Focus Storia 173 - marzo 2021

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Storia SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE

n°173

MENSILE –Austria � 9,20 - Belgio, Francia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna � 8 - MC, Côte d’Azur € 8,10 - Germania � 12,00 - Svizzera CHF 10,80 - Svizzera Canton Ticino CHF 10,40 - USA $ 11,50

marzo

COME IL PICCOLO POLITICO MUSSOLINI RIUSCÌ A PRENDERE IL POTERE E A IMPORRE IL REGIME FASCISTA

E DUCE FU BATTAGLIE

Sped. in A.P. - D.L. 353/03 art.1, comma 1, DCB Verona

E LE ARMI DA FUOCO STRAVOLSERO LE TECNICHE DI GUERRA

GLI SCI

STRUMENTO DI CACCIA E DI TRASPORTO, OGGI SPORT OLIMPICO

FIRENZE

LA MEDICI CHE SALVÒ I CAPOLAVORI DI FAMIGLIA


173 Marzo 2021

focusstoria.it

Storia

COPERTINA: BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO

6 NOVITÀ & SCOPERTE

GETTY IMAGES

8 TRAPASSATI ALLA STORIA

9 TECNOVINTAGE

10 UNA GIORNATA DA... 66 CURIOSO PER CASO NOVITÀ 68 MICROSTORIA 97 AGENDA

Se Firenze, per il suo patrimonio artistico, è unica al mondo, lo deve alla principessa Anna Maria Luisa.

Per far fronte al Covid si è ricorsi agli stessi strumenti messi in atto centinaia di anni fa.

Roma, 1920. Discorso di Mussolini al Colosseo.

RUBRICHE

dei Medici

ai tempi del Medioevo

1919-1929: VERSO LA DITTATURA 28 Tutti in piazza

Crisi economica, malcontento, debolezza politica... il mix esplosivo che favorì la scalata di Mussolini.

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L’ascesa del duce

Da capo di un piccolo movimento, in poco tempo Mussolini riuscì a governare l’Italia. Come ci riuscì?

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L’Africa a me

4 LA PAGINA DEI LETTORI

DINASTIE 12 L’ultima

16 IlSOCIETÀ lockdown

Emanuela Cruciano caporedattore

In copertina: fascisti in marcia sul ponte Salario, alle porte di Roma, il 28 ottobre 1922, e un ritratto di Mussolini dello stesso anno.

IN PIÙ...

L’

uomo della provvidenza, l’uomo forte, l’uomo che si prese l’Italia ferita dalla Grande guerra e la accompagnò dritta dritta verso un altro terribile conflitto. Come fece Benito Mussolini a conquistare il potere? Sul ruolo della provvidenza si può discutere, ma forte lo fu davvero: fosse solo per l’opportunismo politico con cui seppe dominare il re, disgregò le forze liberali, portò dalla sua parte la Chiesa, fino a imporsi in una solida dittatura. Col fascismo, con la sua ascesa e con il consenso, che inizialmente aveva estorto, il nostro Paese non ha mai finito di fare i conti. Anche perché tutti, o quasi, indossarono la camicia nera. Ed è anche per questo che abbiamo sentito il bisogno di affrontare di nuovo il decennio (dal 1919 al 1929) che, fra violenze e sogni di gloria, cambiò per sempre l’Italia.

CI TROVI ANCHE SU:

Come nel 1922 Mussolini riconquistò la Libia, a un costo in vite umane altissimo. Eppure fino a pochi anni prima era un fervente pacifista.

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Compagni di strada?

Il fascismo non ebbe un’arte di Stato. Ma i futuristi ne apprezzarono l’iniziale spirito iconoclasta e rivoluzionario.

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Personaggi chiave

I coprotagonisti dell’ascesa di Mussolini e gli antifascisti che gli diedero filo da torcere.

58 Il picconatore e i suoi architetti

Il connubio fra architettura e fascismo plasmò il Paese in nome del duce, che si sentiva un condottiero romano.

AMBIENTE 20 Ecostorie

Molti paesaggi che ci sembrano naturali nascondono le tracce di antiche attività umane.

70 IlCARTOGRAFIA mondo in tavole

Il dietro le quinte di un atlante storico, che nasce dal lavoro di statistici, illustratori, storici, geografi, cartografi...

LIBERO 74 TEMPO Con le ali ai piedi Da mezzo di trasporto a sport più o meno per tutti. Così si sono evoluti gli sci.

82 LoGRANDEStatoTEMAfragile

Il Kosovo è lo Stato più giovane d’Europa, e soffre ancora degli strascichi della guerra degli Anni Novanta.

ARTE MILITARE 90 L’alba della

guerra moderna Ecco come nel Cinquecento è cambiato il mestiere delle armi.

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SPECIALE Che cosa sappiamo della vita di Dante Alighieri a partire dalle opere, dai documenti dell’epoca e dai racconti del suo primo biografo, Giovanni Boccaccio? E in che modo lo hanno influenzato le vicende del suo tempo e la lotta

LA VOCE DELLA

STORIA

intestina che dilaniò Firenze tra guelfi bianchi (la sua fazione) e neri? Nel nostro podcast Dante è raccontato da Giorgio Inglese, docente di Letteratura italiana alla Sapienza di Roma e autore del recente saggio Vita di Dante.

Una biografia possibile (Carocci). In ascolto. Seguite il nostro podcast – curato dal giornalista Francesco De Leo – su www.focus. it/speciali/podcast-focusstoria-la-voce-dellastoria e sulle principali piattaforme di podcast.

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La Guerra civile americana e il Risorgimento

Riguardo all’articolo “L’America divisa” di Gastone Breccia, pubblicato su Focus Storia n° 171, vorrei ricordare che la storia nordamericana avrebbe potuto intrecciarsi, in parte, con quella del nostro Risorgimento. L’esercito nordista avrebbe potuto infatti essere comandato, fin dalle prime fasi della guerra, da Giuseppe Garibaldi. L’imprevista sconfitta di Bull Run, in Virginia, il 21 luglio 1861, convinse il governo del presidente Lincoln della necessità di ingaggiare un generale di “grido”: chi meglio del liberatore degli oppressi in camicia rossa (l’anno prima si era conclusa con successo la spedizione dei Mille)? Tuttavia le lunghe e complesse trattative fallirono. Il Generale rifiutò

l’offerta perché i nordisti lo volevano nominare solo generale d’armata mentre Garibaldi pretendeva il Comando Supremo dell’esercito e l’immediata Dichiarazione di Emancipazione degli schiavi. Atto solenne che avrebbe almeno ammantato lo scontro fratricida di un grande ideale etico. Quando finalmente Lincoln la emanò, il 1° gennaio 1863, Garibaldi lo chiamò allora “il pilota della libertà” e gli scrisse: ”Erede degli insegnamenti di Cristo e John Brown voi passerete alla Storia con il nome di Emancipatore, molto più invidiabile di qualsiasi corona e di qualsiasi umano tesoro” e inoltre fece chiamare un suo nipotino Lincoln. Il presidente americano però non gli rispose mai e Garibaldi continuò a combattere per la sua Italia. Fabio Lambertucci, Roma

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I NOSTRI ERRORI Su Focus Storia n° 172, pag. 62, nell’articolo “Pecunia non olet” scriviamo erroneamente che la firma dei Patti Lateranensi fu del 1923, invece che del 1929. Su Focus Storia n° 172, pag. 29, nell’articolo “Scacco matto” la foto di Fischer vs Spassky non è del match del 1972, ma dell’Olimpiade di scacchi del 1970. 5

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DINASTIE

I

L’ULTIMA DEI

MEDICI

MONDADORI PORTFOLIO

l 18 febbraio 1743 Firenze è spazzata da un terribile temporale. Sir Horace Mann, console britannico alla corte del Granducato di Toscana, scrive: “l’Elettrice si è spenta un’ora fa; […] È voce popolare che se ne è andata in una bufera di vento; ce n’è stata una violentissima stamani, e ha durato per circa due ore, e ora il sole risplende come prima” […]. Le persone indigenti, dimenticate dal testamento, sono convinte che il diavolo è venuto a prenderla in quel temporale che scoppiò così improvvisamente quando stava per morire, e si calmò al momento del trapasso”. Eh già, i fiorentini mugugnano. Anna Maria Luisa de’ Medici, l’elettrice del Palatinato, è

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morta proprio nei giorni di Carnevale: non poteva campare sino a inizio Quaresima? Ora le sue onoranze funebri impediranno ogni mascherata. Ma avevano lo sguardo corto, loro e sir Mann. Perché l’ultima della dinastia che aveva fatto grande la città del giglio non era stata da meno dei suoi importanti avi. E ben prima di morire, quando gli austriaci erano arrivati a governare il suo Granducato, aveva trovato il modo di conservare a Firenze lo sbalorditivo patrimonio della sua casata, assicurandole quasi tutto il patrimonio artistico che la rende ancora unica nel mondo. Se non fosse esistita Anna Maria Luisa, non potremmo ammirare la Galleria degli Uffizi, Palazzo Pitti, il Giardino dei Boboli, le Cappelle Medicee, la Biblioteca Laurenziana, il Museo di Galileo, il David di Donatello e altre meraviglie ancora. Inimmaginabile.

BELLA E FIERA. Ma facciamo un passo indietro per capire chi era questa donna così lungimirante. Anna Maria Luisa nacque nel 1667 da uno dei matrimoni peggio assortiti dell’intera dinastia, quello tra Cosimo III, il granduca di Toscana, e la duchessa Marguerite Louise d’Orléans, cugina del Re Sole, che non sopportava né Firenze né il marito, cui pure diede tre figli: Ferdinando Maria, Gian Gastone e la nostra protagonista. Nonostante l’inquieto clima familiare Anna Maria Luisa crebbe bella e forte d’animo: si dice che l’avvenenza le venisse dalla capricciosa madre francese, mentre la mente da

capo di Stato e il carattere fiero dal padre (che la adorava) e dalla nonna Vittoria Della Rovere, che la crebbe. Marguerite, infatti, se ne tornò in Francia per sempre quando la piccola aveva 8 anni. Così fu Vittoria a insegnare alla ragazzina a sentirsi fiera di essere una Medici, oneri e onori. Del resto Palazzo Pitti e i suoi giardini erano luoghi degni di una stirpe regale, e nella galleria di famiglia, che la bimba percorreva spesso con la nonna, comparivano due antenate che erano diventate regine di Francia: Caterina e Maria. Anna Maria Luisa riceve quindi un’ottima educazione: studia il latino, il francese e il tedesco, la musica e il canto. Abituata com’è a vivere tra tesori d’arte collezionati dalla famiglia da secoli, conosce e apprezza pittura, scultura e architettura. Non solo. Cavalca come un uomo, va a caccia e ama la buona tavola.

NOZZE TEDESCHE. Per una simile fanciulla il padre doveva cercare un matrimonio importante, che desse lustro a una casata in declino. «Quando Anna Maria Luisa aveva 16 anni, nel 1683, Cosimo III pensò di darla in moglie a Vittorio Amedeo II, figlio del duca di Savoia, che aveva ricevuto il titolo regale», spiega Barbara Frale, storica dell’Archivio Vaticano e consulente scientifica con Franco Cardini della serie televisiva I Medici. «Voleva fare di lei la regina d’Italia. Ma la Francia si oppose all’idea di mezza Penisola unificata». Le trattative per l’ereditiera d’oro, dopo una ridda di pretendenti, si indirizzarono allora sul potente elettore palatino, il principe Johann Wilhelm von PfaltzNeuburg, vedovo di una Asburgo, che si innamorò di lei vedendo un suo ritratto. Così l’elettore e Anna Maria Luisa si sposarono per procura il 29 aprile 1691 nel Duomo di Firenze, con gran fasto. Al banchetto di nozze, un contemporaneo 


CASSANA NICCOLÒ/GALLERIE DEGLI UFFIZI

Se Firenze è unica al mondo lo deve alla principessa Anna Maria Luisa, che rese inamovibile il patrimonio artistico della sua casata rimasta senza eredi. di Irene Merli

Affascinante

Anna Maria Luisa de’ Medici ritratta nel 1682-1683. La granduchessa era avvenente, cosa rara nella sua dinastia. Nell’altra pagina, Anna Maria Luisa e il fratello Ferdinando con la governante dipinti da Iustus Sustermans, pittore di corte dei Medici. 13

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Fin da bambina aveva vissuto tra le opere d’arte degli avi collezionisti. E da sposata fu una grande mecenate descrisse così la principessa: “Nella sua persona, è alta, ha una carnagione chiara, occhi grandi ed espressivi, neri come i capelli, la bocca piccola, labbra piene e denti bianchi come avorio”. Anna Maria Luisa partì poi per Düsseldorf, per incontrare il marito, accompagnata dal fratello minore Gian Gastone. Ma Johann Wilhelm, impaziente, le andrò incontro a Innsbruck, in Austria, per le nozze ufficiali. L’unione fra i due per fortuna fu serena, cementata da un sincero affetto e dal comune interesse per l’arte e la musica. Le giornate nella nuova corte tedesca, che apprezzava la grande raffinatezza della sposa italiana, passavano fra feste, spettacoli teatrali, balletti, concerti. L’elettrice fece addirittura edificare un teatro dove si rappresentava Molière e insieme al marito costruirono un sontuoso castello a Bensberg dove poterono sfogare la passione per il mecenatismo, chiamando maestri fiamminghi, olandesi, italiani e tedeschi. Ma il loro matrimonio restò senza eredi. E quando l’elettore morì nel 1716, la principessa vedova tornò nella città che le era sempre rimasta nel cuore. Negli anni vissuti in Germania, infatti, visitando molti borghi, aveva continuato a pensare che per “voler che queste città paressero belle, bisognerebbe non essere nata a Firenze”. Il suo ricordo non l’aveva mai abbandonata, e l’elettrice aveva sempre mantenuto fitti legami epistolari con il padre, parenti e amici.

FIRENZE, DI NUOVO. Al ritorno “a casa”, un anno dopo la scomparsa del marito, Anna Maria Luisa trovò una situazione difficile: il fratello maggiore, Ferdinando, era morto di sifilide nel 1713 e non aveva avuto figli, il fratello Gian Gastone, sposato a forza ad Anna Maria Francesca di Sassonia (lui era omosessuale), la detestava per aver caldeggiato le sue nozze infelici e si era rivelato sterile pure lui. Sugli ultimi tre Medici sembrava essere caduta una maledizione. Il padre, ormai molto anziano, fu l’unico che l’accolse con gioia e visto il disastro compiuto dai figli maschi cercò con ogni forza di fare di lei il suo successore. Ma dall’Europa ancora una volta arrivò un no deciso a una granduchessa regnante e ad Anna Maria Luisa restò solo il titolo di prima donna del Granducato. Nel 1723, dopo aver regnato per 53 anni (il regno più lungo della dinastia), Cosimo III morì. A succedergli fu il debole e debosciato Gian Gastone. Quando anche lui se ne andò, nel 1737, lasciò la Toscana in balìa delle mire di Spagna e Austria. A prevalere furono gli Asburgo e quindi, con l’estinzione del casato Medici per mancanza di eredi, il Granducato di Toscana passò sotto il controllo del duca di Lorena; ad Anna Maria Luisa andarono tutti gli sbalorditivi tesori d’arte della famiglia, le vesti di Stato, le proprietà nel Ducato d’Urbino (eredità della nonna Vittoria della Rovere), oltre a un’ingente somma di denaro. E le

In morte e in malattia

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ulla salute (e sulla morte) di Anna Maria Luisa de’ Medici, girava voce che fosse malata di sifilide, infezione a trasmissione sessuale passatale, sempre secondo le malelingue, dal marito. Proprio questa malattia sarebbe stata la causa della sua sterilità (si recò anche alle terme di Aquisgrana per curarla) e, in seguito, della sua morte. Ci ha pensato la scienza, molti anni dopo, a fare chiarezza. Quando nel 2012 sono state riesumate le ossa della Medici (dalla Chiesa di San Lorenzo, all’epoca non ancora completa e per la quale la nobildonna aveva destinato una parte delle proprie rendite in perpetuo fino alla conclusione dei lavori), l’esame del Dna ha escluso la sifilide e ha rivelato un probabile tumore al seno. In effetti era difficile a quell’epoca arrivare a 75 anni – età in cui morì – con il morbo gallico, mentre anche il console britannico sir Horace Mann parlò di morte per un “forte peso al petto”. Quanto al marito, morì a 58 anni per attacco di cuore.

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Lo sposo potente

Anna Maria Luisa con il marito Johann Wilhelm, principe elettore del Palatinato, in abiti ufficiali. A destra, un’immagine di Palazzo Pitti e il Giardino di Boboli.

venne concesso di rimanere a vivere in un’ala di Palazzo Pitti come un’ospite: riceveva sotto un baldacchino listato di nero nella sala delle udienze e viveva tra mobili tutti d’argento, dai tavoli ai paraventi.

L’ASSO NELLA MANICA. Tutto sembrava finito tristemente, per i Medici. In città era arrivato un pacchiano principe francese a governare in nome degli Asburgo-Lorena. Ma è qui che avvenne il colpo di scena. La volitiva Anna Maria Luisa, orgogliosa della sua dinastia, del suo cognome e della sua splendida città, aveva consultato febbrilmente gli avvocati per evitare quello che aveva visto avvenire a Parma, a Urbino e a Ferrara: i capolavori di proprietà della casata decaduta portati nelle capitali dei nuovi dominatori o dispersi in mille rivoli sul mercato. Così, al momento di nominare suo


MONDADORI PORTFOLIO (3)

erede universale Francesco di Lorena, quella donna intelligente, coltissima e lungimirante tirò fuori dalla manica l’asso di cuori: il cosiddetto Patto di Famiglia. Con questa Convenzione stipulata nel 1737, al terzo articolo la principessa “cede, dà e trasferisce al presente S.A.R. (Sua Altezza Reale) per Lui, e i Suoi Successori Gran Duchi, tutti i Mobili, Effetti e Rarità della successione del Serenissimo Gran Duca suo fratello, come Gallerie, Quadri, Statue, Biblioteche, Gioie ed altre cose preziose, siccome le Sante Reliquie e Reliquiari, e loro Ornamenti della Cappella del Palazzo Reale, che S.A.R. si impegna di conservare, a condizione espressa che di quello [che] è per ornamento dello Stato, per utilità del pubblico e per attirare la curiosità dei Forestieri, non ne sarà nulla trasportato, o levato fuori della Capitale, e dello Stato del Gran Ducato”. Capita la mossa? Molto tempo prima

delle moderne leggi di conservazione e tutela del patrimonio culturale, Anna Maria Luisa de’ Medici sapeva che quelle opere erano Firenze e che Firenze era quelle opere, allora come oggi. Nel Patto di Famiglia menzionava gli oggetti appartenenti alla sua casata, realizzati o acquistati per passione dai Medici uno per uno: non dovevano servire per pagare i debiti degli austriaci! La principessa decise così di legare tutto il complesso dei beni delle collezioni medicee alla città, rendendo impossibile spostarli dai luoghi originari o venderli. Con il Patto di Famiglia vincolò quei preziosi tesori a Firenze, alla sua storia e alla sua gloria. E l’accordo era così chiaro che quando arrivò Napoleone non riuscì a portare via nulla, proprio perché mai l’avevano potuto fare i Lorena, astutamente definiti “conservatori” di bellezze inamovibili. Così, Anna Maria Luisa fu l’ultima grande mecenate di casa Medici, al pari di Lorenzo il Magnifico e Piero il Gottoso. Ma quanti di quelle migliaia di turisti che si accalcano a Firenze la conoscono e sanno ciò che aveva acutamente pensato e tenacemente voluto per “utilità del pubblico e attirare i forestieri”? Se vi capiterà di

andare o di tornare alla Galleria degli Uffizi, appena entrati, guardate il grande ritratto di una bella donna bruna in abiti settecenteschi, proprio sopra la biglietteria. Vedrete lei, l’ultima dei Medici, pronta ad accogliervi in quella che per tre secoli è stata la casa della sua • “magnifica” famiglia.

In età matura L’elettrice in abito vedovile; il ritratto fu commissionato post mortem da un discendente di un ramo collaterale.


L’AFRICA

PRIMO PIANO

A ME

Come nel 1922 Mussolini riconquistò la Libia con i crimini di guerra.

di Anita Rubini


chiamava Libia. L’ultimatum, rispedito al mittente da Costantinopoli, aprì la strada alla guerra italo-turca.

ULTIMA CHANCE. «Negli ultimi tre decenni dell’Ottocento i principali Stati europei si lanciarono in una gara sfrenata, volta a conoscere, controllare e occupare quanto rimaneva di “libero” nel resto del pianeta», scrive Nicola Labanca, docente di Storia contemporanea all’Università di Siena nel suo saggio La guerra italiana per la Libia (il Mulino). «E alla fine dell’800 questa plurisecolare curva dell’espansione europea poteva dirsi quasi conclusa: non c’era praticamente più nulla da occupare». Fuori dal dominio o dal controllo del Vecchio Continente rimanevano la Cina e, in Africa, la grande Etiopia e la piccola Liberia. E poi un ampio spazio per gran parte desertico sulle sponde del Mediterraneo, che però non era propriamente libero visto che era controllato dall’Impero ottomano, considerato il malato d’Oriente, che si stava rapidamente sgretolando dopo 600 anni di storia. Lo “scatolone di sabbia” includeva il vilayet (leggi: provincia guidata da un pascià) di Tripoli, il sanjak (sangiaccato, altra suddivisione amministrativa dei turchi) di Bengasi e il Fezzan 

Maniere forti

Oasi di Bugàra (Libia), 20 marzo 1937: Benito Mussolini brandisce la “Spada dell’islam” ricevuta in dono dai libici. Il duce aveva dato ordine di riprendere il controllo della Libia nel 1922, ma per piegare la resistenza furono usati anche campi di concentramento.

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GAMMA-KEYSTONE/GETTY IMAGES

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rrestato e incarcerato per mesi per aver protestato contro l’invasione della Libia. L’improbabile pacifista è nientemeno che Benito Mussolini. Era il 27 settembre 1911 e Mussolini – allora socialista – aveva marciato a fianco del suo amico Pietro Nenni (allora repubblicano e futuro antifascista) a una manifestazione contro la guerra che l’Italia voleva intraprendere contro l’Impero ottomano per strappare ai turchi la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan. Il partito dei contrari includeva anche Gaetano Salvemini per il quale quei territori non erano altro che uno “scatolone di sabbia”. Noncurante delle proteste, il governo italiano – liberale e condotto da Giovanni Giolitti – aveva consegnato appena il giorno dopo, il 28 settembre, un ultimatum ai turchi per il controllo di quell’area che ancora non si


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a carriera militare di Rodolfo Graziani era iniziata durante la Grande guerra, dopo la quale fu mandato in Libia, dove portò a termine la riconquista della Tripolitania nel 1924 e della Cirenaica nel 1930, con metodi spietati che gli valsero la fama di “macellaio degli arabi”. Ma la sua opera non finì lì. Nominato nel 1935 governatore della Somalia, durante la Guerra d’Etiopia guidò le operazioni sul fronte sud, ordinando anche bombardamenti con gas asfissianti. Spietato. Succeduto a Badoglio come viceré d’Etiopia, ordinò durissime repressioni nei territori conquistati. Migliaia furono i morti della rappresaglia seguita al fallito attentato di cui fu oggetto nel 1937. Al comando delle forze armate in Africa Settentrionale nella Seconda guerra mondiale, ma rimosso dopo le prime gravi sconfitte, fu richiamato da Mussolini per ricostruire l’esercito della Rsi: sua la firma del bando di condanna a morte per renitenti alla leva e partigiani. Dopo la Liberazione, consegnatosi agli Alleati, fu condannato a 19 anni di carcere. Amnistiato nel 1950, divenne presidente onorario del Movimento sociale italiano e morì nel 1955.

(nel cuore del Deserto del Sahara), insomma quello che l’Italia avrebbe poi chiamato Libia. Ed è proprio in quel territorio che Giolitti decise di intraprendere una guerra coloniale fuori tempo massimo. L’obiettivo? Rendere “l’Italia più grande”, proprio ora che aveva appena compiuto i suoi primi cinquant’anni. La Libia però era un salto nel vuoto e per convincere l’opinione pubblica furono fatte circolare un po’ di fake news: «Piccole oasi realmente esistenti furono trasformate in lussureggianti pianure, stentate coltivazioni in ricche piantagioni, commerci carovanieri ormai in decadenza in commerci sempre floridi», precisa Labanca. «La propaganda coniò l’immagine dell’arabo desideroso di scrollarsi di dosso l’oppressione ottomana e schierarsi con gli italiani una volta sbarcati».

PRIMA PARTE. Quella che iniziò nel 1911 fu la fase italo-turca della lunga guerra italiana per la Libia: «Alcuni aspetti delle operazioni del 1911-1913 anticiparono le azioni più spietate che sarebbero state condotte nello stesso teatro dall’Italia liberale negli anni immediatamente successivi al 1913 e dal regime fascista negli anni Venti», scrive l’esperto. L’impiego di forze armate fu massiccio, con l’uso per la prima volta di aerei da combattimento per bombardare e terrorizzare la popolazione, e l’impresa fu ben lungi da essere priva di violenze razziste: soprattutto non assicurò all’Italia la “quarta sponda” ma fu solo un primo passo della guerra nordafricana. Chiusa la partita coi turchi si aprì infatti quella con i libici. Non senza sorprese. I governi liberali tra il 1913 e il 1921 avrebbero probabilmente voluto ridurre l’impegno militare in Libia ma a quel punto ci si dovette difendere da una grande rivolta araba: diminuì progressivamente il territorio controllato ma crebbe il numero di soldati coinvolti con i reparti libici che combattevano a fianco degli italiani pur di non subire rappresaglie.

CAMBIO DI MARCIA. Concluso il conflitto mondiale – durante il quale le posizioni italiane si erano ridotte alla Tripolitania e a poche roccaforti costiere in Cirenaica – andavano riprese le redini della colonia. Quando Mussolini prese il potere nel 1922 aveva scordato le proteste contro l’occupazione che lo avevano portato in carcere e sognava gli antichi fasti dell’Impero romano (v. riquadro nella pagina accanto). Le direttive Rodolfo Graziani a Cufra, principale del duce si sintetizzarono in due centro dei ribelli Senussi, nel 1931. parole: “Pestare sodo”. Pietro Badoglio e il giovane colonnello Rodolfo Graziani (v. riquadro a sinistra) furono i protagonisti di questa nuova fase. La Riconquista, come fu definita, durò dal 1922 per 10 anni e fu portata avanti con feroce decisione dal regime

fascista. Terminò di fatto il 16 settembre 1931, giorno dell’esecuzione del capo della resistenza armata della Senussia, in Cirenaica, ovvero Omar al-Mukhtar. Ma che cosa cambiò con il regime fascista? L’intera popolazione, non più solo gli uomini della resistenza, era diventata il nemico. “Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa”, scrisse Badoglio, dal 1928 governatore della Cirenaica e della Tripolitania (con Graziani, suo vice dal 1930). “Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine, anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica”. L’ultimo capitolo della guerra italiana per la Libia non sarebbe stato più solo un’operazione militare. La strategia italiana divenne totale nell’atmosfera del fascismo ormai instaurato. E lo sterminio non era più escluso.

MISSIONE: GENOCIDIO. Per piegare la popolazione si procedette a disarmarla con rastrellamenti e perquisizioni. La Cirenaica nel 1931 fu ermeticamente chiusa a est con un reticolato lungo 270 km: si interruppero così i commerci e gli aiuti che venivano dall’Egitto e dalla confraternita musulmana dei Senussi attorno a cui si era organizzata la resistenza e che si era rifugiata lì. Si iniziò quindi a battere a tappetto la regione con una formazione composta da pochi bianchi, molte truppe indigene, armi pesanti supportate da autoblindo e aeroplani. Arrivavano dal cielo anche “tribunali militari volanti”, ovvero tribunali che atterravano sul posto in aereo per emettere le loro sentenze. In questo quadro si aggiunse la creazione di campi di concentramento in cui veniva segregata la popolazione. A scatenarsi contro la notizia non fu solo l’opinione pubblica araba ma anche quella internazionale. «Dopo l’indignazione per l’aggressione all’Impero ottomano nel 1911, era la seconda volta che la comunità e l’opinione pubblica internazionali biasimavano il comportamento italiano, prima liberale ora fascista, in Libia», racconta lo storico. Ma all’indignazione non seguì molto altro. Il vero dramma fu per la popolazione: furono imposte deportazioni e sedentarizzazione, spezzati legami etnici, le marce di trasferimento erano durissime e vi morirono in tantissimi (compreso il bestiame, tanto prezioso). «Per popolazioni seminomadi, abituate da secoli a muoversi e a transumare con armenti e greggi, la

MONDADORI PORTFOLIO

Graziani, il “macellaio degli arabi”


Passerella

Benito Mussolini, allora presidente del Consiglio, passa in rassegna le truppe italiane schierate a Tripoli, nel 1926.

A cominciare dalla Libia, Mussolini voleva rifondare il glorioso Impero romano sedentarizzazione era una punizione difficilmente tollerabile», spiega l’esperto. Inoltre quei pastori da generazioni furono costretti a improvvisarsi coltivatori in orti coloniali, un’occupazione per loro degradante. Risultato? In Cirenaica morirono alcune migliaia di persone (su poco meno di 100mila abitanti visto che la metà costiera e stanziale della regione non fu coinvolta nelle misure di concentramento) ma tuttora i dati precisi non si conoscono. Fu a tutti gli effetti un genocidio: la repressione riguardò infatti un gruppo etnico ben definito, ovvero i seminomadi e i nomadi beduini del Gebel e del deserto. Ma il regime si curò poco di questi danni, anzi. Graziani definì la sua un’azione umanitaria dato che i beduini – diceva lui – accettando la segregazione evitarono che l’intervento militare fosse più deciso, e godettero pure di assistenza sanitaria.

BRAVA GENTE? I campi e la violenza finirono per logorare la resistenza: fra aprile e settembre 1931 il cerchio si strinse attorno a Omar al-Mukhtar. Catturato l’11 settembre, fu sottoposto a un processo farsa: la condanna

capitale era già stata decisa a Roma prima dell’inizio del dibattimento. Il leader della resistenza fu impiccato il 16 settembre sullo spazio centrale del campo di concentramento di Soluch. Lo sfregio finale. «Oltre al luogo anche le modalità della morte furono violente, visto che l’impiccagione urta particolarmente la sensibilità islamica», precisa infatti Labanca. La resistenza non cedette di schianto ma il successivo gennaio il maresciallo Badoglio dichiarò stroncata la ribellione interna. «Tra la fine degli anni Venti e la metà degli anni Trenta, mentre fra Londra e Nuova Delhi si discuteva già di riforme coloniali, Roma ordinava la riconquista militare della Somalia e della Libia, organizzava i campi di concentramento sulle sponde del Mediterraneo, avviava una politica che avrebbe portato alla legislazione razziale e infine aggrediva l’Etiopia», conclude Labanca. «Difficile trovare maggiore contrasto, a dispetto di ogni teoria degli “italiani brava gente”». E pensare che Mussolini solo vent’anni prima era disposto a farsi mettere le manette pur di dire no alla • colonizzazione.

Il sogno dell’impero

I

l 9 maggio 1936 Mussolini annunciò la “riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma”: si chiudeva così la guerra di conquista dell’Etiopia che si aggiungeva alla Libia e alle altre due colonie del Corno d’Africa, Eritrea e Somalia. L’Italia aveva il suo “posto al sole” tra le potenze coloniali grazie all’Africa Orientale Italiana. C’erano voluti solo sette mesi per conquistare l’Etiopia, anche per l’uso di gas e bombardamenti a tappeto: il bilancio fu di 4mila morti tra italiani e àscari e di 250mila etiopi uccisi. Tutto per l’illusione di un impero che assicurasse il massimo del consenso popolare al duce. 43

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