Msoi thePost Numero 45

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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Redazione Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Stefano Bozzalla, Emiliano Caliendo, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Sofia Ercolessi, Alessandro Fornaroli, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Andrea Incao, Gennaro Intocia, Michelangelo Inverso, Simone Massarenti, Andrea Mitti Ruà, Efrem Moiso, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Emanuel Pietrobon, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Simone Potè, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Martina Unali, Alexander Virgili, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Copertine Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA 7 Giorni in 300 Parole BULGARIA 14 novembre. Vittoria dell’ex generale Rumen Radev alle elezioni presidenziali. Nel ballottaggio il candidato, sostenuto dal Partito Socialista Bulgaro (BCP), ha ottenuto il 59% dei consensi a discapito di Tsetska Tsaceva. Vista la sconfitta del proprio candidato, Boyko Borissov, guida dell’esecutivo, ha rassegnato le dimissioni. Radev, intanto, si dice pronto ad iniziare “la missione più importante della sua vita”.

OBAMA A TSIPRAS: CRITICA ALL’AUSTERITY L’ultima visita europea di Obama

Di Benedetta Albano L’ultima visita europea del presidente Obama è iniziata in Grecia, ad Atene, dove ha incontrato il primo ministro greco Tsipras.

FRANCIA 15 novembre. Bufera su Nicolas Sarkozy. In vista delle ormai imminenti primarie della destra francese l’uomo d’affari libico Ziad Takieddin ha affermato come, nella corsa all’Eliseo del 2007, Sarkozy abbia ricevuto finanziamenti illeciti per 5,5 milioni dal raìs libico Muammar Gheddafi. L’operazione sarebbe stata mediata dallo stesso Takieddin. La magistratura ha aperto un’inchiesta in merito. GRECIA 14 novembre. Il Paese ellenico sorprende gli analisti e fa sperare. Nel terzo trimestre 2016 Atene ha infatti registrato un aumento del PIL dello 0,5%, un incremento che non si registrava da 8 anni. Continua però la preoccupazione circa la situazione dei poveri, data

La capitale è stata posta sotto forti controlli di sicurezza per l’occasione, per evitare scontri e tensioni con le già annunciate manifestazioni appartenenti a gruppi estremisti. Tali dimostrazioni erano state annunciate dai gruppi anarchici e comunisti, soprattutto per la coincidenza della visita con l’anniversario della sanguinosa rivolta degli studenti del 1973, repressa dalla dittatura dei colonnelli appoggiata dagli Stati Uniti. Il Presidente Uscente ha espresso nuovamente il suo appoggio nei confronti della Grecia e il sostegno per quanto riguarda la ristrutturazione del debito, che verrà ribadito quando il 18 novembre si sposterà in Germania; nonostante non sia prevista una visita a Lesbos nei centri migranti, è molto probabile che Obama rilascerà delle dichiarazioni per incentivare lo sviluppo di una politica comune nei confronti della crisi

umanitaria che sta travolgendo l’Europa ormai da mesi. Interessante è stata soprattutto l’opinione critica del leader americano nei confronti dell’austerity, la quale da sola non potrebbe portare a maggiore prosperità per gli Stati europei. Opinione condivisa anche da Juncker e dalla Commissione, che chiederanno una moratoria per il biennio 2017-2018, opponendosi fortemente alle scelte politico-economiche del governo di Angela Merkel e invitando anche gli Stati meno afflitti dalla crisi a un aumento della spesa pubblica. Con questa visita si conclude anche per l’Europa l’era Obama, lasciando all’Unione Europea molti interrogativi, considerando le posizioni isolazioniste di Trump, nonostante il Presidente Uscente abbia dichiarato che l’unità e la prosperità europea siano posizioni fondamentali per gli Stati Uniti. Le future relazioni fra Stati Uniti e Europa verranno messe profondamente in discussione, come espresso dal presidente della Commissione Juncker e altri membri delle istituzioni europee. MSOI the Post • 3


EUROPA la vigente politica di austerità posta dall’FMI a salvaguardia dei creditori internazionali. ITALIA 15 novembre. L’Italia eserciterà il diritto di veto sul bilancio europeo. Ad annunciarlo il sottosegretario per gli affari esteri Sandro Gozi, con successiva conferma da parte del premier Matteo Renzi. Il Presidente del Consiglio contesta una mancata considerazione delle priorità dell’Italia e la mancanza di garanzie. Nonostante ciò, la Slovacchia ha affermato la volontà di continuare su questa strada.

POLONIA 11 novembre. In occasione della Festa dell’Indipendenza migliaia di ultra-nazionalisti del Partito Diritto e Democrazia si sono riversati nelle strade per celebrare la “conquista della sovranità”. Duro attacco dei manifestanti alle politiche di Bruxelles, come affermato dal leader del partito Jaroslaw Kaczynski, il quale ha affermato come “la Polonia sta ancora lottando per l’indipendenza”. A cura di Simone Massarenti

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BILANCIO PLURIENNALE UE: ITALIA PONE LA RISERVA

Questione migranti al centro. Gozi: UE metta i soldi dove mette le parole

Di Giulia Marzinotto A margine del Consiglio Affari Generali tenutosi a Bruxelles in data 15 novembre, il sottosegretario agli Affari Europei, Sandro Gozi, ha spiegato la posizione italiana in merito all’approvazione della revisione di medio termine del bilancio pluriennale dell’UE: “Il veto si pone quando c’è una votazione formale, che oggi non è prevista, quindi il termine giusto per il momento è riserva”. All’interno della proposta, presentata dalla Commissione Europea, circa la revisione del bilancio comunitario di metà mandato, è stata prevista l’introduzione di una maggiore flessibilità all’interno delle aree di spesa. Tuttavia, la proposta di compromesso della presidenza di turno, quella slovacca, non è stata considerata accettabile dal governo italiano poiché priva delle “garanzie per l’aumento di risorse a favore delle nostre priorità: immigrazione, sicurezza, disoccupazione giovanile e programmi per la ricerca”. Per la conclusione di tale procedura è richiesto agli Stati membri il raggiungimento dell’unanimità e quello che si preannuncia come un possibile veto italiano bloc-

cherebbe, di fatto, la revisione del bilancio 2014-2020 dell’UE. Il sottosegretario Gozi ha precisato che non si è trattato “né di nazionalismo né di populismo: siamo molto stanchi delle ambiguità e delle contraddizioni dell’Unione. La politica europea si fa anche con atti di coraggio”. Il governo italiano si è detto pronto a continuare i negoziati, ma non disposto a dare il suo appoggio ad un “accordo al ribasso”. La posizione dell’Italia, connessa in particolar modo alla gestione della questione migranti da parte dell’UE, è stata rimarcata dal premier Renzi, contrario alla possibilità di “finanziare quei Paesi che con i nostri soldi alzano i muri”. Ivan Korcok, sottosegretario slovacco per gli Affari Europei, replicato che “la proposta prevede 6 miliardi di euro in più per migrazioni, sicurezza e disoccupazione giovanile”. La presidenza slovacca ha fatto sapere che pur rispettando la riserva espressa dall’Italia e l’astensione del Regno Unito, presenterà l’accordo sulla revisione al Parlamento Europeo, sulla base del raggiungimento di un ampio consenso.


NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole

CANADA E STATI UNITI: VICINI MA LONTANI La lotta al cambiamento climatico made in Nord America

Di Alessandro Dalpasso

STATI UNITI 12 novembre. A Los Angeles, 3.000 perone hanno marciato al grido “Not my president” contro l’elezione di Donald Trump. Circa 200 le persone arrestate. 14 novembre. Proseguono le proteste da parte di migliaia di persone in diverse città degli Stati Uniti contro l’elezione di Donald Trump. 71 persone sono state arrestate a Portland in seguito a scontri con le forze dell’ordine. 14 novembre. Il Presidente Eletto ha nominato Reince Priebus in qualità di Chief of Staff della Casa Bianca. Lo Chief Strategy sarà invece Steve Bannon: la sua nomina ha suscitato le proteste delle comunità ebraica e musulmana, che lo accusano di razzismo. 15 novembre. Inizia l’ultimo viaggio del presidente uscente Barack Obama in Europa. Obama ha incontrato il premier greco Alexis Tsipras, dichiarando che l’austerità non è in grado, da sola, di generare prosperità; la via d’uscita dalla crisi greca deve prevedere un taglio del debito. 16 novembre. Secondo quanto riporta la stampa americana, Daesh minaccerebbe un

All’ombra della COP22 di Marrakech si sono profilati due diversi atteggiamenti, da parte di Canada e Stati Uniti, per quanto riguarda la lotta al cambiamento climatico. Il 16 novembre la Casa Bianca ha presentato un piano per ridurre le emissioni di gas serra di 80 punti percentuali rispetto ai livelli del 2005 entro il 2050; si è impegnata a continuare a rispettare gli accordi multilaterali già effettivi sul tema e ha detto di incoraggiare nuove iniziative similari; l’attuale amministrazione ha, inoltre, affermato che è al vaglio un blocco definitivo delle trivellazioni nell’Artico entro il 2022. Nonostante ciò, il Presidente Eletto ha già reso note le sue idee a proposito, delineando di conseguenza le posizioni che la sua amministrazione prenderà su questo tema. Tutto questo potrebbe quindi rivelarsi inutile se il futuro inquilino di Pennsylvania Avenue, oltre che confermarsi un negazionista del cambiamento climatico, perseverasse su queste posizioni, confermando un trend preoccupante. Una delle sue prime nomine è stata infatti quella di Myron Ebell alla carica di direttore dell’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente (EPA). Ebell è uno scienziato negazionista che potrebbe

vuotare progressivamente di poteri l’Agenzia, rendendola de facto inutile. Un’altra criticità è l’Accordo di Parigi sul clima: Trump ha detto che nei primi 100 giorni del suo mandato ritirerà gli Stati Uniti dal trattato. Questa promessa però non è immediatamente realizzabile perché i termini dell’accordo stesso non permettono un ritiro prima del 2020, quando il mandato del futuro presidente sarà agli sgoccioli. Il Canada ha, invece, fatto sapere, per voce del ministro dell’Ambiente e del Cambiamento Climatico Catherine McKenna e del ministro per lo Sviluppo Internazionale Marie-Claude Bibeau, che il governo candese investirà 1,8 miliardi di dollari per consentire al settore privato di mobilitarsi per sostenere i Paesi in via di sviluppo nel programmare e sviluppare sistemi di produzione ed un’economia che sia più pulita, meno inquinante e durevole. Secondo McKenna, infatti, l’economia mondiale deve svoltare inesorabilmente verso un avvenire più ecologico e durevole. Nella sua linea, questa svolta fornirà l’occasione di aiutare certe popolazioni fra le più vulnerabili del mondo, permetterà loro di innovare e creerà sbocchi nel settore delle energie rinnovabili in tutto il pianeta.

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NORD AMERICA attentato a New York nel Giorno del Ringraziamento. La parata organizzata ogni anno dal Macy’s rappresenterebbe il target perfetto. 16 novembre. Con 11 voti favorevoli e 2 contrari, Washington D.C. ha legalizzato l’eutanasia. Si tratta della settima giurisdizione del Paese a garantire tale pratica.

CANADA 11 novembre. Anche in Canada scoppiano le proteste per l’elezione di Donald Trump: a Vancouver, di fronte al Trump Hotel, almeno 20 dimostranti hanno sfilato contro il Presidente Eletto degli USA. 14 novembre. Un aereo di linea Bombardier Q400 della Porter Airlines decollato da Ottawa, aveva appena cominciato la discesa su Toronto quando, a poco più di 2.000 metri, ha compiuto una manovra di emergenza per evitare la collisione con un velivolo non identificato. Secondo le autorità si tratterebbe di un drone. Due assistenti di volo sono rimasti feriti. A cura di Lorenzo Bazzano

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È BUFERA SULLE NOMINE

Si delinea, tra le polemiche, il team di Trump per la Casa Bianca

Di Silvia Perino Vaiga Dal 9 novembre il mondo si interroga sul destino dell’America nell’era di Trump: quale posizione assumeranno gli Stati Uniti in politica estera, come cambieranno le politiche ambientali, che fine farà l’Obamacare? Al di là di approssimazioni e speculazioni, però, una risposta realistica a questi quesiti la si avrà solo quando il Presidente Eletto avrà delineato la sua squadra, ponendo fine alla fase di incertezza che i Repubblicani stanno attraversando a riguardo. Ma andiamo con ordine. Il primo e più controverso personaggio al centro delle recenti polemiche è Steve Bannon, scelto da Trump come suo consigliere speciale e chief strategist. Bannon è noto al grande pubblico per essere stato Presidente esecutivo del sito di estrema destra Breitbart News, veicolo di informazione razzista, antisemita ed estremista. La sua nomina è stata accolta con sdegno e preoccupazione da esponenti politici e della società civile, allarmati soprattutto dal ruolo di spicco che Bannon potrebbe assumere nell’influenzare le politiche presidenziali. Ma le polemiche non si fermano qui. L’altro grande chiacchierato di questa fase è l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani, soprannominato “lo Sceriffo” per le sue politiche intransigenti contro criminali e spacciatori. Il suo nome sta emergendo

come favorito nella corsa alla poltrona di Segretario di Stato. Che Giuliani avrebbe ricevuto un considerevole riconoscimento da Trump era chiaro a tutti dopo il suo sostegno alla campagna presidenziale del tycoon, ma in molti credono che non sia la persona giusta per prendere il timone della politica estera degli Stati Uniti. Le ragioni vanno dalla sua sostanziale inesperienza in materia a un possibile conflitto d’interessi dato dalla sua società di consulenza, attiva a livello internazionale. Chi invece è stato meno fortunato è Chris Christie: inizialmente annunciato come capo del team di transizione, il Governatore del New Jersey ed ex rivale di Trump alle primarie è stato ora sostituito nel ruolo dal Vicepresidente Eletto Pence. Si vocifera che all’origine della decisione possa esserci nientemeno che Jared Kushner, il genero di Trump il cui padre fu condannato al carcere da Christie nel 2005. E proprio su Kushner, sulla moglie Ivanka e sugli altri figli di Trump si sta concentrando parte dell’attenzione mediatica per il ruolo che potrebbero assumere nel consigliare l’amministrazione del padre. Non mancano tuttavia le preoccupazioni sul conflitto che ciò causerebbe, dal momento che i rampolli saranno anche gli amministratori della compagnia di famiglia attraverso un blind trust, che si teme possa non essere poi tanto “blind”.


MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole

EGITTO 15 novembre. La Corte di Cassazione annulla la condanna a morte per il presidente deposto Mohammed Morsi e dispone per un nuovo processo. Oltre a rovesciare la sentenza dello scorso giugno 2015, la stessa Corte conferma la scarcerazione dei figli di Hosni Mubarak e ordina un nuovo processo anche per Mohamed Badie, guida suprema dei Fratelli Musulmani. GIORDANIA 15 novembre. I tassisti inscenano una protesta nella capitale per attirare l’attenzione sul forte calo dei profitti. Secondo i rappresentanti del settore, la competizione di app come Careem e Uber sarebbe responsabile di un calo dell’80% nei guadagni. Al centro della protesta c’è inoltre la richiesta di alzare le tariffe delle corse.

L’IRAN ATTENDE TRUMP

Il Presidente eletto statunitense avrebbe in cima alla lista una revisione dell’accordo sul nucleare

Di Lorenzo Gilardetti “Disastroso” è l’aggettivo con cui Trump, durante la campagna elettorale, ha definito l’accordo sul nucleare siglato dall’Iran il 14 luglio 2015 con i cosiddetti “5+1”, ovvero i Paesi con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza ONU (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, USA) e la Germania. Si attendono quindi le prime decisioni, poiché lo stesso Presidente Eletto ha ribadito che modificare l’accordo è la priorità numero uno. Dalla sua, l’Iran ha scelto di non aspettare passivamente, prodigandosi in dichiarazioni che lasciano intendere quantomeno una parziale cautela da parte di Teheran.

IRAQ 14 novembre. Un attacco suicida uccide almeno sei persone a sudovest di Baghdad. I responsabili dell’attacco, rivendicato da Daesh, avrebbero tentato di eludere la sicurezza ad un checkpoint spacciandosi per pellegrini, per poi azionare i giubbotti esplosivi al tentativo dei poliziotti di neutralizzarli.

Il presidente Rouhani, promotore e fervente sostenitore dell’accordo, tanto da averlo posto al centro del suo programma politico, ha ricordato che esso non è esclusivo tra Stati Uniti e Iran, ma è stato siglato “tra l’Iran e il mondo intero”. Il ministro degli Esteri Zarif ha invitato Trump a “rispettare gli accordi e capire la realtà del mondo di oggi”, rimarcando il pieno impegno iraniano.

ISRAELE/PALESTINA 13 novembre. Viene approvato un decreto legge per proibire l’uso di altoparlanti per la riproduzione dell’adhan, il richiamo alla preghiera islamica. Il de-

Meno moderate, invece, le dichiarazioni di Khamenei risalenti al giugno scorso. Egli aveva promesso un annullamento dell’intesa da parte dell’Iran in caso di “violazioni dell’altra par-

te”, quando il repubblicano era ancora in campagna elettorale e tali rischi sembravano lontani. Lo stesso Khamenei, da sempre contrario all’accordo, pronto a presentarsi in posizione di forza se si fosse profilata una ridefinizione interna alla politica iraniana, all’indomani dei risultati elettorali statunitensi ha fatto sapere, tramite il suo delegato Khatami, che ora l’Iran attende le scuse per essere stato definito un “popolo di terroristi”. Intanto, mentre Mark Toner, portavoce del Dipartimento di Stato statunitense, riferisce che l’accordo non è strettamente vincolante per gli USA in tutti i suoi punti (a partire dalle sanzioni), Arabia Saudita e Israele sono alla finestra: se Trump dovesse mantenere la parola data, questi si profilerebbero come due suoi alleati forti. È il caso soprattutto Netanyahu, che sta già sperando nei benefici dell’annunciata politica filo-israeliana. La credibilità di Trump passerà anche dal Medio Oriente. Dal prossimo 20 gennaio, giorno in cui il neopresidente sarà ufficialmente incaricato di guidare il Paese, si vedrà quale sarà il sostegno del Congresso nell’attuare le promesse di una campagna elettorale a effetto. Intanto, l’Iran attende.

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MEDIO ORIENTE creto, sebbene rivolto a “edifici di culto” in generale, risulta discriminatorio nei confronti delle moschee. I leader palestinesi minacciano di riferire la questione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. 16 novembre. La Knesset passa una proposta di legge per legalizzare migliaia di insediamenti su territorio privato palestinese nella West Bank. La decisione ha attirato il malcontento della sinistra e degli alleati statunitensi, che hanno definito la proposta “preoccupante”.

SIRIA 17 novembre. Nuove offensive delle forze governative colpiscono varie zone di Aleppo Est in mano ai ribelli per la prima volta dopo due settimane, uccidendo almeno 80 persone. Anche il Cremlino ha annunciato pochi giorni prima il lancio di un’operazione su larga scala contro l’opposizione. YEMEN 15 novembre. Il segretario di stato americano John Kerry annuncia un cessate il fuoco temporaneo tra la coalizione araba e i ribelli houthi, ma il ministro degli Esteri yemenita Abdel Malek al-Mekhlafi smentisce dichiarando che il governo non è interessato a una tregua o al dialogo coi ribelli e accusa il segretario Kerry di interferire. A cura di Clarissa Rossetti 8 • MSOI the Post

CHIAMATEMI DITTATORE

Retata al quotidiano Cumhuriyet. Arrestati capi dell’HDP. UE: “democrazia a \rischio”

Di Martina Scarnato Venerdì 11 novembre, Akın Atalay, editore del Cumhuriyet, è stato arrestato al suo arrivo all’aeroporto di Istanbul. La stessa sorte era già toccata, il 31 ottobre, al direttore Murat Sabuncu e ad altri 15 giornalisti. L’accusa è quella di aver preso parte ad “attività terroristiche”. In particolare, i giornalisti sarebbero colpevoli di appartenere o all’organizzazione Fetö, che avrebbe legami con l’imam Fetullah Gülen, ritenuto la mente del golpe dello scorso 15 luglio, o al PKK, il Partito dei Lavoratori curdo. Il Cumhuriyet è un giornale laico e indipendente fondato nel 1924, noto per essere stato fin dall’inizio apertamente ostile all’ascesa di Erdoğan. In passato è stato più volte oggetto di cause legali, poiché accusato di aver rivelato segreti di Stato riguardanti il trasporto di armi ai ribelli siriani. Secondo il Guardian, il governo potrebbe ora pensare di mettere alla direzione del giornale qualcuno di fidato, ponendo definitivamente fine alla sua indipendenza. Tuttavia, il caso del Cumhuriyet è solo l’ultimo di una lunga lista. Dal 15 luglio, infatti, sono state almeno 131 le organizzazioni giornalistiche (tra quotidiani, riviste e televisioni) e le case

editrici chiuse poiché considerate vicine a Gülen. Il 4 novembre, invece, i due co-presidenti del Partito Democratico dei Popoli (HDP), il secondo partito all’opposizione, sono stati arrestati, insieme ad altri 10 deputati, perché accusati di essere legati al PKK. In seguito, il partito aveva annunciato un boicottaggio parziale del Parlamento. L’Unione Europea ha espresso “profonda preoccupazione” e il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz ha dichiarato che l’accaduto è un “segnale spaventoso sulle condizioni del pluralismo politico in Turchia”. Secondo il presidente Erdoğan, l’Europa supporterebbe il PKK. “Vediamo come il PKK possa agire così liberamente in Europa. Non mi interessa se mi chiamano dittatore. […]. Ciò che conta è come mi chiama la mia gente”, avrebbe detto in un discorso riportato da Al-Jazeera. Un rapporto del 9 novembre riguardante la questione dell’ingresso della Turchia nell’Unione ha ribadito che le leggi turche sullo Stato di diritto e sul rispetto dei diritti fondamentali non sono compatibili con gli standard pretesi dall’Unione, soprattutto dopo che Ankara ha insinuato la possibilità di reintrodurre la pena capitale. Due giorni dopo è avvenuto l’arresto dell’editore del Cumhuriyet.


RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole BULGARIA 13 novembre. I filorussi vincono le elezioni in Bulgaria e Moldova, segnando un avvicinamento a Mosca. A Sofia le presidenziali hanno visto l’affermazione del socialista Rumen Radev, il quale ha espresso la volontà di favorire le relazioni con la Russia abolendo le sanzioni a Mosca. In Moldova la presidenza verrà probabilmente assunta da Igor Dodon, politico filo- russo contrapposto all’europeista Maia Sandu. MOLDOVA 14 novembre. Dodon vince il ballottaggio e diventa presidente della Moldova. Il leit motiv della sua campagna elettorale ha riguardato i rapporti con Mosca. Si evince una chiara presa di posizione dell’elettorato moldavo circa la futura politica estera del Paese, che gioca un ruolo importante negli equilibri geopolitici di UE e Russia. Infatti, la Moldova ha ratificato l’accordo di associazione con Bruxelles ma nel programma di Dodon è prevista la ripresa dei rapporti commerciali con la vicina Russia. RUSSIA 15 novembre. Il ministro dello sviluppo economico, Uljukajev, è stato arrestato con l’accusa di aver intascato una tangente da 2 milioni di dollari. Il denaro sarebbe stato ricevuto in cambio del “via libera” del governo alla privatizzazione della compagnia petrolifera Bashneft. Il fatto è senza precedenti: mai, in Russia, era stato arrestato un ministro in carica. Anche Putin ha preso posizione in merito alla vicenda rimuovendo Uljukajev dall’incarico. 16 novembre. La Russia non ratifica lo Statuto di Roma, trat-

L’EUROPA CHE GUARDA AI BALCANI Bruxelles si prepara ad aprire le trattative per l’adesione ad altri Paesi dell’area

Di Lorenzo Bardia La Commissione Europea ha approvato il 9 novembre il “pacchetto annuale sull’allargamento”, documento che valuta l’avanzamento dei Balcani occidentali e della Turchia nell’attuazione delle principali riforme politiche ed economiche, mettendo in luce le misure necessarie per il progredire dei negoziati. Una volta approvato, il pacchetto è stato presentato all’Europarlamento da Johannes Hahn, Commissario per la Politica di Vicinato e i Negoziati di Allargamento, che ha dichiarato: “La prospettiva dell’adesione all’UE continua a incoraggiare la trasformazione e a mantenere la stabilità nei Paesi dell’Europa sudorientale e un processo di allargamento credibile resta uno strumento insostituibile per rafforzare questi Paesi e aiutarli nelle riforme politiche ed economiche”. Secondo il Commissario, la situazione dei Balcani occidentali appare oggi decisamente incoraggiante. Al momento, lo Stato ad aver compiuto i più grandi passi in avanti è l’Albania. Hahn afferma che Tirana “ha continuato a fare rapidi progressi in tutte e cinque le priorità chiave per l’apertura dei negoziati”. L’implementazione della riforma della giustizia rimane un passaggio obbligato per l’ingresso nell’UE.

Il rapporto risulta positivo anche per la Bosnia Erzegovina, alla quale sono stati riconosciuti importanti progressi. Ora però il Paese deve affrontare “i problemi strutturali profondamente radicati che hanno frenato lo sviluppo” e “rafforzare lo Stato di diritto e la pubblica amministrazione a tutti i livelli di governo, così come migliorare ulteriormente il grado di cooperazione”. Note positive anche per Macedonia e Serbia, in particolare riguardo alla cooperazione messa in atto nel corso della crisi migratoria dello scorso anno. Nei confronti di Skopje, però, permangono forti dubbi sulla limpidezza del processo elettorale, mentre Belgrado deve normalizzare i rapporti con Pristina. Per il Montenegro è stato espresso particolare apprezzamento per le recenti elezioni parlamentari, svoltesi con trasparenza maggiore rispetto al passato, mentre sono stati manifestati dubbi sulla lotta al crimine e alla corruzione. Con la recente elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America aumentano però le incertezze: quali saranno le conseguenze per la stabilità dei Balcani? In attesa di risposte, da Bruxelles arriva la luce verde per aprire le trattative di allargamento con Belgrado, Sarajevo e Tirana, mentre permane l’incertezza per Podgorica e Skopje.

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RUSSIA E BALCANI tato internazionale che istituisce la Corte penale internazionale. A giudizio di Mosca il lavoro svolto dalla Corte non è stato soddisfacente, avendo emesso solo 4 sentenze e spendendo oltre novecento milioni di euro. A influenzare probabilmente la scelta è stata anche la posizione della Corte sull’annessione della Crimea, definita un conflitto militare.

SERBIA 13 novembre. La polizia respinge i migranti giunti a piedi a Belgrado. I profughi hanno provato a forzare il cordone di agenti serbi per avvicinarsi al confine croato, ma gli agenti li hanno costretti a indietreggiare con la forza, in modo da trattenerli in territorio serbo. SLOVACCHIA 15 novembre. Ivan Korcok, sottosegretario slovacco per gli Affari europei, annuncia il consenso della presidenza slovacca sul Bilancio della UE. Korcok ha sottolineato che, “pur rispettando la riserva espressa dall’Italia”, la proposta europea è da considerare valida in quanto prevede oltre 6 miliardi di euro in più da indirizzare alla migrazione e alla sicurezza. A cura di Ilaria Di Donato

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APERTURA DEI GIOCHI

Il “Grande Gioco”, lo scontro fra superpotenze, sta per vivere il suo déjà-vu nei Balcani.

Di Elisa Todesco Quando si pensa ai Balcani è scontato ricordare orrori come Srebrenica, divenuti ormai memoria collettiva non solo per le generazioni che hanno vissuto direttamente o attraverso la narrazione dei giornali quella guerra etnica combattuta “su suolo europeo”, ma anche per coloro i quali ne hanno letto sui libri di storia. La guerra dei Balcani è ormai radicata nelle nostre menti e viene annoverata fra quelle pagine della storia che appartengono al passato e non devono più ripetersi. Ma la guerra dei Balcani è una memoria diversa, fatta di recrudescenze e di odi mai sopiti. È una memoria che rischia concretamente di ripetersi e i fatti degli ultimi giorni potrebbero esacerbare un nuovo conflitto. Tutto è iniziato alcune settimane fa, quando vicino all’abitazione del premier serbo Vucic è stato ritrovato un arsenale che lasciava poco all’immaginazione: il leader del governo, filoeuropeista e favorevole all’ingresso nell’Unione Europea, era ed è a rischio attentato. La stessa sorte pare essere destinata a Milo Djukanovic, uomo a capo del Montenegro in qualità di premier o Presidente da quasi 25 anni, nuovamente eletto a ottobre, anch’egli filo-occidentale e vicino alla NATO.

Infatti, il giorno stesso delle elezioni (che hanno visto un tasso di partecipazione altissimo, oltre il 73%), i servizi segreti montenegrini, insieme alla polizia di Podgorica, hanno sventato un tentato rapimento di Djukanovic. Il rapimento era stato organizzato da un gruppo di nazionalisti filorussi serbi e montenegrini, probabilmente gli stessi che hanno fra i loro obiettivi l’eliminazione del serbo Vucic. I programmi di questi estremisti per il Montenegro erano relativamente semplici, ma devastanti: al rapimento del Premier avrebbero voluto far succedere degli attentati e avrebbero voluto aizzare scontri armati nelle città, in modo da scatenare il panico nell’intero Paese. Inizialmente ci sono state delle perplessità, poiché si pensava che il rapimento fosse una tattica di Djukanovic stesso per istigare i sentimenti anti-Serbia, già forti sul suolo montenegrino, in modo da guadagnare più voti alle urne. La collaborazione che ha visto impegnate Belgrado e Podgorica ha però confermato l’urgenza e la realtà del pericolo. Sono stati per ora arrestati alcuni estremisti panserbi e filorussi, alla cui testa ci sarebbe il serbo Bratislav Dikic, ex ufficiale e coinvolto in numerose attività criminali. Il “Grande Gioco” dei Balcani potrebbe riaprirsi e questa volta anche noi ne saremmo testimoni.


ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole

TERREMOTO DIPLOMATICO IN GIAPPONE Abe incontra Trump.

Di Alessandro Fornaroli COREA DEL SUD 12 novembre. Circa un milione di persone è sceso in strada a Seul per protestare contro la condotta della presidente Park Geun-hye. Motivo della contestazione il suo rapporto con Choi Soon-sil, consigliera della Presidente e principale responsabile dell’elevato grado di corruzione delle grandi corporazioni del Paese. La donna, nonostante la pesante influenza su Park, non ricopre alcuna carica governativa, e si trova attualmente in arresto per abuso di potere. Il popolo ha reagito accusando la Presidente di altro tradimento; in caso di rinuncia al mandato da parte di Park, sarebbe il primo caso nella storia della Corea del Sud. F I L I P P I N E 16 novembre. Il presidente Duterte, all’indomani delle elezioni presidenziali statunitensi, si è dichiarato ottimista nei riguardi dei futuri rapporti fra le due nazioni: “Sono sicuro che non abbiamo conflitti. Posso far amicizia con chiunque”, ha dichiarato durante una conferenza stampa. Il Presidente si mostra aperto al dialogo anche nei confronti della Russia: sua la richiesta di un incontro con Putin durante il prossimo vertice dell’Asia-Pacif Economic Cooperation in Perù. G I A P P O N E 14 novembre. Il premier giappo-

Nel continente asiatico il risultato delle elezioni americane ha generato molti interrogativi. Un primo timore comune è quello dell’adozione da parte del tycoon di una politica isolazionistica e protezionistica. Tale manovra potrebbe portare Paesi diplomaticamente instabili, come le Filippine, a rientrare nell’orbita diplomatica della Cina, percepita con ostilità dalla potenza americana.

ader asiatici. Il Presidente repubblicano aveva infatti affermato che agli alleati degli Stati Uniti sarebbero stati richiesti contributi economici più consistenti, a fronte di un rinnovato sostegno da parte delle forze armate americane.

Benché si sia stabilito che di attendere il passaggio di consegne tra Obama e Trump prima di intraprendere discussioni internazionali più approfondite, il leader nipponico è stato il primo a conoscere l’agenda politica americana. Come preannunciato La politica adottata dagli Stati Uni- da Abe, lo scopo del meeting è stato ti dei confronti di Pechino, infatti, quello di “porre le basi per la fiducia potrebbe ora cambiare significativa- reciproca”. mente. Trump ha recentemente accusato il Governo cinese di aver rag- Giappone e Stati Uniti, nelle parole di giunto un vantaggio commerciale Takashi Tawakami, docente universiillegittimo manipolando lo yuan. Vi tario a Tokyo e analista politico, “si è inoltre la possibilità che l’America trovano sulla medesima linea d’onritiri le sue truppe dal Mar cinese me- da: i leader delle due Nazioni sono ridionale, concretizzando il pericolo pragmatici e aperti al dialogo”. Inoldi attriti tra gli altri Stati per il con- tre, entrambi i Governi hanno esprestrollo delle acque. so l’intenzione di rafforzare i rapporti con la Russia in un’ottica anticinese. Con l’obiettivo di scongiurare tensioni tra le due Nazioni, il ministro degli Il Primo Ministro giapponese preveEsteri giapponese Fumio Kishida ha de infatti un avvicinamento con la sottolineato il grande valore dell’al- Russia da un punto di vista soprattutleanza con gli Stati Uniti e giovedì 17 to economico. Putin incontrerà Abe il novembre il Premier Shinzo Abe ha prossimo 15 dicembre e questi spera incontrato il Presidente Eletto. che la sigla di ampi accordi commerciali possa portare a una risoluIl meeting, che ha avuto luogo nella zione del contenzioso territoriale su Trump Tower di Manhattan, ha visto quattro isole che ha sinora impedito porre in esame alcune dichiarazioni di fatto ai due Paesi di firmare un pronunciate in campagna elettorale trattato di pace. che avevano allarmato Abe e altri le-

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ORIENTE nese Shinzo Abe ha stipulato un patto di collaborazione per il nucleare con il primo ministro indiano Narendra Modi, in visita a Tokyo. Per la prima volta l’isola è firmataria di un accordo con un Paese che non fa parte del trattato di non-proliferazione; secondo Abe, non si tratta di una contraddizione ma di un modo indirizzare l’India “verso l’uso pacifico dell’energia nucleare”. I N D O N E S I A 16 novembre. Il governatore cristiano di Jakarta Basuki Tjahaia Purnama è accusato di blasfemia dalla comunità musulmana per aver menzionato, in un suo discorso, un frammento del Corano. La denuncia è scattata in seguito alle accorate proteste popolari che negli ultimi giorni hanno infiammato la capitale.

T A I W A N 15 novembre. Il progetto di legge volto a legalizzare il matrimonio omosessuale ha fatto scendere in piazza migliaia di manifestanti, facenti parte di gruppi civili e religiosi, in opposizione al decreto. Se approvato, il Paese diventerebbe la prima nazione asiatica a prevedere legalmente le unioni tra persone dello stesso sesso. Photo credit: Taesoo Kim A cura di Carolina Quaranta

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INNOVAZIONI STRATEGICHE DELLO JIHADISMO PAKISTANO Il Pakistan tra terrorismo interazionale e gruppi locali affiliati a Daesh

Di Giulia Tempo Sabato 12 novembre ha avuto luogo un attacco suicida nel tempio di Shah Noorani, a nord di Karachi. Quando il kamikaze si è fatto esplodere, all’interno dell’edificio si trovavano svariate centinaia di persone, riunite per la funzione serale. Nelle ore successive all’esplosione il conteggio delle vittime è salito a 52, mentre quello dei feriti a 105, tra cui numerose donne e alcuni bambini. Nonostante il ministro Sarfaraz Bugti e le autorità locali abbiano ripetutamente negato la presenza in Pakistan di Daesh, a rivendicare l’attacco è stata Amaq, l’agenzia di stampa in lingua araba del gruppo terroristico Stato Islamico. La rivendicazione ha subito un tentativo di smentita da parte di Bugti, il quale l’ha definita falsa, sottolineando che “non vi sono prove rilevanti della presenza dello Stato Islamico sul territorio”. Interrogato in proposito, l’analista politico ed esperto di sicurezza internazionale Zahid Hussain ha affermato che, sebbene non vi siano in Pakistan strutture istituzionalizzate afferenti a Daesh, vi è tuttavia un forte supporto da parte di organizzazioni terroristiche locali, tra cui il Lashar-e-Jhangvi Al Alami (LeJ Al Alami). Il legame tra questo gruppo e il sedicente Stato Islamico è emerso con chiarezza in seguito alla riven-

dicazione congiunta dell’attentato che ha avuto luogo il 24 ottobre. L’esplosione del 12 novembre è, infatti, il secondo attacco suicida nel giro di poche settimane: lunedì 24 ottobre a Quetta, nel Pakistan settentrionale, tre uomini armati si sono introdotti nell’accademia di polizia del Baluchistan. Gli attentatori hanno ucciso le due guardie all’ingresso e si sono diretti verso le camerate. Stando alle dichiarazioni dei superstiti, uno degli uomini si è fatto esplodere al grido di “Allah è grande”, mentre gli altri due seguitavano a sparare. La rivendicazione congiunta dell’attentato di Quetta da parte di LeJ Al Alami e Daesh ha indotto Bugti a ipotizzare un complotto internazionale, mirante a isolare il Pakistan e a offuscarne la reputazione. Il Ministro ritiene che dietro le operazioni del LeJ Al Alami si possa celare in realtà il governo indiano. L’analista Hussain ha, invece, sottolineato come le crescenti connessioni tra le organizzazioni terroristiche internazionali e i gruppi locali non siano frutto di oscure trame politiche, ma trovino giustificazione nelle nuove tattiche messe in atto dai militanti jihadisti. Secondo le dichiarazioni di Hussain, infatti, Daesh starebbe cercando di far fronte alle perdite territoriali e alle sconfitte subite affidandsi a organizzazioni subnazionali.


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole BURUNDI 11 novembre. Il Governo ha annunciato l’elaborazione di un censimento per definire l’appartenenza etnica dei dipendenti pubblici. Secondo il Senato, il censimento avrebbe come unico obiettivo quello di controllare il rispetto della “parità etnica” prevista dalla Costituzione. Nonostante tali dichiarazioni, i sindacati hanno già denunciato l’opacità della proposta. Tuttavia, a causa della nuova instabilità del Paese è improbabile che la popolazione sarà in grado di reagire in maniera organizzata per fermare il progetto, come invece era già accaduto in passato.

KENYA 16 novembre. Il Governo Keniano, che aveva annunciato la chiusura del campo profughi di Dadaab ha dichiarato che il progetto non sarà più possibile. La ragione di tale decisione sarebbe la presenza all’interno del campo di gruppi affiliati all’organizzazione terroristica somala al Shabaad. Il campo accoglie per la maggior parte somali in fuga dal loro Paese, che non riesce a fornire sevizi e infrastrutture di base. MAROCCO 16 novembre. Una quarantina di Capi di Stato africani si sono trovati a Marrakech per discutere sulle nuove possibilità di sviluppo del Continente. Il re

LA REAZIONE AFRICANA ALLA VITTORIA DI TRUMP

In che misura l’Africa rientra nei piani del nuovo Presidente americano?

Di Sabrina Di Dio A pochi giorni dall’elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, l’intera comunità internazionale ha espresso un parere a riguardo. Ma che cosa pensano di The Donald in Africa? Nel complesso, gli africani più benestanti sono favorevoli alla vittoria di Trump. Siccome il neopresidente non ha mai reso note grandi rivendicazioni riguardo all’Africa, essi sperano che gli USA diminuiranno le pressioni economico-militari esercitate sul continente. In questo caso, Trump rappresenterebbe un elemento di continuità con la politica estera di Obama, che stava attuando un graduale ridimensionamento dell’interventismo americano nel mondo. I rappresentanti africani del ceto medio-basso, invece, sono preoccupati per l’approvazione che il neopresidente ha riscosso presso il Ku Klux Klan. L’organizzazione razzista avrebbe addirittura preparato una parata, che si dovrebbe tenere il 3 dicembre in North Carolina, per festeggiare la vittoria dell’imprenditore newyorkese. Ulteriori

preoccupazioni

sor-

gono in riferimento agli ingenti aiuti umanitari provenienti dagli Stati Uniti, i quali si teme possano venir meno, considerato l’isolazionismo professato da Trump con il suo slogan “America first” e il suo moderato interesse per il continente africano. In realtà, il Presidente non esclude a prescindere un intervento all’estero, ma esso sarà indirizzato alle regioni strategiche per gli Stati Uniti e, inoltre, gli sforzi statunitensi dovranno essere ripagati. Potrebbe quindi esserci indifferenza verso i crimini più spietati che hanno luogo fuori dalla frontiera americana, a meno che essi non intacchino l’interesse nazionale. Questo è il motivo per cui molti dei leader africani più cruenti, sanzionati a varie riprese dalla presidenza Obama, sono entusiasti della vittoria di Donald Trump. Tra loro ci sono Uhuru Kenyatta, Presidente del Kenya, condannato dalla CPI (Corte Penale Internazionale) per crimini contro l’umanità, il presidente del Burundi Pierre Nkurunziza, accusato di aver modificato la Costituzione appositamente per ottenere un terzo mandato, e il capo del governo del Congo Joseph Kabila, altrettanto criticato perché cerca di mantenere il potere attraverso la violenza.

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AFRICA del Marocco, Mohammed VI, intende sfruttare questo summit per riallacciare i rapporti con i Paesi dell’Est Africa e rinforzare l’Unione Africana, sempre più frammentata.

SOMALIA 15 novembre. Hassan Mohamud, presidente della Somalia ha chiesto un ulteriore aiuto alla Comunità Internazionale per affrontare la difficile situazione del Paese, caratterizzata da siccità e carestia. Secondo l’ultimo annuncio di Mohamud, nelle zone più colpite dalla scarsità d’acqua sarebbero già morti animali e persone. Solo il mese scorso, l’UE ha stanziato 66,5 milioni di euro per rispondere alle emergenze causate da El Niño, fenomeno metereologico che ha aggravato ulteriormente la siccità di alcune regioni. SUDAFRICA 10 novembre. Per la sesta volta dal 2009, il Parlamento sudafricano (dominato dal partito del Presidente, l’African National Congress) ha respinto la mozione di sfiducia contro il Capo di Stato Zuma. La mozione era stata presentata dalla Democratic Alliance (DA), il principale partito d’opposizione. Sul Presidente gravano numerose accuse di corruzione, traffico d’armi e di aver utilizzato soldi pubblici per agevolare gli affari privati della potente famiglia d’imprenditori Gupta. A cura di Jessica Prieto

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GLI STATI UNITI D’AFRICA, TRA UTOPIA E REALTÀ

Si arriverà mai a una vera unione federale tra i Paesi africani?

Di Fabbio Tumminello È passato quasi un secolo da quando, per la prima volta, un progetto di federalismo africano fece la sua comparsa nel dibattito politico del continente. Fu Mu’ammar Gheddafi l’ultimo a farsi portavoce di quella che ora sembra a tutti gli effetti un’utopia. Egli, in occasione della sua elezione a Presidente dell’Unione Africana, dichiarò: “Continuerò a insistere affinché i nostri Stati sovrani raggiungano l’obiettivo degli Stati Uniti d’Africa [...] Una singola forza armata africana, una moneta unica e un passaporto per consentire agli africani di muoversi liberamente per tutto il continente”. Ma il sogno dell’ex-leader libico è ancora possibile? Ad oggi, anche a causa dei numerosi conflitti interni, della crisi economica cronica e delle tendenze autoritarie di molti governi, l’idea di una federazione di Stati africani sul modello di quella statunitense sembra essere un progetto ormai accantonato. La mancanza di una classe politica preparata e ideologicamente forte è un altro problema che rende praticamente irrealizzabile questo disegno. Esiste l’Unione Africana, or-

ganizzazione internazionale che riunisce gran parte dei Paesi del continente, ma essa è una comunità ancora giovane t (ufficialmen e, nata nel 2001) e che fatica a imporre la propria volontà a causa di una diffusa sfiducia dei popoli africani e dei loro governi. In diverse occasioni della storia recente (crisi in Sudan, guerre civili in Etiopia e Somalia), l’Unione Africana è stata peraltro incapace di reagire con forza e compattezza, dimostrando di essere niente più che un accordo formale di cooperazione. La sua stessa struttura legale è permissiva nei confronti di quei governi autoritari che dovrebbe combattere: le sanzioni previste sono spesso troppo blande per produrre qualunque tipo di effetto e manca ancora una visione omogenea e definita dei diritti umani e delle conseguenze del loro mancato rispetto da parte dei membri dell’Unione. In questo contesto, pensare a un’unione di tipo federale sembra pressoché impossibile. Anche se il progetto può contare sul supporto di alcuni capi di Stato, la freddezza di certi governi (primi fra tutti quello sudafricano e quelli dei Paesi del Maghreb) rappresenta un ostacolo che, almeno sul breve periodo, mette un freno alle aspirazioni dei federalisti africani.


SUD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole ARGENTINA 16 novembre. I rappresentanti diplomatici di Argentina e Svizzera hanno firmato a Buenos Aires una dichiarazione relativa allo scambio automatico di informazioni fiscali. L’obiettivo di entrambi gli Stati è raccogliere dati secondo gli standard internazionali a partire dal 2018 e scambiarli dal 2019, sottolinea la SFI.

BRASILE 16 novembre. Secondo gli ultimi dati stilati dall’Istituto di Pubblica Sicurezza brasiliano ogni 9 minuti un brasiliano viene ucciso. I numeri sottolineano sia la deriva della società brasiliana sia uno Stato privo di un sistema efficiente di sicurezza pubblica. 16 novembre. Il presidente brasiliano Michel Temer ha inviato delle truppe nella città di Rio de Janeiro per placare i violenti scontri tra manifestanti, contrari alle misure imposte dal FMI e la polizia. Il governatore Fenando Pezao ha poi affermato l’inevitabilità di misure austere per salvare Rio de Janeiro e il Brasile. Secondo il comitato esecutivo del FMI, che ha incoraggiato il governo brasiliano a continuare le riforme, il Brasile sta uscendo dalla dura recessione iniziata nel 2015. COLOMBIA

LIMA, LA METROPOLI A SECCO La scarsità d’acqua potabile una delle principali cause di morte nel Paese.

Di Stefano Bozzalla Cassione Il Perù, pur trovandosi vicino all’equatore, non ha un clima tropicale. La corrente di Humboldt e la catena montuosa delle Ande contribuiscono alla peculiarità climatica del Paese. Qui, su un totale di circa 31 milioni di abitanti, il 31% vive nella capitale, Lima. Lima è situata in un territorio desertico, dove l’acqua non è sufficiente a soddisfare la richiesta della città. Le varie fonti fluviali che la riforniscono in modo naturale sono troppo contaminate (il fiume Rimac è considerato uno dei fiumi più inquinati di tutto il Sudamerica) e la scarsità del servizio idrico non ne permette né una depurazione ottimale né una distribuzione capillare. Se a ciò aggiungiamo sprechi, cattiva amministrazione e strutture idriche in pessime condizioni diventa facile constatare come l’acqua sia un bene che in pochi possono permettersi, un lusso. Nei dintorni della metropoli spesso la fornitura non arriva e i costi per acquistare le cisterne d’acqua dai distributori privati (quando ci sono) sono troppo elevati. Il climax è stato raggiunto a causa dei cambiamenti climatici, che hanno trasformato ancora il clima del Perù, diminuendo drasticamente le precipita-

zioni e portando la situazione dell’acqua potabile a un livello di allarme mai visto prima. E il governo? Esso si è impegnato a implementare il sistema di gestione e distribuzione dell’acqua e ha sviluppato un irrealizzabile programma per trasferire famiglie che vivono in zone disagiate in aree controllate e rifornite. Ha poi proposto la costruzione di tre dighe di medie dimensioni per poter immagazzinare l’acqua nei periodi di maggiori precipitazioni e ha predisposto un nuovo piano regolatore per controllare e limitare gli abusi edilizi. Chi, però, ha dimostrato tutto il suo impegno con una soluzione concreta è stato Abel Cruz Gutiérrez. Ingegnere peruviano, egli ha individuato un sistema semplice, funzionale e apprezzato per raccogliere l’acqua dalla nebbia, molto presente in varie zone del Paese. Oggi gli atrapanieblas (ovvero gli “acchiappanebbia”, enormi reti di polipropilene) sono utilizzati in molte aree del Perù e il progetto riceve aiuti economici anche internazionali. Gutiérrez, con la sua associazione Peruanos sin agua, promuove questo sistema anche in altre regioni del mondo, che permette a molti cittadini di risparmiare denaro e avere acqua potabile ogni giorno. MSOI the Post • 15


SUD AMERICA 13 novembre. Dopo il fallimento del referendum (considerato dagli elettori eccessivamente favorevole ai ribelli) è stato firmato un accordo di pace tra il legittimo governo colombiano e le FARC. “Facciamo appello alla Colombia e alla comunità internazionale affinché sostengano questo nuovo accordo e la sua rapida attuazione in modo da lasciarci alle spalle la tragedia della guerra” hanno affermato entrambe le parti in una dichiarazione congiunta ECUADOR 11 novembre. L’Unione Europea ha firmato il protocollo di adesione dell’Ecuador all’Accordo di libero scambio tra l’UE, Colombia e il Perù. L’accordo, che dovrebbe entrare in vigore nel gennaio 2017, prevede l’eliminazione delle elevate tariffe doganali e la soppressione di alcuni ostacoli tecnici al commercio. Tra le misure previste vi è la liberalizzazione del mercato dei servizi e l’apertura del mercato degli appalti pubblici. L’Accordo comprende anche impegni specifici riguardanti lavoro, ambiente e procedure di risoluzione delle controversie. MESSICO 16 novembre. La cancelleria messicana ha dichiarato che pianificherà un pacchetto di precauzioni per prevenire abusi contro i suoi cittadini resiedenti negli USA. Il Ministero degli Esteri ha, inoltre, reso nota l’introduzione di consolati mobili e la volontà di emanare norme idonee ad assicurare una maggiore facilità di ottenere documenti d’identità.

IL MESSICO E QUELL’ELEZIONE DI TRUMP CHE PREOCCUPA

Che futuro si prospetta per il Messico con Donald Trump alla Casa Bianca?

Di Viola Serena Stefanello Nel giugno del 2015 i cittadini statunitensi di origine messicana costituivano l’11,1% della popolazione totale del Paese. Gli Stati Uniti, d’altronde, ospitano la più grande comunità di messicani al mondo, secondi soltanto al Messico stesso. Con una pressione migratoria che non accenna a diminuire e lo stereotipo degli immigrati che rubano il lavoro e portano delinquenza ed instabilità sociale, i messicani sono stati al centro del dibattito pubblico americano durante l’ultimo anno. A guidare la campagna più discriminatoria nei confronti dei latinos in generale, e dei messicani in particolare, è stato proprio il neoeletto 45° Presidente USA, che li ha chiamati stupratori, killer, criminali e ha accusato il governo messicano di essere furbo nel mandare i propri cittadini peggiori negli Stati Uniti per non doversi occupare di loro. Ma, soprattutto, egli ha più volte dichiarato di voler finire di costruire il muro sul confine tra i due Paesi, che attualmente non arriva a 1.000 km sugli oltre 3.000 per cui dovrebbe dipanarsi.

le spese: il peso (la moneta locale) ha subito il peggior crollo degli ultimi 22 anni, in conseguenza al fatto che Trump intenderebbe abrogare l’attuale trattato di libero scambio che intercorre tra i due Paesi e che, secondo The Donald, sarebbe ingiustamente sbilanciato a favore dei messicani. Nel frattempo, comunque, il governo messicano sta cercando di diversificare il mercato di esportazione, in modo da rendersi più indipendente dal consumo statunitense. Intanto, Donald Trump ha recentemente minacciato di cominciare con la deportazione di 2 o 3 milioni di clandestini con precedenti criminali. In passato, tra l’altro, aveva anche affermato che sarebbe il Messico a pagare per il completamento del muro. Secondo il tycoon, infatti, basterebbe bloccare il flusso di dollari inviati dai lavoratori messicani negli USA alla famiglia rimasta in Messico.

Il presidente messicano Enrique Peña Nieto ha però escluso categoricamente questa possibilità, pur essendosi congratulato con Trump una volta appurati i risultati delle presidenziali. “Messico e Stati Uniti sono PaA cura di Sara Ponza Come ha reagito il Messico alla noti- esi confinanti e amici che devono zia dell’elezione di Trump alla Casa continuare a lavorare insieme per la competitività e lo sviluppo del Nord Bianca? L’economia è stata la prima a farne America”, ha detto.

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ECONOMIA EFFETTO TRUMP

WikiNomics

Opportunità o minaccia?

LA DECRESCITA FELICE Un modello alternativo di sviluppo

Di Efrem Moiso

Di Ivana Pesic La critica al capitalismo. “L’attuale modello di sviluppo economico è sulla via del fallimento”, parola dell’economista e filosofo francese Serge Latouche, principale sostenitore del modello per la Decrescita Felice. Il no posto al capitalismo è giustificato non da elementi ideologici, ma da evidenze logiche. Tale modello, infatti, si basa sul concetto che la ricchezza produce ricchezza all’infinto, ma la crescita illimitata è un’utopia in un contesto di risorse scarse. Il concetto. La decrescita felice consiste in “una riduzione di produzione e consumo che incrementa il benessere umano e migliora le condizioni ecologiche e di equità sociale sul pianeta”. Essa prevede un taglio selettivo del PIL, in modo da non intaccare anche quelle voci che sono indispensabili al mantenimento di un buon tenore di vita quali istruzione e sanità. Centrali sono il concetto di riduzione degli sprechi e di comunità autonome: escluse le merci che realmente non sono producibili in loco, nulla va importato. Assume, dunque, un’importanza

È passata una settimana da quando Donald J. Trump è stato eletto 45° Presidente degli Stati Uniti e i mercati finanziari hanno reagito allo stesso modo in cui reagiscono quando non sanno da che parte girarsi. Gli interventi di correzione sono stati molti e ben visibili. Un esempio: il TPX ha segnato -4,57% il 9 novembre, per chiudere a +5,78% il giorno successivo. I dati di Bank of America mostrano che la scorsa settimana l’Indice di Capitalizzazione del Mercato Globale dei bond ha perso un valore superiore a mille miliardi di dollari per la seconda volta negli ultimi due decenni, dopo la c.d. “Taper Tantrum” del 2013, e nel medesimo tempo il valore globale delle azioni in circolazione ha guadagnato 1.3 triliardi di dollari. Così come negli USA, in Europa i Titoli emessi dal Tesoro sono stati svenduti. Il rendimento dei Titoli italiani a 10 anni ha, infatti, superato il 2% (prezzo e rendimento sono inversamente proporzionali) per la prima volta da settembre 2015, mentre i Bund tedeschi hanno raggiunto il rendimento più alto da febbraio. Internamente, l’espansione fiscale e la politica inflazionistica sostenute da Trump dovrebbero facilitare il tanto atteso intervento di dicembre

della Fed, di cui si era parlato in passato, ma a livello internazionale l’incertezza sta portando l’economia statunitense ad un face-to-face con le altre, in particolare con quella cinese. Alcuni ritengono che Trump potrebbe davvero istituire regole protezioniste, mentre altri sono dell’idea che egli sarà orientato verso politiche più realistiche e orientate al business. Nel primo caso, l’interesse degli investitori si sposterebbe verso mercati non statunitensi e il Renminbi verrebbe spinto verso una maggiore circolazione a livello internazionale. Questo è tra gli obiettivi principali della People’s Bank of China, che però vede il Dollaro apprezzarsi nei confronti della valuta cinese e rischia di non rivivere scambi commerciali del valore dell’anno scorso (627 miliardi di dollari) per un po’. Tuttavia, uno dei Paesi che rischia di più con Trump al governo, senza nulla voler togliere agli altri, è senz’altro il Messico: la minaccia della costruzione dell’irrealizzabile muro ha chiarito che, per rimanere in tema di valute, tra Dollaro e Peso non scorrerà buon sangue. Dal momento dell’elezione, infatti, il Peso si è deprezzato di circa il 14% e ha recuperato 50 punti base solo dopo le dichiarazioni che la new administration dovrebbe essere meno protezionista di quanto presunto. MSOI the Post • 17


ECONOMIA essenziale la questione delle rinnovabili, in grado di rendere autonomo anche un Paese privo di giacimenti. Un esempio pratico. I principali indicatori macroeconomici sarebbero, in quest’ottica, pressoché insensati: per esempio, ai fini del PIL, indicatore che intende come ricchezza anche il consumo di energie, un’abitazione male isolata, che necessita quindi di più energia per essere mantenuta calda, sarebbe più funzionale di un’altra meglio costruita. Tuttavia, l’edificio non efficiente dal punto di vista energetico ha un costo ambientale che, a livello aggregato, non è più sostenibile dal nostro pianeta. Le esperienze inglesi ed italiane. A livello pratico e locale, si possono già enumerare alcuni esempi di applicazione di tale pensiero. Un caso è quello delle “Città della transizione”, sviluppatesi nel Regno Unito e delle quali la principale è Totnes. In questa piccola cittadina è presente un sempre maggior numero di cittadini che si propongono di vivere in funzione dell’avvento della fine dell’età del petrolio e di tutto ciò che ne consegue, a partire dalla reperibilità di prodotti a basso costo derivati dagli idrocarburi. In Italia, l’iniziativa delle “Città Slow” ha preso piede, sulla scia del pensiero Slow Food, in particolare ad Abbiategrasso (MI) dove la giunta comunale, per sostenere i piccoli commercianti e ridurre l’impatto ambientale dovuto al trasporto dei prodotti freschi, ha deciso di vietare la presenza di ipermercati.

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LO SCANDALO MPS - PARTE II I Fresh Bond: dov’era Bankitalia?

Di Edoardo Pignocco Si parlava del finanziamento particolare di MPS per l’acquisizione della Banca Antonveneta. Ricordiamo che la banca senese raggiunse l’accordo con Santander per 9 miliardi di euro: soldi che, ovviamente, Monte dei Paschi non aveva. Di conseguenza, fu costretta ad indebitarsi per ulteriori 7.5 miliardi. Ma con chi si indebitò? Insieme ad un consorzio di collocamento, capeggiato da JP Morgan, MPS emise i famosi Fresh Bond. Come vedremo, qualcuno potrebbe definirli “uno strumento del diavolo”. Fresh Bond sta per Floating Rate Equity-linked Subordinated Hybrid preferred securities. Letteralmente, titolo ibrido privilegiato subordinato a tasso variabile collegato al capitale.

d’Italia, Mario Draghi, avesse bocciato la Banca Antonveneta, nessuno dei controllori istituzionali si prese la briga di chiedere né il perché dell’operazione, né della modalità di finanziamento. Fino al crollo Lehman. Bankitalia, volendo rafforzare il capitale vigilato delle banche, impose a MPS di modificare il regolamento del Fresh Bond. Se MPS voleva far rientrare nel patrimonio vigilato il bond, per superare i vari stress test avrebbe dovuto distribuire le cedole solo nel caso in cui gli utili registrati fossero stati distribuiti agli azionisti. Niente di più semplice per Mussari. Per ovviare a questa imposizione, al Presidente di MPS bastarono due mosse: falsificazione dell’enorme perdita del 2011 in un utile d’esercizio pari a circa 188 mila euro e distribuzione dell’esiguo utile per un centesimo ad azione. In tal modo ottenne il finanziamento voluto, superò gli stress test e non spese praticamente niente.

Cerchiamo di chiarire meglio il significato e di contestualizzarlo. Il Fresh Bond è un’obbligazione strutturata le cui caratteristiche principali sono le seguenti: 1) facoltà di conversione in azioni orinarie MPS; 2) subordinazione, per cui il rimborso del capitale e degli interessi è postergato rispetto alle obbligazioni senior; 3) stacco cedolare previsto solo in caso di utile d’esercizio, ossia prima del crack Lehman.

Da tutto questo discendono alcune domande: come hanno potuto le massime Autorità di Vigilanza rimanere impassibili? Bisogna aspettare sempre che il peggio accada prima di agire? È possibile che non si riesca mai ad apprendere nulla dalla storia?

Definite le peculiarità del bond, possiamo ora comprendere meglio l’accaduto. Nonostante l’allora presidente di Banca

Fra l’altro, tutti questi soldi, tutti questi stratagemmi finanziari per acquisire Banca Antonveneta...


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