MSOI thePost Numero 69

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Samantha Scarpa Redattori Federica Allasia, Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Giulia Capriotti, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso,Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Sabrina Di Dio,Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Kevin Ferri, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Efrem Moiso, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso,Daniele Ruffino , Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Viola Serena Stefanello, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Martina Unali, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zuniga Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA ELEZIONI UK: I VINCITORI E I VINTI Theresa May non raggiunge la maggioranza

Di Elena Amici Lo scorso giovedì si sono tenute elezioni politiche nel Regno Unito, la seconda volta in poco più di due anni. Si è votato per scegliere i 650 membri della Camera dei Comuni, uno in ogni circoscrizione: l’ordinamento elettorale britannico, come in Italia, non prevede l’elezione diretta del Premier ma solo quella dell’organo legislativo. I mandati durano 5 anni ed è possibile che diversi governi si succedano nell’arco della stessa legislatura, come nel caso dello scorso giugno quando a Cameron è succeduta Theresa May. Quelle della scorsa settimana erano quindi elezioni anticipate, convocate dalla May con l’obbiettivo di consolidare la maggioranza e guidare un Governo libero dall’eredità di Cameron. Partiti con un vantaggio di oltre 20 punti nei sondaggi, i Tories hanno subito una continua emorragia di consensi nel corso della campagna, finendo la corsa con un totale 317 seggi – 8 in meno dei 326 necessari a ottenere la maggioranza, e 13 in meno della scorsa legislatura. Un risultato che è stato definito dal settimanale The Economist “uno dei crolli più drammatici nella storia della politica bri-

tannica”. May si trova ora al centro di una tempesta d’accuse, criticata per aver condotto una campagna disorganizzata, preferendo fedelissimi agli strateghi di partito, e di essersi concentrata troppo sulla “minaccia” di Bruxelles senza prestare attenzione ai veri problemi della nazione, proponendo una riforma del welfare così controversa da dover essere modificata immediatamente dopo la pubblicazione del manifesto elettorale. Il vero vincitore della campagna sarebbe quindi il Partito Laburista: il SDLP si è aggiudicato 30 seggi in più rispetto alle scorse elezioni, riuscendo inoltre a ridurre di gran lunga il divario in circoscrizioni tradizionalmente conservatrici e arrivando a conquistare il 40% delle preferenze nazionali (contro il 42,4% dei Tory) come non succedeva dall’era Blair. Jeremy Corbyn, leader controverso, dato per finito dalla stampa, è riuscito a rivitalizzare il suo partito concentrandosi su politiche sociali e rivolgendosi ai giovani, che si sono recati alle urne in massa. Il partito ha però deluso in Scozia, tradizionalmente di sinistra, aggiudicandosi solo 6 dei 21 seggi persi dall’indebolito

SNP, mentre altri 12 sono andati ai conservatori scozzesi guidati da Ruth Davidson, l’unico vero successo dei Tories; e 3 ai LibDem, che ottengono 12 seggi in totale contro i 9 del 2015. Il controverso UKIP, che tanto ha pesato nella campagna referendaria del 2016, ha perso il suo unico seggio. In Irlanda del Nord sia i repubblicani di Sinn Féin sia gli unionisti del DUP hanno vinto nuove circoscrizioni – ed è proprio a quest’ultimi che si è rivolta Theresa May per cercare di salvaguardare il proprio governo. Il DUP, di Arlene Foster, è un partito conservatore di stampo cristiano con posizioni largamente simili a quelle dei Tory se non per una differenza cruciale: anche se in favore della Brexit, i nordirlandesi del DUP si oppongono strenuamente alla possibilità di frontiere fra l’Irlanda del Nord e la Repubblica. Ci si chiede se quest’alleanza porterà a una nuova posizione britannica sulla permanenza nel mercato unico; l’unica certezza è che il nuovo Governo, così come la credibilità della Premier, è stato gravemente indebolito dal risultato elettorale e la situazione politica del Regno Unito sembra altamente instabile.

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EUROPA STANDARDIZED TOLLING SYSTEM FOR EUROPE The EU Commission is trying to create a new charging system

By Ann-Marlen Hoolt Road trips through Europe are popular among both foreigners and Europeans. The density of cities and countries makes it perfect for trips by car. But when travelling through Europe, drivers have to pay tolls for using the roads in many European countries. The money is then used to maintain the highways. The toll systems differ from country to country. While France is charging drivers about 7 to 14 cents per kilometre, Bulgaria is charging about 8 Euros for a week of using the motorways. Like Bulgaria many countries offer weekly, monthly and yearly road-passes. Others, like France, charge drivers in relation to the amount they actually drove. The method of collecting the payments differs as well. In some States, motorway drivers pay immediately at the tolling station. Other countries sell vignettes, stickers that have to be stuck to the windshield and are scanned when passing the tolling booth. The variety of tolling system often creates conflicts. Recently the German government has passed a law to install a general tolling system on their highways and the auto-

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bahn. So far Germany had only been charging trucks, but they now want to expand the system onto passenger cars. For years the government has been working on their drafts for the law. Germany neighbour countries Austria, Luxembourg and the Netherlands have strongly protested against the plans and demanded the EU-Commission to look into the law. They consider the government’s plans discriminatory and not compatible with EU laws. Why is the German tolling system so much a problem to the country’s neighbours? Although all drivers are asked to pay the toll, German residents will receive compensation in the form of tax relief. It may seem the system will only charge foreign drivers. Although the EU Commission has given to the German government permission to pass the law, the transport minister of Austria, Joerg Leichtfried, announced his will to challenge in court what he considers a discriminatory toll. But it is still uncertain if the German toll-system will persist in the long-term. Because meanwhile the EU Commission has been debating about European tolling. The

Commission

plans

to

standardize the toll system for European roads. According to the first drafts they plan to enforce a system that collects money from drivers based on how many kilometres they have driven. So far the Commission has only regulated charging rules for trucks. The new proposal will affect the way Member States charges passenger cars. Should they pass the law, drivers in all Europe will be able to pay their tolls without delays and extra charges, for example when crossing borders. Similar to the law that abolished roaming fees, the EU Commission aims at making travel between countries easier. They believe that time based charges do not accurately reflect infrastructure costs and consider distance-based charges a more efficient and effective method. Meanwhile zero-emission cars shall be charged less as a reward for using an environmental-friendly vehicle. The EU Commission mentions payments reduced by 75%. The law would force countries to charge drivers based on how many days they spend on their roads – much like Sweden, Lithuania, the Netherlands or Germany – and to change their current toll system.


NORD AMERICA PORTORICO HA SCELTO GLI STATI UNITI

Referendum: il 97% dei votanti chiede l’annessione completa

Di Federico Sarri Portorico alle urne: il 97% dei votanti al referendum ha scelto l’annessione agli Stati Uniti. Ma la bassa affluenza – meno del 23% degli aventi diritto – e le resistenze del Congresso potrebbero tagliare le gambe al sogno a stelle e strisce dell’arcipelago caraibico. Domenica 11 giugno il popolo portoricano si è espresso circa l’ingresso a pieno titolo negli Stati Uniti d’America. Ad oggi, infatti, l’arcipelago del Mar dei Caraibi è “solo” un territorio non incorporato: ha una propria Costituzione, elegge il proprio governatore, paga una quota minore di alcune delle tasse federali e chi nasce nel suo territorio ottiene di diritto la cittadinanza statunitense. Tuttavia, ha accesso solo ad alcuni dei programmi di assistenza sociale, non può votare alle elezioni presidenziali e non ha rappresentanza al Congresso. Così, gli elettori sono stati chiamati alle urne (per la sesta volta da quando, nel 1898, Portorico è entrato nel Commonwealth statunitense). Il referendum consultivo ha dato esiti plebiscitari: il 97 per cento dei votanti (518.000

elettori) vuole l’annessione completa agli States. Questa possibilità è contemplata dalla clausola “Nuovi Stati”, presente nella Costituzione statunitense, grazie alla quale sono stati di volta in volta ammessi tutti gli Stati, dopo le 13 colonie fondatrici. Si tratta del secondo voto in questa direzione: solo la consultazione popolare del 2012 aveva dato un risultato simile. Gli altri quattro, che si sono svolti nel 1967, 1991, 1993 e 1998, si sono rivelati sempre a favore del mantenimento dello status quo, mentre quello del 2012 aveva segnalato la pressante necessità di un cambiamento. Nonostante tutto, però, la bassa affluenza potrebbe limitare, almeno in parte, la portata politica di questo voto. Basti pensare che questa volta hanno votato poco più di 518.000 cittadini, quando, 5 anni fa, erano stati 1,8 milioni (per un’affluenza del 77,5%). Il neo governatore Ricardo Rosselló, che si è impegnato a “difendere sia al Congresso che nel mondo intero” il risultato referendario, sbarcherà a giorni negli Stati Uniti per un colloquio con il presidente Donald Trump.

Sul piatto c’è anche il rischio di insolvenza di Portorico. L’annessione completa agli Stati Uniti potrebbe portare a una più facile soluzione delle criticità di bilancio che lo stato caraibico si trova a fronteggiare. Sono 73, infatti, i miliardi di dollari accumulati nei confronti di creditori statunitensi: debito che ha spinto Rosselló ad avviare per la prima volta nella storia del Commonwealth – quello che viene chiamato “il Titolo III”, ovvero la procedura di default. La strada per diventare la 51^ stella sulla bandiera, tuttavia, è in salita. Il referendum è solo consultivo e non vincolante: sebbene il Governatore si sia impegnato a rispettarlo, nessuna norma legale lo obbliga a farlo. Inoltre, ad approvare l’ingresso negli Stati Uniti dovrà essere il Congresso. Ad oggi, sembra difficile che la legislatura e il presidente Donald Trump vogliano assumersi l’onere di risanare le finanze portoricane. Soprattutto se si considera che uno dei parlamenti – quello statunitense – è a maggioranza repubblicana, mentre l’altro è governato dai democratici. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA DUE AUDIZIONI, UN GUAIO

Brutta settimana per l’inquilino della Casa Bianca

Di Leonardo Veneziani L’inchiesta sul Russia Gate prosegue e continua a scuotere alle fondamenta la Presidenza degli Stati Uniti d’America. Il 9 giugno, di fronte al Comitato ristretto per l’intelligence del Senato, si è svolta l’audizione dell’ex direttore generale dell’FBI James Comey, il quale è stato chiamato a testimoniare sulle indagini che stava conducendo prima di essere stato dimesso e, nello specifico, sull’ultimo incontro svoltosi con il presidente Donald Trump. La testimonianza è durata quasi 3 ore, durante le quali Comey ha parlato dei rapporti dell’inquilino della Casa Bianca con l’ex Consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente Michael Flynn, dell’andamento delle indagini sulle e-mail di Hillary Clinton e, infine, delle investigazioni sulle presunte intromissioni russe nella campagna elettorale repubblicana. L’ex Direttore dell’FBI, incalzato da senatori sia democratici sia repubblicani, ha risposto con calma a tutte le domande, sottolineando alcuni punti importanti. Interrogato circa il motivo per cui potesse ritenere di essere stato sollevato dal suo incarico, Comey ha risposto: 6 • MSOI the Post

“Non ne sono sicuro, ma credo che il Presidente mi abbia licenziato per via del Russia Gate e per via della pressione che stavo creando”. L’affermazione ha ovviamente provocato una levata di scudi da parte dei sostenitori del Presidente, ma anche altrettante feroci critiche sul suo operato. In ogni caso, l’ex Direttore non ha affermato, almeno non in maniera esplicita, che Trump gli abbia richiesto di chiudere l’investigazione del Russia Gate, commettendo quindi ostruzione di giustizia. Il 14 giugno è stato chiamato a testimoniare di fronte alla stessa commissione del Senato Jeff Sessions, Attorney General, mettendo nuovamente in difficoltà il presidente Trump. L’ex Senatore ha più volte negato di essere a conoscenza dei presunti contatti tra russi e addetti alla campagna presidenziale, rigettando tutte le accuse di esser stato un nodo, assieme a Michael Flynn, della rete di contatti fra Trump e la Russia. I senatori repubblicani, consci anche del ruolo importante di Sessions all’interno dell’amministrazione Trump, hanno evitato di mettere alla gogna e di insistere troppo con

le domande relative al Russia Probe. L’Attorney General, per di più, si è rifiutato di fornire qualsiasi trascrizione o documentazione esistente sulle conversazioni fra lui e il presidente Trump, affermando che tale atteggiamento fosse “una prassi duratura del Dipartimento della Giustizia”, che riguardassero sia l’indagine sulla Russia, sia il licenziamento di Comey. Ha però dichiarato che consigliò al Presidente di licenziare il prima possibile Comey in quanto non capace. Seppur possa sembrare che queste testimonianze non abbiano impattato s i g n i f i c a t i v a m e n t e sull’opinione pubblica, è certo che né i senatori né i deputati vorranno ritenersi soddisfatti delle dichiarazioni di Comey e Sessions. Com’è evidente dalla stessa audizione, i senatori non hanno alcuna intenzione di smettere di investigare e di chiedere i documenti sui possibili contatti fra il Presidente e la Russia, già più volte richiesti durante la testimonianza di Sessions. È del tutto probabile che essi non abbiano ancora finito di convocarlo per chiedere spiegazioni e chiarimenti.


MEDIO ORIENTE ATTACCO HACKER IN QATAR: COLPITE AL-JAZEERA E TV DI STATO Frattanto, Arabia Saudita e altri cinque Stati rompono le relazioni diplomatiche con Doha

Di Maria Francesca Bottura “La rete di al-Jazeera e le sue piattaforme digitali stanno subendo tentativi di hackeraggio sistematici, continui e con attività sempre crescenti secondo varie modalità” cita la comunicazione pubblicata sul sito del più grande e conosciuto network in lingua araba. Un attacco che lascia poco spazio a dubbi, soprattutto vista la recente accusa lanciata al Qatar da parte di Arabia Saudita, Egitto, Yemen, Bahrein, Emirati Arabi e Maldive di presunti legami con il terrorismo. L’accusa è quella di compromettere la sicurezza dei Paesi vicini e di finanziare i gruppi terroristici, fatto che ha portato alla brusca interruzione delle relazioni diplomatiche e consolari. La situazione ha raggiunto un livello tale da interrompere ogni via di comunicazione via aria, terra e mare con Doha e, viceversa, la Qatar Airways ha annunciato la sospensione dei voli verso l’Arabia Saudita. A ribattere contro le accuse dell’Arabia Saudita il ministro degli Esteri Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, il quale le

descrive come “false e fabbricate”, aggiungendo che le monarchie del Golfo non hanno alcun diritto di isolare il Qatar. Gli attacchi sarebbero iniziati a pochi giorni dalla decisioni dei sei Stati, ma nessuno si sbilancia. Ad essere sotto attacco, oltre alla rete all-news al-Jazeera, anche la pagina web della televisione di Stato. Le accuse di legami stretti con la politica del Qatar, di diffondere e di offrire spazio all’ideologia dei Fratelli Musulmani (gruppo politico-religioso avverso alle monarchie arabo-sunnite medio orientali) non sono mai cessate negli anni, e ciò avrebbe causato l’hackeraggio. “Non c’è saggezza nel nutrire l’ostilità nei confronti dell’Iran” ha riportato l’agenzia di notizie statale alla fine di maggio, secondo quanto detto proprio dal ministro degli Esteri Al Thani. Che sia stata questa frase a scatenare le ire dell’Arabia Saudita? L’Iran, Paese a maggioranza sciita, ha da molto tempo guadagnato il titolo di “nemico” dell’Arabia Saudita, cosa che

ha portato l’agenzia statale di Doha a correre ai ripari, asserendo di aver subito un attacco hacker e, quindi, sottolineando l’infondatezza della notizia. Nel frattempo, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, per tutta risposta, hanno bloccato l’accesso al sito di al-Jazeera. “Lo scorso mese, l’agenzia ufficiale di notizie del Qatar è stata hackerata e sono state pubblicate false informazioni attribuite al Governo” riporta un articolo sul sito al-Jazeera dell’8 giugno scorso, dando quindi credito all’ipotesi che siano state proprio queste notizie ad aver sovraccaricato la delicata situazione tra Qatar e gli altri Stati del Golfo. Ad intervenire a Doha anche un team del Federal Bureau of Investigation, dopo la richiesta di aiuto da parte del Governo qatariota agli Stati Uniti, proprio a seguito della falla creatasi nel sistema di sicurezza. Il Ministero dell’Interno ha poi annunciato che tutte le informazioni sull’attacco sarebbero state pubblicate una volta completata l’operazione dell’FBI. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE PECORE NERE E MUTE INFEROCITE Perché il Qatar viene messo al bando

Di Jean-Marie Reure Sono passate due settimane dalla visita del presidente americano Trump in Medio Oriente, durante la quale abbiamo appreso che i due grandi nemici dell’occidente sono l’Iran e Daesh. Il nuovo asse del male mediorientale sarebbe responsabile dei recenti attentati terroristici e, dunque, la minaccia che più dovrebbe preoccuparci. Tuttavia Iran e Daesh non agirebbero da soli: la vera sfida all’ordine liberale sarebbe costituita da quei Paesi che li sostengono e finanziano “ dall’interno”, come il Qatar. Così l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Egitto e Maldive il 5 giugno hanno deciso di ritirare immediatamente le loro ambasciate, di chiudere le frontiere marittime e aeree, di imporre un embargo commerciale e di escludere il piccolo emirato dalla coalizione che interviene in Yemen da anni ormai contro i ribelli sciiti, appoggiati proprio dall’Iran. Il Qatar, infatti, finanzierebbe attivamente il terrorismo di

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matrice sunnita – dal sostegno attivo ai Fratelli Musulmani (per i quali l’etichetta “gruppo terrorista” non è universalmente condivisa), al Fronte al-Nusra in Siria – come pure quello di matrice sciita, arrivando al punto da fomentare persino una rivolta sciita in Arabia Saudita. Una vera e propria campagna anti-qatarina è in effetti iniziata nei media dei Paesi vicini. Tuttavia, proprio il Qatar ha recentemente irrigidito le leggi in materia di finanziamento privato; inoltre, giacché i Fratelli Musulmani non hanno mai rivendicato alcun attentato in Occidente ed equipararli all’IS risulterebbe quantomeno avventato; infine, al-Nusra, seppur affiliato di al-Qaeda, combatte sul campo contro gli uomini del califfato. È poi piuttosto improbabile che un emirato di confessione Wahabbita supporti attivamente dei gruppi sciiti, per poi bombardarli in Yemen. Questa crisi diplomatica non è una novità: già nel 2014 le ambasciate vennero chiuse per otto mesi in Qatar; questa volta,

però, la situazione sembra essere peggiore. In ogni caso, i motivi di rancore non mancano all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo: Doha, competitor di Dubai quanto a lusso e visibilità internazionale, ostile agli Emirati Arabi Uniti di cui si rifiutò di far parte sin dalla loro creazione 1971, formidabile competitor economico delle altre petromonarchie del Golfo con i suoi investimenti molto diversificati e con la sua importantissima compagnia di bandiera, sembra non aver mai voluto schierarsi completamente. Ospita la più grande base militare americana nel Golfo, ma accoglie al contempo gli esuli di Hamas e degli Hezbollah, si schiera in Yemen ma non condivide la svolta anti-iraniana di Trump e del CCG. “L’Iran è una potenza islamica regionale che non possiamo ignorare”. Pare sia questa la frase comparsa sull’agenzia di stampa qatarina divenuta casus belli. La muta ha una preda, e non vuole ostacoli.


RUSSIA E BALCANI UN MANCATO FUOCO DI PAGLIA

I cittadini slovacchi tornano in piazza contro la corruzione

Di Andrea Bertazzoni Quella che doveva essere una marcia anticorruzione, “una tantum”, che ha avuto luogo a Bratislava lo scorso 5 aprile, si è invece rivelata essere solo l’inizio di una serie di proteste e manifestazioni contro le autorità. Questa marcia potrebbe anche essere un segno che l’opinione pubblica si sta muovendo. Il 18 aprile, infatti, migliaia di persone di ogni età hanno marciato nella capitale slovacca, oltre che a Košice, seconda città per dimensione, e Žilina, uno dei capoluoghi principali. L’intento era quello di fare sentire nuovamente la propria voce soprattutto nei confronti del ministro dell’Interno Robert Kaliňák, del capo della polizia Tibor Gašpar e del procuratore speciale Dušan Kováčik. I tre sarebbero rei di aver nascosto gravi casi di corruzione nel corso degli ultimi anni. Le motivazioni che hanno spinto migliaia di cittadini slovacchi a scendere nuovamente in strada armati di cartelloni, megafoni e striscioni, sono pressoché le stesse che avevano dato inizio alle proteste di aprile: ripulire il sistema delle istituzioni e rivendicare il diritto di avere delucidazioni in merito ai più clamorosi scandali di corruzione.

L’indiscusso miglior attore non protagonista della marcia rimane il ministro dell’interno Robert Kaliňák, al centro di una bufera giudiziaria e mediatica per un presunto conflitto di interessi nell’ambito dell’acquisto di immobili. Inoltre, la vicinanza all’imprenditore milionario Ladislav Bašternák, sospettato di frode nei confronti dello Stato, è un altro fatto che ha suscitato proteste. Kaliňák, nonostante le critiche mediatiche sempre più incalzanti e la richiesta di dimissioni da parte di numerosi intellettuali, rimane fermo sulle sue posizioni, sottolineando come le transazioni immobiliari da lui effettuate, definite dall’opposizione sconvenienti per il Ministero degli Affari Interni, siano in realtà assolutamente pulite. La costruzione del Klientske centrum e l’affitto di appartamenti per ufficiali di polizia a Bratislava, così come l’acquisizione di un edificio d’affari a Martin, a detta del Ministro, sarebbero operazioni di acquisto per le quali non avrebbe ottenuto alcun vantaggio personale dovuto alla sua posizione. Questo è stato il punto sul quale il Ministro degli Interni ha insistito anche durante un’intervista radiofonica a Radio Expres. Quel giorno, il conduttore Braňo Závodský ha posto l’accento sul

fatto che la sentenza in primo grado prevede una ammenda dell’ordine di 260.000 euro ai danni di Kaliňák. Quest’ultimo ha ricordato come in realtà la decisione del tribunale, che dovrà essere confermata in ultimo grado, prevede sì una penale, ma stabilisce che le transazioni immobiliari sono avvenute nel rispetto della legge. Non sono stati dello stesso parere, invece, i manifestanti del 5 giugno che su numerosi striscioni hanno scritto “Skutok sa stal” (il fatto sussiste). Rilevante in tutto questo è che l’evento è stato indetto da un’organizzazione che si proclama non politica, fondata dagli studenti David Straka e Karolina Farska, gli stessi che, con altri studenti, stanno organizzando delle manifestazioni che dovrebbero avere luogo anche nelle prossime settimane. Aldilà di come si evolverà la faccenda, la Slovacchia rimane anche sotto la pressione dell’Unione Europea, la quale ha rimproverato Bratislava per le carenze nell’indipendenza dei tribunali, la scarsa applicazione della legge e il mancato progresso del sistema giuridico. A questo punto l’attesa della sentenza definitiva potrebbe diventare insostenibile non solo per i cittadini, ma anche per i rappresentanti delle istituzioni. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI LA STORIA INFINITA

Il conflitto in Nagorno-Karabakh, fra religione e oro nero

Di Elisa Todesco Nel mondo esistono zone di confine, in cui lingue, tradizioni, popoli si incontrano. In alcuni casi, da questi incontri nascono comprensione reciproca e collaborazione. In molti altri casi, invece, essi generano conflitti e violenze. Questa è la storia di uno di questi conflitti di confine. Questa è la storia di quella regione chiamata “giardino nero montagnoso”: il Nagorno-Karabakh, sospeso dalla caduta dell’Unione Sovietica fra l’Azerbaijan, l’Armenia e l’indipendenza. Per riuscire a comprendere le motivazioni che infiammano questa linea di fuoco caucasica bisogna tornare indietro di un secolo, quando, dopo la Rivoluzione Bolscevica, i nuovi leader sovietici decisero di creare la Regione Autonoma del Nagorno-Karabakh all’interno della Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaijan. Era stata creata una regione autonoma abitata in larga parte da popolazione armena, cristiana e storicamente vicina alla Russia, in uno stato abitato da azeri, musulmani e con forti relazioni storiche e culturali con la Turchia. Tuttavia, se fino alla fine degli

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anni ‘80 la situazione era rimasta relativamente stabile, è stato con la caduta dell›URSS che il vero conflitto è esploso: a fronteggiarsi le truppe regolari dell’esercito azero e i ribelli indipendentisti di origine armena, sostenuti dall’Armenia stessa. Il conflitto è stato lungo e brutale, fino al raggiungimento nel 1994, dopo la morte di migliaia di persone, di un accordo che prevedeva ufficialmente l’inclusione del Nagorno-Karabakh sotto la giurisdizione azera. Ufficiosamente, però, l’accordo non era riuscito a sradicare il governo indipendentista presente de facto in loco. Tuttavia, tutt’oggi non è ancora stato raggiunto un accordo di pace vero e proprio, anzi, la zona rappresenta uno dei famosi “conflitti congelati” il quale, dallo scorso anno, si sta scaldando sempre più. Durante la primavera del 2016, infatti, è accaduta una delle più gravi violazioni del cessate il fuoco tutt’ora vigente, seguita da molte altre che si sono succedute in questi mesi del 2017. Ma perché, per noi osservatori europei, dovrebbe essere importante ciò che succede in quel fazzoletto di terra (circa 11mila km quadrati) chiamato Nagorno-Karabakh?

Ovviamente, una prima ragione deve essere ritrovata nella preoccupazione per il rispetto dei diritti umani e per la distruzione, fisica, mentale e sociale, causata da una guerra “calda”. Esistono, tuttavia, anche altre ragioni più strettamente legate agli interessi geopolitici degli Stati Europei che spiegano l’attenzione della stampa e, al contempo, lasciano completamente basiti di fronte all’inazione dell’OSCE e dell’UE. In primo luogo, il Nagorno-Karabakh è una zona di passaggio, e con questo bisogna intendere il passaggio obbligato se si vogliono connettere le riserve di petrolio e di gas presenti nel Mar Caspio e il bacino di consumatori europei. I nuovi progetti di gasdotti e oleodotti (TAP e Nabucco) che garantirebbero all’UE una minore dipendenza dalla Russia sono vincolati al passaggio in Nagorno-Karabakh. Inoltre, i legami storici e culturali che legano la Russia all’Armenia e la Turchia all’Azerbaijan potrebbero implicare un coinvolgimento diretto di entrambe le potenze in un sempre più eventuale conflitto.


ORIENTE LA STRATEGIA CINESE

Da Sun Tsu allo spionaggio industriale

Di Alessandro Fornaroli L’atteggiamento cinese nei confronti delle altre nazioni è mutato nel corso del tempo per abbracciare meglio le esigenze derivate da un’apertura politica ed economica che ha reso il panorama delle relazioni internazionali più complesso. Nel libro “L’arte della guerra’’ del generale Sun Tsu (V sec. a.C.), viene spiegato come il detentore del potere – politico o militare – debba utilizzare la raccolta informativa per acquisire un vantaggio competitivo. Si tratta di un approccio che solo in epoca recente è approdato al pensiero occidentale, rappresentando una novità assoluta. Il principio di fondo si basa sull’impiego di ogni mezzo possibile per acquisire le informazioni necessarie da un punto di vista economico, militare o politico. Adottato inizialmente dalle élite in Cina, l’approccio è stato incorporato nella visione culturale del nascente ceto medio, costituendosi come forma mentis diffusa. In ogni caso, pare inadeguata e semplicistica la prospettiva eurocentrica che descrive la tattica cinese come priva di scrupoli nel perseguimento degli interessi statali. Tale concezione competitiva delle strategie politiche e militari può essere estrapolata

da questo ambito e applicata alla sfera economica. Il capitolo 13 (“uso delle spie”) dell’opera miliare di Sun Tsu indica la disinformazione come strumento da combinare con l’acquisizione di informazioni. Lo scopo sarebbe pertanto quello di sconfiggere i contendenti in contesti fortemente competitivi, sfruttando il sistema di spionaggio interno. Dal punto di vista storico, la modernizzazione dell’intelligence è avvenuta negli anni ’70 grazie all’apertura voluta da Deng Xiaoping: è in tale fase che si è verificata una traslazione verso l’esterno dello spionaggio domestico. Lo scopo principale era quello di consolidare la posizione della nazione sullo scacchiere internazionale ma, più in generale, l’intelligence ha permesso alla leadership di intraprendere relazioni diplomatiche senza esporre il sistema-Paese ai rischi del contesto internazionale. Questa metodologia d’azione è da considerarsi come un fattore stabilizzatosi nel corso del tempo. Non caratterizza un’epoca in particolare della storia cinese: si tratta di un fattore fondamentale anche nel contesto moderno. Tutt’oggi, infatti, assumono una forte rilevanza alcune strategie incentrate sul ruolo dei servizi segreti: è il caso del reperimento sistematico di informazioni

politiche – ma anche per esempio dei sospetti cyber attacchi a livello industriale. Si può infine sottolineare come l’impiego dell’intelligence per scopi politico-commerciali sia uno strumento adottato dalla Cina per svilupparsi economicamente e militarmente, senza renderlo evidente ai concorrenti. Per quanto riguarda il funzionamento pratico di tale meccanismo, il circolo informativo all’interno della Repubblica Popolare è molto complesso. Secondo uno schema presentato dall’agenzia americana Stratfor, possiamo dividere i servizi segreti in due poli: uno civile, controllato dal Governo, e uno militare, sotto l’egida del partito. Al loro interno sono presenti funzionari il cui compito è quello di controllare che le agenzie operino in conformità con le direttive impartite dal vertice. Viene, infine, messa in atto una supervisione a livello centrale, con l’obiettivo di scongiurare eventuali colpi di Stato. Le strategie improntate allo spionaggio hanno dunque caratterizzato – e caratterizzano tuttora – l’approccio della Cina alla competizione politica e alla concorrenza economica. Per comprenderne appieno la portata e il significato, però, non si può prescindere dal contesto storico in cui tale visione risulta radicata. MSOI the Post • 11


ORIENTE GIAPPONE: L’ULTIMO IMPERATORE

L’abdicazione di Akihito induce una riflessione sul ruolo formalizzato della figura imperiale

Di Tiziano Traversa L’abdicazione dell’imperatore giapponese Akihito è stata confermata dalla Dieta, che venerdì 9 giugno ha adottato una legge con la quale si autorizza il Capo di Stato formale a lasciare il trono. Akihito è nato nel 1933. Salito al “Trono del crisantemo” nel 1989, ha ricoperto la carica imperiale in un periodo storico eccezionalmente ricco di eventi. In vista della sua abdicazione, la prima dopo due secoli, molti analisti internazionali si interrogano sul ruolo di una simile figura in epoca contemporanea. Si tratta, infatti, dell’ultimo monarca al mondo a conservare inalterato il titolo di “Imperatore”. Considerati come delle divinità sino al 1946, i Tenno giapponesi – questo il termine ufficiale – per secoli sono stati al centro ditradizionieritualiprofondamente radicati nella cultura della nazione. L’Imperatore, sebbene spesso non prenda parte attivamente alle vicende istituzionali e governative, resta ad oggi una figura centrale nella realtà del Paese. Il ruolo degli Imperatori nipponici cambia radicalmente nel secondo dopoguerra.

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Con la sconfitta del Giappone, le Potenze alleate impongono alcuni mutamenti all’assetto istituzionale della nazione. A Hiroito viene imposto di dichiarare la propria natura umana, ponendo fine ad una credenza arcaica secondo la quale il Tenno sarebbe stato discendente degli dei. Si riteneva infatti che la casata imperiale fosse legata direttamente alla dea del sole Amaterasu. Lo scopo dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale – e segnatamente degli Stati Uniti – era di minare il presunto sentimento di superiorità del popolo giapponese. L’Imperatore fu, inoltre, indotto a concedere una nuova Costituzione, con la quale il suo potere veniva ufficialmente sottoposto a quello del popolo. Nel 1946, dunque, la carica assume un carattere essenzialmente cerimoniale. La moderna Costituzione del Giappone, al primo titolo, si esprime su quali siano la posizione e il ruolo del Tenno e della sua famiglia nella vita politica del Paese. L’articolo 1 definisce il sovrano come simbolo dello stato e dell’unità del popolo. Gli articoli seguenti, in particolare dal 2 all’8, stabiliscono il ruolo politico dell’Imperatore: questi agi-

sce solo previa approvazione del Gabinetto o della Dieta. A lui spetta il compito di nominare il Primo Ministro, il Presidente della Corte Suprema e di svolgere le funzioni cerimoniali di un Capo di Stato. Occorre tuttavia notare che, de jure, tale incarico non gli viene riconosciuto dalla Carta costituzionale. L’Imperatore non può esercitare il potere di veto e non svolge funzioni pubbliche per prerogativa reale. Inoltre, la stessa legge che dispone la successione al “Trono del crisantemo” deve essere approvata dalla Dieta. Negli anni successivi alla Ningen-sengen, la “dichiarazione sulla natura umana”, si è molto discusso se essa avesse avuto effetti concreti – o se si fosse trattato di un mero atto volto a compiacere i vincitori. Molti studiosi, già a quell’epoca, ritennero che la formulazione della dichiarazione fosse stata volontariamente vaga. Di certo vi è che l’Imperatore del Giappone resta per il popolo una figura di grande rispetto e che, nonostante la riforma costituzionale e le dichiarazioni formali, tradizioni secolari mutano difficilmente in tempi così rapidi.


AFRICA IL BUSINESS DELL’AVORIO

Dalla crescente domanda dall’Oriente ai finanziamenti alle milizie africane

Di Simone Esposito 7 contrabbandieri coinvolti nel o traffico illegale d’avori dall’Uganda a Singapore, tra cui un funzionario doganale keniano e diversi spedizionieri marittimi, sono stati arrestati a seguito di un’indagine congiunta da parte di forze dell’ordine africane e asiatiche. Il commercio del cosiddetto “oro bianco” è responsabile per l’uccisione di decine di migliaia di elefanti ogni anno in Africa. Solo nell’ultimo decennio, i pachidermi hanno sopportato una diminuzione complessiva del loro numero di oltre il 30%. Gli elefanti sono estremamente importanti negli ecosistemi locali da loro abitati, oltre a rappresentare una fonte di reddito per l’Africa, grazie al turismo. Tuttavia, molti esemplari continuano a venir uccisi per le loro zanne d’avorio, comprate e vendute illegalmente attraverso network criminali transnazionali. Nel decennio tra il 1979 e il 1989, si sono persi la metà degli elefanti africani proprio a causa del traffico d’avorio, secondo uno studio condotto da Save the Elephants. Nel 1989, la Convenzione sul Commercio Internazionale delle Specie Minacciate di Estinzione

(CITES) dell’ONU, che mira a impedire lo sfruttamento commerciale internazionale di flora e fauna in pericolo, ha introdotto un divieto sulla vendita d’avorio oltreconfine. Tuttavia, resta permesso il commercio all’interno di alcuni Paesi e questo permette ai bracconieri, aiutati dalla dilagante corruzione dalle guerre civili, di avere accesso ad alcuni mercati domestici d’avorio non regolati. Il traffico di zanne è cresciuto nuovamente negli ultimi anni e un chilo d’avorio può ormai giungere a valere migliaia di dollari. La domanda proveniente dall’Oriente rappresenta il fattore chiave dietro le stragi, in particolare dalla Cina, dove gli esperti ritengono vada a finire circa il 70% dell’avorio mondiale. Il governo cinese difende l’intaglio dell’avorio come un’antica arte che intende preservare. Inoltre, il materiale viene spesso usato dalla medicina cinese tradizionale. Sono molte le iniziative che vengono portate avanti per cercare di proteggere questi animali. Nel marzo 2013, CITES ha identificato diversi Paesi, tra cui Tanzania, Uganda, Cina e Vietnam, come quelli maggiormente implicati nel traffico illegale d’avorio. CITES, dunque, avrebbe

loro richiesto di applicare un’ampia serie di misure per contrastare bracconaggio e contrabbando, tra cui controlli doganali più rigidi e nuove campagne di sensibilizzazione sociale. Gli esperti ritengono che esista davvero il rischio che gli elefanti si estinguano completamente, a meno che non si faccia qualcosa per risolvere definitivamente il problema. La sicurezza regionale avrebbe peraltro da guadagnarci, considerando come i proventi dell’oro bianco aiutino a finanziare diverse milizie armate africane, tra cui la Lord’s Resistance Army ugandese. I leader di tutto il mondo si sono incontrati a Johannesburg nel settembre 2016 per una recente riunione del CITES, dove si è discusso del futuro del mercato dell’avorio. Per proteggere la popolazione degli elefanti, sono necessari la chiusura dei mercati domestici d’avorio e un divieto completo al commercio internazionale. Ma dal momento che i Paesi non sono obbligati a rispettare le raccomandazioni del CITES, resta da vedere quale sarà l’effetto che queste potranno infine sortire. MSOI the Post • 13


AFRICA IL BINOMIO AFRICA-CINA

Lo sviluppo del continente passa da Pechino?

Di Guglielmo Fasana La Belt and Road Initative (BRI) è stata lanciata come una grand vision per l’integrazione trans-regionale, grazie alla quale la Cina intende aumentare il commercio internazionale e stimolare la crescita economica in Asia, Africa ed Europa. Il piano prevede la costruzione di numerose infrastrutture che connettano altrettanti Paesi e i loro relativi mercati; per McKinsey, la BRI potrebbe mettere in ombra il Piano Marshall, impattando, a livello globale, sul 65% della popolazione, un terzo del PIL e aiutando a mobilitare un quarto di tutti i beni e i servizi prodotti. In pratica, la BRI è imperniata su due assi paralleli: la Silk Road Economic Belt, che ripercorre l’antica via terrestre della seta e attraversa l’Asia centrale per arrivare in Europa, e la Maritime Silk Road, una rotta navale lungo l’Oceano indiano. L’Africa costituisce parte integrante della seconda via commerciale, rappresentando di fatto uno dei punti di contatto tra Oriente ed Occidente. Con le rappresentanze di circa 110 nazioni e organizzazioni internazionali, al Belt and Road Summit, tenutosi a Pechino il 14 e il 15 maggio scorsi, erano

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presenti anche diversi politici africani, tra funzionari keniani, etiopi, egiziani e tunisini. Molti altri Stati africani, in ogni caso, hanno manifestato il proprio interesse, a conferma delle grandi aspettative nutrite nel continente. Quali potrebbero essere le ripercussioni sull’Africa del più ambizioso disegno di politica estera finora concepito dal Presidente Xi Jinping? L’interesse cinese nei confronti dei paesi dell’Africa orientale riguarda prevalentemente l’ambito della logistica. I porti presenti nell’Est del continente rappresentano uno snodo cruciale verso il canale di Suez e l’Europa che rimane molto attrattiva per l’export made in China. È proprio nelle infrastrutture che, con il supporto delle banche cinesi, si è investita una quota di capitale rilevante. Non solo negli hub portuali di Mombasa in Kenya e di Bagamoyo in Tanzania, ma anche nelle reti ferroviarie di Chad, Sudan e Nigeria. Per i cinesi e per gli africani è cruciale integrare lo sviluppo delle aree costiere con quello delle economie senza sbocco sul mare. Per questo motivo, la Tanzania ha siglato un accordo con la Export-Import Bank of

China che prevede la costruzione di un corridoio ferroviario che la connetterà alle confinanti Uganda, Rwanda, Burundi e Congo. Tradotto in cifre, secondo le stime della Banca Mondiale, il finanziamento delle infrastrutture africane richiede ogni anno circa 38 miliardi di dollari, da sommare ad una cifra simile, necessaria per la manutenzione: si tratta di circa il 12% del PIL del continente. Non vi è alcun dubbio circa i benefici che potrebbero derivare dalla riuscita di un così importante programma di investimenti. Tuttavia, rimangono alcune criticità legate allo sfruttamento delle risorse locali, alla corruzione della classe dirigente, ai bassi costi del lavoro e all’insorgere di problemi ambientali. Nel vagliare le modalità con cui utilizzare al meglio le immense risorse messe a disposizione dal programma, i governi africani dovrebbero mantenere un atteggiamento severo e orientato verso lo sviluppo sostenibile, anche in vista del conseguimento degli obiettivi dell’Agenda 2063 dell’Unione Africana. Sarà essenziale un accordo sul modo migliore per armonizzare politiche e strutture di governance, facendo emergere un’Africa vincente.


SUD AMERICA DETENUTO IN MESSICO IL PRESUNTO ASSASSINO DI JAIME GUZMAN Ricercato da 190 paesi, viene arrestato dopo 26 anni di latitanza

Di Sveva Morgigni Dopo 26 anni di ricerche, la Procura Generale della Repubblica messicana (PGR), tramite l’Agenzia dell’Investigazioni Criminali (AIC), ha dichiarato che un cittadino cileno ricercato dalla Giustizia del suo Paese è stato arrestato nello Stato di Guanajuanto, nel centro del Messico. In una dichiarazione, la PGR ha affermato che Raúl Escobar Poblete sia stato fermato per la presunta responsabilità dell’attacco terroristico in cui era stato ucciso il senatore Jaime Guzmán nel 1991. Segnalato dalla Giustizia come uno degli esecutori materiali del crimine del politico conservatore, l’Autorità Antiterrorista Cilena aveva emesso un mandato d’arresto e una serie di altre ordinanze restrittive contro Poblete. Il presunto assassino, conosciuto con il nome di Comandante Emilio, del gruppo Frente Patriótico Manuel Rodríguez (FPMR), era ricercato in più di 190 Paesi, su richiesta della Corte d’Appello di Santiago. Anche la compagna Marcela Mardones, ricercata dalle autorità con le stesse

accuse, è stata ritrovata in Messico sotto mentite spoglie. “Attraverso la collaborazione con le autorità di immigrazione messicane, è stato possibile ripercorrere gli spostamenti della donna” ha dichiarato il PGR. La vita irregolare di Escobar Poblete ebbe inizio già dalla fine degli anni ‘80, quando si unì al FPMR, gruppo affiliato al regime militare del generale Augusto Pinochet. In questo contesto, il 1° aprile del 1991, insieme all’amico militante Ricardo Palma, prese parte all’attacco che uccise il senatore Guzmán, e alla fine dello stesso anno agì come uno dei leader del gruppo che rapì Cristián Edwards, giovane imprenditore figlio del proprietario del giornale El Mercurio. Malgrado le indagini della polizia, Escobar Poblete riapparve solo nel 1996 come capo del comando dell’operazione Volo di Giustizia, con cui riuscì a far scappare dal carcere di massima sicurezza di Santiago altri militanti in una spettacolare fuga in elicottero. Solo oggi, dopo 11 anni dall’ultima apparizione, è stato catturato in Messico dove viveva con la compagna.

Il Ministro dell’Interno ha dunque affermato che il giudice Mario Carroza e la Policía de Investigaciones (PDI) si incontreranno per discutere i passi successivi per l’estradizione in Cile dell’ex guerrigliero, nonostante questi debba essere prima imputato dalla Giustizia messicana. Come sottolineato dal giudice Carroza, “l’idea è quella di avviare immediatamente le procedure di estradizione, con il proposito di portarlo qui perché deponga al processo”. Nonostante le pressioni del partito Unión Democrática Independiente (UDI), fondato da Guzmán, la richiesta di estradizione sarà inviata alla Corte Suprema nel più breve tempo possibile. Ciò nonostante Carroza ha dichiarato che potrebbero esserci dei ritardi per quanto riguarda l’eventuale estradizione di Escobar Poblete, a causa sia delle accuse di rapimento e sequestro per le quali deve essere contemporaneamente giudicato dallo Stato messicano sia dei trattati diplomatici che esistono con il Messico. MSOI the Post • 15


SUD AMERICA VITTORIA AGRODOLCE PER IL PRI Il partito del presidente Nieto è in difficoltà

Di Elisa Zamuner Il 3 giugno Alfredo del Mazo, candidato del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI), attualmente al Governo, e cugino del presidente Enrique Peña Nieto, è stato eletto governatore dell’Estado de Mexico. Del Mazo ha ottenuto il 33,7% dei voti, mentre Delfina Gómez Álvarez, candidata di sinistra del Movimento di Rigenerazione Nazionale (MO.RE.NA.), ha raggiunto il 30,8%, perdendo quindi con un bassissimo margine. Lo stesso giorno si è votato anche in altri tre Stati messicani per i governatori o per le municipali ma le elezioni dell’Estado de Mexico vengono considerate un indicatore molto importante per le elezioni presidenziali del 2018: si tratta, infatti, dello Stato più popoloso del Messico con circa 16 milioni di abitanti e, tra questi, gli 11 milioni di elettori costituiscono circa un quarto dell’elettorato messicano. Il PRI puntava ad affermare il suo consenso in una zona che, fin dalla nascita del partito, controlla ininterrottamente da più di 80 anni. La vittoria sulla Gomez, però, è stata molto risicata e ha dimostrato come il partito di Peña Nieto sia sempre meno 16 • MSOI the Post

popolare tra i cittadini a causa degli scandali, di una poco puntuale lotta al narcotraffico e della diffusissima povertà; nel 2011 il precedente governatore, Eruviel Ávila Villegas, aveva ottenuto un risultato superiore del 25%. I risultati elettorali, diffusi dall’Istituto Nazionale Elettorale (INE), sono stati subito contestati dal leader del MORENA, Andrés Manuel López Obrador, che li ha definiti una farsa e ha ricordato che “l’articolo 41 della Costituzione stabilisce che le elezioni devono essere libere e autentiche; la Costituzione è stata violata in queste elezioni fraudolente”. Gómez Álvarez, in un incontro con circa 10.000 elettori, ha attaccato il Partito Rivoluzionario Istituzionale: “a differenza di Peña Nieto e Alfredo del Mazo, io ho fiducia nella gente; loro sono convinti che la loro capacità di aggirare la volontà popolare sia infinita”. Nei giorni successivi altri partiti, come il Partito d’Azione Nazionale (PAN) e il Plan Nacional de Desarollo (PND), si sono uniti nel denunciare altre irregolarità e nel chiedere l’annullamento delle elezioni. Alejandro Sánchez Camacho, segretario del Partito della Ri-

voluzione Democratica (PRD), ha dichiarato che “nonostante le divergenze è giusto che partiti politici di fronte opposto si uniscano per difendere il diritto di voto dei cittadini”. L’opposizione, inoltre, sostiene che ci siano state una serie di violazioni, prima e durante il processo elettorale, come l’acquisto di voti e la falsificazione di alcuni documenti. Inoltre, il governo di Peña Nieto è stato accusato di una campagna spietata, che mirava esclusivamente a denigrare i vari candidati, finanziando invece con soldi pubblici la candidatura di Afredo del Mazo. L’8 giugno, inoltre, il MORENA ha denunciato la scomparsa di uno dei suoi militanti, l’avvocato Eduardo Catarino, che è stato trovato morto a Tixtla. I famigliari sostengono che Catarino sia stato ucciso da alcuni membri della Policía Preventiva Estatal (PPE); la vicenda, secondo il partito, non sarebbe un caso isolato; nel periodo precedente alle elezioni, infatti, sono stati segnalati altri sequestri, aggressioni e intimidazioni. Invece, per il governatore neo eletto tutte le accuse non sarebbero altro che dei pretesti, usati dalle opposizioni per giustificare la loro sconfitta.


ECONOMIA QUANDO UNA BOLLA SCOPPIA SENZA ESSERE ESISTITA Il rapporto di Goldman Sachs sulle tech stock dà il via alla svendita

Di Efrem Moiso In questi giorni si parla di una bolla nel settore dell’high tech. Per via della natura delle bolle finanziarie, sia che esista o meno, parlarne la rende per certi versi autentica. Questa bolla viene paragonata a quella delle “dot-com” avvenuta nell’ormai (tecnologicamente parlando) lontano 2000, quando l’interesse per le società collegate al mondo di Internet fece raggiungere valori stellari alle rispettive azioni, indipendentemente dall’effettivo o potenziale valore delle società emittenti, per poi sgonfiarsi lasciando dietro di sé caduti e falliti. Per quanto sopravvalutato e “costoso”, il quarto di indice S&P500 oggi composto da aziende del settore tecnologico non ha nulla a che vedere con il corrispettivo di 17 anni fa. Infatti, sebbene le azioni dell’high tech siano scambiate con un premio attorno al 20% rispetto al mercato globale, nel 2000 il divario sfiorò il 50% prima che la bolla delle collassasse. Se si trattasse davvero di una bolla di simili dimensioni, possibilità che non va esclusa, sarebbe solo l’inizio. Durante gli ultimi giorni, però, si è assistito ad una forte svendita delle cosiddette tech stock, prima in America e in Asia

e successivamente in Europa, a seguito della pubblicazione di un comunicato da parte degli analisti di Goldman Sachs che sottolinea l’andamento speculativo del settore e lo paragonano proprio alla bolla delle “dot-com”. Per spezzare una lancia in favore dei sostenitori dell’esistenza di una bolla speculativa, si potrebbe quindi parlare di una bolla, esplosa la scorsa settimana proprio per via del comunicato; ma essa sarebbe paragonabile a quelle che di frequente compaiono e scompaiono nei radar degli osservatori. Allo stesso tempo non si può certo negare che vi sia stato – e vi sia tuttora – un forte interesse nei confronti del settore tecnologico. In particolare, il discorso riguarda aziende come Apple, che ha raggiunto una capitalizzazione di mercato (risultato della moltiplicazione del prezzo di una singola azione per la quantità di azioni in circolazione) di 800 miliardi di dollari, Amazon e Alphabet, la holding cui fa capo anche Google, che hanno sfondato il valore di 1.000 dollari per azione. Che gli investitori siano stati influenzati dal rapporto di Goldman Sachs che ha scatenato un fuggi fuggi generale nella corsa per aggiudicarsi un profitto prima che fosse tardi e che il valore

delle aziende dell’high tech sia sopravvalutato è indubbio, ma queste società hanno una storia ben diversa, radicata e piuttosto solida, rispetto a quella delle allora neocostituite e sottocapitalizzate protagoniste della bolla del 2000. Va detto che il contenuto del rapporto di Goldman Sachs potrebbe non essere stato tanto influente quanto la sua tempistica. Infatti, bisogna considerare che questo periodo dell’anno, durante il quale vengono pubblicati i risultati aziendali del terzo trimestre di attività, vede spesso svendite in previsione azionarie dell’innalzamento della volatilità dei prezzi e della penalizzazione che i titoli borsistici subiscono con lo stacco del dividendo a maggio. In conclusione, si può dire che la vendita di titoli a causa di questi due fattori, espressa dal motto “sell in May and go away”, “vendi a maggio e vattene [per tornare dopo l’estate]”, unita all’impatto maggiore, in termini assoluti, dell’andamento delle tech stock sul mercato per via dell’interesse degli investitori e la tempistica del rapporto di Goldman Sachs, hanno fatto sì che l’apparente bolla, già in fase di ripresa, scoppiasse. MSOI the Post • 17


ECONOMIA L’INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA STEP-BY-STEP – Parte II Dalla Legge Sim, al Decreto Eurosim, fino al 1998: la nascita del TUF

Di Martina Unali Per completare e terminare l’excursus riguardo la storia della normazione in materia di intermediazione finanziaria, nella legge SIM del ’91, il legislatore adotta un’“architettura” che sarà poi riprodotto nel decreto Eurosim del 1996 e nel TUF del 1998, ovvero: 1° parte SIM, la quale comprende la disciplina degli intermediari, comprese le attività di intermediazione mobiliare, le norme regolanti le crisi di insolvenza, la sorte degli agenti di cambio (in quanto con tale disposizione viene riconosciuta la figura del promotore finanziario); 2° parte SIM, dedicata alla disciplina degli emittenti e dei mercati. Nel 1996 nasce il decreto Eurosim, in seguito al recepimento della direttiva relativa ai servizi di investimento del settore dei valori mobiliari e quella sull’adeguatezza patrimoniale delle imprese di investimento e degli enti creditizi. Successivamente, nel 1998, nasce il Testo Unico della Finanza (TUF), conosciuto anche con il nome di “decreto Draghi”. Attualmente, è la principale fonte normativa vigente nella Repubblica Italiana in materia di finanza e di intermediazione finanziaria. 18 • MSOI the Post

Tuttavia, il TUF attuale non corrisponde a quello originario, in quanto è sempre stato - ed è tuttora - oggetto di integrazioni e modifiche, richiamate nelle note. Le integrazioni più importanti sono state: la legge sul risparmio e la normativa MIFID. Analizzandone la struttura, gli elementi da segnalare sono: 1) il coordinamento e la razionalizzazione per eliminare le sovrapposizioni normative; il TUF, seguendo il modello SIM, è diviso in due parti: prima parte dedicata agli intermediari ed integrata dalla normativa Consob e seconda parte dedicata agli emittenti, cioè ai mercati; 2) il linguaggio utilizzato è in prevalenza tecnico, più vicino agli operatori, piuttosto che un linguaggio giuridico; 3) la struttura normativa, che consiste nell’introdurre un sistema di norme, con una in particolare - l’articolo 1 - che definisce i singoli istituti regolamentati. Ora, analizziamo due norme cardine. L’articolo 1, come accennato, definisce - sempre con criterio casistico - i soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento, tra cui le SIM, le imprese di investimento comunitarie ed extracomunitarie e i soggetti abilitati alla gestione collettiva del risparmio

(tra cui Sicav, Sicaf e il fondo comune di investimento, costituito e gestito da una SGR). Quest’ultima è caratterizzata dal fatto di non poter esercitare attività di negoziazione, collocamento e raccolta ordini, ma di poter effettuare la gestione individuale. L’articolo 21, stabilisce i principi generali di comportamento e la definizione degli obblighi che devono essere rispettati dagli intermediari finanziari, riprendendo alcuni concetti precedentemente inseriti nella legge SIM del ’91. All’intermediario, nel comma a, è richiesto un comportamento diligente, corretto e trasparente sia nei confronti del cliente, sia verso il mercato: è, dunque, rintracciabile il principio della buona fede. Ma la buona fede “civilistica” non basta più. Infatti, ora, all’intermediario è richiesta una buona fede qualificata, ottenibile solamente con il rispetto dei commi successivi (b, c, d), ovvero: acquisizione delle informazioni necessarie dal cliente e feedback informativi costanti; utilizzo di comunicazioni pubblicitarie chiare, corrette e non fuorvianti; disposizione di un efficiente sistema di controllo interno, affinché il regolare svolgimento delle operazioni sia sempre rispettato.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO L’UE E LE RISOLUZIONI ALTERNATIVE DELLE CONTROVERSIE Sfidando dubbi e diffidenze si diffondo sempre più, e i vantaggi sono per tutti

Di Pierre Clément Mingozzi In passato, la risoluzione di qualsiasi tipo di controversia necessitava della figura del giudice statale il quale, tramite il processo di cognizione, era chiamato ad accertare e dunque dirimere un possibile litigio. Tuttavia, negli ultimi anni si è assistito ad un notevole sviluppo di pratiche alternative di risoluzione delle controversie (ADR, Alternative Dispute Resolution) sempre più diffuse in Europagrazie all’impulso delle istituzioni dell’Unione europea. È risaputo lo stato di difficoltà in cui versano i tribunali ordinari. Fondi insufficienti, carenze di personale e di organico, quantità di procedimenti pendenti: la difficoltà di dare ristoro adeguato e tempestivo alla domanda di giustizia proveniente dalla società civile pone oggigiorno le corti nazionali in una posizione di grande problematicità. Nello specifico, e relativamente a contenziosi legati a transazioni online di valori patrimoniali medio-bassi, si assiste ad un cronico deficit di fiducia nei confronti delle istituzioni “tradizionali” da parte degli acquirenti. Proprio in questo ambito infatti, dato il basso valore economico che mediamente caratterizza la mag-

gior parte degli acquisti online, in caso di controversia risulta improponibile – se non addirittura sconveniente –, rivolgersi alla giustizia ordinaria. Alla luce del crescente numero di transazioni economiche eseguite nel mondo dell’e-commerce, stiamo assistendo dunque alla creazione di metodi alternativi mirati al settore online, più pratici ed i efficient rispetto la via giudiziaria “classica”, con una considerevole riduzione dei costi (e dei tempi!) per il consumatore. L’obbiettivo è stato raggiunto nel 2011 con l’introduzione dell’ODR (Online Dispute Resolution), il cui funzionamento è fondato su due pilastri sostanziali: la direttiva 2013/11/UE ed il regolamento 524/2013/ EU. La prima garantisce ai consumatori un’assistenza specializzata relativa alle dispute in qualsiasi ambito economico e si basa sulla considerazione che la risoluzione alternativa delle controversie possa contribuire in maniera effettiva ed efficace anche al corretto funzionamento del mercato interno. Il regolamento, invece, completata la direttiva e prevede inoltre la creazione di una Piattaforma europea atta alla risoluzione delle controversi e online ed

all’informazione dei consumatori sui propri diritti e sulle possibilità che hanno di ottenere ristoro in caso di necessità. Il processo di ODR, che consta di cinque passaggi fondamentali, è pensato per una facile fruizione da parte del cittadino; esso infatti si basa su di un portale di semplice accesso ed utilizzo, disponibile al portale ufficiale della Commissione europea. Lo Stato invece, ha l’onere di creare un “punto di contatto nazionale” che possa assistere i cittadini attraverso le procedure del ricorso e che possa inoltre favorire soluzioni alternative nel caso in cui tale ricorso non ottenga i risultati desiderati. La diffusione di tale metodo rappresenta un passo avanti rispetto alle richieste provenienti da una realtà digitale sempre più interconnessa. Non bisogna comunque dimenticarsi delle numerose criticità poste dal commercio online le quali necessitano di essere affrontate concretamente al fine di garantirne un’adeguata risposta giuridica. Su questa via sembra porsi l’introduzione di tale piattaforma, nonostante il suo utilizzo crei ancora dubbi e perplessità da parte dei “cittadini virtuali”. MSOI the Post • 19


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO SICUREZZA E SALUTE: I VACCINI IN EUROPA E NEL MONDO Come le legislazioni affrontano la questione vaccinale

Di Fabio Tumminello Negli ultimi mesi, il tema delle vaccinazioni è tornato agli onori della cronaca dopo l’approvazione del decreto Lorenzin che impone, ai bambini tra gli 0 e i 6 anni, una serie di vaccinazioni (12, in tutto) in risposta alla diminuzione del tasso di immunizzazione che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha fissato al 95%, sufficientemente alto per garantire il cosiddetto “effetto gregge”. Tale soglia è stata fissata dall’OMS per fare in modo che anche gli individui affetti da altre patologie, incompatibili con le cure vaccinali, siano comunque protetti dalle malattie per cui si richiede la vaccinazione. L’Italia non è però l’unico paese ad affrontare quella che sta diventando, a tutti gli effetti, un’emergenza sanitaria. Come si stanno comportando gli altri paesi? E può essere utile l’obbligatorietà delle vaccinazioni per contrastare questo fenomeno? L’indagine del Vaccine Confidence Project dello scorso aprile mette in luce una situazione preoccupante: in molti paesi si sta diffondendo infatti una crescente paura nei confronti dei vaccini, forieri, secondo alcuni, di gravissime controindicazioni (in Francia, quasi il 45% degli intervistati condivide questa opinione); al contrario, in altri 20 • MSOI the Post

paesi serpeggia scetticismo sulla reale utilità delle vaccinazioni (l’Italia, insieme alla Russia e all’Azerbaijan, occupa il podio di questa particolare classifica). I paesi del Vecchio Continente stanno affrontando la questione in maniera disarmonica, senza che l’Unione stia effettivamente agendo per introdurre una politica di prevenzione comune, limitandosi infatti ad alcune generiche linee-guida: mentre alcuni paesi prevedono già da diversi anni un obbligo di vaccinazione per numerose malattie (in particolare Romania, Slovenia e, più recentemente, l’Italia), altri, come quelli dell’Europa settentrionale e le Repubbliche baltiche, lasciano invece libertà di scelta alla popolazione. Tale libertà è però spesso accompagnata da programmi di sensibilizzazione sul tema e vi è consenso sull’importanza che le vaccinazioni rivestono nel tutelare la sicurezza e la salute delle persone. Su scala mondiale, l’obbligo di prevenzione, però, non sembra portare ad un reale incremento delle vaccinazioni dacché, come molto spesso accade in paesi in via di sviluppo, l’intervento del legislatore non è accompagnato da misure concrete utili ad aumentare il tasso di copertura. La Romania ha conosciu-

to una situazione di questo tipo: pur prevedendo un obbligo di vaccinazione contro il morbillo, lo scorso anno il sistema sanitario rumeno ha dovuto affrontare quasi 5mila casi, con 21 decessi accertati; la ragione di questa epidemia è dovuta proprio alla mancanza di un sistema capillare di prevenzione, più che ad una ineffettività della previsione normativa di per sé. Un caso che molti studiosi hanno analizzato per interpretare il fenomeno anche da un punto di vista giuridico è quello della California. Qui, per contrastare il crollo del numero di vaccinazioni, il governo locale ha deciso di negare il ricorso a motivazioni religiose per rifiutare un vaccino obbligatorio. È un caso paradigmatico, che si inserisce in quel conflitto, oggetto di lungo dibattito, tra libertà di esprimere la propria religiosità ed esigenze di salute e sicurezza pubblica. La California, peraltro, rappresenta anche un eccezione rispetto al trend internazionale: il provvedimento del governo, infatti, è riuscito ad evitare ulteriori diminuzioni del tasso di vaccinazione, facendo rientrare l’allarme, dando ragione ai sostenitori di una politica sanitaria più stringente in tema di vaccinazioni.


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