Msoi thePost Numero 44

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino

RUSH TO THE WHITE HOUSE Sei approfondimenti per capire le elezioni americane


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

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RUSH TO THE WHITE HOUSE Sei approfondimenti per capire le elezioni americane

IL MONDO SECONDO DONALD TRUMP Come la politica estera del 45° Presidente degli Stati Uniti è destinata a cambiare l’Ordine Mondiale Di Vladislav Krassilnikov Donald J. Trump è il 45° Presidente degli Stati Uniti d’America. In uno dei più clamorosi colpi di scena nella storia politica americana, il messaggio anti-sistema del magnate di Manhattan, rivelatosi più potente di quanto qualsiasi sondaggio sia riuscito a prevedere, ha permesso all’imprenditore prestato alla politica di cavalcare fino alla Casa Bianca un’ondata di risentimento degli

sconfitti dalla globalizzazione, consentendogli di prevalere sul candidato democratico, Hillary Clinton, la cui vittoria era data per scontata quasi unanimemente dagli osservatori. Abbondano in queste ore le analisi che tentano di razionalizzare l’imprevisto esito delle elezioni, adducendo non di rado profetiche motivazioni che, col senno di poi, avrebbero dopotutto dovuto rendere chiaro sin dapprincipio chi sarebbe stato premiato dall’elettorato americano in una corsa di fatto contesa fino all’ultimo voto – dall’impopolarità dell’ex Segretario di Stato in ampi segmenti della popolazione, al disorientamento causato da un tessuto sociale in rapido mutamento, fino ad un’economia

nazionale che, malgrado una ripresa lenta ma costante sotto l’amministrazione Obama, continua a funzionare per alcuni più che per altri. Così, il popolo americano ha preferito un homo novus, una figura di leader forte, un candidato libero dai condizionamenti dell’establishment politico e della grande finanza di Wall Street, una personalità mediatica che per molti anni ha incarnato l’American Dream nell’immaginario collettivo ed un politico ora destinato a rappresentare una netta cesura con la tradizione. Nell’età dei populismi la presunta inadeguatezza a ricoprire la carica di Presidente

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determinata da un carattere irascibile, impulsivo e smodato, una retorica incendiaria, divisiva e talvolta brutalmente offensiva, nonché una lunga scia di scandali di varia natura – dai mancati contributi fiscali grazie allo sfruttamento di appigli del codice tributario agli abusi sulle donne giustificati dallo status di celebrità –, non si sono dimostrati fattori squalificanti, diversamente da quanto sarebbe stato lecito aspettarsi. Sicurezza, ordine e soprattutto cambiamento sono gli ingredienti che i cittadini statunitensi hanno preferito per “rendere l’America di nuovo grande”.

È, pertanto, utile studiarla, metterla in prospettiva e comprenderne le probabili conseguenze.

Sebbene sia ancora presto per elaborare congetture

Visione del mondo In un mondo percepito come sempre più ostile agli interessi americani, gli Stati Uniti non possono più permettersi di investire copiose risorse per garantire la sicurezza dei propri alleati, né per assicurare la fluidità dell’economia globale, né per sostenere la solidità dell’architettura istituzionale internazionale, soprattutto a fronte di un rapido declino non solo relativo, ma anche assoluto dell’unica superpotenza esistente. In altri termini, gli Stati Uniti non disporrebbero più delle risorse economiche

neoeletto Commander-in-chief nel quadro di una governance mondiale che impone la ricerca di una sintesi fra gli interessi nazionali delle diverse grandi potenze. Europa, Russia e NATO Nel corso della stagione elettorale appena conclusasi, è tornata ad l’Europa occupare un posto centrale nel dibattito, complice la rinnovata assertività della Federazione Russa nel Vecchio Continente e, in particolare, in Ucraina, la quale, come magistralmente illustrato dall’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Zbigniew Brzezinski, nel suo illuminante capolavoro “La Grande Scacchiera”, rappresenta una ricca posta in gioco geopolitica, nonché

sugli orientamenti della nuova amministrazione in politica estera, essendo lecito aspettarsi che le dichiarazioni – peraltro frequentemente contraddittorie – del Presidentelect nel corso della campagna elettorale subiscano una parziale moderazione dopo l’insediamentoufficiale, èpossibile supporre – con la cautela che si impone in simili circostanze – che tale discontinuità si manifesterà con ogni probabilità anche nell’ambito dell’azione internazionale degli Stati Uniti.

e militari per agire nel ruolo di poliziotto del mondo. Finiti sono i giorni in cui gli Stati Uniti anteponevano il globalismo all’americanismo: è ora di rendere l’America “nuovamente indipendente”. “America first” diventa, così, il pilastro fondamentale che ispira la politica estera di Trump. Quale Presidente, però, non ha attribuito priorità agli interessi del suo paese? Diventa, quindi, indispensabile analizzare come tale principio verrà verosimilmente declinato dal

attualmente uno dei nodi più critici per la diplomazia fra le due sponde dell’Atlantico. Numerose sono state le espressioni di encomio da parte di Trump nei confronti del Presidente russo, Vladimir V. Putin, giudicato un leader forte, con una salda presa sul suo paese e meritevole – a differenza di un Obama cui sono stati elargiti epiteti non altrettanto lusinghieri – di pieni voti. Un’apertura così convinta verso un Capo di Stato considerato da molti autoritario

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comporta dei costi politici non indifferenti in uno Stato che vanta una prestigiosa tradizione politica liberale anglosassone. Si tratta, però, di contraccolpi che Trump parrebbe disposto a sopportare: ciò dimostra quanto storicamente radicato sia il fascino che le forti autorità politiche esercitano sul nuovo Presidente, come recentemente spiegato dal rinomato politologo Thomas Wright sulle pagine di The Atlantic. Se Hillary Clinton si diceva disposta a collaborare con Mosca quando possibile e a limitarne la condotta controproducente quando necessario, Donald Trump dichiara di essere disposto a normalizzare i rapporti con il Cremlino sulla base di un nuovo accordo internazionale, che serva eccellentemente gli interessi americani, essendo al contempo accettabile per la controparte. D’altronde, non ci sarebbe alcuna valida ragione per permettere ad un conflitto in atto in uno Stato lontano – il secondo più vasto in Europa, dotato di risorse naturali affatto trascurabili, legato da seppur fragili vincoli all’Unione Europea e alla NATO – di ostacolare il riavvicinamento fra le due potenze. È una problematica, quella ucraina, che dovrebbe riguardare molto più gli Stati geograficamente prossimi, invece disinteressatisi, e la cui chiusura – indipendentemente dall’esito – potrebbe rappresentare un ottimo punto di partenza per un nuovo reset nelle relazioni russo-americane. L’andamento delle relazioni fra Stati Uniti e Russia è di vitale importanza per gli europei su più versanti. Ad esempio, diventa difficile, in queste condizioni, immaginare uno scenario di continuato convinto sostegno da parte del Presidente Trump alle sanzioni che da tempo soffocano l’economia russa e comportano impopolari ricadute sulle esportazioni europee (si

ricordi, a tal proposito, che l’Italia è il secondo partner commerciale nell’Unione Europea della Russia e che, secondo le stime de Il Sole 24 Ore, ha perso 3,6 miliardi di euro in mancato export da quando vengono applicate le sanzioni). Inoltre, come messo in luce nell’analisi dell’Amb. Giancarlo Aragona per l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), se anche il realpolitiker Putin maturerà un approccio alternativo alla consueta brinkmanship e maggiormente improntato alla prudenza, alla cooperazione e alla fiducia, verrà di riflesso semplificato per l’Occidente il compito di tenere conto con un’impostazione più sofisticata rispetto al passato degli interessi legittimi dell’orso russo, senza che venga, tuttavia, compromessa la sicurezza dell’Alleanza Atlantica. Al contrario, come suggerito dall’Amb. Terzi, esiste del potenziale per rilanciare un ambizioso sistema di sicurezza cooperativo in Europa, fondato su norme finalizzate a ridurre e controllare le forze armate sia convenzionali, sia nucleari dispiegate sul continente e in ossequio ai principi contenuti nell’Atto finale di Helsinki e alla Carta di Parigi. Proprio la NATO riveste un ruolo di primo piano nel pensiero strategico del miliardario newyorkese. L’alleanza militare istituzionalizzata di maggiore successo nella storia dell’umanità sarebbe “obsoleta”, stando alle dichiarazioni di Trump. È imperativo che il tradizionale accento posto sulla difesa comune in chiave antirussa lasci spazio ad un nuovo approccio orientato al contrasto di sfide atipiche alla sicurezza dell’area di pace e stabilità euroatlantica, quali il terrorismo internazionale e i flussi migratori. In altri termini, diventa prioritario aggiornare la missione e la struttura della NATO – un tema quanto

mai attuale fra gli addetti ai lavori. È noto che all’interno dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord esiste un acceso dibattito sulle priorità della stessa: la dichiarazione conclusiva del recente vertice di Varsavia conferma la prevalenza di quelle voci che intendono affidare particolare importanza al cosiddetto fianco orientale, a scapito degli interessi degli Stati che preferirebbero concentrare gli sforzi dell’Alleanza nella proiezione di stabilità oltre il Mediterraneo. Sarebbe complicato negare che un riorientamento dell’impegno della NATO verso il fianco meridionale, apparentemente auspicato da Trump, sia gradito in particolare all’Italia. Il rafforzamento dell’Organizzazione passa anche attraverso contributi più sostanziosi per la difesa da parte degli Stati membri. In occasione del vertice del Galles del 2014 si è deliberato un innalzamento delle spese statali per la difesa, con l’obiettivo di portare ciascun paese ad investire il 2% del rispettivo PIL in sicurezza. Ad oggi, oltre agli Stati Uniti, soltanto Regno Unito, Polonia, Estonia e Grecia onorano gli impegni presi a Newport. L’esortazione statunitense agli alleati europei di condividere equamente gli oneri fiscali della NATO non è certo una novità e trascende l’appartenenza partitica. Anche il prossimo Presidente americano si colloca in questo solco, ma quella che alcuni esperti additano come una comprensione superficiale e approssimativa dei vantaggi che scaturiscono dal fitto sistema di alleanze per gli Stati Uniti lo portano ad andare oltre, rompendo con un’ortodossia ininterrottamente abbracciata con convinzione dal secondo dopoguerra fino ad oggi. “[I membri della NATO] hanno adempiuto ai loro obblighi nei nostri confronti?”,

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si è domandato Donald Trump nel corso di una lunga intervista sulle sue posizioni in politica estera per il New York Times. “Se loro adempiono ai loro obblighi nei nostri confronti, allora la risposta è sì, [possono contare sul sostegno militare degli Stati Uniti in caso di aggressione da parte della Russia]. Ma se loro non lo fanno, allora non dico quale sia la risposta. Dico soltanto che adesso ci sono molto paesi che non hanno adempiuto ai loro obblighi nei nostri confronti”. Tale dichiarazione suscitò comprensibilmente acuto allarme fra le cancellerie europee, in quanto mina alle basi il principio fondamentale del credible commitment su cui l’azione deterrente NATO si fonda. Laddove l’impegno americano verso lo strumento istituzionale principale mediante cui gli Stati Uniti proiettano la propria influenza politica in Europa viene messo in discussione, si aprono nuovi spazi di autonomia effettiva per il Vecchio Continente. In un momento storico di profondo mutamento e di grande incertezza, numerose sono le voci che si levano in favore di un ulteriore sviluppo e di un progressivo rafforzamento di autonome strutture europee di difesa. Nel 2003 il celebre storico di orientamento neoconservatore, Robert Kagan, scriveva in un saggio di successo che “gli americani vengono da Marte, gli europei vengono da Venere”. Tuttavia, le mutevoli condizioni di sicurezza sul suolo europeo impongono un profondo ripensamento della postura strategica dell’Unione Europea, soprattutto a fronte di un’inedita ambivalenza americana. Il vaticinio del noto politologo, Francis Fukuyama, si è rivelato incorretto: contrariamente a quanto appariva al termine della Guerra 6 • MSOI the Post

Fredda, la fine della storia non si è materializzata, anzi, la politica di potenza è tornata ad imperversare nel paradiso legalistico europeo. Se l’UE vanta una maturità istituzionale che non trova paragoni in altri fenomeni di integrazione regionale, allora questo insieme di fattori potrebbe, secondo gli studiosi più animati da spirito federalista, fornire un impulso decisivo verso la costruzione di un’autentica difesa comune europea. Il coraggio politico di compiere questo passo importante resta, però, un’incognita centrale. Cina e equilibri in Asia Orientale L’Estremo Oriente è una delle aree sullo scacchiere internazionale in cui si concentrano le risorse potestative del mondo: dinamici mercati, abbondante manodopera, vibranti centri produttivi e ricche risorse naturali. A ciò si aggiunge una concentrazione di grandi potenze destinate, secondo la maggior parte degli studiosi, a plasmare gli equilibri internazionali nel XXI secolo. In particolare, la Repubblica Popolare Cinese si è imposta nel dibattito pubblico americano per via della sua formidabile crescita economica, che sostiene un preoccupante attivismo militare, tanto da spingere alcuni esperti, come John Mearsheimer, a parlare dell’inevitabilità di un futuro conflitto fra il dragone in ascesa e gli Stati Uniti. Il prossimo Comandante-in-capo della potenza, che almeno dalla Presidenza di Theodore Roosevelt è uno stakeholder fondamentale nell’Oceano Pacifico, non sembra, d’altra parte, avere intenzioni concilianti. La Cina, nelle parole di Trump, “sta uccidendo” l’America. Gli Stati Uniti – e in particolare l’amministrazione Clinton – detengono almeno parzialmente

la responsabilità per questa situazione. Essi sono, infatti, accusati di aver siglato pessimi accordi commerciali con la Cina, che hanno innescato “il più grande furto di posti di lavoro nella storia”, di averne favorito l’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, permettendole di trarre vantaggi da un’ulteriore liberalizzazione degli scambi, e di non aver contrastato la manipolazione dello yuan, che ne ha aumentato la competitività commerciale agendo sui tassi di cambio. La prossima amministrazione americana intende, pertanto, rimediare agli errori del passato, conducendo una “fair war” contro il governo cinese: l’imposizione di tasse e tariffe, l’apertura di controversie commerciali e la rinegoziazione degli accordi con Pechino saranno gli strumenti privilegiati per riequilibrare la bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti e per sanarne il debito nazionale. In questo contesto si inserisce la virulenta opposizione di Trump alla Trans-Pacific Partnership, il trattato commerciale multilaterale recentemente concluso – ma non ancora entrato in vigore – fra dodici Stati dell’Asia-Pacifico. La TPP altro non sarebbe, infatti, che “il più grande tradimento in una lunga serie di tradimenti con i quali i politici hanno svenduto i lavoratori americani”, il cui obiettivo sarebbe in ultima analisi quello di farvi entrare la Cina “da una porta sul retro in un momento successivo”. Argomenti simili hanno indubbiamente contribuito al successo elettorale del candidato repubblicano, facendo presa soprattutto sugli elettori appartenenti alla classe operaia della Rust Belt manifatturiera impoverita dai processi di internazionalizzazione delle imprese, dalla liberalizzazione delle politiche commerciali e dall’automazione dei processi di produzione.


Donald Trump comprende che ricchezza e potenza sono due facce della stessa medaglia – o meglio, l’una il presupposto dell’altra e viceversa – ed è indispensabile per uno Stato trovare un ragionevole equilibrio fra i due elementi per garantire prosperità e sicurezza ai propri cittadini. Questa è la ragione che lo spinge a ritenere che l’esercizio di un’adeguata pressione economica sulla Cina possa costringerla a moderare la propria assertività nel Mar Cinese Meridionale, oltre a impegnarsi per limitare la pericolosità del regime nordcoreano. Non sono queste, però, le uniche considerazioni economiche con ripercussioni sul piano strategico in Asia. Anche in quest’area, già di per sé caratterizzata da notevole volatilità, si dispiega, infatti, lo scetticismo di Donald Trump in merito alle alleanze militari permanenti. I circa 64.000 militari di stanza ripartiti fra il comando statunitense in Giappone e il comando statunitense in Corea del Sud sarebbero un lusso che gli Stati Uniti non possono più permettersi, a fronte di risorse economiche fortemente ridimensionate e di un contributo finanziario inadeguato da parte dei beneficiari. Rimuovere

l’effetto stabilizzante dello schieramento avanzato delle forze americane – riconosce Trump – potrebbe spingere gli storici alleati nella regione a percorrere la strada verso l’ottenimento di armi nucleari per garantire la propria difesa contro la recalcitrante Pyongyang. Benché allarmante, il fenomeno della proliferazione nucleare, osteggiato con convinzione da gran parte della comunità internazionale, si rende necessario in Asia Orientale per dissuadere Kim Jong-un dal militarismo scellerato che per troppo tempo ha caratterizzato il singolare comunismo dinastico della Corea del Nord. Un aspetto non secondario, che vale la pena sinteticamente evidenziare in questa sede, è rimasto estraneo al dibattito. Il dispiegamento delle forze americane in Asia Orientale, oltre a fornire un cosiddetto ombrello nucleare agli alleati nella regione, serve anche a salvaguardare il fondamentale principio della libertà dei mari, già consacrato nei famosi “Quattordici punti” wilsoniani. Come già anticipato, Cina, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, India e Singapore – soltanto per citarne alcuni – detengono un peso economico importante. In un mondo

globalizzato, interconnesso e integrato, è indispensabile preservare la fluidità degli scambi commerciali, che inevitabilmente avranno ripercussioni in ultima istanza positive anche sull’economia statunitense in una prospettiva di crescita condivisa. Questo risultato non può prescindete dalla regolare apertura e sicurezza delle principali rotte marittime che attraversano l’Asia Orientale, dallo strategico Stretto di Malacca al turbolento Mar Cinese Meridionale, che necessitano di una presenza militare statunitense, in assenza di una credibile disciplina giuridica contenuta in un improbabile un accordo internazionale fra Stati le cui relazioni sono attualmente complicate da dispute marittime, reciproci sospetti e storiche ostilità. Medio Oriente e lotta a Daesh “Abbiamo un problema con Daesh, ma abbiamo un problema ancora più grosso con la Cina”, proclamava Donald Trump nel discorso in cui annunciava la sua candidatura alla posizione di Presidente degli Stati Uniti d’America il 16 giugno 2015. Come le relazioni economiche e strategiche con il Regno di Mezzo occupano un posto di rilievo nell’agenda politica dell’amministrazione Trump, MSOI the Post • 7


così ha elevata priorità il contrasto allo Stato Islamico in Iraq e in Siria. Accusando i suoi avversari di mancare di audacia, il leader del Grand Old Party si dichiara determinato a debellare l’Islam radicale – un’espressione non casuale, che gode di una non trascurabile popolarità in un’America che si scopre sempre più eterogenea, sia culturalmente, sia etnicamente. Donald Trump si pone in netto contrasto rispetto alla sua rivale nella corsa alla Casa Bianca, Hillary Clinton, per quanto riguarda le strategie da mettere in atto per sconfiggere il gruppo jihadista parastatale. I sondaggi condotti al termine di ciascuno dei tre dibattiti presidenziali nel corso della stagione elettorale appena conclusasi rilevano unanimemente come la maggioranza dell’opinione pubblica abbia ritenuto Hillary Clinton più preparata a ricoprire la carica di Presidente. Tuttavia, le più autorevoli firme del giornalismo internazionale sono state concordi nel considerare gli attacchi rivolti da Trump alle decisioni di politica estera in Medio Oriente dell’ex Segretario di Stato fra i suoi affondi più efficaci.Ildisorientamentostrategico dell’amministrazione Obama ha avuto conseguenze deleterie in Siria, Iraq, Libia e Egitto: politiche di regime change e nation building si sono dimostrate, alla prova dei fatti, fallimentari. È pericolosa “l’idea […] che [gli Stati Uniti] dovrebbero creare democrazie occidentali in Paesi che non hanno esperienza o interessi nel diventare una democrazia occidentale”. Nonostante la determinazione nel porre fine all’esistenza dello Stato Islamico, il nuovo Presidente degli Stati Uniti non ha ad oggi delineato pubblicamente un piano organico per conseguire tale 8 • MSOI the Post

obiettivo. Da un lato, egli sostiene di privilegiare un approccio fondato sull’imprevedibilità strategica, che impone particolare cautela nella rivelazione dei dettagli. Dall’altro, ha manifestato l’intenzione di radunare quanto prima gli esponenti più qualificati del mondo militare per chiedere loro di elaborare in tempi brevi un piano coerente. Tuttavia, nel corso della campagna elettorale Donald Trump ha disseminato vari indizi su alcuni punti cardine che caratterizzerebbero le modalità di intervento contro l’IS, fra cui la volontà di operare sia tramite coalizioni ad hoc, sia tramite la NATO, di perseguire un approccio multidimensionale con componenti militari, economiche, di intelligence e cyber e, soprattutto, di lasciare ampi margini di manovra alla Russia. Sarebbe, questa, l’ennesima cesura di Trump rispetto alla linea politica mantenuta dal Presidente uscente. Veementi sono state le accuse del Rappresentante Permanente degli Stati Uniti presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite, Samantha Power, la quale ha fermamente accusato la Federazione Russa di aver perpetrato gravi crimini di guerra in Siria. Il miliardario di Manhattan percepisce, al contrario, l’urgenza di allinearsi strettamente alla condotta bellica di Mosca, accettando persino la permanenza al potere di Bashar al-Assad, un’ancora di stabilità irrinunciabile nel mezzo di un catastrofico disordine mediorientale. Sarebbe controproducente rovesciare un governo che, invece, come il Cremlino, è impegnato nella lotta allo Stato Islamico. D’altronde, “[s]e [Putin] vuole combattere l’ISIS, allora lasciamo che combatta l’ISIS. Perché dobbiamo fare sempre tutto noi?”.

È indispensabile ricordare, tuttavia, che il Medio Oriente è un’area critica per gli interessi, in particolare energetici, degli Stati Uniti, al netto della rivoluzione – rivelatasi meno significativa del previsto – dello shale oil. Se da un lato le innegabili frustrazioni sofferte dal Presidente Obama nel Greater Middle East potrebbero spingere Trump ad accelerare il disimpegno americano dalla regione, ignorando in una pericolosa tendenza alla semplificazione la complessità dell’intreccio di interessi delle grandi potenze su uno degli scacchieri principali dove si gioca la partita per la definizione dei rapporti di forza internazionali, dall’altro rimane indispensabile curare con particolare meticolosità i rapporti con il mondo islamico, come argomenta persuasivamente l’ambaciatore Sanguini nel suo commento per l’ISPI, onde evitare non solo di ivi pregiudicare le significative prerogative americane, ma anche di minare alle basi la lotta all’estremismo di matrice islamica, che non può prescindere dalla collaborazione con i partner arabi. Ad un’inversione di tendenza in Medio Oriente si assiste anche riguardo le relazioni con l’Iran. Il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) è considerato dagli osservatori più equilibrati uno dei trademark achievements del Presidente Obama. Altresì noto come l’accordo sul nucleare iraniano, il JCPOA, benché non ottimale, pone delle stringenti limitazioni – almeno nel medio periodo – alle ambizioni egemoniche dell’Iran nell’area mediorientale, consentendo, così, alla Repubblica Islamica di reintegrarsi a pieno titolo nella comunità internazionale. Il fervore di Trump nel contrasto al fenomeno terrorista rende, tuttavia, inaccettabile un accordo


che restituisca legittimità politica ad un dispotico regime fondamentalista, reo di supportare una rete globale di terrore che si estende da Teheran all’emisfero occidentale. L’accordo siglato da Obama sarebbe il peggiore della storia: in cambio dell’eliminazione delle sanzioni che gravavano sull’economia iraniana, di un ingente afflusso di investimenti esteri e di una limitazione soltanto temporanea ai programmi di sviluppo nucleare, Washington non avrebbe ricevuto assolutamente nulla in cambio. Diventa, pertanto, doveroso rinegoziare in termini marcatamente più punitivi l’accordo, “catastrofico per l’America, Israele e il Medio Oriente”, con “il principale Stato sponsor del terrorismo al mondo”. Un esito, questo – è bene ricordarlo – non particolarmente favorevole alle imprese italiane, che storicamente intrattengono intense relazioni commerciali con l’Iran (per un valore pari a circa 2,3 miliardi di euro all’anno) e che si sono affrettate a trarre vantaggio dall’El Dorato sciita all’indomani del reinserimento dello stesso nell’economia globale. È possibile, a questo punto, abbozzare un sintetico profilo riassuntivo del Presidente

Donald J. Trump attraverso il prisma della sua probabile politica estera. Trump è un pensatore realista, nella misura in cui egli orienterebbe la proiezione esterna degli Stati Uniti sulla base di cinici calcoli di potere del tutto scevri da considerazioni fondate su evanescenti principi idealistici, a fronte di una realtà internazionale ostile, popolata da innumerevoli Stati che fin troppo a lungo hanno abusato della generosità degli Stati Uniti, accecati da uno sfrenato globalismo controproducente. Trump è un politico isolazionista, diffidente nei confronti di queldispendiosointerventismoche a partire in particolare dal 2003 ha dissipato le casse dello Stato e di quelle pericolose “entangling alliances” contro cui George Washington pronunciava un severo monito durante il suo Farewell Address nel 1796. Per estensione, Trump è un negoziatore mercantilista, disposto a sottoscrivere soltanto accordi commerciali nettamente sbilanciati in favore degli Stati Uniti, nella convinzione del fatto che una politica protezionistica nei confronti delle importazioni e incentivante nei confronti delle esportazioni sia la strada ottimale per generale un indispensabile surplus commerciale.

In sintesi, Trump è riconducibile alla tradizione jacksoniana della politica estera americana, secondo la suggestiva classificazione proposta dall’illustre storico, Walter Russell Mead, nel suo influente saggio, Il Serpente e la Colomba. Tale declinazione populista della diplomazia a stelle e strisce, risalente alla Presidenza di Andrew Jackson (1829-1837), concepisce il mondo come un luogo irto di pericoli, in cui una politica estera insulare, se non provinciale o persino campanilistica, è la più adatta a servire gli interessi del Paese, il quale deve essere pronto a reagire con ferocia alle sfide poste dai propri avversari. stile distaccato, Questo imprevedibile e reattivo si pone in netto contrasto rispetto all’internazionalismo che ha rappresentato la stella polare della politica estera americana da Franklin D. Roosevelt a Barack Obama. In molti si stanno ponendo seri interrogativi circa il destino dell’Ordine Mondiale Liberale, quel particolare assetto politico del sistema internazionale plasmato dagli Stati Uniti d’America a partire dal secondo dopoguerra, fondato su istituzioni multilaterali che consentono una leadership condivisa, su un’economia globale aperta e integrata a vantaggio di tutti i partecipanti alla stessa e su un insieme di norme che regolano, sostengono e permettono l’esistenza stessa della comunità internazionale come la conosciamo oggi – a vantaggio soprattutto, ovviamente, dell’artefice e leader di questa complessa architettura politica. Donald J. Trump ha vinto le elezioni presidenziali nella più solida democrazia al mondo: spetta a lui ora ridefinire il ruolo degli Stati Uniti d’America nel mondo.

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EUROPA 7 Giorni in 300 Parole CIPRO 7 novembre. Iniziati in Svizzera colloqui segreti fra il presidente cipriota Nikos Anastasiadis ed il leader dei turchi ciprioti Mustafa Akinci. Tema cruciale nei negoziati saranno gli indennizzi agli espropri e alle distruzioni della guerra del ’74. Dal fallimento dei negoziati del 2004 è la seconda volta che si tenta di scrivere la parola fine alla “questione cipriota”. In caso di fallimento, Ankara ambisce ad annettere la parte nord dell’isola. FRANCIA 12 novembre. Per tale data è prevista la riapertura del Bataclan, dopo un anno d’inattività a seguito della strage del 13 novembre scorso in cui vennero assassinate 93 persone. Padrino dell’evento sarà Sting dei Police. L’intero provento della serata sarà devoluto alle associazioni di familiari delle vittime, come “Life for Paris”. GERMANIA 8 novembre. Francoforte: 5 sono i militanti jihadisti arrestati dalla polizia tedesca con l’accusa di svolgere attività di reclutamento per il gruppo IS. Il capo del gruppo, un imam di Hildensheim di nome Ahmad Abdulaziz Abdullah, era già noto alle forze di sicurezza per l’indottrinamento con cui preparava giovani militanti ad intraprendere il viaggio verso la Siria e l’arruolamento. I servizi segreti stimano in circa 820 le persone che in questi anni hanno intrapreso la strada per raggiungere le bandiere nere del califfato. Di queste, circa un terzo si presume essere tornato ad ingrossare le fila delle potenziali minacce. REGNO UNITO 10 • MSOI the Post

SENTENZA HIGH COURT RALLENTA BREXIT Solo il Parlamento può decidere se il Regno Unito lascerà l’UE

Di Elena Amici, Sezione MSOI di Roma Giovedì 3 novembre la High Court ha posto un nuovo ostacolo sulla via della Brexit. La sentenza dei tre giudici della Queen’s Bench Division sancisce che solo il Parlamento non il Premier e non il popolo britannico - ha il potere di decidere se il Regno Unito lascerà l’Unione Europea. Stando ai giudici, poiché l’entrata del Regno Unito nell’UE fu sancita dall’adozione dell’European Community Act del 1972, ora spetta al Parlamento annullare la legge che esso stesso ha approvato. L’High Court sostiene che il Primo Ministro non abbia i poteri necessari a rescindere un Atto del Parlamento, essendo il Governo una branca separata e subordinata a quella legislativa. Allo stesso modo, non è compito della popolazione decidere. Il referendum dello scorso 23 giugno, come qualsiasi altro nel Regno Unito, ha valore consultivo e può essere inteso solamente come un’espressione della volontà popolare, non è vincolante né per il Parlamento né per il

Governo. Cosa ci si può aspettare da questo sviluppo? I parlamentari potrebbero confermare l’uscita, per rispettare la volontà popolare, rispettando uno dei principi alla base del sistema di convenzioni che governa la vita pubblica britannica e compiendo una scelta in linea con le logiche elettorali. Allo stesso tempo, una votazione costringerebbe Theresa May a esporre il suo piano per l’uscita dall’UE, in particolare la sua decisione sulla permanenza del Regno Unito nel mercato unico, dettaglio su cui ha finora evitato di pronunciarsi. Frattanto, il governo britannico ha fatto ricorso contro la sentenza alla Corte Suprema. I giudici si riuniranno dal 5 all’8 dicembre e il verdetto finale è predetto per gennaio 2017. Ironicamente, il nazionalismo che ha portato alla vittoria del Leave aveva alla sua base la volontà di ripristinare la sovranità ultima del Parlamento inglese su Bruxelles e ora spetta proprio tale organo avere l’ultima parola.


EUROPA 3 novembre. L’alta corte britannica ha accolto l’istanza dei due cittadini Gina Miller e Deir Dos Santos, sentenziando che, prima che il governo avvii la procedura di recesso ex articolo 50 del Trattato di Lisbona, si debba pronunciare il Parlamento. Il Parlamento dovrà dunque decidere sulle modalità in cui l’uscita avverrà, ma anche sul “se”, sebbene sembri improbabile si voglia scavalcare il voto popolare. Frattanto, il primo ministro Theresa May ha già presentato ricorso presso la suprema corte, la massima autorità giuridica del Paese. SPAGNA 4 novembre. Il premier spagnolo Mariano Rajoy ha formato la nuova squadra di governo. Cambiano le persone, in totale sei saranno i nuovi Ministri, ma non la linea politica sui temi scottanti, come la Catalogna e il rapporto con l’UE. La scelta è stata dunque quella della continuità con i precedenti esecutivi, per evitare di vanificare il lavoro intrapreso e mandare un segnale di stabilità. UNGHERIA 8 novembre. Nuova sconfitta per il premier Orban, dopo l’insoddisfacente risultato del referendum d’ottobre. Questa volta è la proposta di riforma costituzionale per porre un veto alle quote-migranti europee ad essere bocciata in Parlamento. 131 i voti a favore, due in meno del quorum necessario. Emblematico il mancato sostegno dell’estrema destra dello Jobbik, il quale ha ritenuta incompleta la proposta, poiché essa lasciava in vigore i cosiddetti “titoli d’insediamento”, ovvero la possibilità di vivere in Ungheria acquistando almeno 300.000 euro di buoni speciali del Tesoro. A cura di Fabio Saksida

PRIVACY SHIELD

Nuovo accordo USA-UE in materia di trasferimento dei dati sensibili

Di Giulia Ficuciello Il 2 febbraio 2016 l’Unione Europea e il Dipartimento del Commercio degli USA hanno raggiunto un accordo, il Privacy Shield, in materia di trasferimento e di scambio sicuro dei dati personali dei cittadini. L’accordo è intervenuto in sostituzione del precedente Safe Harbour, stipulato nel 2000 e invalidato dalla Corte di Giustizia dell’UE il 6 ottobre 2015. Il Privacy Shield, la cui procedura di adozione è terminata il 12 luglio, prevede che il trattamento dei dati personali debba avvenire nel rispetto delle legislazioni nazionali, senza che però le stesse emanino specifiche e ulteriori autorizzazioni. Con tale strumento, il controllo su come le imprese americane utilizzano i dati personali dei cittadini dell’Unione Europea diviene più stringente, grazie anche ad un meccanismo di ricorso contro l’utilizzo inadeguato delle informazioni. Il garante europeo per la protezione dei dati personali ha, inoltre, dichiarato che il trasferimento massivo di dati sensibili resta escluso, anche

se ciò non è specificato nell’accordo. Le aziende dovranno informare i cittadini dell’acquisizione dei loro dati e dell’utilizzo presente e futuro che di essi viene fatto. Agli interessati viene garantita la possibilità di accedere alla propria raccolta dati e di modificarli o cancellarli. Le autorità di polizia americane, invece, potranno accedere ai dati solo in casi eccezionali e prestabiliti. I garanti europei della privacy, il Dipartimento USA del Commercio, la Federal Trade Commission e le intelligence sottoporranno a revisione l’accordo ogni anno, al fine di verificarne e confermarne l’efficacia. L’accordo, ancora da formalizzare, ha oggi una valenza particolare, specialmente per quel che riguarda lo scambio e la condivisione di informazioni concernenti prevenzione e accertamento di reati gravi, tra cui il terrorismo. L’8 novembre la Commissione per le libertà civili ha vagliato le varie proposte in merito al Privacy Shield. Bisogna ora attendere che il Parlamento Europeo si esprima per rendere effettivo l’accordo.

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NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole CANADA 8 novembre. In concomitanza della cavalcata di Donald Trump verso la vittoria, è andato in tilt il sito ufficiale del Governo Canadese dedicato alle informazioni sull’immigrazione. Molti media internazionali riportano il sospetto un legame con i timori dei cittadini americani rispetto alla Presidenza Trump. 9 novembre. Immediate le congratulazioni del premier Canadese Trudeau al neo-eletto Trump: il Primo Ministro sottolinea l’importanza di mantenere viva la partnership tra i due Stati (prevenendo il timore che l’amministrazione Trump possa non essere dello stesso avviso). Decisamente entusiasta invece la reazione della leader anti-immigrazione Leitch: “I nostri cugini americani hanno rovesciato le élites. È un messaggio forte che dovremmo cogliere anche in Canada”.

STATI UNITI 5 novembre. A soli quattro giorni dalle elezioni presidenziali, il New York Times dava a Hillary Clinton l’85% di possibilità di trionfo, concedendo all’avversario Trump solamente uno scarno 15%. Stando alle stesse proiezioni, i democratici avrebbero avuto il 55% di possibilità di riconquistare il Senato. 6 novembre. Durante un comizio nella città di Reno, in Nevada, Donald Trump è stato strappato dal palco dal quale stava parlan12 • MSOI the Post

TRUMP E IL CANADA

Il nuovo Presidente dalla prospettiva dei “vicini di casa”

Di Sofia Ercolessi La vittoria di Trump alle presidenziali potrebbe creare delle questioni fra USA e Canada: nonostante il legame inscindibile tra i due Paesi, le posizioni dei leader e dell’opinione pubblica canadese divergono su alcuni temi importanti, che sono stati centrali nella campagna del nuovo Presidente americano. Trump, infatti, si è espresso a più riprese sia contro il TPP (TransPacific Partnership) sia contro il NAFTA (North American Free Trade Agreement), i due principali trattati di libero scambio che coinvolgono Stati Uniti e Canada. Il NAFTA sarebbe, secondo il Presidente, “il peggior accordo commerciale di sempre”, da “rinegoziare interamente” o da “terminare”. Se queste parole fossero seguite da un’attuazione politica, Per il Canada sono parole pesanti, che, se tradotte in un’azione politica, potrebbero avere un forte impatto su un’economia che si basa principalmente sul commercio estero e scambia ogni giorno con gli Stati Uniti circa 1,7 miliardi di dollari. La questione ambientale è un altro tema sul quale i due leader hanno posizioni diametralmente opposte. Mentre Trudeau ha fatto della lotta ai cambiamenti climatici un punto centrale della sua campagna, Trump ha definito il riscaldamento globale “un concetto inventato dai cinesi” per penalizzare l’industria americana e ha spesso criticato

gli investimenti sull’energia rinnovabile. Questo potrebbe dar luogo a forti contrasti, se si considera che le decisioni prese nell’Ufficio Ovale influenzeranno certamente i risultati concreti delle politiche “verdi” implementate da Ottawa. A ciò si aggiunge la recente decisione di fissare, entro il 2018, un prezzo nazionale al carbone canadese, che potrebbe danneggiare gli interessi statunitensi. C’è però, almeno da parte americana, la volontà di attuare un progetto comune economicamente importante: Keystone XL, un ampliamento della rete di gasdotti tra Canada e USA che era stato bocciato da Obama l’anno scorso. Pur controverso per il suo possibile impatto sull’ambiente, il progetto porterebbe al Canada notevoli profitti. Ultimo ma non meno importante, il tema dell’immigrazione, alla quale Ottawa ha aperto le porte, mentre il nuovo Presidente statunitense vorrebbe chiuderle quasi totalmente. Non si può escludere che, oltre al confine con il Messico, Trump decida di rafforzare anche quello a nord, o che i flussi verso il Canada aumentino in risposta alle politiche statunitensi. Resta il fatto che i due Paesi americani dovranno per forza collaborare su molti temi, se non altro in virtù dei loro legami economici e dell’alleanza storica che li unisce.


NORD AMERICA do da due agenti. Fonti del Secret Service hanno poi spiegato che, in seguito a movimenti sospetti in sala, si era temuto un possibile attacco ai danni del candidato del GOP.

“WE ARE WATER”

I Sioux contro la costruzione dell’oleodotto in Nord-Dakota

6 novembre. Il numero uno dell’FBI, James Comey ha confermato che non esiste nessun capo d’accusa ai danni di Hillary Clinton nella vicenda delle e-mail. 8 novembre. Nell’Election Day, Trump ha presentato un’azione legale, poi respinta, in Nevada, denunciando anomalie nelle procedure di voto anticipato. 9 novembre. A urne chiuse, i risultati definitivi dell’elezione registrano a sorpresa la vittoria di Donald J. Trump, che diventa President-elected degli Stati Uniti d’America. Il repubblicano ha vinto conquistando 279 delegati, contro i 228 dell’avversaria Clinton. Va al Partito Repubblicano anche il controllo del Congresso, con 51 rappresentanti in Senato e 239 alla Camera dei Rappresentanti. Rieletto in Florida anche Marco Rubio, ex contendente alle primarie del Partito Repubblicano. Lo speaker della Camera Paul Ryan ha invece dichiarato: “Se abbiamo vinto molti più seggi del previsto nel Congresso è merito di Trump”. 9 novembre. Tra i democratici, non tarda ad arrivare il riconoscimento della sconfitta. Nel suo concession speech Hillary Clinton ha esortato la nazione a concedere una chance a Trump, dicendosi pronta a collaborare con lui. Obama ha invitato il Presidente eletto per un incontro alla Casa Bianca nella giornata di giovedì. A cura di Silvia Perino Vaiga

Di Martina Santi Da qualche mese sono cominciate in Nord Dakota le proteste dei Nativi americani contro la Energy Transfer Partners, società energetica texana a capo del Dakota Access Pipeline Project (DAPL). Inizialmente conosciuto come progetto Keystone XL, esso prevedeva la costruzione di uno dei più grandi oleodotti mai realizzati. Tuttavia, le immediate reazioni della popolazione nativa e la definitiva bocciatura da parte del presidente Obama ne avevano impedito la realizzazione. Oggi i Dakota si battono contro un secondo impianto (DAPL), che, seppur ridotto di 7 miglia, costituisce l’erede del precedente. Il nuovo progetto prevede la costruzione di un oleodotto lungo circa 1.700 km, grazie al quale sarebbe possibile il trasporto giornaliero di petrolio lungo il fiume Missouri, attraverso, tuttavia, le sacre terre degli indiani. Sebbene si proponga di ridurre la dipendenza energetica degli Stati Uniti da altri Paesi stranieri e di generare migliaia di nuovi posti di lavoro, l’impianto rappresenta anche una grave

minaccia ambientale. I rischi di contaminazione sono infatti elevati: si teme soprattutto una fuoriuscita di materiale inquinante dai condotti nel fiume Missouri, principale fonte di acqua potabile per i Sioux Dakota. A sostegno dei Sioux di Standing Rock hanno preso parte alle manifestazioni anche altre tribù di Nativi americani. Le proteste, che hanno interessato i luoghi in cui dovrebbe passare il DAPL, pur essendo pacifiche sono state duramente fronteggiate dalla polizia, la quale ha fatto ricorso alla violenza fisica attraverso l’utilizzo di proiettili di gomma o di spray urticante. Dopo aver portato il caso di fronte alle Nazioni Unite, con la richiesta di un intervento internazionale risolutivo, la Standing Rock Sioux Tribe ha ottenuto la decisione, da parte del governo federale, di bloccare momentaneamente i lavori in quei territori. In attesa di una soluzione definitiva, i manifestanti continuano a occupare le terre interessate, dove le manifestazioni di protesta sono state sostituite da cerchi di preghiera.

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MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole ALGERIA 7 novembre. Il Presidente Bouteflika è stato ricoverato in un ospedale di Grenoble per controlli medici. EGITTO. 8 novembre. Il portavoce del Ministero del Petrolio riporta che l’Arabia Saudita ha interrotto gli approvvigionamenti di carburante verso il Paese. IRAQ 4 novembre. Incursione Daesh a Shirqat, a sud di Mosul. Jihadisti sopraffatti dalle forze di sicurezza: i cadaveri appesi nelle strade. Incendiati pozzi di petrolio nell’area di Mosul. 5 novembre. Esplode un veicolo della polizia nel nord dell’Iraq. Trasportava profughi in fuga dalla città di Hawija. 7 novembre. I Peshmerga entrano a Bashiqa, a nord-est di Mosul. Intanto, nella città di Hammam Alil, a sud di Mosul, 100 cadaveri sono stati trovati in una fossa commune. 8 novembre. 1.000 prigionieri liberati dalle forze governative nei pressi di Mosul. 9 novembre. Secondo Amnesty International, individui vestiti come le forze di sicurezza irachene avrebbero torturato e ucciso abitanti dei villaggi nell’area di Mosul. ISRAELE 6 novembre. La delegazione palestinese all’UNESCO ha richiesto “che Israele restituisca i Rotoli del Mar Morto”. 8 novembre. Israele rifiuta di prendere parte alla conferenza di pace che si terrà in Francia, per condurre le trattative direttamente con i Palestinesi. 14 • MSOI the Post

#FREETHEGIRLS

Il Marocco e la condanna all’omosessualità

Di Lucky Dalena In molti tra i Paesi del Medio Oriente l’omosessualità è considerata illegale. Gli articoli del Codice Penale numero 534 in Libano, 230 in Tunisia e 489 in Marocco condannano alla reclusione (fino a un anno in Libano, fino a tre in Tunisia e Marocco) coloro che “commettono atti innaturali con persone dello stesso sesso”. La questione è tornata all’attenzione del pubblico in seguito all’arresto - con reclusione di tre anni - di due minorenni viste baciarsi su un tetto di Marrakech. Un cugino avrebbe fotografato le ragazze e inviato il materiale alle famiglie, che hanno poi informato la polizia. Numerosi utenti di Twitter, ma anche alcuni movimenti per i diritti umani in Marocco, hanno espresso solidarietà per le due giovani. L’episodio sottolinea una tendenza del governo ritenuta da molti ipocrita e utilitaristica: la questione dell’omosessualità nella società marocchina è ricca di contraddizioni. Il Codice Penale condanna ogni tipo di atto considerato innaturale dalla religione islamica, la shar’ia, che quindi viene applicata alle questioni personali. Sono vietati alcuni libri trattano l’omosessualità e nelle scuole si insegna ai

bambini che le relazioni sessuali al di fuori di quelle tradizionali sono innaturali. In alcuni casi, però, il governo si è dimostrato molto più tollerante. In Marocco, attualmente, esiste un’organizzazione per i diritti gay e viene tollerata la diffusione di una rivista per i diritti LGBT. La rivista, Mithly, non gode però di una licenza ufficiale e viene quindi prodotta in Spagna. Due autori marocchini, Abdellah Taïa e Rachid O., hanno affrontato il tema nei loro libri. Entrambi, però, risiedono in Francia. Ciò di cui vengono accusati il governo e la stessa società marocchina è la tolleranza dell’omosessualità solo per “i più fortunati” o per ragioni d’interesse. Comportamenti che su un tetto di Marrakech portano all’arresto di due minorenni sono ampiamente tollerati nei quartieri più turistici della città, dove numerosi stranieri usufruiscono dei servizi offerti da giovani uomini. Recentemente, inoltre, molti si sono schierati in difesa della popstar Saad Lamjarred, accusata di stupro in Francia: ciò sottolinea quanto la società marocchina, prima ancora del governo, richieda un cambiamento in favore del rispetto dei diritti umani di persone dimenticate dalle loro stesse comunità.


MEDIO ORIENTE 9 novembre. “E’ finita l’era dello Stato palestinese”: le parole del Ministro dell’Educazione israeliano Naftali Bennett, in merito all’elezione di Donald Trump. Netanyahu ha definito Trump “un amico sincero dello stato di Israele”. LIBIA. 7 novembre. Scontri a Derna tra esercito e forze jihadiste legate ad al-Qaeda. 8 novembre. USA pronti a portare avanti ulteriori raid aerei contro Daesh. MAROCCO 7 novembre. Marrakech ospiterà i lavori del COP22, durante il quale attori internazionali affronteranno problemi climatici e ambientali. SIRIA 6 novembre. Le forze curdosiriane annunciano l’inizio delle operazioni per riconquistare Raqqa. 7 novembre. Colloquio telefonico tra il Ministro degli Esteri egiziano Shoukry e il Ministro degli Esteri russo Lavrov. Tema centrale: la necessità di raggiungere un accordo per il cessate il fuoco in Siria. 9 novembre. Raid aereo della coalizione uccide 6 civili nell’area di Raqqa. TURCHIA 5 novembre. Daesh ha rivendicato l’attacco alla stazione di poliza nel sud-est del Paese. Il governo turco continua ad accusare il PKK. YEMEN 7 novembre. Secondo la WHO, a causa del conflitto, solo il 45% delle strutture ospedaliere e sanitarie in 16 delle 22 province yemenite è funzionante. A cura di Martina Terraglia, Corrispondente dalla Giordania

SIRAQ: ATTACCO ALLA CAPITALE Mentre la battaglia di Mosul infuria, le forze curde puntano verso Raqqa

Di Jean Marie Reure

capitale siriana del califfato.

Secondo l’IHS Conflict Monitor, Daesh avrebbe perso circa il 16% dei territori che controllava a inizio anno. La battaglia di Mosul, iniziata il 21 ottobre, è entrata nella sua fase più critica e sanguinosa. Dai primi di ottobre sono stati condotti dalla coalizione internazionale più di 700 raid aerei nel Siraq. L’obiettivo è fiaccare Daesh, così da permettere alle forze locali di riconquistare i territori occupati dagli uomini del califfato.

Sebbene secondo il segretario della Difesa americano Ashton Carter sarà una battaglia “certamente non facile”, Brett McGurck, inviato speciale del Presidente USA per la coalizione anti-Daesh, ha dichiarato che l’SDF è una componente essenziale delle operazioni, poiché la città deve essere liberata da “forze locali” che per questo sono state addestrate a lungo. Si tratterebbe ora di coordinare tutte le forze locali intorno alle forze democratiche.

Gli ultimi giorni della presidenza Obama si ricorderanno anche per questa svolta nella guerra che ha precipitato nel caos la Siria e le regioni circostanti. Proprio mente i riflettori sono puntati su Mosul, si apre una nuova fase del conflitto, ancor più delicata. L’SDF (Forze Democratiche Siriane) ha, infatti, dato il via alla riconquista di Raqqa. Il gruppo comprende ribelli arabi e curdi, fra cui le YPG, le YPJ (la sezione “femminile” dei combattenti curdi), forze turkmene e cristiano-siriane. L’SDF, in un comunicato stampa rilasciato ad Ayn Issa nel nord della Siria, ha dichiarato di poter contare su 30.000 uomini ben addestrati. Sostenute e addestrate dagli USA, le Forze hanno già inflitto diverse sconfitte ai miliziani di al-Baghdadi e sembrano dunque sicure di poter conquistare la

L’endorsment americano e l’evidente pianificazione delle operazioni per la riconquista di Raqqa hanno tuttavia suscitato l’ira di Erdogan, alleato NATO indispensabile agli USA, che considera i combattenti curdi in Siria alla stregua dei “terroristi e fuorilegge” del PKK: secondo il Presidente turco, “una città interamente araba non può essere conquistata da estranei e terroristi”. La politica del no boots on the ground si riconferma così nei suoi limiti, lasciando una Siria devastata dai conflitti e preda degli interessi degli attori chiave della guerra. Se, secondo le parole del premier inglese May, “non si tratta di sapere se si sconfiggerà l’ISIS, ma quando”, bisognerebbe anche chiedersi che cosa succederà una volta che il monstrum-Daesh sarà scomparso

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RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole

IL CAUCASO RUSSO DIVISO IN DUE

L’Islam e lo jihadismo radicale continuano a scontrarsi

Di Giulia Bazzano ALBANIA, BOSNIAERZEGOVINA, SERBIA. 9 novembre. Il commissario europeo all’allargamento Johannes Hahn ha affermato che i tre Paesi balcanici sono pronti ad avviare i negoziati per l’adesione all’Unione Europea. Hahn ha inoltre spronato i tre governi su tematiche specifiche: Tirana a procedere a passo spedito sulla riforma della giustizia, Sarajevo a continuare la lotta alle divisioni interne e Belgrado alla normalizzazione dei rapporti con Pristina.

Mosca pensava che lo scontro tra Islam e jihadismo radicale in Caucaso fosse ormai un capitolo chiuso. Invece, gli avvenimenti degli ultimi mesi hanno dimostrato il contrario. A settembre, infatti, un imam della comunità musulmana Taariqat è stato ucciso. L’episodio è il climax della forte tensione con la fazione radicale dei wahabiti, che abita lo stesso territorio. L’obiettivo di tale gruppo è quello di creare un emirato caucasico nella regione.

MOLDAVIA. 8 novembre. Il Fondo Monetario Internazionale ha deciso di concedere un prestito da 178,7 milioni di dollari in tre anni a Chişinău, 36 dei quali saranno a disposizione con effetto immediato. La notizia arriva a pochi giorni di distanza dal ballottaggio presidenziale che vede i candidati opporsi sulla affiliazione a Mosca o Bruxelles. Gli aiuti economici a Chişinău da parte di UE e FMI erano stati congelati in seguito alla scomparsa di un miliardo di dollari dalle casse dei tre principali istituti di credito del Paese.

Oltre all’ultimo omicidio dello scorso settembre, dal 2012 sono stati uccisi altri sette imam. Nel 2013 i wahabiti sembravano essere stati indeboliti dalla morte di colui che era considerato il loro capo spirituale, l’emiro Dokku Umarov, e dall’esodo di gran parte del gruppo in Siria, dove si era recato per unirsi al Daesh, che rappresenta una prospettiva allettante soprattutto per le fasce più giovani e povere della regione.

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Il governo russo ha cercato di debellare lo jihadismo radicale nel Paese, senza però riuscirvi completamente. Le misure repressive attuate dal Cremlino

sono state coordinate dal braccio destro di Mosca in Cecenia, Kadyrov. L’ex presidente ceceno era stato definito il ”cane da guardia” di Mosca, e ha rappresentato un importante aiuto nel tenere sotto controllo diversi gruppi sospettati di terrorismo. Le sue dimissioni, ad aprile di quest’anno, hanno probabilmente accellerato il precipitare della situazione. L’evento, infatti, ha aperto il dibattito sulla stabilità dell’area: Mosca deve capire come mettere in pratica azioni efficaci contro lo jihadismo radicale nel Caucaso, prima che la situazione diventi insostenibile e il conflitto si allarghi su scala più ampia. La presenza di gruppi estremisti ha già lasciato il segno nella storia russa: uno degli organizzatori degli attentati nella metropolitana di Mosca nel 2010 e all’aeroporto di Domodedovo nel 2011 era proprio l’emiro Umarov In questo momento, inoltre, la Russia deve essere in grado di agire contemporaneamente su più fronti: i suoi uomini sono dispiegati in Transnistria e in Donbass e il Paese è coinvolto sia militarmente sia diplomaticamente in Siria.


RUSSIA E BALCANI MONTENEGRO. 6 novembre. Il procuratore generale di Podgorica, Milivoje Katnic, ha escluso il coinvolgimento di strutture statali di Mosca o Belgrado nel tentato colpo di Stato dello scorso mese. Lo stesso Procuratore afferma che i componenti del gruppo di 20 persone arrestate lo scorso 16 ottobre a Podgorica fanno parte dagli ambienti nazionalisti filorussi e avevano intenzione di entrare in Parlamento, uccidendo inoltre e uccidere il premier Milo Djukanovic. 7 novembre. Il Parlamento si è riunito per la prima volta dopo le elezioni dello scorso 16 ottobre. Alla seduta inaugurale non hanno tuttavia partecipato le opposizioni, che continuano a protestare per supposti brogli nello svolgimento della consultazione. L’assenza dei partiti di opposizione non ha permesso inoltre di procedere alla votazione del Presidente e del Segretario dell’assemblea. RUSSIA. 8 novembre. Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha lanciato un monito ai Paesi occidentali affermando che “la storia ha dimostrato diverse volte che i tentativi di isolare la Russia hanno provocato senza eccezioni delle conseguenze gravi per tutto il continente”. 9 novembre. Il presidente Putin ha inviato un telegramma a Donald Trump per congratularsi della vittoria portata a termine. Secondo la Tass, il Presidente russo avrebbe anche auspicato che i “rapporti russo-americani possano uscire dalla crisi” e che il dialogo possa rispettare gli interessi di ciascuno. A cura di Leonardo Scanavino

L’UOMO NUOVO DI SOFIA

Le presidenziali che minacciano il governo di Borisov

Di Vladimiro Labate Domenica 6 novembre si è svolto in Bulgaria il primo turno delle elezioni presidenziali. Rumen Radev, candidato del Partito Socialista, ha vinto col 25,7% dei voti, mentre Tseka Tscheva, esponente del partito di centro-destra GERB e vicina al primo ministro Boyko Borisov, ha ottenuto il 22%. Il vincitore del primo turno, Radev, è l’ex-comandante in capo dell’aeronautica militare. Radev si è presentato come tecnico estraneo alla politica e lontano perciò dai giochi di potere. Ciò gli ha permesso di sfruttare la rabbia della gente contro le élite politiche e la paura dell’immigrazione. La sua sfidante, invece, è la Presidente del Parlamento. Figura esperta nel campo delle istituzioni, anche per la sua eccessiva dipendenza da Borisov è stata considerata una candidata debole e poco carismatica. Sebbene differenti nei percorsi politici, i due candidati hanno mostrato molte affinità riguardo alle loro idee e ai loro progetti. L’unico effettivo campo di scontro è stato quello delle relazioni con la Russia. Se la Tscheva si è chiaramente schierata a favore dell’UE e della NATO, Radev si è dimostrato più attento ai rapporti tra i due vicini. Tenendo conto della vicinanza culturale e degli interessi economici e politici comuni, il candidato socialista

non ha chiuso la porta all’antico alleato, venendo così accusato di essere filo-russo. Nonostante la carica di Presidente sia di controllo e di rappresentanza, l’esito delle elezioni può avere un rilevante significato politico. La conferma al secondo turno di questo risultato, infatti, potrebbe portare alle dimissioni del factotum della politica bulgara, il primo ministro Borisov, che le aveva annunciate in caso di sconfitta della propria candidata. Legato alla mafia bulgara, Borisov ha creato negli anni una classe di oligarchi con cui ha instaurato un rapporto di reciproco interesse. Il suo allontanamento aprirebbe una crisi di governo e costringerebbe a nuove elezioni parlamentari. Oltre che per il primo turno delle presidenziali, i bulgari hanno votato per tre referendum, presentati dal comico televisivo Slavi Trifonov. Essi riguardavano l’istituzione di un sistema elettorale maggioritario a due turni, la limitazione del finanziamento pubblico ai partiti e l’introduzione del voto obbligatorio (già però in vigore dalle presidenziali). L’intento era quello di rivoluzionare l’assetto istituzionale e probabilmente di preparare l’ingresso in politica di Trifonov. Tuttavia non è stato raggiunto il quorum necessario e tali questioni saranno quindi, in futuro, esaminate dal Parlamento.

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ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole CINA 7 novembre. Xi Jinping, in vista del ricambio generazionale previsto entro il 2017, ha avviato un rimpasto ministeriale da ottenersi entro il 19° Congresso del Partito, previsto per il prossimo anno. I leader interessati sono due personaggi chiave nella politica cinese, Lou Jiwei e Geng Huichang, rispettivamente ex Ministro delle finanze ed ex Capo dei servizi segreti. Il primo, in carica dal 2008, aveva avviato una serie di riforme cruciali per l’economia del Paese. Il secondo, invece, ha avuto un ruolo chiave per la stabilità dell’apparato. INDIA 10 novembre. Il primo ministro indiano Nerendra Modi, ha affermato che la sua visita nel Paese del Sol Levante, avrà come fine ultimo la stipulazione di un contratto nucleare con il Giappone. Secondo la tabella di marcia, tali trattative dovrebbero chiudersi venerdì. I leader Shinzo Abe, ha chiarito inoltre lo scopo puramente pacifico dell’accordo, volto a promuovere l’utilizzo di energia pulita e sottolineando, inoltre, come questa cooperazione sia stata affidata a un Paese non firmatario del Trattato di non proliferazione nucleare.

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L’ACCORDO INDO-NIPPONICO SUL NUCLEARE La seconda e la terza economia dell’Asia aprono al commercio dell’atomo.

Di Giusto Amedeo Boccheni Mentre a Vienna si riuniranno i 48 Paesi membri del Gruppo dei fornitori nucleari (NSG), Shinzo Abe e Narendra Modi, tra il 10 ed il 12 novembre, tenteranno di portare a conclusione un patto di cooperazione per l’uso pacifico dell’energia nucleare. Il progetto, intrapreso nel 2010, ha subito un arresto con il disastro di Fukushima ed è stato ripreso soltanto nel 2013. L’India, che non ha mai firmato il Trattato di non proliferazione (NPT), si è unilateralmente impegnata nel 1998 a sospendere ogni test nucleare. Se mai i test dovessero riprendere, l’accordo con Tokyo, per come inquadrato dal memorandum d’intesa firmato nel dicembre scorso a Nuova Deli, permetterà ai giapponesi di recedere. Se l’intesa reggesse e se lo scrutionio della Dieta giapponese la ratificasse, i primi a trarne vantaggio sarebbero i produttori di energia nucleare giapponesi come Mitsubishi e Hitachi. Anche le aziende statunitensi come Westinghouse Electric Corp. e GE Energy Inc., strettamente legate a qualle nipponiche, godrebbero dell’accesso all’assetato mercato indiano. Inoltre la mossa di Tokyo sarebbe un forte stimolo a implementare l’accordo tra India e USA. Gujarat ed Andhra Pradesh saranno probabilmente

i siti in cui si concentreranno i primi investimenti. Gli indiani hanno fatto capolino mercato dell’energia nel atomica nel 2007, con un accordo condizionato con gli Stati Uniti. Da allora, altri 14 Paesi hanno firmato accordi speciali con Nuova Deli e, soprattutto negli ultimi anni, sempre più membri dell’NSG hanno dichiarato il proprio supporto all’ingresso della Repubblica indiana, con l’eccezione di alcuni, tra cui Svizzera, Irlanda e Cina. Pechino in particolare non intende rinunciare a creare le basi per l’ingresso del Pakistan, anch’esso non firmatario del NPT ed avversario storico del gigante dell’Asia meridionale. Oltre all’intesa sul nucleare, Modi e Abe discuteranno dell’acquisto da parte dell’India di 12 velivoli anfibi per operazioni di ricerca e salvataggio per oltre un miliardo e mezzo di dollari. Secondo diversi osservatori, l’affare interesserebbe direttamente la questione della sicurezza nel mar Cinese orientale e meridionale e nello stretto di Malacca. Il messaggio, indirizzato a Pechino, è che Giappone ed India, con gli Stati Uniti alle spalle, intensificheranno gli sforzi nella contesa per le preziose tratte commerciali che bagnano il sudest asiatico.


ORIENTE INDONESIA 5 novembre. Il presidente Joko Widodo ha dovuto annullare il suo incontro con il primo ministro australiano Malcom Turnbull, a causa delle violente proteste scoppiate nella Capitale lo scorso venerdì. A scatenare la rivolta, sarebbero state delle affermazioni del governatore Basuki Tjahaja Purnama, comunemente conosciuto come Ahok. Il Sindaco della città, appartenente a una minoranza cristiana, avrebbe attaccato la comunità mussulmana relativamente alle loro pratiche religiose. I manifestanti hanno così accerchiato l’edificio principale inneggiando la morte di Ahok.

TAIWAN 8 novembre. La presidente Tsai Ing-wen, durante l’assemblea settimanale per la coordinazione economica, ha svelato la nuova politica commerciale, che tenderà a coinvolgere maggiormente le entità locali, attraverso meeting ed esibizioni, per attirare investitori stranieri e ampliare il mercato di riferimento. Il porto di Kaohsiung in particolare, è il primo deputato a ricevere finanziamenti dal governo. Il sindaco Chen Chu ha spiegato poi come l’obiettivo sia duplice, cercando da un lato nuovi partners commerciali e permettendo dall’altro uno scambio di risorse e conoscenze tecnologiche. A cura di Alessandro Fornaroli

IMMIGRATI MUSULMANI IN AUSTRALIA? L’immigrazione in Australia tra timori e accoglienza.

Di Luca De Santis L’ultima settimana di ottobre l’azienda di sondaggi Essential Research ha rilasciato alcuni importanti risultati: il 49% degli australiani risulta favorevole al divieto di immigrazione per i musulmani. Ha espresso questa preferenza il 60% degli elettori liberali, il 40% dei laburisti e il 34% dei verdi. Il divieto è fortemente propagandato, inoltre, dalla leader del partito One Nation Pauline Hanson, che torna al Senato dopo 18 anni di “deserto politico”. Il vice capo laburista Tanya Plibersek ha attribuito il fallimento alla leadership politica. L’esponente del fronte liberale Christopher Pyne, invece, ha suggerito che il risultato dovrebbe indurre il governo a rassicurare gli australiani sulla forza del controllo di frontiera e delle politiche di sicurezza nazionale. All’inizio di quest’anno, tuttavia, è emerso che solo il 12% degli australiani considera l’immigrazione una questione di grande importanza per la Nazione. Un altro sondaggio del Lowy Institute, i cui dati sono stati pubblicati il 28 ottobre, ha rilevato che la maggior parte degli australiani ritiene l’educazione, la salute e la violenza domestica problematiche più rilevanti rispetto a quelle legate ai fenomeni migratori.

Dunque, se molti cittadini sembrano propensi a impedire l’immigrazione musulmana, non pare però che tale divieto possa essere considerato una priorità. Uno dei fattori all’origine del problema è anche la narrazione negativa dell’immigrazione, favorita dal governo fin dal suo arrivo al potere nel 2013, quando, smantellato il Dipartimento per l’Immigrazione, ne ha ricostruito uno che incorpora anche le border forces australiane. Pauline Hanson, accusata di razzismo dal Premier, così come i suoi colleghi in Senato, potrebbero dunque trovare rinnovato vigore proprio grazie all’ostilità che emerge da certe posizioni governative. Intanto, lo scorso 31 ottobre il primo ministro Malcolm Turnbull ha dichiarato di essere orgoglioso di guidare un Paese che accoglie rifugiati da tutto il mondo (13.750 all’anno). Martedì 8 novembre Turnbull ha risposto agli attacchi dell’ex premier Kevin Rudd, che, in quanto portavoce degli interessi dei laburisti, aveva richiesto maggiori controlli, causando nel 2013 l’affollamento dei centri di detenzione. L’attuale governo ha, invece, sottolineato l’avvenuta chiusura di 17 strutture e l’importante attività svolta per trovare una sistemazione ai migranti, con lo scopo di dare vita a una società multiculturale di successo.

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AFRICA 7 Giorni in 300 Parole

GLI EFFETTI DISASTROSI DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI IN AFRICA Riscaldamento globale concausa dei conflitti nel continente?

BURUNDI 3 novembre. Il governo del Burundi ha minacciato il ritiro delle proprie truppe dalla missione dell’Unione Africana che combatte le milizie jihadiste in Somalia. Il ministro della difesa Emmanuel Ntahomvukiye ha riportato al Parlamento il mancato pagamento, negli ultimi 10 mesi, degli 800 dollari di paga supplementare dovuta ai militari africani dall’Unione Europea. L’interruzione dei versamenti è stata giustificata da Bruxelles con lo scatenarsi nel Paese di una violenta crisi politica. ETIOPIA 8 novembre. L’Etiopia ha revocato il divieto, imposto ai funzionari diplomatici in missione nel Paese, di allontanarsi per più di 40 chilometri dalla capitale Addis Abeba. Per le autorità, tale provvedimento restrittivo si sarebbe reso indispensabile per garantire la sicurezza del personale straniero, a seguito dei disordini e degli scontri che si sono succeduti durante lo scorso mese. NIGERIA 5 novembre. Almeno 25 persone, che hanno ricoperto incarichi ministeriali o di assistenza militare durante il mandato dell’ex presidente Goodluck Jonathan, sono state messe sotto accusa di corruzione dalle autorità giudiziarie. L’ammontare del giro 20 • MSOI the Post

Di Arianna Papalia Anche i cambiamenti climatici giocano un ruolo fondamentale nella definizione dell’ordine mondiale L’aumento delle temperature, la scomparsa ogni anno di ettari ed ettari di foresta, la veloce desertificazione, la siccità e l’incidenza delle malattie sono soltanto alcuni dei fattori che aumentano la possibilità di conflitti. Questo è quanto emerge da uno studio recentemente pubblicato da Tamma Carleton e Solomon Hsiang sulla rivista Science. I due accademici, infatti, stimano che il riscaldamento globale, a partire dal 1980, abbia innalzato dell’11% il rischio di conflitti in Africa. Dello stesso parere è il professor Charles Geisler, dell’Università di Cornell, il quale ritiene fondamentale sottolineare l’impatto climatico sulla sicurezza uma-

na. Il climate change costringe un sempre maggior numero di persone a fuggire dalle proprie case nel tentativo di trovare un ambiente climatico meno ostile. Secondo Legambiente, nel caso africano i “profughi ambientali” costretti a spostarsi per alluvioni, siccità e altri eventi meteorologici ammontavano a 8,2 milioni nel 2013. Tali dinamiche migratorie aumenterebbero il rischio di instabilità in aree già particolarmente problematiche. È il caso del Darfur: Ban Ki-moon nel 2007 ha definito questa guerra come uno dei più grandi conflitti causati dal cambiamento climatico e dal degrado ambientale. L’Africa, inoltre, è il continente che maggiormente subisce gli effetti del climate change, nonostante contribuisca soltanto in minima parte alle emissioni di gas serra (meno del 2,5% del contributo mondiale).


AFRICA di mazzette, che coinvolgerebbe non solo funzionari pubblici ma anche parenti del Presidente, è di circa 132 milioni di dollari.

ESPLOSIONI E ATTACCHI IN MALI L’instabilità nel Paese è ancora molto forte. Continua la missione dei Caschi Blu.

SUD AFRICA 10 novembre. La mozione di sfiducia contro il presidente Jacob Zuma è stata rigettata dal voto del Parlamento. Vittoria su tutta la linea per il Presidente e l’African National Congress, forte di un’ampia maggioranza parlamentare; la pubblicazione del documento “The State of Capture”, che ha portato alla luce un sistema amplissimo di corruzione ad alti livelli, pare non avere scalfito la corazza dell’uomo forte di Pretoria. SUDAN 8 novembre. Numerose manifestazioni di protesta si sono tenute durante tutto il giorno a Khartoum contro la decisione del governo di tagliare gli incentivi sui carburanti e di aumentare il prezzo dell’elettricità, nel tentativo di arrestare l’inflazione e stabilizzare il valore della sterlina sudanese. Le forze dell’ordine hanno disperso gli assembramenti con l’uso di gas lacrimogeni. UGANDA 5 novembre. La Sino Hydro Corporation, compagnia cinese che si occupa dei lavori di costruzione della diga di Karuma, ha annunciato che invierà sul posto 20 ingegneri con il compito di verificare l’entità delle crepe formatesi sulla struttura. La questione dei cedimenti della diga ha portato i due governi, ugandese e cinese, sull’orlo di una crisi diplomatica, scongiurata in extremis dalle dichiarazioni del CEO dell’azienda, il quale ha fornito dettagli rassicuranti sullo stato della costruzione. A cura di Guglielmo Fasana

Di Chiara Zaghi Domenica 6 novembre, a Douentza, un ordigno posizionato sulla strada ha fatto esplodere un convoglio delle Nazioni Unite. All’esplosione sono seguiti molteplici colpi d’arma da fuoco provenienti dal nord della città. Una nota della Missione Multidimensionale Integrata delle Nazioni Unite per la stabilizzazione in Mali (MINUSMA) ha dichiarato che durante l’attacco sono stati uccisi un soldato-peacekeeper del Togo e due civili; ferite altre sette persone. La MINUSMA ha condannato questi atti e promette di impiegare tutte le forze necessarie per identificare i responsabili. Lunedì 7 novembre, a Banamba, a 140 chilometri a nord di Bamako, un gruppo di uomini armati ha attaccato il carcere, liberando 21 prigionieri. Il ministro della Giustizia Mamadou Konate Ismael, che ha definito l’attacco come di matrice terroristica, ritiene che l’incursione sia stata organizzata per permettere l’evasione a due attentatori reclusi, che però erano stati trasferiti in un altro penitenziario il giorno precedente. Durante l’assalto sono stati incendiati e saccheggiati una banca e i locali della polizia e ruba-

ti alcuni veicoli. Il governo del Mali ha inviato sul posto le forze antiterrorismo, che stanno indagando sull’accaduto. Questi due episodi, avvenuti a poche ore di distanza l’uno dall’altro, sono gli ultimi di una lunga serie. A precederli, l’uccisione di un soldato francese, avvenuta il 5 novembre, in conseguenza dell’esplosione di un convoglio militare, per mano del gruppo terroristico Ansar Dine, legato ad Al-Qaeda. La Missione dei Caschi Blu in Mali è iniziata tre anni fa, poiché il Consiglio di Sicurezza ONU riteneva necessaria la presenza dei soldati-peacekeeper per assicurare la stabilità del Paese, i diritti dell’uomo, la sicurezza dei civili, la transizione verso una vera democrazia e l’eliminazione degli scontri interni tra gruppi etnici. L’aiuto dell’ONU era stato richiesto dal governo del Mali attraverso la Francia, dopo che nel 2012 la coalizione tra il gruppo etnico dei Tuareg e alcune milizie legate ad Al-Qaeda aveva preso il controllo di diverse città del Paese. La missione è stata poi prolungata con tre risoluzioni del Consiglio e con l’adozione di nuove misure strategiche che hanno come obiettivo il consolidamento del governo.

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SUD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole

ARGENTINA: POLEMICA SULL’ARRESTO DELL’ATTIVISTA SALA Amnesty e UN: una questione di diritti umani

BRASILE 8 novembre. Migliaia di manifestanti si sono radunati nella città di Rio de Janeiro per protestare contro il pacchetto di misure economiche proposte dal governatore Luis Fernando Pezao. Il governatore ha sostenuto che se non venissero approvate le manovre entro il dicembre 2018 si creerà un buco di bilancio di circa 52 miliardi di reais. Egli ha poi precisato che le riserve monetarie attuali sono sufficienti per pagare gli stipendi statali dei primi mesi del 2017. CUBA 8 novembre. In attesa degli effetti dell’elezione di Trump, le Forze Armate Rivoluzionarie (FAR) hanno annunciato che il 16 novembre inizieranno le esercitazioni militari Bastione 2016 che coinvolgeranno anche le organizzazioni popolari di difesa della rivoluzione. Josephina Vidal, responsabile cubana delle trattative con gli USA, si augura che il dialogo tra Cuba e Washington continui nel rispetto della parità tra le parti e della sovranità statale. MESSICO 9 novembre. Dopo la diffusione dell’esito elettorale in Florida a favore del tycoon Donald Trump, 22 • MSOI the Post

Di Giulia Botta Milagro Sala, attivista argentina di origine indigena, parlamentare del Mercosur, è la fondatrice di Tupac Amaru, organizzazione nata nel 2000 con l’obiettivo di rispondere concretamente alla crisi economica del Paese. L’organizzazione e le sue numerose cooperative promuovono progetti per combattere la miseria nella provincia del Jujuy (zona settentrionale dell’Argentina), una delle più povere del Paese.

in seguito a un sit-in pacifico davanti alla sede dell’esecutivo di Jujuy. Il fine era ottenere un colloquio con il governatore Gerardo Morales per chiedere un miglioramento delle condizioni in cui agiscono le cooperative sociali. Morales, dopo aver rifiutato per due volte di ricevere Sala, ha risposto alla manifestazione pacifica con l’arresto immediato dell’attivista e con una denuncia per “tumulto” e “istigazione a delinquere”.

Sala è nata e cresciuta in quella stessa terra: abbandonata dalla sua famiglia davanti a un ospedale, ha trascorso la prima parte della sua vita in strada, a contatto con il mondo della droga, della prostituzione e del carcere. In seguito, ha sposato la causa delle popolazioni indigene, indirizzando i suoi sforzi a favore degli Indios dello Jujuy. Negli anni ha promosso la realizzazione di ospedali, scuole, centri sportivi e culturali e, in particolare, progetti edilizi che dessero lavoro e abitazioni agli Indios.

In seguito alla denuncia del febbraio 2016 da parte di Amnesty International per il trattamento riservato alla Deputata, si sono attivate anche le Nazioni Unite. In particolare, , il 31 ottobre il Gruppo di Lavoro sulla Detenzione Arbitraria ha dichiarato: “la detenzione a tempo indeterminato è arbitraria” e ha chiesto al governo argentino di “rilasciare immediatamente” Sala. Si parla di violazione dell’indipendenza della magistratura, dei diritti parlamentari (che impediscono l’arresto di una Deputata) e, dunque, dei principi dello Stato di diritto. La questione resta, tuttavia, ancora aperta.

La leader argentina è in carcere dal 16 gennaio, arrestata


SUD AMERICA La moneta messicana ha perso circa il 13% contro il dollaro statunitense. La spiegazione della svalutazione del peso messicano è originata dal considerevole volume delle rimesse che gli immigrati negli USA inviano alle famiglie in Messico. Le rimesse, inoltre, sono uno dei principali introiti dell’economia messicana.

NICARAGUA: CONTINUA LA DINASTIA ORTEGA

70% per l’uscente Ortega e vicepresidenza alla moglie; l’opposizione: deriva autoritaria e brogli

Di Daniele Ruffino

NICARAGUA 7 novembre. Lo storico leader sandinista Daniel Ortega è stato eletto, per la terza volta consecutiva, Presidente del Nicaragua. Secondo i dati trasmessi dal Consiglio Supremo Elettorale (CSE) Ortega ha conseguito circa il 72,5% delle preferenze elettorali.

VENEZUELA 8 novembre. Dopo, la proposta di impeachement contro Maduro avanzata dell’Assemblea Nazionale Il presidente venezuelano ha disapprovato l’ultimatum delle opposizioni riguardante le elezioni. “Non ci può essere alcun ultimatum. Nessuno può emettere un ultimatum. Ogni cosa a suo tempo”, ha dichiarato Maduro. Il leader bolivariano ha poi convocato il Consiglio di difesa per analizzare la situazione del paese. A cura di Sara Ponza

Domenica 6 novembre si sono tenute in Nicaragua le elezioni presidenziali e sono stati nominati oltre 100 deputati, divisi tra Parlamento, regioni, interdipartimenti e Parlamento centroamericano. A sfidarsi erano il presidente uscente Daniel Ortega (leader del Frente Sandinista de Liberacion Nacional, il quale capeggiava una coalizione di più di 15 partiti chiamata Alianza Unida Nicaragua Triunfa) e Maximino Rodriguez, leader del Partido Liberal Constitucionalista (PIC). Nonostante il considerevole afflusso (oltre il 65% degli aventi diritto), queste elezioni sono state oggetto di forte critica e hanno portato una certa disillusione. Il Frente Amplio por la Democracia”(FAD), guidato da Violeta Granero, che non ha partecipato alla corsa, ha denunciato la frode elettorale e ha richiesto un intervento esterno. Gran parte dei partiti di centro-destra, ma anche diversi sandinisti dissidenti, hanno inoltre dichiarato che Ortega ha plagiato le istituzioni pubbliche per favorire il suo mandato fino al 2021. Le critiche non hanno impedito la vittoria di Ortega, che con più del 70% dei voti (secondo i dati rilasciati dal presidente della

Commissione Elettorale, Roberto Rivas) è salito per la terza volta al potere della Nazione, sbaragliando gli altri 5 candidati (il secondo ha totalizzato il 15%). Ad alimentare i dissapori è stata la nomina di Rosario Murillo - sua moglie - a vicepresidente, gesto che a dire di molti è stato la “prova del 9” della deriva dittatoriale del nuovo governo. Si stringe intorno al nuovo governo una cortina nera: intellettuali di sinistra e destra, sandinisti, americanisti e costituzionalisti non vedono nel terzo mandato dell’ex rivoluzionario la giusta guida per il loro Stato. Gettano ulteriori dubbi sulle vere inclinazioni del “neo” Presidente le oltre 100 leggi ultraliberiste promulgate nei mandati precedenti, decisamente troppo inclini a quel modello che la rivoluzione sandinista (e quindi lo stesso Ortega) combatteva e osteggiava. In questi ultimi anni, inoltre, il Nicaragua non è riuscito a migliorare sul fronte della povertà, della disoccupazione e dei servizi pubblici (se non in parte e solo grazie all’aiuto per lo sviluppo da parte del Venezuela). Il Paese è rimasto in una situazione stagnante che non permette il decollo dell’economia, come è successo in altri Stati sudamericani (per esempio Cile e Perù). MSOI the Post • 23


ECONOMIA WikiNomics BYE-BYE AGENTE ASSICURATIVO! Fra nove anni i sensori telematici avranno il sopravvento

Di Martina Unali “Il mondo delle assicurazioni non sarà più lo stesso”. A dichiararlo è Andrew Lee, manager di Octo Telematics, società che si occupa di servizi telematici per il mercato assicurativo e automotive. Quello che dobbiamo aspettarci è una rivoluzione delle formule assicurative e delle polizze. Entro il 2025, infatti, i cambiamenti saranno dettati dalla telematica, unita all’introduzione di sensori. Tali innovazioni possono essere sintetizzate in alcuni punti chiave. Vediamole in pratica. Risarcimento del danno in tempi brevi. Attraverso l’automazione, la liquidazione del sinistro potrebbe, effettivamente, avvenire senza dover aspettare le calende greche. Un notevole risparmio di tempo! Implementazione dei sensori biometrici. Per l’assicurazione sanitaria, gli assicurati trarranno benefici sia per l’individuazione preventiva dei rischi, sia per il risparmio sui premi da corrispondere. Ingresso

delle

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tecnologie

IL CIELO SOPRA IL CREMLINO PARTE 2

Dal default alla ripresa, Vladimir Putin il riformista di ferro

Di Michelangelo Inverso All’inizio del millennio, la situazione in Russia era catastrofica: il patrimonio statale saccheggiato dagli oligarchi, una disoccupazione endemica e un collasso generalizzato delle istituzioni pubbliche. La Shock Therapy intrapresa da Boris Eltsin e dal suo entourage, per traghettare il Paese dal comunismo al capitalismo stava mostrando tutto il suo fallimento. Il colpo di grazia, però, stava arrivando dal crescente separatismo delle regioni a maggioranza musulmana, in particolare dalla Cecenia e dal Dagestan. Iniziata nel 1994, la guerra civile nei distretti meridionali era stato uno schiaffo al potere di Mosca ed era già costata centinaia di morti, specialmente tra le fila governative. Furono proprio le dimissioni di Eltsin e il passaggio dei poteri al suo vicepresidente, Vladimir Putin, a segnare il passo del cambiamento. Questi era un exfunzionario del Kgb ed aveva avuto alcuni incarichi minori a San Pietroburgo e in alcuni uffici ministeriali prima di accedere alle stanze del potere; in particolare, al crepuscolo dell’era Eltsin, divenne capo dei servizi segreti e poi Primo Ministro. In seguito agli attentati terroristici degli jihadisti caucasici, Putin impose la linea dura ai separatisti in Cecenia. La sua capitale, Grozny, venne

rasa al suolo e più di 100 mila guerriglieri jihadisti furono uccisi dalle forze di sicurezza russe. Imposta così la pax del Cremlino sulla regione, venne immediatamente lanciata la ricostruzione e posto al vertice della Repubblica Cecena Razman Kadyrov, figlio di un ex-leader ceceno che aveva rinnegato la lotta armata. Una volta represse le velleità separatiste cecene, che avrebbero potuto portare ad una disgregazione dello Stato multietnico russo, la linea politica di Putin fu quella di un riformismo statalista. Riprese il controllo degli asset strategici per lo Stato, strappandoli ad oligarchi corrotti come Khodorkovsky. Vennero nazionalizzate le più grandi compagnie energetiche, dei trasporti e dell’industria pesante. Network e sistemi di telecomunicazioni, appannaggio degli oligarchi, furono sequestrati parzialmente e riportati alla televisione di Stato. La politica complessiva di Putin, tra il 2000 e il 2008, mirò a ricostruire sulle macerie dell’ex superpotenza attraverso un percorso graduale: rilanciò l’economia nazionale attraverso il monopolio energetico e ristrutturò le istituzioni, mantenendo un basso profilo internazionale, onde evitare ingerenze esterne. Ma, a partire dal 2008, il gioco iniziò a cambiare.


ECONOMIA smart nelle nostre abitazioni. “Aggiungi un posto a tavola che c’è un amico in più”, citava una nota canzone. Ecco, nel futuro potrebbe essere proprio così. L’intelligenza artificiale e i robot avranno una presenza massiva ed influente nel nostro quotidiano. I frigoriferi saranno in grado di stilare la lista della spesa, aiutando le casalinghe disperate, e non solo. Saranno anche in grado di influenzare l’importo delle polizze, interagendo direttamente con la casa madre per eventuali malfunzionamenti. Attenti al... sensore! Le novità riguardano anche le nostre abitazioni. I sensori permetteranno di risolvere, monitorare, ma soprattutto prevenire eventuali danni alle nostre case. Una versione all’avanguardia di Fido e degli antifurti moderni. Una polizza omnicomprensiva. Mediante l’utilizzo delle data analytics, i premi saranno delineati come vestiti sartoriali su ogni assicurato. La polizza accorperà al suo interno tutti i rami possibili. Le novità sono brillanti, non c’è che dire. La ciliegina sulla torta è la possibilità di anticipare la natura della polizza: dalla certezza post sinistro, introducendo la prevenzione, si giungerebbe ad una visione precisa e anticipata del rischio. Tuttavia, all’interno del settore assicurativo, non tutti hanno metabolizzato la questione allo stesso modo. Il surclassamento umano ed i problemi connessi alle informazioni personali sono i principali interrogativi. Certo è che in un’economia robotica è difficile prescindere da dispositivi tecnologici. Ma ricordiamoci, un pulsante necessita di un tocco umano per essere premuto.

L’EGITTO, NELLA MORSA DELLA CRISI ECONOMICA, SVALUTA LA PROPRIA MONETA Il governo di al-Sisi prova ad evitare il collasso, ma prevede altre misure impopolari

Di Giacomo Robasto L’Egitto, ancora alle prese con le conseguenze della Primavera araba e degli ultimi attacchi terroristici, sta attraversando in queste settimane una delle peggiori crisi economiche degli ultimi decenni. Infatti, la diminuzione degli investimenti stranieri, unita ad un crollo dei ricavi generati dal settore turistico, sta mettendo in ginocchio i conti pubblici della seconda economia africana. Se nel 2010 l’Egitto poteva contare su oltre 14 milioni di turisti in arrivo, con un giro d’affari di oltre 12 miliardi di dollari (circa il 13% del PIL egiziano), nel 2015 vi si sono recati soltanto 9 milioni di viaggiatori, con perdite di presenze sino al 70% rispetto al 2014 sulle coste del Mar Rosso. In tale contesto, inoltre, l’Egitto ha quasi dimezzato la propria disponibilità di riserve in valuta estera, rendendo sempre più difficile l’attività delle imprese locali, che limitano le importazioni di prodotti finiti dall’estero o cessano del tutto la produzione. Nelle ultime settimane, il governo ha addirittura introdotto una stretta sul controllo dei capitali locali e optato per l’introduzione di una imposta sul valore aggiunto per rimpinguare le casse dello Stato. Tuttavia,

la

decisione

più

drastica e inattesa, annunciata all’inizio di novembre dal presidente Abdel-Fattah al-Sisi, rappresenta un tentativo di invertire la rotta nei prossimi mesi: il governo ha, infatti, approvato una considerevole svalutazione della sterlina egiziana, permettendo la libera fluttuazione nei mercati valutari. Da gennaio 2016, il tasso di cambio ufficiale prevedeva che undollarofossescambiatoper8.88 sterline egiziane; da domenica scorsa, invece, per comprare un dollaro sono necessarie oltre 14 sterline egiziane, pari a una svalutazione di circa il 48%. Tale mossa è risultata inevitabile non soltanto per stabilizzare le riserve in valuta estera, minimizzando lo scambio con i dollari sul mercato nero, ma anche per soddisfare le richieste del Fondo Monetario Internazionale, che ha recentemente garantito allo Stato un prestito da circa 12 miliardi da restituire in tre anni. Non è però ancora chiaro come i cittadini reagiranno a queste misure: i prezzi di molti generi di prima necessità saliranno, in un Paese in cui l’inflazione si attesta già al 15% su base annua. Nei prossimi mesi, al-Sisi dovrà convincere gli egiziani di avere un piano per salvare l’economia dal collasso, creando posti nel settore privato senza influire negativamente sugli strati più poveri della popolazione. MSOI the Post • 25


Per rimanere aggiornato sulle attività di MSOI Torino, visita il sito internet www.msoitorino.org, la pagina Facebook Msoi Torino o vieni a trovarci nella Main Hall del Campus Luigi Einaudi tutti i mercoledì dalle 12 alle 16. 26 • MSOI the Post


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