Msoi thePost Numero 41

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino

RUSH TO THE WHITE HOUSE Sei approfondimenti per capire le elezioni americane


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

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N u m e r o

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RUSH TO THE WHITE HOUSE Sei approfondimenti per capire le elezioni americane

UNA PARTITA ANCORA APERTA? Come l’elettorato americano resta diviso tra Clinton e Trump Di Silvia Perino Vaiga Manca ormai davvero poco: meno di 20 giorni separano gli Stati Uniti dall’elezione del loro 45° Presidente. E, sebbene la storia insegni che i giochi rimangono sempre aperti fino all’ultimo giorno, possiamo ormai delineare con ragionevole certezza i profili di quest’elezione. Due candidature fortemente polarizzate, un contesto sociale in mutamento e poi i sondaggi, che sembrano ormai aver sancito una divaricazione delle intenzioni di voto decisamente favorevole a Hillary Clinton.

Il terzo e ultimo dibattito, quello di mercoledì 19, potrebbe essere stato in questo senso decisivo. Se già prima del confronto la candidata Dem si attestava nei sondaggi con un vantaggio di 6 punti percentuali, dopo la performance di mercoledì notte, il nome di Clinton sembra destinato a volare nelle prossime settimane. Ciononostante, il candidato del GOP non accenna a mollare la presa, minacciando addirittura di non riconoscere l’esito delle elezioni, nel caso in cui queste lo dessero come sconfitto. Al netto dell’intrinseca spavalderia del suo personaggio, Trump può esprimersi in questi termini anche perché resta comunque forte del sostegno di una parte di elettorato, che verosimilmente non lo abbandonerà fino all’8

novembre. Alla luce di questi dati, vale la pena di chiedersi come i voti si distribuiscano all’interno della popolazione americana o, in altre parole, in quali segmenti di elettorato abbia fatto breccia il messaggio dei due candidati. Come detto, in questa elezione il dibattito ha assunto toni fortemente polarizzati: ciò si deve sostanzialmente a due set di fattori. Il primo – e più immediato – include le scelte comunicative dei candidati, che hanno delineato uno scenario divisivo piuttosto che inclusivo. Il secondo – e più profondo – riguarda invece il declino che la classe media americana sta attualmente subendo. Questo restringimento della middle class risulta inevitabilmente in

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un’esasperazione delle ineguaglianze, che si rispecchia anche nelle scelte di voto dei cittadini americani. Se fino a un decennio fa la maggioranza degli americani si identificava come appartenente alla middle class, oggi il 47% ritiene di rientrare nella lower class: quella fascia di popolazione che, anziché coltivare ambizioni di crescita, lotta per salvaguardare il poco che ha. All’interno di questo nuovo, prominente, spaccato di popolazione trovano spazio, da un lato, una rivendicazione di maggiore uguaglianza tutta democratica, dall’altro, un certo tipo di messaggio populista e nazionalista che Trump ha fatto suo. In poche parole: ogni candidato alla presidenza sa bene quali sono gli strati della popolazione ai quali il suo messaggio piacerà di più. Riducendosi la popolazione al centro dello spettro ideologico, le campagne si giocano sempre più sulle periferie. E per questo diventano in parte più prevedibili. Vale perciò la pena di soffermarsi sulle caratteristiche dei supporter di Donald Trump e Hillary Clinton, delineando un ideale identikit dei rispettivi elettori. 4 • MSOI the Post

Cominciamo da Trump. Fin dalla campagna per le primarie, il candidato si è nettamente discostato dal messaggio tipico del Partito Repubblicano. Il suo elettorato tipo tende perciò a essere meno istruito e meno benestante rispetto a quello che potremmo immaginare come il “repubblicano medio”. Sentendosi in qualche modo vulnerabile, l’elettore di Trump è spaventato da un’immigrazione che rischia di danneggiare l’economia e allo stesso modo si mostra scettico di fronte al libero scambio. Per gli stessi motivi, rivendica il diritto di essere armato e non disdegna forme di autoritarismo quanto mai lontane dal modus operandi dell’establishment repubblicano. Riportando una linea sostenuta da Vox, lo zoccolo duro degli elettori di Donald Trump rappresenta dunque una minoranza, seppur coesa, chiassosa e propensa a farsi sentire. Dall’altra parte della barricata, troviamo invece i sostenitori di Hillary Clinton. Moderati, istruiti ma internamente più eterogenei. Si tratta, sempre citando Vox, di una maggioran-

za “silenziosa”, proprio perché composita e fatta (anche) di minoranze. Il popolo dei democratici oggi accoglie neri e ispanici, e registra un alto tasso di donne – una tendenza che gli ultimi scandali ai danni di Trump promettono di accelerare. Ma c’è di più: la coalizione pro-Clinton si compone anche di più del 70% della comunità LGBT americana, oltre che di una larga fetta della popolazione ebraica. Si tratta insomma di quell’elettorato democratico che 8 anni fa ha eletto il primo Presidente nero e che oggi sembra pronto a eleggere la prima donna alla Casa Bianca. Ma se la sponda democratica si delinea come maggioritaria, cosa sta impedendo a Clinton di staccare definitivamente il suo avversario nei sondaggi? Perché la distanza tra i due contendenti continua a non essere enorme? Una parziale risposta sta proprio nell’entusiasmo degli elettori, e nella forza delle loro intenzioni di voto. In parole povere: gli elettori di Trump sono convinti della loro scelta e sono più determinati ad andare a votare a


novembre. Secondo un sondaggio condotto dal Washington Post, infatti, il 93% dei sostenitori del magnate si dichiara sicuro di andare alle urne, contro l’80% dei supporter dell’ex First Lady. Di qui la strenua campagna che i democratici stanno portando avanti per invitare la popolazione al voto, campagna della quale il Presidente uscente Obama è tra i massimi fautori. La responsabilità di tale scarto è da imputare, in parte, alla stessa Clinton, la quale è di per sé un candidato polarizzante e certo non caro alla sinistra più intransigente. Un’altra, parziale spiegazione l’ha offerta Barack Obama, il quale solo poche settimane fa suggeriva che un substrato

sessista nella cultura americana ancora impedisce a qualcuno di immaginare una donna alla guida della nazione più potente al mondo. Che sia vero o no, nulla impedisce di immaginare che queste resistenze possano essere facilmente contenute da chi invece crede che sia ora di avere una donna alla Casa Bianca – ed è quindi intenzionato a votare Hillary anche in forza del suo essere donna. Speculazioni e personalismi a parte, la verità potrebbe affondare le sue radici proprio nella natura intrinseca della democrazia statunitense, ossia nella sua polarizzazione strutturale. La storia degli ultimi decenni dimostra infatti che anche per il candidato più forte un distacco

a due cifre è quasi un’utopia - non accade infatti dalle elezioni del ’72, quando Nixon sbancò con un distacco di oltre 23 punti percentuali. Ciò a dimostrazione che, indipendentemente dalla popolarità dei candidati, i cittadini americani restano ancorati alle loro tradizionali fedeltà di partito. Insomma, i fattori in gioco sono moltissimi e suggeriscono di andare cauti con i trionfalismi anticipati. Come visto, l’elettorato americano sta delineando la sua scelta, ma per conoscerne il verdetto non si può che aspettare la notte dell’8 novembre, quando sarà finalmente la democrazia a fare il suo gioco.

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EUROPA 7 Giorni in 300 Parole

AUSTRIA 17 ottobre. La casa natale di Adolf Hitler a Braunau am Inn sarà abbattuta: al suo posto sorgerà un nuovo edificio, senza nessun legame con Hitler o il nazismo. L’edificio è rimasto negli anni un simbolo per molti neonazisti, che si radunavano ogni anno il 20 aprile per festeggiare il compleanno del dittatore tedesco. SERBIA 17 ottobre. Srebrenica, la città simbolo della guerra in Bosnia, dove ebbe luogo il massacro del 1995, ha eletto un sindaco nazionalista serb, che nega che quanto avvenuto della sua città sia stato un genocidio. Mladen Grujicic, primo serbo eletto al governo della città in 20 anni, sostiene che i serbi siano discriminati a Srebrenica, e che il Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia non abbia mai provato con certezza le accuse di genocidio. “Quando lo faranno,” ha detto il neo-sindaco “sarò il primo ad accettarlo.” FRANCIA 15 ottobre. Si è tenuta a Nizza una commemorazione per le 86 vittime della strage del 14 luglio, quando un uomo alla guida di un autocarro ha deliberatemene investito la folla radunata per le celebrazioni della festa nazionale francese. Il presidente Hollande ha ricordato le vittime e ribadito l’impegno della Francia contro il gruppo IS. “I terroristi attaccano per spaventarci e creare divisioni, 6 • MSOI the Post

PRIMARIE VERSO DESTRA

Primo confronto dei repubblicani francesi: direzione presidenziali 2017

Di Giulia Capriotti È trascorso quasi un mese da quando i repubblicani hanno convalidato le loro candidature alle primarie francesi. Nonostante siano 7 coloro che avranno la possibilità di rappresentare la destra alle elezioni presidenziali del 2017, la vera sfida sembra giocarsi tra Nicolas Sarkozy e Alain Juppé. Il primo a tenere un grande meeting elettorale, lo scorso 9 ottobre, è stato l’ex capo di Stato, che ha ribadito i valori del nazionalismo e del repubblicanesimo, ricordando che “la vera modernità è osare restituire la parola al popolo francese”. Eppure, queste dichiarazioni non sembrano giocare a suo favore. Dai primi sondaggi, infatti, è emerso il vantaggio di Juppé, che sarebbe in testa con il 42%, contro il 28% del suo principale avversario. I francesi sembrano convinti dalla personalità e dall’immagine pubblica di Alain Juppé, mentre nei confronti di Sarkozy si avverte un senso di rifiuto. Il primo dibattito televisivo, tenutosi il 13 ottobre, ha confermato questi dati. Da un sondaggio dell’istituto Kantar Sofres risulta che il 36% dei telespettatori ha ritenuto Juppé il più valido dei candidati, mentre solo il 22% ha preferito Nicolas Sarkozy.

Quest’ultimo si è concentrato sui temi della diversità e dell’integrazione, sottolineando “la tradizione d’accoglienza della Francia”, ma ricordando al contempo che chi arriva nel Paese deve dimostrare “una volontà reale e sincera di integrarsi alla comunità nazionale”. In questo campo Sarkozy ha attaccato Juppé, che secondo lui sta preparando “un’alternanza morbida e impotente”. Gli altri candidati non sembrano riscuotere molto successo. François Fillon e Bruno Le Maire si attestano all’11%. Il primo porta avanti una campagna liberale e durante il dibattito ha promesso che, in caso di vittoria, abrogherà la legge sui matrimoni tra omosessuali. Le Maire, invece, ha posto l’accento sul rinnovamento, sulla trasparenza e sull’onestà. Nathalie Kosciusko-Morizet, Jean-Frédéric Poisson e JeanFrançois Copé rimangono tra il 3 e l’1%. Gli altri momenti di dibattito televisivo per i candidati sono previsti per il 3, il 17 e il 24 novembre, giorno in cui si confronteranno solo i finalisti. Tra il 20 e il 27 novembre, inoltre, i francesi saranno chiamati al voto: chi dei 7 uscirà vincitore affronterà Marine Le Pen alle presidenziali nell’aprile del prossimo anno.


EUROPA ma falliranno. Unità, libertà e umanità vinceranno alla fine.” SPAGNA 18 ottobre. Dozzine di migranti occupano un centro di detenzione per immigrati di Madrid dopo aver precedentemente inscenato proteste in piazza. I migranti, che hanno passato la notte sul tetto con striscioni inneggianti alla libertà, protestano contro le dure condizioni di vita nei centri, che definiscono “come da prigione”, tra il sovraffollamento e la mancanza di servizi igienici e di interpreti. Il sindaco di Madrid, Manuela Carmena, si dichiara solidale alle proteste via twitter. “I diritti umani sono importanti,” ha postato martedì.

UNIONE EUROPEA 20 ottobre. Non ci sarà un secondo referendum sulla Brexit, ribadisce Theresa May in preparazione per il suo intervento alla cena con i leader europei durante il summit di giovedì. Il Primo Ministro britannico ha intenzione di concentrarsi sulle trattative per l’uscita, ma il Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk si rifiuta di prendere in considerazione l’avvio di negoziati fino a quando l’articolo 50 non verrà invocato formalmente. Anziché dare alla Brexit un posto di priorità in agenda, la May è stata invitata a discutere lo stato del suo paese durante il caffe alla fine della serata. A cura di Elena Amici

FRONTIERA BELGA

La Vallonia boccia la CETA e tiene in scacco l’UE

Di Simone Massarenti La CETA è a un bivio cruciale. Il 14 ottobre scorso la Vallonia, piccola regione di circa 3 milioni e mezzo di abitanti nel cuore del Belgio, si è schierata contro l’accordo economico e commerciale fra UE e Canada, divenendo l’ago della bilancia dell’intero Continente. Il Parlamento vallone ha votato contro la sottoscrizione dell’accordo da parte del Belgio (46 voti contro 16), bloccando così ogni iter negoziale. Come previsto dalla Costituzione belga, infatti, gli accordi di carattere internazionale devono essere esaminati e posti al vaglio di tutte le entità federate, le quali si esprimono e danno mandato al governo centrale per la sottoscrizione. Secondo le prime indiscrezioni, la scelta dell’assemblea di Namur, capoluogo della provincia francofona, sarebbe dettata da un contrasto fra i socialisti, attualmente la maggioranza nella regione, e le forze di centro-destra del governo centrale. Il ministropresidente vallone Paul Magnette, subito dopo l’esito del voto, ha dichiarato che “questa non è una netta chiusura, bensì uno stop necessario al fine di rinegoziare le attuali condizioni del trattato”. Le ripercussioni sugli equilibri europei sono tangibili. L’incontro fra i 28 Ministri del Commercio dell’Unione, tenutosi in Lussemburgo il

18 ottobre scorso, avrebbe dovuto sancire l’atto conclusivo dei negoziati, ma ha rappresentato un semplice “colloquio informativo”, data l’impossibilità di sottoscrivere il trattato. L’ex commissario europeo al Commercio Karel De Gucht trova “inaccettabile che un solo Paese tenga in scacco 27 Stati”. Cecilia Malmström, attuale commissaria al Commercio, ha assunto invece toni più diplomatici, affermando come le istituzioni comunitarie si stiano già prodigando per raggiungere un accordo con il Belgio. Decise proteste, infine, arrivano da parte di Greenpeace. Lo scorso martedì un gruppo di attivisti ha affisso uno striscione con su scritto“Don’t trade away democracy- #STOPCETA” su uno dei palazzi delle istituzioni comunitarie di Lussemburgo, esprimendo totale contrarietà all’accordo. Il gesto è stato seguito, nel nostro Paese, dalle parole della responsabile Campagna Agricoltura e Progetti Speciali di Greenpeace Italia, Federica Ferrario, la quale ha affermato che questo “deve essere un chiaro segnale per l’Italia e per l’Europa circa l’inadeguatezza del trattato”. In particolare, desta preoccupazione l’inserimento nella CETA del cosiddetto ICS, un sistema di protezione degli investimenti che, secondo l’associazione ambientalista, garantirebbe “particolari privilegi agli investitori”. MSOI the Post • 7


NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole STATI UNITI 16 ottobre. Stati Uniti e Gran Bretagna stanno valutando di imporre nuove sanzioni alla Russia a seguito dell’intervento nella città siriana di Aleppo. “Il presidente Obama non esclude nulla” ha detto il segretario di Stato Kerry in un’intervista. 17 ottobre. Dopo che una nave americana è stata attaccata per due volte in pochi giorni nel Mar Rosso, l’esercito americano ha attaccato alcune postazioni dei ribelli Houthi in Yemen. Peter Cook, portavoce del Pentagono, ha dichiarato che le operazioni sono state dei “raid di autodifesa condotti per proteggere il nostro personale, le nostre navi, e la nostra libertà di navigazione in questo importante passaggio marittimo”. 18 ottobre. Terzo giorno di offensiva per conquistare Mosul, roccaforte dello Stato Islamico. Le forze speciali statunitensi sul terreno temono che, per rallentare l’attacco della coalizione, i miliziani del gruppo IS possano usare armi chimiche. 19 ottobre. Ultima cena di Stato della presidenza Obama. Ospiti d’onore il premier italiano Matteo Renzi e la moglie Agnese Landini. Durante la conferenza stampa precedente alla serata di gala il Premier italiano si è detto “preoccupato” di un’eventuale vittoria di Trump aggiungendo che in futuro “avremo bisogno di leader che costruiscano ponti,

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GLI INTERESSI DEGLI STATI UNITI IN YEMEN Perché il conflitto tocca da vicino i rapporti di Washington con l’Arabia Saudita

Di Lorenzo Bazzano Il 13 ottobre gli Stati Uniti hanno autorizzato un attacco militare in Yemen in risposta ad alcuni attacchi missilistici perpetrati dagli Houthi. Questi sono un gruppo tribale sciita stanziatosi vicino alla frontiera saudita, in un territorio quindi prevalentemente sunnita. Le operazioni militari degli Stati Uniti arricchiscono il quadro della guerra nello Yemen, una guerra che riguarda molto da vicino Washington e i suoi rapporti con l’Arabia Saudita. Una panoramica molto dettagliata sulla situazione è fornita dall’Harper’s Magazine. Uno dei fattori scatenanti il conflitto è stato proprio la presenza degli Houthi al confine con l’Arabia Saudita: il Paese, fortemente anti-iraniano, non poteva che mal sopportare la presenza di sciiti zaiditi a pochi chilometri dal suo territorio, appoggiati per giunta proprio dall’Iran. Nel 2009, il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh ottenne dai sauditi il permesso di inviare truppe yemenite oltre il confine, in modo da attaccare gli Houthi. Questi reagirono invadendo l’Arabia Saudita, che rispose mobilitando le forze armate. L’esito dell’iniziativa fu molto negativo per il Paese, le cui truppe subirono numerose perdite. I sauditi iniziarono dunque a comprare armi dagli Stati Uniti. La guerra in Yemen ha contribuito, quindi, a rafforzare i rapporti diplomatici esistenti

tra Stati Uniti e Arabia Saudita già dal secondo dopoguerra. Tali rapporti prevedono che l’Arabia Saudita garantisca agli Stati Uniti il basso costo del petrolio in cambio di supporto militare. Quando l’onda della primavera araba del 2011 investì anche lo Yemen e fu deposto il presidente Saleh, gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita contribuirono fortemente all’elezione del generale Abd Rabbo Mansour Hadi. Alla fine del 2014, dopo che le forze ribelli ebbero costretto Hadi a lasciare il Paese, Riyadh mise insieme una “coalizione” di Stati arabi conservatori e lanciò l’intervento militare ancora in corso per riportare Hadi al potere. Nel 2015, i sauditi decisero di bombardare lo Yemen: di conseguenza, gli Stati Uniti dichiararono che avrebbero fornito loro aiuto logistico e d’intelligence. È da notare quanto l’intervento dell’amministrazione Obama fosse strategicamente importante anche nell’ottica della politica americana verso l’Iran, coinvolto per affinità ideologica con gli Houthi. Non a caso, proprio in quel periodo erano in corso i trattati sul nucleare: per portarli a termine, Obama non poteva inimicarsi gli Stati arabi che ancora non erano stati convinti. In conclusione, per quanto trascurato dal panorama mediatico, il conflitto in Yemen è un punto chiave nel panorama della politica estera statunitense.


NORD AMERICA non muri”. 20 ottobre. Terzo ed ultimo dibattito televisivo fra Donald Trump e Hillary Sono stati toccati temi centrali e concreti in ottica elettorale: la Corte Suprema, tematiche spinose come l’aborto e le armi, economia e immigrazione. La Clinton è risultata vincitrice (secondo un sondaggio CNN che la da in vantaggio al 52%) soprattutto perché il suo sfidante ha detto che “deciderà sul momento se accettare o meno i risultati delle elezioni”, mettendo quindi in dubbio l’intero sistema democratico americano. CANADA 17 ottobre. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha fatto sapere che inizieranno a novembre in Canada le sperimentazioni del primo vaccino contro l’ebola. C’è molto ottimismo attorno a questi test poiché dovrebbe essere il primo vaccino realmente efficace contro la malattia.

18 ottobre. Slitta l’accordo sul CETA tra Canada ed Unione Europea. Il voto contrario della Vallonia ha, infatti, bloccato la conclusione del trattato che sarebbe dovuto essere firmato il 27 ottobre. 19 ottobre. La Banca Centrale canadese ha confermato i tassi di interesse allo 0,5%. Questa decisione è stata presa per favorire la crescita del PIL del Paese che dovrebbe aumentare del 1,1% quest’anno e del 2% nel 2017-2018. A cura di Alessandro Dalpasso

STATI UNITI: MISSION TO MARS

La corsa allo spazio torna centrale nelle relazioni internazionali

Di Alexander Virgili, Sezione MSOI Napoli È ormai un lontano ricordo quello della prima era spaziale, che durante il secolo scorso ha visto USA e URSS contendersi la conquista dello spazio e successivamente il primo uomo sulla Luna. Eppure, se per diversi anni la conquista e l’esplorazione dello spazio non sono stati tra le priorità nello scenario politico internazionale, tali temi sono ridivenuti centrali e vengono anche formulati programmi con scadenze ben determinate. Gli Stati Uniti su tutti sembrano decisi a volersi aggiudicare la conquista del Pianeta Rosso. La settimana scorsa, infatti, Obama ha annunciato tramite la CNN: “Abbiamo fissato con chiarezza un obiettivo vitale per la storia dell’America nello spazio: inviare esseri umani entro il 2030 e farli ritornare sani e salvi, con l’ambizione definitiva di fare in modo, un giorno, che possano restare lì per un tempo prolungato”. Obama non è nuovo all’interesse verso questo settore. Già nel 2010, parlando da Cape Canaveral, aveva annunciato: “Sulla Luna ci siamo già stati. C’è altro da esplorare e altro lavoro da fare. Dobbiamo guardare più lontano”. Sicuramente,

negli

ultimi

decenni gli Stati Uniti hanno investito meno sulla ricerca spaziale e sull’obiettivo, non di ultima generazione, di mandare degli esseri umani su Marte. La NASA ha visto i suoi fondi (soprattutto quelli forniti dal governo federale) diminuire molto ultimamente, anche perché ci sono nuovi attori privati ai quali Obama presta attenzione. “Stiamo lavorando in partnership con delle aziende private per inviare degli esseri umani su Marte, una missione con l’obiettivo di rendere le nostre vite migliori qui sulla Terra” ha affermato il Presidente. Gli Stati Uniti, tuttavia, non sono gli unici a nutrire un forte interesse verso il Pianeta Rosso. La Cina sta lavorando già da tempo a una possibile missione su Marte. La Repubblica Popolare, infatti, anche se ha meno esperienza nell’ambito rispetto ad altri Paesi, ha sempre finanziato in modo massiccio l’esplorazione dello spazio e le tecnologie connesse e non è un competitor da sottovalutare. “Un giorno spero di guardare le stelle con i miei nipoti sulle spalle, e, invece di aspettare il ritorno dei nostri intrepidi esploratori, sapremo che grazie alle scelte fatte oggi saranno andati nello spazio non solo per visitarlo, ma per restarci” ha concluso il Presidente degli Stati Uniti.

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MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole ISRAELE 18 ottobre. L’agenzia culturale delle Nazioni Unite (UNESCO) ha adottato, su proposta araba, una risoluzione controversa che non fa alcun riferimento al legame della religione giudaica con il sacro sito di Gerusalemme. IRAQ 17 ottobre. Dopo l’inizio della riconquista di Mosul da parte dell’esercito iracheno contro lo Stato Islamico, i civili stanno vivendo condizioni sempre più difficili. Circa 5 . 000 persone hanno varcato il confine verso la Siria negli ultimi 10 giorni cercando di fuggire.

SIRIA 19 ottobre. La first lady siriana Asma al-Assad ha detto alla televisione russa di aver rifiutato delle proposte di asilo politico in altri Paesi per stare vicino al marito. 19 ottobre. Aleppo: la Russia annuncia una “pausa umanitaria” sino alle 19 per creare corridoi di uscita dalla città per i civili. ARABIA SAUDITA 19 ottobre. Un principe saudita è stato condannato a morte per aver ucciso un uomo durante una sparatoria 3 anni fa fuori Riad. L’esecuzione del principe Turki 10 • MSOI the Post

YEMEN: LA RISPOSTA DEGLI STATI UNITI AI RIBELLI SCIITI HOUTHI

3 attacchi missilistici contro la marina statunitense: USA rispondono colpendo postazioni radar

Di Maria Francesca Bottura Alle prime luci dell’alba del 13 ottobre, il governo degli Stati Uniti ha autorizzato il cacciatorpediniere USS Nitze ad inviare il “messaggio” di risposta a tre attacchi missilistici, partiti nel corso di una settimana da zone controllate dai ribelli sciiti Houthi. Come conseguenza degli attacchi, diretti contro il cacciatorpediniere USS Mason, tre missili da crociera Tomahawk hanno distrutto postazioni radar nel territorio che si estende da Bab Al Mandab fino a Capo Issa (costa sud-occidentale yemenita). Secondo fonti interne al Pentagono, non ci sono state vittime civili, in quanto si tratta di zone particolarmente isolate. La USS Mason in quel momento si trovava al largo delle coste dello Yemen, in acque internazionali da tempo contese. Lo Yemen, infatti, per quanto sia il Paese più povero del Medio Oriente, detiene una posizione strategica oggetto delle mire dell’Arabia Saudita, con cui confina, e dell’Iran. E questa è una delle ragioni che hanno portato all’inizio dei conflitti. L’area su cui si affacciano le coste yemenite, lo Stretto di Bab Al Mandab, che collega il Mar Rosso e il Golfo di Aden, è

infatti una zona particolarmente importante per i transiti commerciali internazionali e per il trasporto del petrolio. Ciò rende questo piccolo “Stato fallito” un territorio desiderabile per molti. Subito dopo l’attacco inferto dagli Stati Uniti, l’agenzia semiufficiale di notizie iraniana Tasnimha annunciato la presenza nell’area di Bab al Mandab di due navi da guerra, la Alvand e la Bushehr, inviate da Teheran dopo l’attacco statunitense. L’agenzia spiega che la presenza delle due navi, che ha allertato le forze della marina militare statunitense sul luogo, ha come unico scopo quello di attuare “regolari attività di pattugliamento e di contrasto alla pirateria lungo la costa dello Yemen e del Corno d’Africa”. Il portavoce del Pentagono Peter Cook, in una conferenza stampa dello scorso 13 ottobre, ha dichiarato che la risposta statunitense ha comportato “raid di autodifesa condotti per proteggere il nostro personale, le nostre navi e la nostra libertà di navigazione in questo importante passaggio marittimo”, sottolineando così la presa di posizione degli Stati Uniti, finora rimasti in disparte, in merito alla guerra in Yemen.


MEDIO ORIENTE bin Saud al-Kabir è avvenuta nella capitale, ma non sono chiare le modalità della morte (solitamente avviene tramite decapitazione).

L’ULTIMO PEZZO DEL PUZZLE IRACHENO La battaglia di Mosul

Di Jean-Marie Reure

EGITTO 20 ottobre. Un gran numero di persone è scesa nelle piazze martedì scorso per protestare contro l’aumento del costo della vita (in particolare del prezzo delle case) nel paese. La dimostrazione è avvenuta a Nord-Est, nella città di Port-Said, e sembra che centinaia di persone abbiano preso parte alle proteste.

YEMEN 19 ottobre. Lo Yemen ha chiesto all’Iran di evitare ingerenze nei suoi affari interni, con l’accusa di finanziare le milizie Houthi e altri gruppi legati al presidente Ali Abdullah Saleh. 20 ottobre. Comincia un cessate il fuoco, annunciato dalle Nazioni Unite, che durerà 3 giorni. A cura di Lucky Dalena

“Alle prime ore del giorno, oggi, è iniziata la battaglia per la riconquista della seconda città irachena, Mosul. È probabile che questa battaglia duri più di qualche giorno, una settimana, forse due, forse perfino di più. Gli iracheni hanno alle spalle un vasto apparato, intelligence, supporto aereo, consiglieri militari, istruttori, ma le migliaia di soldati che libereranno Mosul sono tutti iracheni. (...) La crudeltà mostrata dagli uomini di Daesh, o Isil, ha reso evidente come essi non siano soltanto una minaccia per la regione, [...] ma per il mondo intero. Durante questi anni abbiamo bombardato decine di migliaia di obiettivi strategici, abbiamo addestrato più di 54.000 iracheni. Così come abbiamo sempre fatto, supporteremo i nostri alleati e continueremo i bombardamenti al fine di minimizzare le perdite civili. (…) Sarà una battaglia lunga e sanguinosa, ma gli iracheni sono stati preparati per questo scontro, e noi saremo al loro fianco. Onoriamo il loro coraggio e la loro fermezza.” Generale S. Townsed, portavoce americano dell’TJCF. Sono le 5.30 del mattino (ora locale): un generale americano rilascia un breve comunicato e i primi caccia sfrecciano nel cielo. A partire dal 14 ottobre i bombardamenti in Iraq, nella zona di Mosul, si sono intensificati al ritmo di 7-8 al

giorno. Tal Hamid, Qarqasha, Abzakh e Qura Takh sono alcuni dei villaggi sottratti negli ultimi giorni a Daesh nell’area circostante Mosul. A breve verranno mobilitati 500 soldati USA, di supporto alle operazioni sul campo. I Curdi delle milizie peshmerga, le forze di sicurezza irachene e le milizie fedeli all’ex governatore sunnita della regione avanzano da direzioni differenti verso Mosul. Due attentati suicidi e numerosi pneumatici incendiati sono serviti ai miliziani di Al Baghdadi per rallentare l’avanzata della coalizione e impedire i bombardamenti aerei. Le prime violazioni dei diritti umani nei confronti di civili sono già state registrate. Volano già le reciproche accuse di violenze a base settaria nei confronti della popolazione dei neo-liberati villaggi. L’avanzata, però, continua. Restano gli 1,8 milioni di abitanti. Il 74% di questi non vuole essere liberato dalle forze di sicurezza perché non si fida. La totalità di questi, secondo l’IIACS, neonata agenzia di statistica e sondaggi irachena, non vuole essere liberata da milizie sciite per motivi etnico religiosi. La vera sfida? Liberata la città, trovare un saldo legame con l’autorità centrale, a Baghdad. MSOI the Post • 11


RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole KOSOVO 19 ottobre. Un sondaggio dell’Istituto Kdi svela che il 43% della popolazione in Kosovo è ignara del dialogo in corso fra Pristina e Belgrado. Solo una minoranza conosce gli accordi con Belgrado, portati avanti grazie all’intermediazione dell’Unione europea, che hanno ad oggetto la creazione della nuova Comunità delle municipalità serbe in Kosovo. LETTONIA 15 ottobre. La NATO annuncia l’invio di soldati italiani in Lettonia, notizia confermata dal ministro degli Esteri Gentiloni, il quale precisa che la missione non ha scopo di aggressione. Gelida la reazione di Mosca che ha bollato come “distruttiva” l’azione della Nato.

MONTENEGRO 16 ottobre. I risultati delle elezioni confermano la preferenza per il Partito democratico dei socialisti e Milo Djukanovic, premier da 27 anni. Clima di tensione durante la giornata elettorale a seguito dell’arresto di 20 cittadini serbi, componenti di un gruppo eversivo. Secondo la polizia di Podgorica le persone fermate volevano compiere un attentato per destabilizzare l’esito delle votazioni. RUSSIA 15 ottobre. La NBC News annuncia l’intenzione di Washington di lanciare un attacco informatico a Mosca. La CIA avrebbe ricevuto ordine 12 • MSOI the Post

ELEZIONI IN MONTENEGRO Riconfermato il premier Đukanović

Di Lorenzo Bardia La fine della campagna elettorale montenegrina era stata molto movimentata: alla vigilia delle elezioni, infatti, le autorità della capitale avevano annunciato di aver arrestato un gruppo di estremisti serbi che meditava di rapire il premier Milo Đukanović e mettere in atto un colpo di Stato. Il voto del 17 ottobre, però, ancora una volta non ha portato sorprese. Le elezioni parlamentari per l’assegnazione dei seggi sono state vinte dal primo partito della coalizione di governo, il Partito Democratico dei Socialisti, che ha trionfato con circa il 41% dei voti. Una massiccia partecipazione ha portato alle urne il 73% degli aventi diritto di voto. Il premier Đukanović, che da più di 25 anni è ininterrottamente a capo dell’esecutivo, diventa così oggi il leader europeo con la più lunga permanenza al potere. Đukanović, politico da sempre filo-occidentale, durante la campagna elettorale ha spesso

ricordato di aver portato il Paese all’indipendenza dalla Serbia, di averlo trasformato in una meta turistica ambita e di aver fatto progredire le integrazioni euro-atlantiche, aprendo i negoziati per l’adesione all’UE e ottenendo l’invito a diventare membro della NATO, tutti progetti che mira a portare a termine. Forte della vittoria, il Premier ha dichiarato agli elettori: “Non è stato facile, ma grazie al vostro appoggio siamo riusciti a vincere.”. Come nelle elezioni precedenti, le opposizioni non hanno fatto mancare le accuse di abusi di potere e irregolarità, riferendo di numerosi casi di compravendita di voti e pubblicando elenchi di persone che hanno ottenuto soldi in cambio del proprio voto. In ogni caso, con accordi con il partito vicino alla minoranza serba, il premio di maggioranza e un negoziato con alcuni dei partiti più piccoli, Đukanović dovrebbe riuscire a restare al potere e a ottenere una salda maggioranza all’interno del Parlamento monocamerale.


RUSSIA E BALCANI da Obama di preparare un cyber attacco per replicare alle interferenze del Cremlino nelle elezioni presidenziali americane. Immediata la risposta della Russia, che si dichiara pronta a contrattaccare. 17 ottobre. Il Regno Unito congela tutti i conti bancari appartenenti alla emittente televisiva Russia Today. La decisione sarebbe stata presa in via del tutto indipendente dalla NatWest Bank, la quale non ha fornito ulteriori dettagli circa i motivi che hanno determinato tale scelta. La portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha così commentato la notizia: “Sembra che abbandonando l’Unione Europea Londra abbia lasciato in Europa i suoi obblighi sulla libertà di parola”. Immediata la replica del governo di Theresa May, per il quale la decisione sarebbe stata autonomamente presa dall’istituto bancario.

SERBIA 19 ottobre. Alla vigilia del Consiglio dell’UE, Oxfam denuncia le sofferenze patite dai migranti nella rotta balcanica. L’Oxfam ha redatto il suo rapporto raccogliendo le testimonianze dei migranti che si trovano in Serbia e Macedonia senza possibilità di spostarsi in Nord Europa e senza vedere esaminata la propria richiesta di asilo. La onlus incoraggia i leader europei a cambiare approccio nella gestione del fenomeno e a rispettare maggiormente i diritti umani. A cura di Ilaria Di Donato

NELLA RETE DEL RAGNO La vittima Vedova Nera

Di Elisa Todesco Il Nord Caucaso è un fazzoletto di terra stretto fra il Mar Nero e il Mar Caspio. Le sue regioni principali sono la Cecenia, il Daghestan e la Inguscezia, ma anche l’Ossezia del Nord (sede di aspre dispute con l’ormai Stato sovrano della Georgia). Quando si pensa al Nord Caucaso, la mente corre principalmente a uno dei tanti attentati che negli ultimi 20 anni hanno insanguinato la terra. Dalla strage di Beslan (1-3 settembre 2004) all’attentato kamikaze condotto dalla giovane cecena Maryam, che si è fatta esplodere nella metropolitana di Mosca, le guerre cecene hanno sempre mostrato due caratteristiche importanti. Uno: la ferocia degli attacchi. Due: il ruolo svolto in prima linea dalle donne, le cosiddette “Vedove Nere”, mogli, madri e figlie dei martiri combattenti morti per la causa, cresciute con il mantra jihadista “È meglio essere la vedova di uno shaheed (“martire”, nda), che la moglie di un codardo”. Eppure, se è vero che le donne cecene sono ormai entrate nell’immaginario collettivo come “donne combattenti” spietate, sotto un certo punto di vista, nel continuare la missione del marito-martire, dall’altra parte, con lo stupro, sono vittime obbligate al sacrificio estremo. Inoltre, le “Vedove Nere” rappresentano solo una piccola percentuale della popolazione femminile del Caucaso. L’opinione internazionale, concentrandosi su questo stereotipo, rischia di ignorare completamente quali siano le

reali condizioni femminili in Cecenia e Daghestan. Le donne, come accadde in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale, sono state qui la vera forza motrice dell’economia bellica. Dopo aver acquisito autonomia e prestigio, si ritrovano oggi schiacciate in un sistema legale che non le protegge. In un quadro caratterizzato da tensioni etnico-religiose mai realmente sopite, in cui si respira sempre il clima di brutale repressione messo in piedi dalla madrepatria russa, la tutela delle donne e l’implementazione delle norme contro la discriminazione di genere non hanno trovato nel Nord Caucaso ampi spazi. Il tasso di disoccupazione cresce in modo esponenziale, vige l’ineguaglianza sociale e mancano procedure democratiche e di buona governance. La violenza di genere registra un tasso decisamente alto se paragonato ad altre zone della Russia. Si parla, in questo caso, sia di violenza diretta sia di violenza indiretta. La vita quotidiana delle donne cecene è costellata da omicidi d’onore, matrimoni infantili forzati, mutilazioni genitali (tipiche in alcuni villaggi del Daghestan), e allontanamenti di figli in caso di divorzio, al fine di preservare la tradizione che i bambini vengano cresciuti nella “famiglia del padre”. Orrore e violenza si perpetrano nel Caucaso: in una regione in cui si compenetrano la legge russa, la tradizione e la Sharia, diventa quasi impossibile, per una donna, rivendicare quei diritti e quella parità che sulla carta dovrebbero esserle garantiti. MSOI the Post • 13


ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole AUSTRALIA 18 ottobre. Condanna da parte di Amnesty International al governo australiano. L’associazione per i diritti umani ha redatto un dossier nel quale accusa il governo di ripetute e sistematiche violazioni dei diritti umani nei confronti degli immigrati. Amnesty afferma che all’interno del campo profughi dell’isola di Nauru, dove sono dirottati i migranti che tentano di raggiungere il continente, vengono perpetrate da tempo brutali torture senza il riguardo che una nazione civile dovrebbe tributare alle norme internazionali riguardanti il rispetto della dignità umana.

COREA DEL NORD 16 ottobre. Pyongyang ha eseguito un nuovo test missilistico che, nonostante si sia rivelato fallimentare, ha scatenato le proteste statunitensi e sudcoreane. Il test, confermato in seguito dai vertici militari di Seul, è stato compiuto con un missile a medio raggio che tuttavia è esploso pochi istanti dopo il lancio. Si tratta dell’ennesima violazione al divieto dell’ONU di compiere esercitazioni balistiche sul suolo nordcoreano. INDIA 16 ottobre. Si è concluso a Goa l’8° summit dei Paesi BRICS. I Presidenti dei 5 Stati hanno emanato la Goa Declaration che raggruppa i temi di interesse 14 • MSOI the Post

AUSTRALIA - USA IN CRISI?

Un sondaggio svela il nervosismodegli australiani su Donald Trump e altre questioni.

Di Luca De Santis Tra gli australiani, il sostegno all’alleanza con gli Stati Uniti riscuote sempre meno consensi: quasi la metà di loro sarebbe intenzionata a congelare i rapporti, qualora Donald Trump venisse eletto Presidente. Lo scorso 13 ottobre, il Parlamento del Nuovo Galles del Sud (NSW) ha definito Trump, con una mozione ad hoc, un “lumacone disgustoso”. La mozione è stata presentata dal verde Jeremy Buckingham a seguito della pubblicazione, da parte del Washington Post, di un video del 2005 in cui il miliardario esprime commenti fortemente misogini. Anche l’ex premier australiano Tony Abbott, che difende le “ragionevoli politiche” di Trump, ha definito i commenti contenuti nel video “indifendibili”. Un sondaggio del Lowy Institute for International Policy ha evidenziato che, secondo il 45% degli australiani, si dovrebbero prendere le distanze dagli Stati Uniti se il controverso candidato repubblicano dovesse giungere alla Casa Bianca. Più dei 3/4 preferirebbe Hillary Clinton come Presidente, mentre appena l’11% è a supporto di Trump. Due anni fa era stato chiesto quale rapporto fosse più importante: se quello con la Cina

o quello con gli Stati Uniti. Il 48% aveva dichiarato di ritenere più rilevante il secondo, il 37% aveva scelto le relazioni con la Cina. Quest’anno, entrambi hanno ottenuto il 43% dei voti. Il sondaggio ha rilevato anche altri aspetti: gli Stati Uniti sono stati l’unico Paese verso il quale i sentimenti si sono raffreddati in modo significativo quest’anno. Sembrano inoltre sentirsi, forse in risposta alla corsa presidenziale americana, mormorii verso l’alleanza New ANZUS (Australia, Zealand, United States Security Treaty, il trattato finalizzato all’accerchiamento diplomatico dell’Unione Sovietica nell’ottica delle tensioni della guerra fredda). Quasi 6 australiani su 10, infatti, affermano che sarebbero meno propensi a sostenere la propria nazione qualora intraprendesse future azioni militari in coalizione con gli Stati Uniti sotto Trump. Dai dati emerge anche che quasi due elettori su tre credono che l’Australia potrebbe accogliere più profughi attraverso i canali delle Nazioni Unite, fermando i barconi e l’immigrazione clandestina. Il fatto che gli australiani sostengano la “turn-back-boats policy” non significa dunque che siano antiimmigrazione; al contrario, la maggior parte di loro vede nell’immigrazione un dato positivo per il Paese.


ORIENTE comune affrontati durante l’incontro. Al centro dell’attenzione la lotta al terrorismo globale con un particolare focus sulla questione pakistana. Durante il summit India e Russia hanno inoltre raggiunto un accordo economico da un miliardo di dollari per sviluppare le infrastrutture indiane e incrementare gli investimenti nell’area.

FILIPPINE 19 ottobre. Il presidente Duterte si è recato in Cina per una visita di 4 giorni durante la quale discuterà di eventuali investimenti cinesi per sostenere l’economia filippina. Pechino ha svariati interessi nell’ area delle Filippine, in primo luogo la possibilità di un maggiore controllo sul mare meridionale; inoltre, le Filippine sono da anni sotto l’influenza commerciale di Washington. Il presidente Duterte ha dichiarato che la Cina è la sola speranza per il suo Paese. A cura di Tiziano Traversa

8° SUMMIT BRICS Regia dell’India

Di Alessandro Fornaroli Il 14 e il 15 ottobre, sulla spiaggia resort dello Stato di Goa, in India, si è tenuto l’8° summit dei Paesi aderenti al BRICS. Come ospite dell’evento ha partecipato anche la leader del Myanmar, Aung Sang Suu Kyi, invitata direttamente dall’India in quanto Paese ospitante. Varie testate giornalistiche hanno messo in dubbio l’utilità che questa organizzazione può ancora avere. Ciò nonostante il consesso - anche se non ha preso decisioni di particolare rilevanza - ha dimostrato la volontà di portare avanti tale formato di negoziati. Si può dire che il BRICS, oltre a essere un’alleanza economica con lo scopo di siglare accordi bilaterali sganciati dal petrodollaro, si fondi su una base politica. In quest’ottica, il gruppo si classificherebbe dunque come una sorta di “G5”, che agisce in parallelo al più stabile G7. Gli obiettivi nazionali particolari, tuttavia, contribuiscono spesso a conferire all’associazione una linea d’azione più incerta. All’apertura della cerimonia, nonostante il primo ministro indiano Nerendra Modi abbia cercato di stimolare il gruppo in materia di terrorismo, nessun impegno concreto è stato preso da parte dei Paesi. La Cina ha adottato, nei confronti dell’India, un duplice atteggiamento. Da un lato, Xi Jinping si è mo-

strato consapevole della possibilità di far fruttare interessi politici ed economici, opportunità concretizzata attraverso la creazione della New Development Bank (NDB), con sede a Shangai. Dall’altro lato, invece, Pechino, strettamente legata al Pakistan, si è opposta all’inserimento dei gruppi terroristici JeM e LeT nella Dichiarazione di Goa. Questi due movimenti jihadisti hanno compiuto ripetutamente attentati e rappresaglie nella regione del Kashmir, ancora contesa tra i due Stati confinanti. L’India non ha accolto con favore nemmeno l’atteggiamento russo. Il Cremlino, infatti, aveva avviato addestramenti militari congiunti con il Pakistan, senza tener conto dell’esigenza indiana di fermare i miliziani del JeM, che hanno attaccato il Pathankot e l’Uri. Dal punto di vista economico, le potenze si sono impegnate ad aumentare i prestiti a 2,5 miliardi entro il 2017. Il presidente della New Development Bank BRICS (NDB BRICS), K.V. Kamath, ha annunciato che verranno stabilite come priorità l’energia pulita e le infrastrutture sostenibili: si punta così a crescere ancora di un miliardo e mezzo in bond. Durante la sessione plenaria è stato inoltre evidenziato come i commerci del BRICS abbiano raggiunto un valore di 250 miliardi nel 2015; l’intenzione è quella di portare tale indice a 500 miliardi entro il 2020. MSOI the Post • 15


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole

DIRITTO ALLO STUDIO

Centinaia di studenti dell’università di Witwatersrand contro l’aumento delle tasse universitarie

Di Jessica Prieto BURUNDI 18 ottobre. Il governo di Pierre Nkurunziza ha annunciato di voler uscire dalla Corte Penale Internazionale. La decisione, approvata con solo due deputati contrari, dovrà essere notificata alle Nazioni Unite e rappresenta una rottura netta tra il Burundi e la comunità internazionale a seguito dell’inchiesta aperta dopo le tensioni e gli scontri scoppiati nel luglio scorso, che sono costati la vita a più di 500 persone. CONGO 19 ottobre. La Corte Penale Internazionale ha condannato l’ex vicepresidente Jean Pierre Bemba e alcuni suoi collaboratori per corruzione di testimoni e di induzione alla falsa testimonianza nell’ambito di un processo per presunte tangenti intascate durante il suo mandato. ETIOPIA 17 ottobre. Dopo gli scontri di una settimana fa, che hanno causato la morte di centinaia di persone di etnia Oromi, il governo ha annunciato un estensione dello stato di emergenza in tutto il Paese: il ministro della Difesa Siraj Fergessa ha imposto nuovi divieti su social media e reti di comunicazioni private, ha limitato la diffusione di notizie da parte di alcune televisioni indipendenti e ha concesso poteri speciali alle forze di sicurezza. 16 • MSOI the Post

Tutto è iniziato davanti alle porte dell’Università di Witwatersrand, nella città sudafricana di Johannesburg. Da settimane, alcuni studenti protestavano pacificamente contro una nuova legge che imporrebbe un aumento dell’8% delle tasse universitarie a partire dal 2017. Alla fine della terza settimana, le proteste si sono trasformate in guerriglia urbana. Gli slogan pacifici come “FeesMustFall” hanno lasciato il posto a gas lacrimogeni, granate assordanti, proiettili di gomma e idranti usati dalle forze dell’ordine per disperdere i manifestanti. Questi movimenti studenteschi, che in realtà rappresentano una minoranza del mondo universitario, lottano affinché il governo garantisca l’istruzione gratuita per tutti e si oppongono all’aumento delle tasse, in quanto esso negherebbe ai ragazzi più poveri l’accesso a un’istruzione superiore. Dal canto suo, il governo sostiene di non avere abbastanza fondi per coprire una simile spesa e che, anzi, siano necessari ulteriori introiti per garantire e migliorare l’attuale livello d’istruzione. Il Council on Higher Education (CHE) annuncia però che tale aumento non verrà applicato agli studenti che beneficiano dei sussidi del National Student Aid Financial Scheme (NSFAS), né a coloro che appartengono alla fa-

scia missing middle, ovvero studenti i cui genitori guadagnano troppo per ottenere i prestiti del NSFAS, ma troppo poco per permettersi il pagamento delle tasse universitarie. Secondo gli ultimi dati raccolti dall’Istituto di statistica dell’UNESCO (UIS), il Sudafrica investirebbe solo lo 0,76% del PIL a favore dell’istruzione universitaria. I finanziamenti non rappresentano però l’unico problema. Negli ultimi anni si sono registrati un vertiginoso calo nel numero degli insegnanti e un aumento costante della popolazione in età scolare: ciò ha generato un forte sovraffollamento nelle classi. Si discute anche sulla qualità dell’insegnamento: spesso il numero di docenti aventi una formazione che rispetti gli standard nazionali è inferiore all’80%. I ragazzi che da anni partecipano a queste manifestazioni rappresentano, inoltre, quella fascia di popolazione “born free” nata alla fine dell’apartheid. Con le loro proteste vogliono ottenere una classe docente più multietnica e programmi di studi che rispecchino la diversità del loro Paese, nella convinzione che l’istruzione rappresenti l’investimento più fruttuoso e con il più alto livello di ritorno sociale: salute, occupazione, stima di sé e realizzazione personale.


AFRICA BURUNDI SOTTO INCHIESTA

L’ONU avvia un’indagine per violenze e tentato genocidio

NIGER 16 ottobre. Jeffery Woodke, un operatore umanitario americano, è stato sequestrato nella regione di Tahoua, nella zona centrale del paese. Le autorità credono che il rapimento sia stato compiuto da miliziani del MUJAO, un gruppo jihadista nato da una costola dell’AQIM, il movimento affiliato ad Al-Qaeda nel Maghreb. NIGERIA 15 ottobre. Durante un vertice con il cancelliere tedesca Angela Merkel, il presidente nigeriano Muhammudu Buhari ha detto “Non so a quale partito appartenga mia moglie, ma di sicuro appartiene alla cucina, al salotto e alle altre Camere” rispondendo alla consorte, che qualche giorno prima aveva negato il suo appoggio in caso di rimpasto di governo. 16 ottobre. Durante l’incontro tra la Merkel e Buhari uno dei temi più scottanti è stato quello delle migrazioni. Il Cancelliere tedesca ha infatti promesso aiuti economici per sostenere l’economia e frenare l’emigrazione verso l’Europa. RUANDA 15 ottobre. I 150 Paesi aderenti al protocollo di Montreal hanno firmato a Kingali un accordo sulla limitazione nell’uso degli idroflurocarburi in frigoriferi e condizionatori. L’accordo, che arriva ad un anno di distanza dalla Cop21 di Parigi, rappresenta una svolta nelle politiche energetiche dei paesi più sviluppati. A cura di Fabio Tumminello

Di Chiara Zaghi Il Burundi sarà il primo Paese a lasciare la Corte Penale Internazionale a causa di gravi violazioni dei diritti umani. Il rapporto dell’ONU denominato EINUB, contenente importanti indicatori sulla situazione del Paese, è stato reso noto in seguito all’intervento della Francia, che ne aveva inizialmente bloccato la pubblicazione. Nel corso della 30^ sessione del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU è stata presentata una Risoluzione per l’avvio di un’inchiesta sulle violenze del regime e sul tentativo di scatenare un genocidio contro la minoranza etnica dei tutsi. L’ONU, lo scorso luglio, ha programmato l’invio nel Paese di 228 poliziotti, ai quali però è stato vietato l’accesso. Il governo di Bujumbura ha respinto le accuse e Renovat Tabu, ambasciatore burundese presso il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, ha detto: “La risoluzione ONU si basa su un rapporto contenente menzogne, verità distorte e false testimonianze. Un rapporto contestato dal mio governo. La situazione in Burundi è normale. La pace regna e la popolazione svolge tranquillamente le sue attività quotidiane” È prevedibile che il Burundi respingerà ufficialmente

la Commissione di indagine indipendente formata dai membri delle Nazioni Unite. L’inchiesta sulla situazione del Paese proseguirà quindi al di fuori del confine, con l’esame di video, interviste, foto e altri documenti a testimonianza dei gravi atti che le milizie filogovernative hanno compiuto tra il 2015 e il 2016 nei confronti della popolazione. In poco più di un anno, l’ONU ha documentato 564 esecuzioni effettuate senza rispettare le norme giudiziarie del Paese. La Comunità Internazionale ha deciso di isolare diplomaticamente il Burundi, ritenendo inaccettabile la sua posizione. La situazione ha iniziato a diventare insostenibile quando Pierre Nkurunziza, ex Presidente del Burundi, e il suo partito CNDD-FDD hanno preso illegalmente il potere, nel luglio del 2015. Nkurunziza si è presentato alle elezioni per un terzo mandato presidenziale, violando la Costituzione e gli accordi di pace di Arusha, che prevedono due soli mandati. La repressione contro la popolazione si è verificata sempre più spesso, fino ad arrivare a misure e atti che hanno violato i diritti umani. Nell’ultimo anno, oltre 300.000 burundesi sono scappati e hanno trovato rifugio nei Paesi vicini per fuggire alle violenze.

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SUD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole

ARGENTINA 20 ottobre. Migliaia di donne hanno partecipato allo sciopero e alla manifestazione organizzata per chiedere giustizia per Lucia Perez, sedicenne stuprata e uccisa a Mar de Plata. Gli organizzatori della dimostrazione pubblica hanno esortato le donne ad interrompere il lavoro in segno di protesta contro il femminicidio. BRASILE 19 ottobre. La polizia brasiliana ha arrestato l’ex presidente della Camera, Eduardo Cunha. Le accuse di corruzione e riciclaggio (che riguardano l’inchiesta sullo scandalo Petrobras) hanno implicato la destituzione di Cunha, tra i fautori più entusiasti dell‘empeachment contro Dilma Roussef, dal mandato parlamentare. COLOMBIA 13-14 ottobre. Dopo la vittoria del no al referendum e il conseguente naufragio della pace, i vescovi colombiani chiesto al governo legittimo e alle FARC di mantenere il cessate il fuoco e di costruire un progetto nazionale derivante dalla partecipazione di tutti. La risoluzione è ciò che emerge dalla conferenza episcopale tenutasi in data 13 e 14 ottobre. CUBA 14 ottobre. L’amministrazione Obama ha dichiarato la volontà di introdurre una serie di misu18 • MSOI the Post

LA FORZA DEL LIBERO MERCATO Nuovi governi, nuove alleanze e nuovi pesi nel mercato latinoamericano

Di Stefano Bozzalla Cassione In un periodo difficile per tutti i Paesi dell’America Latina, le organizzazioni rette da trattati internazionali sembrano restare delle certezze per la regione. Tra queste figura l’Alleanza del Pacifico, composta da Colombia, Perù, Messico e Cile. Gli ultimi due Stati versano in condizioni difficoltose, vista la bassa popolarità dei rispettivi leader, ma continua il loro impegno per raggiungere l’integrazione economica e commerciale che sta alla base dell’Alleanza. Il Mercosur, dal canto suo, non naviga in cattive acque, ma risente della pesante crisi che sta colpendo il Venezuela, entrato nell’organizzazione nel 2012. Il Paese, infatti, rischierà di essere estromesso, se non riuscirà ad avvicinarsi agli standard imposti dall’accordo entro inizio dicembre 2016. Questa linea nasce dalla volontà del nuovo leader dell’Argentina, Mauricio Macrì, che, appoggiato dal neo presidente brasiliano Michel Temer, contesta duramente il governo di Caracas. Gli unici Stati a opporsi sono la Bolivia di Evo Morales e l’Ecuador di Rafael Correa, entrambi fedeli chavisti e sostenitori del Venezuela. Questi Paesi sono altresì in lista per accedere al Mercosur,

ma proprio la loro vicinanza al bolivarismo rende impegnativo il percorso. Inoltre, una tacita alleanza tra i Presidenti di Argentina e Brasile sta facendo sorgere un connubio potente che, almeno per il momento, sarà difficile sciogliere. Sotto la guida del presidente Macrì si sono anche riavviate le trattative tra il Mercosur e l’UE, che mirano a ottenere un accordo di libero scambio tra i due blocchi. Infine, l’ALBA è forse l’alleanza ad oggi più debole. Conta 10 membri, tra cui il Venezuela e Cuba, che nel 2002 diedero vita a quest’alleanza. Per anni essa ha funzionato come un prolungamento dell’economa venezuelana, che godeva di forti introiti derivanti dal petrolio. Oggi, anche per colpa della forte crisi del settore, l’ALBA si trova in difficoltà e pare anzi destinata a perdere pezzi nei prossimi anni. Attualmente, quindi, il Sudamerica è indirizzato verso un’apertura al libero mercato e all’integrazione economica, quasi in controtendenza rispetto a un Occidente sempre più restio. L’avvicinarsi tra il Mercosur e l’Alleanza del Pacifico sottolinea questo trend sudamericano. Resta però da vedere cosa succederà con il cambio di guardia alla guida degli Stati Uniti d’America.


SUD AMERICA re che agevoleranno gli scambi commerciali tra gli USA e Cuba. Il provvedimento, inoltre, riguarda rimesse, agricoltura e il settore finanziario.

HABITAT III: LE METROPOLI SOTTO I RIFLETTORI INTERNAZIONALI A Quito la riunione per discutere il futuro dei più grandi centri abitati del pianeta

Di Daniele Pennavaria

ECUADOR 19 ottobre. Un comunicato del Ministro degli Esteri ecuadoregno ha dichiarato una limitazione all’accesso internet a Julian Assange, fondatore di Wikileaks. La decisione dell’esecutivo è stata presa per garantire il principio di non ingerenza negli affari esteri, data la pubblicazione dell’ingente quantità di documenti riguardanti la candidata democratica Hillary Clinton e i suoi collaboratori.“Il governo dell’Ecuador rispetta il principio di non intervento negli affari degli altri Paesi, non si inserisce nei processi elettorali in corso né appoggia un particolare candidato” si legge in una nota del Ministero degli Esteri ecuadoregno. MESSICO 17 ottobre. L’esercito messicano, la marina militare e altre forze di sicurezza hanno intrapreso, in collaborazione con il Guatemala, un’operazione finalizzata a combattere il traffico di armi, droghe e la tratta di esseri umani. Le basi militari coinvolte sono quelle di Tapachula, Ocosingo e Tenosique. A cura di Sara Ponza

Dal 17 al 20 ottobre si è tenuta a Quito (Ecuador) la 3^ riunione sullo sviluppo urbano sostenibile organizzata da UNHabitat, Agenzia delle Nazioni Unite per gli Insediamenti Umani. Gli obiettivi dell’incontro, che ha visto riuniti i sindaci delle più importanti città di tutto il mondo, erano ambiziosi, specialmente se considerati i fallimenti della precedente edizione, organizzata 20 anni fa a Istanbul. La recente valutazione del programma di Habitat II del 1996 ha infatti rilevato che tutti gli indicatori rispetto alla vita negli spazi urbani sono sensibilmente peggiorati rispetto alle previsioni fatte. Ma dalla metà degli anni ’90, logicamente, sono cambiate parecchie cose. Dal 2015 la popolazione nei centri urbani ha superato il 50%, diventando, per la prima volta nella storia dell’uomo, maggioritaria. Può non essere un dato allarmante, ma complica le sfide che dovranno affrontare le metropoli del XXI secolo. Da questa concentrazione, comunque, derivano emissioni di gas responsabili dell’effetto serra: il 75% di esse proviene dai centri urbani. La necessità di analizzare esigenze specifiche, condivise tra agglomerati urbani ma non sempre tra Paesi, ha fatto riunire a Quito i primi cittadini anziché i rappresentanti di

Stato. L’UN-Habitat ha anche sollecitato formalmente, un giorno prima dell’inizio della conferenza, la creazione di un organo delle Nazioni Unite che si occupi di amplificare le richieste delle città, visto il loro peso nelle relazioni internazionali. Nel contesto del forum, anche la Rete C40, che raccoglie le più grandi città del mondo, ha chiesto che vengano presi in considerazione aiuti per combattere il riscaldamento climatico, tra i temi più importanti nella riunione, partendo proprio dalla gestione dei centri urbani. I rappresentanti sudamericani hanno avuto un ruolo tutt’altro che secondario all’interno dell’incontro. Miguel Ángel Mancera Espinosa, per esempio, nella doppia veste di presidente dell’Alleanza Euro-Latinoamericana di Cooperazione tra Città e di capo del Governo del Distretto Federale di Città del Messico, è stato tra gli esponenti che hanno mosso pressioni per l’aumento della periodicità delle conferenze di Habitat. Il prodotto più importante della conferenza è stata la Nuova Agenda Urbana, che recepisce molti degli obiettivi definiti dalla COP 21 di Parigi e delinea, auspicando risultati migliori rispetto al report di Istanbul, quelle che saranno le direttrici dello sviluppo urbano sostenibile, a livello ecologico e sociale.

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ECONOMIA SIC TRANSIT GLORIA MUNDI

WikiNomics

Gli interessi italiani in Libia sempre più incerti

BANCO-BPM: UNA “FUSIONE TRA PARI” L’ok alla nascita del terzo gruppo bancario italiano

a 5 anni dalla guerra

Di Michelangelo Inverso

Di Martina Unali Lo scenario. Sabato scorso è stata approvata dall’assemblea della Banca Popolare di Milano la fusione con il Banco Popolare. Dall’operazione nascerà il terzo gruppo bancario italiano, dopo Intesa Sanpaolo e Unicredit. Si tratta della prima aggregazione tra ex popolari dall’adozione della riforma governativa, che ha imposto la trasformazione delle grandi banche cooperative in società per azioni. Il nuovo istituto prenderà il nome di Banco Bpm Spa. Gli obiettivi. La vicenda è ormai nota. Ma cosa comporterà effettivamente la nascita di questo polo bancario? Innanzitutto, il gruppo vanterà una quota di mercato dell’8,2%, con copertura di circa 4 milioni di clienti, soprattutto al Centro-Nord, dove sarà concentrata la maggior parte degli sportelli e dove avrà sede legale ed amministrativa il nuovo CdA (rispettivamente Milano e Verona). Sulla base del concambio, gli azionisti del Banco rappresenteranno il 54,6% del capitale e quelli della Bpm il 45,4%. Gli

obiettivi

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principali

del

Dall’intervento militare della NATO contro il governo di Gheddafi nel 2011, la situazione sul terreno è tutt’altro che stabile. La guerra civile nell’excolonia imperversa, nonostante le parole di rassicurazione dell’inviato speciale dell’Onu Martin Kobler. Dopo l’assassinio del Raìs le milizie sostenute dall’Occidente non sono riuscite ad accordarsi sulla spartizione del potere dividendo il Paese in tre aree di influenza Tripolitania, Cirenaica e CentroSud - annullando cosi il potere centrale. Da marzo, l’esecutivo è guidato da Fayez al-Sarraj, l’uomo scelto dalla comunità internazionale, ma non dal popolo libico, che guida il Paese da una base navale militare, fatto che dimostra il suo effettivo potere politico. Ma la sua poltrona è tutt’altro che comoda. È notizia del 15 ottobre che le milizie islamiste fedeli all’ex governo di Tripoli si sono ribellate a Serraj, prendendo il controllo della capitale. La situazione, quindi, è estremamente caotica e chi rischia di perdere di più in tutto questo, oltre che il popolo, è l’Italia. Il nostro Paese ha, infatti, numerosissimi interessi economici in Libia,

fin dalla decolonizzazione, che coinvolgono non solo l’Eni, ma anche altri gruppi industriali in vari settori. Anche dopo la caduta del governo di Gheddafi, i vari attori regionali libici hanno mantenuto attivi i canali preferenziali con l’Italia, anche militari. Non è un caso che la Noc (l’ente nazionale petrolifero libico) abbia svolto un ruolo essenziale per la riapertura di alcuni campi petroliferi gestiti dall’Eni e chiusi dalle milizie del generale Haftar. Il rischio, tuttavia, è legato alla perdurante instabilità nel Paese. Basti pensare al recente rapimento di alcuni tecnici italiani. Non solo. L’italia chiede, senza successo, un maggior controllo sui flussi migratori che, partendo dall’Africa centrale, usano la Libia come trampolino per l’Europa. Un ulteriore problema che impensierisce Francia e Regno Unito, che furono i principali esponenti del “partito della guerra” nel 2011, con lo scopo non dichiarato di accaparrarsi il mercato libico prima monopolizzato dall’Italia. Non una gran mossa, considerando che l’anarchia libica rende impossibile qualunque interesse economico nel lungo periodo. “Sic transit gloria mundi”, come ebbe a dire Silvio Berlusconi all’indomani della morte del vecchio leader libico.


ECONOMIA management sono ambiziosi: 1 miliardo di utili entro il 2019, l’aumento percentuale della redditività ed il passaggio del Cet1 dal 12,3% al 12,9%. Quest’ultimo è il maggiore indice di solidità di bancaria e indica con quali risorse si riescono a garantire i prestiti concessi ai clienti ed i rischi rappresentati dai crediti deteriorati. Tale stock, in linea con le previsioni, dovrebbero ridursi da 31.5 miliardi a 23.9 miliardi. Inoltre, si prevede anche l’uscita volontaria di 1800 dipendenti e la chiusura di oltre 300 filiali. Una grande opportunità. È questo ciò che sostengono i vertici aziendali. Lo stesso Mauro Paoloni, il vicepresidente di Banco Popolare, sostiene che sono stati i primi a “prospettare un’ipotesi nuova del diritto commerciale, ossia di trasformazione e fusione”. Ed è proprio grazie alla crescita fino al 70% del titolo, registratasi lo scorso anno, che la scelta è ricaduta sul merger of equals, ossia una “fusione tra pari”. Le spinte europee. Il processo che ha portato alla nascita di Banco Bpm è stato caratterizzato anche dalle rigorose richieste della Bce, alle prese con l’esame della sua prima fusione dopo l’avvio dell’Unione Bancaria. La vigilanza europea ha imposto al nuovo istituto un aumento di capitale da 1 miliardo, finalizzato all’innalzamento delle coperture sui succitati crediti deteriorati. La banca, come nella tradizione delle cooperative, avrà comunque la possibilità di destinare fino al 2,5% dell’utile per iniziative sociali a favore del territorio.

IL CRACK FINANZIARIO DELL’87

Analisi di un insolito e sconosciuto crollo borsistico

Di Edoardo Pignocco Tutti conoscono la crisi finanziaria del 1929. Tutti conoscono l’impeto distruttivo del caso Lehman Brothers. Ma forse non tutti ricordano cosa accadde nel lontano lunedì 19 ottobre 1987. Strano. Anche perché, in quella data, a Wall Street, si è registrata la più grande perdita di tutti i tempi: -22,6% sul Dow Jones. Di fronte a questi numeri, sarebbe stato lecito aspettarsi risvolti economici catastrofici: disoccupazione, illiquidità, inflazione, ecc. Ma, di tutto questo, non successe incredibilmente nulla, se non per un brevissimo periodo. Com’è stato possibile? La fine degli anni ’80 sancì la supremazia americana sul mondo intero. Di conseguenza, c’era piena fiducia nei confronti dell’economia statunitense, nonostante sia la bilancia commerciale sia il deficit pubblico non indicassero una situazione propriamente rosea. Ad accrescere il valore delle aziende targate USA ci pensò Michael Milken, finanziere della Drexel Burnham Lambert. Accortosi del fatto che raramente le imprese, anche con rating peggiore, non restituivano il capitale finanziato, escogitò i famosissimi junk bond. Quest’ultimi erano prestiti concessi a imprese mediopiccole di potenziale incerto: il rischio era alto, ma lo era anche il rendimento.

Tuttavia, ad un certo punto, i mercati incominciarono a rendersi conto della situazione anomala. Il valore azionario era, infatti, visibilmente troppo alto rispetto a quello reale. Inoltre, ad ottobre, vennero comunicati, per la prima volta in modoufficiale,idatimacroeconomici, che non erano poi così buoni come sembrava. I junk bond crollarono. Wall Street perse punti ogni giorno d’ottobre, fino ad arrivare al funesto “Lunedì Nero”. Iniziò una vendita sfrenata, su scala internazionale, delle azioni statunitensi e dei relativi futures. I trading system vennero impostati per eseguire immediatamente ogni ordine di vendita, senza alcun tipo di sospensione (oggi 10% al ribasso). La conseguenza fu il Dow Jones è in caduta libera. Vennero distrutti anni e anni di creazione di valore borsistico. Mai così male. Tuttavia, rispetto alle crisi del 1929 e del 2008, lo scoppio della bolla del 1987 non ebbe conseguenze troppo severe, tanto che, quattro anni dopo, il Dow Jones sarebbe arrivato a toccare nuovi massimi storici. Questo è stato possibile grazie ai subitanei interventi da parte di Fed e banche centrali. Queste, infatti, hanno tempestivamente iniettato liquidità al sistema finanziario, in modo tale da evitare un arenamento sistemico dell’economia. MSOI the Post • 21


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