MSOI thePost Numero 73

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Samantha Scarpa Redattori Federica Allasia, Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Giulia Capriotti, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso,Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Sabrina Di Dio,Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Kevin Ferri, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Efrem Moiso, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso,Daniele Ruffino , Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Viola Serena Stefanello, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Martina Unali, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zuniga Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


SPECIALE: INTERVISTA A LINA KHALIFEH L’UGUAGLIANZA A COLPI DI GUANTONE Quando la rivoluzione inizia in palestra

Di Clarissa Rossetti Riconosciuta dal presidente Obama come leader per il cambiamento sociale, premiata imprenditrice dell’anno in Medio Oriente e in Europa, definita dall’attrice e attivista per i diritti delle donne Emma Watson un’ispirazione: Lina Khalifeh. Fondatrice di SheFighter, il primo centro per l’autodifesa femminile in tutto il Medio Oriente, ella sta conquistando l’ammirazione della comunità internazionale grazie alla sua coraggiosa missione di dare a ogni donna la forza di lottare non solo per la salvaguardia della propria incolumità, ma anche per i propri diritti. Il centro SheFighter, fondato nel 2012 ad Amman, offre lezioni di autodifesa a donne e bambi-

ne di ogni età, ma il lavoro non finisce una volta appesi i guantoni: la fondatrice Lina Khalifeh si divide tra la Giordania e il resto del mondo dove, attraverso workshop, seminari e conferenze si batte per la sicurezza delle donne, l’uguaglianza di genere e il diritto di ogni ragazza di far valere la propria voce. La missione di Lina è particolarmente controversa in Medio Oriente, dove persino in un Paese liberale come la Giordania essere una donna significa quasi sempre dover combattere contro pressioni sociali, culturali e familiari per il riconoscimento del proprio diritto a condurre una vita uguale a quella della controparte maschile. I limiti non sono politici ma culturali; anche se le donne guidano, votano e ricoprono importanti

cariche pubbliche, spesso sono ancora considerate creature fragili, da proteggere a costo di privarle di libertà raramente negate agli uomini: scegliere quando uscire, chi frequentare, dove passare il proprio tempo, quali cause abbracciare. Nonostante la Giordania abbia da tempo aderito alla CEDAW, Convenzione sull’Eliminazione di ogni forma di Discriminazione contro le Donne (New York, 1979), un rapporto del World Economic Forum sulla parità di genere nel mondo (The Global Gender Gap Report, 2016) ha collocato la Giordania al 134° posto su un totale di 144 Stati, osservati attraverso l’analisi di indicatori per la parità di genere in vari settori (tra cui partecipazione e opportunità economiche, istruzione ed empowerment so-

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cio-politico). La condizione delle donne e il loro accesso ad opportunità di indipendenza economica, partecipazione sociale e politica varia considerevolmente in base all’area di provenienza e residenza ed alla famiglia e comunità di appartenenza; in generale, si riscontrano maggiori difficoltà per donne provenienti da famiglie conservatrici e residenti in aree rurali, dove la mancanza di una rete di trasporti pubblici capillare e di ambienti di lavoro women-friendly rende ancora più difficile per una donna vincere l’eventuale resistenza della famiglia e cogliere opportunità di lavoro o di studio lontane da casa. Varie fonti confermano i risultati evidenziati dal rapporto globale: un recente sondaggio promosso da UNWOMEN, infatti, ha mostrato che in Giordania soltanto il 19% delle donne residenti nel Paese risultano al momento impiegate, nonostante la maggior parte di loro sia anche in possesso di un diploma universitario. Tra le cause principali dell’esclusione dal mercato del lavoro, le intervistate hanno riportato, oltre alle obiezioni della famiglia, anche la necessità di

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prendersi cura dei figli o della casa, che resta il principale ruolo tradizionalmente assegnato alle donne in tutta la regione. Inoltre, un quinto delle donne ha riscontrato discriminazione e il timore di essere vittima di molestie verbali o sessuali. La violenza di genere in Giordania è strutturale, radicata nella legislazione che soltanto pochi giorni fa ha iniziato a mostrare segni di profondo cedimento; il 1° agosto 2017 resterà inciso nella storia come il giorno in cui l’articolo 308 e il suo contenuto retrogrado e lesivo dei diritti umani sono stati definitivamente aboliti dalla Costituzione giordana. L’articolo in questione prevedeva la grazia per i colpevoli di stupro che avessero sposato la propria vittima e vi fossero rimasti sposati per almeno 3 anni. Alla riforma del codice penale, già sostenuta dal re Abdullah II l’anno precedente e appoggiata formalmente dal governo lo scorso aprile, manca ancora l’approvazione formale del Senato, ma c’è quella popolare e sui principali media non si è fatta aspettare la celebrazione della tanto attesa riforma, in linea con il profondo cambiamento sociale in atto

in tutto il Medio Oriente. Leggi simili sono già state abolite in Egitto, Marocco, Libano e, appena una settimana prima, in Tunisia. Va anche sottolineato l’opera di centinaia di attivisti che hanno manifestato davanti al Palazzo del Parlamento. La vera riforma da attuare, quella più complessa, impegnativa e duratura è quella delle menti: in Giordania, la violenza di genere è non soltanto tollerata o addirittura approvata in molte circostanze (in contesto domestico, ad esempio), ma anche considerata motivo legittimo di discriminazione, stigmatizzazione ed emarginazione sociale, portando moltissime vittime a non denunciare le molestie o le violenze subite per il timore delle ripercussioni a livello sociale, comunitario e familiare. Risulta infatti impossibile trovare stime accurate e recenti sugli episodi di violenza di genere proprio a causa difficoltà nella raccolta di testimonianze, ma varie fonti tra cui il Dipartimento di Statistica Nazionale e UNWOMEN riportano che almeno un terzo delle donne residenti in Giordania sono state vittime di violenza fisica, sessuale o psicologica almeno una volta


nella loro vita. Le cifre stimate salgono se si considerano i dati raccolti dalla Task Force per la Violenza Sessuale e di Genere, organismo di coordinamento per gli attori umanitari attivi nel settore SGBV (Sexual and Gender Based Violence), operativi soprattutto nell’ambito della risposta umanitaria alla crisi siriana in Giordania. All’interno della popolazione siriana, componente demografica ormai significativa del Paese con oltre 660.000 rifugiati registrati presso UNHCR presenti sul territorio giordano, si riscontra un’alta frequenza di matrimoni precoci, una pratica già comune in diverse comunità siriane e diffusa maggiormente nell’ambito della migrazione forzata come strategia d’adattamento e sopravvivenza. La pratica spesso si accompagna a varie altre forme di violenza: oltre a quella fisica e sessuale, una delle conseguenze più allarmanti è la negazione di risorse e opportunità: le cosiddette spose bambine, infatti, finiscono per dover abbandonare gli studi rinunciando, quindi, a uno stru-

mento fondamentale per la loro emancipazione: l’istruzione. Gli sforzi umanitari e di sviluppo promossi dalla collaborazione tra le autorità, i rappresentanti della società civile nazionale e la comunità internazionale per migliorare i servizi di protezione e promozione dell’uguaglianza di genere sono considerevoli, ma il cambiamento non può essere imposto; deve trovare le proprie radici nella comunità locale e germogliare. È qui che si colloca il valore straordinario della missione di Khalifeh, un esempio della forza e dell’attivismo delle donne in Giordania e in Medio Oriente, che in silenzio si è fatta strada verso i palcoscenici di tutto il mondo per sensibilizzare il proprio pubblico alle tematiche di genere e gettare luce sulle difficoltà delle donne nella regione ed in tutto il mondo. Il messaggio di Khalifeh è stato ascoltato e premiato dalla comunità internazionale: oltre ad aver ricevuto vari premi per il proprio talento come imprenditrice sociale e come leader, ha partecipato a innumerevoli con-

ferenze ed è stata invitata dal presidente Barack Obama ad una cerimonia alla Casa Bianca per il riconoscimento dei suoi sforzi esemplari per il cambiamento sociale. Khalifeh e la sua squadra, inoltre, hanno collaborato con numerose organizzazioni locali e internazionali tenendo corsi di autodifesa per rifugiate delle comunità siriane, somale e sudanesi e prendendo parte ad attività di sensibilizzazione sulla violenza di genere. Una volta aperte le porte del suo centro di Amman, quasi nascosto in una piccola traversa nella zona periferica di Khalda, si trova una fucina di cambiamento sociale e culturale dove non si misura semplicemente la prestazione atletica e il miglioramento nelle tecniche di autodifesa, ma si valorizza la crescita personale di ogni giovane donna e l’importanza di ogni voce, allenando forza, resilienza e la capacità di rivendicare i propri diritti e le proprie libertà all’interno della famiglia e della comunità. MSOI the Post • 5


INTERVISTA A LINA KHALIFEH

La fondatrice di SheFighter - primo centro per l’autodifesa femminile nel Medio Oriente ci parla di società, diritti e forza delle donne. Come è nata l’iniziativa SheFighter? SheFighter è nata nel 2012, in seguito ad un episodio di violenza di cui fu vittima un’amica con cui frequentavo l’università. La ragazza aveva subito abusi dal padre e dal fratello, e un giorno arrivò in classe con dei lividi sul volto. Si sfogò con me, ma quando le dissi che avrebbe dovuto fare qualcosa, lei continuava solo a ripetere ‘non posso’. Mi sentii impotente, e decisi che la migliore azione da intraprendere sarebbe stata allenare altre donne grazie alle tecniche di autodifesa acquisite durante i miei anni di pratica del taekwondo, disciplina a cui ho dedicato gran parte della mia vita. Grazie alle arti marziali, sentivo di potermi difendere e poter difendere i miei diritti, ma mi resi conto che molte altre donne non avevano questa possibilità. L’autodifesa è il metodo di protezione migliore, perché aiuta a sviluppare una forza interiore che si riflette anche a livello fisico. Iniziai solo con allenamenti tradi-

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zionali, per poi integrare le mie attività con laboratori, seminari sulla leadership, la motivazione, l’empowerment della comunità femminile, le molestie e la violenza domestica. È così che siamo diventate SheFighter. Adesso, la nostra missione è quella di insegnare alle donne come proteggersi grazie alle tecniche di autodifesa, ma allo stesso tempo rendiamo le nostre allieve più forti e resilienti, sia fisicamente che psicologicamente. Finora abbiamo coinvolto circa 12.000 donne e ragazze, ma il numero sta crescendo e non ci fermeremo qui. C’è stato un momento in cui hai realizzato l’impatto che SheFighter stava avendo? Una volta, la sorella di una mia allieva venne al centro per ringraziarmi. Mi spiegò che la sorella, molto tempo prima, era stata aggredita in un ascensore e da allora aveva attacchi di panico ogni volta che doveva usarne uno. Dopo aver iniziato il suo percorso con SheFighter, inve-

ce, la ragazza era gradualmente cambiata e aveva finalmente ricominciato a prendere l’ascensore. Quella visita cambiò davvero la mia giornata. Quando vedo che sto davvero portando un cambiamento nella vita delle persone, mi rendo conto di non potermi fermare qui, di non potermi lasciar scoraggiare dagli ostacoli: dobbiamo continuare, per tutte le donne che hanno bisogno del nostro sostegno. Questo mi dà la motivazione costante, queste ragazze e la loro felicità mi convincono ogni giorno del fatto che serve andare avanti, crescere ed espandere per le donne di tutto il mondo. Come vedi la Giordania in termini di uguaglianza di genere, se paragonata ad altri paesi del Medio Oriente? La religiosità qui rappresenta un ostacolo alle visioni liberali su molte tematiche. La Giordania tendenzialmente è più liberale di altri paesi del Medio Oriente come la Siria, la Libia, l’Arabia Saudita o lo Yemen. Di


recente ho ricevuto una telefonata dal Kuwait per un progetto da un’organizzazione femminile, e mi hanno spiegato che nel loro paese non esistono centri antiviolenza per donne, che invece abbiamo qui in Giordania. La Giordania si sta aprendo al cambiamento nelle dinamiche di genere e le ragazze hanno iniziato a far sentire la propria voce, ma se facciamo il confronto con altri Stati dove la società è più avanzata – in Libano, ad esempio, dove si discute di matrimoni omossessuali, diritti LGBT+, diritti delle donne – questo Paese ha ancora molta strada da fare. La tua missione ha ottenuto risonanza a livello nazionale? Di recente ho iniziato ad ottenere riconoscimento da parte della polizia, che mi ha invitata come guest speaker alla radio militare per prendere parte ad una trasmissione live. Tuttavia, non ho potuto fare a meno di notare che intorno a me tra gli ufficiali c’era una donna soltanto. Inoltre, all’interno delle forze armate le donne ricevono solo la formazione per autodifesa standard,

non ci sono misure specifiche per i membri femminili del corpo, quindi ho suggerito di organizzare delle lezioni SheFighter anche per loro. La polizia sembrava entusiasta e cercheremo di portare a termine questa iniziativa, perché sarebbe davvero straordinario contribuire all’uguaglianza di genere e i diritti femminili all’interno delle forze armate. Quale cambiamento vorresti vedere in Giordania per la comunità femminile? La Giordania deve liberarsi completamente dell’articolo 308, secondo il quale l’abuso sessuale non è perseguibile se l’assalitore sposa la vittima. (l’intervista risale a prima dell’abolizione, approvata dal Parlamento il 1° agosto scorso, nda) In Libano, ad esempio, questa procedura non esiste più grazie all’abolizione della legge. Permettiamo ancora perfino lo stupro domestico, per legge. Il problema nella società giordana è che le donne non si sostengono a vicenda, non c’è femminismo - penso ad esempio alla Tunisia, che è di-

versa dal resto dei paesi mediorientali. SheFighter sta iniziando a smuovere qualcosa, ma non possiamo scendere a protestare in piazza per i diritti delle donne perché nessuno ci sosterrebbe. È raro assistere a una protesta qualsiasi qui, figuriamoci una dimostrazione per i diritti delle donne. Il popolo ha paura e resta in silenzio. Credo inoltre che la scarsa coesione sociale in Giordania dovuta alla diversità della popolazione non giochi un ruolo positivo, perciò il popolo non si dedica ad una causa in modo omogeneo. Qui convivono giordani, palestinesi, yemeniti, siriani, iracheni; anch’io ad esempio ho ricevuto scarso sostegno perché, nonostante il mio passaporto giordano, ho origini palestinesi. Hai mai avuto allieve che hanno dovuto smettere di frequentare il centro a causa delle pressioni familiari? Assolutamente. Abbiamo molte ragazze provenienti da famiglie conservatrici, e talvolta erano le madri a ritirare le proprie figlie dai training – non parlo di MSOI the Post • 7


bambine, ma giovani donne di diciannove, vent’anni che iniziavano a cambiare il loro modo di pensare e i genitori non ne erano entusiasti. Io però non parlo mai di religione o di tematiche collegate, e sono molto severa anche col mio team- è una delle nostre policy. Un’allieva però decise di smettere di portare l’hijab, e le fu proibito di tornare a SheFighter dalla sua famiglia. La ragazza, 26 anni, si ritirò da SheFighter per circa un anno, per poi tornare al centro per ricominciare - ma stavolta senza velo. Ci sono state anche minacce da parte di padri e fratelli, a volte ci siamo dovute rivolgere alla polizia. Ci sono state anche delle allenatrici o altri membri dello staff che hanno dovuto lasciare il centro a causa delle pressioni della famiglia. Una volta, addirittura, un’allieva mi chiamò con la voce che tremava, il padre le stava puntando una pistola alla tempia. Ci volle un po’ per calmarlo, credeva che la figlia gli mentisse e frequentasse un uomo invece di venire a lezione. Parlandogli di quanto fosse forte e intraprendente la figlia e del lavoro straordinario che stava facendo su se stessa, finalmente il padre torno in sé. La ragazza, nel frattempo, è potuta tornare a frequentare il centro.

donne con disabilità e donne rifugiate. Dipende molto dalla professionalità dei team con cui lavoriamo, e alcune organizzazioni sono davvero molto attente all’impatto dei nostri progetti e non soltanto al numero di beneficiari raggiunti o di iniziative avviate. Tuttavia il potenziale di intervento dipende anche molto dai fondi: a volte, anche se le ragazze che seguono le nostre lezioni si divertono molto e mostrano grandi progressi e benefici, i progetti non possono essere estesi per mancanza di fondi, e diventa molto frustrante.

Trovi che la presenza internazionale nel paese abbia influenzato le dinamiche sociali del paese? Inoltre, come trovi il lavoro con gli attori umanitari internazionali? Ci sono sicuramente moltissimi stranieri che lavorano in Giordania al momento, ma non credo che la comunità internazionale sia abbastanza grande per influenzare in modo significativo la cultura locale. L’intervento umanitario d’altronde è straordinario, e grazie alla collaborazione con varie organizzazioni che svolgono un lavoro incredibile abbiamo avuto l’opportunità di coinvolgere gruppi vulnerabili come bambini orfani,

A volte le attività mirate all’empowerment femminile possono diventare controproducenti: si rischia di non coinvolgere la comunità maschile e alimentare un divario o un’immagine distorta degli uomini come nemici a tutti i costi. In Giordania il rischio è ancora maggiore perché non è facile far incontrare e confrontare donne e uomini. Come agisce SheFighter al riguardo? Nei nostri workshop all’Università coinvolgiamo sempre anche i ragazzi e abbiamo anche riscontrato un grande interesse da parte il pubblico maschile, quindi c’è molto sostegno e mol-

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Chi frequenta il centro? Principalmente studentesse liceali e universitarie, ma anche donne più anziane, madri, bambine e bambini. Abbiamo avuto anche tre maschi adolescenti, che hanno iniziato ad allenarsi con noi per difendersi dagli attacchi di bullismo dei loro coetanei a scuola. Nessun individuo di sesso maschile può frequentare il centro sopra i 12 anni, perché abbiamo voluto creare un ambiente dove le ragazze potessero sentirsi completamente al sicuro e non avere restrizioni imparando a proteggersi dai bulli, quindi i ragazzi hanno preso lezioni private per un anno e hanno imparato come proteggersi dalla violenza a scuola.

to confronto. Riscontriamo però anche molti doppi standard: nei dibattiti, i ragazzi di solito appaiono molto aperti e professano libertà per le donne, ma quando si parla di membri della loro famiglia – sorelle, madri, cugine – il tono della conversazione cambia, e non è più concepibile lasciar uscire una donna sola dopo il tramonto. Gli uomini in questa società sentono molto la responsabilità di proteggere le loro sorelle o mogli e preservare il loro onore. Sono passati cinque anni, molto intensi, dall’inizio del tuo percorso con SheFighter. Qual è stata la parte più dura di questo percorso? Iniziare. Semplicemente, iniziare. Ma si deve iniziare, senza pensare di dover aspettare per raggiungere alla perfezione, altrimenti l’inizio non arriverà mai. Quando avevo 23 anni e credevo di non essere pronta, qualcuno mi disse che si deve iniziare proprio da giovani, quando si hanno le energie, quando si hanno le idee. Ho ascoltato il suo consiglio senza lasciarmi inghiottire dall’ansia per la perfezione, ho pensato che avrei imparato con il tempo. Non mi sarei mai aspettata che SheFighter diventasse quello che è oggi, non mi aspettavo affatto la Casa Bianca e tutto il resto. Ho solo iniziato. Quel che conta è il lavoro quotidiano, portare a termine una parte del proprio piano ogni giorno. Dopo il primo passo, seguirà il resto e si apriranno porte, opportunità. La gente spesso mi chiede come misuro il mio successo; io rispondo ricordando come ho iniziato. Sono partita dal garage di casa mia, per poi spostarmi in ufficio che ho dovuto abbandonare dopo 6 mesi, dopo ancora affittando spazi in palestre diverse; gli altri adesso vedono solo SheFighter, e non vedono la strada che ci ha portate fin qui, gli sforzi e i sacrifici. Ma voglio continuare: stiamo cambiando il mondo.


EUROPA Il CODICE DI CONDOTTA PER LE ONG Opinioni contrastanti nel dibattito pubblico

Di Claudia Cantone Il 31 luglio 2017 si è svolto il terzo incontro tra il Ministero dell’Interno e le ONG impegnate nel salvataggio in mare dei migranti, obiettivo la firma del Codice di condotta, così come predisposto in accordo con la Commissione Europea. Il testo, il cui contenuto ha fatto molto discutere, prevede una serie di regole applicabili al lavoro delle ONG nelle acque del Mediterraneo; tra queste vi è il divieto di entrare nelle acque libiche a meno che non si tratti di “situazioni di grave e imminente pericolo che richiedano assistenza immediata” e sempre che non ostacolino “l’attività di search and rescue da parte della Guardia costiera libica”. Sono due i punti dell’accordo che hanno suscitato maggiori perplessità: la previsione del divieto di trasbordo, ovvero non sarà possibile trasferire le persone soccorse da un’imbarcazione ad un’altra (con l’unica eccezione per i casi in cui sia richiesto dal Centro di coordinamento marittimo) e, soprattutto, l’obbligo di accogliere a bordo gli ufficiali di polizia se impegnati in indagini relative al traffico di esseri umani.

In una lettera aperta a Marco Minniti, Medici Senza Frontiere ha spiegato la propria scelta di non firmare il Codice: il testo sarebbe troppo vago e non affermerebbe “con sufficiente chiarezzalaprioritàdelsalvataggio in mare”, non riconoscerebbe “il ruolo di supplenza svolto dalle organizzazioni umanitarie” e, soprattutto, non si proporrebbe di “introdurre misure specifiche orientate in primo luogo a rafforzare il sistema di ricerca e soccorso”. Inoltre, il divieto di trasbordo comporterebbe una serie di complicazioni nell’organizzazione delle operazioni di salvataggio e vi sarebbero “aggravi non necessari alle navi di soccorso non predisposte per operare regolarmente i trasferimenti a terra delle persone”. Altra ragione che ha spinto MSF a scegliere di non aderire è l’impossibilità di accettare a bordo ufficiali di polizia armata, dato che tale imposizione sarebbe contraria alla politica “no weapons” adottata dall’organizzazione. Di segno opposto, invece, Save the Children e MOAS (Migrant Offshore Aid Station) che hanno sottoscritto il documento, mentre Proactiva open arms ha comunicato con una lettera la volontà di aderire

all’accordo. In un colloquio con il quotidiano La Stampa, il Ministro dell’Interno, commentando positivamente sia il Codice sia le altre misure adottate dall’Italia per frenare l’arrivo di migranti e lo g human traffickin , ha citato gli accordi con la Libia per bloccare la partenza di navi dalle coste libiche con il supporto della Marina Militare Italiana. In seguito ha aggiunto: “Se le ONG nonfirmano,difficilmente potranno continuare ad operare”. Il presidente del Consiglio italiano, Paolo Gentiloni, ha rafforzato la linea del ministro Minniti, dopo uno scontro con il Ministero delle Infrastrutture, affermando che “grazie alla strategia d’insieme sull’immigrazione adottata dal governo vince lo Stato e perdono gli scafisti”. Intanto, arrivano riscontri anche dall’Europa: il presidente del Parlamento Europeo, Antonio Tajani, ha definito “indispensabile” l’adozione del Codice di condotta, alla luce di vicende che “creavano preoccupazioni e sospetti” (si alludeva forse alle inchieste della magistratura italiana sulla nave Iuventa della ONG Jugend Rettet). MSOI the Post • 9


EUROPA THE RISE OF EUROPEAN SOFT POWER

An opportunity for European values and ideas, at the expense of US supremacy

By Lola Ferrand On July 17th 2017, the Soft Power 30 index published by Portland Communications and the US Centre on Public Policy saw France ranked 1st in terms of soft power. France’s rise from 5th to first place is in part attributed to the influence of newly elected President Emmanuel Macron, but is also based on the vast French diplomatic network, which the county has built and strengthened throughout the years, as well as an influential position in multilateral and international institutions. The index ranks two other European countries, the UK and Germany, respectively 2nd and 4th, the US falling from 1st to 3rd place for the first time. The index ranked countries regarding the influence of their government, culture, cuisine, foreign policy, sporting achievements, but also their perceived capacity for economic innovation and attractiveness for both tourists and foreign students. These things make up what scholars call “soft power”, which is a concept developed by Joseph Nye of Harvard University in the late 1980’s 10 • MSOI the Post

to describe the ability to shape the preferences of others through appeal and attraction rather than by using force or giving money as a means of persuasion (hard power). Commenting on this years report, Nye said “The results of this year’s Soft Power 30 reflect the changing balance of global influence. Europe has regained its confidence. At the same time, President Trump’s drive to put ‘America First’ continues to undermine US soft power”. In the field of soft power, the ability of Europeans to educate foreign students, set global constitutional norms and institutions and offer safe and prosperous living and travelling conditions contribute to a common European influence in the world. Europe hosts 27 of the world’s top 100 universities, and exceeds all other nations in educating foreign students. Opening European universities to outsiders has been influential, as it enables European ideas and practices to be exported around the world. Furthermore, Europe wields global admiration for its social, cultural, and lifestyle values. European languages also contribute to its attractiveness, French and

Spanish being popular second languages taught across the world. Sporting achievements are also a strong vector of soft power, European football being one of the most watched events on television, but also the fact that European countries combined always win the most medals in winter and summer Olympics. Another important type of soft power is the construction of multilateral institutions that are attractive to join. The European Union and its numerous bilateral agreements are Europe’s most renowned institutions, but the continent also has an influence in managing economic interdependence, human rights, the environment, development, and health at a global level. According to Nye’s definition of a superpower, in which soft power is as important as hard power, the rise of soft power in Europe could be the premises of truly influential European ideals, values and policy making throughout the world. This could be a real opportunity for Europe and the EU, in the days of an unpredictable American President, to gain importance and recognition as a true superpower.


NORD AMERICA DIREZIONE QUÉBEC

Il sistema canadese affronta l’inarrestabile flusso migratorio proveniente dagli Stati Uniti

Di Erica Ambroggio “Durante le ultime settimane il numero dei richiedenti asilo si è triplicato”. Con queste parole, Kathleen Weil, Ministro dell’Immigrazione e delle Comunità culturali del Québec, ha richiamato l’attenzione locale ed internazionale sull’imponente fenomeno migratorio che ha recentemente interessato la provincia canadese. Il trend è stato descritto giovedì 3 agosto dal ministro Weil, in occasione di una conferenza stampa tenutasi nella città di Montréal, come inarrestabile e destinato a crescere nel corso dei mesi. Weil ha infatti sottolineato che, a partire dall’inizio dell’anno, il Québec ha ricevuto e accolto più di 6.500 richiedenti asilo. Se la tendenza non dovesse cambiare verso, entro la fine del 2017 si potrebbe arrivare a contarne 12.000. Weil ha comunque assicurato che il governo del Québec e quello federale sono costantemente in contatto e dediti ad una stretta collaborazione, oggi più che mai necessaria, per ottenere una massima e ottimale gestione del flusso. L’aumento

del personale di frontiera, la capillare attenzione alle singole richieste di asilo e la costante attività di background investigation, avrebbero dovuto consentire allo Stato canadese di tenere la situazione sotto controllo. L’ultima ondata migratoria, tuttavia, ha messo a dura prova l’intero sistema. Nelle ultime due settimane, infatti, un imponente flusso di profughi di nazionalità haitiana ha varcato il confine del Québec cercando accoglienza e scappando dall’America di Trump. Molti di loro, accolti negli Stati Uniti nel 2010 a seguito del devastante terremoto che li colpì in patria, hanno preferito dirigersi verso il nord del Paese, temendo di perdere il Temporary Protected Status concesso dagli Stati Uniti, in scadenza a gennaio. La capacità di trasformare lo stadio olimpico di Montréal in un luogo di accoglienza munito di posti letto e di ogni fondamentale servizio e le manifestazioni di solidarietà che si sono svolte, domenica 6 agosto, nella medesima città, non sono bastate ad evitare critiche e le polemiche. Secondo i detrattori, il sistema canadese sarebbe

strutturalmente inidoneo a gestire efficientemente il fenomeno in atto. L’opposizione politica, infatti, rivolge le proprie attenzioni verso il premier Trudeau, accusandolo di aver trasformato il Paese in “caos” e imputandogli la responsabilità per il possibile sovraccarico di procedure e istituzioni, capace di condurre l’intero apparato di accoglienza al collasso. “Il primo ministro Trudeau, a danno dell’intera comunità, è eccessivamente compassionevole e lo è senza avere un piano per gestire il problema”, ha affermato Blake Richards, esponente del Partito Conservatore Canadese. Nonostante ciò, lo sforzo operato dalle autorità locali e federali parrebbe in grado di superare gli ostacoli, concentrandosi interamente sull’accoglienza da riservare alle migliaia di persone in fuga dagli Stati Uniti. “Con oltre 150 richieste di asilo ricevute ogni giorno, il sistema resiste e reagisce adeguatamente al fenomeno”, ha dichiarato Ahmed Hussen, responsabile federale dell’Immigrazione, dei Rifugiati e della Cittadinanza. MSOI the Post • 11


NORD AMERICA IL NUOVO NAFTA TRA VECCHI RANCORI E NUOVE SFIDE Quali saranno le principali sfide per i negoziatori?

Di Alessandro Dalpasso Il prossimo 16 agosto il presidente statunitense Donald Trump, insieme a Justin Trudeau ed Enrique Pena Nieto, sue controparti canadese e messicana, si ritroveranno per ridiscutere il NAFTA (North America Free Trade Agreement), accordo commerciale e di libero scambio che lega gli Stati Uniti e i due stati limitrofi a Nord e a Sud. Negli ultimi mesi siamo stati abituati ad una retorica aggressiva, in particolare contro (alcuni) vicini degli States. Soprattutto nei confronti del Messico, i toni sono stati spesso sopra le righe, vuoi per la promessa di isolare il Paese dietro un muro da miliardi di dollari, vuoi per la severissima presa di posizione contro l’immigrazione a cui il tycoon ha fatto spesso appello prima e dopo a campagna elettorale. Al di là degli slogan elettorali, tuttavia, quando il Presidente ha poi adottato misure concrete esse hanno colpito non a Sud, ma anche a Nord. A poche settimane dal suo insediamento, per esempio, Trump ha applicato una tassa del 20% sulle importazioni

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di legname canadese. Qualche mese dopo, un ulteriore aliquota del 7% è stata imposta nello stesso settore. A fine maggio è toccato agli allevatori, che secondo Trump: “si limitano ad approfittarsi dei lavoratori e delle energie statunitensi”. In un clima di j’accuse verbali, la ripresa dei negoziati è avvenuta per merito del governo messicano, che la settima scorsa ha reso pubblici alcuni dei propri obiettivi in vista dei negoziati sul NAFTA. Innanzitutto, Città del Messico si propone di contrastare, insieme al Canada, l’eliminazione del meccanismo di risoluzione delle controversie conosciuto come “Capitolo 19”, che prevede l’istituzione di un forum specifico per l’anti-dumping, su istanza di uno dei Paesi membri. Unitamente a ciò l’accento sarà posto su piccole imprese e sulla digital-economy. La strategia del governo canadese sarebbe invece quella di diventare, ove possibile, l’alternativa al governo a stelle e strisce. Così, mentre Trump ritira gli USA dagli accordi della COP21 di Parigi, il Canada vorrebbe guidare le discussioni e le trattative su cambiamento

climatico, ambiente e rinnovabili. In aprile, il Sierra Club Canada Foundation ha presentato una lista di 8 punti sui “Cambi essenziali a un accordo climaticamente distruttivo” (Essential Changes to an Environmentally Destructive Deal). Secondo questo report, che sarà usato come base dai negoziatori canadesi, “ogni accordo che rimpiazzerà il NAFTA dovrà creare un terreno su cui, ciascuna parte, dovrà impegnarsi per garantire il rispetto delle norme in materia ambientale presenti a livello nazionale ed internazionale, incluso l’Accordo di Parigi”. L’8 agosto, ad una settimana esatta dall’apertura dei negoziati, il New York Times ha pubblicato un dossier sul cambiamento climatico che avvalora le posizioni del governo Trudeau. Il documento, infatti, a firma di 13 agenzie federali statunitensi, sebbene non ancora approvato dalla Casa Bianca, dimostra come il cambiamento climatico sia reale e soprattutto come, alcuni dei disastri legati alle condizioni atmosferiche, siano direttamente collegabili ad esso.


MEDIO ORIENTE IL GENERALE HAFTAR CONTRO LA MISSIONE ITALIANA NEL MEDITERRANEO

“Bombardare le navi italiane”, la minaccia. Intanto anche Tripoli prende le distanze

Di Martina Scarnato Mercoledì 2 agosto il Parlamento italiano ha deliberato il via per la missione di supporto alla Guardia Costiera libica con lo scopo di fermare i flussi sempre più ingenti di migranti che attraversano il Mediterraneo. La missione stessa sarebbe stata richiesta, tramite una lettera inviata il 23 luglio al governo italiano, dal governo di unità nazionale di Tripoli, con a capo Fayez al-Sarraj. Stando a quanto riporta Il Corriere della Sera, l’Italia avrebbe messo a disposizione 6 navi, una comando e 5 più piccole, per sorvegliare le acque libiche. L’obiettivo principale sarebbe quello di fermare i migranti in partenza dalle coste libiche: a questo scopo, i vascelli italiani potranno fermare le imbarcazioni che cercano di attraversare il confine delle acque nazionali, ma non potranno respingerle. Qualora si verificassero situazioni di pericolo, le autorità italiane dovranno attuare delle operazioni di salvataggio e riportare i migranti in terra libica. La missione ha, dunque, il secondo obiettivo di limitare il lavoro svolto dalle navi delle ONG,

che soprattutto in tempi recenti sono state accusate di favoreggiare la migrazione clandestina. Tuttavia, la missione sarebbe stata percepita dal generale Khalifa Haftar, l’uomo che tramite il governo di Tobruk controlla la parte orientale del Paese, come una vera e propria “violazione della sovranità internazionale” libica, nonostante Tripoli sia d’accordo. Di conseguenza, come riporta l’emittente panarabo Al-Arabiya, fonte vicina al Generale, questi avrebbe ordinato di bombardare le navi italiane. Le probabilità che ciò possa effettivamente accadere sono però molto contenute: è infatti improbabile che il generale Haftar voglia rischiare un confronto armato con un Paese europeo. Inoltre, le autorità italiane hanno etichettato tali dichiarazioni come “inattendibili” ed “infondate”, poiché la missione sarebbe stata richiesta dallo stesso al-Sarraj, capo dell’unico governo libico riconosciuto dalla comunità internazionale. L’ambasciatore italiano a Tripoli, Giuseppe Perrone, in un’intervista al Corriere della Sera, ha dichiarato che le minacce del generale non fermeranno

la missione italiana e ha ribadito che la missione non è di natura militare, ma di assistenza alle autorità libiche. “È una missione che serve a rafforzare la sovranità libica, non a indebolirla” ha affermato. Ciononostante, anche il vice di al-Sarraj, Fathi al-Mejbari, si è pronunciato contro la missione. Secondo le sue stesse parole, essa costituirebbe “un’infrazione esplicita dell’accordo politico” e non esprimerebbe “la volontà del Consiglio presidenziale del governo di intesa”. Il vicepresidente avrebbe in seguito chiesto all’Italia di cessare qualunque attività di pattugliamento nelle acque libiche. Avrebbe, inoltre, chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di prendere una posizione sulla missione italiana. Attualmente la questione della gestione dei migranti nel Mediterraneo appare più che mai complessa: secondo i dati del giornale Le Monde, dal primo gennaio sarebbero circa 95.000 le persone salvate mentre attraversavano il Mediterraneo, mentre 2.300 avrebbero perso la vita. MSOI the Post • 13


MEDIO ORIENTE IL GIOCO DEGLI SPECCHI IN GIORDANIA

I diritti della comunitá LGBT+ messi a rischio nel Regno Hashemita

Di Martina Terraglia Euforia in Giordania per l’abolizione della 308, la legge che stabiliva la possibilità di condono della pena per lo stupratore che avesse sposato la vittima. Intanto, altre iniziative sono passate in secondo piano. Un documento del 24 luglio scorso, firmato dal Ministro dell’Interno, rappresenta una minaccia alle associazioni e iniziative che nel Regno operano in difesa dei diritti della comunità LGBT+. Il documento, indirizzato al Ministero degli Affari Politici e Parlamentari, cita a sostegno delle decisioni contenute precedenti documenti emessi dal Primo Ministro e dal Capo del Parlamento in risposta a una richiesta della parlamentare Dima Tahboub. Il nome della MP Tahboub, esponente dei Fratelli Musulmani, non è nuovo alla discussione sui diritti LGBT+ in Giordania. Nell’estate del 2016, My.Kali – il primo magazine digitale LGBT in Nord Africa e Medio Oriente – era stato bloccato a seguito delle forti pressioni dell’opinione pubblica. Un anno dopo, la MP Tahboub ha denunciato il webzine, descrivendo la rivista come shawath, “pervertiti, deviati”. La discussione è proseguita sui social con toni molto accesi, fino a giungere al documento 14 • MSOI the Post

del 24 luglio. Cosa dice questo documento? L’islam e i principi islamici vengono riconfermati il fondamento del Paese, anche sul piano giuridico, attraverso l’applicazione della shari’a e del fiqh, le fonti tradizionali della giurisprudenza islamica. Nota: abbiamo letto la costituzione, e per quanto l’islam venga definito come la religione di Stato, in nessun punto la shari’a e il fiqh vengono dichiarati la fonte della legge che governa il Paese. I tribunali shariatici, invece, sono regolamentati, e possono intervenire in questioni che riguardino lo statuto personale dei cittadini musulmani, i casi di pagamento di sangue in cui entrambe le parti siano musulmane, e le questioni relative al waqf, le fondazioni pie islamiche. Il documento dichiara illegale qualsiasi attività, associazione, organizzazione, pubblicazione che difenda o si attivi per i diritti della comunità LGBT+. Il tutto sulle basi di una legge che, secondo la nostra lettura della costituzione, non dovrebbe essere ufficialmente implementata in Giordania. Altra nota: una legge del 1951 dichiara legale la sodomia consensuale. La sodomia, però, è un atto, mentre sembrano messi a rischio la sicurezza e

i diritti dell’identità LGBT+. Il documento non fa alcuna menzione di pene, multe e condanne da applicare in caso di trasgressione. Eppure, sebbene non vada considerato come una definitiva modifica del codice penale, rappresenta una minaccia alle libertà di azione e di associazione all’interno della comunità LGBT+, in un Paese in cui lo scorno sociale e culturale è molto presente. Un’ultima considerazione. Se i contenuti di questo documento dovessero essere approvati ufficialmente, verrebbe creato un precedente per il superamento dei codici civili da parte della shari’a, innalzando il rischio di conservatorismo nel Paese. La discussione che dovrebbe circondare questo documento (ma che ancora non esiste) dovrebbe ricordarci come la difesa dei diritti di un individuo, un gruppo, una minoranza siano fondamentali per la difesa dei diritti dell’intera comunità. NdR: Ringraziamo la drammaturga Amal Khouri per le critiche ed i suggerimenti dati per la traduzione e la conmprensione del documento e delle sue implicazioni in Giordania.


RUSSIA E BALCANI SKOPJE TENDE LA MANO A SOFIA

Il trattato di buon vicinato nasconde uno scenario complicato

Di Andrea Bertazzoni Lo scorso primo agosto Bulgaria e Macedonia, in occasione della visita a Skopje da parte del Primo Ministro bulgaro, hanno firmato il cosiddetto “accordo di buon vicinato”. Il documento è stato definito dai principali attori internazionali come un passaggio storico per l’evoluzione delle relazioni, non solo fra i due Paesi coinvolti, ma anche rispetto alle organizzazioni internazionali. La comunità internazionale, in particolare l’Unione Europea, ha accolto con favore la notizia della firma dell’accordo, che indubbiamente riveste un ruolo importante in chiave europea, soprattutto per l’ex Repubblica jugoslava. Con l’intesa raggiunta, i due Paesi balcanici vogliono impegnarsi a porre fine alle divergenze che contraddistinguono ancora oggi le loro relazioni e mirano a migliorare i loro rapporti economici, mettere da parte le rispettive pretese territoriali e lavorare sulle principali questioni legate ai diritti dell’uomo e delle minoranze. Tuttavia l’intesa, per quanto possa rappresentare un segnale importante, riguarda due Paesi che ancora oggi hanno opinioni

differenti in merito a numerose questioni e che hanno vissuto diversi momenti di tensione nell’ambito delle loro relazioni. Le posizioni della Macedonia nel contesto europeo della Penisola balcanica, nonostante le ridotte dimensioni dell’ex Repubblica jugoslava, possono rivelarsi ambivalenti su molti fronti. Sofia, nonostante non si sia formalmente opposta alla stesura del documento anche in lingua macedone, ha sempre considerato quest’ultima un dialetto della lingua bulgara ed ha assunto molto spesso un atteggiamento paternalistico nei confronti di Skopje, che è da molti considerata il capoluogo di un territorio appartenente alla Bulgaria. La firma di questo accordo smaschera per questo un altro percorso di riconoscimento che la Macedonia potrebbe aver intrapreso. Il malcontento dei cittadini macedoni negli ultimi tempi era cresciuto a causa della complicata situazione politica interna, a seguito del risultato positivo ottenuto dai partiti delle minoranze albanesi alle elezioni del dicembre 2016. A ciò si sono aggiunte le non brillanti relazioni con i Paesi limitrofi, in primo luogo con la Grecia: la penisola ellenica

ancora oggi non si dà pace per le questioni spinose che sono emerse all’indomani dell’indipendenza macedone dalla Repubblica di Jugoslavia, alla quale rimprovera ad esempio il nome ufficiale dello Stato che ricorda la regione settentrionale greca con capoluogo Salonicco e l’utilizzo del Sole di Verghina sulla bandiera nazionale, fortemente legato alla tradizione e alla cultura elleniche. Se quindi la Macedonia si rivela invisa a un membro dell’Unione Europea, la firma del trattato di buon vicinato con la Bulgaria, permetterebbe al governo macedone di sedersi al tavolo delle trattative per iniziare il processo di adesione con un altro membro, che nel corso dei primi sei mesi del 2018 avrà la presidenza di turno della Commissionee potrà quindi inserire in nella propria agenda le intenzioni riguardanti il Paese adiacente. Dal punto di vista geografico, inoltre, la Macedonia si trova nello scacchiere balcanico delle ex Repubbliche jugoslave, dove la situazione è tutt’altro che definita e tranquilla. Risulta quindi prematuro parlare del trattato di buon vicinato come se ogni screzio fosse stato chiuso in un cassetto.

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RUSSIA E BALCANI IL KOSOVO SULL’ORLO DI UNA CRISI DI GOVERNO La maggioranza ancora senza un Presidente della Camera

Di Adna Camdzic In seguito alla caduta del governo in Kosovo, lo scorso giugno il presidente della Commissione Elettorale Centrale (CEC) del Kosovo annunciava i risultati finali delle elezioni parlamentari: la coalizione PAN si aggiudicava il primo posto, con il 33,7% dei voti. Si posizionava al secondo posto Vetevendosje, seguito dalla coalizione LAA. Come conseguenza dei risultati, la rappresentanza nella nuova legislatura spettava a PAN, una coalizione di 14 partiti, guidata dal Partito Democratico del Kosovo (PDK), dall’Alleanza per il Futuro del Kosovo (AAK) e dall’Iniziativa per il Kosovo (NISMA), che sarebbe stata rappresentata da soli 39 parlamentari. In un articolo di Prishtina Insight, Adelina Ahmeti, sottolineava una delle difficoltà cui sarebbe andataincontrolacoalizionevincitrice. Seguendo una decisione della Corte Costituzionale del 2014, l’entità politica con la maggioranza dei voti alle elezioni, avrebbe avuto il diritto di presentare un candidato alla carica di Primo Ministro, dopo la nomina del Presidente della Camera. Per formare un governo, PAN avrebbe avuto bisogno di raccogliere un 16 • MSOI the Post

minimo di 61 voti in Parlamento (su 120), quasi impossibile, a meno che non avesse formato una coalizione con altri partiti minori. In caso di un insuccesso da parte della maggioranza, il Presidente, Hashim Thaci, avrebbe potuto invitare il secondo partito più grande a formare il governo, ma si era affrettato a scartarel’ipotesi. Albin Kurti, membro di Vetevendosje, si presentava come il candidato prescelto. In seguito alle elezioni, Kurti aveva rilasciato una dichiarazione durante una conferenza stampa, in cui affermava in tono provocatorio che nessuna istituzione statale, nemmeno il Presidente del Kosovo, Hashim Thaci, avrebbe potuto ostacolare la formazione di un governo guidato da Vetevendosje. Escludeva, inoltre, la probabilità che PAN e il suo partito unissero le proprie forze. La prima sessione della legislatura si è tenuta il 3 agosto. Come si temeva, PAN, dopo circa due mesi dalle elezioni, sembra aver fallito nel suo compito e il Presidente della Camera ancora non è stato scelto. Di conseguenza, si presume che la coalizione non abbia ancora trovato i numeri necessari per governare, non potendo ancora

nemmeno nominare il prossimo Primo Ministro. I funzionari dell’Unione Europea e delle altre istituzioni occidentali sono preoccupati. L’attuale situazione porterebbe a pensare che il Kosovo sia, nuovamente, sull’orlo di una crisi politica, simile a quella che il Paese aveva dovuto affrontare dopo gli inconcludenti risultati delle elezioni del 2014. In quell’occasione, la votazione non aveva prodotto un vincitore, ritardando la formazione del governo di ben 9 mesi. Una possibile soluzione potrebbe essere data dalla decisione di Thaci di lasciare a Ramush Haradinaj, il leader dell’Alleanza per il Futuro del Kosovo, l’incarico. Lo stesso Thaci ha riferito a RFE/RL (Radio Free Europe/ RadioLiberty) che quest’ultimo avrebbe i numeri necessari per ottenere la maggioranza dei voti in Parlamento. Haradinaj, ex premier kosovaro, viene ricordato per essere stato assolto due volte dal tribunale internazionale dell’Aja, ma rimane tuttora accusato dalla Serbia per i massacri compiuti durante la guerra in Kosovo. La sua vittoria non sarebbe per nulla favorevole ad una distensione dei rapporti tra Belgrado e Pristina.


ORIENTE STESSO COPIONE, UPGRADE TECNOLOGICO La Corea del Nord procede con i test balistici

Di Alessandro Fornaroli Il 5 agosto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità un rafforzamento delle sanzioni verso la Repubblica Popolare Democratica di Corea. Gli eventi sottoposti al vaglio assembleare sono i lanci missilistici di raggio intercontinentale del 3 e del 28 luglio. La proposta di risoluzione, avanzata dagli Stati Uniti, prevede un bando all’export di carbone, acciaio e minerale di ferro. L’embargo, inoltre, obbliga gli Stati membri dell’ONU a non incrementare il numero di lavoratori di nazionalità nordcoreana e a non stabilire joint ventures con aziende di Pyongyang. Secondo alcune stime, tali misure potrebbero penalizzare di un terzo i circa tre miliardi di dollari relativi all’export nazionale. Il sostegno della Cina, principale partner economico della Corea del Nord, è stato ricostruito attraverso un mese di negoziati con gli Stati Uniti che ha preceduto la votazione in seno al Consiglio. Pechino avrebbe dichiarato di sostenere pienamente il blocco commerciale, sottolineando tuttavia come questo non possa rappresentare una soluzione

definitiva. Il governo cinese ha chiesto a Washington e Seoul una mitigazione delle tensioni, auspicando che ogni Paese tenga sotto controllo le attività militari. L’obiettivo ultimo sarebbe il ritiro del sistema missilistico THAAD (Terminal High Altitude Area Defense) dal suolo sudcoreano. Intanto, però, l’impiego del THAAD e le relative esercitazioni continuano – soprattutto da parte statunitense. Un inizio di dialogo sembrava essersi instaurato durante l’Asia Regional Forum di Manila dove, durante la cena di gala, il ministro degli Esteri sudcoreano KangKyung-Wha ha chiesto al suo corrispettivo nordcoreano Ri Yong-Ho di rispondere alle proposte di Seoul per migliorare i rapporti. Il rappresentante di Pyongyang ha però accusato l’omologo sudcoreano di mancare di sincerità, dal momento che la Corea del Sud sta collaborando con gli USA nell’imposizione di sanzioni verso il nord. Durante lo stesso Forum, il responsabile della diplomazia nordcoreana ha inoltre incontrato Wang Xi, ministro degli Esteri cinese. Questi avrebbe chiesto a Ri Yong-Ho di considerare la nuova risoluzione delle Nazioni Unite e di interrompere i test missilistici e nucleari

che violano i provvedimenti dell’ONU e le richieste della comunità internazionale. Secondo Xi, per superare la situazione di impasse e vedere una ripresa dei negoziati sarebbe infatti necessario che le parti si impegnassero a mantenere un livello di tensione contenuto. Per spiegare compiutamente il concetto, il diplomatico ha impiegato una metafora “ferroviaria”. Le Coree rappresenterebbero due treni in corsa alla massima velocità su un unico binario: per evitare la collisione, si devono intraprendere due strade, quella del “doppio stop” e quella del “doppio binario”. La prima prevede la cessazione dei test missilistici, delle esercitazioni militari tra sudcoreani e americani e la rinuncia degli USA a installare il sistema balistico THAAD. La seconda, invece, è rappresentata dalla maggior pressione internazionale e dalla ricerca biunivoca di un dialogo meglio strutturato. La Cina si discosterebbe dunque dalla visione occidentale, che attribuisce la responsabilità unicamente alla Corea del Nord. In quest’altra ottica, anche gli Stati Uniti e la Corea del Sud avrebbero ricoperto un ruolo significativo nello sviluppo di instabilità e tensioni. MSOI the Post • 17


ORIENTE NUOVO GOVERNO IN PAKISTAN

L’esecutivo guidato da Abbasi dovrà condurre il Paese alle prossime elezioni

Di Tiziano Traversa

mutamenti in Pakistan.

Il 28 luglio la Corte suprema di Islamabad ha decretato l’interdizione dai pubblici uffici del primo ministro Nawaz Sharif. La decisione della Corte è stata presa a seguito dello scandalo dei Panama papers: secondo le fonti ufficiali, l’ex Premier e la sua famiglia sarebbero coinvolti in diverse attività finanziarie illecite. La Corte suprema ha definito “disonesto” il comportamento di Sharif, ritenendo inammissibile il coinvolgimento di un Primo Ministro in simili attività.

Per anni, infatti, la leadership di Sharif – inframmezzata da governi brevi e di scarso impatto – ha influenzato profondamente la politica della nazione. Tre volte Premier, a partire dal 1990 Sharif ha ricoperto la carica per 10 anni. Nonostante il favore popolare di cui l’ex Primo Ministro ha spesso goduto, alcune sue scelte politiche hanno contribuito ad alimentare le tensioni interne. Ad esempio, gli aiuti finanziari di Riyad – frutto degli stretti rapporti di Sharif con l’Arabia Saudita – hanno reso possibile la costruzione di importanti moschee e scuole coraniche che, secondo alcuni analisti, avrebbero favorito l’insorgere di gruppi religiosi estremisti. Tra le conseguenze di questo sviluppo vi sarebbe anche l’accresciuta intolleranza religiosa in Pakistan. Inoltre, durante gli anni del governo di Sharif, la debole attività diplomatica ha portato ad un peggioramento dei rapporti tra India e Pakistan – con preoccupanti episodi di violenza nelle zone di confine tra i due Stati.

Dopo le dimissioni del Premier, è stato nominato primo ministro ad interim Shahid Khaqan Abbasi, membro del partito di maggioranza (Lega Nazionale Pakistana) ed ex Ministro con delega al petrolio nel precedente governo. Abbasi è una figura diversa dal suo predecessore: laureato in ingegneria negli Stati Uniti, ha lavorato in Arabia Saudita e in Pakistan come manager e ha successivamente fondato una compagnia aerea. Ha idee marcatamente nazionaliste e più volte si è espresso negativamente sulla dipendenza di Islamabad dai Paesi esteri. Secondo alcune analisi interne, il recente cambio al vertice determinerà alcuni significativi

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Il nuovo governo, insediatosi il 4 agosto, è formato principalmente da Ministri già opera-

tivi nel governo precedente. Il premier Abbasi guiderà la nazione sino alle elezioni del 2018 e dovrà svolgere un intenso lavoro per riuscire a conquistare la fiducia della popolazione – al momento schierata in maggioranza con l’ex Premier. Il nuovo governo si trova a fronteggiare numerose problematiche interne, legate principalmente al terrorismo, all’estremismo jihadista e all’intolleranza tra etnie differenti. Inoltre, la debolezza istituzionale nei territori periferici si risolve in continui episodi di violenza interna. Abbasi ha tuttavia affermato che buona parte degli sforzi del nuovo governo si focalizzeranno sulle questioni di politica estera. Il nuovo Primo Ministro ha confermato di voler limitare la situazione di dipendenza economica del Pakistan, ritenendo che per anni Islamabad abbia accettato in modo passivo le decisioni politiche prese da governi esteri. In parallelo, però, il Premier si è dichiarato disponibile ad una stretta collaborazione con l’Afghanistan nella lotta al terrorismo e ha auspicato la riapertura del dialogo con l’India. L’obiettivo, in questo caso, sarebbe quello di superare almeno in parte gli storici contrasti.


AFRICA KAGAME VINCE LE PRESIDENZIALI I rwandesi riconfermano il Presidente uscente

Di Guglielmo Fasana Sebbene non fossero in molti a dubitare che Paul Kagame avrebbe vinto le elezioni presidenziali in Rwanda, tenutesi lo scorso 4 agosto, il fatto che abbia ottenuto il 99% dei consensi porta inevitabilmente ad interrogarsi sullo stato di salute della democrazia nel Paese. Non di rado, al leader rwandese è stato attribuito il merito di aver risollevato le sorti della nazione, deturpata da uno dei più gravi genocidi della storia contemporanea, nel quale si stima che abbiano perso la vita circa 1 milione di cittadini membri dell’etnia Tutsi. Paul Kagame, tuttavia, viene spesso descritto dai media internazionali come un capo dispotico, che, per mantenere salda la presa sul potere di cui si è impadronito nel lontano 2000, avrebbe messo a tacere le forze di opposizione adoperando pratiche che poco si addicono ad uno Stato democratico quale il Rwanda odierno si fregia di essere (mira ad incarnare lo spirito del “miracolo economico” africano). Forte

di

un

supporto

incontrastato tra ampissime fasce della popolazione, nel 2015 Kagame ha indetto un referendum per modificare la Costituzione del Paese. Ed è proprio grazie al successo nella suddetta consultazione che ha potuto nuovamente presentarsi come candidato alle presidenziali di quest’anno. Inoltre, quando il suo mandato giungerà a scadenza, tra 7 anni, in virtù degli stessi emendamenti, non gli sarà precluso di presentarsi per due ulteriori mandati quinquennali. A conti fatti, qualora la sua popolarità dovesse mantenersi stabile ai livelli attuali, il longevo Presidente sarebbe autorizzato a rimanere in carica fino al 2034. La comunità internazionale ha seguito con occhio critico la strategia adottata dal Presidente e non sono mancate critiche sia da parte dell’Unione Europea e degli Stati Uniti sia da parte di ONG come Human Rights Watch. I primi hanno contestato l’esito del voto, invitando Kagame a non ripresentarsi per non sbarrare la strada ai leader delle nuove generazioni, mentre l’ONG ha accusato il governo di soffocare la libertà di espressione, dissenso e opposizione.

Oggi, il Rwanda appare più che mai diviso. Si tratta di un Paese dal duplice volto, nel quale la maggior parte dei cittadini sembra restia a criticare i metodi del Capo di Stato, che è stato capace di riportarli sulla buona strada, facendoli gradualmente uscire dal baratro della violenza settaria e dalla povertà estrema. Nel Paese, peraltro, molti cittadini percepiscono il clima austero e di paura instaurato dal Presidente e perciò, pur non volendo apertamente rinnegare Kagame, praticano una sorta di auto censura in cambio della garanzia di un futuro di stabilità politica. Nuovi e scintillanti edifici vengono costruiti nella capitale Kigali, simbolo tangibile di una crescita economica che si attesta attorno al 7% annuo e che non accenna a frenare, anche grazie all’impulso dei capitali provenienti dall’estero. Non brillano, però, altrettanto le cifre relative alla povertà: il Rwanda, infatti, rimane tutt’oggi uno dei Paesi più poveri del mondo, con un Indice di Sviluppo Umano pari a 0,483 e livelli di corruzione elevatissimi. MSOI the Post • 19


AFRICA KENYA: IL NUOVO ESODO

Migliaia di persone lasciano la capitale Nairobi temendo nuove violenze dopo le elezioni dell’8 agosto

Di Jessica Prieto A Nairobi, la capitale del Kenya, sembra tornare la minaccia di una possibile guerra civile. Nei giorni successivi le elezioni presidenziali, che si sono svolte l’8 agosto, migliaia di persone lasciano la capitale per dirigersi in zone “meno esposte”come Kakamega, Mumias e Bungoma, città che si trovano nell’estremità occidentale dello Stato keniota, al confine con l’Uganda. Il fenomeno sta divenendo così massiccio che alcuni giornalisti lo descrivono come un “nuovo esodo”. La motivazione principale che spinge gli abitanti a fuggire è il timore di nuove violenze simili a quelle verificatesi tra il 2007 e 2008. In quegli anni, dopo le elezioni che decretarono la vittoria dell’ex presidente Kibabi (sconfitto alle elezioni del 2013 dall’attuale presidente Uhuru Kenyatta), il Paese fu sull’orlo di una guerra etnica. All’indomani dei risultati elettorali si verificarono numerosi scontri tra l’etnia Pnu, cui apparteneva il Presidente, e quella dei Luo, dinastia di appartenenza dell’allora avversario di Kibabi, Odin20 • MSOI the Post

ga. In quei giorni le testate nazionali parlarono di più di 1200 vittime e solo in seguito all’intervento dell’allora Segretario Generale ONU Kofi Annan le due parti riuscirono a negoziare l’atto di “Accordo e di riconciliazione nazionale 2008”. Il patto, siglato il 28 febbraio, dichiarava la necessità di una soluzione politica che mettesse fine alle tensioni nel Paese e che portasse ad una condivisione del potere, non essendo nessuna delle parti in conflitto capace di “governare senza l’altra”. Venne così istituito un Governo di coalizione, la cui composizione, come si evince dal testo del documento, “dovrebbe in ogni momento riflettere i poteri relativi dei rispettivi partiti”. Tuttavia, a distanza di 5 anni, la ferita si sta lentamente riaprendo. Anche in questa occasione i due principali candidati alle elezioni sono stati sostenuti da due etnie opposte: la tribù luhya, che rappresenta il 13% della popolazione, si è schierata a fianco del presidente uscente Kenyatta, mentre la tribù kikuyu ha sostenuto la candidatura dello sfidante Odinga.

La tensione dopo i risultati elettorali rimane alle stelle e alcuni abitanti come Andrew, conducente di un bus che collega la capitale alla città di Kakamega, racconta di come le persone siano spaventate e cerchino in fretta soluzioni per spostarsi.A poche ore dallo scrutinamento delle schede che ha decretato la vittoria del presidente Kenyatta si contano già 4 vittime e l’opposizione denuncia brogli elettorali. Il Presidente si è quindi riconfermato non senza difficoltà per il suo secondo e ultimo mandato. Nei giorni precedenti l’8 agosto infatti, i due candidati non si sono mai distanziati molto nei sondaggi, questo perché nei suoi ultimi anni di presidenza Kenyatta ha dovuto affrontare molteplici problemi: dalla disoccupazione giovanile alla siccità, problemi con cui avrà ancora a che fare. Nonostante l’incertezza per il futuro e il pericolo di nuove violenze,l’8 agosto verrà comunque ricordato come la più grande operazione di sicurezza della storia del Kenya con la mobilitazione di 180 000 poliziotti in tutto il Paese.


SUD AMERICA IL CASO VENEZUELANO

Che cosa sta succedendo in Venezuela?

Di Daniele Ruffino Da diversi anni il Venezuela si trova in una delicatissima situazione politico-sociale sfociata ormai in una vera e propria guerra civile; tutti i riflettori sono puntati sul presidente Maduro, reo di aver utilizzato metodi dittatoriali e anticostituzionali per piegare l’opposizione e diminuire il potere del Parlamento (nel 2016 limitò i poteri del parlamento accorciando il mandato dei deputati). Bisogna però anche tenere conto che l’opposizione è fomentata da gran parte della destra estremista venezuelana e gran parte dei disordini a Caracas sono stati opera delle rappresaglie popolari ai danni degli enti governativi. Avevamo già trattato della gogna mediatica di cui è vittima il Venezuela e di come gran parte delle informazioni divulgate in Europa, e non solo, siano solo una parte di quello che in realtà succede. In primis, quello che sta avvenendo nel Paese è stato definito da diversi esperti come un colpo di Stato analogo a quello del 2002, dove ha giocato nuovamente un ruolo fondamentale il popolo, schieratosi assieme al governo, supportato dalla Forze Armate. Come detto poc’anzi, gran parte delle contestazio-

ni arriva da frange estremiste di estrema destra e Wikileaks, e pochi altri organi di stampa, hanno già fatto presente che è molto probabile l’infiltrazione CIA e del governo USA. L’agenzia di spionaggio starebbe agendo con il supporto di organi di governo statunitensi come il Dipartimento di Stato, il Dipartimento della Difesa, la USAID e la NED, aiutando l’organizzazione paramilitare dell’opposizione venezuelana e fomentando l’accanimento mediatico nazionale ed estero, contro un governo che ha sempre mantenuto posizioni diametralmente opposte a quelle di Washington. Dall’altra parte, però, il Venezuela versa in una crisi economica molto grave che ha intaccato anche la valuta generando una crisi valutaria mai vista nella sua storia. Il governo è stato addirittura obbligato a cambiare nome alla moneta e riorganizzare in tagli da mettere in circolazione per scongiurare il default e abbassare un tasso di inflazione che raggiungeva il 720%. La crisi del mercato energetico e minerario hanno intaccato ulteriormente l’economia nazionale portando forti scompensi sociali e rendendo più difficoltoso l’accesso ai servizi offerti dello Stato.

Il Presidente Maduro, da parte sua, intraprendente e sicuro del consenso popolare (che nonostante tutto continua ad avere) reprime con la forza, e spesso anche nel sangue, le rappresaglie e manifestazioni violente organizzate in tutto il paese, in particolare a Caracas. Il tentativo, ritenuto necessario dalle forze governative, è quello di arginare una situazione che potrebbe sfuggire al controllo da un momento all’altro L’elezione di pochi giorni fa dell’Assemblea Costituente (della quale è presidente Delcy Rodriguez) vuole essere un segnale di come la democrazia esista ancora in Venezuela e che i diritti civili e politici rimangono tutt’ora garantiti. Ovviamente però, l’elezione di questo nuovo organo ha gettato ulteriore scompiglio nella scena politica poiché la Costituente avrà un ruolo ad hoc al di sopra di tutti gli altri apparati statali diventando un vero e proprio organo monocratico, cosa già denunciata dall’opposizione, a detta del governo invece, essa dovrà appore modifiche importanti alla Costituzione per la salvaguardia dell’interesse nazionale.

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SUD AMERICA LA FINE DI LULA?

Una prima sentenza condanna l’ex Presidente a 9 anni di carcere

Di Elisa Zamuner Mercoledì 12 luglio Luiz Inácio Lula da Silva, ex presidente del Brasile e leader del Partidos de Trabalhadores (PT), è stato condannato per corruzione, attiva e passiva, e per riciclaggio di denaro a 9 anni e mezzo di prigione nell’ambito dell’imponente inchiesta Lava Jato. Il caso Lava Jato è un’operazione di investigazione della Polizia Federale brasiliana che è stata resa pubblica nel marzo 2014. L’inchiesta inizialmente riguardava i dirigenti dell’azienda petrolifera nazionale Petrobas e delle principali aziende brasiliane che si occupano di costruzioni e lavori pubblici (BTP); queste società avevano formato una sorta di cartello per controllare gli appalti delle costruzioni di infrastrutture per l’estrazione di petrolio della Petrobas e, in cambio, diversi partiti avevano ricevuto dei finanziamenti illeciti. In poco tempo, quindi, l’indagine è arrivata a coinvolgere alcuni tra i più importanti e influenti personaggi politici brasiliani, tra cui Luiz Inácio Lula da Silva e Edoardo Cunha, ex presidente del Parlamento brasiliano, condannato nella primavera del 2015 a 15 anni di carcere. 22 • MSOI the Post

Lula, in particolare, è accusato di avere ricevuto ed accettato delle tangenti dal Grupo OAS, un’impresa edile brasiliana, pari ad un valore di 3,7 milioni di reales brasiliani, per farle ottenere contratti e appalti dalla Petrobas; inoltre, l’OAS avrebbe donato all’ex Presidente un lussuoso appartamento in segno di riconoscimento per i favori ottenuti. La condanna, pronunciata dal giudice Sergio Moro, non è in via definitiva e occorre una seconda sentenza d’appello, rimessa al Tribunale Federale della Quarta Regione di Porto Alegre; se la condanna venisse confermata, oltre alla detenzione in carcere, Lula subirebbe anche l’interdizione dai pubblici i uffic per 19 anni e ciò significherebbe la fine della sua carriera politica, nonché la sua esclusione dalla corsa alla presidenza nel 2018. Lula è stato Presidente per due mandati ed è ancora oggi considerato uno dei personaggi politici più carismatici e popolari del suo Paese e sarebbe stato uno dei favoriti alle presidenziali previste per il prossimo anno. Durante il suo governo, il Brasile ha avuto una forte crescita

economica, grazie a diverse riforme sociali ed è riuscito ad affermarsi a livello internazionale. La sua uscita di scena sarebbe quindi un duro colpo per il PT, all’interno del quale manca una figura che possa sostituire l’ex Presidente con efficacia, favorendo così l’altro candidato Jair Bolsonaro del Partido Ecológico Nacional (PEN), famoso per le sue forti posizioni su temi come l’immigrazione. La segretaria del PT, Gleisi Hoffmann, ha aspramente criticato la sentenza, definendo il processo nient’altro che un attacco politico nei confronti di Lula; gli stessi avvocati dell’imputato, poco dopo l’udienza, hanno presentato una richiesta di appello, accusando il giudice Moro di non aver attentamente considerato le prove dell’innocenza del loro cliente e hanno inoltre dichiarato le loro intenzioni di rivolgersi alle Nazioni Unite. L’opinione pubblica è divisa ma cresce la sfiducia verso una classe dirigente ormai sempre più coinvolta in casi di corruzione; inoltre la crescente inflazione sta portando il Brasile verso una profondissima crisi, dalla quale il Paese non è in grado di uscire facilmente.


ECONOMIA IL LIBERISMO ALTERNATO DI MACRON Nuovo schiaffo all’Italia, Macron si rimangia la parola data

Di Michelangelo Inverso Tempesta sulle relazioni industriali italo-francesi dopo la nazionalizzazione, da parte francese, dei cantieri di Saint-Nazaire. Cos’è accaduto? La vicenda comincia durante la presidenza di Francois Hollande, allorché i cantieri sull’Atlantico di STX, controllata dai coreani, entrano in crisi e vanno in fallimento. I titoli della società vengono messi all’asta ed entrano in gioco gli italiani, con Fincantieri. Il colosso della cantieristica italiana mette in campo i capitali per acquisire il 66,7% di STX, ben più della maggioranza assoluta. In base agli accordi quadro che erano stati raggiunti col governo, il Tesoro francese avrebbe mantenuto una quota di partecipazione che avrebbe consentito una minoranza di blocco. Ma il cambio di guardia all’Eliseo ha sparigliato le carte, cosicché, all’ultimo momento ancora consentito dagli accorci, Emmanuel Macron ha invocato il diritto di prelazione dello Stato francese sull’acquisto di STX, di fatto statalizzando l’azienda e affondando il sudato accordo. Il ministro dell’Economia francese, Le Maire, si è affrettato a dichiararne la

trasparenza, sottolineando come questa non sia una vera nazionalizzazione, ma solo una manovra provvisoria, in attesa che si facciano avanti nuovi clienti. Insomma, qualcuno che non sia italiano. E infatti le reazioni in Italia sono state insolitamente aspre, a cominciare dal ministro dell’Economia Padoan, che considera “irricevibile la controproposta francese di arrivare ad un 50-50”. Questo sgarbo all’Italia non è il primo da parte di Macron, ma avviene ad appena una settimana dai colloqui (a sorpresa) tra Fayez al-Sarraj, primo ministro libico con mandato Onu, e il Generale Haftar, l’uomo forte di Tobruk, il parlamento libico non riconosciuto dall’Onu. Questi colloqui di Parigi sono stati un vero schiaffo diplomatico all’Italia, che è il vero regista del governo di Sarraj. Far incontrare i due contendenti, in un tavolo organizzato dai francesi che sostengono nemmeno tanto velatamente Haftar, è stato un duro smacco ai tentativi della Farnesina di riaccostare i cocci delle relazioni italo-libiche. E sempre su questa scia potrebbe complicarsi la situazione tra Tim e Vivendi, l’azienda francese che recentemente ne ha assunto la maggioranza.

Già, perché lo schema è quello di STX-Fincantieri, ma a parti invertite. Dopo tutti questi colpi bassi da parte dei nostri vicini d’Oltralpe, non sarebbe impossibile immaginare una presa di posizione da via XX Settembre, che potrebbe decidere, così come fatto da Parigi, di attivare la Golden Power (ex Golden Share), cioè il diritto di prelazione del Tesoro sulle aziende considerate strategiche - e Tim è una di quelle. Sebbene tutti questi episodi stiano avvenendo in un periodo in cui l’opinione pubblica è in ferie, restano estremamente gravi nel loro complesso e a maggior ragione se consideriamo l’assordante silenzio della Commissione Europea. Quest’ultima, infatti, non ha speso neppure una parola riguardo la sterzata di Parigi su STX, né ha difeso l’operato italiano in Libia (che è avvenuto con il consenso della Ue oltre che dell’Onu). L’Unione, sempre intransigente in materia di libero mercato, non ha mai neppure accennato che la nazionalizzazione de facto dei cantieri di Saint-Nazaire potesse essere inquadrata come un “aiuto di Stato”, come accadde invece nel caso di Monte dei Paschi di Siena o delle banche venete. MSOI the Post • 23


ECONOMIA GLI UNICORNI NON ESISTONO, NEMMENO NEL 2017 Valutare aziende private è difficile quanto incontrare un drago

Di Efrem Moiso Se si esclude la realtà virtuale, incontrare un animale mitologico come un unicorno è impossibile. Poco più probabile è riuscire ad individuare aziende non quotate in fase di gestazione che per diversi anni saranno in grado di produrre beni o servizi innovativi al punto da cambiare, anche in minima parte, il mondo così come lo conosciamo. Venture capital. È proprio questo il compito che si prefiggono i venture capitalist, ovvero gli investitori che sondano il mercato in cerca di opportunità d’investimento interessanti e apportano capitale di rischio per finanziare l’avvio o la crescita di attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo allo scopo di ricavarne un profitto. Unicorno (gen.). Animale favolosoraffigurato come un cavallo con un lungo corno sulla fronte, barba di caprone, coda leonina, zampe pelose e zoccoli bovini. Unicorno (finanza). Da fine 2013, il termine “unicorno” viene utilizzato nel lessico borsistico, imprenditoriale e tecnologico per identificare una società hi-tech in fase di startup che viene valutata oltre il miliardo di dollari. Colei che 24 • MSOI the Post

per prima attribuì il termine alle start-up fu Aileen Lee, fondatrice e managing partner della Cowboy Ventures, società specializzata in investimenti seed capital. Ciclo di vita di un’impresa. Il percorso classico che un’azienda affronta durante la sua vita, indipendentemente dal settore, prevede una fase di crescita, che comprende la nascita, o gestazione, e lo sviluppo, seguita da una fase stabile (maturità), che si conclude con il declino dell’impresa. Durante una di queste fasi l’azienda, affinché il tempo di sopravvivenza aumenti grazie a maggiori possibilità di investimento e di espansione, può aumentare il proprio capitale ricorrendo al capitale di rischio offrendo quote al pubblico, quotandosi quindi in Borsa o tramite piattaforme di crowdfunding. “Nascita” di un unicorno. In casi particolari, quando una società riesce a riscuotere molto interesse prima di procedere alla quotazione, può succedere che siano i finanziamenti ad andare incontro ad essa per mezzo dei venture capitalist, o dei business angels. Qualora l’attenzione da parte del pubblico sia particolarmente elevata sin dalla fase di gestazione ed i prodotti veramente innovativi, l’attività può rappresentare

ottime opportunità per gli investitori sia prima sia dopo la quotazione e intervenire in anticipo significa ottenere profitti immediati nel momento in cui la società diviene public, se la valutazione della società è stata effettuata correttamente. Laddove l’attività risulti incredibilmente innovativa e con un enorme potenziale mediamente accade una volta ogni diecimila aziende finanziate - la società può essere valutata al di sopra del miliardo di dollari ed ottenere il tanto ambito titolo di unicorno. Perché gli unicorni non esistono. Il problema è che, così come nel Medioevo, gli unicorni tuttora non esistono. E il motivo è nascosto nell’interesse dei venture capitalist di trarre profitto dall’investimento effettuato, nel momento in cui l’azienda viene quotata o acquisita. Per riuscire nell’intento, oltre ai ricavi della società e agli utili che ne conseguono, viene attribuito un grande valore, in grado di moltiplicare fino al 94% il valore societario effettivo, alle clausole incluse nei contratti, che possono riguardare la vendita dell’impresa a società terze o il rimborso delle perdite nel caso in cui la quotazione non vada a buon fine e l’impresa venga valutata meno del previsto da parte del pubblico.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO “LE ARMI NUCLEARI SONO SEMPRE STATE IMMORALI: DA OGGI SONO ANCHE ILLEGALI”

Sestuko Thurlow, sopravvissuto a Hiroshima, commenta l’approvazione del trattato ONU che proibisce l’uso di armi nucleari. Le reazioni della comunità internazionale

Di Federica Sanna Il 6 agosto in Giappone si è celebrato il 72esimo anniversario dal bombardamento atomico sulla città di Hiroshima. Alla commemorazione ha partecipato il Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres, il quale, accanto al premier giapponese Shinzo Abe, ha sottolineato la necessità di battersi per un mondo privo di armi nucleari. L’impegno dell’ONU sollecitato da Guterres si è manifestato concretamente soltanto un mese prima della celebrazione, con l’adozione formale del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari. L’approvazione del testo sancisce un momento storico nella decennale battaglia volta alla totale eliminazione delle armi nucleari e rappresenta il raggiungimento di un obiettivo già previsto dal Trattato di non Proliferazione Nucleare del 1970. Il documento sancisce, infatti, non solo il divieto di produzione, ma anche la rimozione degli arsenali esistenti, la responsabilità degli Stati detentori dell’arma di dare assistenza alle vittime e di fornire rimedio per i danni ambientali.

Il risultato raggiunto è però notevolmente indebolito dal fatto che il testo sia stato approvato con il voto favorevole di soltanto 122 Paesi. Gli Stati detentori dell’arma nucleare e i membri della NATO, fatta eccezione per l’Olanda che ha però votato contro il documento, figurano tra i grandi assenti ai negoziati. Esemplare è la posizione espressa da una nota congiunta di USA, Regno Unito e Francia: “Non abbiamo intenzione di firmare, ratificare o aderire” al Trattato. La posizione manifestata dalla NATO è comprensibile alla luce di due principali ragioni: in primo luogo, la clausola che proibisce la minaccia dell’uso del nucleare rende nulla la strategia della deterrenza, sulla quale si è spesso basata la sua difesa. Inoltre, l’adesione al trattato sembrerebbe vietare la politica del “nuclear sharing”, in base alla quale diversi Paesi oggi ospitano basi nucleari statunitensi. Quest’ultima ragione sembrerebbe rivelarsi di particolare interesse per la posizione dell’Italia, il cui territorio è sede di ordigni nucleari americani, sebbene la motivazione espressa dal

premier Gentiloni nel dichiarare la mancata adesione ai negoziati risieda nella volontà di non compromettere gli sforzi dell’Italia a favore del disarmo nucleare con uno strumento giuridico vincolante fortemente divisivo. La decisione è stata oggetto di discussione in Parlamento, dove sono state presentate diverse mozioni volte a chiedere al Governo di rivedere la sua posizione e aderire al trattato, il quale sarà aperto alle firme a partire dal 20 settembre. Rileva inoltre evidenziare la presenza di diverse iniziative in ambito associativo che chiedono all’Italia di “ripensarci” e firmare il trattato. In conclusione, è necessario ancora una volta sottolineare come, davanti a un tema di primaria importanza quale il disarmo nucleare, l’Unione Europea non sia riuscita ad esprimere una posizione compatta, nonostante l’impegno di Federica Mogherini, Alto Rappresentante per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza, per raggiungere una posizione comune. L’Europa ha quindi perso una nuova occasione per far sentire la propria voce e far valere i propri valori davanti alla comunità internazionale. MSOI the Post • 25


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO “FOR THE BENEFIT OF THE CHILD”

La sentenza della Corte EDU sul caso Gard c. Regno Unito

Di Fabio Tumminello Lo scorso 27 giugno, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata su un caso controverso: quello di Charlie Gard, un bambino di appena dieci mesi costretto, da una rara malattia, a rimanere vincolato a delle macchine per la sua sopravvivenza; i genitori, rifiutando pareri medici che parevano condanne senza appello, ingaggiarono, fino ad arrivare a Strasburgo, una lunghissima e travagliata battaglia legale. Battaglia legale caratterizzata da questioni etiche e morali non di facile soluzione. Con queste premesse, era certo che la sentenza, qualsiasi fosse il convincimento della Corte, avrebbe fatto discutere, mobilitando e dividendo l’opinione pubblica internazionale. Charlie Gard nasce con una grave e rarissima mitocondriopatia, una malattia che comporta un malfunzionamento dei mitocondri, il cui ruolo è quello di creare l’energia per il funzionamento delle cellule e, conseguentemente, di organi e muscoli. Le gravissime condizioni di salute del bambino (incapace di respirare, con danni irreversibili ai principali organi interni, quasi del tutto immobile e tenuto in vita solamente grazie all’ausilio delle macchine) rendono del tutto inefficace qualsiasi tipo di trattamento intentato dai medici

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del Great Ormond Street Hospital di Londra, i quali non possono fare altro che consigliare ai genitori di “staccare la spina”, evitando ulteriori sofferenze al figlio. Questi ultimi decidono invece di tentare altre vie e si rivolgono ai giudici inglesi per ottenere un’autorizzazione per permettere loro di sottoporre il figlio malato ad una cura sperimentale negli Stati Uniti. Cura, peraltro, mai testata sugli esseri umani. Le corti inglesi negano questa possibilità ai genitori, affermando la preminenza della salute del bambino su qualsiasi altra valutazione. Il viaggio verso gli USA avrebbe infatti soltanto rappresentato una sofferenza ulteriore dovuta alle precarie condizioni di salute del piccolo Charlie, posto oltretutto che la cura non garantiva alcuna concreta possibilità di guarigione. Degne di nota sono, infatti, le parole pronunciate dal giudice di appello, secondo cui “the sole principle is that the best interests of the child must prevail and that must apply even to cases where parents, for the best of motives, hold on to some alternate view”. Nonostante la mobilitazione istituzionale, politica e popolare per la vicenda, la Corte EDU, investita della questione dopo l’esperimento delle vie interne,

dichiara inammissibile il ricorso presentato dai genitori di Charlie. Nelle sue motivazioni, la Corte di Strasburgo afferma che le corti inglesi avevano adeguatamente deciso la questione, non potendo fare altro che conformarsi alla pronuncia interna. Il Regno Unito aveva infatti rispettato gli obblighi positivi ex articolo 2 (diritto alla vita), 5 (diritto alla sicurezza e alla libertà) e 8 (diritto e rispetto della vita privata e familiare) CEDU: gli Stati, secondo la giurisprudenza della Corte, hanno un margine di apprezzamento piuttosto ampio nello scegliere quali provvedimenti adottare, in concreto, per tutelare i diritti previsti dalla Convenzione; tale margine non può comunque spingersi troppo oltre, imponendo oneri sproporzionati sulle autorità. Nel caso di specie, la Corte ha ravvisato come i trattamenti, le procedure e, più in generale, il legal framework sanitario inglese, fossero adatti, in concreto, a tutelare i diritti convenzionalmente garantiti. La Corte EDU non ha quindi potuto fare altro che adeguarsi alle pronunce interne. Il 24 luglio i genitori hanno dichiarato di rinunciare a qualsiasi ulteriore mezzo legale e il 28 dello stesso mese hanno rivolto l’ultimo saluto al figlio.


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