Msoi thePost Numero 42

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino

RUSH TO THE WHITE HOUSE Sei approfondimenti per capire le elezioni americane


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

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RUSH TO THE WHITE HOUSE Sei approfondimenti per capire le elezioni americane

LA POLITICA INTERNAZIONALE STATUNITENSE NELLE PRESIDENZIALI 2016 INTERVISTA AD ANNA CAFFARENA

Anna Caffarena è professore associato di Relazioni internazionali presso l’Università di Torino, è Presidente del Corso di Laurea Magistrale in Scienze Internazionali. Dal novembre 2013 fa parte dello United Nations System Staff College Expert Technical Review

Panel, organo che contribuisce al monitoraggio dell’attività di formazione dello UNSSC. Nel luglio 2011, in qualità di esperto per la macroarea Scienze umane, politiche e sociali, è stata designata dal Senato Accademica a far parte del neocostituito Osservatorio sulla Ricerca dell’Università di Torino. È Associate Editor for Italy della European Review of International Studies (CoEditors A.J.R. Groom, University of Kent at Canterbury, e Christian Lequesne, CERI-Parigi). Stiamo per entrare nell’ultimo tratto di una campagna elettorale che è stata per molti aspetti anomala e scarsa di dibattiti concreti sulle politiche dei due candidati. Per quanto riguarda la politica estera, da un lato abbiamo gli slogan e gli attacchi di Donald Trump, dall’altro troviamo le politiche già note di Hillary Clinton. In un quadro teorico delle relazioni internazionali di riferimento,

dove inserirebbe i due candidati? Ragionare sulla politica facendo ricorso ai punti di riferimento tradizionali è diventato più difficile a ogni livello e in ogni luogo. Gli orientamenti di politica estera non fanno eccezione. Penso al dibattito sorto attorno alla possibilità di ricondurre la politica estera dell’amministrazione del Presidente George W. Bush all’internazionalismo liberale, per il ruolo attribuito al “regime change” e alla leadership americana. Oppure al pubblico interrogarsi di alcuni esperti sul realismo del Presidente Obama, al quale era stato attribuito nel 2009 il Premio Nobel per il ritorno al multilateralismo e la valorizzazione della cooperazione che aveva annunciato. Se guardiamo ai candidati attuali, per l’importanza attribuita al potere, in particolare a quello militare, nelle relazioni internazionali, ma anche per l’inclinazione a

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riconoscere i rapporti di forza come base per impostare le relazioni diplomatiche con paesi come Russia e Cina, potremmo dire che Donald Trump è un realista. Hillary Clinton può invece essere associata al liberalismo per il ruolo attribuito a principi e valori, fra il resto. Le sollecitazioni che verranno dalla sfera internazionale stabiliranno quanto peserà il disegno – e quanto invece la necessità di rispondere alle contingenze – nella definizione della politica estera della prossima Amministrazione. Nel definire il concetto di soft power, Joseph Nye nel 2004 affermava che “un Paese può raggiungere i suoi scopi in politica estera perché altri Paesi desiderano seguirlo”. In questo senso il presidente Obama è riuscito a divincolarsi dall’eredità del governo Bush, ottenendo molteplici risultati in politica estera durante il suo mandato. Sarebbe possibile, secondo lei, un ritorno all’uso dell’hard power? Il ricorso all’hard power, come alternativa al soft power caro a Joseph Nye, è costoso sul piano economico e complesso sul piano politico. Tanto il bastone quanto la carota richiedono un investimento del quale i cittadini americani sembrano progressivamente meno disponibili a farsi carico. Non credo dunque che si registrerà 4 • MSOI the Post

un’autonoma inclinazione a far ricorso alla forza nelle relazioni internazionali da parte degli Stati Uniti. Ci sono però due fattori dei quali occorre tener conto. Il primo è che l’uso della forza è di norma sollecitato da eventi esterni che vengono “letti” in modo tale da far apparire la forza uno strumento utile per farvi fronte. Non possiamo escludere che una circostanza di questo genere si verifichi in futuro. L’esperienza recente dovrebbe consigliare comunque agli Stati Uniti una maggiore razionalità almeno nel calcolo di costi e benefici del ricorso alla forza. Secondo elemento di contesto, più preoccupante: i frequenti richiami al “ritorno della politica di potenza” nel discorso pubblico internazionale potrebbero ben trasformarsi in una profezia che si autoavvera. In questo caso dovremmo aspettarci che, nella miscela giudicata più efficace, la proporzione tra strumenti di hard e soft power cambi, e non a favore dei secondi, in tutti i principali attori del sistema internazionale. Il 31 agosto scorso Hillary Clinton ha pronunciato un discorso sull’eccezionalismo americano, in cui ha affermato che l’America possiede abilità impareggiabili per essere una forza per la pace e il progresso e che parte di ciò che rende l’America eccezionale è il fatto che sia una nazione indispensabile. Ritiene che in

uno scenario internazionale in cui le potenze emergenti iniziano a confondersi con le cosiddette “grandi potenze”, gli Stati Uniti siano ancora oggi una nazione indispensabile? Credo che gli Stati Uniti siano ancora un attore centrale nelle dinamiche internazionali, per varie ragioni che non elenco perché sono evidenti. Fatico invece a rispondere su quanto siano indispensabili. Se con questo concetto intendiamo dire che nulla (di buono) può accadere senza il loro concorso, la stessa complessità della politica globale suggerisce il contrario. Nessuno dei due candidati ha evidenziato come potrebbero evolversi in concreto i rapporti tra USA e Russia, soprattutto dopo le crisi diplomatiche nello scenario mediorientale. Il deterioramento delle relazioni tra i due Paesi è stato più volte definito come un ritorno alla Guerra Fredda. Crede che i diversi contesti geopolitici, di oggi e di allora, con le opportune differenziazioni, possano essere messi in parallelo? Come tutte le etichette che ci riportano al noto, anche quella di Nuova Guerra Fredda ha avuto molto successo soprattutto sui media, ma non soltanto. Fra gli internazionalisti e gli storici, alcuni sostengono che sia efficace, altri che sia fuorviante. Personalmente credo, al di là del caso specifico, che dovremmo


provare ad affrancarci dal passato, a partire dagli strumenti concettuali utilizzati per dare un senso a ciò che osserviamo. Riflettere sulle dinamiche dell’oggi senza condizionamenti è essenziale. Il dinamismo delle relazioni internazionali in una fase che ormai molti concepiscono come di “transizione” segna, ad esempio, una differenza sostanziale rispetto al contesto bipolare al quale l’idea di una Nuova Guerra Fredda rimanda. Il professor John C. Hulsman, in un suo recente articolo, ha affermato che la vittoria di Hillary Clinton potrebbe trascinare l’Unione Europea in una crisi transatlantica, a causa dell’eccessivo interventismo dell’ex Segretario di Stato. Secondo il professore, gli europei dovrebbero sperare in una vittoria di Trump, che con il suo isolazionismo permetterebbe all’Europa di pensare ai propri problemi interni, senza doversi precipitare in guerre affrettate. Come considera quest’analisi? L’isolazionismo – o meglio l’orientamento per una linea di retrenchment – del candidato Trump, se fosse messo in pratica, costringerebbe l’Europa ad assumere un ruolo più attivo, trasformandosi in un polo nel senso indicato da John Ikenberry quando parla di “poli come hub”, cioè in una forza organizzativa nelle relazioni internazionali. Quanto l’Europa, per via della sua particolare natura di attore non stato, sia in condizione di svolgere questa

funzione è dubbio, quanto sia pronta a farlo pure. Dunque non mi pare che, in questo momento, l’Europa possa caldeggiare che gli Stati Uniti adottino una simile linea: le reazioni negative e preoccupate di molti leader europei – e non solo – di fronte al programma di ridimensionare il peso delle alleanze (e degli alleati) nella politica estera americana credo rifletta questa convinzione. Mi pare invece che l’eventuale attivismo di una Presidenza Clinton lasci comunque maggior spazio di decisione ai paesi europei. Certo oggi è importante, anche per l’Europa, avere una visione chiara e articolata dei propri obiettivi (delle priorità, non delle urgenze) e delle risorse che possono essere investite per conseguirli in modo da sviluppare una linea propria sulla quale confrontarsi con i partner. Sia negli USA che in Europa mancano dei dibattiti concreti sulla strada per riformare un governo mondiale che sia meno conflittuale e più equo. Viste le tendenze isolazioniste sempre più forti da parte degli Stati, crede che, con il passare del tempo, una governance globale multilaterale basata sulla cooperazione resterà un mezzo appetibile per i governi e per le opinioni pubbliche, che sembrano preoccuparsi sempre meno di ciò che accade al di fuori dei propri confini? In presenza di specifici problemi che richiedono un impegno collettivo per essere affrontati – dalle epidemie alle migrazioni –,

l’appello degli stati a meccanismi di cooperazione internazionale istituzionalizzata è sempre forte. Poiché è improbabile che questo genere di sfide di carattere transnazionale diminuiscano per numero e rilevanza in futuro, potremmo concludere che la governance globale continuerà a essere appetibile per stati e opinioni pubbliche. In realtà, da qualche tempo ci si interroga con preoccupazione sul suo destino perché il multilateralismo è in affanno: le difficoltà incontrate dal WTO negli ultimi anni ne sono forse l’indicatore più visibile, ma anche le aspettative generate dal G20 sono state sostanzialmente tradite. Il rischio è che, a fronte di organizzazioni internazionali sempre meno efficaci e rappresentative, il sistema internazionale si frammenti e la governance venga a dipendere dall’eventuale iniziativa di gruppi “minilaterali”. A questo proposito, il fatto che non vi sia un vero dibattito negli Stati Uniti e in Europa sull’ordine internazionale, del quale la governance è la dimensione operativa, è effettivamente un segno non incoraggiante: in questo il ripiegamento di tanti paesi conta moltissimo. L’attenzione dei paesi emergenti, penso innanzitutto alla Cina, per questi temi potrebbe costituire un pungolo. La questione è se le leadership dei paesi Occidentali saranno sufficientemente attente da cogliere i segnali che vengono dal mondo. Intervista a cura di Daniele Baldo

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IL FATTORE INTERNAZIONALE Corsa alla Casa Bianca, la politica estera in secondo piano. Le posizioni dei due candidati

Di Daniele Baldo La politica estera è una delle responsabilità maggiori del Presidente americano, poiché, specialmente in tale materia, il Congresso ha sempre cercato di evitare di interferire con le politiche dell’esecutivo. Ciò implicherebbe che le posizioni assunte su temi di politica estera debbano essere un punto cruciale per imparare a conoscere i candidati e che gli elettori debbano essere opportunamente informati su come questi tengano in considerazione i differenti scenari e le rispettive strategie. La realtà, però, sembra aver preso una direzione differente. Molti esperti ritengono che questa campagna presidenziale sia una delle peggiori della storia recente, vista anche la scarsa attenzione che è stata rivolta alla politica estera nei dibattiti presidenziali. Anche durante le primarie dei due partiti molte questioni sono state completamente ignorate, come la guerra in Afghanistan o in Yemen, temi mai sottoposti ai due candidati. Esito di questa noncuranza nel dibattito pubblico è che ad una sola settimana dal voto non è chiaro come Clinton e Trump 6 • MSOI the Post

possano comportarsi in merito a molte delle tematiche riguardanti le relazioni internazionali. Dall’inizio della campagna ad oggi i due candidati hanno avuto occasione di far trasparire le loro posizioni su vari argomenti di politica estera quali il conflitto siriano o la lotta al sedicente Stato Islamico. Hanno lasciato comunque numerose questioni aperte, visti soprattutto i toni aspri con cui i due sfidanti si sono fronteggiati. Solamente lo scorso 25 ottobre, sulla guerra civile in Siria, Trump ha affermato che Clinton potrebbe trascinare gli Stati Uniti in una guerra mondiale a causa di un approccio troppo aggressivo per la risoluzione del conflitto. Mentre Trump non hai mai rivelato esattamente quale sarebbe la sua politica in questo scenario per evitare di “perdere l’effetto sorpresa”, Clinton ha proposto la creazione di una no-fly zone e di “aree sicure” sul campo per proteggere i civili. Alcuni analisti temono, però, che tali zone possano portare gli USA in conflitto diretto con la Russia. Trump ha anche criticato la sua avversaria per come aveva gestito le relazioni con Mosca da

Segretario di Stato e ha sollevato dubbi sul suo criticismo nei confronti di Putin, figura che Trump ritiene essere un partner di primissimo piano. Un altro Paese rimasto fuori dai radar del dibattito politico, in parte oscurato dai vari scandali e da altre questioni di attualità, è la Cina. Hillary Clinton è stata sempre critica nei confronti del carente rispetto dei diritti umani del governo cinese, definendo la dinamica USA-Cina come “una delle relazioni più impegnative che abbiamo”. Ha altresì affermato che tale rapporto è “positivo, cooperativo e comprensivo”. Durante il suo mandato come Segretario di Stato, Clinton ha spinto il governo verso una più forte regolamentazione delle emissioni di gas climalteranti che rispettasse gli standard internazionali. Donald Trump, invece, si è scagliato fin dal primo giorno di candidatura contro la Cina, descrivendola come uno degli avversari di punta degli Stati Uniti, specialmente per quanto riguarda la politica economica. Da Presidente, Trump attuerebbe una politica più decisa contro Pechino, con tariffe più elevate nei trattati commerciali e un’azione militare dell’esercito


americano nel Mar cinese meridionale, un deterrente per le pretese territoriali verso le isole artificiali situate nell’arcipelago delle Spratly. Anche nei confronti dell’Unione Europea il candidato repubblicano ha espresso critiche, accusando i leader continentali di non fare abbastanza per combattere il flusso di terroristi attraverso i loro confini. Lo stesso tipo di affermazione è giunto da Clinton, che ritiene i cosiddetti foreign fighters che ritornano dalle zone mediorientali una minaccia alla sicurezza europea. A differenza di Trump, Clinton ha sostenuto l’importanza degli alleati europei e della sopravvivenza della NATO. Come ha affermato la professoressa Anna Caffarena nell’intervistata che introduce questo articolo, è molto improbabile che il futuro della Casa Bianca sia rivolto verso un maggior uso della forza. In questa prospetti-

va sarà interessante vedere, che vinca il candidato democratico quanto quello repubblicano, se ed in che modo le posizioni assunte durante la campagna elettorale verranno rispettate.

quale sarebbe la loro soluzione per risolvere tali conflitti, anche e soprattutto perché questi sono rimasti sconosciuti all’opinione pubblica durante i mesi di campagna elettorale.

In un certo senso, la mancanza di attenzione verso la politica estera nei dibattiti presidenziali ha riflesso il disinteresse degli elettori. Tale disinteresse, tuttavia, non giustifica totalmente la mancanza di domande riguardo i conflitti in corso in cui gli Stati Uniti sono parte attiva.

Il fatto che alcune delle guerre in cui gli Stati Uniti partecipano non siano oggetto di dibattito per decidere il prossimo Commander in Chief avrà delle ripercussioni, negli USA come all’estero, poiché non sarà possibile ritenere i candidati responsabili per strategie politiche di cui non hanno mai dovuto rendere conto in pubblico.

Se si dà uno sguardo ai tre dibattiti mettendosi nei panni di un elettore medio poco informato si potrebbe pensare che gli Stati Uniti siano presenti militarmente nel mondo esclusivamente in Siria e in Iraq, e non si avrebbero indicazioni riguardo al fatto che le forze americane siano presenti da oltre 15 anni in Afghanistan, nonché in Yemen, da più di un anno. Ai candidati non è mai stato chiesto

Probabilmente i dibattiti erano il momento giusto per mettere a confronto e spingere a parlare Donald Trump e Hillary Clinton riguardo temi di interesse non solo americano ma anche internazionale. Ciò non è stato fatto a dovere e sarà difficile farlo quando il nuovo Presidente eletto entrerà nello Studio Ovale.

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YEMEN, CHI ERA COSTUI? Breve storia di uno giovane Stato

Di Martina Terraglia Quando guardiamo al Medio Oriente, abbiamo di fronte dei governi giovani, ma che hanno ottenuto l’indipendenza dalle potenze coloniali tra gli anni ’50 e ’60. Lo Yemen è una realtà molto più recente, almeno nella forma che conosciamo oggi: l’unificazione tra la Repubblica Araba dello Yemen (Nord) e il Protettorato di Aden (Sud) risale solo al 1990. Il gioco politico di questo giovane Stato è stato sempre molto complesso, caratterizzato da un equilibrio precario tra governo e gruppi tribali, con forti ingerenze straniere, soprattutto da parte dell’Arabia Saudita, che ha sempre considerato lo Yemen come uno Stato satellite, quando non addirittura cliente. Dal 1990 al 20 12, Presidente della Repubblica dello Yemen è stato il controverso Ali Abdullah Saleh: le sue politiche sono additate tra le principali cause dell’estremo tasso di povertà che si registra nel Paese. Infatti, fino alla metà degli anni ’90, una delle principali fonti di guadagno per le famiglie yemenite era rappresentata dalle rimesse inviate dagli Yemeniti che lavoravano all’estero, soprattutto in Arabia Saudita. Durante la guerra in Kuwait, Saleh rifiutò di appoggiare USA e Arabia 8 • MSOI the Post

Saudita nell’invasione dell’Iraq, scatenando la reazione dell’Arabia Saudita: 800.000 lavoratori yemeniti vennero espulsi, generando una grave crisi economica e di disoccupazione, a causa della fine delle rimesse e dell’enorme afflusso di nuovi jobseekers sul mercato yemenita.

del tasso di disoccupazione e le continue ingerenze straniere portano all’esplodere delle rivolte popolari del 2011, che si inseriscono nel più generale quadro della Primavera Araba. Questa rivolta va letta soprattutto come una reazione alla forte crisi di legittimità che ha colpito il governo yemenita, colpevole agli Da questo momento in poi, lo Yemen occhi della popolazione di aver diventerà sempre più dipendente dagli lasciato che il Paese versasse in aiuti stranieri e, pertanto, più soggetto condizioni catastrofiche. alle volontà degli attori internazionali. Intanto, Saleh delineò una forma Nel 2012, in seguito a 2 attacchi alla di governo definita da Burrowes sede del governo, Saleh lascia il Paese cleptocrazia: controllando gli uffici e si dimette. Viene sostituito dal suo e i comitati adibiti alla gestione dei Primo Ministro, Abdrabbuh Mansour fondi esteri, Saleh riuscì a deviare Hadi. Dietro questa decisione è questi ultimi verso una rete di rapporti impossibile non leggere l’intervento clientelari e tribali, esacerbando di Ryadh: nel tentativo di mantenere il processo di pauperizzazione del la stabilità dell’area, Saleh, odiato Paese. dal popolo, incapace di mantenere le alleanze con i contropoteri interni e Controverse anche le posizioni di non sempre in linea con le politiche Saleh in politica estera: nonostante saudite, doveva essere deposto. l’appoggio dichiarato agli Stati Uniti Hadi, d’altro canto, rappresentava nella lotta al terrorismo, nel 2009 un’opzione meno radicale rispetto a vengono liberati 176 guerriglieri un governo sciita. di al-Qaeda, dietro promessa di un comportamento pacifico. Tra i principali risultati del governo Tale promessa viene disillusa e, a Hadi si annovera la National Dialogue seguito del susseguirsi degli attacchi Conference, che avrebbe dovuto terroristici, l’esercito yemenita, col facilitare il processo di transizione supporto delle forza statunitensi, e a cui hanno partecipato anche gli lancia offensive in tutto il Paese, Houthi. Sebbene il nuovo governo coinvolgendo anche i civili. sia stato salutato agli osservatori internazionali come un successo, Il dilagare della povertà, l’aumento sembra che i problemi di legittimità


non siano stati risolti: la popolazione vede nel nuovo governo la semplice continuazione del precedente, tanto più che le vecchie élites non sono state sradicate. Il nuovo governo non è pertanto riuscito a sedare le rivolte, nonostante l’appoggio della comunità internazionale: le violenze e le insurrezioni sono continuate in tutto il Paese, perpetrate soprattutto dai ribelli sciiti Houthi, al-Qaeda e Ansar al-Shari’a.

la divisione del Paese in aree ricche e aree povere. Il ramo yemenita di al-Qaeda ha iniziato ad acquisire potere dal 2009, in seguito agli sofrzi di Ryadh per sradicare il terrorismo dal territorio saudita. A causa dell’intensificarsi degli attacchi terroristici e della crescente efficacia della propaganda jihadista, gli Stati Uniti hanno adottato in Yemen un politica bifronte: da un lato, hanno erogato maggiori fondi per lo sviluppo del Paese; dall’altro, hanno rafforzato la presenza militare sul territorio yemenita, portando a termine vari attacchi contro i leader del movimento, nei quali sono spesso stati coinvolti anche civili. Nel 2011, al-Qaeda crea il movimento parallelo Ansar al-Shari’a, con il fine di reclutare un maggior numero di volontari yemeniti. Il conflitto scoppiato nel 2014 potrebbe favorire al-Qaeda piú di qualsiasi altra fazione: si tratterebbe, infatti, dell’unico gruppo libero dal sospetto di manipolazioni straniere. Questo, a lungo termine, potrebbe garantirgli il sostegno della popolazione.

Gli Houthi sono un gruppo di matrice sciita-zaidita con roccaforte a Sa’adah, nel nord dello Yemen. Principali attori della guerra civile degli anni ’90, gli Houthi sono passati da oppositori di Saleh a suoi sostenitori e “stipendiati”: è stato proprio Saleh a fornire loro il supporto necessario per conquistare Sana’a nel 2014. Le ragioni di questo cambio di rotta vanno ricercate nei difficili raporti di Saleh con Ryadh. L’Arabia Saudita sospetta, inoltre, che gli Houthi siano sostenuti dall’Iran, sebbene i leader locali neghino. Nonostante la partecipazione alla National Dialogue Conference, gli Houthi hanno poi rifiutato gli esiti del Gulf Cooperation Council del 2011, affermando che avrebbe accentuato Come già affermato, l’Arabia Saudita

ha sempre avuto un atteggiamento patronale nei confronti dello Yemen: da qui, la punizione in seguito al mancato supporto durante la guerra in Kuwait e le forti pressioni per l’abdicazione di Saleh. Senza l’appoggio saudita, Saleh si è trovato costretto a rivolgersi agli Houthi, suoi vecchi rivali, ora maggiori sostenitori della legittimità del suo governo. Di nuovo, nel 2014, dopo la presa di Sana’a da parte degli sciiti, l’Arabia Saudita è intervenuta, questa volta a capo di una coalizione di Stati arabi, per restaurare il governo di Hadi, temendo ingerenze iraniane nel Paese. Il raggiungimento della stabilità in Yemen è interesse anche degli Stati Uniti, che senza dubbio preferirebbero un moderato come Hadi a un governo sciita e, quindi, filo-iraniano. Peccato, però, che lo Yemen non sia di alcun interesse strategico per l’Iran. Come scrive Gwynne Dyer, “se è vero che negli ultimi dieci anni l’influenza iraniana è cresciuta nella regione del Golfo, questa è in larga misura una conseguenza dell’invasione statunitense in Iraq del 2003, non di un qualche nefasto complotto iraniano”.

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EUROPA 7 Giorni in 300 Parole

FRANCIA 26 ottobre. Il prefetto di Calais Fabien Buccio ha annunciato il definitivo sgombero dei circa 8.000 rifugiati che abitavano la “giungla”. L’evacuazione, iniziata lunedì 24 ottobre, è stata portata a termine con il susseguirsi di diversi incendi nel campo. Per il ricollocamento nei centri di accoglienza su tutto il territorio francese è stata privilegiata la scelta dei gruppi etnici di restare insieme. 26 ottobre. Continuano le proteste dei poliziotti a Parigi. Da un lato la richiesta di un maggiore sostegno da parte dello Stato, dall’altro la promessa di Hollande di un investimento da 100 milioni di euro. LITUANIA 23 ottobre. Con il 22.45 % dei voti e 56 seggi su 141 l’Unione Lituana dei contadini e dei verdi ha vinto le elezioni legislative. Il partito socialdemocratico, attualmente al governo, ha ottenuto invece solo 17 seggi. Il successo dei verdi è dovuto alla generale insoddisfazione nei confronti dei partiti tradizionali, dei bassi salari e della continua emigrazione. SPAGNA 25 ottobre. Re Filipe VI ha incaricato Mariano Rajoy, leader del Partito Popolare spagnolo, di formare il nuovo

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GLI SGOMBERI DI CALAIS

Il fallimento delle politiche europee sull’immigrazione?

Di Benedetta Albano

poliziotti.

“La giungla”: così viene definito il campo migranti di Calais, uno dei principali in Europa, dove si stima siano accolte, in condizioni estremamente precarie, fra le 6.000 e le 8.000 persone. Una situazione dichiarata più volte inammissibile dalla stessa prefettura francese, che ha dato l’ordine di iniziare gli sgomberi il 24 ottobre.

Il grosso degli spostamenti si verificherà in pullman e verrà data ai migranti la possibilità di scegliere fra due destinazioni, in centri di accoglienza sparsi per tutto il territorio nazionale (escluse le regioni della Corsica e dell’Ile-de-France). In prossimità del campo è stato allestito un quartiere generale per le operazioni, dove coloro che partono sono divisi in quattro categorie: maggiorenni, minorenni non accompagnati, famiglie e persone appartenenti a categorie vulnerabili (come le donne sole).

Calais è il punto di partenza per il Regno Unito, dove la maggior parte dei migranti è diretta. Secondo il ministro francese degli Interni Bernard, entro la fine della settimana nel campo dovrebbero rimanere circa 2.000 persone, che avranno ancora speranza di raggiungere l’Inghilterra. Alcune di queste stanno iniziando a partire verso Londra e altre zone del Regno Unito grazie all’Emendamento Dubs, che permette speciali trasferimenti a categorie come rifugiati e minori. Si parla di “grande evacuazione”. Non sono coinvolte, infatti, solo le autorità francesi, ma anche vari volontari di alcune ONG: l’obiettivo è cercare di mantenere la sicurezza e limitare il rischio degli scontri, che hanno già animato la notte del 23 ottobre. Il dispiegamento delle forze dell’ordine è comunque imponente: si parla di numeri che vanno dai 1.300 ai 2.000

Le associazioni umanitarie, in particolare Medici Senza Frontiere, monitorano la situazione e esprimono preoccupazione per le categorie più a rischio (il numero dei minori presenti nel campo si aggira intorno alle 1.300 persone), soprattutto a causa del traffico illecito di esseri umani. “La giungla” di Calais è diventata il simbolo di un’Europa che ha fallito nella creazione di una politica migratoria e di integrazione comune. Nel cuore dell’Unione si è consumata in questi mesi una costante violazione di diritti umani, senza che gli Stati principali siano riusciti a impedirla raggiungendo un’intesa comune.


EUROPA governo. Al momento Rajoy non ha la maggioranza in Parlamento e si è mostrato “perfettamente consapevole delle difficoltà di governare in minoranza”. Tuttavia El Pais prevede che il leader otterrà la fiducia nella seconda votazione, da tenersi sabato, grazie al sostegno di tre partiti minori e, soprattutto, alla fondamentale astensione dei socialisti. UNGHERIA 25 ottobre. Dopo un anno dalla costruzione della barriera di filo spinato lungo i 175 km della frontiera, il premier Viktor Orban ha deciso ora di avviare le operazioni per la costruzione di una nuova barriera al confine meridionale con la Serbia. Il timore è quello di un eccessivo flusso di profughi provenienti dal Medio – oriente diretti in Europa. UNIONE EUROPEA 27 ottobre. Trovato l’accordo con la Vallonia, che aveva in precedenza posto il veto, per la firma del CETA, comprehensive Economic and Trade Agreement, tra Canada ed Unione Europea. Si tratta di un accordo di libero scambio dal valore di 12 miliardi di euro. Una copia del testo d’intesa è stato già trasmesso all’UE, ma per l’ufficializzazione bisogna attendere ancora la ratifica del parlamento belga. 25 ottobre. Prolungati di ulteriori 3 mesi i controlli alle frontiere interne di Austria, Germania, Svezia, Danimarca e Norvegia. Secondo il Commissario europeo per le migrazioni, gli affari interni e la cittadinanza Avramopoulos mancherebbero ancora le condizioni per il pieno ripristino dell’area Schengen. A cura di Giulia Ficuciello

LA SPAGNA RIAVRÀ UN GOVERNO L’astensione dei socialisti apre la strada alla formazione di un governo di minoranza

Di Claudia Cantone Dopo due elezioni generali e circa 9 mesi senza un governo ufficiale, la politica spagnola sembra finalmente uscire dall’impasse. La svolta è arrivata domenica 23 ottobre, quando il Comitato Federale del Partito Socialista ha approvato, con 139 voti a favore (59, 1%) e 96 contrari (40, 8%), una nuova risoluzione. Il gruppo socialista voterà no durante la prima sessione parlamentare d’investitura di Mariano Rajoy, ma si asterrà durante la seconda votazione, permettendo così la formazione di un governo di minoranza. Javier Fernandez, alla guida del comitato di gestione provvisorio del PSOE, ha precisato che “astenersi non vuol dire appoggiare”. I socialisti sono giunti alla loro conclusione dopo un profondo dibattito interno, che a inizio ottobre ha portato alle dimissioni del segretario generale Pedro Sanchez. La decisione è stata presa alla luce del difficile momento che il Paese sta attraversando, per evitare di tornare al voto per la terza volta in un anno. Ma se, da una parte, l’astensione dei socialisti permetterà alla Spagna di avere un esecutivo ufficiale, dall’altra il quadro politico era e resta complicato.

Il nuovo governo nasce già debole, perché manca di una maggioranza in Parlamento su cui fare affidamento: il PP, infatti, può contare soltanto su 137 seggi e neppure con l’appoggio dei 32 seggi del partito centrista Ciudadanos potrebbe riuscire a raggiungere la maggioranza di 176 seggi. Questa composizione costringerà il futuro Premier a negoziare, di volta in volta, ogni provvedimento con le altre forze parlamentari. Mariano Rajoy, dunque, dovrà fare i conti con la posizione dei socialisti, i quali hanno già precisato che la scelta dell’astensione non comporta nessuna possibilità di appoggio al futuro governo: il PSOE è e rimane il primo partito di opposizione. Una linea ancora più dura è stata adottata da Pablo Inglesias, che ha criticato aspramente la nascita di questa “grande coalizione”, come l’ha definita, ribadendo che Podemos resterà l’unica alternativa forza di opposizione. In conclusione, questa settimana la Spagna potrà tirare un sospiro di sollievo: dopo 300 giorni vi sarà un esecutivo ufficiale alla guida del Paese. Tuttavia, lo scontro in Parlamento si preannuncia piuttosto acceso già nelle prossime settimane, quando si dovrà discutere la legge di bilancio da presentare a Bruxelles.

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NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole

STATI UNITI 21 ottobre. Jim Murphy, direttore politico nazionale di Donald Trump, si è sfilato dalla campagna del candidato repubblicano “per motivi personali”. Pur non trattandosi di vere e proprie dimissioni, l’accaduto segna un duro colpo per le sorti di Trump, la cui credibilità è sempre più in bilico. 21 ottobre. Si è rivelato essere un falso allarme quello che ha costretto all’evacuazione della sede del comitato elettorale nazionale di Hillary Clinton, a New York. Il segnale di pericolo era nato da una busta contenente una polvere sospetta, recapitata all’ufficio di Clinton. Le analisi della polizia hanno confermato che la sostanza non era in alcun modo pericolosa. 21 ottobre. Un cyber-attacco di notevoli dimensioni ha tenuto sotto scacco il web americano per tutta la giornata, rendendo inaccessibili centinaia di siti. Alla base, un attacco ai server della Dyn, l’azienda che gestisce il traffico internet. Ancora ignote le responsabilità, ma i primi sospetti parlano di un “disegno” russo o cinese in chiave antiamericana. Non è comunque da escludere che gli autori si rifacciano, invece, a gruppi di hacker più isolati. 25 ottobre. Il Segretario alla Difesa statunitense, Ash Carter, ha dichiarato in un’intervista che gli Stati Uniti sono pronti 12 • MSOI the Post

IL CETA SOTTO ATTACCO

Le aspettative canadesi disattese dal voto contrario della Vallonia

Di Erica Ambroggio A partire da venerdì 14 ottobre, la politica commerciale internazionale è stata infiammata dalle incessanti polemiche relative al voto contrario della regione belga della Vallonia in merito all’approvazione del CETA Comprehensive and Economic Trade Agreement - tra Canada e Unione Europea. Il testo dell’accordo, negoziato per 5 anni e giunto alla stesura finale nell’agosto del 2014, avrebbe dovuto superare l’approvazione da parte dei membri dell’UE. Il Belgio, tuttavia, sulla base delle disposizioni nazionali in materia di procedura legislativa, non ha potuto acconsentire alla ratifica del trattato, in programma per il 27 ottobre. Il primo ministro canadese Trudeau ha espresso profondo rammarico, auspicando un cambio di rotta da parte degli oppositori. La ratifica del CETA avrebbe dato luogo a una maxi area di libero scambio commerciale svincolata dagli attuali dazi doganali. Una manovra imponente e dagli immediati effetti sull’economia canadese, improntata, ormai da molto tempo, a innalzare i livelli di esportazione con i clienti europei. A trarre maggior vantaggio dall’approvazione del CETA sarebbero stati i settori dell’indu-

stria automobilistica, aerospaziale, informatica e tecnologica, uniti ai settori dell’industria agroalimentare, chimica, metallurgica e delle telecomunicazioni. Nelle aspettative canadesi, inoltre, sarebbe rientrato un roseo scenario di investimenti stranieri. La trasparenza e la sicurezza delle operazioni avrebbe incentivato soggetti europei a investire in Canada, rafforzando i livelli di partnership tra i due attori dell’accordo e creando numerosi posti di lavoro per la popolazione canadese. Tuttavia, i ritardi della ratifica hanno condotto il Canada a riconsiderare la propria situazione commerciale, riportando alla ribalta l’ombra della dipendenza economica dagli Stati Uniti. Dall’altra parte, è ora valutato come cruciale un eventuale accordo di libero scambio con la Cina, con la quale, nel mese di settembre, sono stati avviati negoziati per l’attivazione di una cooperazione bilaterale. Le forze in gioco, tuttavia, stanno tentando in ogni modo di renderne possibile la ratifica. Giovedì 27 ottobre, a seguito di numerose trattative, la Vallonia, nonostante sia stata la fonte del mancato viaggio a Bruxelles di Justin Trudeau previsto per la stessa giornata, ha manifestato un possibile cambio di opinione in favore dell’ancora incerto alleato canadese.


NORD AMERICA all’offensiva su Raqqa, la roccaforte siriana dello Stato Islamico. Carter ha precisato che l’assalto è previsto già nelle prossime settimane, essendo da tempo nei piani del Pentagono. Intanto, la lotta americana all’Isis continua anche in Libia, a Sirte, dove i raid sono stati 337 dallo scorso agosto. 26 ottobre. Stando agli aggiornamenti della CNN, Clinton vola nei sondaggi, sovrastando Trump di 9 punti percentuali. L’ex First Lady si attesterebbe infatti al 48% delle preferenze, contro lo scarno 39% dell’avversario repubblicano. Secondo un’indagine di Bloomberg, però, Trump continua ad essere insidioso in alcuni swing states quali il North Carolina e la Florida, stato nel quale il suo vantaggio si attesta però su soli 2 punti. CANADA 22 ottobre. Continuano, anzi si inaspriscono le proteste di attivisti e indigeni contro la costruzione dell’oleodotto Dakota Access, al confine tra Stati Uniti e Canada. Si sono registrati circa 80 arresti tra i manifestanti a Cannon Ball (Stati Uniti), sulle rive del fiume Missouri, dove le forze dell’ordine hanno anche utilizzato dello spray al peperoncino per placare le proteste. 27 ottobre. Il premier Trudeau ha cancellato il suo viaggio a Bruxelles, che avrebbe dovuto coincidere con la firma del Ceta, il trattato commerciale bloccato dal veto della Vallonia. In giornata il Primo Ministro belga ha però annunciato che un’intesa è stata trovata, donando nuova speranza al processo. A cura di Silva Perino Vaiga

PIZZA, MANDOLINO E FOGLIA D’ACERO Breve storia dell’infiltrazione mafiosa in Canada

Di Alessandro Dalpasso Mentre a Washington il presidente Obama riceveva il premier Matteo Renzi per la sua ultima cena di Stato ufficiale come inquilino della Casa Bianca, a Montreal il premier canadese Trudeau era occupato a risolvere un’altra questione collegata con l’Italia. Il Canada, infatti, è attraversato da decenni da una guerra silenziosa, ma non per questo priva di crudeltà, e da spargimenti di sangue che creano un link tra questo Paese e il sud dello Stivale. L’ultimo episodio di violenza è stato l’omicidio di Vincenzo Spagnolo, abbattuto a colpi di arma da fuoco nella sua casa a Laval. Spagnolo, 65 anni ed ex braccio destro del boss della mafia calabrese in Canada Vito Rizzuto, è solo una delle vittime di questa guerra, che si combatte fra le strade canadesi per il controllo del mercato della droga o per assicurarsi le zone migliori dove installare attività commerciali come ristoranti, bar o sale slot. Analizzando i due schieramenti di questa battaglia, troviamo da una parte un clan che risponde ad alcune famiglie della mafia

siciliana e dall’altra le bande della ‘Ndrangheta calabrese. La storia dell’infiltrazione mafiosa sotto la foglia d’acero ha radici lontane e inizia a Montreal negli anni ’80. Per svariati decenni il regno del clan siciliano non ha conosciuto rivali. Nell’autunno del 2006, durante l’operazione “Colisée”, vennero però arrestate quasi 100 persone legate all’organizzazione. Il potere fu preso allora dalle cosche calabresi, sotto l’egida di Vito Rizzuto. Già negli anni ’70, mentre era in esilio in Venezuela, egli iniziò a porre le basi per il suo futuro regno, approfittando dei legami che aveva il padre con i trafficanti di droga colombiani. Furono anni travagliati, in quanto, sebbene in ascesa, dovette a più riprese confrontarsi con il clan rivale dei Cotroni-Violi. Alla fine degli anni ’70, però, il clan Rizzuto prese il sopravvento anche sui rivali storici, che avevano legami con il clan newyorkese dei Bonanno. L’organizzazione messa in piedi allora continua a durare e, a giudicare dagli ultimi sanguinosi eventi, sembra più intenzionata che mai a mantenersi in posizioni di vantaggio sui rivali.

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MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole AFGHANISTAN 26 ottobre. Secondo al-Jazeera, sarebbero almeno 30 i civili uccisi dai miliziani del Daesh nella provincia di Ghor per rappresaglia per l’uccisione di un loro comandante da parte delle forze afghane. EGITTO 22 ottobre. La Corte di Cassazione del Cairo ha confermato la condanna a 20 anni per l’ex presidente Morsi, a causa della morte di alcuni manifestanti contro un suo decreto durante degli scontri nel 2012. 25 ottobre. A causa della forte crisi economica abbattutasi sul Paese, l’esercito è stato “costretto”, ha affermato il primo ministro Sherif Ismail, a sequestrare circa 9.000 tonnellate di zucchero sia nelle fabbriche dolciarie sia nei depositi privati.

IRAQ 22 ottobre. Durante la ritirata da Mosul, i miliziani del Daesh hanno dato fuoco ad una fabbrica di solfati a Mishraq, a sud della città. Secondo al-Jazeera, più di 1.000 persone sarebbero state ricoverate in ospedale a causa del fumo sprigionato. 23 ottobre. I Peshmerga hanno lanciato un’offensiva sulla città di Bashiqa, a 20 km circa da Mosul. 24 ottobre. Il Daesh ha conqui14 • MSOI the Post

VERSO LA FINE DEL VUOTO POLITICO? Libano: il nuovo endorsement di Hariri potrebbe portare a una svolta cruciale

Di Lorenzo Gilardetti Quarantacinque: tante sono state le convocazioni del Parlamento di Beirut che dal maggio del 2014 a oggi si sono concluse con un nulla di fatto, protraendo fino a due anni e cinque mesi il grande vuoto politico provocato dall’assenza di un capo di Stato. Lo scorso 20 ottobre, però, una dichiarazione di sostegno da parte di Saad Hariri ha spostato decisamente gli equilibri. La seduta numero 46 potrebbe risultare decisiva per l’elezione del nuovo Presidente, l’ottantunenne cristiano maronita Michel Aoun. L’ex primo ministro Hariri, leader del Movimento per il Futuro, ha infatti espresso la sua preoccupazione per la situazione economica e sociale del Paese: questa lo ha portato alla difficile decisione che potrebbe mettere fine allo stallo politico. Hariri, sunnita e da sempre ritenuto vicino all’Arabia Saudita, ora corre il rischio di suscitare malumori nel Movimento: Aoun è, infatti, alleato al gruppo sciita Hezbollah, vicino all’Iran, e proprio il Partito di Dio, che ha disertato alcune riunioni e boicottato diverse trattative,

rappresenta l’interrogativo maggiore sulla strada che porta alla nuova elezione. Se Hariri ha ribadito il tema della neutralità, che si auspica contraddistinguerà il nuovo governo libanese rispetto alla guerra siriana, Hezbollah sta impiegando la maggior parte delle sue forze militari proprio in quel conflitto, cooperando con l’Iran per il mantenimento di Assad. In prima fila tra gli scontenti ci sono gli sciiti moderati del partito Amal, rimasto fuori dai giochi: tramite il loro leader, Nabih Berri, fanno sapere che vedono in questa svolta un accordo bilaterale al fine di escluderli dalla vita politica del Paese. Il Libano è tra i Paesi che, in questo momento, si trovano a pagare molto più degli altri le conseguenze del vicino conflitto siriano, fronteggiando un’emergenza profughi sempre più ingestibile, che vede il numero di siriani accolti aggirarsi verso i 2 milioni di persone. Alla crisi politica, dunque, si uniscono quella sociale e quella economica. Se il 46° sarà il tentativo decisivo, il 31 ottobre potremo sapere se sarà Michel Aoun a farsene carico.


MEDIO ORIENTE stato la città di Rutba, nella regione occidentale di Anbar. LIBIA 24 ottobre. Il portale d’informazione Alsawat ha riferito che il Consiglio di Presidenza libico, presieduto da al-Sarraj, ha deciso di tenere delle riunioni di consultazione a Ghadames per la formazione di un nuovo governo. PAKISTAN 25 ottobre. Sono circa 61 le vittime e 110 i feriti in seguito ad un attacco avvenuto al centro di addestramento della polizia di Quetta, nella provincia del Belucistan. L’attentato, compiuto da 3 kamikaze, è stato rivendicato dal gruppo terroristico locale Lashkar-e-Jhavi e il Daesh. SIRIA 26 ottobre. Secondo l’Osservatorio Siriano per i diritti umani sarebbero almeno 17 i morti ad Hass, nella provincia di Idlib, a seguito di un bombardamento areo. TUNISIA 26 ottobre. Il Parlamento tunisino ha aperto la discussione su una proposta di legge presentata dal partito moderato riformista islamico Ennahda, che prevede il riconoscimento della violenza sessuale come reato e l’inasprimento delle pene per molestie sul posto di lavoro. YEMEN 23 ottobre. Dopo 72 ore di tregua, sono ripresi i raid aerei condotti dalla coalizione saudita nei dintorni della capitale Sana-a. A seguito di ciò, sono state colpite delle infrastrutture militari dei ribelli sciiti Houthi. A cura di Martina Scarnato

LA VERITÀ DIETRO AL-HARAM AL-SHARIF Nessuna violazione al credo ebraico: che cosa si cela dietro la risoluzione UNESCO?

Di Samantha Scarpa La parte orientale della città di Gerusalemme ospita, tra le altre cose, il Monte del Tempio, area sacra alle tre religioni monoteiste, all’interno del quale vi sono il Muro del Pianto e la moschea abbaside di al-Aqsa. Le tensioni che sono riaffiorate sulla scena pubblica nelle ultime settimane affondano le radici in questioni risalenti a decine di anni fa. Subito dopo la fine della guerra, del ‘67 Israele occupò la zona della “Vecchia Città” e fece sgomberare la città vecchia nel giro di poche ore, costringendo oltre 700 musulmani ad abbandonare le proprie case. Da quel momento, Israele ha il controllo della zona in qualità di “occupante”, secondo le norme del diritto internazionale. Il conflitto per il controllo dell’area ha portato, nel 1994, ad un accordo: la gestione e il controllo delle risorse finanziare e del mantenimento della moschea sarebbero passate all’agenzia giordana WAFQ. Tuttavia, nel 2000, dopo la seconda Intifada, il perimetro esterno alla zona è passato sotto controllo israeliano, impedendo de facto quello giordano. Il divieto di transito ai non musulmani, soppresso nel 2003 senza il consenso del WAFQ, non aveva contribuito a distendere i rapporti tra i due sistemi. L’organo finanziario arabo continua a richiedere un ritorno

allo status quo del 1994, tuttavia negli anni recenti le pressioni palestinesi e giordane non hanno riguardato temi esclusivamente politici. Le due formazioni si dicono, infatti, “preoccupate” per i progetti urbanistici dello Stato d’Israele, che non solo andrebbero a deturpare l’immagine sacra della Vecchia Città, ma metterebbero in serio pericolo alcuni edifici sacri e la stessa moschea al-Aqsa. Netanyahu ha approvato alcuni piani riguardo a una funicolare presso il Monte degli Ulivi e a un palazzo di i uffic nella piazza del Muro del Pianto, nonché a una serie di scavi per riportare alla luce - a spese delle fondamenta di Al-Aqsa, secondo alcuni - un antico tempio ebraico. A fronte di questo scenario politico, il 13 ottobre è stata adottata dall’UNESCO una risoluzione che, pur riconoscendo l’area come sacra per le tre religioni monoteiste, concordava con le preoccupazioni arabe circa il comportamento israeliano: nel documento si chiedeva di ritornare alla situazione del 1994 e che Tel Aviv evitasse qualsiasi alterazione al paesaggio del Monte. Dopo una serie di emendamenti riguardanti il linguaggio, il 26 ottobre la World Heritage Committee ha adottato un secondo documento, in cui, con toni meno espliciti, si ribadisce il pericolo per il patrimonio storico-culturale.

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RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole BOSNIA ERZEGOVINA 26 ottobre. Il premier Vucic torna a parlare del commercio di armi bosniaco. La Bosnia è accusata di armare i principali conflitti in Medio Oriente, tra cui quello siriano. Vucic si è dichiarato favorevole all’esportazione di armi, definendola un trend positivo per l’economia del Paese. CROAZIA 21 ottobre. Gli studenti dell’università di Zagabria stanno protestando duramente contro il possibile gemellaggio con la facoltà di teologia cattolica. L’accorpamento delle due facoltà metterebbe a repentaglio la libertà di espressione all’interno dell’ateneo. Studenti e professori si sono riuniti nell’assemblea autogestita Plenum, creata nel 2009 per protestare contro i tagli all’istruzione decisi dal governo e coordinare le azioni di protesta.

RUSSIA 22 ottobre. Un aereo della compagnia aerea Skol con a bordo 22 persone, diretto verso i campi petroliferi di Krasnoyarsk, è precipitato nel nord ovest della Siberia. Il bilancio è di 19 morti e 2 feriti.

GUERRA INFORMATICA TRA STATI UNITI E RUSSIA

L’intelligence americana: Mosca ha rubato oltre 19.000 e-mail del Partito Democratico

Di Ilaria Di Donato Washington punta il dito contro Mosca. Il Cremlino è sospettato di aver rubato il contenuto di oltre 19.000 email del Partito Democratico per interferire nelle elezioni presidenziali. Le accuse ufficiali segnano l’ennesimo strappo nei rapporti già tesi con il Cremlino. In una nota congiunta della Central Intelligence Agency e del Dipartimento della Sicurezza Interna americano si legge che solo la Russia potrebbe essere responsabile del furto di e-mail subito dal Partito Democratico, in quanto l’azione sarebbe coerente con “i metodi e le motivazioni dei russi”. Dal suddetto documento emerge che il furto avrebbe avuto come fine quello di interferire con le elezioni del prossimo 8 novembre, nel tentativo di screditare il candidato democratico.

25 ottobre. Una cellula cecena è stata arrestata a Berlino con l’accusa di essere in procinto di organizzare attentati. Tuttavia, la polizia tedesca ha affermato che il gruppo non ha ancora raggiunto un livello di pericolosità concreto.

Il fatto è avvenuto a breve distanza di tempo dalle accuse rivolte dagli Stati Uniti alla Russia in merito all’azione portata avanti da quest’ultima in Siria e in Ucraina. Ad avvelenare i rapporti tra le due nazioni si aggiunge adesso questa sorta di guerra informatica. Lapidario il commento del portavoce di Putin, a giudizio del quale la notizia non è altro che “spazzatura”.

26 ottobre. Il patriarca Kirill

La Casa Bianca non ha rilascia-

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to comunicazioni ufficiali circa la strada da intraprendere in risposta al comportamento del Cremlino. Secondo le fonti riportate dalla NBC News lo scorso 15 ottobre, tuttavia, Obama vorrebbe rispondere con un nuovo cyber attacco per “mettere in imbarazzo” e screditare la leadership di Putin. Il vicepresidente USA Biden, intervistato dall’emittente americana, ha confermato che gli Stati Uniti sono in procinto di “inviare un messaggio a Putin”. La replica della controparte avviene tramite la dichiarazione del portavoce del Cremlino, Peskov: “Le minacce dirette contro Mosca e la leadership del nostro Stato sono senza precedenti, perché sono espresse a livello del Vicepresidente degli Stati Uniti”. Per tale motivo, Peskov non nasconde che la Russia è pronta a prendere le necessarie misure per evitare le continue minacce e “l’aggressività degli Stati Uniti”. Si susseguono frattanto le ipotesi sui bersagli di un eventuale hackeraggio da parte degli hacker al servizio del governo americano. Nel mirino ci sarebbero i rapporti finanziari di Putin e dei suoi collaboratori: tramite la pubblicazione di queste informazioni, gli USA puntano a screditare il governo russo, reo di spostare grosse quantità di denaro in conti offshore.


RUSSIA E BALCANI ha firmato un nuovo appello al THE GREAT STONE governo affinché vieti l’aborto, La Cina apre una nuova porta sull’Europa o perlomeno che ne impedisca la pratica all’interno del sistema sanitario nazionale. Alcuni politici del Comitato Parlamentare per la Famiglia hanno sottolineato come la possibilità di abortire rappresenti un elemento negativo non solo dal punto di vista morale ma anche economico, in quanto Di Leonardo Scanavino terno del parco industriale pocosta 5 miliardi di rubli l’anno. tranno contare su un lungo peIl grande parco industriale in riodo di agevolazioni fiscali e costruzione nei pressi di Minsk le esportazioni verso i Paesi del è nato per realizzare nell’ex-Re- Commonwealth of Independent pubblica sovietica un progetto States saranno prive di tasse sino-bielorusso, proprio alle doganali grazie agli accordi già porte dell’Unione Europea. esistenti. Dopo una fase preliminare, in cui sono stati delineati i termini Il Presidente bielorusso sottodella collaborazione, è stato ela- linea la dimensione transnaborato un piano di lungo perio- zionale del progetto, afferROMANIA do, che verrà rimodulato e por- mando che esso sarà in grado 22 ottobre. Migliaia di persone tato a termine entro trent’anni. di trainare lo sviluppo dell’Eusono scese in piazza a Bucarest ropa e dell’Asia. Inoltre, verrà per chiedere a gran voce La prima fase, attualmente in incentivata una crescita via via una riunificazione con la corso, prevede l’ultimazione maggiore del PIL del Paese: ciò Moldova. Lo slogan utilizzato degli impianti industriali che costituirà un grande stimolo per dai manifestanti, “la Bessarabia costituiranno il nucleo centrale l’economia. é parte della Romania”, fa dell’intero progetto e serviranriferimento al nome originario no a finanziarne progressiva- Le critiche, tuttavia, sono arrivadella Moldova, parte della mente l’espansione. te quasi subito. La popolazione Romania fino al 1940. locale rischia l’espropriazione Successivamente, verranno am- di numerosi terreni senza adeA cura di Giulia Bazzano pliate le aree riservate alla logi- guate compensazioni. Inoltre i stica e agli uffici delle imprese, bielorussi, storicamente favorementre verso sud verranno creati voli ai rapporti preferenziali con dei centri di sviluppo e ricerca la Russia, temono che l’attrito scientifica. con Mosca possa in futuro traInfine, l’espansione a ovest pre- sformarsi in uno strappo irrevede la costruzione della zona versibile. commerciale e residenziale: si tratterà di una città innovati- Il progetto si colloca nella strava ed ecologicamente soste- tegia cinese della creazione nibile, nella quale verranno an- di un’ulteriore arteria della che ospitati grandi eventi. nuova via della seta, con lo scopo di arrivare al mercato euL’area in cui sorgerà The Great ropeo tramite canali differenti. Stone si trova in una posizione Secondo gli analisti, la portata strategica. La distanza da Min- di questo progetto non è ancora sk è di soli 25 km e l’aeroporto del tutto quantificabile a cauprincipale della Bielorussia è a sa della sua stessa natura, che ridosso della struttura, attraver- prevede una costante rimodulasata inoltre dall’autostrada che zione in base alle richieste delda Mosca porta a Berlino. Le le imprese che produrranno in imprese che produrranno all’in- loco.

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ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole CINA 26 ottobre. Il governo cinese ha dichiarato di voler intraprendere politiche atte ad aumentare l’aspettativa di vita dei suoi cittadini, in modo da portarla a 79 anni di media, attraverso un piano denominato Healthy China 2030. Uno degli obbiettivi comunicati è stato quello di voler migliorare il monitoraggio ambientale entro il 2030, dato che in tutto il Paese il livello di inquinamento ambientale, dell’acqua, del terreno e dell’aria ha raggiunto livelli record. Secondo uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2012 i in Cina sarebbero morte più di un milione di persone a causa dell’inquinamento ambientale.

GIAPPONE 25 ottobre. Mercoledì il primo ministro Shinzo Abe ha ricevuto a Tokyo il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte. Principale tema dell’incontro la sicurezza nel Mar Cinese Meridionale, dove le dispute sulla navigazione e le acque territoriali sembrano destinate a non trovare un equilibrio, almeno nel breve periodo. Abe ha dichiarato di sostenere pienamente le Filippine e ha ribadito la disponibilità di fornire pattugliatore marittimi. Il presidente Duterte ha anche dichiarato anche di volere allontanare le truppe straniere dal suo Paese in due anni, comprese le truppe degli Stati Uniti. 18 • MSOI the Post

DUTERTE: CAMBIO DI ROTTA? Rottura con gli USA e intese con Pechino: il bivio nella politica estera delle Filippine.

Di Alessandro Fornaroli

l’altra potenza.

Il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte, al forum che si è tenuto la scorsa settimana a Beijing, ha annunciato una possibile separazione diplomatica tra gli USA e le Filippine. Venerdì 21 ottobre, tuttavia, Duterte avrebbe parzialmente ritrattato l’affermazione, sottolineando che non intende mettere in discussione le relazioni con Washington, ma semplicemente avviare una politica più indipendente.

Nel teatro asiatico, quando un’alleanza si incrina, è strategicamente necessario indirizzarsi verso altri Paesi. Si spiega in parte così l’avvicinamento con la Cina, che, oltre ad aver supportato la manovra filippina nella lotta al traffico di droga, ha fornito un aiuto finanziario da 9 miliardi a basso interesse e ha vinto un appalto per la costruzione di una linea ferroviaria, ulteriore trampolino di lancio per l’economia della penisola.

Il motivo che avrebbe portato al cambio di rotta in politica estera risiederebbe nel malcontento, da parte della Casa Bianca, per la linea d’azione filippina adottata in materia di narcoo traffic . Le vittime della guerra interna combattuta contro il traffico di stupefacenti, infatti, sono ormai più di 4.000 e le ripetute violazioni dei diritti umani hanno innescato non poche tensioni con il governo statunitense. Innanzitutto, i rapporti sono incrinati sul piano militare, in quanto l’ex sindaco di Davao ha dichiarato di voler abbandonare le esercitazioni militari congiunte con gli Stati Uniti. Dal punto di vista socio-economico, inoltre, è stata esplicitata l’intenzione di dare alle Filippine maggiore autonomia in ambito internazionale e di svincolarle dagli obblighi verso

Il prestito ottenuto ha richiesto che Duterte abbandonasse i suoi piani nel Mar Cinese Meridionale, distruggendo le speranze statunitensi e nipponiche di uno scudo contro l’espansione militare di Pechino in queste acque. Il Presidente si è recato direttamente in Cina, anteponendo questa visita a quelle A Tokyo e Washington ed evidenziando così un ribaltamento di prospettiva diplomatica. Daniel Russel, assistente segretario di Stato americano per l’Asia Orientale e il Pacifico, ha definito un errore pensare che ‘’il miglioramento delle relazioni tra Manila e Beijing danneggi in qualche modo gli interessi dell’America’’, aggiungendo che questo fenomeno deve essere visto come una ‘’addizione e non come una sottrazione’’.


ORIENTE PAKISTAN 24 ottobre. Nella giornata del 24 ottobre un attacco terroristico ha colpito una caserma e scuola di polizia, i morti ad oggi sarebbero almeno 59 e più di 100 i feriti. Secondo i testimoni, l’attacco sarebbe stato perpetrato da uomini dal volto coperto. Mercoledì i militanti del sedicente Stato Islamico hanno rivendicato l’attacco. Le autorità pakistane sono ancora però caute nell’assegnare responsabilità, dato che nell’attacco terroristico avvenuto ad agosto anche il gruppo talebano Jamaat-ur-Ahrar, insieme al gruppo IS, aveva rivendicato la responsabilità.

TIBET 26 ottobre. Il Tibet potrebbe diventare il più grande fornitore di energia idroelettrica della Cina, grazie ai suoi fiumi che potrebbero contribuire per circa 140 gigawatt. Il vice-presidente della regione autonoma del Tibet, Wang Haizhou, ha dichiarato che non ci sarebbero pericoli ambientali ed ecologici per il Tibet. L’India e altri Stati che sono “più a valle” del Tibet, hanno espresso più volte le loro perplessità rispetto ai piani energetici cinesi, data la loro stessa dipendenza dalle stesse fonti energetiche e dagli affluenti e fiumi che partono dalla regione tibetana, le ripercussioni sulla portata d’acqua dei fiumi non sono ancora chiare. A cura di Emanuele Chieppa

CINA-TAIWAN: È ANCORA TENSIONE I legami tra Taiwan e Hong Kong inaspriscono le tensioni con la Cina.

Di Carolina Quaranta Le elezioni per il Consiglio Legislativo tenutesi a Hong Kong lo scorso 4 settembre hanno segnato una svolta importante per la regione, vedendo l’insediamento di numerosi giovani sostenitori della sua autodeterminazione. La scorsa settimana due nuovi membri dell’organo, noti attivisti pro-scissione, erano sul punto di giurare per l’insediamento a Hong Kong, quando decine di parlamentari vicini a Pechino hanno simbolicamente abbandonato la sala. Questa manifestazione di dissenso ha causato l’annullamento del giuramento, gettando le basi per una nuova crisi costituzionale nella città controllata dalla Repubblica cinese. Il portavoce del Consiglio per gli Affari Continentali di Taiwan Chiu Chui-Cheng, interpellato sul caso, ha sottolineato il carattere elettivo delle cariche, invitando la Cina e Hong Kong a rispettare la volontà del popolo. In risposta delle autorità non si è fatta attendere: nella giornata di lunedì 24 ottobre, la Cina ha sottolineato che i separatisti di entrambi i fronti non sarebbero riusciti nei loro intenti nemmeno unendo le forze. Nella crescente atmosfera di tensione, il governo ha imposto a Taiwan di sospendere ogni attività di interferenza con gli affari legi-

slativi di Hong Kong. I commenti fanno anche riferimento a un episodio avvenuto durante un seminario a Taipei, dove i due indipendentisti di cui sopra hanno nuovamente incoraggiato la scissione. Un portavoce del governo cinese, An Fengshan, ha riportato la preoccupazione di Pechino in relazione all’interventismo di Taiwan nelle politiche governative di Hong Kong. Ha inoltre definito vani i tentativi di indipendenza dell’isola, intimando di interrompere ogni azione separatista: “Tali attività saranno contrastate da entrambi i lati dello Stretto […] e non possono avere successo.” Dal canto suo, la leader taiwanese Tsai Ing-wen, durante un discorso trasmesso in televisione lo scorso 11 ottobre, aveva esortato Pechino a riprendere il dialogo bilaterale con l’isola, interrotto da oltre cinque anni, “nell’interesse della pace e dello sviluppo dei rapporti dello Stretto”. Questo nonostante il partito della leader, il Democratic Progressive Party (DPP), sia da sempre in lotta contro il “Consenso del 1992”, espressione che definisce il principio della Cina unica. La dichiarazione di Tsai è stata pertanto interpretata come un’apertura alla Cina continentale, benché essa consideri tuttora Taiwan come una sorta di “provincia ribelle”. MSOI the Post • 19


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole ETIOPIA 26 ottobre. Le truppe etiopi a sostegno della Missione dell’Unione africana in Somalia (AMISOM) sono state ritirate dalle basi somale nel sud-ovest del Paese. Il portavoce del governo etiope, Getachew Reda, ha giustificato tale decisione sottolineando lo scarso contributo della comunità internazionale alla missione. GAMBIA 26 ottobre. La Repubblica islamica del Gambia, al seguito di Burundi e Sudafrica, ha annunciato di voler lasciare la Corte Penale Internazionale. Il presidente Yahya Jammeh ha infatti accusato il Tribunale di umiliare e perseguitare gli africani. Sei sono i casi aperti dalla CPI e tutti coinvolgono persone africane. KENYA 25 ottobre. 12 sono i morti in seguito all’attacco terroristico rivendicato dal gruppo jihadista al-Shabaab. I terroristi sarebbero entrati armati di esplosivo nel Bisharo Hotel della città di Mandera uccidendone gli ospiti durante il sonno. SOMALIA 23 ottobre. 26 marinai asiatici sono stati liberati dopo quasi 5 anni di prigionia. La FV Naham 3 era stata sequestrata nel marzo del 2012 da pirati somali a sud delle Seychelles e l’equipaggio era rimasto ostaggio in un villaggio di pescatori nei pressi di Narardhere. Sarebbe stato pagato un riscatto di 1,5 milioni di dollari. 24 ottobre. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari denuncia l’abbandono dei villaggi nelle 20 • MSOI the Post

SOMALIA ALLE URNE

Perplessità e aspettative di un “failed State”

Di Guglielmo Fasana

sud del Paese.

Se si fossero tenute, quelle di ottobre/novembre 2016 sarebbero state le prime elezioni democratiche ad avere luogo in Somalia da quasi 50 anni.

Solo l’impegno militare congiunto della African Union Mission in Somalia (AMISOM) e del Somali National Army ha parzialmente ridotto l’area di influenza dei guerriglieri, che, dal canto loro, continuano a condurre azioni di terrorismo, destabilizzando un’opinione pubblica già fragile.

Nel 1969, anno delle ultime consultazioni, parteciparono 64 partiti. Tuttavia, il colpo di Stato del generale Mohammed Siad Barre stroncò ogni velleità democratica del popolo somalo. La dittatura durò fino al gennaio 1991, quando ebbe inizio una delle guerre civili più sanguinose della storia africana. Quali sono gli elementi che, in passato, hanno portato a identificare la Somalia come un failed State? In primis, la mancanza di un controllo centralizzato del territorio nazionale da parte dell’autorità pubblica, che, nell’impossibilità di esercitare le proprie prerogative, estende il suo mandato a entità statali di dubbia efficacia. Oltre all’economia, che versa in una situazione pessima, sarà la sicurezza il tema prioritario che si troveranno ad affrontare i futuri leader politici. Dopo due interminabili decenni di lotta armata tra signori della guerra, conclusisi con la nomina di Presidente ad interim di Abdullahi Yusuf Ahmed e di un Governo Nazionale di Transizione, a partire dal 2006 le milizie jihadiste di al-Shabaab hanno cominciato a imperversare nel

In questo clima di incertezza, una legge elettorale a dir poco macchinosa fa da sfondo alla scena politica locale. Ampi privilegi sono concessi agli “anziani” capi-clan, i veri protagonisti del processo elettivo: 135 di loro dovrebbero scegliere 14.025 delegati, che a loro volta confluirebbero in 275 collegi elettorali di 51 elettori ciascuno. Su una popolazione di 10,5 milioni di persone, solo lo 0,2% godrebbe così del diritto di voto. Queste elezioni avrebbero rappresentato un importante passo verso la normalizzazione democratica e un tassello fondamentale nel processo di costruzione dell’identità nazionale. Ma le promesse di rinnovamento della classe politica, fatte dal governo provvisorio post-guerra civile, sono state disattese. Il popolo somalo dovrà attendere ancora, prima di poter finalmente avere voce in capitolo quanto alla scelta della propria leadership.


AFRICA ultime 3 settimane da parte di 75.000 persone a causa degli scontri tra le due fazioni delle regioni semi-autonome del Galmudug e del Putland. La situazione risulta allarmante dato l’imminente arrivo della stagione delle piogge.

MAROCCO DI NUOVO NELL’UNIONE AFRICANA?

Il sovrano del Marocco in Africa orientale per cercare sostegno

SUDAFRICA 21 ottobre. Il ministro degli Esteri sudafricano Maite NkoanaMashabane ha inviato all’ONU la richiesta di abbandonare la Corte Penale Internazionale. Tale decisione giunge pochi giorni dopo l’annuncio del Burundi e un anno dopo le pesanti critiche che la stessa Corte aveva mosso alle autorità sudafricane durante il summit dell’Unione Africana a Johannesburg nel 2015. 21 ottobre. Il presidente Jacob Zuma ha ritirato la legge che prevedeva l’aumento delle tasse universitarie. Il provvedimento aveva scatenato scontri tra studenti e polizia in particolare a Capetown, dove gas lacrimogeni e petardi erano caduti sui manifestanti provocando qualche ferito. SUD SUDAN 26 ottobre. L’UNICEF ha annunciato il rilascio di 175 bambini-soldato costretti a combattere tra le fila dei due gruppi armati che si oppongono al governo, Cobra Faction e SPLA in Opposition. Sempre l’Unicef stima ci siano altri 16.000 bambini reclutati da vari gruppi armati. A cura di Arianna Papalia

La Redazione Il sovrano del Regno di Marocco, re Mohammed VI, ha recentemente concluso un viaggio di Stato nella parte orientale dell’Africa. L’esecutivo ha comunicato che il motivo del viaggio è il miglioramento delle relazioni di Rabat con i Paesi della regione, ma le motivazioni potrebbero essere anche altre. Da luglio 2016, infatti, il governo marocchino si sta impegnando per tornare tra i membri dell’Unione Africana. Nel messaggio inviato a Idriss Déby, capo dell’Assemblea dell’UA, si chiedeva che il Marocco potesse “riprendere il suo posto naturale all’interno della famiglia africana” e che venisse adottato “un atteggiamento di costruttiva neutralità sul Sahara occidentale”.

Quest’ultima affermazione fa riferimento alla ragione per cui Rabat non fa più parte dell’UA. L’organizzazione internazionale africana nel 1984 aveva accolto la Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi, autoproclamatasi indipendente dal Marocco nel 1976. L’esecutivo marocchino, in segno di protesta, decise di uscire dall’Unione. Il 24 ottobre sono arrivati i primi frutti del viaggio, sotto forma di un endorsement importante, quello del presidente della Ruanda, Paul Kagame, seguito poi dalla Tanzania, l’ultima tappa della missione diplomatica. L’Unione Africana non si è ancora espressa, ma il Marocco potrebbe essere riammesso tra gli Stati membri anche prima di gennaio. MSOI the Post • 21


SUD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole CILE 26 ottobre. La presidente del Cile, Bachelet, dopo aver chiesto le dimissioni di 8 sottosegretari e due capi servizi pubblici, ha provveduto ad un rimpasto della sua squadra in seguito all’esito negativo delle recenti elezioni.

CUBA 26 ottobre. Per la prima volta, dopo oltre due decenni, gli Stati Uniti si sono astenuti dalla votazione sull’abolizione dell’embargo contro Cuba che, anche se la decisione non è vincolante, si trova ora con una risoluzione approvata con 191 voti a favore e che aprirà nuovi scenari internazionali e nuove possibilità per il Paese. HAITI 23 ottobre. Nella località di Arcahaie, sulla costa a circa 50 km dalla capitale del Paese Port au Prince, durante una rivolta nel carcere, dove ha perso la vita almeno una guardia e altre svariate sono rimaste ferite, sono evasi più di 100 detenuti che, nella concitazione dei fatti, sono riusciti a rubate anche svariate armi da fuoco. MESSICO 21 ottobre. Arrestato l’ex capo della polizia, Felipe Flores Velàzquez, uno dei maggiori indagati per la sparizione dei 43 studenti nella città di Iguala nel settembre del 2014. Latitante 22 • MSOI the Post

LAVA-JATO E PETROBRAS: I NUOVI SVILUPPI DELL’INCHIESTA

L’arresto di Eduardo Cunha e Pedro Ricardo Araujo Carvalho.

Di Daniele Ruffino

stita dal giudice Sergio Moro.

Dopo la destituzione della presidente Rousseff e con il mandato ad interim di Temer, sembrava che la situazione brasiliana fosse tornata alla normalità. Il 19 ottobre scorso, invece, lo speaker della Camera dei Deputati e primo accusatore della Rousseff, Eduardo Cunha, è finito in manette per corruzione nell’ambito dell’inchiesta Lava-Jato, riguardante i fondi neri Petrobas.

Gli investigatori e il giudice concordano sul fatto che Cunha sia probabilmente collegato con l’ostruzionismo da parte delle istituzioni e della polizia sull’inchiesta Petrobras, data la forte influenza dell’ex speaker sull’opinione pubblica e sugli organi governativi. La Procura, inoltre, ha revocato il passaporto (italiano) di Cunha, poiché, secondo fonti ufficiali, il pericolo di fuga è assai elevato.

Il Consiglio etico della Camera ha destituito Cunha dal ruolo di Parlamentare, poiché, oltre a essere coinvolto nell’affare Petrobas, è accusato anche di aver nascosto milioni in conti esteri e di aver utilizzato tangenti pubbliche per pagare il lussuoso matrimonio alla figlia nel Copacabana Palace di Rio.

Il Brasile è quindi gettato nuovamente nell’instabilità politica e sociale: la maggior parte dei detrattori e oppositori della Rousseff viene progressivamente aggiunta agli elenchi degli indagati, con accuse che vanno dalla corruzione all’appropriazione indebita di beni statali.

Inoltre, la mattina del 21 ottobre la polizia federale ha nuovamente fatto irruzione in Senato, con un mandato d’arresto per 4 agenti di polizia in servizio in Parlamento. L’accusa è quella di ostacolare le indagini su alcuni senatori, coinvolti anche loro nell’inchiesta Lava-Jato. Infine, pure Ricardo Araujo Carvalho, capo del servizio di polizia al Congresso, è stato arrestato dopo una “soffiata” da parte di un agente di polizia che, negli ultimi mesi, ha iniziato a collaborare con la maxi-inchiesta ge-

Cunha, poi, è un esponente del partito di Temer, il che mette il PMDB (Partito del Movimento Democratico Brasiliano) in una situazione delicata. L’ultimo sondaggio sulla popolazione peggiora ulteriormente le cose, avendo mostrato come la figura di Luiz Inácio Lula da Silva (mentore della Rousseff) non sia stata scalfita dal cambio di vertice al governo. Nel caso in cui quest’ultimo si candidasse, risulta che riuscirebbe addirittura a ricevere il 25% dei suffragi al primo turno.


SUD AMERICA da due anni, accusato assieme ad altri 128 sospetti, è stato catturato dalla polizia federale messicana. URUGUAY 24 ottobre. Jorge Batlle, ex presidente dell’Uruguay, cadendo durante una cena coi giovani militanti del Partido Colorado si è ferito gravemente alla testa ed è morto appena un giorno prima del compimento del suo 90° compleanno. Batlle era l’ultimo rappresentante di una dinastia politica ormai estinta ed era stato artefice di alcuni dei passaggi storici più importanti del Paese. Cinque volte candidato alla presidenza dell’Uruguay, fu Presidente dal 2000 al 2005, quinquennio in cui il Paese soffrì una delle peggiori crisi economici della storia. VENEZUELA 26 ottobre. Caos a Caracas dopo che le autorità venezuelane hanno sospeso il servizio metropolitano in alcune delle principali stazioni della capitale. Inoltre, posti di blocco della Guardia Nazionale hanno bloccato l’accesso al centro cittadino. Secondo la direzione dei trasporti pubblici, queste manovre sono state necessarie per prevenire possibili escalation di violenza in conseguenza della manifestazione di protesta convocata dall’opposizione dopo lo stop all’organizzazione del referendum per revocare il mandato del presidente Maduro. A cura di Stefano Bozzalla Cassione

#NIUNAMENOS: UN CONTINENTE SCOSSO DALL’ENNESIMO FEMMINICIDIO Lucia Perez, stuprata e assassinata: si risveglia la coscienza di genere della donne latinoamericane

Di Viola Serena Stefanello

In Italia si sarebbe chiamato femminicidio l’assassinio della giovane Lucia Perez, la ragazzina di 16 anni trovata morta a Mar de la Plata, in Argentina, l’8 ottobre. Dall’autopsia svolta sul suo corpo, trovato fuori dall’ospedale locale, si è scoperto l’accaduto: Lucia è stata drogata pesantemente, stuprata, torturata e, infine, uccisa. Per ora sono stati arrestati tre uomini, noti spacciatori della zona. Femminicidio, sì: “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico”. Secondo l’associazione argentina Ni Una Menos, ogni 30 ore in Argentina una donna viene uccisa da un uomo. Si ritiene che solo nel 2015 i femminicidi definibili come tali siano stati almeno 286, nella gran parte dei casi compiuti per mano del compagno o dell’ex della vittima. Il fenomeno è analizzato nel report della sezione regionale dell’OMS Violencia sexual en Latinoamérica y el Caribe: Análisis de datos secundarios, che spiega come esso sia legato

alla tradizione profondamente cattolica e machista che permea il continente. Anche questa volta le donne sono scese in piazza. Diverse associazioni hanno, infatti, invitato a uno sciopero di un’ora, dalle 13 alle 14, mercoledì 19 ottobre, giorno soprannominato “miercoles negro”, per protestare contro la violenza di genere. Con una partecipazione stimata di 25.000 persone nella sola Buenos Aires, grazie a tantissime altre manifestazioni con lo stesso scopo, sorte in diverse città del continente e del mondo intero (Roma compresa), si può dire che il messaggio si sia fatto sentire forte e chiaro: “Ni Una Menos, Vivas Nos Queremos”. Non una di meno, ci vogliamo vive. Dalla nota pubblicata dal principale organizzatore di questa protesta, il collettivo “Ni Una Menos, però, emerge che in America Latina, come in tantissime altre parti del mondo, la strada da fare è ancora tantissima per arrivare a un’effettiva parità socio-economica tra i sessi. Ciò è particolarmente vero in questo continente, dove diverse analisi sociologiche, tenutesi nei vari Paesi, hanno sottolineato come la donna continui a essere considerata soggetta e inferiore all’uomo sotto ogni punto di vista.

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ECONOMIA WikiNomics

I MOMENTI DI STALLO NON ATTRAGGONO Volatilità ai minimi degli ultimi due anni

MICROSOFT RITORNA SULLA CRESTA DELL’ONDA Il titolo sorpassa il record del 1999 grazie all’intelligent cloud

Di Efrem Moiso

Di Martina Unali News from Wall Street. Microsoft ha toccato nuovi massimi storici. Il titolo ha superato il valore registrato durante la “bolla delle dot-com”, portandosi sopra i 60 dollari ad azione. L’attenzione è così tornata sulla società di Redmond, da tempo adombrata dagli acerrimi competitor Google, Apple, Facebook e Twitter. Ma a cosa è dovuto questo picco improvviso? Risultati e meriti. Il record borsistico del colosso di Bill Gates è riconducibile ai risultati economici del terzo quadrimestre del 2016, migliori rispetto alle attese degli analisti. Eclatanti le entrate di Azure, il servizio cloud destinato alle aziende, salite del 116%. Gli investitori hanno apprezzato il fatto che l’archiviazione su piattaforme online stia guidando la crescita del fatturato, neutralizzando le perdite dovute alla telefonia mobile. Di fatto, poco ha influito il calo del 4% degli utili del trimestre. Le prospettive di Azure hanno dato una scossa positiva al titolo, lasciando nel dimenticatoio le pessime performance della telefonia mobile. Un trend non proprio inaspettato, se si 24 • MSOI the Post

Sta succedendo di nuovo. I mercati del mondo - sia azionari ed obbligazionari sia quelli delle commodity - hanno rallentato al punto da costringere a rivalutare i minimi di volatilità degli ultimi anni. I movimenti in sordina hanno appena spedito gli indicatori degli sbalzi di prezzo di azioni, tassi, valute e materie prime ai minimi dal 2014. Che tutto debba stabilizzarsi poco prima delle elezioni statunitensi è particolarmente allarmante per alcuni osservatori dei mercati, che vedono le minacce estendersi da Washington fino a Pechino. Questi “market watchers” riconoscono una replica di periodi passati di torpore che alcune volte si sono conclusi in modo spettacolare, in conseguenza degli sforzi delle banche centrali nel mantenere nascosto il lato meno attraente dei mercati. Secondo Stephen Jen, AD della Eurizon SLJ Capital di Londra ed ex-economista per il Fondo Monetario Internazionale, “gli investitori non hanno scelta. Anche quelli che sono stati abbastanza preoccupati hanno bisogno di implementare il capitale in un modo con cui si sentono a disagio. Non sono compiacenti, ma sono costretti a farlo”. Il Market Risk Index, sotto-indice del Global Financial Stress Index di Bank of Ameri-

ca Merrill Lynch, che misura i movimenti futuri dei prezzi, è sceso per cinque giorni consecutivi, raggiungendo il livello minimo da dicembre 2014. Dal Merrill Lynch Option Volatility Estimate si evince una tendenza analoga per i titoli emessi dal governo americano: nel mercato dei Buoni del Tesoro la parola utilizzata è “tranquillità” e sembra che gli investitori stiano aspettando l’inevitabile aumento dei tassi di interesse da parte della Fed previsto per la fine dell’anno. La diminuzione della volatilità ha incoraggiato gli investitori ad accumulare attività ad alto rendimento nei mercati emergenti. Infatti, diversi fondi hanno comprato azioni ed obbligazioni dei Paesi in via di sviluppo per un valore di 24 miliardi di dollari nelle ultime tre settimane, il più alto dell’anno, e le grandi banche consigliano ai propri clienti di comprare valute come il Real brasiliano, la Rupia o il Rublo contro il Dollaro. John Carey, uno dei gestori di fondi Pioneer Investment Management, afferma che alcuni sono ancora scettici sull’intervento della Fed, ma sicuramente il presentimento che qualcosa avvenga dopo le elezioni esiste, soprattutto poiché un leggero innalzamento dei tassi non avrebbe grande effetto sull’economia, ma avrebbe un impatto psicologico importante sugli investitori.


ECONOMIA considera che Microsoft non effettua più gli aggiornamenti sui dispositivi Lumia. In flessione anche il fatturato del settore gaming, tamponato dall’aumento di utenti Xbox Live. Tutto questo dopo cinque trimestri chiusi in negativo. I vertici societari. Molti sostengono che il merito sia stato anche di Satya Nadella. Il nuovo AD di Microsoft ha sostituito Steve Ballmer nel 2014, poiché ritenuto da molti responsabile del declino di Microsoft nel primo decennio degli anni Duemila, quando la società perse la gara con Apple per produrre smartphone e altri device. Un duro compito da svolgere per riuscire a puntare al futuro. Nadella ha pesantemente investito in data center e partnership proprio per sostenere le vendite di Azure, sostenendo che “Microsoft vuole permettere all’utente di fare di più”. Con questi presupposti, anche la recente acquisizione di LinkedIn assume caratteri diversi. Prospettive future. Per quanto riguarda il suo prodotto consumer di punta, Windows 10, pare non riuscire a raggiungere il target prefissato, ossia essere istallato su un miliardo di PC entro il 2017. Il lancio di nuovi dispositivi è momentaneamente in stallo. Tuttavia, secondo quanto riferito dai vertici aziendali, ci saranno novità importanti solo a partire dalla primavera 2017. Microsoft conta di raggiungere ricavi annuali da 20 miliardi di dollari, considerando solamente il comparto cloud, entro il 2018.

AT&T HA RAGGIUNTO L’ACCORDO PER L’ACQUISIZIONE DI TIME WARNER L’operazione attende ora il via libera dal Dipartimento di Giustizia statunitense

Di Giacomo Robasto AT&T, big player nel mercato statunitense della telefonia mobile insieme a Verizon e T-Mobile, ha da poco siglato un accordo preliminare per l’acquisizione di Time Warner. Nella nota pubblicata il 22 ottobre scorso sul sito del gruppo, il CEO di AT&T Randall Stephenson, rendendo nota l’operazione, l’ha definita come “l’unione perfetta che può tradursi in un nuovo approccio su come funziona il settore dei media e delle telecomunicazioni”. Da queste parole non è difficile evincere la portata innovativa dell’acquisizione, del valore di circa 85.4 miliardi di dollari. Time Warner rappresenta, infatti, la terza casa di produzione televisiva al mondo in termini di fatturato (è preceduta solo da Comcast e dal Walt Disney Pictures, entrambe americane), il cui portafoglio di prodotti include alcuni tra i brand e i canali televisivi più noti sulla scena internazionale, dedicati sia all’informazione sia all’intrattenimento, quali CNN, Cartoon Network e Warner Bros. Pictures. AT&T, con questa mossa strategica, intende perseguire un modello di sviluppo ad integrazione verticale: essa mira, infatti, a distribuire, sempre di più sui dispositivi mobili come smartphone e tablet, i contenuti dei

brand Time Warner, offrendoli a prezzi più competitivi rispetto alle tradizionali Pay-TV statunitensi. AT&T, contando su oltre 130 milioni di utenti attivi negli Stati Uniti, si aspetta infatti un aumento degli introiti pubblicitari tramite la distribuzione di contenuti commerciali mirati e diversificati a seconda delle preferenze degli spettatori. A utenti diversi che seguono lo stesso programma in streaming verranno, quindi, proposti contenuti pubblicitari distinti. Per i diretti concorrenti di Time Warner, questa novità si traduce potenzialmente in una maggiore difficoltà a raggiungere i fruitori finali dei contenuti televisivi, concedendo a AT&T una posizione di gran lunga dominante sul mercato. Per questo motivo, l’accordo è ancora in attesa del parere positivo del Dipartimento di Giustizia federale, che si esprimerà sulla questione entro giugno 2017. Ad oggi, AT&T mette a disposizione dei clienti l’infrastruttura - sia essa il cavo tradizionale o la banda larga - che consente loro di seguire i programmi televisivi preferiti. Acquisendo Time Warner, la neonata società si occuperebbe sia della produzione sia della distribuzione dei contenuti televisivi, strappando importanti fette di mercato a concorrenti come Comcast e Disney. Ai giudici l’ultima parola.

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