della circonvoluzione temporale inferiore, nella circonvoluzione fusiforme, è una zona del sistema visivo umano specializzata per il


riconoscimento dei volti, insieme ad altre aree corticali. Eppure, tutte queste conoscenze sulle aree specializzate nelle funzioni visive e, più in generale, nel riconoscimento di specifici stimoli visivi (volti, oggetti, animali ecc.) non sono esaustive in quanto non tengono in debito conto di ciò che si verifica a livello dell’occhio, più specificamente della retina. È nella retina, anzitutto, che esistono tre tipi di coni, rispettivamente per il rosso, il verde e il blu, mentre i bastoncelli, intervengono nella visione notturna.

dotati a un tempo di una funzione associativa (possono ricevere ma anche dare informazioni) e della capacità di integrare le informazioni neurosensoriali tra i diversi strati retinici. Questi suoi studi sono al centro del suo saggio: tuttavia, riassunto così, il tema del libro di Maslan può apparire complesso e confinato a una nicchia di neuroscienziati. Ma così non è perché

ricerca scientifica e nella capacità di tracciare dei piccoli camei di alcuni ricercatori, come quello di Enrica Strettoi, neuroscienziata del CNR a Pisa, che sta l’originalità e la piacevolezza di questo saggio. Non solo scoperte (fondamentali) e teorie ma quella “cucina” che fa ritrovare agli addetti ai lavori la quotidianità come parte integrante del cammino scientifico e indica

IL FILO CONDUTTORE DEL LIBRO È UN LUNGO VIAGGIO SCIENTIFICO. SPIEGA COSA SUCCEDE DALLA RETINA AI CENTRI VISIVI SUPERIORI

LE NOSTRE RETI NEURALI

Ma è nella retina che il messaggio visivo viene decodificato cosicché, come osserva Richard Masland in Lo sappiamo quando lo vediamo (Einaudi 2021, nell’ottima traduzione di Sivio Ferraresi), «il mondo che voi vedete non è il mondo che esiste realmente: è stato ridotto in frammenti dalla vostra retina e inviato al vostro cervello lungo canali separati, ciascuno dei quali gli racconta il proprio dettaglio specifico dell’immagine». Richard Maslan è stato un pioniere della ricerca sulla visione e ha dato un contributo fondamentale alla conoscenza del funzionamento dei neuroni della retina, un sistema estremamente complesso dipendente dalle cosiddette cellule amacrine, neuroni privi di assone,

l’originalità di Lo sappiamo quando lo vediamo è legata alla narrazione di come procede la ricerca, delle persone coinvolte, dei successi e degli insuccessi. Citando le parole stesse di Masland: «Il filo conduttore del libro è “come funziona la visione?”: dalla retina ai centri visivi superiori, nel profondo del lobo temporale. Voglio, però, anche farvi seguire il viaggio scientifico, affinché vediate come la neurobiologia di base – non quella da salotto televisivo – appare stando dietro a un bancone di laboratorio. Perciò aggiungerò scene di vita tra microscopi ed elettrodi, e traccerò il profilo di alcuni protagonisti». È in questo approccio, nella narrazione della quotidianità della

ai non addetti cosa è realmente il mondo della ricerca. Un tema al centro di questo saggio riguarda espressamente le reti neurali, come l’esperienza individuale di ciascuno di noi guida il percorso della visione mettendo a confronto esperienze pregresse con nuove esperienze. La visione, insomma, ha ben poco a che vedere con l’obbiettivo di una fotocamera in quanto dipende dalla complessa specializzazione delle cellule amacrine retiniche e dalla progressiva mobilitazione di reti neurali con cui il passato si confronta col presente. Vedere e interpretare significano anche confrontare: aristotelico, tutto sommato! ■

L’AUTORE Richard Masland, scomparso nel 2019, è stato professore di neuroscienze alla Harvard Medical School e vicepresidente all’Harvard’s Massachusetts Eye and Ear Infirmary, il piú grande istituto di ricerca al mondo sulla visione. Ha diretto un corso di neurobiologia alla Harvard Medical School, vincendo due premi. Membro dell’American Association for the Advancement of Science, all’Howard Hughes Medical Institute, ha ricevuto la medaglia Proctor e il premio Alcon Research.

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SERENA LUZZI

IL CACCIATORE DI CORTE

FERDINANDO CARLO DE THUN E LE SUE DUE MOGLI. UNA STORIA PRIVATA, PIENA DI COLPI DI SCENA, IN UN SETTECENTO CHE COGLIE I FERMENTI MA INCHIODA I GIOVANI ALLE REGOLE DEL PASSATO. di Sabina Pavone

S L’AUTRICE Serena Luzzi insegna Storia moderna presso l’Università di Trento. I suoi ambiti di ricerca sono le scritture carcerarie e la storia della prigione, la mobilità e il controllo sociale nel contesto asburgico del XIX secolo, le culture secolarizzatrici nell’Italia del Settecento.

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e si dovesse scegliere una sola parola per parlare de Il cacciatore di corte – un libro che parla di come un obbligo matrimoniale possa condizionare tutta una vita futura – si potrebbe optare per “trasgressione”. In una società segnata da un numero infinito di regole, dalla sfera pubblica alla privata, spesso era proprio all’interno di quest’ultima che s’individuavano spazi di reazione a un modello che non solo non corrispondeva ai desideri più intimi del singolo, ma nella sostanza metteva in luce i limiti di una società fondata sul disciplinamento se non sulla coercizione vera e propria. È questo ciò che accade al personaggio principale di questo libro: Ferdinando Carlo de Thun. Croviana è un piccolo feudo del Trentino dove gli aristocratici Thun si sono stabiliti nel XVII secolo fondando un nuovo ramo di una famiglia con diramazioni e sostanze ben più salde all’interno del Sacro Romano Impero. L’ulti-

mo erede di Croviana è Ferdinando Carlo, diviso tra l’insofferenza nei confronti degli obblighi familiari e sociali (che lo portano a fare scelte eterodosse) e la fedeltà al partito imperiale. Accusato di spionaggio proprio per la sua lealtà filoasburgica Thun concluderà la sua vita nel carcere dello Chateau de Vincennes, sorte condivisa, a sua insaputa, dalla seconda moglie incarcerata a sua volta alla Bastiglia perché considerata complice del marito. UN MATRIMONIO FORZATO

Ferdinando Carlo è già ventiseienne quando intreccia una relazione con la coetanea di un’altra famiglia aristocratica di quelle valli, Anna Giuditta di Arsio. La ragazza rimane incinta e reclama l’esecuzione di una promessa matrimoniale probabilmente mai data: «Siccome non avendo io promesso alla dama sposarla, né mai pensato, […] non avendo mai dato parola veruna, né men mai parlato di matrimonio» (p. 5), scrive Ferdinando Carlo


protestando contro chi lo vuole costringere a tale passo. L’obbligo di seguire quanto stabilito dalla società aristocratica del tempo non impedisce però al conte Thun di stilare un contratto di nozze che dovrebbe garantire il futuro annullamento delle stesse. Anna Guiditta, di fronte alla fuga del marito esprimerà con violenza la forza dei suoi sentimenti: «Per appagare la sete di vendetta e i sentimenti feriti […] dà fuoco alle piante del giardino e divelle con furia le vigne. Le fiamme da lei appiccate consumano anche le porte e le botti destinate al vino» (p. 14). Di fatto, il matrimonio si dimostrerà un vincolo difficile da sciogliere ma Ferdinando Carlo, recalcitrante e disobbediente, sceglierà di vivere lontano dalla prima moglie. Stabilitosi sotto falso nome a Parigi, contrarrà un secondo matrimonio con Marie Philiberte Tuby, dalla quale avrà altri tre figli, macchiandosi di bigamia, un crimine punito allora severamente. Se Ferdinando Carlo fosse stato l’erede di un ricco casato forse la sua vita avrebbe seguito strade diverse. Il desiderio di mantenere la sua autonomia nelle scelte sentimentali – le sue lettere a Marie sono ricche di espressioni romantiche («Finalmente dopo esser stato dieci secoli senza sapere cosa alcuna di te che mi sono parsi trenta secoli di Purgatorio» (p. 33) – senza un saldo capitale alle spalle, costringe però Thun ad allontanarsi per lunghi anni anche dalla seconda famiglia, approfittando della benevolenza del ramo tedesco della famiglia nella persona dell’arcivescovo-principe di Salisburgo, Johan Ernst Thun di Boemia, che gli concede la carica di cacciatore di corte. Nel libro si rincorrono le voci di una serie di personaggi che incro-

ciano il conte Thun nel corso della sua esistenza in giro per l’Europa: dalle due mogli al mercante veneziano Giovanni Giorgio Chechel, il quale sarà custode dei segreti di Ferdinando Carlo e fedele esecutore delle sue volontà anche dopo la morte, aiutando i figli di secondo letto a far valere la propria posizione in seno alla famiglia. LA PRIGIONE E LA SCRITTURA

Un ruolo simile lo svolge JeanBaptiste Farie, il cui nome evocativo rimanda a Dumas e a Il conte di Montecristo. Le pagine sull’incontro/non incontro tra Thun e Farie all’interno del carcere di Vincennes (Parlare con le pietre) sono tra le più belle del libro, con i due protagonisti rinchiusi in isolamento ognuno nella propria cella, ma il cui desiderio di comunicare li porta a escogitare un sistema di tavolette d’ardesia scolpite e scambiate tra una cella e l’altra con la compiacenza delle guardie carcerarie. La vicenda ci illumina sulla corruzione vigente all’interno delle istituzioni carcerarie del tempo ma anche sul potere della scrittura. «Il chiodo utilizzato da Thun per scrivere non è un oggetto qualsiasi: Farie lo conserva con feticistico attaccamento, a suggerire il valore che la comunicazione aveva assunto nello sforzo di vincere la sofferenza morale e la solitudine. Quelle “lettere” regalavano, scrive Farie con commozione «una specie di felicità» (p. 97). Farie era un ugonotto convertito al cattolicesimo dopo l’Editto di Fontainebleau (1685) ma «i messaggi che […] affidò alle pareti delle celle sono ancora visibili, […] scavati con forza nella pietra, utilizzando dei chiodi, e firmati. Le scritte sono espressione di una fede profonda […] [e] derivano da un testo

canonico della cultura spirituale ugonotta» (pp. 88-89). D’altronde la scrittura in carcere non è appannaggio esclusivamente maschile. Al contrario, è espressione di spazi di autoaffermazione femminile, che faticano a essere riconosciuti, tanto è vero che il “libro di stoffa” composto in carcere da Marie Philiberte Tuby fu attribuito al marito. In quelle pagine cucite con il filo «la detenuta non parla esplicitamente di sé e però la sua può ben dirsi un’autobiografia interiore : ognuna delle 106 pagine rivela il suo stato d’animo e lascia indovinare i patimenti e le emozioni vissute» (p. 99). E d’altronde anche il convento – scelta inconcepibile per Anna Giuditta alla quale l’avrebbero voluta forzare i parenti del marito – può essere invece per la prima figlia, Anna Elena Elisabetta, un luogo per elaborare strategie di emancipazione al seguito di Maria Arcangela Biondini, personalità ribelle, badessa di un monastero della Serve di Maria ad Arco, monastero che dopo la morte di Biondini guiderà la stessa Anna Elena. IN CERCA DI LIBERTÀ

Serena Luzzi, con grande acribia, ricostruisce la storia del cacciatore di corte attraverso i processi criminali in cui è coinvolto il protagonista e alla corrispondenza dell’archivio privato di famiglia. Come in un romanzo seguiamo così il conte nella sua vita avventurosa ma, al tempo stesso, ricostruiamo la storia sociale di una generazione di aristocratici e aristocratiche alla ricerca di una ragion d’essere in un mondo che stava rapidamente evolvendo ma dove la trasgressione sembrava ancora essere l’unica possibilità di ribellione. ■

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ELENA CATTANEO

ARMATI DI SCIENZA È FATTA ANCHE DI INTUIZIONI, MA NON È SPIRITUALE. A VOLTE PUNTA SU VERE SCOMMESSE, MA NON BARA. LA CONOSCENZA È SEMPRE UN WORK IN PROGRESS, E PUÒ CONTARE SOLO SUL METODO CHE GALILEO HA TEORIZZATO QUATTROCENTO ANNI FA.

di Paolo Legrenzi

I

l titolo del libro Armati di scienza di Elena Cattaneo (Cortina editore) potrebbe alludere, a prima vista, a una sorta di confronto bellicoso. Eppure il metodo scientifico è il più tranquillo e pacifico strumento di lotta che ci sia. Una disfida tra scienziati che si svolge ad armi pari ed è fatta di confronti basati su rigore, razionalità e correttezza. Ma poi, quando la scienza deve farsi strada nella società, allora il gioco si fa duro. Allora sì che le armi pacifiche della scienza, quelle che vanno a formare il suo metodo, sono l’unico strumento per difendersi da un «presente sempre più tumultuoso di fatti, eventi, informazioni». E in questo presente veniamo trascinati privi di difese, senza una corazza, in balia di «mode, narrazioni fantasiose e suggestioni pericolose – specie nella salute e nella politica – per ciascuno di noi e la società tutta». Questo è un libro che tutti dovrebbero leggere: ben scritto, chiaro, scorrevole, docu-

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mentato, brillante. In particolare dovrebbero leggerlo i giovani nelle scuole per poi affrontare la vita corazzati rispetto alle frottole che li trovano indifesi e, spesso, superbamente e inconsapevolmente ingenui, terribilmente vulnerabili. Tutti i temi oggi importanti vengono toccati nei sette capitoli, che amerei definire i “sette pilastri della saggezza”, per prendere a prestito il titolo del classico libro di Thomas Edward Lawrence. PROVANDO E RIPROVANDO

Il primo pilastro mostra che il metodo scientifico è anche un messaggio etico perché ci vincola al rigore necessario per rispondere alle questioni per noi rilevanti con strumenti condivisi. Purtroppo c’è una scienza del fare scienza che il nostro Paese disconosce. Il secondo pilastro permette alla libertà di svettare: non c’è libertà senza ricerca perché solo con la ricerca possiamo respingere miti, pregiudizi, stereotipi, idee infon-

date e atteggiamenti complottistici. Il terzo pilastro affronta il pericolo oggi più grande: i rischi di un’informazione fuori controllo, protesa a richiamare l’attenzione. Anche in questo caso la questione ha risvolti etici perché troppo spesso i media hanno fatto da cassa di risonanza ai ciarlatani della scienza. Il quarto pilastro ha a che fare con la prevenzione. Conoscere vuol dire poter prevenire. Sembra incredibile ma proprio negli anni del trionfo della scienza con la creazione di vaccini contro il Covid-19, abbiamo persone che sono prevenute perché cocciutamente, testardamente, ciecamente, si bevono le frottole che circolano sulla rete e nei vari passa-parola dei cosiddetti social. Mentre nessuno ritiene di essere capace di comprendere la fisica dei chip che stanno dentro auto, cellulari o computer, troviamo molti che, senza aver studiato seriamente per anni e anni la materia, credono di essere esperti di medicina, e, spesso, anche di eco-


nomia e psicologia. Sono vittime di convinzioni infondate perché non capiscono nemmeno le basi del funzionamento della scienza. Il quinto pilastro affronta un fraintendimento che oggi va di gran moda perché, all’insaputa dei più, è stato fatto circolare con insistenza dalle aziende alimentari e di cosmesi. Si tratta di una suddivisione ingenua tra ciò che è naturale e ciò che è un artefatto prodotto dall’uomo. Ovviamente si tratta sempre di prodotti industriali, fabbricati non dalla Natura ma dall’Uomo. E tuttavia uno snack alla frutta, uno shampoo alle erbe, una bibita fatta di essenze “non artificiali” è qualcosa che è apprezzato per la sua presunta e sbandierata “naturalezza” e, quindi, superiorità in quanto si presume che sia rispettoso di fantasiosi vincoli salutistici del nostro corpo. Su questo “naturale inventato” si basano le preferenze mediche di chi è vittima di questa trappola, una sorta di incantesimo. In particolare il libro si sofferma sull’agricoltura bio, sui pesticidi e sulle non-cure omeopatiche. Il sesto pilastro si occupa di quello che succede alle scoperte scientifiche quando varcano i confini dei laboratori, delle riviste specialistiche e dei confronti tra esperti. Si tratta spesso di un terreno dove emerge la disuguaglianza e l’ingiu-

stizia. Per esempio la scoperta dei geni che sono correlati all’insorgere di malattie neurodegenerative ha permesso l’identificazione e la diffusione di farmaci che hanno poi raggiunto la parte più fortunata del mondo, e cioè l’Europa e il Nord-America. Per un tragico paradosso, proprio le popolazioni del Venezuela, vicino al lago Maracaibo, sono quelle che hanno permesso gli studi iniziati dalla professoressa Nancy Wexler della Columbia University, genetista e neuropsicologa che ha dato il via al progetto. LA PANDEMIA

Il settimo pilastro riguarda le vicende del Covid-19. Negli ultimi due anni abbiamo avuto una sintesi esemplare dei pasticci toccati nei sei punti precedenti. In primo luogo si è parlato di efficacia dei vaccini con gli esperti che davano per scontato che tutte le persone capissero il costrutto teorico. Se voi dite che un vaccino ha un’efficacia del 90%, la maggioranza delle persone pensa che questo significhi che, su 100 persone che fanno il vaccino, 90 diventano immuni al virus. Come se uno dicesse che un farmaco è efficace contro il mal di testa perché lo ha preso 100 volte e 90 volte il mal di testa gli è passato. In realtà l’efficacia nasce confrontando i

risultati ottenuti con le persone a cui è stato iniettato il vaccino e un analogo gruppo di persone a cui non è stato iniettato, a cui cioè è stato dato un finto vaccino che in gergo si chiama placebo. Di qui dibattiti fondati sull’incomprensione della nozione di “efficacia di un vaccino” combinata con la confusione tra correlazione e causalità, errore purtroppo consueto in molti ragionamenti. Le conseguenze di questi fraintendimenti mentali e comunicativi sono state il sospetto e l’incomprensione nei confronti di alcuni vaccini e discussioni inconsistenti sulle preferenze per i diversi vaccini. E tuttavia, più in generale, è emerso che la stessa nozione di metodo e di progresso scientifico viene fraintesa alla radice. Fin dai tempi del filosofo della scienza Karl Popper sappiamo che la scienza non procede aggiungendo verità e ampliando così i territori delle certezze. La sottrazione di falsità e non l’addizione di verità è il metodo di cui si serve la scienza. Purtroppo è un modo di fare contro-intuitivo. Con le mirabili parole di Elena Cattaneo (Repubblica, D, 10-7-21, p. 30): «…il fallimento è il segnale che indica la strada migliore verso il risultato sperato … la vita del ricercatore è scandita più dai fallimenti che dai successi». ■

L’AUTRICE Elena Cattaneo è una farmacologa, biologa, accademica e senatrice italiana. Nota per i suoi studi sulla malattia di Huntington e per le sue ricerche sulle cellule staminali, è stata nominata senatrice a vita il 30 agosto 2013. Dirige il laboratorio di Biologia delle cellule staminali e Farmacologia delle malattie neurodegenerative al Dipartimento di Bioscienze della Statale di Milano e il Centro interdipartimentale sulle cellule staminali dell’Università di Milano NeuroStemcell. È infine coordinatrice di un network italiano per lo studio delle staminali nella malattia di Huntington.

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PAOLO MAZZARELLO

L’INTRIGO

SPALLANZANI UNA MISSIONE NATURALISTICA NELL’IMPERO OTTOMANO, LE RIVALITÀ E I COMPLOTTI NELL’UNIVERSITÀ DI PAVIA. SCIENZA E POTERE, RICERCA E PETTEGOLEZZI. IL LATO OSCURO (MA FRIZZANTE) DEL SECOLO DEI LUMI. di Umberto Bottazzini

L’AUTORE Paolo Mazzarello insegna Storia della Medicina a Pavia. Fra i suoi libri, tutti Bollati Boringhieri: Il Nobel dimenticato. La vita e la scienza di Camillo Golgi (2006 e 2019), Il professore e la cantante. La grande storia d’amore di Alessandro Volta (2009), L’erba della regina (2013), E si salvò anche la madre (2015).

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Verso la fine di agosto del 1785 una nave da guerra salpava da Venezia alla volta di Costantinopoli per portarvi il nuovo balio (ossia, l’ambasciatore) della Serenissima presso i Turchi. Tra le personalità che accompagnavano il diplomatico c’era anche un ospite che nulla aveva a che fare con la politica e la diplomazia, l’abate Lazzaro Spallanzani, professore dell’Università di Pavia. Dalla capitale dell’impero ottomano il celebre naturalista sperava di tornare – come aveva fatto in precedenti viaggi – non solo con un bagaglio di osservazioni e scoperte scientifiche, ma anche con casse di materiali per arricchire il Museo di Storia naturale dell’università di cui andava fiero. Da quel viaggio a Costantinopoli prende le mosse questo saggio di Paolo Mazzarello, da lui stesso definito una sorta di «romanzo con citazioni», che conclude un percorso narrativo iniziato vent’anni fa con un breve articolo su Nature, e una prima versione di questo li-

bro pubblicata nel lontano 2004. Fin dalle prime pagine Mazzarello introduce due dei protagonisti del suo “romanzo”. UN ABATE SUI GENERIS

Da un lato Spallanzani, che considera il viaggio intrapreso come «un nuovo mezzo d’indagine, una dimensione militante dell’impresa scientifica». Posseduto da una «lussuria della conoscenza», che non si esaurisce nella descrizione e classificazione di animali, piante e minerali, ma si estende alla comprensione funzionale dei fenomeni naturali. “Più interessato alla fisiologia che alla tassonomia, più al significato che all’apparenza». D’altro lato il suo collega di università, Giovanni Antonio Scopoli. Professore di botanica e chimica, seguace e corrispondente di Linneo, Scopoli tende a ridurre la storia naturale a classificazione universale degli esseri, e l’attività del naturalista al «nomenclare» ossia all’attribuire un nome e un


posto ad animali e piante nell’ordine gerarchico della natura. UNA RACCOLTA SPERIMENTALE

Della sua concezione della ricerca Spallanzani dà prova nel corso del viaggio, che Mazzarello documenta con precisione quasi quotidiana. Costruisce reti per portare a galla animali sconosciuti che vivono sul fondo del mare. Nelle soste, studia la natura dei terreni, delle rocce, dei marmi dei monumenti in rovina. E, nonostante l’abito talare, rivolge uno sguardo audace, accompagnato da arditi commenti, alle fattezze del viso e del seno delle donne che incontra, paragonandole alle bellezze incontrate in altri viaggi. Un «prete singolare, passionale e freddo, beffardo e pungente», che con i suoi esperimenti ha demolito l’antica dottrina della «generazione spontanea» della vita ancora sostenuta dal celebre Buffon. E confutato la teoria di «aura spermatica» nella riproduzione degli anfibi. Studiato il volo di pipistrelli accecati, sospettandoli dotati di «un nuovo senso». Tagliato la testa alle lumache per poi osservarne la rigenerazione. Esperimenti questi che Voltaire riproduce e descrive «nell’amenissimo libretto» Les colimaçons du révérend père l’Escarbotier. Sensazionali esperimenti accompagnati da inquietanti interrogativi che imbarazzano ugualmente «il naturalista, e il metafisico»: dove risiede l’anima della lumaca nel periodo in cui è senza testa? Altrettanto imbarazzanti sono i quesiti sollevati dai suoi esperimenti con «rotiferi» e «tardigradi», minuscoli animaletti che, «lasciati essiccare, si deformano e rattrappiscono, riducendosi ad un informe atomo di materia disseccata». Tuttavia, anche dopo lunghi periodi di tempo, se vengo-

no reidratati, tornano pienamente vitali. Tanto che l’abate non esita a chiamare «risurrezione» questo fenomeno. «Come va in questo caso la faccenda dell’anima?» chiede ancora Spallanzani a Voltaire. Spinto dal desiderio di conoscere, l’abate non esita di fronte a esperimenti eseguiti addirittura sulla sua stessa persona. COMPETIZIONI ACCADEMICHE

I grandi successi del naturalista non mancano di suscitare invidia e risentimenti tra i colleghi dell’università ticinese. Così, alimentato da malumori e ambizioni, durante la sua lunga assenza da Pavia prende corpo “l’intrigo” che dà il titolo al libro, ordito in diversa misura e con diverse motivazioni da tre docenti – il chimico Scopoli, il matematico Gregorio Fontana, uno scolopio che odia di cuore, ricambiato, Spallanzani e il chirurgo Antonio Scarpa, che ha operato cinque persone e tutte, commenta perfido Spallanzani «sono ite felicemente alla gloria del Paradiso». Infine, il custode del Museo di Storia naturale, il canonico Giovanni Serafino Volta, che ambisce a sostituire Spallanzani nella direzione del Museo, ed è omonimo del celebre fisico, all’epoca rettore dell’Università, anch’egli tra gli avversari dell’abate. Di un vero e proprio intrigo si tratta, che Mazzarello descrive con grande dovizia di dettagli, sulla base di materiali editi e inediti. L’accusa a Spallanzani, messa in campo dal canonico Volta, è delle più infamanti: aver sottratto preziosi reperti dal Museo per arricchire la propria collezione allestita nella casa natale a Scandiano. La calunnia è un venticello..., canta don Basilio nel Barbiere. E, come in quella celebre cavatina, incomincia piano

piano finché, alimentata ad arte da lettere e denunce, odi accademici, gelosie, livori e ripicche, frequenti nel mondo accademico allora come oggi, vola già di loco in loco e alla fin trabocca e scoppia, si propaga, si raddoppia, diffondendosi presso accademie e uomini di scienza di tutta Europa. E investe, infine, le autorità austriache a Milano e addirittura la corte di Vienna. Quella vicenda «ad alta densità di preti» si conclude con un decreto imperiale che dichiara «essere del tutto insussistente l’imputazione fatta allo Spallanzani» ma, per il buon nome dell’università, prescrive il «doversi finalmente imporre perpetuo silenzio su quest’affare». VENDETTE E RICONCILIAZIONI

L’abate, non certo uno stinco di santo, non era disposto a tacere. Così approfitta di una castroneria di Scopoli – che in una pubblicazione scambia la trachea e l’esofago di una gallina per un verme mai visto prima – per coprire di ridicolo l’avversario con opuscoli anonimi (di cui tuttavia disconosce la paternità). E nelle lettere che manda in giro non risparmia giudizi feroci per il canonico Volta, allontanato da Pavia, per il matematico Fontana e per il fisico Volta che invita «seriamente a studiare un corso di Fisica» e accusa di ignorare gli elementi della matematica ed essere perciò «pressoché inutile agli scolari». Ma col tempo i rapporti si ricompongono, e alla fine, per ironia della sorte, sarà proprio il medico Scarpa ad accorrere al capezzale di Spallanzani morente, e l’odiato Fontana a recitare il suo elogio funebre, ricordandone le «opere immortali» e il «grado di perfezione che la natura concede a pochi eletti». ■

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ARMANDO SAVIGNANO

L’ETÀ D’ARGENTO

FILOSOFIA SPAGNOLA DE UNAMUNO, ORTEGA Y GASSET, ZUBIRI, ZAMBRANO, MARÍAS. PENSATORI CHE HANNO RESO GRANDE UNA SPAGNA SOSPESA TRA EUROPA E NUOVO MONDO. di Libera Pisano

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e La tentazione di esistere (Adelphi 1984), il pensatore rumeno Emil Cioran ha osservato che gli spagnoli – incapaci ormai di accordarsi al ritmo della civiltà – hanno fatto del destino del proprio Paese, in un modo quasi ossessivo, l’oggetto della propria riflessione. Leggendo i saggi contenuti nel libro Filosofia spagnola. L’età d’argento (Mimesis, 2021) non si può che dare ragione a Cioran, soprattutto per la maniera in cui gli autori trattati si confrontano costantemente con i simboli e il destino incompiuto della Spagna. Anche se il titolo di Savignano suggerirebbe un’antologia introduttiva, questo volume si compone di undici saggi da leggere in modo autonomo. Con “età d’argento” – in contrapposizione al secolo d’oro, il periodo di massima fioritura artistica e intellettuale della Spagna tra il 1492 e il 1681– si designa la ricchezza e la vivacità del pensiero filosofico spagnolo degli anni Trenta, interrotto dalla guerra civile e dal conseguente esilio di molti esponenti della “Scuola di Madrid”.

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Lontano dalla facile tentazione di voler produrre un paradigma simile al controverso quanto consolidato Italian thought, Savignano offre una lettura speculativa e articolata di alcuni grandi figure del pensiero spagnolo del secolo scorso, partendo da Miguel de Unamuno a José Ortega y Gasset, da Xavier Zubiri a Maria Zambrano passando per Julián Marías. Anche se il lettore avrebbe probabilmente beneficiato di una maggiore contestualizzazione, l’autore non assolve a questa funzione pedagogica, evitando di seguire uno sviluppo cronologico e privilegiando solo alcuni aspetti specifici. I fili rossi che legano gli autori trattati sono questioni etiche, antropologiche e religiose, radicate in un preciso contesto storico e politico della Spagna della guerra civile, del franchismo e della transizione democratica, coordinate imprescindibili per avere una visione d’insieme della produzione culturale spagnola del secolo scorso. Il primo saggio parte dalla figura di Don Chisciotte nella lettura di Unamuno, che interpreta – non

senza forzarne il senso – il capolavoro di Cervantes come una Bibbia spagnola, «emblema della religione nazionale» (p. 20). Nel secondo saggio la teoria dell’esecutività di Ortega y Gasset viene presentata in dialogo con Dilthey, Husserl e Heidegger. In particolare, in alternativa a quest’ultimo, Ortega arriva a definire un pensiero della vita che non è solo angustia, ma anche impresa, facendo della filosofia una teoria che non disdegna un approccio ludico. D’altra parte, per Ortega la vita dell’uomo è uno sforzo costante di rendere abitabile la terra, privilegiando il problema della vita rispetto a quello dell’essere. I tre capitoli successivi sono dedicati alla figura di Zubiri: il terzo al suo tentativo di superare «la tendenza logicistica della metafisica» (p. 54) di Francisco Suárez con un realismo dell’attualità, secondo cui l’apprensione intellettiva sarebbe presente formalmente nella realtà stessa; il quarto è dedicato alla riflessione storica di Zubiri, che considera la possibilità intesa nella sua ambiguità di «quello che


si può fare – il potere» e «ciò con cui si può fare quel che si può» (p. 70) come la categoria storica per antonomasia. Il quinto capitolo mette in luce la critica zubiriana all’ateismo radicale diffuso, inteso come una forma di fede, «una volontà di fondamentalità che ricade sull’Io come essere a suo modo assoluto» (p. 92). Le conseguenze pratiche del dinamismo storico di Zubiri sono affrontate nel sesto capitolo, incentrato sulla filosofia della liberazione di Ignacio Ellacuría, che nella realtà latinoamericana si è battuto per un pensiero della prassi e una nuova civiltà della povertà rifiutando «l’accumulazione del capitale come motore della storia e il possesso/ sfruttamento della ricchezza come principio di umanizzazione» (pp. 102-103). Altro tema decisivo in queste pagine è quello dell’esilio. Nell’intreccio tra vita, pensiero e scrittura, l’esilio diventa per Maria Zambrano sia una categoria metafisica, ovvero l’occasione per ripensare «la nudità dell’essere» (p. 108) da una sospensione originaria, sia una creazione simbolica della memoria e di una patria extra-storica dal potenziale utopico. Una visione d’insieme sulla postura degli intellettuali nella guerra civile spagnola viene offerta nell’ottavo capitolo, mentre il nono si sofferma sulla categoria del cri-

stianesimo sociale nelle figure di José Bergamín, che ha coniugato in modo singolare una forma di cattolicesimo popolare al marxismo, e – ancora una volta – in Unamuno, che ha visto nella tensione costante tra immanenza e trascendenza l’agonia – intesa nel suo significato letterale di “lotta”– del cristianesimo come l’agonia della stessa Spagna. Il capitolo decimo ripercorre l’itinerario personale e filosofico di Marías, che definisce la Spagna un progetto collettivo, cristiano ed europeista. Coniugando la riflessione dei suoi maestri Unamuno, Ortega e Zubiri, Marías sviluppa una teoria empirica della vita umana, centrata sulla persona nella sua corporeità, nei suoi meccanismi interpretativi e nella «realtà radicale della vita» (p. 182).

NONOSTANTE L’ISOLAMENTO NEGLI ANNI DELLA DITTATURA, ERANO RIMASTI SPAZI APERTI DI DIALOGO Questo libro si conclude, in modo significativo, con un confronto con il mondo latinoamericano partendo dall’interpretazione hegeliana che vede nell’America, in generale, «le doti di una nuova e sana barbarie» (p. 195) fino a quella di Alberto Caturelli, che ne interpreta la scoperta

come «un atto che gradualmente implica lo svelamento dell’essere di quel continente» (p. 197). Impermeabile a ogni lettura critica della colonizzazione, il pensatore argentino scorge nella fede cattolica – dunque, nell’opera dei missionari – una componente fondamentale che avrebbe contribuito alla demitizzazione della cultura precolombiana e alla costituzione della stessa America. La Spagna, secondo Caturelli, dovrebbe riagganciarsi all’Iberoamerica cristiana, abbandonando la sua veste secolare. Senza allontanarsi troppo dall’inattualità di un approccio così anacronistico, Savignano si interroga invece sulla complessità di risposte e valutazioni del mondo moderno, in particolare sul fondamento storico e culturale di un’idea d’Europa che tenga conto della sua missione e del suo compito. Nonostante l’isolamento negli anni della dittatura, il rapporto con l’Europa, da un lato, e con il Sudamerica, dall’altro, hanno costituito spazi aperti di dialogo e di proiezione intellettuale per i pensatori spagnoli. Forse è proprio in questa sua caratteristica di sospensione e ponte tra un vecchio e un nuovo Occidente, così come nell’eterna riflessione sul suo compito storico e sul suo destino metastorico, che la filosofia spagnola, nel suo essere inattuale, offre un apporto prezioso per la comprensione della nostra modernità. ■

L’AUTORE Armando Savignano è stato ordinario di Filosofia morale al Dipartimento di studi umanistici dell’Università di Trieste. È anche ispanista, esperto di culture ispanoamericane, ambito al quale dedica molte energie editoriali con saggi su De Unamuno, Ortega Y Gasset e Cervantes. Attualmente è il direttore scientifico dell’edizione in italiano di tutte le opere di Maria Zambrano. Di recente ha pubblicato Miradas al pensamiento español. La Edad de Plata, Editorial Sinderesis.

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MAURIZIO VIROLI

TEMPI PROFETICI PAROLE ISPIRATE, MESSIANICHE, QUASI SEMPRE ECCESSIVE. MA HANNO FATTO LA STORIA D’ITALIA (E OGGI MANCANO). di Marco Clementi

L’AUTORE Maurizio Viroli è emerito all’Università di Princeton dal 2014, ordinario di Government all’Università del Texas e di Comunicazione politica all’Università della Svizzera italiana, dove dirige il Laboratorio di Studi civili. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi, dal 2001 è Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana.

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Maurizio Viroli è considerato uno dei maggiori studiosi del pensiero di Niccolò Machiavelli e della tradizione repubblicana e democratica italiana che passa per Giuseppe Mazzini, Benedetto Croce, Carlo e Nello Rosselli. Per Laterza ha appena dato alle stampe Tempi profetici. Visioni di emancipazione politica nella storia d’Italia. Partendo dalla riflessione che la parola profetica ha un potere eccezionale perché trasforma le coscienze di chi l’ascolta e ne stimola la volontà, al punto da mobilitare interi popoli per la conquista e la difesa dell’emancipazione sociale, l’autore ripercorre i linguaggi profetici nella storia d’Italia, indagando «il declino della profezia nei secoli della servitù d’Italia». Così nella storia del Paese si alternano periodi di grande elaborazione intellettuale a fasi di declino e scarsa ispirazione. Profeti laici come Dante, Girolamo Savonarola, Machiavelli, Tommaso Campanella, Francesco Guicciardini, Giovanni Botero e altri combattono con le armi del pensiero per una redenzione politica guidata da un uomo d’arme, imperatore o principe, che prenda in mano le redini del Paese. Parlano, a volte gridano, anche se in fondo sanno

che il loro messaggio sarà recepito da pochissimi e con difficoltà. Ma non possono tacere, anche a costo di perdere la patria o addirittura la vita, perché è loro preciso dovere parlare, o meglio, rivelare la verità che hanno visto. Così Dante è considerato il capostipite della “teologia poetica”, fondata sul principio che i poeti sono simili ai profeti. DA DANTE A MACHIAVELLI

A differenza di Dante, Savonarola considerava l’arte poetica una piaga «mortale» per i giovani, al punto che i principi cristiani avrebbero dovuto bandire i poeti e bruciarne i libri. Egli sente di essere un profeta perché «pieno di Dio». L’espediente logico per mantenere la Repubblica fiorentina era proclamare Cristo re di Firenze. Se lo fosse, pensava, nessun cittadino avrebbe potuto farsi re e dunque la repubblica sarebbe durata in eterno. Come Cristo e gli apostoli avevano riformato la religione ebraica, così i profeti avrebbero riformato la Chiesa e la politica. Machiavelli, al contrario di Savonarola, torna sulla tradizione della poesia profetica; denuncia il frate come bugiardo in una lettera del 9 marzo 1498 all’oratore della Repubblica fiorentina presso la corte papale, Ricciardo Becchi, per poi


rimodulare in parte il suo giudizio 23 anni dopo con Francesco Guicciardini, che Viroli ritiene il padre della moderna ragion di Stato. Poi giunsero i fatti del 1525-1527, la discesa di Carlo V, la fine delle libertà italiane, quella della Repubblica di Firenze appena tre anni dopo. I suoi appelli a combattere gli invasori cadranno nel vuoto. Viroli considera la caduta della Repubblica fiorentina nel 1530 la «sconfitta dei profeti della libertà repubblicana», l’inizio del declino della profezie e la decadenza italiana, e quella della Repubblica napoletana del 1799 la «sconfitta dei filosofi». Furono allora, nuovamente, i poeti profetici a richiamare non più, come Dante, un imperatore o i principi, bensì direttamente il popolo alla redenzione nazionale. Furono Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni, Goffredo Mameli a unire il pathos della poesia al potere della profezia in nome di una patria che in quel momento rappresentava forse un concetto vago. In questo senso Viroli vede nel Risorgimento l’apice della lotta per la libertà, una lotta durata decenni contro nemici interni ed esterni e segnata da guerra, clandestinità, esilio e morte. RISORGIMENTO E REPUBBLICA

Il profeta risorgimentale fu Giuseppe Mazzini, centrale nel processo di formazione dell’idea di nazione e dell’ideale nazionale, che richiamò il volere di Dio per l’emancipazione dell’Italia e assegnò attraverso questi una missione a ogni nazione. Fu vicino a filosofi, scrittori e poeti come Aleksandr Herzen, Lev Mečnikov e Nikolaj Ogarev, Aurelio Saffi, Felici Orsini e Adam Mickiewicz; venne altamente apprezzato da un altro profeta del suo tempo e del

suo popolo, Lev Tolstoj, che inserì molti suoi pensieri all’interno dello zibaldone intitolato Il circolo della lettura e stimolò la traduzione in russo dei suoi Doveri dell’uomo. Durante la lettura di quel libro assieme a Maksim Gor’kij, Tolstoj annotò: «Allora? L’uomo? Cosa c’è di migliore dell’uomo? Niente mio signore, che lei lo sappia, niente! E informate di questo anche altre persone: non c’è niente di meglio che l’uomo in questo mondo». Viroli probabilmente considera Mazzini l’apice del pensiero democratico e repubblicano in Italia. Certo, morì a Pisa sotto falso nome e, secondo la tradizione, ormai profeta sconfitto (o disarmato, per usare l’espressione con cui si racconta la vita di Lev Trockij). Viroli però non segue questa interpretazione ed è convinto che Mazzini fu capace di ispirare gli italiani più di ogni altro «a dedicare la vita alla causa della libertà», causa in parte vinta nel 1946 con la nascita della repubblica. Prima della repubblica, però, l’Italia trascorre tre generazioni sotto la dinastia sabauda. Benedetto Croce nel 1932 afferma che il Risorgimento era stato ispirato e sostenuto da una religione della libertà, ma in seguito l’Italia monarchica era divenuta sospettosa delle utopie, avversa agli ideali e alle profezie, tutta dedita alla scienza e alla politica di forza. Non si interrompe la tradizione che lega profezia a poesia se si pensa al vate della nazione, Gabriele D’Annunzio, che rovescia il rapporto tra profeta e popolo, che diventa moltitudine alla quale rivelare la verità tratta dalle energie più profonde e misteriose dell’universo. Piero Gobetti riscopre il messaggio di Vittorio Alfieri per il suo richiamo a una religiosità più spirituale

e a una morale eroica in grado di guidare la vita e l’azione dei popoli. Carlo Rosselli si convince che per battere il fascismo si doveva ritrovare un nuovo spirito da contrapporre al falso profeta Mussolini. In questo senso la profezia viene a coincidere con la verità, il fascismo con la menzogna, l’anticristianesimo, l’antieuropeismo, che invece Rosselli profetizza come la nuova coscienza. Il vecchio cristianesimo andava sepolto con pietà, perché era morto in Spagna, e doveva essere sostituito da una nuova religione laica, sociale, moderna, generata dalla coscienza del dovere (dell’uomo, come Mazzini aveva insegnato). Il pensiero di Piero Calamandrei e Giorgio La Pira completano la parabola verso una «repubblica senza profezia», che si conclude con l’opera di Pierpaolo Pasolini, un artista che viveva «nel vuoto della storia», ma in grado di leggere il significato degli eventi. Il libro di Viroli è un saggio sull’amore per l’Italia e per la verità. Nel mondo della post-verità è un esperimento coraggioso; ogni profeta si sentì portatore di un irresistibile bisogno di rivelare quella verità che avrebbe portato il Paese a unirsi, a cambiare il senso della storia, il nesso tra passato e futuro in un presente di redenzione escatologica capace di ripagare il popolo di ogni sofferenza. Per Pasolini il coraggio, la coscienza di sé e dei propri limiti sono qualità che vengono richieste all’uomo che desidera cambiare il corso degli eventi. Il presente di Pasolini è l’inferno, un mondo in cui «strane macchine […] sbattono l’una contro l’altra». Lui era solo e solo, probabilmente, è morto, reclamando un’infinita «fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima». Il 2 novembre 1975 se ne andò il poeta e con lui, secondo Viroli, l’ultimo profeta. ■

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CARLO BOCCADORO

BACH E PRINCE VITE PARALLELE

QUASI TRECENTO ANNI DI DISTANZA. MA SONO DUE GRANDI BIOGRAFIE «BETWEEN THE CATEGORIES». di Dario Oliveri

È facile supporre che l’accostamento fra Bach e Prince, per di più nel segno delle Vite parallele di Plutarco, possa sembrare ad alcuni paradossale e provocatorio. Soprattutto a coloro che non conoscono Prince e alimentandosi di letture e pregiudizi adorniani trascurano che il rock è ormai diventato, nella seconda parte del XX secolo, una nuova musica d’arte del tutto svincolata dall’intrattenimento. Da un lato ci sono dunque i melomani e egli appassionati di musica classica, che riconoscono la grandezza di Bach (pur trovando la sua musica un po’ noiosa) e detestano ogni forma – più o meno colta – di modernità. Dall’altro è facile trovare grandi esperti di jazz e rock, che pur essendo assi competenti nel loro settore, tendono a considerare il repertorio del passato un arcipelago misterioso ma poco interessante. Ciò premesso, è chiaro che il libro di Carlo Boccadoro si non si rivolge a questo genere di lettori, bensì a quelli più curiosi di toccare con mano, di ascoltare con le proprie orecchie, di muoversi «between the categories», come diceva Morton Feldman, lasciandosi guidare dall’idea che l’im-

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portanza di un’opera musicale, la sua capacità di lasciare il segno, prescinde dal linguaggio in cui è stata scritta. D’altronde Boccadoro sa benissimo che Prince non è Bach e dunque ricostruisce le biografie dei due autori, segnalando alcune convergenze e punti di contatto o di contrasto che rendono plausibile e divertente l’idea di questo confronto al di là delle epoche storiche. PARALLELI O CONVERGENTI?

Johann Sebastian Bach e Prince Rogers Nelson (in arte Prince) sono nati a 273 anni di distanza l’uno dall’altro (31 marzo 1685 e 7 giugno 1958) e sotto stelle diverse (Ariete - Gemelli). Le differenze, ovviamente non di fermano qui, ma sono notevoli, al tempo stesso, certe affinità nei comportamenti. Per esempio, e pur vivendo in un mondo di cui le scoperte geografiche avevano ampliato a dismisura i confini, Bach non amava viaggiare e si mantenne – come Lutero due secoli prima – ben lontano dal mare, in uno spazio soltanto terrestre, misurabile con il metro umano delle gambe e percorribile a cavallo o in carrozza. I suoi suoi spostamenti,

dunque, furono sempre dettati da impegni di lavoro o connessi al suo rango sociale. Pur senza mettere piede a Venezia o a Parigi, Bach conosceva d’altronde molto bene le opere dei maestri italiani e francesi, e soprattutto quelle di Antono Vivaldi, di cui s’impossessava trascrivendole e trasformando i Concerti del “Prete rosso” in brani per organo, per clavicembalo e per più clavicembali e archi. Il successo del Siroe di Hasse, interpretato da Farinelli al Teatro Malvezzi di Bologna, e della Serva padrona di Pergolesi al Teatro San Bartolomeo di Napoli, testimoniavano tuttavia il propagarsi di un nuovo stile compositivo basato sui concetti di semplicità, galanteria e sentimento. Bach cominciò dunque a sentirsi fuori moda, cittadino di un mondo al crepuscolo e da tale stato d’animo sorse la tendenza a concepire i suoi lavori come raccolte quasi enciclopediche di generi e forme – la suite di danze, il canone, la fuga – di cui intravedeva l’imminente estinzione. Il rapporto di Prince con la storia della black music non è molto diverso ed esprime soprattutto l’esigenza di ribadire il primato del virtuosismo


strumentale e compositivo rispetto al sampling, dando vita a un linguaggio che rielabora «le memorie del passato per creare una musica […] diversa dai suoni plastificati e impersonali» prodotti da altri artisti. Premesso che l’esperienza di Prince è segnata dal passaggio epocale dal vinile/CD verso MTV e i nuovi orizzonti del web, occorre dunque osservare, come scrive Boccadoro, che a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso la sua produzione assume un carattere esplicitamente riepilogativo: in è il caso, per esempio, di Around the World in a Day (1985) in cui «rivisita il concetto stesso di brano dance, producendo una serie di pezzi certamente ritmici ma lontanissimi dai modelli dei dischi precedenti. Tracce del mondo funk rimangono in brani come Pop Life e Tambourine ma sono talmente modificati e frammentati da essere poco più che dei brandelli: anche Prince, secoli dopo Bach, trasmuta le forme di danza in un involucro da riempire con gli stili più diversi». Anche se gran parte della produzione di Bach è legata alla sua attività professionale, è noto che egli amava circondarsi soprattutto dei propri familiari e allievi più cari, come ad esempio Johann Gottlieb Goldberg, primo interprete delle famose Variazioni, e Lorenz Christoph Mizler von Kolof, fondatore di un’esoterica “Società per corrispondenza delle scienze musicali” di cui facevano

parte anche Händel e Telemann e alla quale il Maestro fece in modo di accedere nel 1747 come quattordicesimo membro. Egli stesso, d’altronde, aveva avuto come maestri il padre e i fratelli maggiori e fu a sua volta l’insegnante dei suoi figli, alcuni dei quali diventarono solisti e compositori assai noti e lo aiutavano, insieme con la seconda moglie Anna Magdalena, che era un’ottima cantante, a ricopiare i suoi manoscritti e a realizzare le parti per il coro e l’orchestra. Era un modo di vivere caratteristico di un’epoca in cui la musica era ancora considerata un artigianato i cui segreti si tramandavano di generazione in generazione. Ben più eccentrica appare invece la scelta di Prince, un world citizen che oltre ad essere un formidabile polistrumentista, esattamente come Bach, amava isolarsi nella sua casa alla periferia di Minneapolis, lavorando nel suo studio personale, affiancandosi a uno o due tecnici di assoluta fiducia e a pochi musicisti che in certi casi lo conoscevano fin dall’infanzia. ALTERNE FORTUNE IN VITA

Per concludere, un ultimo punto di contatto e una differenza macroscopica. Bach morì a Lipsia la sera del 28 luglio 1750, dopo avere perso la vista in seguito alle scellerate operazioni chirurgiche cui era stato sottoposto dal dottor John Taylor, oculista del re Giorgio II. Il corpo di Prince è

stato invece ritrovato il mattino del 21 aprile 2016 nella sua residenza di Paisley Park: il referto ufficiale parla di un’overdose accidentale di Fentaly, un analgesico oppioide forse combinato con altri farmaci. Due giorni dopo la procura della contea di Carver (Minnesota) chiuse l’inchiesta dichiarando che non vi erano prove sufficienti a stabilire chi avesse somministrato all’artista il mix letale di farmaci. Durante gli ultimi anni di vita Prince era considerato un artista superato, un relitto degli anni Novanta: dopo la morte, la sua musica è stata invece riscoperta, «nel giro di pochi mesi sono stati venduti cinque milioni di copie dei suoi album e ancora oggi i servizi di ascolto in streaming segnano cifre che oltrepassano i milioni di ascoltatori». Bach, com’è noto lasciò incompiuta L’Arte della fuga, che s’interrompe misteriosamente alla battuta 239 del “Contrapunctus XIV”. L’opera fu pubblicata nel 1751 e riproposta l’anno successivo al prezzo di quattro talleri (contro i cinque della prima tiratura). L’edizione passò inosservata, come dimostra il fatto che «quattro anni dopo e mezzo dopo, nel settembre 1756, ne erano state vendute solamente trenta copie e il ricavato non era stato neppure sufficiente per pagare le lastre di rame» (Alberto Basso). Il nome di Bach era stato cancellato dalla storia, avvolto da un oblio che sarebbe durato quasi cento anni. ■

L’AUTORE Compositore e direttore d’orchestra, è autore di musica sinfonica e cameristica, scrive per il teatro e per la danza, collaborando regolarmente con Moni Ovadia. Fondatore, insieme con con Filippo Del Corno, del progetto culturale Sentieri Selvaggi, dal 2017 è direttore artistico della stagione dei concerti della Scuola Normale Superiore di Pisa. Tra i suoi libri si ricordano: Jazz! (2005), Lunario della musica (2007) e Analfabeti sonori (2019). Ha curato l’antologia Racconti musicali (2009), pubblicato 7 note per 7 musicisti (2016) e 12. Storie di dischi irripetibili (2018).

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GIULIO GUIDORIZZI SILVIA ROMANI

IL MARE DEGLI DEI UNA GUIDA MITOLOGICA ALLE ISOLE DELLA GRECIA. CI SONO LE STORIE SUGGESTIVE DI ZEUS, APOLLO, VENERE E NATURALMENTE ULISSE. CI SONO I RACCONTI DEGLI SCRITTORI FOLGORATI TRA QUEGLI SCOGLI CHE LA LETTERATURA HA RESO IMMORTALI.

di Damiano Fedeli

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uando ti metterai in viaggio per Itaca / devi augurarti che la strada sia lunga, / fertile in avventure e in esperienze. / I Lestrigoni e i Ciclopi / o la furia di Nettuno non temere, / (…) Soprattutto, non affrettare il viaggio; / fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio / metta piede sull’isola, tu, ricco / dei tesori accumulati per strada / senza aspettarti ricchezze da Itaca. / Itaca ti ha dato il bel viaggio, / senza di lei mai ti saresti messo / in viaggio: che cos’altro ti aspetti?». La vede così Itaca il poeta greco Constantinos Kavafis, una delle maggiori voci liriche elleniche fra Otto e Novecento (1863-1933, qui nella traduzione di Margherita Dalmati e Nelo Risi, Settantacinque poesie, Einaudi 1992). L’isola dello Ionio, l’agognata patria cui Ulisse brama di ritornare, non è per Kavafis il punto di arrivo di una lunga peregrinazione. Quel lembo di terra strappato al Mediterraneo è il motore stesso che porta a mettersi per mare, a fare

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incontri, ad ascoltare storie e racconti. È per questo – ammonisce il poeta – che, se anche, alla fine, una volta raggiunta, Itaca sarà più misera di come la si era fantasticata, non ci sarà da avvilirsi: la missione di arricchirsi umanamente, fine ultimo di ogni viaggio, sarà stata ugualmente compiuta: «E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. / Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso / già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare». È questo lo spirito con cui i classicisti Giulio Guidorizzi e Silvia Romani affrontano il viaggio fra le acque elleniche in Il mare degli dei. Guida mitologica alle isole della Grecia, appena uscito da Raffaello Cortina Editore. Guidorizzi ha insegnato Letteratura greca e Antropologia del mondo antico alle università di Milano e di Torino. Da sempre ha affiancato all’attività scientifica, alle traduzioni – Le Baccanti e Le Troiane di Euripide, i lirici greci, l’Anonimo del Sublime sono solo alcuni dei testi con cui

si è cimentato – e alle curatele (fra le tante, quella dei due Meridiani Mondadori dedicati a Il mito greco, 2009-2012), un’opera di divulgazione dei temi dell’antichità. Da poco per Mondadori ha dato alle stampe anche Il racconto degli eroi. Silvia Romani è professoressa associata all’università di Milano: suoi gli insegnamenti di Religioni del mondo classico, Antropologia del mondo classico e Mitologia classica. È autrice di una serie di pubblicazioni, come il volume Il mito di Arianna. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, con Maurizio Bettini (Einaudi, 2015). UN SECONDO VIAGGIO

Guidorizzi e Romani avevano già scritto a quattro mani In viaggio con gli dei, guida mitologica della Grecia uscita sempre per Raffaello Cortina nel 2019. Il volume pubblicato adesso riprende la formula del testo precedente focalizzandosi sulle isole: da Santorini a Rodi alle tante minori fra Egeo e Ionio (Creta è trattata invece più diffu-


samente nel precedente volume). Anche Il mare degli dei ha le illustrazioni di Michele Tranquillini, mappe parlanti che con un tratto acquerello e china da carnet de voyage consentono di orientarsi rapidamente. E come nel precedente, anche qui sono numerose le fotografie di opere d’arte – vasi, affreschi, rilievi – che illustrano i miti raccontati nel testo. Neppure questa è una guida turistica in senso stretto, naturalmente. Il lettore non troverà orari di traghetti e musei né consigli sui ristoranti. Non è un libro per turisti, ma per viaggiatori. Ovvero per un pubblico che prima di partire si documenta, cerca di immergersi nello spirito dei luoghi che poi andrà a visitare. Lo stesso viaggio reale, anzi, non è poi necessario. Il viaggiatore, potenziale o virtuale, è accompagnato in uno scambio continuo fra l’oggi e il mondo degli antichi: «Non si può dormire a Delo – si legge ad esempio – e conviene quindi far sosta nella dolce Mykonos, da cui è relativamente facile farsi trasportare con un traghettino fino allo stesso punto in cui già sbarcavano gli antichi di passaggio: la riva nordoccidentale del porto antico. Virgilio, del resto, sosteneva che Apollo in persona avesse legato Delo a Mykonos, perché alla prima fosse concesso prendersi gioco

della furia dell’aria». Ognuno dei sette capitoli principali si conclude poi con un «Invito al viaggio», un ulteriore percorso letterario, con consigli di lettura per chi voglia approfondire, sia riprendendo direttamente i classici in mano, da Omero a Plutarco, sia andando a leggere e ad ascoltare autori, scrittori, musicisti da sempre affascinati da questi racconti immortali.

ale stesso della bellezza classica: la trovò nel 1820 il contadino Yorgos Kentrotas; passò poi in mano ai francesi, ora è esposta al Louvre. E a Corfù ci si imbatte nella famiglia britannica Durrell – Gerald naturalista, Lawrence scrittore – qui fra il 1935 e il 1939: «Leggere i libri dei fratelli Durrell, preferibilmente camminando per le vie veneziane di Kerkyra o per i sentieri che si snodano tra fichi e olivi

NON È UN LIBRO PER TURISTI, MA PER VIAGGIATORI. PER CHI, PRIMA DI PARTIRE, SI IMMERGE NELLO SPIRITO DEI LUOGHI. LO STESSO VIAGGIO REALE, ANZI, NON È POI NECESSARIO FRA ANTICHI E MODERNI

Si salpa da Delo, l’isola natale di Apollo. Si seguono gli infiniti amori di Zeus, come a Samotracia, dove il dio si innamora di Elettra, una delle Pleiadi figlie del titano Atlante. O ci si appassiona alle vicende di Lemno, le cui donne prendono il potere eliminando tutti i maschi dall’isola. E, ancora, si bordeggia accanto all’eroe navigatore per eccellenza, Ulisse. Il volume propone anche miti più moderni. A Milo ad esempio si ricostruisce la rocambolesca storia del ritrovamento della Venere, la statua che rappresenta l’ide-

millenari, significa intercettare, sì, una memoria familiare, ma anche ritrovare la tonalità esatta del cielo e il sentore di macchia che avevano avvolto il re di Itaca al suo arrivo nel regno di Alcinoo». Terminato il libro, scrivono gli stessi autori, «si può scegliere di partire, per davvero, e sostituire i miti di queste pagine al portolano. Si può decidere, invece, come faceva Quiqueg, straordinario marinaio del Pequod, in Moby Dick, di credere che isole e stelle siano in fondo la stessa cosa e che per trovarle entrambe basti puntare la prua all’orizzonte, dove si aprono i fiumi della via Lattea». ■

GLI AUTORI Giulio Guidorizzi ha insegnato Letteratura greca e Antropologia del mondo antico alle università di Milano e di Torino. È autore di testi scientifici e divulgativi sul mondo antico, ha curato testi e traduzioni. Silvia Romani è professore associato di Mitologia, di Religioni del mondo classico e di Antropologia del mondo classico all’università di Milano. Insieme, per lo stesso Raffaello Cortina Editore, hanno già pubblicato nel 2019 In viaggio con gli dei. Guida mitologica della Grecia.

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OPERA OMNIA

ROBERTO CALASSO DELL’AUTORIALITÀ di Gabriella Piroli

A

poco tempo dalla scomparsa, attesa e improvvisa in egual misura, sarebbe più semplice censire chi non ha ancora scritto qualcosa su di lui. Memoir, rievocazioni, tranches de vie, aneddoti, lamentatio sui grandi che scompaiono, omaggi segnati dal superlativo assoluto. Un repertorio che Roberto Calasso avrebbe in gran parte incenerito con uno sguardo e con un invito esplicito: «Non essere ridicolo». Perché era vanitoso, e anche molto, ma le parole che lo riguardavano dovevano essere temperate. Non sono mancati neppure i pettegolezzi sulla sua vita personale, la moglie, la compagna, la signora del bon ton, eccetera. Occorre qui precisare che l’attuale corso a doppio registro della comunicazione pubblica – i giornali da un lato e i social dall’altro – enfatizza diabolicamente il fenomeno gossip. E solo la pausa ferragostana di un’estate dubbiosa ha rinviato i sussurri, vuoi allarmati vuoi golosi, sul destino dell’Adelphi. Inizieremmo proprio da qui, con una prima riflessione.

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Certo che l’Adelphi resterà l’Adelphi. Sono i discepoli, cioè i continuatori, a definire ex post una maestria. Calasso lo ha fatto con Foà e con Bazlen, altri lo faranno con lui. La fisionomia culturale di questa casa editrice è così delineata che non sarà difficile perseverarne le caratteristiche. A partire dalla scelta di dare spazio a una narrativa suppostamente pop come Maigret, o a una letteratura suppostamente laterale come Márai (ma a suo tempo, prima di portarlo in cima alle classifiche, era accaduto anche con Joseph Roth). A una saggistica con i nomi svettanti di Nietzsche e di Robert Graves, ma anche capace di bordeggiare una ricerca scientifica dai tratti atipici. Guardando il catalogo Adelphi, si ha l’impressione di fronteggiare un entomologo: l’occhiuto ricercatore di un mondo a parte, sfuggito per un soffio al successo di pubblico ma in grado di rivendicarne la status. E soprattutto con la vocazione di intonare un controcanto al Novecento, secolo notoriamente breve ma pieno di delittuose tragedie inutili.

La seconda riflessione riguarda un interrogativo che ha diviso le opinioni: era meglio come autore o come editore? Atteso che, in effetti, Calasso è stato il mago del paratesto, con l’intuizione geniale a trattare ogni libro come avrebbe fatto Aldo Manuzio in Venezia – cioè porgendolo al lettore con parole scelte – va detto che resta di gran lunga insuperato il frutto della sua personale scrittura. Roberto Calasso, non come editore charmant ma come nudo autore, si è calato lungo sentieri impervi e di incerta meta. In un modo o nell’altro, anche nei testi più leggiadri, ha coltivato la stessa ossessione: il sacrificio, come dispositivo che, dai Veda al nostro tempo, definisce e maledice l’umanità. Perché è proprio la morte, così indotta da diventare rituale, a rendere sacra la vita? A placare gli dei e a salvarci? Non c’è risposta. Possiamo solo offrire ai lettori attenti, e a quelli distratti, una panoramica con sfondo rosa Tiepolo della sua opera omnia, mentre lui è ancora impegnato a salire i suoi 49 gradini.



L’OPERA OMNIA DI ROBERTO CALASSO



INCIPIT − WALTER SITI

CONTRO L’IMPEGNO IL SUCCESSO OCCIDENTALE DEL POLITICALLY CORRECT PROIETTA OMBRE SGRAZIATE SU UN REPERTORIO CONSISTENTE, DA ESCHILO A WALT DISNEY. CON QUESTE “RIFLESSIONI SUL BENE IN LETTERATURA” WALTER SITI, NEL PAMPHLET RIZZOLI, ANALIZZA LE RICORRENTI TENSIONI ETICHE APPLICATE ALL’ARTE.

N

on bisogna incolpare le donne se non sono all’altezza dell’immagine ideale che ci facciamo di loro; non possono capirlo, perché nelle loro teste limitate un concetto così vasto non ci entra. L’uomo fa male a sperare sentimenti sovrumani in chi, per natura, è inferiore all’uomo in tutto; come ha il corpo più debole, così la donna ha anche una mente meno capace. Se io scrivessi qui ora queste frasi, in prima persona, verrei giustamente sommerso da biasimo e vituperio; invece, per fortuna, quella che ho appena riportato è l’onesta parafrasi di un brano di una delle poesie più mature del maggior poeta lirico italiano di tutti i tempi. Dunque, che fare? Censurare Leopardi, togliere Aspasia dalla raccolta dei Canti, o almeno dalle edizioni scolastiche? O spiegarlo mettendo quei versi sul conto di una privata infelicità, dicendo alle liceali che li leggono: «compatitelo, era gobbo, puzzava e le donne lo schifavano»? Purtroppo non è così semplice: anche concedendo a

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Giacomo un bel po’ di frustrazione e ira rancorosa nei confronti della Fanny Targioni Tozzetti, o risalendo negli anni di “quella puttana della Malvezzi”, o (come io credo) di Maddalena Signorini Pelzet che stava facendo soffrire l’amato Ranieri, le sue parole rispecchiavano largamente l’opinione comune e potevano appoggiarsi a studi scientifici di fisiologia del cervello (come la frenologia appena inaugurata da Franz Joseph Gall). La letteratura occidentale comincia (libro primo dell’Iliade) con due maschi che litigano per decidere a chi tocca possedere una schiava; il romanzo moderno comincia (Robinson Crusoe) con un uomo bianco che libera un uomo nero e immediatamente pensa di tenerlo con sé come “suddito”, imponendogli un nome che non è il suo e convertendolo alla propria religione. La letteratura del passato gronda di presupposti non condivisibili, come probabilmente non saranno condivisibili per i posterii presupposti su cui si fonda la letteratura di ora (a meno di non credere che la

società occidentale abbia raggiunto la Verità assoluta). Nei classici non è difficile rintracciare posizioni razziste, misogine, omofobe, antisemite, classiste; ma anche, perché no?, elogi della tirannia, della violenza, dell’omicidio, dell’incesto, di ogni genere d’oscenità e perversione. A seconda dei periodi storici e della delicatezza dei lettori, anche la confessione al marito di amare un altro uomo, o una partita di caccia, o una bistecca al sangue mangiata con gusto, o troppe sigarette fumate, o una donna remissiva in amore o un omosessuale nevrotico possono mettere a disagio. Un eccesso di politicizzazione dei personaggi o un chiuso intimismo, un ateismo aggressivo o una religione troppo sbandierata, omertà vile di fronte ai criminali o indiscrezione verso individui noti, mammismo o odio per la madre, esasperato nazionalismo o oltraggio alla bandiera, tutto può irritare e indignare. Quindi, ancora una volta, che fare? Dar ragione a Platone ed escludere gli scrittori dalla Repubblica?


Il romanzo, soprattutto, ha avuto vita difficile nei secoli (ma nemmeno poesia e teatro sono rimasti immuni, basti pensare al Tartuffe di Molière o ai baudeleriani Fiori del male); accusato di oscenità, volgarità, diffamazione, blasfemia, tradimento della Patria o dell’Idea, responsabile per il suicidio dei giovani e l’adulterio delle mogli. Processato spesso, condannato, bruciato nelle pubbliche piazze – un destino di opposizione eroica al Potere e al perbenismo. Ora, almeno in Occidente, è tutto più soft: l’oscenità è quasi scomparsa, la libertà d’opinione è considerata un valore acquisito, la religione è debole e permissiva, la Patria è monopolio delle destre, all’Indice dei libri proibiti si è sostituito il movimento Disrupt Texts. Un tempo a condannare erano i tradizionalisti e gli autocrati, ora sono piuttosto i progressisti, forti di una egemonia culturale mainstream. La preoccupazione principale dei nuovi censori è pedagogica: si vuole evitare che la letteratura abbia un harmful impact, un impatto dannoso sui lettori – avvicinandoli a idee malsane come il fascismo, il maschilismo, il razzismo eccetera, o anche semplicemente suggerendo che certe strutture oppressive possano apparire normali, o che l’odio possa essere interessante quanto l’amore. Nessuna tolleranza verso

chi “parla male perché pensa male”, meglio soffocare il contagio sul nascere; le parole sono pietre, e quelle letterarie tanto più in quanto seducenti. Non divise militari e toghe tribunalizie, ma solleciti tutori che agiscono per il bene delle menti meno avvertite e lavorano per un mutamento delle coscienze sui tempi lunghi, sentendosi avanguardie di un mondo finalmente più equo. Così si sono succeduti, e si succedono, avvertimenti sulla nocività di questa o quell’opera letteraria, con episodi che spesso hanno superato il confine del ridicolo. L’esemplificazione è varia e pittoresca. Si parte dalla Disney, che ha tolto Gli Aristogatti dal catalogo disponibile a tutti e l’ha riservato agli adulti, perché i gatti siamesi vi sono rappresentati “con tratti caricaturalmente orientali”; stessa sorte è toccata a Peter Pan perché i membri della tribù di Giglio Tigrato vengono chiamati “pellirosse”; e in una canzoncina di Dumbo si insinua che i neri delle piantagioni non fossero in grado di risparmiare. Sul filo del rispetto per gli afroamericani ci sono state obiezioni a La capanna dello zio Tom, a Via col vento e addirittura a un romanzo per eccellenza antirazzista come Il buio oltre la siepe (ma vi si pronuncia la parola tabù, nigger, e l’avvocato Atticus, il difensore dei neri, è pur sempre un bianco che

fa sfoggio di superiorità morale). Ovvie le rampogne contro Il mercante di Venezia (antisemita) e Arancia meccanica (violento); più sorprendenti le messe in guardia contro Romeo e Giulietta (negativo quanto a educazione familiare) e contro l’omofobia di un personaggio di Grease, o per l’eliminazione al MoMA di un manifesto che annunciava una retrospettiva di Antonioni (il fotografo di Blow Up che sta sopra la modella sembra simulare uno stupro); Le supplici di Eschilo sono state vietate alla Sorbona perché il coro usava il blackface, a un Maggio Fiorentino si è cambiato il finale della Carmen perché avallava il femminicidio. E così via. Si impedisce ai personaggi di parlare una lingua realistica e alle trame di avere una conclusione in armonia con l’integrità dell’opera. Sempre assicurando che non si vuole censurare ma soltanto proteggere i fruitori più fragili: nei casi migliori imponendo avvertenze (trigger warning) e obbligando al dibattito, nei peggiori cancellando ciecamente parti di testo, in ossequio a quel “politicamente corretto” contro cui già tanti intellettuali hanno preso posizione a costo di apparire reazionari ed elitari schizzinosi: mentre si cerca di ribaltare ingiustizie secolari, non si può guardare tanto per il sottile. ■

L’AUTORE Ha insegnato Letteratura italiana contemporanea all’Università dell’Aquila. Ha pubblicato due volumi di critica letteraria, Il realismo dell’avanguardia (Einaudi, 1973) e Il neorealismo nella poesia italiana (Einaudi, 1980). Ha scritto su varie riviste (Nuovi argomenti, Paragone, Rivista di letteratura italiana) saggi su Montale, Penna, Pasolini e sulla poesia italiana contemporanea. È il curatore delle opere complete di Pasolini per “I Meridiani” Mondadori. Ha collaborato con la Repubblica e con Domani. È autore di numerosi saggi e romanzi, nel 2013 ha vinto il Premio Strega e il Premio Mondello con Resistere non serve a niente (Rizzoli).

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RITRATTO BREVE

CARRÈRE,

VITA CHE È LA SUA IL PIÙ FLAMBOYANT TRA GLI SCRITTORI FRANCESI, ALLE PRESE CON YOGA E METAFISICA DEL DISTURBO BIPOLARE. MA ANCHE CON UN DIFFICILE DIVORZIO. di Antonio Lucci

S L’AUTORE Tra i più amati autori d’Oltralpe, Emmauel Carrère è un poligrafo, autore di articoli, romanzi, saggi, sceneggiature e anche regie cinematografiche. Tra i suoi ultimi libri: Il Regno, 2015; A Calais, 2016; Propizio è avere ove recarsi 2017, tutti pubblicati in Italia da Adelphi.

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e avesse scelto di mettere a nudo la propria storia personale tramite una narrazione autobiografica classica, Emmanuel Carrère, parigino, classe 1957, assieme a Michel Houellebecq con ogni probabilità uno degli scrittori di lingua francese più noti, letti e tradotti all’estero, non avrebbe di certo faticato a trovare temi accattivanti per il suo pubblico: a partire da uno dei topoi maggiormente di successo nelle narrazioni autobiografiche, vale a dire le storie di vita dei propri parenti più stretti, primi tra tutti i genitori. Hélène Carrère d’Encausse, sua madre, ad esempio, è una delle più importanti storiche di lingua francese viventi, ex membro del parlamento europeo, specializzata in sovietologia, nonché prima donna a diventare membro dell’Accademia di Francia, di cui – ancora un primato – a tutt’oggi è anche segretario permanente. Anche la sorella di Emmanuel, Marina Carrère d’Encausse, medico di professione, ha all’attivo romanzi, programmi radio e attività televisiva. Suo nonno mater-

no, Georges Zourabichvili, fu un filosofo ed economista georgiano, invischiato, dopo l’emigrazione in Francia, con il regime collaborazionista di Vichy. Lo stesso Emmanuel, al di là della sua interessante linea di ascendenza, ha avuto una vita professionale ricca di esperienze lavorative che investono uno spettro di attività estremamente amplio: dal lavoro come critico letterario alla scrittura di romanzi come L’Amie du jaguar (1983), Bravoure (1984) e La Moustache (1986, della cui trasposizione cinematografica, uscita in italiano nel 2005 con il titolo L’amore sospetto, Carrère è stato anche regista), dalla scrittura di sceneggiature per programmi televisivi (tra tutti la serie Les revenants, uscita tra il 2012 e il 2015 in Francia) a quella di opere a metà tra il reportage giornalistico, la biografia e il romanzo, che lo porteranno, agli inizi del nuovo millennio, al successo. Nel 2000, infatti, Carrère passa dalla scrittura di romanzi di argomento puramente finzionale a quella di opere


Emmanuel Carrère ad acquerello, nel ritratto di Alpraz.

basate sulla narrazione biografica di personaggi esistenti, che Carrère intreccia con la propria. Il primo di questi libri, che sarà anche quello che consacrerà Carrère nel pantheon degli scrittori di culto della sua generazione, è L’avversario, che narra la controversa storia del pluriomicida Jean-Claude Romand, che – dopo aver finto per diciotto anni una carriera da medico mai avuta – rischiando di essere scoperto uccide i propri genitori, la moglie, i figli e infine dà fuoco alla sua stessa casa, tentando il suicidio.

Carrère intreccerà, nella scrittura de L’avversario, la narrazione di questa vicenda di cronaca con la propria narrazione autobiografica, non solo riportando stralci della sua corrispondenza con Romand (che nel frattempo era stato incarcerato per i suoi crimini) ma cercando anche, in qualche modo, di riviverne la storia, per comprenderne il punto di vista. L’intreccio tra autobiografia e narrazione delle “vite degli altri” segna anche i libri successivi di Carrère. Nel tripartito Un romanzo russo (2007), ad esem-

pio, Carrère ricostruisce la vicenda biografica del nonno materno e della sua collaborazione con il nazismo, e ripubblica uno scandaloso scritto breve, dal titolo Facciamo un gioco (L’usage du Monde) uscito per la prima volta nel 2002 su Le Monde. Qui Carrère aveva dato prova di tutta la sua audacia di narratore, pubblicando su uno dei quotidiani più letti di tutta la Francia una sorta di lettera alla sua compagna dell’epoca, che avrebbe dovuto leggerla, a sorpresa, sul treno, in cui si profondeva in un

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EMMANUEL CARRÈRE gioco erotico, descrivendo le azioni che lei avrebbe dovuto eseguire, al fine di suscitarne (e suscitare nei lettori) desiderio sessuale. Al di là delle (prevedibili) polemiche suscitate dall’articolo, anche le ricadute sulla vita privata di Carrère, come avrà a dire lo stesso autore in un’intervista successiva, saranno tutt’altro che positive (conducendo, persino, alla crisi del rapporto con la destinataria della lettera), a ulteriore riprova dei rischi di una scrittura che mette in gioco anche la vita stessa dello scrittore. Vite che non sono la mia (2009) ruota attorno alle tragiche vicende biografiche di due donne di nome Juliette. La prima, una bambina scomparsa durante lo tsunami che devastò lo Sri Lanka nel 2004, di cui Carrère e la moglie, sul luogo del disastro durante un viaggio, incontrano i genitori disperati immediatamente dopo la catastrofe. La seconda, la cognata dello scrittore, seguita da lui nella sua tragica lotta contro un cancro. In entrambi i casi, fin dal titolo, Carrère sembra voler prendere quasi programmaticamente le distanze dai racconti estremamente legati a quei vissuti personali e famigliari riportati nel libro precedente. Tuttavia con la scrittura di “vite che non sono la sua” non può impedire al suo occhio di narratore una vibrante immediatezza, dunque un valore di testimonianza. Anche nella biografia Limonov (2011) con l’avventurosa e picaresca vita del poeta, soldato, dissidente e agitatore politico russo Eduard Limonov, Carrère finisce per assumere il ruolo di narratore presente biograficamente, riuscendo ad entrare in contatto con il vulcanico autore russo, seguendolo per circa due settimane. Persino in

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un libro di carattere storico, per quanto romanzato, come Il regno (2014) in cui vengono ricostruite le vicende all’origine del Cristianesimo a partire dalle figure di Paolo e dell’Apostolo Luca, la vita di Carrère è presente, questa volta nella narrazione che l’autore fa del proprio problematico rapporto con la fede in generale e con il Cristianesimo in particolare. Se, quindi, Carrère avesse deciso

È a questo punto della narrazione che Carrère incomincia a decostruire l’immagine idealizzata che lui stesso in primis (e il lettore di conseguenza) aveva della propria vita, innanzitutto descrivendo in maniera critica l’astrazione di coloro che pensano che il proprio Sé (fosse anche un Sé “lavorato” tramite pratiche ginniche, ascetiche e/o meditative) sia il centro del mondo, dimenticandosi però

CON YOGA L’AUTORE CERCA UN PERCORSO DI RISVEGLIO SPIRITUALE, MA LE POLITICHE DEL SÉ NON FANNO I CONTI CON LA STORIA. E NEPPURE CON LA QUOTIDIANITÁ DELLA VITA di dedicare a se stesso un lavoro di carattere biografico, come aveva fatto in precedenza con Limonov, con Romand e con lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick (Io sono vivo, voi siete morti del 1993), di certo non sarebbe mancato il materiale su cui lavorare. È proprio per questo che il suo ultimo libro, Yoga (uscito in Francia nel 2020 e in Italia nel 2021), invece, che pur può essere considerato un’autobiografia, appare essere un’operazione letteraria differente, e a tratti straordinaria.Yoga, infatti, rappresenta il tentativo di Carrère di narrare la propria vita attraverso il percorso fatto come praticante di Yoga. Tutta la prima parte del testo ruota attorno alla descrizione delle esperienze fatte dall’autore nel suo percorso di “risveglio” spirituale: una narrazione a tratti quasi opprimente nel suo voler presentare un personaggio riuscito, risolto, che assomma in sé le caratteristiche dell’uomo di successo, dello scrittore di fama, del padre di una bella famiglia, dell’uomo amato dalle donne.

della Storia: una Storia che prende sempre il sopravvento, soprattutto nei confronti di coloro che vorrebbero farne a meno, come ben mostra la seconda parte del libro, in cui viene descritto come lo scrittore sia stato costretto ad abbandonare un ritiro spirituale di meditazione orientale per scrivere il discorso funebre di un amico ucciso durante l’attacco terroristico a Charlie Ebdo. Nell’ultima parte del libro Carrère descrive la tragica scoperta del proprio disturbo bipolare, l’internamento in un ospedale psichiatrico e la necessità di ricorrere a terapie d’urto come l’elettroshock per curare i propri disturbi depressivi, constatando, quindi, in ultima istanza, il fallimento del proprio tentativo superegoico di diventare padrone di Sé tramite la meditazione. In questo senso Yoga rappresenta non solo la descrizione di una vita, ma anche il tentativo di Carrère di emanciparsi dal proprio sguardo descrittore, diventando l’oggetto – doloroso e umanissimo – del proprio lavoro biografico. ■


RISPOSTE D’AUTORE

TIMOTHY MORTON

ECOLOGIA OSCURA UNO DEI FILOSOFI PIÙ INFLUENTI SULLA SCENA MONDIALE RILEGGE L’ECOLOGISMO DI OGGI E NE TEORIZZA IL SUPERAMENTO. PER LIBERARE LA VITA “DALL’EREDITÀ MESOPOTAMICA”. di Matteo Moca

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imothy Morton, Rita Shea Guffey in English alla Rice University, è uno dei più importanti e influenti pensatori contemporanei. La pubblicazione in italiano del suo Ecologia oscura (Luiss University Press) è un’ ottima occasione per soffermarsi sulla natura del suo pensiero in quanto questo libro, originariamente uscito nel 2016 per la Columbia University Press, raccoglie alcune dei luoghi nevralgici della sua opera, cominciata all’insegna di libri su Percy Bysshe Shelley e Mary Shelley per poi spostarsi, mantenendo sempre un’attenzione ai testi letterari, verso un’etica dell’ambiente. Simbolo di questo modo eccezionale di indagare il mondo contemporaneo è Iperoggetti (University of Minnesota Press nel 2013, tradotto in italiano da Nero Editions), un libro che si muove tra la speculazione filosofica e afflati poetici, mettendo proficuamente in dialogo la riflessione ecologica, la cultura umanistica e le scienze. Con “iperoggetto”, e assecondando l’orizzonte speculativo della objectoriented ontology (OOO), Morton teorizza la presenza nel mondo di “oggetti” dall’estensione enorme in grado di inglobare e modificare altri oggetti, come accade per esempio con il riscaldamento globale in rapporto agli esseri umani. Ciò che emerge con forza dalle sue pagine è la necessità di modificare il nostro rapporto con l’ambiente anche dal punto di vista di chi combatte per la sua salvaguardia: l’ambientalismo standard è infatti, secondo Morton, inficiato da una cura paternalistica e dominatrice nei confronti della

Natura, una diversa forma di possesso che necessita di essere sostituita, come ben riassunto da Gianfranco Pellegrino nell’introduzione a Ecologia oscura, da «una modalità di apprezzamento estetico, un atteggiamento di fascinazione per la natura come Altro di cui possiamo invaghirci, rispettandone l’aterirà profonda». Nel suo pensiero, che si nutre anche della filosofia continentale e del pensiero femminista, non è assente la coscienza di una responsabilità individuale e la possibilità di migliorare il mondo che abitiamo partendo da piccole e decisive azioni e dal cambiamento della percezione del mondo in grado di «smantellare l’apocalisse». Il tuo primo libro sull’etica dell’ambiente è Ecology without nature e segue altri tuoi libri dedicati a Percy Bisshe Shelley e Mary Shelley o alle rotte del commercio e alla diffusione delle spezie. Sono libri dove intrecciavi l’ermeneutica testuale con le ricostruzioni delle intenzioni degli autori e i significati filosofici e politici anche della loro concezione della natura. In Ecology without nature prevale l’approccio innovativo e rivoluzionario sull’ecologia e sull’ambiente che poi segnerà le tue opere successive. Quali sono stati i passaggi fondamentali nel tuo orizzonte teorico? Ah, questa è una buona domanda! Beh, penso che la risposta stia nel fatto che sono così coinvolto nel processo del pensiero, che a volte perdo il filo del ragionamento. Ma se questo è buono quando si tratta

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RISPOSTE D’AUTORE di avere nuove idee, non credo lo sia quando si tratta di spiegarmi. A volte sento di avere un’idea che non so bene come tradurre in parole, altre volte queste idee sono così grandi o così controverse che impiego un po’ di tempo per riuscire a capire come dirle in un modo che le persone ascoltino e non schiaccino nella loro mente il tasto “cancella” dopo averle sentite. Ecology without Nature era quello che cercavo di dire nei miei primi libri, ma sono riuscito a dirlo in maniera molto più diretta e ampia e, forse, più profonda. Mi ci sono voluti dodici anni per capire come dirlo in un modo che facesse accettare il libro da un editore importante come Harvard University Press, in modo da fargli avere un certo peso. È il libro che ogni studioso del periodo romantico della letteratura inglese vorrebbe scrivere, il grande libro su Wordsworth. Ma come si vede leggendolo, lì sta succedendo qualcosa, un passaggio dalla prospettiva di base della storia a quella della filosofia. Mi sono formato nel momento del cosiddetto “new historicism” dove lo studio della storia si univa a quello di Foucault e altri intellettuali francesi gravitanti attorno al movimento del 1968. C’era però sempre un’instabilità teorica: alcuni studiosi cadevano più nel lato storico delle cose, altri in quello speculativo o filosofico o come lo si voglia chiamare. Ma spiegare se stessi e poi spiegare la spiegazione perché questa non era così chiara, significa che alla fine stai facendo filosofia. Quindi se metti insieme come penso e scrivo con quello che volevo dire, ottieni questo libro. Sostieni che l’idea di una relazione dominante dell’uomo sulla natura nasce con la civiltà della Mesopotamia, punto di non ritorno per una strutturazione del pensiero che costruisce distinzioni artificiali tra esseri umani e natura. In Ecologia oscura scrivi che “What happened in Mesopotamia happens “now,” which is why it has made sense for Dark Ecology to refer to us as Mesopotamians”. Che significato ha definirsi mesopotamici nell’orizzonte di cambiamenti che auspichi?

Non credo sia un semplice punto di non ritorno, perché stiamo ancora decostruendo quel patrimonio di pensieri attraverso le nostre parole e le nostre azioni. Comunque il divario tra uomo e natura non è mai stato così grande come è oggi: questa separazione è andata avanti all’infinito finché alcune persone (soprattutto uomini bianchi) hanno pensato che fosse la realtà. Quindi quando dico “noi mesopotamici” sto cercando di sorprendervi, di invitarvi a capire che questa cosa che è accaduta nel 10mila a.C. sta ancora accadendo. Il problema di comprendere un evento è che questo non è solo un punto su una linea temporale di Wikipedia. È più come uno schizzo o un’esplosione. Gli eventi sono in movimento. In questo momento, tutto quello che vediamo intorno a noi è solo lo stato attuale del Big Bang. Tu parli di “ecognosi”, ovvero di un graduale processo di consapevolezza ecologica che potrebbe essere in grado di modificare la nostra relazione squilibrata con l’ambiente naturale. Come può l’uomo avvicinarsi a questo nuovo tipo di coscienza ecologica e cosa implica riguardo al nostro posto nella biosfera? Il problema delle domande con il “come” è che spesso suonano come se la soluzione fosse impossibile. Ma se la soluzione fosse invece troppo facile? E se ciò che è veramente difficile fosse mantenere l’illusione che siamo diversi dalle altre forme di vita, separati in qualche modo dalla biosfera? E se ciò che è necessario fossero un paio di piccoli accorgimenti in grado di causare un enorme e fantastico sconvolgimento? La parola gnosis viene dal sanscrito jnana e significa “saggezza”. La saggezza è un sentimento o un insieme di idee? In senso lato io credo sia più un’emozione, un sentimento. L’ecognosi riguarda il conoscere piuttosto che ciò che viene conosciuto. La qualità del pensiero è che è esso stesso ecologico. Abbiamo già questa conoscenza dentro di noi. Non richiede alcuno sforzo trovarla, è facile. Le persone come me di solito pensano che dovremmo

L’AUTORE Timothy Morton è docente alla Rice University di Houston, Texas. In precedenza, ha insegnato alla University of California e alla New York University. Persona non binary, è considerato una delle più rilevanti figure della filosofia contemporanea. Tra le sue opere tradotte in italiano: Iperoggetti (Nero, 2018), Noi, esseri ecologici (Laterza 2018), Come un’ombra dal futuro (Aboca, 2019). Ha partecipato a Living in the Future’s Past, documentario sul riscaldamento globale con Jeff Bridges.

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far sembrare le cose molto difficili quando in realtà possono benissimo non esserlo. Parli di “agrilogistica” come una sorta di dominio umano sul non umano, che risale alla civilizzazione agricola della Mezzaluna fertile. Tu sostieni che dall’agrilogistica derivino istituzioni e fenomeni di dominio che hanno segnato la storia dell’uomo e la società contemporanea, come il patriarcato, le disuguaglianze o le epidemie. Esistono vie di uscita praticabili? Assolutamente sì. Il punto della parola “agrilogistica” è che si tratta di un programma, come se fosse un programma per computer. È una ricetta, ma non bisogna seguire una ricetta. Così tante cose del nostro mondo sembrano riducibili solamente a seguire delle ricette che credo abbiamo dimenticato essere solo delle ricette. La nostra “agrilogistica” è responsabile di molti problemi: razzismo, specismo, patriarcato... Non dobbiamo seguire questo programma di 12mila anni solo perché funziona da 12mila anni. Il tuo orizzonte teorico attuale si muove all’interno della ontology object-oriented (OOO). È un sistema filosofico che, tra le altre cose, si pone come un

pensiero anti-antropocentrico che rifiuta qualsiasi idea di superiorità dell’uomo sul resto degli esseri viventi. Credi realmente si tratti di una metodologia di pensiero in grado di affrontare in modo coerente le urgenze del mondo in cui viviamo? Quali sono, se ci sono come credo, le altre influenze che costituiscono il tuo immaginario? Sì, OOO è un orizzonte teorico molto interessante perché sta scoprendo come parlare del mondo in un modo che non mette l’uomo in cima o al centro, e lo sta scoprendo all’interno della filosofia occidentale, il che significa che questa non è totalmente indistruttibile. È profondamente legato agli altri modi in cui mi piace pensare, proviene per esempio dal pensiero di Martin Heidegger e dal decostruzionismo, di cui faccio parte (Jacques Derrida è stata la prima persona a cui è piaciuto molto quello che stavo scrivendo). Sono poi profondamente ispirato dalla filosofia femminista di Luce Irigaray, Julia Kristeva, Helene Cixous e diverse altre. E in effetti il mio modo di pensare è abbastanza simile a quello di Irigaray. Sono molto di sinistra, ma non mi piace come alcuni di noi ne parlano: sto infatti cercando di trovare nuovi modi di farlo, modi più OOO. ■

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DULCIS IN FUNDO

LA CONDANNA Un giovane uomo, un amico lontano, il dubbio su una confidenza da affidare a una lettera. Ma nella quiete di una domenica di primavera irrompe rovinosamente il non-sense feroce delle relazioni familiari. Franz Kafka Era una mattinata domenicale nel momento più bello della primavera. Giorgio Bendemann, un giovane commerciante, sedeva nella sua stanza al primo piano, in una di quelle case basse e fragili, che, seguendo il fiume, si allineavano in una lunga serie, distinguendosi quasi solo per l’altezza e il colore. Aveva finito allora una lettera a un amico d’infanzia che viveva all’estero; la chiuse con una lentezza compiaciuta, quasi giocherellando, e contemplò poi, coi gomiti appoggiati sulla scrivania, fuor della finestra, il fiume, il ponte e le colline sulla sponda opposta, coperte di tenero verde. Meditava sul fatto che questo amico, scontento della sua esistenza in famiglia, già da anni s’era come rifugiato in Russia. Esercitava un commercio a Pietroburgo che da principio prometteva bene, ma che già da parecchio tempo sembrava essersi arrestato, come si lamentava l’amico durante le visite che avvenivano sempre più di rado. Si affannava invano, così, in terra straniera; la barba, tenuta secondo la moda forestiera, copriva appena il volto ben noto fin dall’infanzia e la pelle giallognola pareva accennare a una latente malattia. Secondo quel che raccontava non era in rapporti attivi con la colonia dei suoi connazionali, né aveva stretto quasi nessuna relazione d’amicizia con famiglie del luogo e

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s’avviava così a restar definitivamente scapolo. Cosa scrivere a un uomo, come quello, che evidentemente aveva sbagliato strada, che si poteva compiangere, ma non aiutare? Forse consigliargli di tornare in famiglia, di trasferire di nuovo la sua esistenza in patria, di riprendere le antiche relazioni d’amicizia – e sin qui non si sarebbero incontrati ostacoli – affidandosi quanto al resto, all’aiuto degli amici? Ma questo significava semplicemente dirgli insieme – e con quanto maggior riguardo gli fosse stato detto, tanto più avvilente sarebbe stato per lui – che i suoi precedenti tentativi erano falliti, che doveva ormai abbandonarli, tornare, rassegnandosi a farsi guardare da tutti cogli occhi spalancati come chi rimpatria per sempre; che soltanto gli amici avevano capito qualcosa, mentre lui era un fanciullone, cui non restava che obbedire a quelli che erano rimasti e avevano avuto successo nella vita. E s’era poi sicuri che la pena che gli si procurava avrebbe avuto una giustificazione? Forse non si sarebbe neppure riusciti a farlo tornar a casa – aveva detto lui stesso di non comprender più il modo di vivere del suo paese – e se ne sarebbe rimasto così, nonostante tutto, all’estero, amareggiato da tutti quei consigli e ancor più lontano di prima dagli amici. Se poi avesse accettato il consiglio e, arrivato in patria, si fosse sentito – naturalmente


non per deliberato proposito, ma per la fatalità degli eventi – oppresso, non si fosse riaffiatato cogli amici né rimesso senza di loro, si fosse sentito umiliato, e avesse finito col non aver davvero più né patria né amici, non sarebbe stato allora molto meglio per lui restare all’estero, così com’era? Date le circostanze del momento si poteva davvero pensare che egli sarebbe riuscito a spuntarla? Per queste ragioni, se si voleva restare almeno in rapporti epistolari ancora con lui, non gli si potevano comunicare notizie vere e proprie, come si danno invece senza riguardo anche al più lontano dei conoscenti. L’amico non era più stato in patria da più di tre anni e giustificava alla meglio questa assenza con la instabilità della situazione politica russa, che, a quanto diceva, non consentiva a un piccolo commerciante come lui neppure la minima assenza, mentre centinaia di migliaia di russi giravano tranquillamente per il mondo. Ma appunto in quei tre anni molti mutamenti erano avvenuti per Giorgio. Della morte della madre, avvenuta circa due anni prima, e in seguito a cui Giorgio aveva cominciato a vivere insieme al vecchio padre, l’amico aveva ancor avuto notizia e aveva espresso in una lettera le sue condoglianze, ma con un’aridità che si poteva spiegare solo pensando che il dolore per un simile evento appare addirittura inspiegabile a chi vive lontano. Proprio da quel momento Giorgio aveva cominciato a mettere più impegno non solo in tutte le cose, ma particolarmente negli affari. Forse, quand’era ancor viva la madre, il padre, imponendo all’andamento della ditta unicamente la sua volontà, gli aveva impedito di avere un’attività propria; forse, pur continuando a occuparsi degli affari, il padre, dopo la morte della madre, s’era fatto più discreto; forse fortunate circostanze – era l’ipotesi più probabile – avevano avuto un ruolo ancor più importante; comunque in quei

due anni la ditta si era inaspettatamente sviluppata, s’era dovuto raddoppiare il personale, la vendita era quintuplicata, un ulteriore progresso era ormai sicuro. L’amico però, di questi mutamenti, non aveva neppure un’idea. In passato, per l’ultima volta, forse, nella lettera di condoglianze, aveva cercato di convincere Giorgio a emigrare in Russia, diffondendosi sulle possibilità di successo che proprio per il genere di commercio esercitato da lui si sarebbero offerte a Pietroburgo. Le cifre però risultavano trascurabili in confronto al giro d’affari che la ditta di Giorgio aveva ormai raggiunto. Egli non s’era però sentito di narrare all’amico i suoi successi, e se lo avesse fatto in ritardo, sarebbe parso molto strano. Così egli si limitava a parlare solo di casi insignificanti come si presentano confusamente alla memoria quando ci si ripensa in una tranquilla domenica. Non desiderava altro che lasciare intatta l’immagine che l’amico s’era fatta della sua città natale, durante quel lungo intervallo di tempo, e a cui s’era ormai assuefatto. Capitò così a Giorgio di annunziare all’amico, in tre lettere piuttosto distanti tra loro, il fidanzamento di un qualsiasi tizio con una ragazza ugualmente indifferente, sinché l’amico cominciò d’un tratto a interessarsi di questo fatto contro l’intenzione di Giorgio. Ma egli preferiva scrivere notizie simili piuttosto che confessargli di essersi fidanzato lui stesso un mese prima con una certa signorina Frieda Brandenfeld che apparteneva a una famiglia agiata. Parlava spesso con lei di questo amico e del carattere tutto particolare della loro corrispondenza. «Così non verrà per il nostro matrimonio», diceva lei. «eppure ho il diritto di conoscere tutti i tuoi amici». «Non voglio disturbarlo», rispondeva Giorgio, «cerca di capirmi; egli forse verrebbe, almeno lo suppongo, ma si senti-

IL FASCINO DISCRETO DELLE SCRITTURE BREVI «Il concetto di racconto va inteso qui in senso lato: spesso si tratta di riflessioni o considerazioni», spiega nella prefazione Ervino Pocar, curatore di Tutti i racconti (Oscar Moderni, Mondadori). Il libro offre una raccolta completa – oltre 500 pagine – in grado di racchiudere in sé l’intera impronta letteraria di Kafka. Questo numero di Prometeo presenta ai lettori La condanna (il titolo originale è Das Urteil, la traduzione è di Rodolfo Paoli), una storia inequivocabilmente segnata da un retrogusto assurdo, ma puntellata di dialoghi del tutto plausibili. Infine, c’è anche un piccolo cadeau alla nostra rivista: un brevissimo florilegio di icastiche definizioni che Kafka dedica proprio alla figura mitologica di Prometeo.

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DULCIS IN FUNDO rebbe a disagio, e diminuito, forse m’invidierebbe e ripartirebbe solo soletto, certo scontento e incapace di superare questa sua scontentezza. Esser solo, sai cosa vuol dire?» «Ma non può darsi che venga a sapere ugualmente del nostro matrimonio?». «Questo certo non lo posso impedire, ma con la vita che fa, mi sembra improbabile.» «Se avevi degli amici come lui, Giorgio, non avresti dovuto neanche fidanzarti.» «In questo caso la colpa è di tutt’e due; ma ormai non vorrei mutare questa situazione.» E quando, ansando sotto i suoi baci, Frieda ripeté: «Eppure è avvilente per me!» egli pensò che in fondo era naturale raccontar tutto all’amico. «Son fatto così e così mi deve prendere» si diceva «non posso fare di me come un figurino che forse si adatti a essergli amico più di quello che non sia io». Nella lunga lettera che aveva scritta in quella mattinata domenicale dava infatti notizia all’amico dell’avvenuto fidanzamento con queste parole: «La nuova più bella me la son serbata in fondo; mi sono fidanzato con la signorina Frieda Brandenfeld, una ragazza appartenente a una famiglia agiata, che si è stabilita qui molto tempo dopo la tua partenza, e che perciò sarà difficile tu conosca. Avrò ancora occasione di parlarti più a lungo della mia fidanzata, per oggi ti basti sapere che sono molto felice e che i rapporti tra noi due sono cambiati solo in questo senso: che d’ora in avanti avrai in me, invece del solito amico, un amico felice. Inoltre avrai nella mia fidanzata, che ti saluta cordialmente e che presto ti scriverà direttamente, un’amica sincera; cosa che per uno scapolo non è poi senza importanza. So che molte ragioni ti trattengono dal farci una visita, ma non sarebbe proprio il mio matrimonio una buona occasione per toglier di mezzo una buona volta tutti gli ostacoli? Comunque sia, opera senza riguardi e soltanto come credi meglio». Con questa lettera in mano Giorgio era rimasto a lungo seduto dinanzi alla scrivania, volgendo la faccia alla finestra. Al saluto di un conoscente che passava per la strada, aveva risposto appena, con un sorriso assente. Infine mise in tasca la lettera, e uscendo dalla camera, attraversò un piccolo corridoio, per entrare in quella di suo padre, in cui non era stato da mesi. Non ce n’era del resto alcuna necessità, poiché egli era continuamente in contatto col padre in ufficio; pranzavano insieme in un ristorante, alla cena ognuno provvedeva per conto proprio, ma dopo, se Giorgio, come avveniva spesso, non passava la sera con gli amici o andava a

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trovare la fidanzata, si trattenevano di solito ancora un po’ in salotto ognuno col suo giornale. Giorgio notò con stupore come fosse oscura la camera del padre, anche in quel mattino soleggiato. Il muro alto che si levava al di là dello stretto cortile, gettava dunque tanta ombra! Il padre seduto vicino alla finestra vicino a un cantuccio ornato di vari ricordi della madre defunta, leggeva il giornale, che teneva obliquamente dinanzi agli occhi per rimediare a una qualche debolezza della

NELLA LUNGA LETTERA CHE AVEVA SCRITTA DAVA NOTIZIA DEL FIDANZAMENTO vista. Sulla tavola c’erano i resti della colazione, che era stata consumata solo in minima parte. «Oh, Giorgio!» disse e gli venne subito incontro. La sua pesante veste da camera si apriva quando si moveva, e gli orli gli svolazzavano intorno. “Mio padre è ancora un gigante” pensò Giorgio. «Qui c’è un’oscurità insopportabile» disse poi. «Eh sì, è proprio buio» rispose il padre. «Tieni chiusa anche la finestra?» «Lo preferisco.» «Ma fuori fa proprio caldo» ribatté Giorgio come per concludere quel che aveva detto prima, e si sedette. Il padre portò via il vassoio della colazione e lo pose su di un cassettone. «Volevo soltanto dirti» continuò Giorgio, che seguiva tutto assorto i movimenti del vecchio «che ho finito per comunicare a Pietroburgo il mio fidanzamento». Tirò fuori un poco la lettera dalla tasca e ve la rinfilò poi subito. «A Pietroburgo?» domandò il padre. «Ma sì, al mio amico» rispose Giorgio cercando gli occhi del padre. E pensò: «In ufficio è tutt’un altro, come se ne sta seduto qui solennemente con le braccia incrociate sul petto». «Sì, al tuo amico» disse il padre scandendo le parole. «Sai pure, babbo, che da principio volevo passar sotto silenzio il mio fidanzamento. Per riguardo verso di lui e non per altra ragione. Lo sai anche tu che ha un carattere difficile. Io mi son detto: può venire a


saperlo da altri, benché sia poco probabile, data la vita solitaria che conduce; non lo posso impedire; ma io stesso non voglio essere il primo a dirglielo». «E ora hai cambiato idea?» chiese il padre mettendo il grosso giornale sul davanzale della finestra e sopra gli occhiali che coprì con la mano. «Sì, ci ho ripensato. Se egli è veramente un buon amico, mi son detto, allora questo fidanzamento, che è per me una fortuna, renderà felice anche lui. Perciò non ho più indugiato a comunicarglielo. Ma prima di imbucare la lettera ho voluto dirtelo». «Giorgio» disse il padre allargando la bocca sdentata. «Senti! Sei venuto da me per consigliarti con me in questa faccenda. Questo, senza dubbio, ti fa onore. Ma non è nulla, è men che nulla, se ora non mi dici tutta la verità. Non voglio rivangare cose che non hanno nulla a che vedere con questa. Dopo la morte della nostra cara mamma, ne sono accadute alcune non molto belle. Forse verrà anche per loro il momento giusto e forse prima di quel che non si pensi. In ufficio mi sfuggono molte cose, non dico che mi si nascondano – non voglio neppure farla per ora questa supposizione – non sono più abbastanza in forze, la mia memoria s’è indebolita, non riesco più ad abbracciare con un sol colpo d’occhio tutto l’insieme. In fondo è legge di natura e poi la morte della nostra mammina mi ha accasciato molto più di te. Ma giacché si è toccato questo argomento, giacché siamo a questa lettera, ti prego, Giorgio, non mi ingannare. È una piccolezza, non ne vale la pena di perderci il fiato, dunque non m’ingannare. Hai davvero questo amico a Pietroburgo?» Giorgio si alzò imbarazzato. «Lasciamo stare i miei amici. Mille amici non potrebbero sostituire mio padre. Sai cosa credo? Non ti riguardi abbastanza. Ma la vecchiaia ha i suoi diritti. Negli affari mi sei indispensabile, lo sai bene; ma se dovessero minacciare la tua salute, chiuderei la ditta domani stesso e per sempre. Così non va. Occorre trovare per te un altro tenor di vita. Cambiarlo radicalmente. Te ne stai qui al buio e in salotto potresti godere di una splendida luce. Tocchi appena la colazione, invece di nutrirti per bene. Stai qui chiuso con la finestra chiusa, mentre l’aria ti gioverebbe tanto. No, babbo! Chiamerò il medico e seguiremo le sue prescrizioni. Cambieremo camera, tu andrai in quella davanti e io verrò qui. Non avrai modo di notare il mutamento, perché porteremo di là tutte le tue cose. Ma c’è tempo per tutto ciò, ora mettiti intanto un po’ a letto, hai certamente bisogno

di riposo. Vieni, ti aiuterò a spogliarti, vedrai che ci riesco. O forse vuoi andare subito di là? Ti potresti coricare intanto nel mio letto. Sarebbe una cosa molto ragionevole». Giorgio si trovava vicinissimo al padre, che aveva lasciato cader la testa canuta e arruffata sul petto. «Giorgio» disse piano il padre, senza muoversi. Giorgio s’inginocchiò subito al suo fianco; vedeva nel volto stanco del padre le pupille dilatate che lo fissavano dagli angoli degli occhi. «Tu non hai nessun amico a Pietroburgo. Sei stato sempre un capo ameno e non ti sei arrestato neppure di fronte a me. Ma come potresti avere un amico proprio lì! Non ci posso proprio credere». «Ma ricordati, babbo», disse Giorgio sollevando il padre dalla poltrona e, mentre se ne stava faticosamente eretto, levandogli la veste da camera «saranno ora quasi tre anni che il mio amico venne a farci visita. Mi ricordo ancora che non ti era molto simpatico. Almeno due volte ho negato davanti a te che ci fosse, per quanto si trovasse proprio in camera mia. Comprendevo molto bene la tua avversione per lui: il mio amico è piuttostoun originale. Ma dopo hai finito per intrattenerti proprio cordialmente con lui. Ed ero tutto orgoglioso, allora, che tu lo avessi ascoltato, ESERCIZI DI STILE SU PROMETEO Un microracconto di Franz Kafka scritto nel 1915.

Di Prometeo trattano quattro leggende: Secondo la prima egli fu inchiodato al Caucaso, perché aveva tradito gli dèi a vantaggio degli uomini, e gli dèi mandavano aquile a divorargli il fegato sempre ricrescente. La seconda vuole che Prometeo, per il dolore procuratogli dai colpi di becco, si sia addossato sempre più alla roccia fino a diventare con essa una cosa sola. La terza asserisce che nei millenni il suo tradimento fu dimenticato; tutti dimenticarono: gli dèi, le aquile, egli stesso. Secondo la quarta ci si stancò di lui che non aveva più motivo di essere. Gli dèi si stancarono, la ferita – stanca – si chiuse. Rimase l’inspiegabile montagna rocciosa. – La leggenda tenta di spiegare l’inspiegabile. Siccome proviene da un fondo di verità, deve terminare nell’inspiegabile.

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DULCIS IN FUNDO approvato e gli facessi delle domande. Se ci ripensi, te ne ricorderai di certo. Raccontava, allora, delle storie inverosimili sulla rivoluzione russa. Per esempio, di aver visto durante un viaggio d’affari a Kiev, in un tumulto, un prete che incideva sul palmo della mano una grossa croce sanguinante e la levava poi in alto, chiamando a gran voce la folla. Tu stesso hai ripetuto questa storia ogni tanto». Intanto Giorgio era riuscito a rimettere il padre in poltrona, e a levargli le mutande di maglia che portava su quelle di lino, e anche a sfilargli i calzini. A veder quella biancheria non troppo pulita, si rimproverava di aver trascurato il padre. Sarebbe stato certo dover suo pensare anche al cambio della biancheria di suo padre. Con la fidanzata non aveva ancora studiato di proposito il modo di sistemare in futuro il padre, perché ambedue supponevano, tacitamente, ch’egli sarebbe rimasto solo nella vecchia dimora. Ora però decise senz’altro di prenderlo con sé nel futuro andamento della sua casa. E poteva sembrar quasi, a guardar le cose da vicino, che le cure che gli sarebbero state prodigate là, sarebbero giunte troppo tardi. Sulle sue braccia portò il padre a letto. Ebbe una sensazione orribile quando si accorse che mentre faceva quei pochi passi verso il letto, il padre, sul suo petto, giocherellava con la catena dell’orologio. E non riuscì subito a stenderlo nel letto, da quanto egli si teneva saldo alla catena. Appena fu a letto, però, tutto sembrò concluso felicemente. Il vecchio si coprì da sé tirandosi poi la coperta parecchio più in su delle spalle. Lo sguardo levato verso Giorgio non pareva ostile. «È vero che ora ti ricordi di lui?» domandò Giorgio ammiccandogli quasi per fargli animo. «Sono coperto bene ora?» chiese il padre, come se non potesse arrivare a vedere se i piedi fossero coperti abbastanza. «Ti trovi dunque bene a letto?» disse Giorgio incalzandogli ancora le coperte dalle parti. «Sono ben coperto?» ripeté il padre e parve fare molta attenzione alla risposta. «Stai pur tranquillo, sei coperto bene.» «No!» gridò il padre con tanta forza che la risposta s’incontrò quasi con la domanda e gettò indietro la coperta con tanto impeto che per un momento gonfiandosi, si stese tutta – e si rizzò sul letto. Solo con una mano si appoggiava un po’ al soffitto. «Mi volevi coprire, lo so, figliolino mio, ma coperto non sono ancora. Anche s’è l’ultimo sforzo, è più che sufficiente e anche troppo per te! Conosco bene il tuo

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amico. Sarebbe stato un figlio secondo il mio gusto. Perciò lo hai ingannato durante tutti questi anni. Per che altra ragione? Credi forse che non abbia pianto per lui? Soltanto perciò ti rinchiudi nel tuo ufficio, nessuno deve disturbarti – il direttore è occupato – e solo per scrivere le tue false letterine in Russia. Ma al padre per fortuna non c’è bisogno che nessuno insegni a conoscere il proprio figlio. E quando hai creduto di averlo messo a terra, tanto da potergli metter sopra il tuo sedere senza che egli osasse muoversi, ecco che il mio signor figlio si decide a prender moglie!» Giorgio alzò lo sguardo verso quella spaventosa immagine di suo padre. L’amico di Pietroburgo, che il padre conosceva d’un tratto così bene, lo colpì come ancora mai. Lo vedeva sperduto nell’immensa Russia, sulla soglia del negozio, vuoto, saccheggiato, ritto tra gli scaffali in rovina, la merce stracciata, e i bracci dei lumi a gas penzoloni. Perché era poi dovuto andare così lontano? «Ma guardami dunque!» gridò il padre, e Giorgio corse, quasi per distrazione, verso il letto, per afferrare tutto; a metà strada però si arrestò. «Perché ha alzato le sottane,» cominciò con voce flautata il padre «perché ha alzato le sottane a questo modo, quell’oca ripugnante» e per rappresentare la scena si tirò su la camicia tanto da scoprire sulla coscia la cicatrice della ferita riportata in guerra «perché ha alzato le sottane così e così, ti sei fatto innanzi, e per poterti saziare indisturbato hai profanato il ricordo di tua madre, tradito l’amico e ficcato a letto tuo padre, perché non si potesse più muovere. Ma si può muovere, sì o no?» Stava ormai ritto senza alcun sostegno, dimenando le gambe, raggiante del suo acume. Giorgio s’era rifugiato in un cantuccio, il più distante possibile dal padre. Già da un pezzo s’era fermamente proposto d’osservare tutto attentamente, per non venir colto alla sprovvista da qualche parte a tradimento, di dietro, dall’alto. In quel punto si ricordò di quel proposito da tempo dimenticato, e se lo dimenticò ancora, come quando si fa passare dalla cruna d’un ago un filo troppo corto. «L’amico invece non è ancora tradito!» gridò il padre, muovendo l’indice in qua e là come per rafforzare questa affermazione. «Io sono stato qui il suo difensore». «Commediante!» non poté trattenersi dall’esclamare Giorgio, ma si rese subito conto di aver fatto una mossa sbagliata e si morse, ma troppo tardi – cogli occhi sbarrati – la lingua, e così forte che dal dolore


si ripiegò su se stesso. «Ma certo che ho recitato una commedia! Commedia! È la parola giusta! Quale altra consolazione rimaneva al vecchio padre vedovo? Dimmi – e per l’attimo in cui mi risponderai sei ancora mio figlio – che mi rimaneva da fare nella mia camera nascosta, perseguitato dal personale infedele, vecchio come sono fino alle ossa? E mio figlio se ne andava lieto per il mondo, conchiudendo affari che io avevo preparato, facendo salti dalla gioia, passando dinanzi a suo padre con la faccia compunta di un galantuomo! Credi forse che non ti ho amato, io, da cui tu sei nato?» Ora si piegherà in avanti, pensava Giorgio, oh se cadesse e si fracassasse! Questa parola gli passò come un sibilo per il capo. Il padre si curvò in avanti, ma

GIORGIO S’ERA RIFUGIATO IN UN CANTUCCIO, IL PIÙ DISTANTE POSSIBILE DAL PADRE non cadde: vedendo che Giorgio non s’avvicinava, si raddrizzò ancora. «Rimani dove sei, non ho bisogno di te! Tu credi di avere ancora la forza di venir sin qui, e non ti muovi soltanto perché così vuoi. Non t’ingannare! Sono ancora il più forte e di molto. Da solo sarei stato costretto forse a cedere, ma la mamma mi ha ceduto la sua forza, col tuo amico ho stretto una magnifica alleanza, la tua clientela l’ho qui in tasca.» «Perfino nella camicia ha delle tasche!» si disse Giorgio credendo con questa osservazione di render inverosimile il padre davanti al mondo intero. Lo pensò solo per un istante, perché dimenticava sempre tutto di continuo. «Prendi pure a braccetto la tua fidanzata, e vienimi incontro! Te la spazzo via dal fianco, e non sai come!» Giorgio fece delle smorfie come per dimostrare che non ci credeva. Il padre fece solo un cenno con la testa verso il cantuccio dove si trovava Giorgio per confermare quel che diceva. «Come mi hai divertito oggi, quando sei venuto a chiedermi se dovevi scrivere al tuo amico del fidanzamento. Ma, stupidone, se sa già tutto, proprio tutto!

Gli ho scritto io, dal momento che hai dimenticato di togliermi la carta da lettere. Ed è perciò che non viene da anni, sa tutto cento volte meglio di te: le tue lettere le sgualcisce senza leggerle con la mano sinistra, mentre con la destra tiene spiegate le mie per leggerle». E agitava il braccio nell’esaltazione al di sopra della testa. «Sa tutto mille volte meglio!» gridò. «Diecimila volte!» disse Giorgio per derider il padre, ma già sulla sua bocca la parola assunse un’inflessione profondamente seria. «Già da anni sto aspettando da te questa domanda! Credi forse che mi interessi di qualche cosa d’altro? Credi ch’io legga i giornali? Ecco!» e gettò a Giorgio un foglio di un giornale che era capitato nel letto, chissà come. Un vecchio giornale, con un titolo che era completamente sconosciuto a Giorgio. «Quanto hai indugiato prima di arrivare a questo punto! La mamma ha dovuto morire, non s’è potuta godere questo giorno di felicità; l’amico sta finendo i suoi giorni in Russia, già tre anni fa era giallo da morire, e io, lo vedi da te, come son ridotto. Avrai pur gli occhi per vederlo!» «Dunque mi hai aspettato al varco!» gridò Giorgio. E il padre come tra sé rispose, con aria di compatimento: «Questo lo volevi dire forse prima. Ora è proprio fuori luogo». Poi più forte: «Ora sai dunque ciò che esiste al di fuori di te, finora non conoscevi che te stesso. Eri davvero un bambino innocente, ma ancor più un essere diabolico! E perciò sappi: ti condanno a morire affogato!». Giorgio si sentì cacciato fuori della camera, il tonfo che fece il padre dietro a lui cadendo sul letto, gli risuonava ancora negli orecchi. Sulla scala, scivolando giù dai gradini come se fosse un piano inclinato, urtò contro la donna di servizio che stava per salire a rimettere in ordine le stanze dopo la notte. «Gesummio!» gridò coprendosi il viso col grembiule, ma egli era già lontano. Saltò fuori del portone di casa, traversò le rotaie del tram, spinto irresistibilmente verso l’acqua. Già afferrava la ringhiera come un affamato prende il cibo. La superò con uno slancio, da quell’eccellente ginnasta ch’era stato da ragazzo, orgoglio dei genitori. Si trattenne ancora con mani che andavano indebolendosi, intravide tra le sbarre della ringhiera un autobus, che molto facilmente avrebbe soverchiato col suo rumore il tonfo della sua caduta, gridò piano: «Cari genitori, pure vi ho sempre amati» e si lasciò poi cadere giù. In quel momento sul ponte c’era un interminabile andirivieni di persone e di veicoli. ■

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CONTRIBUTI Elena Biagini, insegnante, attivista, ricercatrice indipendente, è autrice di L’emersione imprevista. Il movimento delle lesbiche in Italia negli anni ’70 e ’80 (Ets, 2018) e di molti articoli sulle stesse tematiche.

Nanterre e all’università di Bologna, è assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna. La sua ultima monografia è Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi (Carabba, 2020).

Umberto Bottazzini è stato ordinario di Matematiche complementari all’Università Statale di Milano. È fellow dell’American Mathematical Society e nel 2015 ha ricevuto l’Albert Leon Whiteman Prize. Fa parte del Comitato Editoriale di Prometeo.

Dario Oliveri insegna Storia della Musica Moderna e Contemporanea all’Università di Palermo. È stato direttore artistico dell’Associazione Siciliana Amici della Musica e ora coordina la Sezione musica del Festival delle Letterature Migranti. Il suo ultimo libro: Il caso Webern. Ricostruzione di un delitto (2021).

Marco Clementi è professore associato di Storia delle relazioni internazionali all’università della Calabria. Tra le sue pubblicazioni Storia della comunità ebraica di Rodi. Dalla convivenza alla distruzione (1912-1945), TAB Edizioni, 2021. Damiano Fedeli è giornalista professionista e fotografo freelance, collabora con quotidiani e periodici. Si è laureato in Letteratura greca a Firenze con una tesi sul poeta Arato di Soli. Chiara Franceschini insegna Storia dell’arte alla LMU di Monaco. Si occupa di arte, cultura visiva e storia rinascimentale e moderna. Fa parte del Comitato Editoriale di Prometeo. La sua ultima pubblicazione: Chapels in Roman Churches of the Cinquecento and the Seicento, con Patrizia Tosini e Steven F. Ostrow, Officina Libraria, 2020; Antonio Lucci è Visiting Scientist presso il Dipartimento di Scienze Filosofiche e dell’Educazione dell’Università di Torino. Ha svolto attività di ricerca per università europee, tra cui la Freie Universität e la Humboldt Universität di Berlino. Fa parte del Comitato Editoriale di Prometeo. Tra le sue pubblicazioni: La stella ascetica. Ascesi e soggettivazione in Friedrich Nietzsche (Roma 2020). Matteo Moca, dottore di ricerca in Italianistica all’Université Paris

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Alberto Oliverio Neurobiologo di rilievo internazionale, è tra i fondatori di Prometeo e fa parte del Comitato Editoriale. Oltre 300 pubblicazioni, il suo ultimo libro è Il cervello che impara, Giunti, 2017. Sabina Pavone insegna Storia moderna e della globalizzazione all’Università di Macerata. È nel Comitato scientifico delle riviste Il Capitale culturale e Journal of Jesuit Studies, e della “Société intérnationale d’études jésuites”di Parigi. Fa parte della Direzione Scientifica di Prometeo. Paola Persano insegna Storia del pensiero politico e Pensiero politico europeo e dello spazio globale presso l’Università di Macerata. Esperta del pensiero politico francese tra Sette e Ottocento, studia il dibattito internazionale sull’intersezionalità. Libera Pisano è attualmente ricercatrice presso l’Universidade Nova di Lisbona. In precedenza, presso l’Università di Amburgo e la Humboldt Universität di Berlino. Amanda Salvioni insegna Lingue e letterature ispanoamericane all’Università di Macerata È stata membro del Collegio Dottorale in Studi Americani a Roma III, del Direttivo del CUIA, di comitati editoriali di collane e riviste.

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ABBONAMENTI Abbonamenti: è possibile avere informazioni o sottoscrivere un abbonamento tramite: sito web: www.abbonamenti.it/mondadori; e-mail: abbonamenti@mondadori.it; telefono: dall’Italia tel.: 02 49572001; dall’estero tel.: +39 041.509.90.49. Il servizio abbonati è in funzione dal lunedì al venerdì dalle 9:00 alle 19:00; posta: scrivere all’indirizzo: Direct Channel SpA – C/O CMP Brescia – Via Dalmazia 13, 25126 Brescia (BS). L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi periodo dell’anno. L’eventuale cambio di indirizzo è gratuito: informare il Servizio Abbonati almeno 20 giorni prima del trasferimento, allegando l’etichetta con la quale arriva la rivista. Servizio collezionisti: I numeri arretrati possono essere richiesti direttamente alla propria edicola, al doppio del prezzo di copertina. La disponibilità è limitata agli ultimi 18 mesi, salvo esaurimento scorte. Per informazioni: tel. 045.8884400; fax 045.8884378; email: collez@mondadori.it STAMPA Elcograf S.p.A., via Mondadori, 15, Verona. PUBBLICITÁ Mediamond S.p.A. - Sede centrale: Palazzo Cellini Milano Due 20054 Segrate (Mi) Tel. 02.21025917 - email: info.adv@mediamond.it DISTRIBUZIONE Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20054 Segrate (MI) Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Milano al n. 15 del 15 Gennaio 1983. L’editore è a disposizione di eventuali aventi diritto qualora i medesimi vantino legittimamente dei compensi per la riproduzione delle immagini pubblicate all’interno di questo fascicolo. © Vietata ogni riproduzione anche parziale. Crediti: Le immagini degli articoli riportano i crediti dovuti. In assenza di specifica attribuzione, provengono da Mondadori Portfolio oppure sono credit free. MONDADORI MEDIA S.p.A. - 20054 Segrate (Mi)

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