L'arte finita. Danto e le narrazioni del Novecento

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Indice. Introduzione

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Prima parte: l’arte e la storia Capitolo I. Che cos’è arte, che cos’è storia Criteri narrativi

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Prima della storia

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L’arte secondo l’imitazione

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L’arte secondo la teoria

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Capitolo II. Moderno e contemporaneo secondo Danto 1880 – 1965: l’Età dei Manifesti

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Lo strappo della pop-art e la domanda: perché “arte”?

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Dal 1964 a oggi: “everything goes”

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Capitolo III. Implicazioni reciproche di storia e arte Due concetti co-implicanti

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Struttura storica o storia di una struttura?

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Seconda parte: l’arte, la filosofia, il mondo Capitolo I. Intorno al problema della legittimazione Il Verbo degli uomini

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Parole dell’istituzione

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Parole per l’istituzione

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Approfondimento del problema

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Una soluzione metodologica

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Capitolo II. Dallo studio di Danto ai testi di Beckett Il ruolo della poetica di Beckett

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Fine della storia e fine della comunicazione

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La comunicazione alla fine della storia

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Note bibliografiche

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Introduzione.

Il primo incontro con la filosofia dell’arte di Danto suscitò in me impressioni contrastanti: da un lato esercitava uno speciale fascino, rappresentando un sincero ed intelligente tentativo di mettere a parole l’evoluzione dell’opera d’arte nel corso del secolo XX; dall’altra, essa lasciava perplessi per gli interrogativi avanzati circa il ruolo della teoria nel discorso sull’arte, e quindi dell’estetica in generale. Le conclusioni che abbiamo tratto da quello studio suonano circa così: perché la filosofia dell’arte, quando appare chiaro che lo spazio per ragionarne si è ridotto ai minimi termini? Per dirla con Leopardi: <<Se la vita è sventura, Perché da noi si dura?>>. Soltanto con lo svolgersi del lavoro che vado a presentare, tuttavia, ho compreso che, partendo dalle nozioni apprese da Danto, il problema dell’arte si faceva via via un problema di pensiero e di comunicazione del mondo, sia esso il Mondo dell’arte o la vita quotidiana. Ogni teoria è ontologia semplicemente perché ogni concetto è; ed il sapere è una pratica anche laddove riteniamo il theorein una semplice presenza, anzi a maggior ragione se l’“oggetto” di una teoria è cosciente della sua storia al presente. Perciò è inevitabile che le parole spese sullo “stato dell’arte” si facciano non tanto “veicolo” di una certa visione del mondo da parte di chi le proferisce, quanto siano esse stesse quel mondo, partecipandone. Appare altrettanto naturale che per dimostrare ciò si tenda a destituire il ciclo logico-argomentativo consueto, poggiando esso su un movimento dalla causa all’effetto che non si riconosce più. Perché se la storia è finita (come argomentato da Danto), allora il movimento del concetto di arte si è arrestato, e con esso la capacità di quel concetto di conoscere e comunicare l’Altro. Quindi se vogliamo parlare di arte e opere d’arte in termini di autoreferenzialità, ri-presentatività, limite, ripiegamento su se stessi eccetera, dobbiamo abbandonare ogni movimento verso l’esterno, per quanto rappresentato dalla semplice logica del discorso. Su questo punto la mente ricorre all’affermazione di Danto, secondo cui la sua filosofia dell’arte va letta come se fosse un’opera d’arte (La trasfigurazione del banale). Possiamo supporre allora che per Danto sia 3


necessario avvicinarsi al discorso sull’opera d’arte con la giusta attitudine: non una concatenazione di concetti significativi perché rivolti alla realtà esterna (il mondo, il denotato …), ma un’unità intensiva di rappresentazione il cui rappresentato presuppone il rappresentante. Seguendo il sentiero tracciato da Danto, arriviamo al concetto dell’opera d’arte; niente di troppo sconvolgente per chiunque abbia familiarità con l’arte contemporanea, certo. Eppure il soggetto necessariamente com-presente, non sa cosa farne del concetto, contro il cui limite va a sbattere; dunque gli sviluppi di una teoria così strutturata non coinvolgono semplicemente l’“arte” o l’“estetica”, ma il nostro rapporto con il limite del concetto così raggiunto. In Dopo la fine dell’arte Danto compie una doverosa operazione storico-filosofica, descrivendo cosa pensare dell’arte dopo la caduta dell’idea di un progresso storico dell’arte: essa è prima divenuta autocosciente e quindi auto-riflessiva perché ha smesso di concentrarsi sulla rappresentazione del mondo. <<L’Età dei Manifesti>>,

peculiarità

dell’epoca

“moderna”

(poco

meno

di

un

secolo

dall’Impressionismo al Brillo box di Warhol), si caratterizza dunque per un’altra ricerca: non più l’imitazione del mondo, ma l’affermazione di volta in volta di sé come verità del proprio concetto. Nonostante l’uso puntuale e costante di esempi tratti dalla sua esperienza personale e professionale di critico e conoscitore di opere d’arte e artisti, il discorso di Danto è e rimane interno alla filosofia (della storia, dell’arte): egli lo sa bene e non lo nega. Ora, sulla scorta di quanto dimostrato dal filosofo americano bisogna fare un passo avanti nella trattazione di quello che ne è del concetto di arte (e non solo) oggigiorno; qui vorrei provare a farlo senza la mediazione di una filosofia dell’arte che dica che l’arte è diventata filosofia, bensì lasciando parlare l’arte, cioè utilizzando certe parole della letteratura alla stregua di argomenti filosofici. Il pensiero della sussistenza di una necessità non artistica al di là della storia dell’arte sottende la ramificazione del pensiero in un’ulteriore considerazione: che l’individuazione agisca come processo narrativo e storico allo stesso tempo, come leggeremo ad esempio in Beckett. E questo non perché il tutto stia nella parte – che, lo ricordiamo, nel caso presente è il discorso sulle opere d’arte; ma davvero “tutto” può essere preso per la “parte” qui – così che non si dia il tutto senza la parte: piuttosto, il darsi dell’uno è simultaneo al darsi dell’altro. Agli enti, tutto o parte che siano, non dobbiamo chiedere di rendere conto d’altro, perché a rigore non possiamo riconoscere la loro unità e unicità senza ammettere tutto. Tutte 4


le cose hanno lo stesso valore ontico: possiamo divertirci a ripartire l’essere, a fornirne descrizioni più o meno dettagliate, a fare discorsi più o meno seri circa l’applicabilità di una teoria ad un fatto, ma in ultima istanza rimane l’omogeneità ontica dell’intero spettro dell’essere, dal più piccolo segno al più ampio significato. Di questo dato comune dobbiamo servirci per la comunicazione che andiamo ricercando. Vediamo così che la frase con cui abbiamo aperto – <<ogni teoria è ontologia>> – nello spazio di un istante si allarga a dismisura fino a diventare (a piacere!): <<ogni teoria è vita>>; <<ogni teoria è mondo>>; <<ogni teoria è tutto>>; e così via, fino alla madre di ogni tautologia: tutto è tutto, perché ogni minima presenza caratterizza tutto l’essere. Il discorso echeggia necessariamente certi concetti del pensiero dialettico, su tutti il superamento del dualismo soggetto-oggetto da cui deriva l’intento di considerare la parola, qui “soggetto” che si dispiega in tesi, ipotesi, argomenti e dimostrazioni,

alla stregua dell’“oggetto” preso in esame: l’arte “finita”,

ovvero l’arte post-storica di cui parla Danto. Il pensiero qui sotteso – che ogni cosa caratterizza tutto quindi allo sguardo istantaneo ogni cosa è tutto – è una delle definizioni usate da Danto per il suo “mondo dell’arte”, come lo troviamo spiegato nell’opera con cui abbiamo dialogato più nel nostro lavoro, Dopo la fine dell’arte1. Lì l’autore – comunque rielaborando la tesi cardine della sua filosofia – sostiene che l’opera d’arte si giudica tale solo a confronto con le opere d’arte precedenti: il concetto è frutto di un’ermeneutica storica, di un confronto col passato, che caratterizza il presente dell’intero Mondo dell’arte. Ora si tratta però di approfondire l’uso lessicale prescindendo dalla storia, essendo essa terminata in un relativismo al cui interno “tutto è possibile”. La conoscenza del concetto dopo la fine della storia dell’arte induce a supporre che sia necessario che tutto accada prima che venga raccontato: si è quindi barattato l’ordine metafisico del mondo (l’adeguatezza dell’esistente a una narrazione preminente) con la narrazione (postuma) di ogni esistente previa dichiarazione autocosciente della possibilità di tutto in un concetto. La tesi avanzata da Danto che voglio analizzare più da vicino e con cui desidero confrontarmi se possibile, è proprio il doppio legame istituito tra la storia e il concetto da una parte, e la necessità presente degli enti dall’altra. Confrontandoci con i motivi per cui asserire l’infinità possibilità dell’arte alla fine della storia dell’arte, veniamo proiettati in un mondo che necessita di un nuovo modello 1

Vedi Arthur C. Danto, After the end of art, Princeton-Bollingen, 1997, pag. 164.

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comunicativo. L’hegelismo Dantiano dal quale muoviamo è nella doppia tesi per cui la storia è finita e dopo la fine della storia l’ente-opera d’arte, nella sua presa di coscienza soggettiva, dichiara l’essere di sé come concetto che tutto può. Eppure, se aggiungiamo a questa teoria quanto detto dallo stesso autore soprattutto ne La trasfigurazione del banale, e cioè che l’opera d’arte è opacizzazione dell’ente-materia nel significato metaforico unico che incarna, otteniamo il risultato che dell’arte, fattasi concetto, filosofia, non possiamo più parlare, essendo il concetto investito dell’opacità dell’opera “cosciente di sé”. Occorre perciò una “teoria estetica” che, accettando l’impossibilità di servirsi del concetto 2, guardi ad una nuova comunicazione degli enti, tra gli enti. Ci apprestiamo dunque a compiere un percorso storico seguendo l’evoluzione del rapporto tra l’arte nella sua pratica e l’istituzione concettuale di essa che ci porterà a considerare dapprima quelle che per Danto sono le due narrazioni principali della storia dell’arte: quella Vasariana e quella di Greenberg. Confrontandoci con esse proseguiremo fino all’epoca Moderna, periodo in cui l’arte si fa enigmatica, chiudendosi in se stessa e rendendosi autoreferenziale. Per quanto riguarda la storia dell’arte quindi dobbiamo naturalmente indugiare sul periodo più vicino a noi, in particolare su quel movimento che secondo Danto – e non ci sembra possibile contraddirlo su questo tema – ha segnato uno spartiacque di particolare sorta. Con l’arte Pop non è crollata l’idea di un movimento, collettivo e “universale” prima (storia secondo Vasari) o individuale poi (storia dell’arte Moderna), perché comunque è stata imposta una sterzata, un’evoluzione temporale alla successione dei fatti artistici e presente nelle realizzazioni di questo stile. La vera differenza, evidenziata da Danto, è che la Pop art ha creato uno “strappo” di altro genere, tale per cui le istanze razionali (concettuali) propagate attraverso l’attività artistica siano state devolute all’indagine filosofica compiuta su quella. Tutto questo grazie alla presa di coscienza ottenuta allora dall’arte e manifestatasi in opportune realtà: su tutte l’opera Brillo box di Warhol, appunto. La prima implicazione rilevata da Danto è la necessità di una valutazione e concettualizzazione cognitivistica ed ermeneutica piuttosto che prettamente estetica, delle opere d’arte. Secondariamente, Danto affronta il problema di spiegare la persistenza di una produzione artistica in nessun modo indebolita dal rilevamento di una nuova esigenza 2

L’impossibilità ontica del concetto, che attraversa la logica e il linguaggio, si ritrova nei paradossi e più generalmente nella fede in un qualsiasi nulla. Un esempio pertinente al nostro discorso: <<È impossibile che io sia, (perché) io sono>>.

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filosofica intorno ad essa. L’arte, che nel periodo moderno della sua storia ha costituito un tutt’uno con la propria teoria – esemplare la vicenda dei Manifesti – ora, nel periodo poststorico, persiste al di là della conclusione della propria narrazione. Di più: essa impedisce la narrazione, cioè il suo raccoglimento nell’unità storica del racconto (più o meno esplicito), poiché si confonde con la realtà quotidiana in infinite direzioni. La nostra critica all’autore riguarda la soluzione indicata nella sua ultima opera, Dopo la fine dell’arte. Ad un problema divenuto puramente filosofico come quello dell’arte, non essendo l’interesse più focalizzato sul giudizio di verità circa l’arte, bensì sulla necessità di un concetto di arte – <<perché arte?>> – Danto offre come soluzione il mantenimento di un concetto che sappia rendere conto delle infinite possibilità assunte dall’arte oggi. Un concetto di arte per il quale <<everything goes>>, per il quale tutto sia possibile non tiene conto adeguatamente di quanto è stato rilevato in precedenza, ovvero che uno spazio infinito sottostante al concetto non può darsi, avendo la comprensione concettuale che l’arte ha di sé perlustrato l’intero limite tra essa come individuo e l’altro, il mondo. Sottolineando le smagliature comunicative che scaturiscono da siffatto atteggiamento onnipotente del concetto, arriveremo piuttosto a sostenere l’esigenza di una parola intorno all’arte che prenda sul serio l’impossibilità concettuale al fine della narrazione e della comunicazione in generale. Così facendo ci vediamo però costretti ad allargare lo sguardo all’intero spettro della realtà quotidiana, avendo fatto patrimonio della fine della storia e del concetto come suo strumento comunicativo. Il discorso sullo “stato dell’arte” abbraccia necessariamente ogni prassi instaurata tra l’individuo e il mondo, e di conseguenza l’estetica si confonde con l’etica, perché ora l’interesse della filosofia è concentrato a ravvisare il valore che l’arte riveste nel mondo al di là del concetto cui essa si ritenga adeguata. Infine, l’utilizzo di determinate “narrazioni” novecentesche all’interno di questo lavoro vuole indicare certe condizioni letterarie e linguistiche affinché il rilevamento di una problematica comunicativa non appaia privo di sostegno sul suo lato positivo. La letteratura dunque come testimonianza di una nuova attitudine verso le parole ma anche da parte delle parole stesse, partecipando esse in prima persona alla presa di coscienza del proprio ruolo al presente della comunicazione tra l’opera in cui sono inserite ed il mondo. Le parole sono in sintesi l’incarnazione della necessità di un allargamento dell’obiettivo oltre alla semplice 7


filosofia dell’arte, ponendo sullo stesso livello (alle stesso presente) il “mondo dell’arte” e la “realtà quotidiana”. Ovviamente i testi analizzati non devono essere considerati modelli tout court: essi non rappresentano la soluzione al problema comunicativo, ma offrono piuttosto lo spunto analogico per parlare dell’ente individuale avendo questo compreso la necessità che l’intero presente sia caratterizzato dall’individuo stesso, che intrattiene così una duplice relazione di compartecipazione con ciò di cui parla e con il destinatario del messaggio. Partendo da questi presupposti, la filosofia – dell’arte e non – sublima in una metodologia che il “soggetto” compie su se stesso, riconoscendo la stessa capacità di pensiero autocosciente a sé e all’“oggetto” della sua indagine. In conclusione, delle tesi di cui ci siamo occupati in questa sede consideriamo la capacità di oltrepassare i confini tematici della fine dell’arte per farsi strumento metodologico di convivenza con gli altri enti nel riconoscimento dello stesso presente. L’arte ed il concetto sono enti storici, finiti; dobbiamo conoscere il modo in cui comunicare con essi non sullo sfondo di una narrazione, di uno sviluppo storico, ma consci della finitezza che condividiamo con essi al presente.

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Prima parte: l’arte e la storia

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Capitolo I. Che cos’è arte, che cos’è storia.

Criteri narrativi Come Danto stesso afferma, il suo ultimo libro Dopo la fine dell’arte, pubblicato nel 1997 a partire da una serie di lezioni (le A. W. Mellon Lectures) tenute presso la National Gallery of Art di Washington nel 1995, costituisce il naturale completamento della sua filosofia dell’arte. Danto si era occupato del problema filosofico dell’arte per la prima volta negli anni ’60, quando pubblicò un saggio molto penetrante ed incisivo, The Artworld. Il saggio, del 1964, fu scritto quasi di getto in seguito alla visita ad una mostra presso la Stable Gallery di New York, mostra in cui veniva esposta l’opera di Warhol Brillo Box. A dire il vero il successo del saggio, presentato poi l’anno successivo all’American Philosophical Association, dipese in maniera sostanziosa dall’utilizzo che ne fecero in seguito Sclafani e Dickie nel tracciare le linee di quella che sarà la teoria istituzionale dell’arte, una teoria molto influente sulla critica d’arte e la filosofia del decennio successivo3. Con The Artworld Danto inaugura un percorso di definizione dell’arte che si concluderà nel 1981 con la pubblicazione de La trasfigurazione del banale. In esso Danto non riesce però a concretizzare compiutamente l’essenza – per usare un termine altisonante ma non fuori luogo – dell’opera d’arte: la Pop art gli imponeva una riflessione su questa, ma egli non riusciva a rispondere del tutto alle sollecitazioni. In realtà La trasfigurazione del banale non si può considerare un insuccesso. Danto delinea un campo semantico nuovo per contraddistinguere le opere d’arte a partire da due punti fermi che le caratterizzano: le opere d’arte sono a proposito di qualcosa (aboutness); le opere d’arte incarnano il loro significato (embodyment of meaning). Esse portano cioè un messaggio la cui relazione col significato è intensionale e si esprimono con il linguaggio della retorica.

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È Danto a sottolineare il contributo della teoria istituzionale alla diffusione e alla conoscenza del suo The Artworld, sebbene prenda nettamente le distanze dalla sua <<progenie>> come <<in un classico conflitto edipico>>; l’episodio è riportato da Stefano Velotti nella sua Introduzione a La trasfigurazione del banale, Laterza, pag. XI.

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Queste le premesse identificative poste ne La trasfigurazione del banale. Quindici anni dopo Danto ci spiega perché non fu in grado di portare a termine l’opera che lo doveva condurre a determinare l’essenza dell’arte. Perché quella produzione artistica che aveva sollecitato le sue riflessioni sul concetto di arte ha fatto ben di più: con la Pop infatti l’arte è finita. L’arte della nostra epoca post-storica, a partire appunto dalla Pop, non può essere compresa in nessuna definizione di arte, perché questa costituirebbe l’ossatura, il “criterio selettivo” di una storia (narrative) dell’arte a cui la Pop stessa ha messo fine. O meglio, come precisato all’inizio dell’ultimo capitolo di Dopo la fine dell’arte: non si è stati in grado di dare un’adeguata definizione di arte perché non si era mai trovati a determinarne l’essenza prescindendo dalla storia. Pertanto, in virtù di questo “strappo”, in Dopo la fine dell’arte Danto descrive la differenza rappresentata dalla possibilità di una storia dell’arte che narri gli eventi degli ultimi tre decenni in campo artistico sulla base di un confronto continuo con la tradizionale storia dell’arte. Secondo Danto questa si declina nelle due “narrazioni maestre” (master narratives) di Vasari e di Greenberg, che ne costituiscono un duplice paradigma. Dopo la fine dell’arte è dunque una critica della storia dell’arte necessaria affinché la definizione di arte che si va ricercando sia in grado di coprire l’ampia estensione che il termine “arte” ha raggiunto nel XX secolo soprattutto con Duchamp e Warhol. L’esigenza di una critica – intesa come riflessione profonda intorno alle condizioni di possibilità di una disciplina, di una teoria – della storia dell’arte deriva quindi dalla convinzione di aver superato i limiti posti dalla medesima (aver superato cioè the pale of history), ed essere entrati in un altro ordine concettuale, in un’altra “forma di vita” (per usare l’espressione di Wittgenstein cara a Danto e agli analitici). Ma la semplice presa di coscienza di un passato dell’arte – che è la consapevolezza di una storia dell’arte passata – non è sufficiente a spiegare le ragioni di tanto interesse critico verso il meccanismo, la struttura narrativa di queste due teorie dopo la fine dello svolgimento storico a cui esse si potevano adattare. Perché la critica della storia dell’arte dopo la fine dell’arte? Perché – e questa è una delle chiavi di lettura per comprendere lo storicismo dantiano – <<entrando nel periodo post-storico non si sfugge alle costrizioni della storia4>>. Qui riemerge il concetto, già espresso in The Artworld e ne La trasfigurazione, secondo cui per comprendere

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A. Danto, After the end of art, Priceton Bollingen 1997, pag. 198: One does not escape the constraints of history by entering the post-historical period.

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un’opera d’arte bisogna considerarne la storia e contestualizzarla in una teoria; e riecheggia soprattutto – citato poco più sopra nella pagina – il motto di Wölfflin: <<non tutto è possibile in ogni momento>>. Quello che ne La trasfigurazione era riferito alla singola opera, cioè di essere un condensato di rapporti con il suo passato, con una storia, e di trattenerne presso di sé il significato, espresso verso il fruitore in maniera metaforica (entimematica), viene qui ripensato al fine di definire le condizioni di possibilità di una storia dell’arte all’altezza del periodo storico, il periodo post-storico in cui <<tutto è possibile>>. E come nel libro del 1981 l’opera d’arte era uno strumento ermeneutico che agiva confrontandosi con le opere della storia in cui era inserito, così ora la storia dell’arte è chiamata ad interpretare la storia passata in modo adeguato al momento post-storico. La condizione necessaria (ma non sufficiente) per fare ciò è l’autoconsapevolezza della fine della storia per appropriarsi di una ricchezza artistica che, senza questa autoconsapevolezza da parte della critica, rischia di non riuscire ad essere valorizzata. Il percorso che porta Danto dallo studio dell’essenza dell’arte alla critica delle storie dell’arte, al fine di descrivere il mondo dell’arte dopo la sua fine, è chiaramente espresso in un passaggio del terzo capitolo: <<La mia non è una teoria delle “origini dell’opera d’arte”, per usare l’espressione di Heidegger, ma delle strutture storiche, dei modelli narrativi per così dire, entro i quali le opere d’arte sono organizzate nel tempo, e che entrano nelle motivazioni e nelle attitudini degli artisti e del pubblico che ha interiorizzato questi modelli5>>. Quindi al fine della sua narrazione Danto è chiamato a prendere in esame le altre storie dell’arte; e la prima grande storia dell’arte su cui egli si sofferma guardando all’indietro, è quella delle Vite di Giorgio Vasari. Secondo Danto infatti per l’aretino <<l’arte era la progressiva conquista delle apparenze visive, di strategie di padronanza attraverso cui l’effetto delle superfici visive del mondo sul sistema visivo degli esseri umani poteva essere replicato mediante superfici pittoriche che agiscono sul sistema visivo nello stesso modo in cui agiscono le superfici visive del mondo6>>. Salta evidentemente

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Ibidem pag. 48: Mine is not a theory of the “origins of the art work”, to use Heidegger’s phrase, but of the historical structures, the narrative templates, so to speak, within which artworks are organized over time, and which enter into the motivations and attitudes of artists and audience who have internalized these templates. L’enfasi vuole sottolineare il carattere ermeneutico della tesi di Danto e la sua fedeltà al concetto di Artworld. 6 Ibidem, pag. 48: I … begin with the first great story of art, namely Vasari’s, according to which art was the progressive conquest of visual appearances, of mastering strategies through which the effect of the visual surfaces of the world on the visual system of human beings could be replicated by means of painting surfaces that affect the visual system in just the way the world’s visual surfaces affect it.

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all’occhio da questo brano che il concetto su cui fa leva Danto non è tale per cui la storia si limita a proporre una sequenza di fatti artistici secondo una successione temporale: il modello di storia dell’arte di Vasari non si realizza nella semplice scansione temporale dei fatti artistici di cui parla. Piuttosto, la storia dell’arte di Vasari è un modello perché adotta un criterio che gli permette di trarre dalla sequenza temporale delle vite degli artisti il racconto di un progresso verso l’adeguamento a quel dato criterio. Allo stesso modo emerge l’altra grande narrazione della storia dell’arte secondo Danto, quella fornita da Clement Greenberg relativamente al periodo storico del Modernismo. È importante insistere sulla presenza di un criterio strutturale all’interno di queste narrazioni perché è soltanto in relazione a tale criterio che gli artisti e le opere d’arte in generale possono essere selezionate ed organizzate progressivamente alla maniera di Vasari e di Greenberg. Senza un criterio a cui fare riferimento, quand’anche si descrivesse una storia dell’arte, tuttavia non avrebbe senso né parlare di un suo progresso, né individuarne un termine ad quem. E la storia resterebbe aperta: se non infinita, quantomeno indefinita. Qui intendo introdurre il tema del progresso artistico, che tanto occupa le pagine di Dopo la fine dell’arte, inizialmente trattato nel saggio raccolto ne La destituzione filosofica dell’arte dal titolo La fine dell’arte. Avremo modo di discuterne ampiamente analizzando cosa sia l’arte moderna e cosa l’arte contemporanea per Danto, più avanti. Ora vorrei sottolineare soltanto la posizione centrale che occupa nella critica che Danto muove al progressismo, o meglio, all’incapacità di distinguere la storia dell’arte dal progresso dell’arte, il connubio che unisce il criterio narrativo utilizzato dal critico e dallo storico da un lato, con le tecniche poste in essere dall’artista dall’altro. Con una formula si può riassumere così: il criterio narrativo dà senso alle tecniche figurative (artistiche, in generale) impiegate dagli artisti nelle proprie opere; ma proprio l’atto di conferimento, di consegna o di imposizione di una chiave di lettura trasforma (trasfigura forse?) l’oggetto-dipinto in una tecnica atta ad ottenere un unico scopo a lei estraneo. Qui non interessa mostrare il carattere strumentale dell’arte nella concezione del Vasari: piuttosto, intendiamo porre l’accento sull’idea meta-tecnica che assume l’opera d’arte singola a partire dalla sua narrazione progressiva. Attraverso il criterio narrativo l’essenza strumentale della raffigurazione non si esaurisce nel dipinto, ma viene devoluta ad un livello storico sul quale l’artista non può nulla. Questo è evidente nel caso del criterio Vasariano, come dimostra l’esempio di cui 13


parla Gombrich in Arte e progresso. Gombrich prende in considerazione due dipinti, di simile ambientazione oggettuale, distanti più di tre secoli l’uno dall’altro: La predica di S. Paolo ad Atene di Raffaello, del 1516, e Frine davanti all’Areopago di Gérome, 1861. Aiutandosi col commento lasciatoci da Zola a proposito di quest’ultimo, Gombrich spiega le diverse finalità che le due opere assolvono: valorizzazione della morale cristiana nel caso di Raffaello, adeguamento al gusto del pubblico d’arte della propria epoca per Gérome. La denuncia, esposta da Gombrich stesso, è che si può prescindere dal fine della singola opera e giudicarla in nome di un criterio che la inserisca in un progresso storico a lei estraneo. Con il risultato di instaurare una gerarchia di valori tra opere di per sé incommensurabili. Scrive infatti Gombrich: <<Però – avrebbe potuto aggiungere Gérome – nel frattempo noi abbiamo fatto progressi nella conoscenza dell’antichità. I miei costumi e la mia scenografia sono incomparabilmente più autentici di quelli di Raffaello, e forse io sono addirittura superiore a Raffaello nella resa delle espressioni, sulla quale nemmeno Zola ha trovato da ridire>> 7. Gérome potrebbe rivendicare a sé una migliore fedeltà al criterio narrativo della verosimiglianza, criterio che, pur mantenendo le finalità espressive delle due opere, tuttavia si è imposto ad unico strumento per comprendere nello stesso concetto enti in sé già perfetti, già finiti. La narrazione aliena le opere d’arte perché nel parlare di esse ne oblia la completezza, devolvendola invece a se stessa. Ne è testimonianza il fatto che non solo i quadri ricordati da Gombrich stiano piuttosto in una scala di valori opposta (si contesta forse la superiorità di Raffaello rispetto a Gérome?8), ma proprio perché si suppone un unico fine dell’arte a partire dalla considerazione delle diverse finalità delle singole opere, seppur anche solamente congetturata. La storia dell’arte ha usurpato agli enti-arte il proprio fine, il proprio carattere individualmente tecnico, concettualizzandolo, dandogli un nome: la riproduzione mimetica della realtà. Ora, non è dato presupporre che tutti i criteri con cui si può descrivere un’opera d’arte siano criteri narrativi, e quindi funzionali ad una storia dell’arte progressiva. Un criterio narrativo, come abbiamo detto, conferisce al fatto artistico un carattere tecnico alienante; per farlo pone (presupponendolo) un limite tecnico, espresso

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Gombrich, Arte e progresso, Laterza, pag. 121. Se da un lato la superiorità artistica di Raffaello è riconosciuta tradizionalmente, tuttavia dovremmo chiederci se “qui e ora”, un tale giudizio abbia un senso. L’adesione completa alla critica Dantiana non ci può portare lontani dal destituire – insieme all’arte – ogni giudizio gerarchico sull’arte. E questo già in Gombrich, che domanda retoricamente: <<Possiamo meravigliarci che lo storicismo abbia portato a respingere tutti i valori?>> (cit., pag. 122). Da qui il problema centrale del presente studio: come salvare la comunicazione? 8

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dal criterio appunto, che distingue l’opera da ciò che le sta all’esterno, il soggetto della rappresentazione. Ma anche l’intera categoria, fornitaci da una teoria, di arte ha un limite che la separa dall’alieno. Se <<La storia finisce con l’avvento dell’autoconsapevolezza o meglio dell’autoconoscenza9>>, possiamo supporre che la storia sia l’alloconoscenza e dire con una battuta che “L’Artworld conosce un altro pianeta”. Analizzeremo più avanti la possibilità di conoscere ciò che sta oltre al nostro limite a prescindere dalla storia. L’opera d’arte è tecnica e per questo serve ad un fine, l’arte secondo la storia dell’arte è una tecnica (narrativa) e per questo ha una fine. Nella stessa pagina del saggio La fine dell’arte Danto lo afferma chiaramente: <<se dobbiamo pensare all’arte come avente una fine, allora abbiamo bisogno di un concetto di storia dell’arte che sia lineare e di una teoria dell’arte che sia abbastanza generale da comprendere altre rappresentazioni rispetto a quelle esemplificate al meglio dalla pittura illusionistica: rappresentazioni letterarie ad esempio, e anche quelle musicali10>>. Del criterio narrativo, esterno o comunque indipendente dalle intenzioni dell’artista, si può quindi dire con Hegel che quando lo Spirito ne ha coscienza, la storia finisce. È indice dell’effetto alienante che il criterio narrativo della storia ha imposto all’arte il fatto che una presa di coscienza sia avvenuta, nel caso dell’epoca “Vasariana” dell’arte, sotto lo stimolo di un agente esterno all’arte della pittura. Infatti per quanto riguarda il primo <<episodio>> della storia dell’arte occidentale11 fu solamente con l’ingresso della fotografia, e della cinematografia in particolare, nella storia, che gli artisti si resero conto (vedremo se più o meno consapevolmente) che il criterio mimetico della pittura come <<sistema di strategie apprese per produrre rappresentazioni sempre più adeguate12>> non aveva più senso, perché lo strumento tecnico più adeguato a questo scopo era diventato un altro. Da questo esempio è anche evidente quanto già detto: l’individuazione di un criterio narrativo per una serie di fatti storici come possono essere le opere dei vari artisti, non garantisce la peculiarità della narrazione ai soli protagonisti di essa: se non indugiassimo in

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A. Danto, La fine dell’arte, in La destituzione filosofica dell’arte, Aesthetica, pag. 129. Ibidem. 11 Danto definisce tali la storia di Vasari e quella di Greenberg: The history of Western art divides into two main episodes, what I call the Vasari episode and what I call the Greenberg episode (pag. 125). 12 Ibidem, pag. 50: Painting as an art … at least under the Vasarian narrative, is a system of learned strategies for making more and more adequate representations. 10

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sentimentalismi (comunque leciti) nei confronti del genio dei pittori che si sono alternati dal XIV al XIX secolo, dovremmo convenire che sotto un certo punto di vista l’eroe della storia di Vasari è un Daguerre o un Lumiére piuttosto che Raffaello. Allo stesso modo del Vasari, il critico e storico d’arte Clement Greenberg parte da una definizione dell’arte della propria epoca, il Modernismo, per ordire una trama narrativa che possa raccontare la storia dell’arte moderna. Nel saggio Pittura modernista del 196013 Greenberg parte dalla considerazione che il modernismo sia una tendenza ben più ampia rispetto alla semplice produzione artistica, e sia il riflesso di un atteggiamento culturale esplicitato per la prima volta con Kant e il suo criticismo. <<Identifico il Modernismo con l’intensificazione, quasi l’esacerbazione, della tendenza all’autocritica iniziata con il filosofo Kant14>>, scrive all’inizio del suo saggio. E non è l’atteggiamento critico di Kant di per sé a farne il primo modernista, ma è l’autocritica che la filosofia riserva a se stessa a renderlo tale, perché <<Per come la vedo, l’essenza del Modernismo giace nell’utilizzo dei metodi caratteristici di una disciplina per criticare la disciplina stessa … in modo da assicurarla più fermamente alla propria area di competenza15>>. Il modernismo è quindi l’aderenza disciplinare ai propri limiti. Perché si realizzi un atteggiamento “modernista” non basterà considerare di avere dei limiti disciplinari: si dovrà essere consapevoli dei propri limiti disciplinari. Riferito alle diverse produzioni artistiche, questa intuizione si risolve in un certo materialismo artistico. Scrive infatti Greenberg più avanti: <<Ogni arte ha dovuto determinare, mediante le sue operazioni e produzioni, gli effetti a lei esclusivi … È emerso rapidamente che l’unica e propria area di competenza di ogni arte coincideva con tutto ciò che era unico nella natura del suo medium16>>. Ogni arte nel periodo modernista ha perseguito pertanto l’ideale della “purezza”, intesa come fedeltà ai limiti materiali a lei e lei soltanto imposti. Né questi limiti materiali sono stati più nascosti o dissimulati: ad esempio, sulla scia di Manet gli Impressionisti <<abiurarono la prima mano e le lucidature per non

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Il saggio Modernist painting appare per la prima volta nelle Forum lectures, Washington D.C., Voice of America, 1960. 14 Cit., §1: I identify Modernism with the intensification, almost the exacerbation of this self-critical tendency that began with the philosopher Kant. 15 Cit., §2: The essence of Modernism lies, as I see it, in the use of the characteristic methods of a discipline to criticize the discipline itself, not in order to subvert it, but in order to entrench it more firmly to its own area of competence. 16 Cit., §§5-6: Each art had to determine, through its own operations and works, the effects exclusive to itself … It quickly emerged that the unique and proper area of competence of each art coincided with all that was unique in the nature of its medium.

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lasciare dubbi all’occhio che si trattasse di colori di vernice che proveniva da tubetti 17>>: l’autoconsapevolezza del proprio limite materiale, del proprio medium, diventa, col modernismo, una scoperta e un valore da celebrare. E per Greenberg ben di più: diventa il criterio con cui redigere una gerarchia al cui vertice sieda il movimento artistico più all’avanguardia fra quelli dell’arte più all’avanguardia di tutte, perché immersa più delle altre nella celebrazione dei propri limiti materiali: la pittura. Il riconoscimento e il non oscuramento dell’ineliminabile piattezza della tela diventano le ragioni per narrare le gesta dell’Espressionismo astratto (termine poco caro a Greenberg) all’interno della Storia dell’arte Moderna. Danto in Dopo la fine dell’arte non critica Greenberg per aver scelto il criterio della purezza materiale dell’arte piuttosto che l’espressione dei motivi interiori dell’artista come struttura portante della propria narrazione. Danto piuttosto è critico nei confronti della scelta di un criterio, soprattutto considerando che il periodo storico del modernismo è stato caratterizzato da una fioritura di teorie dell’arte scritte in forma pubblica o privata dagli stessi artisti. (E forse Danto conferirebbe a queste riflessioni la palma di miglior espressione dell’arte moderna, ma ciò non lo indurrebbe comunque a ordinarle progressivamente)18. Greenberg raccontava la storia dell’arte guardando all’indietro a partire dal riconoscimento di un limite materiale, il medium generico, che costituiva già per il solo fatto di esserci il criterio della sua narrazione. <<Ciò che Greenberg aveva fatto era di identificare un determinato stile locale [l’espressionismo astratto]con la verità filosofica dell’arte [l’accettazione del proprio medium], quando la verità filosofica, una volta trovata, avrebbe dovuto essere coerente con ogni apparizione dell’arte>>, scrive Danto all’inizio del suo libro19. L’errore di fondo di Greenberg è stato quello di credere nella possibilità di uno stile, di un tipo di arte più aderente alla verità rispetto agli altri proprio quando l’arte nel suo corso storico si diramava in mille direzioni che non tenevano conto né potevano misurarsi con l’essenza dell’arte secondo Greenberg. Con la Pop la materia divisoria sparisce nell’indiscernibilità ottica o percettiva in generale dell’arte dal mondo che anticamente era

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Cit., §7. È interessante inoltre notare a questo proposito che vi è enorme divergenza tra Danto e Greenberg riguardo al ruolo giocato dalla teoria degli artisti nelle loro produzioni; vedi infra, pag. 35 segg. 19 A. Danto, After the end of art, pag. 14: what Greenberg had done was to identify a certain local style of abstraction with the philosophical truth of art, when the philosophical truth, once found, would have to be consistent with art appearing every possible way. 18

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tenuta a rappresentare. E forse Danto è ancora imprigionato – inconsapevolmente – in un atteggiamento à la Greenberg quando individua un limite teorico, invisibile agli occhi, ad istituire l’Artworld. D’altro canto, con Dopo la fine dell’arte egli cerca sicuramente di spingere la riflessione più oltre.

Prima della storia La parola arte acquista significati sensibilmente diversi a seconda delle varie epoche storiche in cui viene considerata. In generale, l’arte come noi la intendiamo quotidianamente (e per forza di cose, a grandi linee), ha un inizio nella storia tra il XIV e il XV secolo. Pensiamo in particolare alle opere di pittura e scultura, a cui non attribuiamo collocazione più consona delle sale di un museo. Ma già in questo ragionamento elementare abbiamo compiuto una serie di classificazioni e distinzioni che derivano dalla sedimentazione interattiva delle teorie e delle opinioni comuni intorno all’arte elaborate prima di noi. Una tendenza storica millenaria e costante è stata – e perdura tuttora – quella di un progressivo allontanamento dei due concetti di arte e di artigianato, di arte e di capacità produttiva generale. <<“Τέχνη” in Grecia, “ars” a Roma e nel Medioevo, e persino ancora agli inizi dell’era moderna, durante il Rinascimento, stavano a significare la capacità di fare un qualche oggetto, un edificio, una statua, una nave, un letto, un vaso, un vestito, come pure la capacità di guidare un esercito, di misurare un campo, di persuadere gli ascoltatori 20>>. Oggigiorno preferiamo recuperare il termine greco e consegnare tutte queste ed altre attività all’ambito della tecnica, parola che mantiene dell’antica arte il fatto di non essere un’attività specifica quanto l’insieme dei campi normativi che di volta in volta si debbono considerare nello svolgere una determinata attività. Tendiamo a considerare arte qualcosa che si sottragga all’utilizzo immediato: spesso giudichiamo, fin dal primo approccio, artisticamente più elevato un brano musicale di difficile comprensione, magari con particolari distonie, rispetto alla musica leggera suonata alla radio; oppure una scultura astratta piuttosto che un portaspezie di ceramica, per quanto questo risulti di forma più 20

W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Aesthetica, pag. 41.

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elaborata o di materiale più prezioso. Nell’antica Grecia le attività produttive ed espressive con minore utilizzo pratico al di fuori dell’ambito religioso, erano considerate irrazionali, perché minore la loro fedeltà a regole condivisibili con gli altri uomini. Così la poesia: essa, ispirata dalle Muse, si avvicinava di più ad un rito religioso di comunicazione con gli déi che ad un’arte così come la intendevano comunemente i Greci e fra essi Platone (Tatarkiewicz). Nel trattare l’evoluzione del concetto di arte bisogna partire dunque da un’analisi dell’impiego della parola arte che, partendo dal riconoscimento di un utilizzo allargato a tutti (o quasi) gli ambiti del produrre umano, si sviluppi in alcune teorie di natura classificatoria: proprio perché, fino al Rinascimento in generale, non esisteva l’arte come attività (produzione, espressione) distinta dal novero delle arti. Questo è il motivo che ha spinto un grande storico dell’arte come Tatarkiewicz a svolgere la sua analisi per campi semantici, “idee” trans-storiche piuttosto che procedere seguendo il susseguirsi storico delle teorie artistiche. Ed è dunque contributo interessante lo studio delle classificazioni delle arti per verificare e per avere prova tangibile del fatto che l’arte da noi conosciuta sia un’entità ben radicata nella storia – per quanto difficile determinarne la “data di nascita” – al punto da comparire in virtù di mutamenti di “sensibilità” degli uomini nel corso della storia. Innanzitutto giova sottolineare che di arte in Grecia non parlarono solo Platone e Aristotele: certamente lo spessore dei due filosofi ha contribuito affinché oggi quando ci si riferisca agli “antichi” in generale, si prendano ad esempio le parole della Repubblica di Platone contro gli artisti oppure la teoria della catarsi tragica contenuta nella Poetica di Aristotele. D’altronde esse esigono una contestualizzazione ben più ampia, proprio perché analizzano un’arte, quella della poesia, che è di massimo interesse anche per noi, sebbene negli ultimi secoli e soprattutto col modernismo il gradino più alto di una immaginaria gerarchia delle arti sia stato occupato dalla pittura in nome del “progresso”. Tenendo presente la prossimità tra il significato antico di arte e quello nostro di artigianato, capacità, tecnica, sono sette le classificazioni individuate da Tatarkiewicz per quanto riguarda l’antichità fino al periodo tardo-imperiale romano. Esse si distinguono mediante: 1 il fine (Sofisti); 2 il rapporto con la realtà (Platone e Aristotele); 3 la fatica fisica (Galeno); 4 il tipo di produzione (Quintiliano); 5 il valore (Cicerone prima); 6 il ruolo

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della parola (Cicerone seconda); 7 la spiritualità (Plotino)21. Nessuna

classificazione

prevedeva un ambito specifico per le belle arti22 distintamente dall’artigianato o, cosa ancora più importante, dalle scienze, che in queste gerarchie a maglie allargate occupavano solitamente i posti di rilievo: succedeva ad esempio per i Sofisti, per Plutarco, per Platone quando egli considerava la musica come calcolo delle armonie assimilabile alla matematica (teoria dalle influenze Pitagoriche); succedeva quando si declassava ad ars vulgaris la scultura in virtù dello sforzo fisico che richiedeva e si esaltavano le artes liberales della geometria e dell’astronomia, come asserivano ad esempio Galeno e Plotino; succedeva poi con Cicerone quando egli ascriveva alle artes maximae la politica e l’arte militare, trattando invece come artes minores la pittura, la scultura, la musica e la recitazione. Durante i secoli medievali successivi gli studiosi ereditarono le diverse sfumature riuscendo a elaborare una nuova classificazione piuttosto solida e duratura, basata sulla distinzione tra arti liberali e arti meccaniche. Le arti liberali venivano divise in arti del trivio (rationales) e del quadrivio (reales) e, sebbene insegnate alla “facoltà delle arti” delle università medievali, esse erano, nel significato moderno, scienze. Al primo gruppo appartenevano infatti grammatica, retorica e dialettica; al secondo aritmetica, geometria, astronomia e musica (intesa sempre come musicologia o studio delle armonie). La pittura, la scultura, la musica, il teatro, la danza o la poesia non compaiono però neppure nei repertori delle arti meccaniche. Quelli riportati da Tatarkiewicz (di Rodolfo l’Ardente e di Ugo di San Vittore), oltre a comparire tardivamente (XII secolo), sembrano operare una selezione delle sette arti più utili al vivere quotidiano dettata da esigenze di simmetria rispetto alle sette arti liberali. Con l’avvento dell’Umanesimo e del Rinascimento sarà invece l’artista stesso a studiare scientificamente il mondo attraverso la propria arte (Leon Battista Alberti, Leonardo, Piero della Francesca, Vitruvio) una volta conquistato il proprio spazio, fino ad arrivare a fregiarsi del titolo di artifex in un mondo di cui Dio era il creator. Ne Il culto delle immagini Hans Belting adotta una diversa prospettiva per parlare dell’arte prima dell’“Era dell’arte”. È una prospettiva interessante per noi perché concentrata sulla rappresentazione, restringendo quindi il campo all’arte figurativa, ed è 21

Tatarkiewicz, op. cit., pag. 77. Nel corso della sua trattazione l’autore utilizza questa espressione per esaltare l’opera di chi, come Batteux, esplicitò per primo un ambito di competenza specifico per alcune arti gettando le basi (insieme alla coeva nascita della disciplina estetica ad opera di Baumgarten) per la nostra idea di arte mediante l’individuazione di un principio unitario, l’imitatio. 22

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contenuta in un’opera successiva al saggio La fine dell’arte a cui rimanda direttamente Danto. L’arte per antonomasia che prendiamo a modello in gran parte delle storie dell’arte o delle teorie dell’arte degli ultimi decenni (o forse secoli) è la pittura, e l’opera di Danto non fa eccezione. Belting perciò muove da una domanda molto importante a questo proposito: che ne era dell’immagine prima che esistesse l’arte come noi la conosciamo? Il fatto che egli tratti dell’immagine religiosa, dell’icona, concentrandosi quindi sui secoli medievali, non sminuisce la portata delle sue tesi proprio in virtù della continuità di considerazione (o meglio, di mancata considerazione, rispetto ai nostri canoni) dell’arte pittorica tra l’evo antico e quello medioevale. La sua opera rovescia la prospettiva di analisi partendo dagli oggetti, le immagini, che sono opere d’arte ma soltanto in senso antico (allargato), poiché manca ancora l’ambito specifico e unitario del concetto moderno di “arte” (di cui parla anche Tatarkiewicz). È difficile valutare il significato dell’immagine nella cultura europea. Se rimaniamo nell’ambito del millennio di cui si occupa questo libro, il problema è ovunque costituito dalla scrittura; la religione cristiana è infatti una religione della scrittura. Se ci spostiamo nel millennio dell’età moderna, il problema è invece rappresentato dall’arte che, in quanto nuova funzione, ha trasformato profondamente l’immagine antica. Siamo a tal punto segnati dall’“epoca dell’arte”, che dell’“epoca dell’immagine” possiamo formarci solo un cattivo concetto. La storia dell’arte ha spiegato ogni cosa riducendola senza esitazioni all’arte stessa, appunto per poter esercitare ovunque un universale diritto di proprietà: in tal modo ha però livellato proprio le differenze da cui è possibile ricavare spiegazioni per il nostro tema.23 Il problema è quindi non soltanto quello di descrivere cosa fossero le immagini prima che la storia dell’arte le rendesse un ambito di sua competenza esclusiva; il problema è quello di penetrare il rapporto degli uomini con le immagini senza il duplice filtro dell’arte con le sue regole da una parte, e della fedeltà ai dogmi teologici dall’altra: lo storico dell’arte che si limitasse a dimostrare la sua competenza analizzando solo pittori e stili non centrerebbe del tutto il tema. D’altro canto, neppure i teologi sono così competenti come sembra, poiché le loro discussioni non riguardano direttamente le immagini, bensì il rapporto che hanno avuto con esse i teologi del passato. Al centro dei loro interventi sta il modo in cui la disciplina espone se stessa. Gli storici,

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H. Belting, Il culto delle immagini, Carocci 2001, pag. 23.

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infine, lavorano meglio con i testi e trattano di fatti politici o economici, ma non di quelle zone più profonde dell’esperienza le cui radici sono toccate dalle immagini.24

Certo, Belting sceglie un approccio all’immagine che deve molto a considerazioni circa l’importanza dell’esperienza estetica in campo artistico. Ma anche senza tirare in ballo un concetto complesso come può essere quello di esperienza estetica, il libro di Belting fornisce almeno un paio di riflessioni utili per la nostra indagine dei rapporti tra la storia, il racconto e l’arte. Per prima cosa, il concetto di immagine prima dell’arte attesta (con certe assonanze con quello di poesia ingenua di Schiller) un diverso rapporto tra l’uomo e la realtà, comprendendo questa, nella natura stessa, gli elementi della spiritualità religiosa. Prima dell’età moderna, che secondo Belting inizia con la Riforma e trova la sua espressione più alta nel Calvinismo, l’esperienza dell’uomo non era scissa tra spirito e materia, soggetto e mondo (come dirà poi la filosofia Cartesiana), forma e contenuto. E nello studio delle immagini medievali bisogna tener conto che l’ideale ultraterreno designato dal simbolo-immagine non è – per usare un termine modernissimo – “alienante” nei confronti dell’uomo. Sia perché << la religione era troppo centrale per essere solo un affare personale o ecclesiastico, come nell’epoca moderna25>>; sia perché <<nella storia dell’immagine di Cristo e dei santi, il ritratto o imago era sempre di rango superiore alla narrazione o historia. Tuttavia … non basta concepire l’immagine di culto come simbolo della presenza e la narrazione delle immagini come simbolo della storia. anche l’immagine di culto vive di una sua aspirazione alla storicità, all’esistenza di un corpo storico 26>>. L’ideale presentato nell’immagine mette in moto una dialettica tra la preghiera del fedele e la narrazione del ritratto che dà voce all’imago come ente storico e reale. In secondo luogo, la distanza tra l’icona (non artistica) e la rappresentazione (artistica), si ricollega ad un mutato tipo di parola, di racconto. Non solo perché l’iconoclastia dei riformisti toglie le immagini dai luoghi sacri vietando quel tipo di narrazione; ma pure perché la parola, che ora è unico simbolo dell’alleanza con l’ideale ultraterreno, con Dio, muta in virtù del diverso rapporto tra l’ideale e il simbolo-immagine.

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Ibidem, pag. 15. Op. cit., pag. 16 26 Op. cit., pag. 24 25

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La parola non raffigura nulla ma è segno dell’alleanza. La distanza di Dio ne vieta la presenza in una raffigurazione dipinta, destinata all’esperienza sensibile. Il soggetto dell’età moderna, che si estranea dal mondo, lo vede scisso nella pura fatticità e nel senso nascosto della metafora. L’antica immagine non si lascia invece ridurre ad una metafora, bensì pretende un’evidenza immediata di apparenza e senso. Improvvisamente la stessa immagine agisce ora come simbolo di un sentimento arcaico della vita, in cui c’era ancora l’armonia tra soggetto e mondo. Al suo posto subentra l’arte. Tra l’apparenza dell’immagine e la comprensione dell’osservatore, essa pone un nuovo livello del senso che è concesso all’artista, il quale prende l’immagine sotto la propria regia come documento dell’arte. … il soggetto assume il controllo dell’immagine e cerca di applicare nell’arte la sua comprensione metaforica del mondo. L’immagine, che d’ora in poi non solo sorge secondo le regole dell’arte ma diventa anche decifrabile in base ad esse, si offre alla riflessione dell’osservatore. Forma e contenuto cedono il loro contenuto immediato a quello mediato di un’esperienza estetica e di un argomento nascosto.27

Se abbandoniamo per un momento Belting e torniamo a quanto sostiene Danto ne La trasfigurazione del banale, ci sorprendiamo per il comune utilizzo da parte dei due autori della metafora come elemento essenziale della comunicativa artistica. Non solo: per entrambi il dispositivo retorico con cui il neonato artista rinascimentale (per Belting) comunica un certo contenuto (che ora, a differenza del passato, è mediato e segue la scissione tra forma e contenuto della rappresentazione) è <<un argomento nascosto>>, ovvero l’entimema di cui parla Danto nel capitolo sette del suo libro. Quello che scompare dell’immagine nell’era dell’arte è il riferimento immediato a <<una speculazione che s’innalza presto alle immagini linguistiche e di pensiero o da esse prende subito le mosse>>. Per dirla con Danto, se l’immagine è trasparente, l’opera d’arte è opaca.

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Op. cit., pag. 31

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L’arte secondo l’imitazione Il riconoscimento dell’inizio della prima “epoca artistica”, quella che per Danto corre da Giotto a Manet e segue la narrazione storica del Vasari, non è così immediato come sembra dalle parole di Belting e di Danto stesso. Certo, nel Rinascimento (usiamo questo termine per comodità di riferimento, senza discuterne i confini dettagliatamente), sorge una nuova consapevolezza da parte degli artisti, imparentata con un nuovo concetto del rapporto tra il soggetto umano e il mondo. Ma questa affermazione va trattata come una classica narrative sentence Dantiana (di cui parleremo nel capitolo terzo), ovvero una di quelle frasi che collegano tra di loro due eventi passati di cui il primo non avrebbe potuto prevedere il secondo. All’inizio della storia dell’arte, l’autoconsapevolezza dei suoi protagonisti era ben diversa da quella attuale: <<Il termine artista nel Rinascimento non esiste>> scrive Chastel28. Lo conferma il Vasari stesso, intitolando la sua “enciclopedia degli artisti” (la cui prima pubblicazione è del 1550 a Firenze) Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri. Eppure la situazione, come descritto da Belting, è davvero cambiata rispetto alla concezione medievale della rappresentazione. L’Umanesimo esalta il progresso culturale e spirituale dell’individuo attraverso la conduzione di una vita activa, per quanto dedicata alle attività intellettuali, soprattutto letterarie. Tuttavia il soggetto, che si afferma dapprima tra i secoli XIV e XVI, non è ancora l’artista nel senso moderno del termine, poiché non esiste ancora un Artworld ad isolarlo – per così dire – dal mondo e dalle sue regole. Soprattutto nel Quattrocento e nel Cinquecento dovremmo parlare di artista-artefice, che considera le proprie attività parte di un percorso scientifico e tecnico rivolto ad un fine nuovo rispetto tanto all’antichità quanto ai secoli medievali, ovvero l’affermazione della dignità dell’uomo, creatura di Dio e prosecutore della sua opera nel mondo. Con una formula possiamo dire che, mentre l’arte continua a designare un campo di tecniche da applicare all’artigianato (sempre in senso allargato, per quanto esso risulti raffinatissimo e astratto come una poesia del Petrarca), non tanto l’artista è cambiato, quanto l’uomo. Nel suo Ritratto di sei poeti toscani, il Vasari raffigura Cino da Pistoia, Guittone d’Arezzo, Petrarca, Boccaccio, Dante e Guido Cavalcanti intenti a discutere intorno ad uno scrittoio sul quale spiccano un mappamondo celeste che raffigura le costellazioni ed uno 28

L’Artista in E. Garin, L’uomo del Rinascimento, Bari, Laterza, 1988, pag. 245

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strumento simile ad un goniometro: è l’ideale dell’artifex polytechnes (Chastel), capace di racchiudere entro un'unica individualità il poeta, l’astronomo e il geometra.

Senza

scomodare il polytechnes iperbolico, Leonardo, basta ricordare che a Firenze le botteghe dei pittori affiancano tanto quelle degli orafi quanto quelle dei falegnami che producono le pale d’altare (Chastel); e che lo stesso Giorgio, pittore, architetto, erudito, nasce in una famiglia di vasari. Analogamente, le arti della pittura, della scultura e della musica continuano ad essere classificate senza soluzione di continuità rispetto alle scienze e all’artigianato in senso stretto. Questa contraddizione tra il nostro concetto di arte (che ancora non esiste) ed il rinnovato status di chi la produce, è rilevata da Tatarkiewicz: egli nota infatti che, nonostante le mutazioni avvenute a livello sociale a partire dal movimento umanista, intorno alle attività e all’organizzazione del lavoro dei letterati e degli artisti-artefici (a cui si riconosce, nei fatti, una dignità sconosciuta ai secoli precedenti), tuttavia <<per isolare [le belle arti] in un gruppo autonomo occorreva stabilire quale fattore le unisse e quale le distinguesse dalle altre arti, dalle scienze e dai prodotti di artigianato29>>. I tentativi, pur non mancando, non riuscivano ad imporsi con forza nella galassia della teoria delle arti. Danto attribuisce il canone illuminista di Batteux secondo cui le Belle arti (poesia, pittura, scultura, musica e danza) hanno un principio unitario nell’imitatio – e tendono allo stesso fine, il piacere – alla storia dell’arte secondo Vasari, al cui tempo, come appena detto, non esisteva ancora un criterio artistico unitario a definire “l’arte”, perché questo avverrà in maniera solida soltanto due secoli dopo, con Dubos e Batteux appunto30. L’apparente fraintendimento ha però una soluzione abbastanza semplice. Innanzitutto, bisogna considerare che Danto utilizza perlopiù “arte” come termine ellittico per “arte della pittura”. Ma è un altro il vero motivo per cui il criterio narrativo Vasariano, precedente all’identificazione unitaria del concetto di arte, rimane valido nei successivi secoli XVIII e XIX. Ciò avviene perché Danto quando parla di storicità dell’arte, o di carattere narrativo della storia dell’arte, o, ancora meglio, di progresso artistico non si riferisce tanto ad un miglioramento progressivo del concetto, sempre più aderente (per così dire) a quello che l’arte è stata in un determinato periodo. Il motivo per cui l’arte di Vasari ha una storia è da 29

Tatarkiewicz, op. cit., pag. 80-82 Baumgarten, pur dando vita alla disciplina dell’estetica, tuttavia non ha un concetto di arte (bella arte) simile al nostro: ne è già prova il fatto che l’estetica, una disciplina teoretica e scientifica, è “ars”. Dubos (Riflessioni critiche sulla Poesia e sulla Pittura, 1719), pur legandosi strettamente a Batteux, tuttavia manca di quella visione programmatica e unitaria che rende Batteux il vero “inventore” delle Belle arti. 30

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ricercarsi nella sua natura tecnica di rappresentazione mimetica, e questo, tutto sommato, è ancora il concetto antico, classico e medievale dell’arte. Il volume La destituzione filosofica dell’arte è in buona parte incentrato su questo asserto, dialogando più volte con Vasari da una parte e Gombrich dall’altra, per arrivare alla condivisione risolutiva del pensiero di Hegel. P. 115: <<È vero che è occorso molto tempo prima che la prospettiva venisse scoperta … però mentre gli artisti hanno dovuto imparare a rappresentare le cose in prospettiva, nessuno ha dovuto imparare a vedere le cose in quel modo>>. È l’apprendimento che sta dietro alle tecniche di rappresentazione che conferisce un carattere storico all’arte: è nella tecnica dell’arte che va ricercato il criterio narrativo che ne permette la storia: <<Esiste una continuità tra il riconoscimento delle immagini (matching per Gombrich) e la visione del mondo, ma la realizzazione dell’immagine (making per Gombrich) richiede un tipo di abilità diversa … la realizzazione dell’immagine sembra essere una prerogativa esclusivamente umana. E il fatto che si tratti di un’abilità che si deve apprendere è parte del motivo per cui l’arte – o almeno l’arte figurativa – ha una storia>> (p. 116). Sul fatto che la narrazione Vasariana segua questo criterio, Danto si sofferma nell’ultimo saggio del volume, dal titolo Arte, evoluzione e consapevolezza della storia: <<Si consideri per esempio la grande teoria, ampiamente influente, secondo la quale l’arte è mimesi o che, qualunque altra cosa possa essere, essa è fondamentalmente mimetica. È di Vasari la grande intuizione che la mimesi abbia una storia e che se esaminiamo la sequenza di mimesi da Cimabue a Michelangelo, dobbiamo ammettere che gli artisti progredirono sempre di più … Se Vasari scoprì che esiste una storia di tutto questo, Gombrich capì che un lungo processo di fare-e-uguagliare [making-and-matching] rendeva possibile questa storia … Tuttavia il fare è una cosa, l’uguagliare un’altra: e se il primo ha una storia, non è ben chiaro se il secondo ce l’abbia>> (enfasi mia). D’altronde questa è la tesi ampiamente discussa nel volume La storicità dell’occhio del 2001, nel quale Danto discute con tre autori che esprimono diverse posizioni critiche nei suoi confronti, sostenendo che l’occhio possiede una sua plasticità che viene modificata nel corso della storia dai diversi sistemi percettivi con i quali si trova ad interagire. È utile citare questa tesi, dal momento che si ricollega direttamente alla storia dell’arte concepita secondo il Vasari, ovvero alla storia della rappresentazione artistica in quanto unica possibile per Danto. Contro questa muove l’argomento secondo il quale la storia dell’arte coincida con la 26


storia del vedere dell’uomo: contro la storia dello showing/darstellen di Danto, la storia del seeing/vorstellen di Carroll. Danto è incline a ritenere il fenomeno della visione descritto in termini cartesiani, volutamente ridotti alla semplice visione come fatto retinico. La sua teoria della percezione è di stampo empirista: essa non è associativa, come lo è invece l’apprendimento linguistico e concettuale, che segue convenzioni determinate spaziotemporalmente. Pertanto la percezione conta nel giudizio artistico nella misura in cui faccia perno su una teoria dell’arte che la preveda come criterio di giudizio. Tale è la teoria rinascimentale di Vasari, <<vale a dire il modello della fedeltà visiva, la cui aspirazione è quella di produrre immagini che, idealmente, non siano distinguibili alla vista dagli oggetti raffigurati31>>. In questo saggio in realtà ci si muove, per quanto impercettibilmente, verso un completamento dell’intera teoria storica rispetto all’analisi della narrative Vasariana di Dopo la fine dell’arte. Infatti ora non viene sottolineato il ruolo della storia dell’arte del Vasari rispetto all’analisi delle opere d’arte del periodo storico, quanto l’istituzione consapevole da parte degli artisti stessi di un criterio di giudizio che per la sua natura è già progressivo: <<il Rinascimento rappresenta una decisione culturale, precisamente quella di raffigurare il mondo così come appare spontaneamente a una percezione non istruita. Scorcio, chiaroscuro, prospettiva, fisiognomica – queste furono le scoperte che consentirono di produrre immagini che apparissero come le cose rappresentate. Fu una scelta culturale decidere come dipingere, ma non come vedere, che resta immune da interventi di carattere politico. Non tutti i sistemi di rappresentazione figurativa hanno comportato quella scelta32>>. Michelangelo Buonarroti avrebbe potuto adottare uno stile diverso, più convenzionale e <<divozionale>>, come quello dei Fiamminghi. La sua adesione al realismo (per quanto sia il realismo di Michelangelo) è una scelta precisa: <<La pittura fiamminga … generalmente soddisferà un devoto qualunque più che la pittura italiana; questa non gli farà versare una lacrima, mentre quella di Fiandra gliene farà versare molte, e ciò non per vigore e bontà di quella pittura, ma per la bontà di quel tal devoto … Molte volte le immagini mal dipinte distraggono e fanno perdere la devozione almeno a quelli che ne hanno poca; e al contrario quelle che sono divinamente dipinte anche ai poco devoti e pronti a ciò, provocano e traggono le lacrime, ed ispirano col grave aspetto riverenza e

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A. Danto, Vedere e rappresentare, ne La storicità dell’occhio, Armando Editore, 2007, pag. 39. Op. cit., pag. 43

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timore33>>. A questo punto però ci si dovrebbe domandare se il progresso della pittura non si sia davvero fermato già con la produzione tardo-rinascimentale, dato che, ad esempio, l’illusione dello scorcio, raggiunto progressivamente da Michelangelo <<nell’arco dei quindici anni in cui realizzò la volta Sistina … acquistò importanza nel XVI secolo fino a diventare, più tardi, un luogo comune della tecnica artistica34>>. Se la coincidenza di vedere e rappresentare raggiunta durante il Rinascimento non toglie validità al paradigma narrativo Vasariano nei due secoli successivi, è perché, da un lato, questo si impone come presupposto della realizzazione pittorica; d’altro canto viene accettato (progressivamente, s’intende) come principio teoretico del concetto di arte. Né il Manierismo, né in generale la Controriforma o il Barocco si pongono in antitesi all’idea che il pittore debba dipingere “il mondo” ed elaborare tecniche sempre più raffinate a questo scopo – per quanto possibile. Ed è abbastanza chiaro che accettando, più o meno consapevolmente, di essere artisti in quanto imitatori, i pittori, gli architetti e gli scultori posteriori alla serie raccontata da Vasari erano portati al confronto con i maestri a loro precedenti. Piuttosto, è il concetto di mondo ad allargarsi: in pittura, come nelle lettere ed in architettura, si impiegano sempre più soggetti la cui origine è da trovarsi nell’intellettualismo e nell’erudizione da un lato, nel sentimentalismo devozionale o nella sorpresa dall’altro. La storia delle arti figurative non si ferma a Michelangelo; la sua prosecuzione si deve al fatto che essa si rivolge ora a soggetti nuovi. I motivi pietistici e devozionali tradizionalmente ascritti alla reazione del Concilio Tridentino al Luteranesimo erano già presenti e sviluppati da almeno un cinquantennio in Italia: <<Un progressivo flettersi delle forme pittoriche alle esigenze dettate dal soggetto nei dipinti sacri, una evasione del soggetto stesso dalla condizione di mero pretesto nelle opere eseguite a fine devozionale, sono cose che si avvertono assai presto nel Cinquecento 35>>. E se col Manierismo l’arte della pittura espande la sua visione imitatrice alle entità già presenti nella propria storia, rimbalzando ed insistendo ossessivamente sul particolare già conosciuto anelando ad un’iper-verità tecnica e storica di se stessa, durante il Barocco la ricerca del “vero” proietta l’immagine dipinta verso gli spazi ampi dell’immaginazione ad allacciarsi in

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Francesco d’Olanda, Dialoghi michelangioleschi, cit. in F. Zeri, Pittura e Controriforma, Einaudi 1957, pag.

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Op. cit., pag. 47 (enfasi mia). Op. cit., pag. 34.

32. 35

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maniera nuova con le altre arti che di questa erano la celebrazione: il teatro, l’architettura. Ma anche la filosofia e la scienza forniscono alla mano del pittore nuovi soggetti da raffigurare e nuove modalità allo scopo36: la natura, quella domestica (“morta”) e quella esotica dei nuovi mondi; ma anche quella vittoriosa sulle rovine di una civiltà umana decadente dopo secoli di splendore. Francesco Bacone nel De dignitate et augmentum scientiarum del 1623 introduce lo stesso tema nella sua classificazione delle arti mediante il criterio dell’immaginazione, sebbene riesca con esso a separare solamente la poesia dal novero delle scienze e delle altre arti come unica espressione della fantasia umana (e Vico dopo di lui)37. Come già accennato, solamente lo zelo tassonomico del periodo illuminista porterà ad una nuova classificazione delle arti, dando così il via al percorso che permetterà poi la definizione moderna di arte più vicina a quella che abbiamo noi oggigiorno. In generale si può riassumere dicendo che, attraverso la proposta avanzata da Batteux, quelle che erano tradizionalmente classificate come arti liberali vengono progressivamente sostituite dalle “belle arti”. E, cosa per noi più importante, al pari di ciò che era già avvenuto durante il Medioevo, queste prendono il sopravvento sulle arti meccaniche, assimilate sempre più alle discipline tecnico-scientifiche, fregiandosi univocamente del titolo di arte. <<Un’arte in generale è una collezione o una raccolta di regole per fare bene ciò che può essere fatto bene o male38>>, e siccome già la natura è una <<totalità ordinata>> dove <<tutto è collegato, dato che tutto si trova ordinatamente disposto39>>, l’analogia con l’ordine naturale delle cose è sufficiente a far sì che l’uomo trovi le regole per definire le arti, e la diversa genealogia delle arti, accomunate dal principio utilitaristico del bisogno, dipende dal tipo di natura a cui i diversi “artisti” si rivolgono. Le belle arti nascono così dalla regolamentazione umana della natura nella rappresentazione al fine del diletto. Vorrei concludere questa ricognizione del rapporto tra le opere d’arte e “l’arte” nei secoli che secondo Danto appartengono alla narrazione storica di Vasari insistendo su quest’ultimo punto. L’idea che abbiamo oggi, abituati alle innumerevoli novità e sperimentazioni avanguardistiche, di “arte” come capacità normativa (in senso teleologico, 36

Interessante su questo notare che la tecnica del Caravaggio tesa a <<ringagliardire gli scuri>> (Longhi), sommamente celebrata ai giorni nostri, sia frutto di un utilizzo pressappoco fortuito della camera oscura. 37 Vedi Tatarkiewicz, op. cit., pag. 82 38 C. Batteux, Le Belle Arti ridotte a un medesimo principio, in F. Bollino, Ragione e sentimento, pag. 107 39 C. Batteux, in op. cit., pag. 104

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e non essenziale qual è per l’arte moderna) può suonare stravagante. Ma di fatto l’assunto che nelle arti figurative (le “belle arti”, dal XVIII secolo in avanti), così come nelle arti meccaniche e quindi nelle scienze, si debbano riproporre le regole presenti in natura è pensiero davvero antichissimo. Se la stessa parola “Τέχνη /ars” è stata in grado di attraversare i secoli e conservarsi fino a noi, è perché ha mantenuto inalterato il suo motivo di riproposizione della regolarità e delle norme presenti nell’universo dell’“artista” (“artefice” o “scienziato”). L’Umanesimo prima e l’Illuminismo poi hanno contribuito alla trasformazione della sottocategoria delle arti liberali nel concetto di arte a partire da considerazioni esterne alla natura tecnica e normativa dell’ars tradizionalmente intesa. È cambiata in quei secoli la concezione del soggetto-artefice, è cambiata la sua posizione nel mondo e nell’universo, è cambiato il rapporto tra natura e arte per lasciare spazio all’individuo dotato di ingegno e capace di provare un nuovo sentimento come il gusto. Nella sua ricognizione storica del concetto di mimesis, Wulf scrive: In Tommaso d’Aquino la natura si definisce come nucleo intellettuale dell’arte divina … Arte e natura si approssimano in tanto quanto cercano, in modo analogo, di realizzare il loro scopo intermedio e di giungere al fine. Platone, Plotino, Eriugena, la Scuola di Chartes e Tommaso d’Aquino muovono dall’assunto che la natura è spirituale e ogni cosa muove dalla sua idea … La ragione appare come l’unità fondante di natura e arte. Alcuni secoli dopo Goethe svilupperà idee simili: “L’imitazione della natura per mezzo dell’arte è tanto più felice quanto l’oggetto stesso è penetrato più profondamente nell’artista e quanto più grande e capace è la sua individualità. Prima di rappresentare qualcosa, si deve aver riprodotto l’oggetto in se stessi”. ... [Per Batteux] i processi mimetici dello spirito umano sono espressioni individuali della ragione universale; questa conosce l’ordine, la simmetria e l’unità della natura40.

La <<teoria imitativa41>> del Vasari rimane dunque valida nell’arco di tempo che va dai secoli XIV al XIX se si tiene ben presente che l’“arte” alla quale si fa riferimento altri non è che la capacità normativa delle arti nel suo valore finalistico. L’imitazione della natura di per sé non basta a spiegare il progresso dell’arte una volta individuata come tecnica del progresso medesimo. <<La graduale conquista delle apparenze naturali 42>> diventa Storia dell’arte – quindi Progresso – soltanto nella misura in cui essa pone un limite 40

C. Wulf, Mimesis, I Cabiri 1995, pag. 35 segg. Così nella Presentazione dell’edizione italiana de La destituzione filosofica dell’arte, a cura di Tiziana Andina, Aesthetica, 2007, pag. 22. 42 Tale la <<storia degli stili>> del Vasari per Gombrich. 41

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nel conseguimento di una regolamentazione della natura. Ma questo è inconcepibile agli occhi di chi non consideri tanto la natura quanto l’arte una tecnica, un mezzo per muovere verso l’ideale della Ragione.

L’arte secondo la teoria L’essenza tecnica dell’arte si mostra ogni volta che il concetto evolve. Perché ogni evoluzione risponde ad un utilizzo diverso che il soggetto umano richiede ad essa. Se con il Rinascimento si è assistito alla nascita dell’arte (Belting, Danto) oppure perlomeno ad un’evoluzione di essa (Tatarkiewicz), e tuttavia “arte” ha continuato a significare “capacità di produrre secondo regole”, come nell’antichità, ciò è dovuto all’affacciarsi di nuovi bisogni produttivi che soddisfacessero la nuova idea che si aveva del soggetto umano. Tatarkiewicz afferma che l’arte da Batteux in poi significava <<creazione del bello>>, segnando una rottura coi precedenti due secoli e mezzo43. Danto invece difende la continuità tra i secoli XV e XIX secondo il criterio narrativo dell’ascrivibilità delle opere d’arte prodotte in quel periodo alla stessa storia dell’arte, quella prefigurata dal Vasari. Danto compie il suo dovere di critico e di storico dell’arte ragionando a partire dai protagonisti, ovvero i pittori ed i loro quadri. Ma nel fare una critica della storia dell’arte quale egli propone di fatto, è giusto dare un’occhiata al terzo personaggio di una storia dell’arte, le teorie dell’arte o teorie sull’arte. Esse anticipano la rottura, epocale per la storia dell’arte, avvenuta col Modernismo, iniziato secondo Danto con i post-impressionisti Van Gogh e Gauguin. Una volta verificata l’efficacia della prima teoria unitaria, quella di Batteux appunto, dell’arte come regolamentazione del bello, e soprattutto una volta dedicato uno spazio autonomo alla teoria dell’arte con l’invenzione di una nuova disciplina, l’estetica, fu conseguenza naturale lo svilupparsi di un nuovo interesse concettuale verso l’arte, teso a proporre e verificare modelli normativi unitari. Con la differenza però che, al contrario del passato, ora la normativa smetteva di rappresentare il carattere tecnico dell’arte, che nel

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Op. cit., pag. 50.

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sistema di Batteux poteva essere riconosciuta grazie alla manifesta capacità di regolamentare tramite l’imitazione della natura, per costituirne il nucleo essenziale44. La teoria mette in crisi l’arte come mimetica quando annuncia la presenza di una legge autonoma dalla natura. Ancora una volta, è l’evoluzione dell’affermazione del soggetto sulla natura – ora peraltro arricchita dall’incredibile quantità di merci prodotta dalla neonata Industria – a contribuire in maniera fondamentale ad un diverso rapporto dell’uomo con la natura, riflettendosi quindi sulla teoria dell’arte, essendo questa da sempre la tecnica di quel rapporto. C’è innanzitutto una filosofia che pensa alla ragione come essenzialmente legislativa, rappresentata da un capolavoro come la Critica della Ragion Pratica45. E c’è d’altra parte la sua magistrale traduzione in una estetica da parte di Schiller: la bellezza dell’arte è concepita come libertà nel fenomeno nella misura in cui l’anima bella (che la produce) detta legge a se stessa46. Quello che prima rappresentava il limite ideale verso cui progredire mediante l’imitatio viene usato per la prima volta come criterio essenziale dell’opera d’arte, a celebrazione della sua autonomia nella natura. Poco cambia se effettivamente si intenda l’autonomia che l’arte può raggiungere come libertà nel fenomeno (secondo la lezione Schilleriana) o libertà dal fenomeno, importante è per un’evoluzione nella teoria dell’arte che a questa venga riconosciuta un’essenza legislatrice precedente alla propria manifestazione – poiché “unità delle arti” significa che ora c’è un’essenza dell’arte, ed è compito della teoria scoprirla. La prima arte a recepire attivamente questo spostamento autonomistico nella considerazione del concetto di arte fino ad accoglierlo nella sua produzione, fu la poesia. Anche se sarebbe più opportuno parlare degli artisti, e non delle opere d’arte in sé. Nel gruppo dello Sturm und Drang questo avvenne vent’anni prima dell’opera di Schiller L’educazione estetica dell’uomo in una serie di

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È importante ripetere che “capacità normativa” e “regolamentazione” (dell’arte) costituiscono un tutt’uno con “imitazione” (della natura) dal momento che la natura è un tutto al cui interno la ragione deve trovare le regole; in questo senso l’arte non è che l’atto (umano) di una regolarità presente in potenza, ma reale (in quanto creata da Dio). 45 Nella Critica della ragion pura (B 263) Kant aveva già affermato: <<Col termine natura (in senso empirico) noi designiamo la connessione dei fenomeni, quanto alla loro esistenza, in base a regole necessarie, cioè a leggi>>(a cura di P. Chiodi, ed. Utet, pag. 245). Per Heidegger l’essenza dell’esistente <<consiste, in senso moderno, nella essentia e nella legalità>> (Introduzione all’estetica, a cura di A. Ardovino, Carocci pag. 111). 46 Il rapporto tra i due filosofi non è naturalmente licenziabile con una considerazione così modesta. Tuttavia, non potendo proporne qui un’analisi più soddisfacente (non indispensabile alle nostre tesi), ricordiamo che lo stato estetico di Schiller rappresenta il superamento di quella che gli appariva una morale mortificante per l’uomo e di fatto irraggiungibile se non col postulato dell’immortalità dell’anima affermato, appunto, da Kant. L’animo nobile, che gode della bellezza che ha sede nello stato estetico, è più che morale in quanto assolutizza la moralità nella propria mondanità. Su questi temi: A. Negri, Schiller e la morale di Kant, Lecce, Milella, 1968, e L. Pareyson, Etica ed estetica in Schiller, Milano, Mursia, 1986.

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lettere, sebbene per i giovani poeti germanici l’unitarietà della poesia proveniva ancora da un’imitazione: era il recupero di un differente rapporto, affatto problematico, dell’Uno con il Tutto cosmico di natura e storia ad esigere, in quel nucleo auto-consapevole che era lo Sturmer, la fuoriuscita di un nuovo soggetto. In questo caso la poesia celebrò tanto lo spirito germanico (Ossian, Shakespeare, le tradizioni medioevali e popolari in generale, lo stile Gotico), quanto l’uomo titanico che, mediante il contatto dèmonico con la Sapienza, è consapevole di possedere una forza plastica, che costituisce il valore più alto della propria essenza terrestre47. Questa nuova consapevolezza dell’uomo che fa arte, del proprio ruolo di cerniera tra micro e macrocosmo, diventa autoconsapevolezza dell’arte e riflessione dell’arte dal momento che l’ideologia volontaristica dello Sturmer tende alla realizzazione della vita quotidiana secondo i canoni del medesimo titanismo. La vita diventa celebrazione dell’ideale, e quindi realtà dell’arte che a quell’ideale anela, senza tradire mai la “terrestrità” della realizzazione. La poesia romantica è invece uno strumento al servizio del soggetto: questi subisce sì un’evoluzione, ma essa non produce un modo altrettanto nuovo di concepire l’arte; almeno nel dato in cui, nonostante abbia un diverso oggetto rispetto alla poesia neoclassicistica, essa non smette di imitare la natura. <<Durante il primo anno di vicinato con il sig. Wordsworth – scrive Coleridge – le nostre conversazioni vertevano spesso sui due punti cardinali della poesia, cioè il potere di eccitare la simpatia del lettore tramite una fedele aderenza alla verità della natura, e il potere di infondergli l’interesse della novità attraverso i mutevoli colori dell’immaginazione48>>. Da Coleridge proviene un nuovo posizionamento dell’arte del poeta nei confronti della scienza e della realtà naturale: <<Poesia non è la corretta antitesi alla prosa, ma alla scienza. L’oggetto proprio e immediato della scienza è l’ottenimento, o la comunicazione, della verità; l’oggetto proprio e immediato della poesia è la comunicazione di un piacere immediato … Cos’è questo [piacere]? È quell’emozione piacevole, quello stato peculiare e quel grado di eccitazione che sorge nel poeta stesso nell’atto della

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In L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, vol. 2, Torino, Einaudi, pag.363-365. S. Coleridge, Biographia Literaria, XIV, in Poems and prose selected by K. Raine, Penguin 1957, pag. 191: During the first year that Mr Wordsworth and I were neighbours our conversations turned frequently on the two cardinal points of poetry, the power of exciting the sympathy of the reader by a faithful adherence to the truth of nature, and the power of giving the interest of novelty by a powerful imagination. 48

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composizione49>>. Da questo ultimo frammento si evince pure la posizione dominante che viene a rivestire l’autore-artista nei confronti della natura; essa non è tuttavia rinnegata, anzi: si crea piuttosto una posizione intermedia per il soggetto tale per cui nel mantenere come oggetto il piacere dell’autore, la poesia non ha da rinunciare all’imitazione della natura. Il frammento infatti continua: <<per capire tutto ciò, dobbiamo combinare un più che ordinario stato di simpatia con gli oggetti, le emozioni o gli accidenti contemplati dal poeta, cagionati da una sensibilità fuori dall’ordinario, con una straordinaria attività della mente in relazione alla fantasia e all’immaginazione. Così viene prodotta una riflessione più vivida circa le verità della natura e del cuore umano, unitamente ad un’attività costante, da parte di quella piacevole emozione, volta a modificare e correggere quelle verità 50>>. Il poeta trova una verità maggiore (modificata, corretta) perché egli sente la presenza di sé nella natura51. Le arti visive nel frattempo sviluppano interessi soggettuali nuovi, che in qualche modo anticipano la svolta tecnica imposta sulla pittura dalla nascita della fotografia. Nel 1981 è stata organizzata dal Museum of Modern Art di New York una mostra, dal titolo Before Photography. Painting and the invention of Photography, con l’intento di proporre e verificare la tesi secondo cui il periodo d’inizio XIX secolo, precedente alla comparsa del nuovo strumento fotografico, sia stato caratterizzato dall’attenzione di alcuni artisti a certe esigenze visive che solo la fotografia ha saputo poi soddisfare52. La tesi afferma che esiste un legame profondo tra la pittura e la fotografia nel tentativo di rivolgersi alla realtà con un occhio davvero diverso, più attento al particolare ed in questo senso all’inorganico, al frammentario, per dare ad esso risalto ed occasione di <<risvegliare una catena di pensieri e sentimenti, e un immaginare pittoresco53>>. Può darsi che il nuovo medium fotografico apparisse più adatto alle richieste di un mondo artistico interessato ora a dettagli difficili da 49

S. Coleridge, Lectures and notes of 1818, in op. cit., pag. 225: What is this? It is that pleasurable emotion, that peculiare state and degree of excitement, which arises in the poet himself in the act of composition; and in order to understand this, we must combine a more than ordinary sympathy with the objects, emotions, or incidents contemplated by the poet, consequent on a more than common sensibility, with a more than ordinary activity of the mind in respect of the fancy and the imagination. Hence is produced a more vivid reflection of the truths of nature and of the human heart, united with a constant activity modifying and correcting these truths by that sort of pleasurable emotion. 50 Ibidem. 51 Si potrebbe citare a questo proposito la lettura che Severino offre di Leopardi, che nella Ginestra – simbolo dell’arte – celebra la forza con cui il poeta mantiene lo sguardo sulla Verità, anche se è la verità tragica del divenire, del deserto. Il poeta e la sua arte come unici elementi di rilievo in un paesaggio dominato dall’oscurità dell’annullamento. 52 Vedi Daniela Palazzoli, Prima della fotografia, la fotografia, ne La rivista dell’arte, n. 112 Ottobre 1981, Mondadori, pag. 30. 53 William H. F. Talbot, ibidem.

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cogliere dall’occhio del pittore, quasi una tecnica obsolescente, in questi termini. L’importante per noi è che già subentrasse così, nella coscienza dei pittori, la ricerca di strumenti pittorici nuovi al fine del nuovo oggetto cui l’arte doveva rispondere. Quand’ebbe bisogno di uno strumento, l’“arte” già rispondeva ad una domanda; ed in-sé non era più una tecnica. Non si sarebbe più trattato di Storia della tecnica (Vasariana) d’ora in poi, ma di Storia dell’arte: anche quella passata ne sarebbe stata investita retroattivamente. L’arte può ora considerarsi un personaggio vivo, che non è più strumentale a ma ha degli strumenti; contemporaneamente, ogni essenza tecnica è stata devoluta alla sola Scienza: i due personaggi sono oramai destinati a imboccare strade divergenti. Nessuna delle due ha un obiettivo, ma entrambe finiscono ogni volta che incontrano l’Altro. La differenza tra le due narrazioni sta nel protagonista: il protagonista della Storia della scienza è il Tutto, quello della Storia dell’arte è l’Uno. È una differenza di prospettiva, impensabile fintanto che l’uomo ragionava in termini di Uno-Tutto. Ogni opera d’arte viene in possesso di una memoria per la quale il passato viene conservato grazie alla modificazione dello stesso da lei cagionata. L’opera d’arte aufhebt la propria storia. L’arte romantica, o arte soggettiva, è <<la terza forma in cui ci è venuta incontro l’esistenza delle forme artistiche universali>>, dopo l’architettura e la scultura 54, secondo Hegel. L’architettura le ha costruito il tempio, per mano della scultura è sorto il dio, e di fronte al dio sta ora, negli ampi spazi della sua casa, la comunità dei fedeli; contro l’universale unità del contenuto e della forma si afferma la singolarizzazione, la soggettività, la particolarizzazione di entrambi i lati. La comunità è il dio, che è stato sottratto alla sua immersione immediata nell’esteriorità ed è tornato in sé. Il dio non è più questo Uno, come nella statua, ma l’unità si spezza e viene frammentata nell’indeterminata molteplicità della soggettività. E così in luogo di quel contenuto (dell’Uno), la materia è ora la soggettiva particolarità dei sentimenti, delle azioni, la molteplicità del movimento vivente dell’individualità con il suo agire, il suo volere e il suo non-volere. Dall’altra parte il materiale diventa altrettanto frammentato … è la materia in sé particolarizzata e soggettiva, che qui vien presa in considerazione come soggettività e ottiene significato solo come soggettiva. Così si attua qui un’unità di forma e contenuto molto più elevata … Il contenuto prende il modo del materiale, questo il modo del contenuto. Tale più intima unità tuttavia emerge essa stessa dal lato

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Michelangelo Buonarroti, eroe della storia Vasariana, si definì sempre uno scultore.

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soggettivo e si attua soltanto in quanto forma e contenuto si particolarizzano, a danno dell’universalità oggettiva.55

L’arte del romanticismo è quella che secondo Hegel raggiunge il massimo grado di spiritualità possibile. E sebbene l’arte <<è un modo per lo spirito di portare a coscienza i suoi interessi, non è però il modo più alto di esprimere la verità … Il nostro mondo, la nostra religione e la nostra formazione razionale sono di un grado oltre l’arte come grado supremo per esprimere l’assoluto. Il nostro rapporto con l’arte è di tipo più meditativo. Proprio perciò noi abbiamo anche bisogno di riflettere sull’opera d’arte56>>. Per Hegel il criterio narrativo dell’imitazione non funziona già più, perché questa non è il suo vero dato caratteristico: <<L’opera d’arte può dunque limitarsi all’imitazione della natura, ma questa non è la sua determinazione essenziale, perché l’uomo ha nell’opera d’arte un interesse peculiare, ha un contenuto peculiare, che porta a presentazione57>>. Nel corso del secolo XIX assistiamo pertanto ad una mutazione dell’arte, che progressivamente mette in discussione la sua essenza tecnica di rapporto imitativo con la realtà, approfondendo il materiale a lei peculiare, particolarizzandolo e particolarizzandosi. Come l’uomo non è semplicemente, ma è anche per sé, così l’arte moderna riflette nella sua vita interiore e lo fa nella sua essenza materiale. È difficile stabilire il punto esatto in cui la pittura passò dal paradigma narrativo mimetico a quello moderno, che nei termini di Greenberg si traduce nel progressivo avvicinamento alla pittura pura, al dipingere il proprio medium specifico. Danto ha ragione ad affermare che l’Impressionismo fa ancora parte della narrazione Vasariana, se si considera questa governata in tutto dall’imitazione della natura. I soggetti sono riconoscibili, nonostante il metodo diverso di rappresentarli. La luce per la prima volta si incarna nelle pennellate. Ma la devoluzione dell’autonomia normativa propria della razionalità dell’uomo, e dunque dell’artista, ai manufatti artistici, è già spia del riconoscimento di una normativa essenziale all’arte che la rende autonoma; i diversi stili del “Modernismo” si succedono in virtù di ciò che di volta in volta viene ad essere autonomo e degno di esprimersi mediante sé soltanto. Per gli impressionisti la pittura doveva aspirare alla purezza come aderenza totale alla propria teoria, riflessione di sé come tecnica. Un 55

Lezioni di estetica. Corso del 1823 nella trascrizione di H. G. Hotho, tradotto e introdotto da P. d’Angelo, Laterza, 2000, pag. 40 segg. 56 Op. cit., pag. 8, enfasi mia. 57 Op. cit., pag. 26.

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autentico punto di passaggio tra i due episodi della storia dell’arte. La pittura pura era considerata quella che, <<col suo passare senza intermediari dall’oggetto alla rappresentazione, si erigesse garante contro ogni finzione letteraria e retorica58>>. Durbé cita a questo proposito Argan: <<La pittura, rivendicando all’artista la funzione di tradurre nell’opera la sensazione visuale immediata, indipendentemente oppure in opposizione a ogni nozione convenzionale di struttura, di spazio e di forma degli oggetti, attribuiva alla sensazione il valore di un fatto autonomo e assoluto59>>. Dedicheremo il capitolo successivo alla trattazione del rapporto tra Danto e la narrazione modernista di Greenberg, analizzando i contenuti artistici più da vicino. In questa sede è necessario prendere atto della perdita, da parte del concetto di “arte”, del significato generico di tecnica in-sé estrinseca. L’arte viene ad essere, nel corso del XIX secolo, un ente razionale: essa non è più lo strumento per l’appropriazione della realtà secondo certe regole, ma essa è secondo le regole che si dà. La normatività le è ora essenziale, non più teleologica. Questo è il senso più profondo di ogni dichiarazione dell’“autonomia dell’arte” fatta durante il periodo modernista (e prima). E se la normatività essenziale dell’uomo (Kant), si esprime secondo aporie tra il dato sensibile e quello razionale (astratto, ideale), la teoria dell’arte mantiene il linguaggio del materiale che le è proprio, essendo oramai questo <<particolarizzato e soggettivo>>. Solamente tenendo presente ciò si può comprendere come la “storia dell’arte secondo la teoria” fornitaci da Greenberg, proceda verso la purezza del concetto che l’arte ha di sé nel proprio medium materiale.

58 59

D. Durbé, L’Impressionismo e l’arte moderna, ne L’arte moderna, Fabbri editore 1975, vol. 1 pag. 10. Ibidem, enfasi mia.

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Capitolo II. Moderno e contemporaneo secondo Danto.

1880 – 1965: l’Età dei Manifesti Danto si occupa del Modernismo nel capitolo quattro di After the end of art. Coerentemente con l’impostazione del libro, lo fa eseguendo un’analisi critica della metodologia della storia dell’arte moderna. Il Modernismo non è uno stile come gli altri, poiché per studiarlo a fondo non bastano gli strumenti storici ma occorrono gli strumenti critici a marcare il passaggio ad un’altra <<totalità culturale>> (cultural whole). Tanto la successione degli stili dal XIV al XIX secolo (impressionisti compresi), quanto la ridda di –ismi ed avanguardie otto-novecentesche appartengono ad una storia come sviluppo e progresso (progressive developmental history); ma ne costituiscono due diversi momenti. I due momenti sono le diverse totalità culturali: illusionismo e modernismo; in quanto hanno un fine, che abbiamo definito criterio narrativo, entrambi i momenti ospitano uno sviluppo progressivo al loro interno. Innanzitutto dobbiamo domandarci: perché dobbiamo segnare uno scatto di altro livello nella successione stilistica degli anni tra il 1870 e il 1890, rispetto alla narrazione passata? Il motivo è quello che abbiamo descritto nel capitolo precedente: l’arte non è più la stessa. Certo, questo vale anche all’interno della storia dell’arte come illusione. Ma non ha semplicemente cambiato modo di presentarsi, ovvero non sono soltanto cambiate le tecniche di rappresentazione: l’arte si è presentata, una porzione di spirito si è resa opaca pretendendo di giudicarsi da sé. Se prima l’uomo che “imparava l’arte” poteva condividere i suoi risultati con l’intera comunità, ora l’uomo-arte può esprimere un giudizio sulla comunità nella misura in cui si lascia giudicare da essa. L’artista-artefice, quando ritenuto superiore spiritualmente all’artigiano, esprimeva nel suo linguaggio “più alto” una differenza di tono rispetto al volgo. L’uomo-arte si trova sempre troppo in alto e troppo in basso rispetto al profano del museo d’arte contemporanea, e si esprime verso l’esterno con i cambiamenti di registro propri del linguaggio retorico. Poco tempo fa ho visitato il Museo Reina Sofia di Madrid, nella cui sala 206 è ospitato Guernica di Picasso. È un’opera davvero monumentale, sia per dimensioni (sette metri di lunghezza per tre di altezza, se non 38


sbaglio), che per genesi e vicenda storica successiva. Non è un quadro astrattista, sebbene i personaggi siano storpiati da una figurazione pseudo-cubista. È un quadro modernista, certo, ma poiché concepito intorno ad un fatto storico (il bombardamento di un villaggio basco durante la guerra civile spagnola) aspira alla condivisione di un giudizio. Non conosco le testimonianze dell’autore né il dibattito critico contemporaneo alla produzione e alle prime esposizioni del quadro, tuttavia sono convinto della presenza del Patetico in quell’opera. L’utilizzo della scala di grigi è patetico; i luoghi comuni impiegati sono patetici: la madre che piange il proprio figlioletto, il soldato sanguinante, la bestia impazzita, l’incendio che divora il villaggio; le forme spigolose contribuiscono di certo all’atmosfera fredda e drammatica. Ma nonostante ciò, sono altrettanto convinto che non si lasci giudicare come un’opera catartica tout court. Guernica apprezzerebbe se qualche visitatore piangesse al suo cospetto; ma in fondo è troppo se stessa per dolersene quando questo non succede. Se invece La libertà guida il popolo di Delacroix non agitasse l’animo del lettore di passioni rivoluzionarie, si rinsecchirebbe nella ridicolaggine e l’opera d’arte svanirebbe. Certo, lo spirito presente nelle opere d’arte moderna è tale che, attraverso la loro conoscenza, l’uomo dà forme nuove alla propria spiritualità, al proprio sentimento, alla propria percezione. Ma questa novità deriva da meccanismi cognitivi (l’occhio deve essere “allenato” a <<distillare e ad estrarre la qualità estetica60>>, per dirla con Greenberg) e non percettivi; e, soprattutto, se il fine dell’arte moderna fosse veramente la rappresentazione mediante regole del sentimento e della spiritualità degli uomini, essa risulterebbe semplicemente inutile. Per secoli l’uomo ha dato corpo alla stessa spiritualità mediante altre forme; no, l’arte moderna non chiede di essere letta secondo questi criteri. Il bacio di Klimt, pittore di gran moda oggi, è sicuramente un’opera di struggente dolcezza; tale è, senza andare troppo lontano, Il bacio di Hayez, e nonostante ciò stabilire un paragone tra le due opere sulla base della loro “riuscita” non sarebbe possibile. Perché se possiamo farlo con Hayez, in caso di giudizio affermativo non possiamo farlo con Klimt: la sua opera svanirebbe se non si tenesse conto delle regole secondo cui esiste, ben oltre i suoi effetti estetici. La prima di esse è la consapevolezza della propria storia, che si traduce innanzitutto

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C. Greenberg, Modern and postmodern, W. Dobell Memorial Lecture, Sydney, 1979, in Arts 54, Feb. 1980: Modernist get their standards and levels … from a generalized feeling and apprehending, a kind of distilling and extracting of aesthetic quality. A proposito del problema del giudizio per quanto riguarda l’arte moderna e contemporanea vedi infra, pag. 23 segg..

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nell’interesse verso la novità formale: per essa l’opera esige il riconoscimento della propria singolarità sullo sfondo della tradizione. Su questo punto le teorie di Danto convergono con quelle di Greenberg: la Storia è indispensabile all’arte. Mentre per il primo essa è parte integrante del procedimento ermeneutico mediante il quale gli uomini conoscono l’arte, per Greenberg il Modernismo stesso è un continuo confronto serrato col passato, dal quale gli artisti ricavano <<l’impulso a standard di eccellenza … sostanza e giustificazione61>>. Il senso della Storia nel singolo costituisce il contributo finale del pensiero dialettico alla filosofia: nella parte c’è il tutto. L’assoluto è l’assenza reale che muove le parti nella storia: come per Hegel il vero è l’intero (das Ganze), così per Marx esiste una parte in cui è contenuto il tutto della propria epoca, il proletariato. Hegel descrive molto chiaramente i rapporti tra l’opera, l’artista e il fruitore quando l’arte <<si eleva alla forma del Sé per via della produzione della coscienza62>> nella seconda delle realtà effettive dello spirito, la religione artistica. E descrive altrettanto bene la maniera in cui l’opera d’arte si è resa autonoma e dall’autore e dallo spettatore, eludendo il giudizio attributivo: L’artista, nella sua opera, fa dunque l’esperienza di non aver prodotto un’essenza uguale a lui. Tale esperienza gli rende una consapevolezza: una moltitudine colma di ammirazione venera l’opera da lui prodotta in quanto essa è lo spirito, che costituisce l’essenza di tale moltitudine. Ma questa animazione, poiché restituisce all’artista la sua autocoscienza solamente in forma d’ammirazione, è piuttosto la confessione con cui quell’ammirazione confida all’artista di non essergli uguale. Poiché quello che gli ritorna dall’opera è, in generale, un senso di gioia, l’artista non vi ritrova il dolore che accompagna il suo formare e produrre, non vi ritrova lo sforzo del suo lavoro. Gli uomini potranno anche mettersi a giudicare l’opera, oppure offrirle sacrifici; potranno riporvi la loro coscienza in un qualsiasi modo: comunque sia, se essi, con la cognizione che ne traggono, si pongono al di sopra dell’opera, l’artista sa quanto il suo atto valga di più della loro comprensione e dei loro discorsi; se essi invece si pongono al di sotto dell’opera, riconoscendovi l’essenza che li domina, l’artista sa di essere il padrone di tale essenza.63

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C. Greenberg, Modernist painting, op. cit.: Nothing could be further from authentic art of our time than the idea of a rupture of continuity. Art is – among other things – continuity, and unthinkable without it. Lacking the past of art, and the need and compulsion to maintain its standards of excellence, Modernist art would lack both substance and justification. Il tema è presente con ancora più forza nel saggio Modern and postmodern del 1979, di cui tratteremo più sotto. Ivi si legge, oltre alla citazione riportata qui alla nota 1, che <<l’intera impresa del Modernismo, per ogni suo aspetto esteriore, può essere vista come retro-spettiva>>. 62 Hegel, Fenomenologia dello spirito, op. cit., pag. 451. 63 Op. cit., pag. 465.

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Il punto che voglio sottolineare qui – espresso da Danto soprattutto ne La trasfigurazione del banale – è che si possono giudicare le opere d’arte moderna per attributi; ma in tal modo cesserebbero di essere se stesse. Al pari della filosofia di Hegel, l’arte moderna chiede di abbandonare i meccanismi secolari del pensiero occidentale, fatto di sostanze e loro attributi come oggetti di un’essenza-soggetto. Il pensiero dialettico chiede di risolvere, di sciogliere la compattezza della sostanza introducendo in essa la soggettività, che è negazione determinata, mediante il lavorio travagliato del concetto piuttosto che mediante l’estasi istantanea, come affermava Schelling. Non si tratta più quindi di un soggetto che tenta di appropriarsi dell’oggetto, quanto della manifestazione dell’unità di soggetto e oggetto nel concetto. Cosa cambia per le opere d’arte? Che esse richiedono un pensiero fluido che sia in grado di aderire a tutto ciò che è saputo dalle figure storiche presenti al loro interno. L’opera d’arte moderna esige un racconto per essere giudicata, al pari del racconto dello spirito che è la Fenomenologia: essa è infatti l’eruzione qualitativa di una crescita quantitativa interna alla storia dell’arte, ora pervenuta all’autocoscienza. Per conoscere l’opera bisogna dunque sapere di un intero mondo artistico del quale l’opera è un Aufhebung. Torniamo ora a Dopo la fine dell’arte. Abbiamo visto sopra che cosa intende Greenberg per Modernismo: l’adesione consapevole dell’arte al proprio medium. E se questa adesione critica è l’essenza del Modernismo da Kant in avanti, l’arte non può fare a meno di individuare la sua essenza materiale per presentarsi poi come testimonianza della teoria che la giustifica. Ritroviamo la stessa circolarità quando consideriamo l’opera d’arte moderna come fondamentalmente ermeneutica. Anche in questa occasione saldiamo i concetti di opacità e trasparenza dell’opera d’arte – trattati ne La trasfigurazione – con il materialismo di cui parla Danto nell’ultimo libro. Greenberg dà voce ad un pensiero fondazionalista quando individua nella pennellata non dissimulata degli impressionisti l’essenza dell’arte pittorica (allo stesso modo in cui Rothko eleva la pittura alla sua essenza nel non tradire la piattezza della tela). Secondo Danto gli impressionisti non miravano a tale scopo, ma credevano sinceramente di poter contribuire all’illusionismo pittorico attraverso la loro tecnica. Tuttavia l’applicazione di una teoria dell’arte, o di una narrativa dell’arte, diversa da quella mimetica, fece sì che il quadro ora <<doveva essere osservato piuttosto 41


che osservare … con la pittura impressionista per la prima volta la prospettiva dell’occhio interno divenne a tutti gli effetti la prospettiva dell’occhio esterno64>>. La stessa cosa scrive Greenberg nel suo saggio Modernist painting: <<Mentre si tende a vedere cosa è nel [quadro di un] Vecchio Maestro prima di vedere il quadro stesso, per prima cosa si vede il quadro Modernista come quadro65>>. Vedere un quadro come quadro significa ravvisare un’opacità rappresentativa che non lascia che lo spettatore ammiri o rifletta circa il contenuto dell’opera, previo riconoscimento del concetto di quadro, intendendo cioè “artisticamente” l’oggetto davanti al quale si trova. Il rapporto tra la narrazione di Greenberg e quella di Vasari è di continuità, solamente in quanto entrambe narrano in virtù di uno sviluppo; ma esiste un divario incolmabile tra le due, dovuto al movimento di emersione dell’Uno come prospettiva narrativa a scapito del Tutto: <<Greenberg definisce una struttura narrativa che è naturalmente continua rispetto alla narrativa Vasariana, ma nella quale la sostanza dell’arte lentamente diviene il soggetto dell’arte66>>. In termini Hegeliani: <<Questa forma è la notte in cui la sostanza fu tradita, e si fece soggetto67>>. Il Modernismo è una successione di <<atti di fede>> (enactments of faith) rivolti dagli artisti nei confronti di quel tipo di arte che di volta in volta essi consideravano essere la vera arte. Esiste un’arte autentica il cui senso recondito e dimenticato è ora recuperato e ri-cordato dall’artista che, all’interno dell’opera singola, mette fine alla storia dell’arte. Lo straordinario individualismo dell’arte moderna è testimoniato da quel prodotto eminentemente modernista che è il manifesto. Il manifesto è un manuale che esprime il criterio secondo il quale narrare la storia di un determinato stile o opera d’arte. Come le poetiche degli artisti stessi (Danto cita ad esempio quelle di Malevich, di Mondrian e di Reinhardt; ma potremmo aggiungervi Kandinsky, Marinetti, Bréton, Tzara ecc.) possono essere considerate dei manifesti, i manifesti possono essere considerati opere d’arte: è la tematica secondo cui, essendo l’autocoscienza prerogativa della filosofia, 64

Danto, After the end of art, op. cit., pag. 75-76: … the painting was to be looked at rather than through, in the sense of “through” which implies transparency. … In any case, with impressionist painting, for the first time the insider’s perspective in fact became the outsider’s perspective. 65 C. Greenberg, Modernist painting, op. cit., §8: Whereas one tends to see what is in one Old Master before one sees the picture itself, one sees a Modernist picture as a picture first. E questo, si noti, non tanto per la mancata figuratività del soggetto: infatti il critico parla qui facendo l’esempio dell’Impressionismo. 66 After the end of art, op. cit., pag. 76: The point is that Greenberg narrative defines a narrative structure which is naturally continuous with the Vasarian narrative, but one in which the substance of art slowly becomes the subject of art. Il movimento è lo stesso descritto da Hegel circa la conquista dello spirito nell’autocoscienza da parte dell’arte soggettiva, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente. 67 Hegel, Fenomenologia dello Spirito, op. cit., pag. 462.

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allorché mediante l’elevazione ad essa l’arte diventa spirito, non è più possibile distinguere tra questa e la filosofia (dell’arte)68. All’interno del periodo modernista assistiamo dunque a continui approdi storici, cagionati dal preteso raggiungimento dell’essenza artistica da parte di ogni singolo movimento allorché questo, elevandosi all’autocoscienza di sé, individui in quella determinata essenza la fine della storia. Da qui nasce il problema di tutto quello che non ha autocoscienza di sé allo stesso modo, ovvero di tutto ciò che non è quel soggetto. Il Moderno non è lo spirito assoluto perché in esso agisce lo spirito come <<interiorizzazione ri-cordante>>, mentre nell’esistenza dello spirito, rimasta esclusa dall’interiorità del soggetto autocosciente, il Moderno è alienato. Tradotto nel linguaggio degli stili: se per il Cubista l’Impressionismo non è arte (“vera” arte, ossia arte in senso essenziale), così per l’Espressionista astratto (Greenberg) il Surrealismo e la Metafisica non appartengono alla storia, perché indugiano in quella pratica obsoleta che è la figurazione e – quel che è peggio – perché pretendono di istituire rapporti simbolici tra l’arte e l’inconscio sulla scorta di un’altra disciplina, la psicanalisi. Ogni stile moderno è un criterio narrativo per giustificare la fine della storia alla realizzazione di quello stile. Tutto il resto della produzione artistica giace oltre il limite della storia (the pale of history); ma non nel senso che gli altri stili abbiano già ottenuto la stessa condizione (lo stesso end-state), bensì nel senso che le loro opere d’arte non concorrono o non hanno concorso alla storia che si è incarnata in quello stile o in quell’opera d’arte. Come è possibile quindi racchiudere l’arte moderna in una storia dell’arte progressiva, se ogni opera-movimento-stile rappresenta una storia dell’arte in sé? È chiaro che una storia dell’arte onnicomprensiva non è possibile. D’altronde non lo è stata prima, mancando nel periodo Vasariano l’interesse alla definizione di un’essenza dell’arte come risultato di un’autocomprensione dell’arte stessa. Ora che l’interesse degli artisti è del tutto rivolto a definire prima e dare prova poi di ciò che costituisce per loro l’essenza dell’arte, tutto il resto è censurato come in-artistico o in-essenzialmente artistico. L’opera d’arte moderna ha dei punti in comune con la dialettica totalitaristica. Essa è certa di sé come essenza dell’arte, ma è pure infelice perché <<solo entro di sé la coscienza è essenza>>; la sua 68

Vedi La trasfigurazione del banale, op. cit., pag. 68: … la filosofia dell’arte, invece di restare al di fuori del proprio oggetto e di rivolgersi ad esso da una prospettiva estranea ed esterna, si è trasformata nell’articolazione delle energie interne al proprio oggetto … L’arte esemplifica virtualmente la lezione di Hegel sulla storia, secondo cui lo spirito è destinato a diventare cosciente di se stesso … La definizione dell’arte è diventata parte della natura dell’arte in maniera molto esplicita.

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consapevolezza è dolore per la perdita di ogni altra essenzialità, <<è quel dolore che trova enunciazione nella durezza delle parole: Dio è morto69>>. Il fondazionalismo è il tratto distintivo della storia dell’arte moderna concepita da Greenberg: questa è la sua straordinaria forza. Danto riconosce al critico l’aver individuato l’unico criterio con il quale poteva essere narrata l’arte moderna, perché la novità storica che essa ha introdotto – autonomamente, cioè prima di ogni riflessione estrinseca ad essa – è stata l’annunciazione di un operare critico alla ricerca del proprio fondamento. Questa natura, che l’arte si è data, di concetto di sé, è riflessa – nel senso di ripetuta – nella narrazione Greenbergiana, che non è precettistica come la precedente di Vasari, ma contiene essenzialmente una normativa. Il passaggio da una normativa teleologica a un’essenza normativa, come abbiamo visto, ha segnato la trasformazione del rapporto tra “arte” e “natura”, proprio attraverso l’emersione di un nuovo ente nella natura: l’arte. Pertanto Greenberg non è solo uno studioso dell’arte, ma un’artista egli stesso alla pari di Danto, dal momento che ciò che ha fatto, individuare un fondamento dell’arte e racchiudere la storia del disvelamento nel prodotto del suo lavoro, è del tutto analogo all’operato dell’artista. Come però l’artista o il movimento traggono parte della loro forza dall’opposizione dialettica ad un altro stile, ad un'altra poetica, così il modello narrativo di Greenberg si afferma solo quando il critico individua una precisa essenza dell’arte moderna, e non già stabilendo che l’arte moderna interroghi o ricerchi la propria essenza, lasciandole spazio per muoversi in quella direzione autonomamente. È esemplificativo a tal proposito notare come il Modernismo abbia contribuito in maniera vigorosa alla separazione della pittura dalla scultura, effettuata sulla base del diverso rapporto delle opere d’arte con lo spazio. La pittura, all’inizio del XX secolo, testimonia di un lavoro intellettuale cosciente di sé e volto a contenere, nei limiti di un concetto, le caratteristiche specifiche di a-spazialità interna del quadro rispetto alla rappresentazione precedente, modellata a guisa di scultura70. È la negazione determinata del soggetto autocosciente che rende la sostanza fluida, nel concetto. Non si tratta quindi di una semplice rivendicazione dell’autonomia dell’arte genericamente intesa, ma, in base allo stesso principio individualista, di una pretesa autonomia da parte di un’arte nei confronti delle altre (e viceversa); approdando, infine, alla celebrazione

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Hegel, Fenomenologia dello Spirito, op. cit., pag. 491. Vedi Greenberg, op. cit., §§9-10.

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unilaterale di uno stile sugli altri, rispetto ai quali esso si troverebbe in posizione più prossima alla Verità (dell’arte). Il manifesto artistico, espressione celebrativa, dà corpo anche alle parcellizzazioni dell’essere che gli stanno a monte, per mano del concetto. Greenberg sostiene che gli artisti moderni non abbiano più consapevolezza del loro criticismo nei confronti dell’arte cui si dedicano, di quanto non avesse un pittore del Rinascimento oppure un Accademico francese. Ogni interrogativo intorno alla natura del loro lavoro rimane una questione di pratica artistica, senza sconfinare mai nella teoria: <<l’auto-criticismo non è mai stato portato avanti [dagli artisti] se non in maniera spontanea e in larga parte subliminale71>>. Siamo agli antipodi rispetto a quanto affermato da Danto: l’interesse nei confronti dell’essenziale pittorico ed il suo perseguimento consapevole non sarebbero stati concepiti come critica della disciplina pittorica, almeno fino all’analisi di Greenberg. È davvero così? È schema retorico consolidato quello di riconoscere al proprio avversario innanzitutto l’esattezza di una parte di quanto affermato. Greenberg qui dice sostanzialmente due cose: 1) se gli artisti erano consapevoli di condurre una critica all’arte che praticavano, questa rimase sempre entro i limiti della prassi del loro lavoro; 2) essi non avevano una visione del loro operato più ampia degli effetti e degli obiettivi che si ponevano a titolo personale. Sarei disposto a concedere che Greenberg abbia ragione in parte, su entrambe le affermazioni. In tal modo tuttavia rimarrebbero prove consistenti sulla consapevolezza della critica che gli artisti andavano muovendo alla loro arte. Si può essere consapevoli di lavorare alla ricerca della vera essenza della pittura senza scrivere trattati di pittura, questo è chiaro. Ma riconosciamo pure che in un libro come Lo spirituale dell’arte di Kandinsky, all’apparenza solo un titolo neoidealista di sapore Crociano, sono contenute pagine di teoria del colore scritte in funzione di supporto alla pratica pittorica. Esiste un auto-criticismo pratico che non sia anche teoria, per quanto subliminale? Come può essere solo un fatto di pratica pittorica se ad un manifesto aderiscono artisti dediti ad altro rispetto all’arte cui il manifesto originariamente si rivolge72? Penso in questo momento al Futurismo, che annoverò tra i suoi simpatizzanti artigiani ceramisti o persino cuochi. Oppure all’Espressionismo, cui diede voce la scuola viennese dei Berg, degli Schoenberg e

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Ibidem, §17: It should also be understood that self-criticism in Modernist art has never been carried on in any but a spontaneous and largely subliminal way. 72 Per la precisione occorre sottolineare che il manifesto è prodotto dagli artisti ma nella maggior parte dei casi contiene un atto di fede nei confronti di un ideale: è perciò ben più generale della pratica artistica.

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dei Webern. Si può obiettare che, appunto per la loro trasversalità, i vari movimenti esprimano un grado di ignoranza circa il fatto che quanto gli artisti prescrivevano non rientrasse in una critica alla loro arte. Ma non si può negare che i pittori fossero consapevoli del loro analizzare l’arte in sé, quando si muovevano a favore o contro le istanze degli stili pittorici del passato. La critica della storia di una disciplina è già consapevolezza di una critica al presente di quella, e molto spesso anche al suo futuro. Il darsi un nome all’interno di una disciplina artistica, in virtù del modo in cui si concepisce quella disciplina, non è forse sintomo di autoconsapevolezza del proprio ragionare critico? Il prodotto artistico è manifestazione empirica di una verità teoretica circa l’arte, e ne costituisce una dimostrazione (teorica) nella misura in cui esso è realizzato nel circolo interpretativo di un concetto o di un segmento storico. Se Dada e il Surrealismo, per citare le avanguardie forse più lontane dal sistema Greenbergiano73, non erano consapevoli della loro operazione di critica all’arte, ciò potrebbe dipendere solo dal fatto che nella sovversione degli ideali borghesi essi già includessero una rivoluzione74 dell’arte. Essa anzi rappresentava così l’unica disciplina autocosciente di tale criticismo, proprio in quanto strumento di esso e proprio in quanto avente un programma manifesto. Per i “dadaisti” <<L’impazienza di vivere era grande, il disgusto si applicava a tutte le forme della civilizzazione cosiddetta moderna, alle sue stesse basi, alla logica, al linguaggio, e la rivolta assumeva dei modi in cui il grottesco e l'assurdo superavano di gran lunga i valori estetici75>>. Non si può imputare agli artisti una mancata teorizzazione dell’essenza auto-critica della loro arte: questo è compito del critico o del filosofo dell’arte. Eppure, gli artisti non si tirano indietro dal farlo, e Kandinsky è un chiaro esempio di questi interessi teorici:

Anche il colore, che racchiude infinite potenzialità, condurrà col disegno al grande contrappunto pittorico. Allora la pittura giungerà alla composizione e sarà un’arte pura al servizio del divino. Una sola guida, infallibile, la conduce a queste vertiginose altezze: il principio della necessità interiore.

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Movimenti avversati dall’autore anche in Modern and postmodern, dove, insieme a De Chirico e ai neoromantici, vengono additati come anticipatori <<del ritorno del figurativo o del rappresentativo nell’arte pittorica>> nel postmodernismo. 74 La prima rivista surrealista si chiamava, infatti, La Révolution surrealiste. 75 T. Tzara, intervista del 1950, cit. nell’articolo Dadaismo di Wikipedia.

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La necessità interiore nasce da tre cause o esigenze mistiche: 1. Ogni artista, in quanto creatore, deve esprimere se stesso (personalità); 2. Ogni artista, in quanto figlio della sua epoca, deve esprimere la sua epoca (stile come valore interiore, composto dal linguaggio dell’epoca e, finché esisterà la nazione, dal linguaggio della nazione); 3. Ogni artista, in quanto è al servizio dell’arte, deve esprimere l’arte (artisticità pura ed eterna che è insita in tutti gli uomini, in tutti i popoli, in tutti i tempi; che si osserva nell’opera di ogni artista, di ogni nazione, di ogni epoca e che, in quanto fattore fondamentale dell’arte, non conosce né spazio né tempo).76

Ma anche senza scomodare artisti apertamente consapevoli dell’apporto reciproco di produzione e teorizzazione artistica, si noti che già lo storicismo progressista del quale tutte le avanguardie sono intrise è indice di autoconsapevolezza. Ogni quadro, poesia, rappresentazione teatrale e cinematografica, musica o scultura modernista sono teoriche in sé, in quanto negano, nella loro interiorità soggettiva, la sostanza storica resa fluida nel concetto, di cui sono testimonianza. <<Il pensiero si forma in bocca77>>: e che cos’è la teoria dell’automatismo linguistico di Apollinaire, Tzara e poi di tutto il Surrealismo, se non una celebrazione del pensiero nel suo materialismo storico? Pensiero (nel senso di enunciato dell’intelletto) e storia – nel suo significato più vasto di racconto, sequenza, progresso e sviluppo – sono termini di stretta familiarità. È il concetto di arte delineato ne Il mondo dell’arte da Danto: <<La mia opinione era che nessuno che non avesse familiarità con la storia (history) oppure con la teoria artistica potesse vedere [le opere pop] come arte; erano perciò la storia (history) e la teoria dell’oggetto, più di qualsiasi cosa visibile materialmente, cui si doveva far riferimento affinché si vedessero come arte78>>. A partire dal problema possiamo ampliare la prospettiva fino a comprendere il rapporto tra arte moderna e pensiero dialettico: questo infatti fornisce un’ultima prova della teoricità dell’arte moderna. Furono Horkheimer e Adorno a elaborare il concetto di negatività dell’arte, in Dialettica dell’illuminismo prima (1944) e soprattutto nell’Adorniana Teoria estetica poi (1970). Nell’episodio delle sirene, Odisseo compie il rovesciamento dello ius arcaico evocato dalle sirene (il loro canto è una condanna e una forma di dominio), 76 77

Lo spirituale nell’arte, SE, Milano 1989, pag. 55. Tristan Tzara, in Maurice Nadeau, Storia e antologia del surrealismo, Arnoldo Mondadori, Milano 1972,

pag. 21 78

A. Danto, After the end of art, op. cit., pag. 165: But my thought in “The Art World” was that no one unfamiliar with history or with artistic theory could see these as art, and hence it was the history and the theory of the object, more than anything palpably visible, that had to be appealed in order to see them as art. La Pop rese la dipendenza del concetto dall’analisi storica un fatto esplicito.

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negando la prassi dell’esperienza artistica come godimento personale del canto. Ma nella negazione determinata rappresentata dal soggetto Odisseo, non si compie il semplice annullamento dello ius, ma il mantenimento del mito sotto forma di ricordo e narrazione epica: l’arte è Aufhebung dell’arcaico ricordo della morte. Odisseo impedisce al canto di farsi prassi: l’arte (non solo del racconto omerico) interessa in quanto compresa, non tanto perché esperita sensibilmente79. Ancor più interessante per la nostra analisi è la critica che Jauss muove ad Adorno. Egli, nel suo Apologia dell’esperienza estetica (1972), contesta ad Adorno la negazione della dimensione sensibile dell’opera d’arte 80. Adorno nega la prassi (non solo artistica, anche politica), perché in essa la ragione organizza il genocidio, Auschwitz. Ma il modello Adorniano può funzionare solamente in un determinato momento storico; esso non può spiegare l’arte all’infuori del presente, poiché guarda unicamente all’arte moderna delle avanguardie novecentesche81. L’Età dei Manifesti di Danto è dunque un’epoca in cui gli artisti pervengono alla formulazione di teorie artistiche (ma non solo) circa i canoni secondo cui produrre i loro manufatti. Appartengono alla stessa tendenza tanto il fondazionalismo Greenbergiano quanto l’idealismo di certi movimenti artistici: quel che conta è la ricerca critica di un’essenza dell’arte. Una volta individuata, si può procedere alla narrazione di una storia dell’arte moderna che raggiunga il suo acme con l’adeguamento della produzione artistica al canone. Per Greenberg l’essenza dell’arte risiede nel suo materialismo: pertanto, la “vera” arte sarà quella che più di ogni altra ha saputo accettare i propri limiti fisici senza nasconderli – come l’Espressionismo astratto di Pollock, Newman, de Kooning. In realtà, fintanto che sussista un livello di autoconsapevolezza del proprio criticismo, ogni fondazionalismo possiede uguale valore se confrontato con gli altri, e non c’è appello ad un

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Vedi Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi 1966, pag. 40 segg. Secondo Jauss l’esperienza estetica è essenzialmente godimento (das Genießen = godimento, nutrimento (nel senso del latino fruor) – die Genoßen, i compagni, sono coloro che mangiano insieme): l’arte è un piacere che nutre e che forma. Jauss completa il circolo dell’estetica Adorniana: al momento di negazione del passato l’opera d’arte unisce la posizione di un altro canone. 81 Curiosamente, fu proprio il movimento surrealista a rendersi protagonista di una accesa polemica con i comunisti intorno al tema della rivoluzione. Sulla rivista surrealista Clarté, Louis Aragon scrive a Jean Bernier: Che cosa avete fatto, in fin dei conti, voi, famosi uomini di azione, che vi vantate tanto di non curarvi dei mezzi, da che mondo è mondo? La rivoluzione russa? Lei non mi può impedire di rispondere con un’alzata di spalle. Dal punto di vista delle idee, essa appare tutt’al più come una vaga crisi ministeriale. Sarebbe veramente più degno di Lei trattare con un po’ meno disinvoltura coloro che hanno sacrificato l’esistenza per le cose dello spirito. Nel 1927, insieme a Bréton e ad altri tre, Aragon aderirà al Partito comunista. Vedi Nadeau, op. cit., pag. 187 e segg. 80

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Kantiano “gusto” del critico che tenga: il Modernismo riproduce la propria storia per ogni soggetto autocosciente, sia esso artista, quadro, scultura, manifesto o filosofo dell’arte82.

Lo strappo della pop-art e la domanda fondamentale: perché “arte”? Gli anni Sessanta del XX secolo hanno registrato un importante evento nella storia dell’arte moderna: ne hanno marcato l’inizio della fine. Dopo otto decenni – cifra quanto mai alle dipendenze del criterio narrativo adottato – l’arte ha portato alla ribalta una nuova questione: non più la definizione di un proprio fondamento, quanto l’indagine critica di quella definizione. In altri termini:<<Cosa differenzia un’opera d’arte da ciò che non lo è, quando non sussiste una differenza percettiva interessante?83>>. Come già ricordato, Danto trae l’avvento di tale illuminazione intorno al significato profondo della comparsa dell’arte Pop dalla visita a una mostra di Warhol a Manhattan nel 1964. Nell’impianto storico Dantiano la Pop art gioca un ruolo di primissimo piano. Essa è la chiave che permette all’ingranaggio di cambiare posizione, rimescolando i rapporti tra la filosofia e l’arte, o meglio, tra il pensiero e le parole. Bisogna chiaramente distinguere, tra le fila degli artisti Pop e tra i critici che ne hanno studiato genesi, iconografia ed approdi sociologici, quale sia il grado di condivisione della prospettiva Dantiana, rimanendo questa, comunque, una voce dell’Artworld e su di esso. Inoltre la medesima prima frase con cui ho aperto il paragrafo altri non è che una “frase narrativa”, della quale devo rendere conto agli enti che se ne sono resi protagonisti a loro tempo. La Pop art voleva fondare un apparato critico nei confronti non più dell’essenza dell’arte, ma riguardo alla filosofia dell’arte? Probabilmente no. Non abbiamo prove di un atteggiamento artistico che volesse spostare la lente sul perché dell’arte, anzi. Danto lo sottolinea in più occasioni: quello della fine dell’arte (ad opera della

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Nell’arco di venticinque anni Greenberg cambiò opinione riguardo al triplice rapporto tra astrattismo e realismo sullo sfondo comune della storia dell’arte moderna: negli anni Trenta l’astrattismo era un imperativo dell’arte, inevitabile. Poi, a partire dalla storicizzazione dell’arte astratta in “buona” e “cattiva” egli pervenne, alla fine degli anni Sessanta, alla convinzione che non ci fosse sostanziale differenza tra gli astrattisti e i realisti, allorché sia per gli uni che per gli altri valevano giudizi qualitativi. Questo significa indirettamente che entrambi gli estremi avevano raggiunto la consapevolezza della propria storia. Vedi Danto, After the end of art, op. cit., pag. 120-121. 83 Ibidem, pag. 35: As I saw it, the form of the question is: what makes the difference between a work of art and something not a work of art when there is no perceptual difference between them?

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Pop o di qualsiasi altra agenzia artistica) è un problema filosofico. Ce lo aveva già suggerito implicitamente nel rassicurarci sulla presenza di “arte” dopo la fine dell’arte. Non a caso inoltre la destituzione dell’arte è – aggiungiamo unicamente – filosofica. Invero il sistema Dantiano si indebolisce parecchio o si fraintende quando non se ne scorga il sostrato ipodermico della dialettica storica di Hegel. Ma un’innegabile novità introdotta con l’analisi del critico americano, è quella di una creatività del pensiero che migra dall’“arte” alla “filosofia”, al punto che Danto afferma, a proposito del suo libro, che si tratta di un’opera d’arte. Già nel periodo Modernista dell’arte si assiste ad un fenomeno di scambio osmotico dei concetti tra il lato produttivo ed il lato teorico della razionalità umana; la direzione che esso segue è però sostanzialmente diversa da quanto non avvenga in seguito: è il Modernismo artistico ad appropriarsi infatti degli strumenti concettuali propri della filosofia per lo scopo esplicito di manifestarsi come verità dell’arte. La fusione tra le due pratiche rimane unilaterale: è questo il significato dell’infelicità di quel soggetto autocosciente, <<alienato nell’esteriorità>>, che è l’arte moderna. Con l’arte Pop la negazione di un’efficienza tecnica dell’arte, la cui ultima manifestazione prende le forme della de- e ricontestualizzazione figurativa e della destrutturazione testuale, trapassa attraverso la critica nella filosofia dell’arte: questa è ora chiamata alla formulazione creativa di giustificazioni per oggetti percettibilmente ma anche esteticamente foranei rispetto al mondo dell’arte. Ancor di più, come nell’emblematico caso degli Warhol, qualora i soggetti impiegati si prestino ad un rapporto di continuità con i “meri oggetti” del mondo quotidiano. L’istituzione dell’arte è giocoforza un saggio di filosofia creativa. Danto innalza l’arte Pop al ruolo di terminale della storia calcolando il contrasto che essa introduce col modo in cui è stata concepita l’arte moderna, cioè con la narrazione Greenbergiana. Questi rappresenta agli occhi di Danto la personificazione di una sorta di spocchia da critico, che non perde occasione di rimarcare l’importanza del gusto in campo artistico, per merito della esperienza maturata dallo studioso. <<L’esperienza è l’unica corte d’appello in arte84>>: dall’esperienza infatti il vero critico imparerà a riconoscere la buona arte da quella cattiva, anche riguardo all’arte astratta. Ora, quello che più interessa a Danto, è che la Pop art, mettendo in discussione ogni criticismo artistico prevalentemente estetico, 84

C. Greenberg, The identity of art, in Danto, op. cit., pag. 87

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come è la storia dell’arte moderna di Greenberg, di matrice Kantiana, invoca un ridimensionamento del peso dell’esperienza nel giudizio artistico. Perché, come è spiegato ne La trasfigurazione e in vari altri luoghi dell’opera filosofica di Danto, la Pop art, al pari dei prefabbricati di Duchamp, ma anche del surrealismo, di cui occorre conoscere il retroterra freudiano, richiede un giudizio cognitivo dell’arte: il carattere ordinario degli stimoli sensoriali che sottopone allo spettatore rivoluziona l’intero apparato critico e filosofico della disciplina. Nonostante gli episodi di indiscernibilità totale à la Brillo box o Fontana siano chiaramente sporadici, tuttavia essi esemplificano l’intera tendenza trasfigurante dell’arte secondo i “dettami” Pop: essa prescrive l’elevazione statu artis di un qualsivoglia oggetto ordinario mediante l’azione riformatrice della ragione. Propriamente parlando, non c’è comunque una trasfigurazione fisica del medium nelle opere più provocatorie: il Letto di Rauschenberg (1955), il Ventilatore di Oldenburg (1966-67), oppure la Borsa per la spesa di Lichtenstein (1964) – solo per citarne alcuni. Ciò vale pure per quegli artisti non classificabili come “Pop” in senso stretto: pensiamo a Manzoni o alle esposizioni di oggetti trovati. Sussiste invece una trasfigurazione cognitiva, che fa sì che tutte queste “cose” diventino arte solamente in mano all’opera plasmatrice del pensiero (non necessariamente filosofico). È questa la trasfigurazione costitutiva dell’arte. Ed è chiaro che in questa maniera non importa più quale materiale si utilizzi, in che modo lo si distorca o lo si dipinga, oppure se si tratti di un utensile di tutti i giorni: quello che stabilisce il confine, spaventosamente momentaneo, dell’arte, è il “rationale” che gli sta dietro. La Pop art è pertanto foriera della verità filosofica dell’arte occidentale, laddove tutti gli altri stili moderni annunciavano la scoperta della sua verità artistica: con essa l’interpretazione e il giudizio estetici sull’arte perdono di valore. Se prendiamo ad esempio una composizione come Coprifuoco di Rauschenberg del 1958 ci accorgiamo che una valutazione secondo canoni “estetici” o espressivi non esaurisce il contenuto: non possiamo fare affidamento su di essa per giustificare il fatto che quella sia un’opera d’arte. I colori mesti e scuri uniti all’immagine centrale della lotta fra due belve possono esprimere una certa passione riguardo a sentimenti guerrieri; e le quattro bottigliette di Coca Cola in alto? Un riferimento all’imperialismo statunitense post-coreano, se non del tutto fuori luogo, non è comunque esaustivo, rimanendo improbabile. Se dello 51


stesso artista osservassimo poi Monogram (1955-59), potremmo leggerne la capra imbalsamata e il pneumatico come simboli ebraico-cristiani dell’Agnello di Dio e del suo sacrificio. Ma queste sono fantasie critiche del pensiero che indugia in elucubrazioni metafisiche: quelle stesse che secondo Danto sono l’autentica vittima dell’apparizione dell’arte Pop, in nome dell’immanenza pervasiva del quotidiano. In una video-intervista85 Rauschenberg parla infatti della sua opera in termini molto più banali: egli descrive la sua impressione al pensiero della morte degli animali, la possibilità di un’estensione della loro vita mediante tecniche di imbalsamazione e l’incontro casuale con <<una magnifica capra>> in un negozio di forniture per ufficio di seconda mano. Rauschenberg non sapeva cosa farsene in realtà, e per prima cosa pensò a ripulirla; poi tentò diversi posizionamenti per combinarla con la sua pittura: in verticale su un pannello, illuminata contro al muro oppure sotto allo stesso pannello. Ma <<aveva troppa personalità … e continuava a rifiutarsi di essere astratta in arte. Sembrava arte con una capra>>. Fin qua non c’è l’ombra di un significato nascosto tra le righe. Ma il pneumatico? Nell’intervista Rauschenberg, in tutta serenità, offre un saggio di quanto sia insensata la ricerca di una motivazione artistica: <<Poi ho messo un pneumatico lì … e tutto si mise a riposo. E vissero tutti felici e contenti86>>. Il pneumatico è semplicemente lo strumento con il quale l’artista ha operato la trasfigurazione, l’astrazione-in-arte. L’intervista è un buon punto fermo per scansare ogni equivoco circa la presenza di simbologie più o meno metafisiche, religiose o psicologiche all’interno dell’arte Pop; sono gli artisti stessi – non senza intenti provocatori e tradendo qualche debito metodologico con i dada e i neodada – a dichiararne la pressoché totale superficialità e bidimensionalità: esemplare a questo proposito il caso di Warhol, che fece del nichilismo consumistico delle sue opere un vero e proprio stile di vita. Nel saggio Apprezzamento e interpretazione delle opere d’arte, Danto, parlando della ripetizione del dettaglio quotidiano nei lavori degli artisti Pop – e quindi della sua banalizzazione ad opera dell’arte – riporta questa frase di Warhol: <<… se voglio sedermi e guardare quello che ho visto la sera prima, non voglio che sia essenzialmente la stessa cosa, voglio che sia esattamente la stessa. Perché più guardi

85

Art21.org, Elegy for Robert Rauschenberg, video-documentario del 2008. Ibidem: First I tried to put it on a flat plane, but it was obviously too massive. It had too much character. It looked too much like itself. … It still refused to be abstracted into art. It looked like art with a goat. And so I put the tire there and then everything went to rest. And they lived happily ever after. (ride). 86

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la stessa identica cosa, più perde di significato, e più ti svuoti e ti senti bene 87>>. Se di elevazione artistica si tratta, non c’è comunque riferimento ad alcun fine estetico del gesto di trasfigurazione: l’oblio del significato quotidiano dell’oggetto o dell’immagine non comporta una maggiore concentrazione su presunte proprietà estetiche presenti intorno a noi e che saremmo colpevoli di trascurare. Né dobbiamo interpretare simile “catarsi” Warholiana come un fine da perseguire per mezzo, appunto, della progressiva riduzione del significato ordinario dei materiali: essa infatti incorpora una capacità corrosiva tale da annullare ogni slancio relazionale esterno. È parimenti insensato – Danto lo fa nello stesso luogo – intraprendere una lettura “estetica” di Fontana o di un qualunque oggetto di design industriale (ne La trasfigurazione viene citato l’esempio di una fantomatica recensione critica di un cavatappi). Il valore artistico introdotto dalla Pop art è lo stesso che contraddistingue la geniale opera di Duchamp mezzo e più secolo prima, e ha ben poco a che spartire con macchie di colore o forme scolpite: risiede nella manifestazione di un pensiero creativo che sia capace di scardinare le regole concettuali che situano un “mero oggetto” (qui anche una stessa opera d’arte) in questo o quel contesto. Scrive Duchamp in difesa di Mr. Mutt sul secondo numero della rivista The blind man nel 1917: <<Se il Sig. Mutt abbia fabbricato la fontana con le sue mani o no, non ha importanza. Egli l’ha SCELTA. Ha preso un normale oggetto della vita e lo ha collocato in modo tale che il significato utile scomparisse dietro al nuovo titolo e al nuovo punto di vista – ha creato un nuovo pensiero per quell’oggetto88>>. Duchamp rende esplicito il contenuto filosofico dell’arte del ready-made, da cui la Pop prenderà spunti importanti. Nel rivolgimento del contenuto artistico in contenuto filosofico risiede dunque il valore aggiunto di un movimento che ha avuto numerose declinazioni in tutto il mondo, dominando le scene per quasi quindici anni. Ma, è bene ricordarlo, non si tratta tanto dell’espressione, mediante l’arte, di un pensiero significativo che dia un giudizio sul mondo, quanto piuttosto della pura creazione di un pensiero nuovo: questo può a sua volta trasportare un contenuto valoriale a proposito di un tema, ma il dato tecnico, cioè la valutazione dell’efficienza del medium a quel pensiero, non contribuisce al valore artistico

87 88

Danto, La destituzione filosofica dell’arte, op. cit., pag. 72. M. Duchamp, The Richard Mutt case, enfasi mia.

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dell’opera Pop. Esso è infatti già assicurato dalla manifestazione della creatività del pensiero. Conseguentemente il critico d’arte non è chiamato a rimarcare lo scambio causaleeffettivo tra il quadro o la statua facsimilari e le loro controparti “reali”, come volto a suscitare una determinata riflessione sulla realtà che ci circonda. L’allusione al <<vuoto umano e vuoto sociale>> non è certo il primo dei motivi per cui un gesso di Segal è artisticamente interessante, anzi; e forse non c’è affatto l’intenzione di svelare il <<carattere enigmatico nascosto dietro al gesto abituale ripetuto89>>: come pensare alle sue opere come <<piene di un alito metafisico90>>, quando non poteva accettare l’attitudine verso la realtà di chi, come Rothko e Newman, stava <<salpando verso stati religiosi puri e sopprimendo il mondo91>>? È importante invece contestualizzare gli artisti Pop negli Stati Uniti del secondo dopoguerra, perché nel rapporto tra le opere di questo tipo e il capitalismo consumistico che andava imponendosi con straordinaria forza a quei tempi, c’è molto di più che il semplice terreno di critica a questo atteggiamento socioeconomico da parte del mondo dell’arte. Innanzitutto gli artisti attingono, dal mondo delle metropoli americane, un paesaggio arricchito dei più variopinti elementi pubblicitari e tecnologici: questi non offrono solo nuovi soggetti, ma soprattutto forniscono nuovi spunti riproduttivi per le stesse immagini che tappezzano le città. Il pensiero di Adorno sul depotenziamento della realtà da parte dell’arte si applica benissimo all’atmosfera Pop, dove le immagini pubblicitarie vengono amputate del loro effetto commerciale e rese innocue e stupide analogamente al modo in cui appare la realtà non appena ci si soffermi a considerarne il dettaglio. Il riferimento alla sciocchezza, alla banalità, ad una certa stravaganza e stupidità del mondo è una costante del pensiero di Warhol, Lichtenstein, Oldenburg, Rosenquist. Essi non fanno che azzerare la carica emotiva della realtà sezionandola ed offrendola al pubblico a spezzoni, qualora essa nella sua integrità muova verso un coinvolgimento emotivo delle persone. Ma questa rinuncia al patetico rientra nella strategia analogica dell’arte Pop: <<Gli artisti sembrano offrire i loro oggetti con molta umiltà e grazia mentre la società odierna e l’economia sembrano essere turbolente. Le posizioni degli artisti oggi, paragonate al mondo 89

M. Volpi Orlandini, La Pop Art I, ne L’arte Moderna, op. cit., vol. 13 pag. 150. M. Calvesi, citato nell’articolo L’arte contemporanea perde George Segal, Quotidiano Nazionale, 25 Giugno 2000. 91 Intervista di Paul Cummings a George Segal, in Oral history interview with George Segal, 26 Nov. 1973, Archives of American Art, Smithsonian Institution. 90

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e alle idee nella società, non sembrano equilibrate; esse non hanno relazione se non quella dell’artista che offre qualcosa in dono. Per questo l’idea del mio quadro [F-111] è stata di fare una stravaganza, qualcosa che non potesse assolutamente venire offerta come sollievo92>>. Il giudizio che l’artista esprime sulla società non è dunque veicolato ordinariamente tramite il contenuto, ma, essendo rimandato ad un’analogia delle forme, necessita un pensiero che le riempia creativamente. L’analogia d’altronde rimane come metodo razionale per instaurare un rapporto tra l’arte e la realtà: come l’arte moderna esaltava l’individuo analogamente alla “natura”, il cui individualismo fu ben recepito da Darwin e restituito nella sentenza della <<sopravvivenza del più adatto>>, così dell’arte Pop non si può dire che imiti il mondo consumistico metropolitano, quanto piuttosto che lo riproduca analogicamente. Se la caratteristica principale dell’arte Pop è la sua capacità di trasfigurare il banale fino a farlo diventare arte di rango elevato, nella riproduzione dell’ordinario si riflette un’adorazione dell’immanente già in atto nella vita quotidiana. Per quanto possa sembrare sciocca l’attitudine parareligiosa del pubblico (il cittadino-consumatore) nei confronti di nuovi stili di vita, di nuovi mezzi tecnologici e di nuove opportunità lavorative, tuttavia essa si rende percepibile agli artisti, anche nelle sue forme negative. Il “significato” dietro alle gigantografie dei fumetti di Lichtenstein oppure dietro alle riproduzioni seriali di Warhol, non pertiene all’immagine in quanto arte, bensì all’immagine come mero oggetto: la trasfigurazione artistica ne giustifica solamente la riflessione creativa. Questa è tanto dell’autore che ha selezionato i frammenti di immagine di tutti i giorni, quanto dello spettatore a cui viene affidato il compito di riflettere sugli oggetti con cui viene a contatto normalmente. Lo slogan di Beuys <<Ognuno è un artista>> convoglia questa ideale omogeneità tra autore e fruitore nella definizione dell’arte. È il punto di arrivo di un percorso di aderenza consapevole dell’arte alla realtà di un movimento che prende le distanze dagli slanci metafisici dell’Espressionismo astratto, rinnegando la fedeltà al concetto (modernista) di arte pour l’art, in nome dell’arte pour la pensée e quindi del pensiero pour la vie. Rauschenberg è ancora una volta un ottimo esempio. Una delle sue affermazioni più famose recita: <<La

92

James Rosenquist in Kristine Stiles e Peter Howard Selz, Theories and documents of contemporary art, University of California Press 1995, pag. 349.

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pittura è in rapporto sia con l’arte che con la vita … io agisco nello spazio tra di esse 93>>. In nome della vita, concludiamo noi. Emblematico è a questo riguardo l’episodio del de Kooning cancellato (1953): il giovane pittore per affermarsi esce dalla solitudine artistica, romantica per certi versi, tipica della “generazione eroica” dell’Espressionismo astratto, e compie un gesto che nella sua semplicità funge da collettore di cause ed effetti che travalicano i confini del mondo dell’arte. Se di conflitto edipico si tratta, non possiamo confinarlo alla sfera dell’arte. Dietro all’opera si cela una dialettica complessa che vede interagire un pensiero iper-creativo, un gesto (anche piuttosto brutale) ed un’idea affermata di arte. <<All’epoca continuavo a fare disegni da me e a cancellarli. E apparivano come Rauschenberg cancellati; ma un Rauschenberg cancellato non era niente. Così realizzai che doveva iniziare come arte. E che se fosse stato un de Kooning sarebbe diventata un’opera importante. Capisci in quale modo ridicolo devi pensare, affinché tutto questo funzioni?94>>.

Dal 1964 a oggi: everything goes. Il momento terminale della storia dell’arte è quindi segnato dallo spostamento dell’arte ad un diverso <<livello di coscienza>>, quello della filosofia. Per non voler limitare troppo l’effetto di tale ultima evoluzione spirituale – ché parliamo sempre secondo il linguaggio fenomenologico di Hegel – abbiamo dimostrato sopra che il <<livello filosofico95>> non è nient’altro che il livello del pensiero, a prescindere dalle sue tradizionali incarnazioni istituzionali. È il pensiero che ognuno di noi possiede, più o meno a portata di mano, che viene lasciato esprimere nella sua creatività; è la redenzione della non-verificabilità logica del pensiero. Il racconto della verità artistica dell’arte viene delegato dall’arte medesima alla filosofia. Detto altrimenti: la prova della verità non è più nell’opera (estetica) ma nel pensiero (cognitiva). L’aneddoto a proposito del de Kooning cancellato di Rauschenberg è 93

Painting relates to both art and life...I try to act in that gap between the two. Citato in MoMA Highlights,

pag. 207. 94

Video-intervista disponibile all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=tpCWh3IFtDQ A. Danto, After the end of art, op. cit., pag. 135: … art, construed historically, had reached the end of the line because it had moved onto a different plane of consciousness. That would be the plane of philosophy … 95

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davvero esemplare a questo proposito: il funzionamento della superficie bianca come arte è subordinato al dispiegamento del pensiero in una precisa maniera, senza ausilio fisico o percettivo. Certo, anche una pittura cubista richiedeva una spiegazione, un apparato descrittivo che permettesse anche al profano di vedere la verità dell’opera. Ma era pur sempre un <<vedere-in>> (per usare il lessico di Wollheim) che doveva adeguarsi ad una verità dell’artista verificabile nell’opera: infatti dipendeva da un’interpretazione critica precisa, e, nel caso di Wollheim, dall’appropriatezza dell’esperienza e dall’efficacia della rappresentazione96. Ora con la Pop art la giustificazione dell’arte (la sua verità essenziale) non è più riscontrabile sulla superficie del quadro o nel materiale della scultura, ma risiede interamente nel concetto che la ospita – nella semplice manifestazione <<di un pensiero nuovo per quel’oggetto>>, parafrasando Duchamp. Gli ultimi quarant’anni hanno visto fiorire e rifiorire le più diverse tipologie artistiche; di fatto non è stato più posto il problema critico di giustificare ciò che di volta in volta veniva portato in dono dagli artisti sull’altare sacrificale del mondo dell’arte. Danto racchiude nella formula everything goes l’assenza di prescrizioni storiche riguardo a ciò che un’opera d’arte può o non può essere. L’epifania dell’importante concetto risale al 1962: Vivevo a Parigi e stavo lavorando a … La filosofia analitica della storia. Un giorno mi fermai al Centro Americano a leggere qualche rivista, e vidi Il bacio di Roy Lichtenstein (stampato di lato) su Art News … Devo dire che rimasi senza parole. Sapevo che si trattava di un momento sorprendente e inevitabile, e nella mia mente capii immediatamente che se era possibile dipingere qualcosa di quel tipo – ed essere presi abbastanza sul serio perché una rivista di punta del settore la recensisse – allora tutto era possibile. E … se tutto era possibile, davvero non c’era un futuro specifico; se tutto era possibile, niente era più necessario oppure inevitabile, inclusa la mia visione di un futuro artistico … Per un artista era giusto fare quel che uno volesse. Significò anche che persi interesse nella produzione di arte e praticamente smisi. Da quel momento ero interamente un filosofo …97

96

Vedi il saggio di Richard Wollheim, Sulla rappresentazione pittorica. Danto, After the end of art, op. cit., pag. 123: I was living in Paris and working on … Analytical Philosophy of History. I stopped one day at the American Center to read some periodicals, and I saw Roy Lichtenstein’s The Kiss (printed sideways) in Art News … I must say I was stunned. I knew that it was an astonishing and inevitable moment, and in my own mind I understood immediately that if it was possible to paint something like this – and have it taken seriously enough by a leading art publication to be reviewed – then everything was possible. And …if everything was possible, there really was no specific future … it was all right, for an artist, to do whatever one wanted. It also meant that I lost interest in doing art and pretty much stopped. From that point on I was single-mindedly a philosopher … 97

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Danto iniziò la sua carriera come pittore prima di accorgersi che la pittura non aveva futuro, letteralmente, e fu allora che decise di dedicarsi solamente alla filosofia. Negli anni Sessanta la necessità storica di uno stile nei confronti di un altro viene meno: nell’analisi critica dell’arte si crea uno scollamento tra l’interpretazione e l’identificazione artistica dell’opera. Innanzitutto questa viene meno, o almeno si riduce ad un’ombra di sé. Perché dalla

Pop

all’Iperrealismo

all’arte

concettuale

essa

si

avvicina

sensibilmente

all’identificazione letterale. Questa tendenza può essere già avvertita nelle astrazioni minimali di Reinhardt; la novità è però che la sovrapposizione dei piani identificativi non avviene nel medium o per mezzo di esso, ma è già del contenuto, del “rappresentato”. Se analizziamo Pittura astratta di Reinhardt (1960-66), possiamo ben dire che c’è una superficie di una certa dimensione, macchiata di un certo colore; a partire da questa identificazione letterale il cervello dell’artista – ed il nostro parimenti –

compie una

seconda identificazione, che suona all’incirca: <<Questa tela è una pittura astratta>>, e da lì il nome dell’oggetto, inteso artisticamente. Ma questa interpretazione artistica non può prescindere dal medium cui si fa riferimento in primo luogo – ed anzi, come visto sopra, la coincidenza delle due identità nel medium è cifra di eminenza artistica per Greenberg, in quanto fine dell’arte moderna. Danto riserva le interpretazioni alla sola identificazione artistica, poiché <<L’interpretazione non è qualcosa al di fuori dell’opera: opera e interpretazione sorgono insieme nella consapevolezza estetica. L’interpretazione è inseparabile dall’opera così come è inseparabile dall’artista, se è opera dell’artista98>>. Il problema si mostra quando il critico, lo studioso, l’appassionato così come il profano si trovano a discutere intorno alle interpretazioni di un’opera la cui identità artistica corrisponde all’identità letterale. Questo problema, come abbiamo visto, occupava le pagine de La trasfigurazione del banale; la riflessione da fare ora concerne il ruolo delle parole che legittimano l’opera come “arte”. È da imputare allo spazio venutosi a creare tra l’oggetto e la sua interpretazione, il fatto che in ambito artistico ora ogni cosa sia possibile. È come se ad un certo punto della storia, invero alla sua fine, gli artisti, che in generale lavoravano affinché il loro prodotto si adeguasse ad un certo criterio narrativo (il manifesto in generale, oppure i precetti di un critico – per quanto poi gli artisti prendessero le distanze dalla categoria!), cioè affinché 98

Danto, La destituzione filosofica dell’arte, op. cit., pag. 78.

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esso fosse prova di una interpretazione critica finalistica99, abbiano mostrato interesse per una produzione (o scelta) materiale che non esigesse più un’interpretazione. Perché il vero problema dell’arte contemporanea, cui Danto riferisce col termine “post-storica”, è la saturazione – o meglio, il dissolvimento – dello spazio interpretativo che fino all’arte Pop intercorreva tra l’identità letterale e quella artistica. Si badi, questo non avviene solo perché gli artisti abbiano spalancato le porte al mondo “reale”, con i vari oggetti prefabbricati, trovati, con le sculture iperreali, con i materiali riciclati, con la riproduzione seriale e così via. Pure la citazione, procedimento tipicamente post-moderno, di altre opere è una sovrapposizione tra “mero oggetto” e “opera d’arte”. Pochi giorni fa ho visto in un grande centro commerciale un pannello pubblicitario di un’azienda di abbigliamento: al centro di uno scenario da guerra tecnologica urbana stavano incollati i protagonisti del Bacio di Hayez. Non voglio soffermarmi sulle possibili letture o interpretazioni di un cartellone pubblicitario, ma l’utilizzo delle opere d’arte in questi casi – e potremmo citarne centinaia: pensiamo solamente agli utilizzi commerciali degli angioletti di Raffaello – testimoniano della dipartita dell’interpretazione dall’identità dell’immagine. La stessa opacità interpretativa appartiene alle due opere che Russell Connor unisce nel quadro The Kidnapping of Modern Art by the New Yorkers. Danto nell’undicesimo capitolo di Dopo la fine dell’arte cita Connor come esempio dell’insufficienza della sola padronanza tecnica del disegno al fine di essere ritenuto un pittore interessante oggigiorno. Connor non dipinge un’opera d’arte perché dipinge le damigelle di Picasso o perché dipinge altrettanto bene di Rubens, ma perché ha la geniale idea di combinare i personaggi delle due singole opere per ironizzare visivamente sul titolo del saggio di Guilbaut How New York Stole the Idea of Modern Art. Attenzione, non stiamo dicendo che le opere di Rubens e Picasso, prese singolarmente, non offrano spunti interpretativi; né che l’opera di Connor nel suo complesso se ne sottragga. Affermiamo piuttosto che l’interpretazione di tale opera non costituisce più un tutt’uno con l’identità artistica. Non credo possibile stabilirne le cause, ma l’arte è finita. Fin qui è Danto a darcene notizia; però è il momento di prenderne atto seriamente: il 99

Più sopra l’ho definita “normativa essenziale”; è l’altra faccia di ciò che Danto chiama response-based criticism. Si veda su questo After the end of art, pag. 90: It is striking that Greenberg sees critical response as of a piece with artistic creation … In the end the task of the critic was to say what was good and what was not, based always on the deliverances of the eye as a kind of seventh sense: a sense of the beautiful in art, knowing it was art … we [can] think of this as what I term response-based criticism… L’arte Moderna è questo giudizio essenziale.

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termine arte, nella sua accezione moderna, non ha più senso, è un’entità storica e letteraria terminata: ora l’arte vive solamente nella narrazione dell’arte100, ma alla narrazione medesima dobbiamo dare un altro nome. The Kidnapping racconta l’arte perché il suo materiale è arte, ma essa non potrà essere arte: l’arte è finita. Sarebbe come prendere l’episodio di Paolo e Francesca dalla Divina Commedia, inserirlo in un qualsiasi altro racconto e comportarsi come se il nuovo racconto fosse la Divina Commedia. L’arte, che ha raggiunto la propria autocoscienza al punto da sapersi riferire a se stessa, raccontarsi e instaurare una comunicazione con altri enti al punto di confondersi con essi, ha fatto il suo ingresso nel mondo. E proprio per questo il mondo non è arte! Alla stessa maniera, l’uomo che ha coscienza della propria soggettività e della propria storia – al pari dell’arte oggi – chiama in un’altra maniera tutto ciò che è diverso da lui. È sufficientemente chiaro che la parola arte non potrà essere eliminata: essa ha affondato le radici bene in profondità nella storia dell’uomo ed ha raggiunto una maturità tale da poter rinunciare a quell’autonomia che solamente un secolo fa sembrava essere l’unico rifugio sicuro per sopravvivere nella marea positivista moderna. Ma mentre oggi possiamo ancora parlare di arte – vedremo con quali significati –, credo risulti meno scontato parlare ancora di opere d’arte. Il concetto di arte può sì arricchirsi dall’esperienza nel mondo, recuperando accezioni dismesse con il valore aggiunto di un’autocoscienza matura; ma il termine opera d’arte rischia di essere diventato ridondante e quindi superfluo. Immaginiamo la storia dell’arte come un racconto e le opere d’arte come il suo testo: una volta giunti alla fine, mentre potremmo scovare edizioni simili del libro oppure riadattamenti a cui applicare lo stesso titolo, le lettere e le parole utilizzate tutti i giorni saranno le stesse, ma non per questo saranno opere d’arte101. Danto parla di end state, cioè di condizione terminale dell’arte (riferendosi a Marx ed Engels), perché oggigiorno tutto è possibile: siamo infatti alla fine della storia. Tuttavia, è lecito, ed anzi necessario, rimanere fedeli alla ricerca di un’essenza dell’arte, e fornire una narrazione dopo la fine della storia, perché <<entrando nel periodo post-storico non si

100

Intesa, appunto, in maniera moderna; probabilmente ora la parola arte sta recuperando il significato di

tecnica. 101

L’esempio avalla le tesi di Danto sul carattere ermeneutico e storico dell’arte: per riconoscere qualcosa come opera d’arte devo sapere qualcosa della storia dell’arte.

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sfugge alle costrizioni della storia102>>, e nella misura in cui le <<costrizioni della storia>> agiscono ancora su di noi come condizioni necessitanti, a fianco del tutto-possibile dobbiamo accettare il tutto-non possibile. Sia per Danto che per Greenberg esiste un tipo di approccio all’arte diverso rispetto agli anni Sessanta, il cui perno è costituito da un concetto sfuggevole come quello di “postmodernismo”. I due critici ne forniscono definizioni diverse sulla base del diverso valore attribuito al periodo “moderno” dell’arte. Per entrambi il prefisso post non indica tanto una successione cronologica (seppure innegabile), quanto piuttosto una successione stilistica. Danto, che ritiene la storia dell’arte moderna come il progressivo ottenimento della purezza materiale del medium artistico, ovvero lo sviluppo di una adesione consapevole all’essenza della propria arte, mutuando tutto questo dalle teorie di Greenberg, fedeli alla critica Kantiana, deduce che dopo lo “strappo” della Pop, condotto sullo stile supremamente Moderno, l’Espressionismo astratto, l’arte abbia coscientemente optato per l’im-purità. Il postmodernismo è infatti balzato all’occhio come esplicitamente spurio, miscelato, posticcio. Vent’anni dopo il suo Modernist painting, Greenberg offre una visione se possibile più dinamica ed eroica del Modernismo: Consiste nell’impegno continuo per arginare il declino degli standard estetici minacciati dalla democratizzazione relativa della cultura sotto l’industrialismo; la prevalente e più intima logica del Modernismo è quella di mantenere i livelli del passato di fronte ad un’opposizione che non era presente in passato … Il continuo sforzo per mantenere gli standard e i livelli ha diffuso l’ampio riconoscimento che l’arte, che l’esperienza estetica non abbiano più bisogno di essere giustificate in termini differenti rispetto ai loro, che l’arte sia un fine in sé e che l’estetica sia un valore autonomo103.

Ad un suo amico di ritorno da un simposio sul postmodernismo, Greenberg domanda pertanto la definizione che ivi era stata data: <<Come arte … che non è più autocritica104>>. Per il critico che crede le opere d’arte Moderna le milizie del gusto (estetico), dedicarsi allo stile postmoderno significa una diserzione presa troppo alla leggera, un

102

Danto, After the end of art, op. cit., pag. 198 (vedi Cap. I, n. 2) C. Greenberg, Modern and postmodern, op. cit.: Modernism … consists in the continuing endeavor to stem the decline of aesthetic standards threatened by the relative democratization of culture under industrialism; that the overriding and innermost logic of Modernism is to maintain the levels of the past in the face of an opposition that hadn’t been present in the past … the continuing effort to maintain standards and levels has brought about the widening recognition that art, that aesthetic experience no longer needs to be justified in other terms than its own, that art is an end in itself and that the aesthetic is an autonomous value. 104 Ibidem: As art, he answered, that was no longer self-critical. 103

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codardo rifiuto della propria responsabilità storica nei confronti degli standards. Nemico storico del gusto e dell’altissima esperienza estetica è quel <<nuovo pubblico della classe media>> per la prima volta espresso dal Romanticismo, che <<diffonde una confusione di standard e livelli>>. Ora il nemico ha lo stesso spirito filisteo contro la cui minaccia mosse provvidenzialmente il Modernismo, ma agisce in maniera più subdola e mascherata, insinuandosi promiscuamente tra le fila degli stessi Modernisti, adescando forzosamente l’arte Moderna nelle tentazioni della sua rilassatezza. È impressionante la prossimità ad Adorno su questo punto. Greenberg dimostra la totale fondatezza delle critiche rivolte alle teorie estetiche Adorniane da parte di Jauss, che ne lamentò l’adeguatezza rispetto alle sole avanguardie novecentesche. Greenberg esalta la freddezza ieratica dell’arte Moderna, baluardo a difesa degli standard estetici superiori contro l’eterna minaccia della rilassatezza: <<La necessità di rilassarsi c’è, come c’è sempre stata. E minaccia e continua a minacciare gli standard di qualità105>>. Ma il primo pericolo non è tanto una rilassatezza sensoriale, l’abbandono cioè a un ipotetico languore dell’arte postmoderna. È piuttosto la rinuncia alla fatica, tutta intellettuale, di sostenere il gravoso peso di un apparato artistico avanzato con <<un’attitudine e un orientamento verso standard e livelli: standard e livelli di qualità estetica in primo e in ultimo luogo106>>. A ben vedere, si tratta di una fatica intellettuale di una vacuità disorientante, perché il concetto di gusto o qualità estetica è il ricettacolo di tutto e il contrario di tutto. Non si può studiare una disciplina facendo leva su qualcosa del tipo “chi ce l’ha lo sa”: non solo non educa, ma nemmeno comunica. E qualora assumiamo il criterio del gusto estetico come adeguatamente incarnato nelle istituzioni del mondo dell’arte, alla maniera in cui Danto lo ritiene garante dell’arte Moderna, esso continua a perpetrare le divisioni sociali sublimandole nel confine tra lo spazio museale e lo spazio extramuseale. L’arte postmoderna continua a presentare per Danto i rischi del relativismo stilistico tipico del periodo Moderno, ma allo stesso tempo offre l’opportunità di liberarsi dei muri innalzati in nome dell’arte superiore come devozione ad un più alto gusto estetico. La collocazione di opere d’arte al di fuori dei musei non ha implicato l’abbandono della

105

C. Greenberg, Modern and postmodern, op. cit.: The urge to relax is there, as it’s always been. It threatens and keeps on threatening standards of quality. 106 Ibidem. “Fatica intellettuale” vuole rendere la reiterata celebrazione del Modernismo as a holding operation, a continuing endeavor to maintain aesthetic standards in the face of threats.

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convinzione che l’arte sia, per così dire, “roba da museo”, nel senso che la strategia con cui il museo ha colonizzato la pubblica piazza, nonostante fosse <<apertamente a beneficio del pubblico>>, è stata condotta ancora in nome del museo: <<Il pubblico stesso non ha avuto parola nella scelta dell’arte, che è stata determinata da quel che chiamo curatoriato – esperti d’arte che sapevano, in generale diversamente dal pubblico, ciò che era buono e ciò che non lo era107>>. L’arte da museo non è concepibile senza quelle istituzioni che combattono per mantenere autonomo il valore “estetico” dell’arte – rimanendo intrappolata nell’esercito di nobili cavalieri immaginato da Greenberg. Esiste però un modo in cui l’arte pubblica può agire a favore della trasformazione dell’arte in un valore adeguato alle nuove esigenze della società pur conservando – ed anzi mettendo in pratica – i risultati raggiunti dall’arte nell’era dell’arte. Si tratta dell’accettazione delle necessità non estetiche del pubblico. L’arte paesaggistica di Cristo mantiene inalterato lo spirito museale di educazione estetica del profano, essendo questo scelto come pubblico rilevante, nel senso di complice, nella diffusione di un tipo di arte che riflette la dialettica (“illuministica”) del dominio. Pretendere di produrre un impatto estetico sulle vite del pubblico (ovvero tutto quello che non è “curatoriato”) sarebbe come rinnegare l’autocoscienza estetica dell’arte. Dal momento che essa è stata ottenuta, l’arte contemporanea deve farne tesoro rinunciando alle ambizioni estetiche, perché esse non si sposano più con una società al cui interno l’arte ha terminato il suo corso storico diventando consapevole di sé. Ora la narrazione dell’arte deve assecondare l’apertura del pensiero a nuove combinazioni occasionate dalla neonata presa di coscienza da parte dell’arte del proprio posto nel mondo. Danto sostiene che dobbiamo ricercare <<un concetto extra-storico di arte al cui interno permettere rivoluzioni concettuali 108>>; non credo sia indispensabile, anzi: forse sarebbe meglio non preoccuparsi troppo del nome da dare alle cose che vogliamo siano fatte, e smetterla con la brama di storicizzare delle cose. Le rivoluzioni concettuali, al pari di quella descritta seguendo la vicenda della barretta di cioccolato confezionata in serie in occasione della mostra Culture in Action, avvengono

107

Danto, After the end of art, op. cit., pag. 181: The strategy was subtly architectural, in that it created a museum without walls by colonizing spaces in the name of the museum, ostensibly for the benefit of the public. The public itself had no say in the choice of art, which was determined by what I term the curatoriat – art experts who knew, as the public in general did not, what was good and what not. 108 Danto, After the end of art, op. cit., pag. 187: What we can say is that there has to be some extrahistorical concept of art for there to be conceptual revolutions in …

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senza pensarci troppo: la community-based art forse non chiede altro che azioni da parte della cultura.

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Capitolo III. Implicazioni reciproche di storia e arte.

Due concetti co-implicanti Storia e arte sono i concetti cardine, i punti di partenza e i paradigmi strutturali dell’opera di Danto, non solo per quanto riguarda Dopo la fine dell’arte. In questo libro di sicuro c’è una profonda riflessione sullo stato dell’arte che scaturisce da una riflessione sullo “stato della storia”, per usare un’espressione poco aggraziata ma efficace. Secondo la più canonica lezione hegeliana, la conclusione della storia deriva dall’atteggiamento autocosciente della filosofia. Quando l’obiettivo del theorein spirituale è lo Spirito stesso, la storia si conclude. Tutto quanto c’è al mondo di spirituale riflette allora la propria essenza – perché lo Spirito riflettendo sulla propria essenza, riflette la propria essenza. Nel caso degli artisti, essi non rivolgono più la propria attenzione al mondo che li circonda e, quand’anche si dedichino al ritratto o comunque adottino contenuti figurativi per le proprie produzioni, tuttavia questi diventano il pretesto, la rampa da cui partire verso l’esplorazione del mondo interno alla loro stessa arte. Possiamo forse azzardarci ad affermare che è l’obiettivo teoretico, il confine concettuale di una riflessione (in questo caso il contenuto delle opere d’arte), a determinare il sorgere di un nuovo mondo come nel caso dell’Artworld. L’esempio d’altronde è paradigmatico. Ma partiamo dall’analisi dell’altro testo di Danto, Dopo la fine dell’arte appunto. Danto tenta di chiarire fin dall’inizio cosa intenda per fine dell’arte e fine della storia. Partendo dalla considerazione che il suo primo saggio riguardo al tema – il già citato La fine dell’arte – conteneva una teoria sull’arte molto simile a quella elaborata da Belting 109 e pubblicata (ad insaputa di entrambi) a distanza di pochi mesi dalla sua, Danto intende rassicurare il lettore circa la sua serenità riguardo allo stato di salute dell’arte ai giorni nostri. La fine dell’arte non significa la fine della produzione artistica, bensì la fine della storia dell’arte nel senso più quotidiano del termine. <<Nessuno di noi due –riferendosi a 109

Come riporta lo stesso Danto, il suo The end of art appare per la prima volta nel 1984, mentre Das Ende der Kunstgeschichte? di Belting, poi ripubblicato sotto il titolo di Das Ende der Kunstgeschichte: Eine Revision nach zehn Jahre, è del 1983.

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quanto scritto da Belting – intendeva le nostre osservazioni alla stregua di un giudizio critico sull’arte del nostro tempo. …

Era anzi piuttosto coerente con la fine dell’era

dell’arte, per come la concepivamo io e Belting, che l’arte dovesse essere estremamente vigorosa e non mostrare segno alcuno di consunzione interna. … Era la narrazione, mi sembrò, ad essere giunta ad una fine. Una storia si era conclusa. … Ciò che era arrivato ad una fine era quella narrazione, ma non il soggetto della narrazione110>>. La fine dell’arte non è la morte dell’arte, né per Danto né per Belting. Né dipende dal fatto che, al momento di scrivere Dopo la fine dell’arte, il mercato dell’arte sia crollato dopo aver conosciuto una straordinaria fioritura durante gli anni Ottanta. La fine dell’arte chiama in causa un’analisi della narrativa sull’arte. È un problema di narrazione della storia perché, secondo la teoria che Danto espone in uno delle sue prime opere di filosofia (l’opera è Filosofia analitica della storia del 1965), affermazioni del tipo “l’evento a ha dato inizio a b” oppure “l’evento c ha segnato la fine di d” sono narrative sentences, frasi narrative. Esse si contraddistinguono perché <<descrivono un evento in riferimento ad un evento successivo del quale i contemporanei con il primo non avrebbero potuto conoscere111>>. Tanto l’affermazione “Petrarca salendo il Monte Ventoso con una copia delle Confessiones di Agostino diede inizio al Rinascimento” quanto quella “Con l’esposizione degli Warhol alla Stable Gallery di Manhattan nel 1964 l’arte giunse alla fine” sono frasi narrative per Danto. Significa quindi che sottostanno ad una struttura storica fatta di inizi e conclusioni che non sono facili da identificare nel momento in cui quegli avvenimenti hanno luogo, né dopo. Danto si rende conto dello iato che divide un’affermazione circa un periodo storico, o anche circa la nascita e la fine di un determinato movimento artistico o di uno stile, e la sua teoria <<sulla fine dell’arte come tale112>>. L’arte diventa, nel sistema dantiano, un’entità storica. Il che significa, se vogliamo spingere più oltre l’analisi, che essa diventa un’entità narrativa, un nome. Sembra poter alludere ad una conclusione del genere già un passo de La fine dell’arte in cui si mette in relazione il carattere storico di una pratica con la possibilità di un apprendimento (quindi di una concettualizzazione) di essa. <<Esiste una continuità tra il

110

After the end of art, pag. 4, enfasi mie. After the end of art, cap. 2, n. 2: I call such descriptions narrative sentences – sentences that describe an event with reference to a later event of which those contemporary with the first could not have known. 112 Ibidem, pag. 24: My claim, on the other end, is about art as such. 111

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riconoscimento delle immagini e la visione del mondo, ma la realizzazione dell’immagine richiede un tipo di abilità diversa: è dimostrato che gli animali sono in grado di operare un riconoscimento di immagine, ma la realizzazione dell’immagine sembra essere una prerogativa esclusivamente umana. E il fatto che si tratti di un’abilità che si deve apprendere è parte del motivo per cui l’arte – o almeno l’arte figurativa – ha una storia. Il nostro sistema percettivo potrà essersi evoluto, ma questo non equivale ad avere una storia113>>. Davvero allora Danto pensa ad un’arte senza opere d’arte. E viceversa, come nel nostro caso, alle opere d’arte senza l’arte. Tutto questo deriva da un atteggiamento certo più attento al problema posto dall’arte durante il corso del Novecento. Il tema, svolto ampiamente nel libro La trasfigurazione del banale del 1981, è quello del perché dare un nome diverso ad un orinatoio, del perché pensare ad una scatola di spugne innanzitutto come opera d’arte, laddove la percezione sensibile di essi – la percezione sensibile del mondo – non è mutata. Mentre il problema diventava, solo pochi decenni fa, l’opera d’arte medesima, e l’arte sublimava se stessa nella filosofia, quest’ultima si dedicava ad assecondare un concetto che non aveva altra presa sul mondo esterno, altro significato che il semplice svolgersi della sua narrazione. Il concetto di arte, il perché una determinata opera, un manufatto è da considerarsi arte, coincide semplicemente con lo svolgersi del racconto che narra come l’arte ha pensato di chiamare tale quell’opera. Ma siamo andati fuori strada rispetto a ciò che qui ci interessa. Ora è necessario sottolineare che per Danto l’arte intesa come l’insieme delle opere d’arte non è soggetta ad una fine o ad un inizio: come è stata prodotta arte anche dopo gli anni Sessanta, così prima che <<l’Era dell’arte>> (nei termini di Belting) avesse inizio gli uomini diedero vita a opere d’arte. Ha senso invece dichiarare la fine dell’arte così come è stata concepita durante l’era dell’arte, grosso modo dagli inizi del XV secolo al 1964. L’arte finisce dunque perché finisce un atteggiamento che ha caratterizzato la storia in passato, ma che adesso non sussiste più. Il concepimento dell’arte secondo determinati criteri narrativi caratteristici di un passato storico – ovvero le diverse giustificazioni razionali che hanno fornito nel corso dell’Era dell’arte il “perché” dell’arte – è il motivo per il quale bisogna riflettere sul concetto di arte in termini storici. Ovvero, il concetto di arte viene consegnato al passato, alla storia. 113

La fine dell’arte, cit., pag. 116, enfasi mie.

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Quindi: la fine dell’arte è implicata reciprocamente con la fine della storia dell’arte, a sua volta implicata reciprocamente con la fine della storia. Da questa catena di implicazioni istantanee deriviamo la fine di un oggetto nella storia (l’arte), coincidente con una storia dell’oggetto-arte, a sua volta coincidente con un oggetto-storia. Ognuna di queste tre entità è individuabile però solamente da un punto di vista privilegiato, a-storico114, come può essere il nostro. Il che significa estendere la storia (story o narrative in Danto) fino a farla coincidere con la Storia, la history per Danto; ma questo punto è decisamente il meno chiaro dell’opera, a cui si aggiunge una generale ambiguità del concetto e della parola “storia”, al di là delle traduzioni e delle maiuscole. Diventa un’incertezza, comunque, se consideriamo lo straordinario debito di Danto nei confronti di Hegel. Perché, in un contesto dichiaratamente post-storico, il concetto sopravvive indipendentemente dalla Storia. Essendo questo un argomento che svilupperemo in parte studiando i meccanismi istitutivi dell’arte e nel confronto tra Danto e Beckett (seconda parte), giungiamo ora ad affermare che per Danto la Storia prosegue anche quando essa finisce: il fatto che ci si trovi alla fine della Storia (anzi, dopo la fine della storia) è un problema di manifestazione della prosecuzione di questa allo Spirito, quindi di capacità concettiva di essa, non per forza contraddittoria. Prima di analizzare la relazione tra la sua teoria sulle storie dell’arte e le narratives di Vasari e Greenberg, Danto, all’inizio del terzo capitolo di Dopo la fine dell’arte, approccia il problema delle strutture storiche, e lo fa forse troppo rapidamente considerando il ruolo che il termine “storia” gioca all’interno della sua trattazione. Certo, egli pubblicò già nel 1965 una sua Filosofia analitica della storia, come ricordato sopra. Ma proprio per la deviazione rispetto alle conclusioni lì contenute, ammessa dall’autore a distanza di trent’anni, quei temi andrebbero ripresi anche in questa sede. La dialettica tra le posizioni delle due diverse opere sull’oggettività delle strutture storiche è riportata chiaramente da Danto quando egli tratta della legittimità o meno di certe affermazioni storiche, prendendo ad esempio la non ascrivibilità dei collage di Motherwell (1956) allo stile Pop a lui successivo:

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Genericamente a-storico (per noi che ne commentiamo), anche se Danto rifiuta questa ipotesi: il presente è sempre, in Dopo la fine dell’arte, post-storico.

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Motherwell … non se ne fece molto della Pop art quando questa emerse: egli non la considerò come completamento dell’agenda a cui aveva dato inizio, né coloro i quali praticarono la Pop lo consideravano un predecessore115.

Da questo esempio la diversità delle critiche alle “frasi narrative” in generale tra l’opera del 1965 e gli scritti del 1995:

Non si possono stabilire affinità storiche sulla base delle somiglianze, ed è un obiettivo di queste lezioni identificare qualcosa della logica dei tipi di strutture storiche a cui mi rivolgo tacitamente nel fare queste considerazioni … Nella mia prima seria opera filosofica, Filosofia analitica della storia, dimostrai che erano certe affermazioni sul futuro a rendere ciò che allora chiamai “filosofia sostanziale (substantive) della storia” illegittima. Quelle affermazioni tendevano a trattare la storia (history) come una storia oggettiva (objective story) … Cosa rende [l’affermazione su Motherwell] legittima se le filosofie sostanziali della storia sono illegittime? Bé, ammetto di essere oggi propenso ad una più mite considerazione delle filosofie sostanziali rispetto al 1965, quando il mio libro fu scritto nelle ultime fasi dell’alto positivismo. Ma questo è perché mi è sembrato via via più plausibile che ci siano strutture storiche oggettive – oggettive nel senso che, per usare l’esempio citato, non c’era possibilità oggettiva che le opere a cui in seguito somigliarono i collage delle Gauloises di Motherwell si adattassero alla struttura storica a cui quelle opere appartenevano, ed in nessun modo queste ultime si sarebbero potute adattare alle strutture storiche definite dalla Pop. La struttura storica precedente definiva una gamma di possibilità chiusa da cui le possibilità della struttura successiva erano escluse116.

Il passo sopraccitato è importante perché ci dà un’idea dell’approccio metodologico di Danto al problema del rapporto tra gli eventi (gli oggetti, gli enti, l’arte) ed una Storia che si confonde la storia, la si chiami storia dell’arte, filosofia sostanziale della storia o più 115

After the end of art, cit., pag. 42: Motherwell, aesthetically and sentimentally, loved Gauloise bleu, but he had little use for pop art when it emerged: he did not see it as fulfilling an agenda he had begun, nor did practitioners of pop regard him as a predecessor. 116 Ibidem, pag. 43: One cannot establish historical affinities on the basis of resemblances, and it is one task of these lectures to identify something of the logic of the kinds of historical structures to which I am tacitly appealing in making such claims … But in my first serious philosophical work, Analytical philosophy of History, I argued that it was certain claims about the future which render what I had termed substantive philosophies of history illegitimate. Those claims tended to treat history as if it were an objective story … And what makes it legitimate if substantive philosophies of history are illegitimate? Well, I must say that I am likely today to take a more charitable view of substantive philosophies of history than I would have done in 1965, when my book was written in the last stages of high positivism. But that is because it has seemed more and more plausible to me that there are objective historical structures – objective in the sense that, to use the example just cited, there was no objective possibility that the works which Motherwell’s Gauloises collages later resembled could have fit into the historical structure to which those works of Motherwell belonged, and no way in which the latter could have fit into the historical structures defined by pop. The earlier historical structure defined a closed range of possibilities from which the possibilities of the latter structure were excluded. (enfasi mia).

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semplicemente racconto, proprio in virtù del fatto che un’analisi critica del concetto di storia rimane elusa. Il che si traduce, appunto, nella tendenza a non mettere mai in discussione la pertinenza del concetto al presente, cioè terminato il percorso storico della presa di coscienza di sé da parte del concetto stesso. Il concetto rimane come l’oggettivo, il residuo inspiegabilmente “non fluidificato” di una storia conclusa. Ma la metodologia della critica alle strutture storiche può muovere dall’accettazione di strutture storiche oggettive (si parla di Storia quindi) dopo la fine della storia? Che cos’è – e la domanda non è per nulla retorica – la <<gamma delle possibilità definite da una struttura storica>>? Che cosa significa? E soprattutto, in quale rapporto porla con ciò che vi sta dentro, con i fatti della storia? Nel nostro caso possiamo tradurre il ragionamento di Danto dicendo che Motherwell arriva ad incollare i suoi pacchetti di sigarette sulla tela all’interno di un percorso storico, di un “sentiero” che proseguendo non tocca le vicende degli artisti della Pop. Ma a cosa serve un discorso del genere se non a fornire una storia dell’arte che – sul modello delle altre narrazioni maestre – traduca la Storia in racconto e viceversa? In sostanza, ritengo che se vogliamo considerare il valore storico di un ente o di un corpo di enti come può essere un quadro, un’installazione di ferro oppure una scultura di schiuma partendo dal presupposto che la storia sia finita117, dobbiamo riflettere ben più profondamente sull’oggetto-Storia, se esso ci sia o se esso non sia piuttosto il criterio con cui l’uomo giustifica il proprio linguaggio, la propria narrazione. Se non sia quindi la concettualizzazione della propria razionalità linguistica. Innanzitutto è utile constatare che Danto non discute della storia ma delle “strutture storiche” che si susseguono nella storia.

Struttura storica o storia di una struttura? Se non ci vogliamo accontentare della definizione metaforica di “struttura storica” che abbiamo fornito sopra, quando l’abbiamo tradotta con “sentiero”, possiamo almeno 117

Si può anche prendere il post-historical di Danto come semplicemente riferito alla storia come narrazione, racconto; tuttavia è l’utilizzo del paragone tra la sua fine dell’arte e la fine della Storia di Marx e Engels a non lasciare dubbi: In both conditions – the end of history and the end of art – there is a state of freedom … The difference between the Marxian prophecy and mine is that … mine is what one might call a prophecy of the present. It sees the present, so to speak, as revealed. My only claim on the future is that this is the end state (pag. 44).

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considerare che cosa fa una struttura storica, sulla base del breve passo di Danto che abbiamo riportato. La struttura storica definisce. Se non vogliamo che essa proferisca parola poi, possiamo dire – sempre evincendolo da quelle righe: la struttura storica individua. Quella che salta agli occhi è comunque una certa affinità con il normale esercizio delle capacità razionali dell’uomo, quasi a devolvere ad un fatto storico (la cui individuazione è davvero nebulosa) ciò che compiamo noi nel pensare ad esso. Ritorniamo un attimo a Motherwell. Che cosa, nel fatto storico rappresentato dalla produzione di Motherwell precedente allo sviluppo della Pop, dice che i due stili non convergono? Attenzione: qui non si sta mettendo in discussione il fatto che davvero Motherwell – filosofo ed espressionista astratto innanzitutto – non volesse avere a che fare con gli artisti Pop, oppure che davvero i due movimenti derivassero da ideologie diverse. Si vuole piuttosto fare a meno dell’ingombrante presenza della “struttura storica” per definire i criteri con cui giudicare i due stili come non allineati. E questo perché nel nostro periodo post-storico l’accettazione di una necessità storica, per quanto passata e pertanto non più sussistente, rappresentata dall’alternarsi di strutture storiche applicabili a certi enti ma non a certi altri, un tale conferimento di poteri alla Storia reifica le strutture storiche privandole della loro natura linguistica. E siccome il riconoscimento di un elemento razionale nella Storia non è che la devoluzione illusoria di una prerogativa umana (il ragionamento, la definizione, l’identificazione) ad una non meglio definita “struttura”, il risultato del mantenimento del concetto di struttura storica alla fine della storia non può che essere l’incapacità nostra di servirci del passato, che non è più in grado di comunicare, in virtù della reificazione di cui sopra. In sostanza, fin tanto che si crede nella Storia, la si può identificare con una narrazione (la struttura storica essendo una struttura narrativa); quando si afferma che la storia (e la Storia) è finita bisogna appropriarsi degli enti “del passato” in maniera differente. Dobbiamo domandarci innanzitutto quanto e in che maniera il nostro pensare sia collegato alla narrazione di un racconto, quindi ad una storia ed infine alla Storia. Se supponiamo che i concetti si formano analogamente al modo in cui assembliamo degli eventi in un racconto, allora rinsaldiamo il nesso tra storia e teoria, confermando una visione ermeneutica del presente, il cui essere si confonde con l’identificazione che di esso ne fa il soggetto. Danto è alla ricerca di un soggetto concettuale e concepito al fine di rinsaldare i nessi teorici tra una struttura storica e gli enti correlabili a quella, sebbene una narrazione 71


della teoria sia impossibile. La struttura storica per Danto coincide con la gamma di possibilità offerte all’ente allo stato presente delle cose (e, quindi, per il suo avvenire); le possibilità ricalcano l’avanzamento dell’ente nel suo percorso storico mediante l’individuazione e la comprensione concettuale delle diverse alternative causali, tanto positive (le cause efficienti), quanto negative (antitetiche, avverse). Ma il circolo che si viene a creare tra un soggetto che comprende la storia in virtù della duplice individuazione positiva (possibilità) e negativa (impossibilità), sulla cui affermazione positiva poggia le sue basi tanto la teoria, il linguaggio, quanto la Storia come racconto dell’affermazione delle alternative positive, rimane a caratterizzare il rapporto tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto finché la scelta tra le alternative possibili non viene più compiuta sul passato, quanto rimessa al presente. Questo – lo vedremo meglio nel prossimo capitolo, con un’analisi della matrice logica della storia dell’arte – avviene solo con l’accettazione di un residuo positivo ineliminabile da una parte; dall’altra con l’illusorietà dell’intero processo di affermazione mediante negazione. Non che esso non esista, anzi. Proprio la sua esistenza però sconfigge e disperde la negazione che si credeva essenziale. Hegel credeva nella Storia, e Danto altrettanto. Al punto da affermare che <<entrando nel periodo post-storico non si sfugge alle costrizioni della storia (history)>>; e quindi anche quando tutto è possibile, come ora in campo artistico, in realtà non tutto è possibile. Verrà il giorno in cui ci relazioneremo a tutte le forme di vita che ora abbiamo a disposizione in maniera del tutto nostra, e quella relazione definirà il nostro periodo. Questo è quanto scrive Danto nell’ultimo capitolo di Dopo la fine dell’arte118. Il rapporto con le forme di vita precedenti marca le possibilità e le impossibilità di un determinato presente definendone la struttura storica. Ma non era la struttura storica a definire la gamma delle possibilità di un periodo storico? <<La struttura storica precedente definiva una gamma di possibilità chiusa da cui le possibilità della struttura successiva erano escluse>>. Se combiniamo questa affermazione del terzo capitolo con le riflessioni su quella appena

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After the end of art, pag. 198: One does not escape the constraints of history by entering the post-historical period. So in whatever way it is true of the post-historical period in which we find ourselves that everything is possible, this must be consistent with Woelfflin’s thought that not everything is possible … the sense in which everything is possible is that in which there are no a priori constraints on what a work of visual art can look like, so that anything visible can be a work of art. That is part of what it really means to live at the end of art history … No period can relate to the art of earlier life-forms in the way those who lived those life-forms did … The sense in which everything is possible is that in which all forms are ours. The sense in which not everything is possible is that we must still relate to them in our own way. The way we relate to those forms is part of what defines our period.

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incontrata otterremo una sequenza logica di questo tipo: il rapporto col passato definisce le possibilità del presente, possibilità che non hanno rapporti col futuro (dove passato, presente e futuro sono tre strutture storiche generiche). Può sembrare una banalizzazione del discorso, ma è importante riflettere sul fatto che i ragionamenti storici che hanno valore per noi sono sempre quelli rivolti al passato. E ciò non significa solamente che i nostri 1984 continueranno a non fornire indicazioni veritiere sulla realtà concreta del futuro, come scrive Danto stesso nel capitolo La pop art e i passati futuri119; implica pure che non ha senso fare la storia del presente. In tal modo si corre il rischio di subordinare una necessità ontica delle cose ad una necessità storica, cioè ad una necessità formale di narrazione e di concatenazione degli eventi. Se questo è abbastanza evidente per il presente, è tuttavia ancor più importante tenerlo in considerazione per il passato. La subordinazione della necessità ontica di un ente, ovvero la presenza di un ente, alla sua necessità storica, ovvero al suo perché, significa pensare all’assenza di quello finché non lo si narri, finché non lo si inserisca, facendolo coincidere con essa, in una narrazione. Siffatta narrazione, nel suo momento conclusivo, si assesta come contenuto intellettuale cristallizzato in concetto; l’importanza di tale operazione risiede nella possibilità di considerare l’intero dell’essere come una struttura narrativa che non si cristallizza mai in una struttura storica, ovvero l’essere come storia senza concetto. D’altra parte si può considerare la presenza degli enti storia e arte come compresenze concettuali prive di ogni rapporto: è una soluzione di fatto incomunicabile, poiché muove dalla rinuncia del soggettonarrante alla devoluzione di quelle strutture razionali-narrative che rendono i diversi enti parte di una stessa “storia” alla Storia. L’ente-storia come narrazione autoreferenziale e dunque, paradossalmente, irrazionale, perché impossibilitato a ricevere su di sé la proiezione delle nostre categorie narrative e razionali, essendo esso indipendente da noi. Così l’arte: chiusa nel suo Artworld parlerà un idioma sconosciuto agli stranieri, seguitando ad auto-affermarsi in virtù di argomentazioni valide solamente per se stessa allo stato presente delle cose.

119

After the end of art, Pop art and past futures.

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Seconda Parte: l’arte, la filosofia e il mondo

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Capitolo I. Intorno al problema della legittimazione.

Il Verbo degli uomini Durante il secolo XIX, come abbiamo visto, l’arte ha intrapreso un percorso del tutto nuovo rispetto a quello seguito fino ad allora: a partire dalla poesia simbolista e “maledetta” dei francesi che nella seconda metà del secolo si ribellarono all’idealismo e al romanticismo imperanti, tutta l’arte fu poi investita dal nuovo spirito modernista. <<L’art pour l’art>> diventava così uno stile di vita per l’artista che si schermava dal resto del mondo con lo stile di vita bohème, ed il motto non tardò a trasformarsi nel meccanismo razionale preferito dell’epoca giù fino ai giorni nostri, ovvero l’autonomia dell’ente, disegnata sulla sua autotelìa. Non per niente Danto sostiene che il periodo modernista dell’arte, regolato secondo la capacità ermeneutica della singola opera d’arte venuta alla luce come autocoscienza del proprio passato, sia invisibile agli occhi di chi non consideri un Artworld, distinto dalla “mera realtà” e completo in sé stesso, a garanzia della sua istituzione. Nello stesso volgere di anni in cui la pittura seguiva la poesia nell’avventura modernista, esauriti i primi scandali degli impressionisti (ammesso e non concesso che il Modernismo, come vuole Greenberg, inizi con le opere di Manet), la filosofia incontrava per la prima volta un esplicito diniego della fede in un Dio che non fosse di questa Terra. La gestazione del motto niceano <<Dio è morto>> durava peraltro da parecchio tempo: se è vero, come sostiene qualcuno, che Nietzsche appartenga, insieme al marchese de Sade, al “lato oscuro” dell’Illuminismo, Kant prima e Hegel poi avevano di fatto già scalzato Dio insediando sul trono della metafisica120 la Ragione con la sua capacità di rendere fluido l’oggetto del pensiero nel concetto.

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Contrariamente alle loro intenzioni. La sostituzione della ragione umana a Dio è questione “metafisica” per l’incontestabilità di cui la ragione viene ad essere investita, con i suoi dogmi e le sue pretese.

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Nella Dialettica trascendentale di Kant (Critica della Ragion pura) si sottolineava lo sforzo dell’intelletto (finito) di pensare l’incondizionato (infinito). Così Anima, Mondo e Dio erano per esso tre aberrazioni, le “Idee trascendentali”. Il cogito più potente che si ritrova in Kant è l’azione che il soggetto compie sull’oggetto mediante il concetto: Dio per Kant è una contraddizione perché in esso la ragione (intelletto) non si dipana appieno, lasciando che il fenomeno (Dio) non venga determinato in alcun concetto. Il soggetto deve perciò diventare una macchina determinante, e di conseguenza l’oggetto deve diventare concetto: è questo il meccanismo del razionalismo moderno che confluirà nel pensiero dialettico. A partire da questa tensione tra ragione umana e infinito, l’Assoluto entra nella filosofia come problema, non semplicemente come residuo di un’operazione non completata. La Rivoluzione francese contribuì anch’essa in maniera forte a sviluppare le nuove direzioni della speculazione. Essa innanzitutto fu recepita in Germania come celebrazione della Ragione (Hegel dirà infatti:<<Quella fu dunque una splendida aurora>>); da lì la prima filosofia tedesca che trattasse l’assoluto combina il criticismo kantiano unito ad una riflessione sulla storia. Perciò l’esigenza avvertita allora da Hegel fu quella di pensare l’assoluto – precedentemente inteso come trascendentale – nel mondo, rifiutando categoricamente allo stesso tempo una sua possibile intuizione: il pensiero non è attuabile per via immediata, come fosse un’estetica auto-imposizione (contra Schelling); né si può escludere l’assoluto dal regno della Ragione perché aporia (Kant). Il pensiero dialettico parte quindi dalla contraddizione fondamentale tra finito e infinito, contraddizione che non è data a togliersi immediatamente; essa è infatti lo squilibrio sostanziale, ed immanente, che muove la storia e determina la logica: senza la sua asimmetria l’essere non andrebbe da nessuna parte. L’assoluto è la trascendenza dell’essere e del sapere in quanto contraddizione; ma esso non è più il Dio-sostanza aristotelico-tomistico, né la “bella eticità” romantica proiettata retrospettivamente sulla Grecia, dell’uomo libero nella politica anti-moderna, connotata poeticamente. La Dialettica si adatta all’andamento contraddittorio del reale, e lo comprende razionalmente: il mondo è nella filosofia e la filosofia è nel mondo, come comprensione reale della contraddizione. La continuità tra il finito e l’infinito, ricercata da Kant nell’imperativo categorico prima, e nel giudizio riflettente poi, si manifesta per Hegel nel sillogismo dialettico. La verità è solo un processo, ora immanente. 76


La “fine della storia” teorizzata da Hegel deriva quindi dalla più alta possibilità del sapere assoluto di comprendere se stesso come processo, ed indica il sapere assoluto consapevole della storicità della mediazione che lo costituisce. Il cuore del rapporto tra il mondo e la filosofia divengono la contraddizione e il sapere della contraddizione; il sapere assoluto riconosce, ed il riconoscimento (Anerkennung) non è simmetrico: le autocoscienze si incontrano nella lotta mortale per la sopravvivenza, finché una non recede facendosi servo. La morte di Dio è necessaria, e necessario è conoscerla, affinché lo Spirito si manifesti storicamente. Il fatto che i valori della metafisica tradizionale non siano stati destituiti prettamente dal nichilismo, inteso nella sua accezione storico-filosofica, ma che questa “corrente” vada a scavare un solco già tracciato dal pensiero del Diciannovesimo secolo, è testimoniato dalla relativamente rapida espansione di questo rinnego del trascendentale alle arti e alle scienze. Almeno in questo rispetto, si può dire che il motto di Nietzsche arrivi a suggellare un’atmosfera culturale già permeata da tendenze consimili. Credo sia utile e interessante soffermarci un attimo sul momento della comparsa della parola “nichilismo” nella cultura europea, perché il libro Padri e figli di Turgenev, nel quale essa fa la sua apparizione per la prima volta, offre una chiara lettura in fieri del fenomeno di soppressione del trascendentale di cui vogliamo dar conto qui. … Pavel Petrovič storse i baffi <<Be’ questo signor Bazarov, in sostanza, cos’è?>> chiese, strascicando le parole. <<Cos’è Bazarov?>> e Arkadij sorrise <<volete, zio, che vi dica che cos’è veramente?>> <<Te ne prego nipotino…>> <<È un nichilista>> <<Come?>> chiese Nikolàj Petrovič, mentre Pavel Petrovič, che aveva sollevato il coltello con un pezzo di burro sulla cima, rimase immobile. <<È un nichilista>> ripeté Arkadij. <<Nichilista!>> esclamò Nikolàj Petrovič <<La parola, per quanto ne so io, viene dal latino nihil, nulla; quindi questa parola indica un uomo che … che non ammette nulla?>> <<Di’ piuttosto: che non rispetta nulla>> corresse Pavel Petrovič, e di nuovo si occupò del suo burro. <<Che considera ogni cosa dal punto di vista critico>> osservò Arkadij. <<E non è la stessa cosa?>> obiettò Pavel Petrovič. <<No, non è la stessa cosa. Nichilista è un uomo che non abbassa la testa davanti ad alcuna autorità, che non accetta sulla parola alcun principio, qualunque sia il rispetto di cui tale principio è circondato>>. <<E ti pare una buona cosa?>> lo interruppe Pavel Petrovič. <<Dipende, zio. Per qualcuno è un bene, per altri un male>>. <<Già, è così. Ho bell’e visto che non è roba per noi. Noi siamo gente del secolo scorso e riteniamo che senza principi>>, Pavel Petrovič pronunziava questa parola con durezza, calcando sulla prima sillaba <<senza principi accettati, come tu dici, sulla parola non si può fare un passo, non si può respirare. Vous avez changé tout cela, che Iddio vi dia salute e il grado di generale, e noi ci accontentiamo di ammirarvi, signori … come hai detto?>> <<Nichilisti>> rispose Arkadij, scandendo le

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sillabe. <<Sì. Prima c’erano gli hegeliani, adesso ci sono i nichilisti. Vedremo come riusciremo a esistere nel vuoto, nello spazio, nell’aria. Per intanto suona, fratello Nikolàj: è ora che io prenda la mia cioccolata>>1.

I nichilisti derivano perciò la loro non accettazione di <<alcun principio sulla parola>>, tanto dal criticismo Kantiano quanto dall’idealismo di Hegel. Inoltre è importante notare che ancora in questo luogo il nichilismo non è esente dal confronto con un certo positivismo razionalistico, ritenuto un elemento imprescindibile della scienza e della filosofia. Se nel periodo moderno l’arte, di cui gli artisti ricercavano l’essenza – quindi un suo arché – nell’opera d’arte stessa e nel loro stile, e la cui consapevolezza di tale ricerca si manifestava nella teoria grazie alla quale allo stile veniva riconosciuto uno svolgimento storico potendo così essere compreso, allora possiamo parafrasare le parole di Arkadij dicendo che il processo di destituzione del trascendentale conduce dal rispetto dei principi sulla parola al loro rispetto nella parola. Massima apparenza di tale parola fondante è ovviamente il manifesto. Gli studiosi italiani Severino e Galimberti sono tra quelli che hanno poi definito il nichilismo una presenza millenaria nel pensiero da Platone in avanti, presenza che ora è divenuta autocosciente, secondo Galimberti, nella pre-potenza della ragione. Questa, appunto, <<risiede nel porsi come un tutto originario, come Umgreifende intrascendibile che, pre-determinando ogni pensiero, ogni parola, ogni atteggiamento e ogni condotta di vita, diventa l’êthos dell’uomo, il suo inoltrepassabile soggiorno. Il “pre” della pre-potenza ha quindi un carattere ontologico>>2. La ragione prepotente è quella che si è sostituita all’Essere intelligibile, al Dio causa prima e fine ultimo di tutte le cose, occupando l’orizzonte ontologico dell’uomo. Cito questo passo perché l’immagine dell’orizzonte ben si adatta alla definizione delle caratteristiche proprie dell’opera d’arte che Danto offre ne La trasfigurazione del banale. Intanto per la sua conformazione circolare orizzontale: è infatti il mondo dell’arte di un’epoca a fornire il vocabolario espressivo – e così le possibili interpretazioni – di un’opera d’arte. La forma dell’opera d’arte – e, per estensione metonimica, del mondo dell’arte – cioè il confine tra ciò che è arte e ciò che non lo è, è circolare dal momento che le due caratteristiche principali dell’opera d’arte descritte da Danto sono: (i) essere a proposito di qualcosa e (ii) incorporare la propria definizione. Ora, 1 2

Ivan Turgenev, Padri e figli, Milano, Fabbri editori 1968, pagg. 40-43. L’originale Otcy i deti è del 1862. Vedi U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente, Milano, Feltrinelli 2005, pag. 435.

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la parola about e la sua sostantivazione aboutness, che indica la ripresa di una porzione di realtà nell’opera d’arte3, e che traduciamo forzosamente con “aproposità”, conserva un profondo legame con il concetto di circolo, di “stare/essere intorno a” oltre che “a proposito di”, esattamente come la sua corrispondente italiana circa deriva dal latino che significa innanzitutto “intorno a”. Ma come mai una pala da neve non è a proposito di nulla, mentre In Advance of the Broken Arm sì? Ovvero: è davvero l’opera d’arte – piuttosto che il concetto di arte – a essere circa qualcosa? La risposta di Danto è ovviamente affermativa. Eppure proprio questo sottende il fatto che il limite circolare che agisce da strumento ermeneutico indispensabile al fine di nominare “opera d’arte” qualcosa che rimarrà sempre anche un mero oggetto, sia, per usare un’immagine, un ufficio del tribunale della ragione. Questo è il risultato che Danto rende chiaro alla fine del quinto capitolo, affermando il nesso inscindibile tra l’identificazione dell’opera d’arte come tale e la cognizione dell’arte: per percepire un oggetto come opera d’arte occorre preventivamente avere familiarità con una teoria dell’arte. Nella misura in cui la storia e il concetto di arte servono non solo alla produzione, ma soprattutto al riconoscimento artistico, la parola risulterà sempre fondante per l’arte. Allo stesso tempo dobbiamo considerare l’elemento intensionale proprio della relazione tra l’oggetto e il predicato di “opera d’arte”: questo è onnipotente, poiché <<non qualsiasi cosa può essere qualsiasi cosa, ma qualsiasi cosa può essere un’opera d’arte 4>>. Quest’affermazione, per quanto assai suggestiva, mi lascia alquanto perplesso. Non che sia errata, anzi: credo che molti artisti e critici sottoscriverebbero ad essa. Tuttavia, non elude un’obiezione piuttosto forte, cioè che essa sia contraddittoria. Certo, tale accusa può significare ben poco per le nostre sensibilità postmoderne, anestetizzate dalla teorizzazione di tutto. Perché la definizione di opera d’arte non può essere contraddittoria? Perché perderebbe ogni significato e svanirebbe semplicemente. Cosa dice Danto con questa frase? Che esiste un dominio dell’essere al cui interno le parole non funzionano, letteralmente, e si fanno mute, opache: è il dominio dell’arte. Parafrasando: <<Purché la si chiami un’opera d’arte, qualsiasi cosa può essere qualsiasi cosa>>. Peccato che niente possa, non tanto non essere, ma essere: ogni cosa è quello che è. Il fatto che il dominio al cui interno le parole

3

Non è un caso che il saggio The Artworld, con cui Danto inaugurò la sua carriera di filosofo dell’arte, rimanendo fedele alla lezione dell’estetica analitica, ovvero alla critica in primo luogo dell’estetica socratico - platonica, si apra con il confronto tra Shakespeare e Socrate sul tema della funzione dell’arte di rispecchiamento della realtà. 4 Danto, La trasfigurazione del banale, op. cit., pag. 80.

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non valgono più sia imprescindibile dalla presenza del concetto, fisso o mutevole che sia, di arte o opera d’arte, comporta che la potenza ontologica della parola renda impossibile ogni comunicazione della medesima, avendo essa rese mute le condizioni per le quali essa è un’opera d’arte. La potenza ontologica della parola è l’autocoscienza dell’ideologia, dal momento che l’opera d’arte è tale solo in un confronto ermeneutico nella quale svolge il ruolo non solo di destinataria dell’interpretazione, ma anche di suo strumento. L’ideologia (totalitaria) è invenzione della politica, dapprima col nazionalismo: la prima ideologia fu infatti quella della Rivoluzione, il cui motto Liberté, Egalitè, Fraternité è l’autocoscienza che critica il mondo a partire dalla sua società (e per farlo bisogna essere autocoscienti della propria condizione

storica,

o

perlomeno

seguire

uno

schema

razionale

che

porterà

all’autocoscienza) con l’ausilio di un programma politico. Secondo Marx e Engels <<per ideologia si intende l’insieme di quelle credenze in quanto non hanno altra validità se non quella d’esprimere una certa fase dei rapporti economici e quindi di servire alla difesa degli interessi che prevalgono in ogni fase di questi rapporti5>>. Le credenze politiche, filosofiche, religiose e morali dipendono dai rapporti di produzione; ma se non si fosse coscienti della fase in cui si trovano tali rapporti, siffatte credenze non sarebbero ideologiche. “Ideologia” in realtà è un conio del XVIII secolo con cui Destutt de Tracy (del gruppo di intellettuali illuministi detto les idéologues) intendeva indicare una nuova scienza delle idee, opposta tanto alla metafisica quanto al criticismo Kantiano, che rappresentasse <<un’analisi scientifica delle basi spirituali della società in cui era accaduta la Rivoluzione>>. Essa nasce pertanto come ostile alla trascendenza, ma neutrale alla maniera di una scienza: una continuazione delle scienze naturali con lo studio delle idee. Ma già con la salita al potere di Napoleone il gruppo di riformatori fu gettato in discredito per la nonobiettività delle ideologie: l’idea e l’idea che coincide con lo studio dell’idea non sono compatibili poiché la loro individuazione (per forza di cose simultanea) soffre per una costante ermeneutica. <<Ogni ideologia include una visione normativa; essa risponde all’interrogativo nel quale confluiscono tanto la curiosità dello spirito quanto l’angoscia

5

Nicola Abbagnano, Ideologia, in Dizionario di Filosofia, terza edizione ampliata e aggiornata da Giovanni Fornero, Torino, UTET,1998. Per le tesi di Marx e Engels si veda in generale La Sacra famiglia.

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dell’essere: sapere per credere>>6. Fu proprio a causa

dell’impossibilità di verifica

oggettiva della nuova scienza che il termine ideologia venne tradotto poi con un’accezione negativa. Per Pareto il suo significato è quello di teoria non scientifica, intesa come teoria opposta alla logica sperimentale; infatti, se la Scienza è costituita da osservazione e ragione, l’Ideologia appartiene alla sfera del sentimento e della fede, che le conferiscono però la capacità di guidare l’azione, di farsi prassi politica. Per Mannheim inoltre l’ideologia non può prescindere da un certo utopismo: l’idea diviene ideologica quando è irrealizzabile. Per Abbagnano infine si può dare una definizione formale del concetto, come <<ogni credenza adoperata per il controllo dei comportamenti collettivi … credenza come nozione impegnativa per la condotta tanto oggettiva (realizzabile) quanto non oggettiva (irrealizzabile) … Ciò che costituisce a ideologia una credenza non è la sua validità quanto la capacità al controllo dei comportamenti7>>. Per quanto riguarda il campo della produzione artistica, con il Modernismo il modello stesso del comportamento poetico diventa il manifesto, nella misura in cui ogni opera d’arte è giustificata dalla parola del manifesto. Ma la capacità del concetto di rendere giusta un’opera verrebbe travisata se dimenticassimo il carattere ontologico orizzontale della potenza del pensiero e della ragione. Con un gioco di parole possiamo dire che la <<potenza del manifesto>> (Tzara) è possibile solo se alla ragione <<tutto è possibile>>: la capacità di nominare, la coscienza ideologica della ragione è la stessa componente che per Danto conferisce al predicato “opera d’arte” una speciale relazione onnipotente, permettendogli, come abbiamo mostrato8, di essere predicato di qualunque oggetto. Questa onnipotenza deve essere presupposta, per quanto inconsciamente, non già perché il manifesto riesca a persuadere coloro i quali rimangano estranei al processo produttivo dell’opera d’arte della raison d’être di questa, quanto semplicemente affinché l’opera d’arte si dia e lo faccia sotto il controllo della parola. L’insieme della Teorica degli artisti è una multiforme prescrizione, e le loro opere sono prescritte. Braque annotava sui suoi taccuini quelle che riteneva le regole grammaticali della pittura, sia sul lato della produzione che su quello della fruizione:

6

Vedi Georges Burdeau, Ideologia, in Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1978, vol. III, pag. 504. 7 Abbagnano, Ideologia, in op. cit. 8 Sui temi della relazionalità del concetto di arte vedi La trasfigurazione del banale, op. cit., capitolo terzo.

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Non è sufficiente far vedere ciò che si è dipinto, bisogna anche farlo toccare. In arte, non vi è effetto alcuno senza alterazione della verità. La personalità dell’artista non è fatta dall’insieme delle sue manie. Non si può domandare ad un artista più di quanto possa fare, né a un critico più di quanto possa vedere. L’Arte è fatta per turbare, la Scienza per rassicurare. Il pittore pensa in forme e colori l’oggetto; ecco la poetica! Nell’arte vi è una sola cosa che vale, ciò che non si può spiegare. L’artista non è incompreso, è misconosciuto. Lo si sfrutta senza conoscerlo. Quando si fa appello al talento, vuol dire che manca l’ispirazione. Il pittore non fa in modo di ricostruire un aneddoto, ma di comporre un fatto poetico.9

La parola fondante è tale quando esprime la propria consapevolezza di fondamento, come in questo caso: l’opera d’arte è concepita in questi termini, in senso forte. Come se le parole costituissero il Verbo a cui tanto la forma del testo, quanto la forma del dipinto, fossero debitrici per la loro intelligibilità. È curioso incontrare di nuovo le categorie ontologiche della tradizione Platonica, poi Cristiana e Neoplatonica, già impiegate per descrivere il rapporto dell’arte pre-moderna (“Vasariana”, per Danto) con la natura, nel nuovo scenario moderno e anti-metafisico. Tuttavia la tentazione è forte, considerate le sempre nuove creazioni di “mondi dell’arte”. Prendono parte allo stesso meccanismo di creazione e giustificazione anche le parole di Tzara sulla tecnica che andava diffondendosi con successo grazie al Cubismo, il papier collé.

Una figura ritagliata da un giornale e inserita in un disegno o in un quadro, raffigura il luogo comune, un brandello di realtà quotidiana; in movimento questa, se raffrontata alla realtà costruita dallo spirito. La diversità di sostanza che, grazie all’occhio, si trasforma in sensazione tattile, dà al quadro una nuova profondità, in cui il peso si innesta con una precisione matematica nel simbolo del volume e la sua densità, il piacere che ne sentiamo, la sua consistenza, ci mettono di fronte ad una realtà unica, in un mondo creato dalla forza dello spirito e del sogno … Un mito si è formato secondo i taciti processi preistorici: la potenza del manifesto. La pubblicità ha ricalcato le orme di un sentimento religioso ormai defunto … Alcune persone dotate di una sensibilità poetica vivace … si accorsero per primi degli strumenti che il nuovo feticismo – la pubblicità – metteva a loro disposizione. Essi non ne hanno adottato che l’essenza ed il valore mitico …10

Il brano colpisce per la profondità in cui la nuova tecnica artistica è detta affondare le proprie radici nella realtà storica dello spirito degli uomini. Il nuovo stile utilizza il 9

George Braque, Le jour et la nuit, Cahiers de 1917-1952, traduzione in Antologia critica dell’arte moderna, Milano, Fabbri editori, 1975, vol. 3, pag. 58. 10 Per il brano citato e per i successivi riferimenti vedi T. Tzara, Le papier collé ou le proverbe en peinture, in Cahiers d’Art, 1931, traduzione in Antologia critica dell’arte moderna, op. cit., vol. 4 pag. 44 e segg.

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manifesto (pubblicitario) non solo come materiale artistico, ma come strumento di teoria artistica: <<[Gli artisti più sensibili] non ne hanno adottato che l’essenza ed il valore mitico, lasciando agli appassionati del pittoresco il godimento delle sue forme esteriori, illustrazioni di un modernismo sordido>>. Ciò vuol dire che la fruizione della nuova arte deve impegnarsi in una ricerca interiore, ontologica, che sappia riconoscere l’adeguatezza del papier collé allo spirito del tempo, in virtù della sua appropriazione analogica <<dell’essenza e del valore mitico>> del linguaggio pubblicitario: <<Non vi è alcun fenomeno della vita moderna che sia riuscito a stringere rapporti tanto stretti con lo spirito moderno come questo singolare mostro: la réclame>>. Solo così <<Il papier collé segna, nell’evoluzione della pittura, il momento più poetico, il più rivoluzionario, il commovente sviluppo verso ipotesi più vive, una più grande intimità con le verità quotidiane, l’affermazione invincibile del provvisorio e della materia temporale e peritura>>. Una delle avanguardie storiche che fu legata più strettamente alla sua epifania razionale fu il Futurismo, della quale non posso esimermi dal parlare per quanto parzialmente, se non altro perché rappresenta una testimonianza preziosissima dei rapporti tra teoria artistica e ideologia (in questo caso politica e per di più totalitaria). Le innovazioni sociali, le rivoluzioni che chiedevano a gran voce i futuristi affidandosi ai loro diversi manifesti contrastavano il provincialismo italiano di inizio Novecento, nella misura in cui le diverse espressioni grafiche, poetiche, plastiche e pittoriche delle loro opere agivano consapevolmente per allineare il mondo dell’arte italiano alle nuove tendenze. Così esordiva il Manifesto dei pittori futuristi: Agli artisti giovani d’Italia! Il grido di ribellione che noi lanciamo, associando i nostri ideali a quelli dei poeti futuristi, non parte già da una chiesuola estetica, ma esprime il violento desiderio che ribolle oggi nelle vene di ogni artista creatore. Noi vogliamo combattere accanitamente la religione fanatica, incosciente e snobistica del passato, alimentata dall'esistenza nefasta dei musei. Ci ribelliamo alla supina ammirazione delle vecchie tele, delle vecchie statue, degli oggetti vecchi e all'entusiasmo per tutto ciò che è tarlato, sudicio, corroso dal tempo, e giudichiamo ingiusto, delittuoso, l'abituale disdegno per tutto ciò che è giovane, nuovo e palpitante di vita. Noi siamo nauseati dalla pigrizia vile che dal Cinquecento in poi fa vivere i nostri artisti d'un incessante sfruttamento delle glorie antiche. Per gli altri popoli, l'Italia è ancora una terra di morti, un'immensa Pompei biancheggiante di sepolcri. L'Italia invece rinasce, e al suo risorgimento politico segue il risorgimento intellettuale. Come i nostri antenati trassero materia d'arte dall'atmosfera religiosa che incombeva sulle anime

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loro, cosi noi dobbiamo ispirarci ai tangibili miracoli della vita contemporanea, alla ferrea rete di velocità che avvolge la Terra, ai transatlantici, alle Dreadnought, ai voli meravigliosi che solcano i cieli, alle audacie tenebrose dei navigatori subacquei, alla lotta spasmodica per la conquista dell'ignoto. E possiamo noi rimanere insensibili alla frenetica attività delle grandi capitali, alla psicologia nuovissima del nottambulismo, alle figure febbrili del viveur, della cocotte, dell'apache, e dell'alcolizzato?11

Il manifesto in generale è la rivelazione di un pensiero escatologico la cui funzione poco si discosta dalla buona novella evangelica: la critica feroce allo stato attuale dell’arte in Italia riveste un ruolo molto importante nell’annuncio del bisogno e quindi della venuta di un’arte che sappia interpretare con uno stile tutto nuovo <<il violento desiderio che ribolle oggi nelle vene di ogni artista creatore>>. E certo, il verbo degli uomini differisce dal Verbo divino e il manifesto non è il Genesi: innanzitutto questo descrive la creazione dell’universo e dell’uomo in quanto fatto già avvenuto, e, cosa più importante, il Verbo biblico sfugge al male, alle tenebre <<che non hanno accolto [la luce]>> (Gv 1, 5). La parola istitutrice invece conosce il male e programma (ideologicamente) il bene: la riflessione teorica degli artisti mantiene una pretesa metafisica (assimilandosi, come abbiamo visto, all’Umgreifende Jaspersiano) pur nella sua innegabile mondanità e, soprattutto, venendo prima della medesima creazione artistica. Anche quando l’opera d’arte smentisce le implicazioni del programma di un artista. È molto interessante svolgere il parallelo tra Verbo e progettualità artistica seguendo quanto scritto da Rothko a proposito:

Il senso di partecipazione e di sicurezza dipende da ciò che è conosciuto. Quando ci si sia liberati da esso, divengono possibili le esperienze trascendentali. Penso ai miei dipinti come a drammi: le forme in essi sono gli attori … Né l’azione né gli attori possono essere previsti o descritti in anticipo. Cominciano come un’avventura sconosciuta in un luogo sconosciuto. È nel momento del compimento che, in un lampo di riconoscimento, si vede che hanno la quantità e la funzione che si pensava, appunto, dovessero avere. Idee e progetti che esistevano nella mente all’inizio erano semplicemente la porta attraverso la quale ci si è lasciato il mondo in cui essi esistono … I dipinti devono essere miracolosi; nel momento in cui uno viene ultimato, l’intimità fra la creazione e il creatore è finita. Egli è un estraneo. Il dipinto deve essere per lui, come per chiunque altro lo guarderà più tardi, una rivelazione, la risoluzione inaspettata e senza precedenti di una necessità eternamente conosciuta.12

11

U. Boccioni, C. Carrà, L. Russolo, G. Balla, G. Severini, Manifesto dei pittori futuristi, 11 Febbraio 1910, in I manifesti del Futurismo, Firenze, Lacerba, 1914. 12 Mark Rothko, Possibilities 1, traduzione in Antologia critica dell’arte moderna, op. cit., vol. 12, pag. 66

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L’opera d’arte non segue per forza dei dettami descrittivi, eppure non si esime dall’evocare, anzi, dal rivelare, <<una necessità eternamente conosciuta>>. Ma ecco che senza l’intera speculazione moderna intorno alla purezza e all’autonomia del mondo dell’arte – penetrata, come visto, fino alla separazione furiosa di movimenti, stili e artisti finanche, come in questo caso, alla libera vita delle forme del dipinto – difficilmente si sarebbe potuto dire che ci troviamo di fronte ad un’opera d’arte proprio in virtù della trascendenza, rispetto al pittore, dell’azione e degli attori in essa contenuti. È lo stesso motivo per il quale Danto sostiene l’estrema congruità dello schema narrativo Greenbergiano per l’arte Moderna, in quanto ne accetta e anzi ne acclama l’impulso autonomistico del mezzo pittorico, il colore e la bidimensionalità. Le parole di Rothko rappresentano in un certo modo l’estremo debole della pretesa ideologica sull’arte, in quanto egli afferma che la teoria guida la prassi artistica nella misura in cui lascia essere le forme pittoriche, cioè la concretezza materiale dell’arte, indipendenti dall’autore – ed anzi le crea cosicché esse liberamente (trascendentemente) riportino al loro creatore e allo spettatore la verità che essi eternamente conoscono. All’altro capo dello spettro ideologico siede, secondo Rosenberg, un altro espressionista astratto, Ad Reinhardt: <<Egli sa esattamente cosa è l’arte, e anche più esattamente cosa non è. Reinhardt, che scende a noi dagli anni Trenta dominati dal dogma, è il neo-esteta per eccellenza. Ha fatto coincidere la totalità storica (“l’unica direzione possibile nelle arti belle o astratte oggi è nel dipingere continuamente la stessa forma”) con obiettivi estetici purificati da qualsiasi contenuto o riferimento (“l’unico soggetto di quasi cento anni di arte moderna è la consapevolezza che l’arte ha di se stessa, l’arte preoccupata dei propri processi e mezzi, della propria identità e distinzione”)>>13. Ho voluto enfatizzare questa ultima affermazione perché mi sembra fugare ogni dubbio sulla coscienza degli artisti moderni circa il proprio mestiere, messa in discussione da Greenberg. Ma Rosenberg ricollega esplicitamente l’autocoscienza fondante di Reinhardt con l’ideologia politica, paragonandone il rapporto con gli altri artisti, in particolare Espressionisti astratti, con il rapporto tra Lenin e i socialisti.

13

Harold Rosenberg, Nero e verde pistacchio, in L’oggetto ansioso, Milano, Bompiani, 1967.

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[Reinhardt] è il discepolo nell’arte dello spirito di assolutismo, come lo esprimeva Lenin quando nel 1907 così caratterizzava i propri attacchi agli altri socialisti: “Quel tono, quella formulazione, non sono usati per convincere ma per spezzare il fronte, non per correggere un errore dell’avversario, ma per annientarlo, per spazzarlo via dalla faccia della terra”. Tutta la pittura deve precipitare nella botola nera o quadrata di Reinhardt, che rivela sotto la superficie una croce massiccia a segnare la tomba dell’arte moderna. “Dell’arte si può dire solo che è senza respiro, senza vita, senza morte, senza contenuto, senza forma, senza spazio, senza tempo. Questa è sempre la fine dell’arte”.14

È nell’atteggiamento totalitaristico dell’arte Moderna che la parola fondante si presenta in tutta la sua potenza creatrice. Perché già nel porsi come incarnato dell’essenza dell’arte, ogni prodotto moderno è subordinato ad un’intelligibilità razionale che lo rende ontologicamente possibile. Il fatto che gli artisti, i critici, i teorici in generale dell’arte si sforzino poi di indicare l’appartenenza delle opere moderne ad un livello ontico trascendentale, è indice del bisogno di ricercare conferme della loro creazione verbale, poiché l’opera d’arte è sempre concepita in certi termini, con i quali il suo lato extraverbale – la tela colorata, la nota musicale, il pezzo di bronzo – forma un’imprescindibile circolo orizzontale, lo stesso che secondo Danto definisce l’onnipotenza del predicato “opera d’arte”. Le parole di Barnett Newman sulla metafisicità e trascendentalità dell’arte Moderna non avrebbero significato senza i dipinti stessi a cui si riferiscono: <<Gli americani evocano il loro mondo di emozione e fantasia per mezzo di un genere di scrittura personale senza gli appoggi di forme conosciute. Questo è un atto metafisico. I pittori astratti europei ci conducono nel loro mondo spirituale attraverso immagini già conosciute. Questo è un atto trascendentale. Cioè, da un punto di vista filosofico, il pittore europeo si interessa della trascendenza degli oggetti, mentre quello americano si interessa della realtà dell’esperienza trascendentale>>15. Eppure i dipinti stessi non vanno oltre queste parole. Esse non significano più ciò che dicono, ed i quadri, per quanto si tratti di opere importanti e profonde, anziché essere percepiti come metafisici o trascendentali, rimangono racchiusi nella loro rivelazione verbale.

14 15

Ibidem. In Thomas B. Hess, Barnett Newman, traduzione in Antologia critica, op. cit., vol. 12.

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Parole dell’istituzione Nel XX secolo sono state scritte diverse opere che incuriosiscono per la solidità con cui le parole si affermano pur nell’ambiguità e contraddittorietà dei contenuti che recano al lettore. Tra i romanzi e i racconti nei quali la parola si presenta come istituzione auto-consapevole del mondo evocato nel suo testo, mi hanno attratto in maniera particolare L’immortale e La ricerca di Averroè di Borges16; Il cacciatore Gracco, Durante la costruzione della muraglia cinese e Giuseppina la cantante di Kafka17; Molloy18, Company e Worstward Ho19 di Beckett. L’immortale di Borges narra la storia di Joseph Cartaphilus, antiquario di Smirne, ultima personificazione dell’uomo immortale. È da segnalare innanzitutto che il nome di Cartafilo ricalca quello di uno dei personaggi storici identificati con la misteriosa figura biblica dell’Ebreo errante, il custode del pretorio di Ponzio Pilato, punito con l’immortalità per aver schernito Gesù Cristo, colpendolo, durante la sua Passione, e quindi da Egli costretto ad aspettare in vita il suo ritorno20. La ricerca di Averroè tratta un tema più coerente a questa sede, ovvero le difficoltà incontrate dal medico arabo nel commentare la teoria poetica di Aristotele, servendosi di una Parola – la lingua araba – già ritenuta suprema testimonianza della Verità di Dio. Le difficoltà del compito nascono dai diversi mondi culturali in cui operano Aristotele da una parte e Averroè dall’altra, tema quanto mai Dantiano; ma nella narrazione di Borges affiora un invito a tenere in maggior pregio l’intero rapporto tra soggetto e Storia, dispiegato nelle relazioni gnoseologiche tra l’immaginazione del singolo, la sua condivisione nel racconto e la fedeltà di esso alla realtà (storica). Credo sia utile riportare le parole con cui l’autore de La ricerca di Averroè conclude il racconto, perché sottoscrivono in primo luogo il carattere orizzontale della comunicazione artistica, carattere che riteniamo determinante affinché le “opere d’arte” si arricchiscano di nuovo valore alla fine della storia.

16

In J. L. Borges, L’Aleph, Milano, Feltrinelli, 2008. In F. Kafka, Tutti i racconti, op. cit.; diverse considerazioni su Il cacciatore Gracco e La muraglia cinese sono fatte a partire dai Frammenti. 18 In S. Beckett, Three Novels, New York, Grove Press. 19 In S. Beckett, Nohow on, op. cit. 20 Così nei Vangeli sinottici. Vedi Matteo, XVI 28: In verità vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non morranno finché non vedranno il Figlio dell'uomo venire nel suo regno; e Luca, IX 27. Leggermente diversa la testimonianza di Giovanni, XXI, 20-23. 17

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Nella storia che precede ho voluto narrare il processo di una sconfitta. Pensai, al principio, a quell’arcivescovo di Canterbury che si propose di dimostrare che c’è un Dio; poi, agli alchimisti che cercarono la pietra filosofale; in seguito, alle vane trisezioni dell’angolo e quadrature del cerchio. Poi riflettei che è più poetico il caso di un uomo il quale si propone un fine che non è vietato agli altri, ma a lui soltanto. Ricordai Averroè, che chiuso nell’ambito dell’Islam non poté mai sapere il significato delle voci tragedia e commedia. Presi a narrare il caso; a misura che procedevo, sentivo quel che dovette sentire quel dio di cui parla Burton, il quale s’era proposto di creare un toro e creò un bufalo. Sentii che l’opera si burlava di me. Sentii che Averroè, che voleva immaginare quel che è un dramma senza sapere che cos’è un teatro, non era più assurdo di me, che volevo immaginare Averroè senz’altro materiale che qualche notizia tratta da Renan, Lane e Asìn Palacios. Sentii, giunto all’ultima pagina, che la mia narrazione era un simbolo dell’uomo che io ero mentre la scrivevo, e che, per scriverla, avevo dovuto essere quell’uomo, e che, per essere quell’uomo, avevo dovuto scrivere quella storia, e così all’infinito. (Nell’istante in cui cesso di credere in lui, Averroè sparisce.)21

Lasciamo subito Borges annotando, per il momento, che il contenuto di verità delle parole, tanto quelle su Aristotele del Commento di Averroè, quanto quelle su Averroè del racconto di Borges, è concepito come positiva affermazione dell’essere delle cose narrate solamente in quanto ri-presentazione, cioè come simbolo dell’uomo che le scrive. Se considerate nella loro capacità rappresentativa di fatti e personaggi narrati, subentra un’immancabile distorsione dell’informazione che rende la storia un fallimento. È a partire dalla presa di coscienza del suo fallimento storico – a ben guardare un altro modo di sancire la fine della storia22 – che il valore della parola va coniugato al presente. Il problema del valore della parola e la dispersione dei messaggi nella Storia, causa di inintelligibilità dei contenuti, è tema ben presente in Kafka. Durante la costruzione della muraglia cinese presenta in maniera magistrale la distanza tra le due estremità del dialogo storicoconoscitivo, uno iato che la cultura col passare del tempo anziché colmare cristallizza, fino all’incomunicabilità tra i dialoganti, in questo caso sudditi e Impero, cagionata da un pregiudizio di falsità – o comunque inutilità – del messaggio da parte dei destinatari dell’informazione. Il protagonista è un contadino di una remota provincia sudorientale che, intento alla costruzione della Grande Muraglia, si lascia andare a ragionamenti intorno al

21

Borges, op. cit., pagg. 99-100. Con l’espressione “fallimento storico” non si vuole caricare di allusioni retoriche drammatiche la comprensione del carattere razionale sì, ma anche creativo e fantasioso della storia tanto come parola quanto come Storia. 22

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motivo del loro affaticarsi per l’Impero e intorno alle nozioni stesse che i sudditi hanno dell’Impero di cui fanno parte. <<Una delle nostre istituzioni più oscure è sicuramente l’Impero. Si sa, a Pechino, soprattutto nella società di Corte, regna una certa chiarezza, anche se questa è più apparente che reale. Anche i maestri di diritto civile affermano di essere bene informati intorno a queste cose … Quanto più si scende verso le scuole inferiori, tanto più scompaiono, e si capisce, i dubbi intorno al proprio sapere, e la falsa cultura impera baldanzosa intorno a pochi teoremi radicati da secoli che non hanno perduto nulla nella loro verità eterna, ma in questi vapori e in questa nebbia rimangono anche eternamente sconosciuti>>. Il popolo si affida a poche notizie elementari sedimentatesi durante secoli di cultura “inferiore”. E l’inaffidabilità del contenuto agli occhi dei sudditi più lontani riguarda le comunicazioni relative alla Grande Muraglia, così come ogni nozione riguardo all’Impero in generale: <<Ogni notizia, ammesso che ci raggiunga, arriverebbe con grande ritardo e sarebbe antiquata da un pezzo … L’Impero è immortale, mentre il singolo imperatore cade e crolla e persino intere dinastie finiscono col decadere e spirare in un solo rantolo. Di queste lotte e di questi dolori il popolo non saprà mai niente …23>>. (La parola dolore va sottolineata perché ci riporta alla mente il sentimento che secondo Hegel il soggetto prova diventando consapevole della propria coscienza, ma solo <<entro di sé>>, perdendo dunque ogni altra essenzialità. Il popolo è destinato a ignorare quanto di più intimo appartenga al singolo, nel percorso dello Spirito verso l’Assoluto. Vedi sopra, pag. 40 e segg.). L’evento di una comunicazione personale tra l’imperatore e l’umile suddito, che riunirebbe mittente e destinatario nello stesso presente della comunicazione, è vissuto dall’individuo solamente nella forma di sogno, leggenda. <<L’imperatore ha mandato proprio a te, individuo, a te, misero suddito, ombra minuscola rifugiatasi dal sole imperiale nella più remota lontananza, proprio a te l’imperatore ha mandato dal letto di morte un suo messaggio …>>. La leggenda esprime così il rapporto tra una storia – quella della notizia della morte dell’imperatore e della larghissima distanza che le notizie di quel tipo dovevano attraversare prima di giungere al popolino ignaro – ed il destinatario della storia, suo autore e protagonista. Che giunga o non giunga il messaggero imperiale, la notizia della morte arriva alla mente del contadino che <<se lo sogna quando scende la sera24>> grazie alla storia stessa, al racconto

23 24

Kafka, op. cit., pag. 368 e segg. Ibidem, pag. 370.

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che noi leggiamo. Noi, <<che non conosciamo proprio niente25>>, al pari di Averroè <<che voleva immaginare quel che è un dramma senza sapere che cos’è un teatro>>. La giustificazione, la ragione della storia è semplicemente la storia stessa. Da qui deriva che è impossibile sapere il presente quando si sa il passato, o meglio, quando i concetti del presente vengono dal passato. Questo avviene sia per la natura ermeneutica del concetto, che, al pari dell’arte per Danto, è tutt’uno con la coscienza della propria storia; oppure, letteralmente, perché le notizie arrivano in ritardo, cosicché il presente sia un rivolgersi eterno del passato su sé medesimo; e appunto <<il popolo procede coi sovrani passati e mescola i presenti coi morti>>. Perché gli abitanti del villaggio non ignorano il presente, ma semplicemente lo giustappongono al passato in un raffronto che vede quest’ultimo privilegiato a priori, in modo che la loro fede nel passato diventi con l’andare del tempo più salda di quella nel presente. Essi non sanno più comunicare con gli altri villaggi, e sono diffidenti dei funzionari imperiali che consegnano loro messaggi: <<Come? pensano, parla di un morto come se fosse vivo, questo imperatore è morto da un pezzo, la dinastia è estinta, il signor funzionario ci prende in giro, ma per non mortificarlo facciamo finta di non accorgerci. Soltanto al sovrano presente obbediremo sul serio, perché ogni altra cosa sarebbe peccato>>. Le notizie di una rivolta scoppiata nella provincia vicina, invece non viene preso in considerazione perché suona come roba già accaduta, e che pertanto non merita attenzione: <<Ecco, il dialetto della provincia vicina è assai diverso dal nostro, e ciò si esprime anche in certe forme della lingua scritta che per noi hanno un carattere antiquato. Non appena il sacerdote ebbe letto due di quelle pagine, tutti avevano ormai giudicato: roba vecchia, sentita da un pezzo, superata ormai … Così siamo disposti a cancellare il presente26>>. Nella singolarità sorda della lingua e della cultura del villaggio c’è tuttavia un concetto che possiede tratti in comune con le nozioni che ne hanno i sudditi degli altri villaggi: è il concetto dell’imperatore, cioè il concetto in assoluto più impersonale e oscuro per il popolo geograficamente e culturalmente lontano da Pechino, dal momento che esso non può mai sapere con certezza chi sia l’imperatore presente e di lui conserva <<pochi teoremi radicati da secoli>>.

25 26

Ibidem, Frammento per Il cacciatore Gracco, pag. 356. Kafka, op. cit., pagg. 371-372.

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In un frammento dello stesso racconto (“L’arrolamento”), Kafka descrive la vicenda di una ragazza che esce di casa per assistere ad una leva dell’esercito in un villaggio vicino. Proprio all’accadere dell’evento ella si accorge che ciò che l’aveva spinta là <<è giunto oramai al termine>>; la ragazza si sente improvvisamente un’estranea e prova vergogna per <<essersi spinta a vedere una leva in casa d’altri, e quando il soldato ha finito di leggere l’elenco senza fare il nome di lei, nel silenzio che segue ella fugge tremando …>>. Ho citato questo passo perché l’esclusione dal dispiegamento dell’evento nel suo spazio storico si rivela come una colpa solamente alla fine della storia, cioè allo stato presente in cui la ragazza, levatasi all’autocoscienza soggettiva della storia, prova dolore per la perdita di tutto ciò a cui ella è estranea. La storia può essere raccontata solo pagandone il fio della solitudine, recisione della comunicazione nell’autonomia del soggetto, escluso dal gioco delle necessità (in questo caso della leva), che ella ha scelto di osservare, e riflettere (theorein). Un altro importante racconto di Kafka, riguardo alla presenza e al riconoscimento dell’arte nel mondo, è Giuseppina la cantante, che studiai in primo luogo per il commento che ne fece Benjamin. L’arte del canto praticata da Giuseppina è, al pari dell’arte contemporanea (vedi La trasfigurazione del banale), indiscernibile dall’attività, quotidiana e quasi noncurante, del semplice fischiettìo. Tuttavia, solo ella esige rispetto per quello che fa: perché è cosciente del carattere unico della sua arte, o almeno tale Giuseppina se la immagina, anche senza prove a suffragio. Ella ne immagina l’unicità come Averroè si sforza di parlare della tragedia e della commedia di Aristotele, come il ragazzo che incontra la barca del cacciatore Gracco crede di conoscerne la storia, come Borges racconta di Averroè a partire da poche conoscenze; infine come i detrattori di Giuseppina la ritengono una che semplicemente fischietta pur non potendo esserne certi. Tutto questo rapporto fondamentale tra il fatto, la prova, il mondo e il concetto, la fede, l’immaginazione, il racconto, la parola è racchiuso nel verso Beckettiano <<Nothing to show a child and yet a child27>>: l’autocoscienza della parola nella sua presenza ontica. Ma nella parola siamo noi, biologicamente: così, solo passando attraverso la parola autocosciente, crediamo nella nostra com-presenza. La compresenza come unica spiegazione possibile del valore delle singole cose nella loro singolarità (autocosciente) – pur mantenendo l’indispensabile 27

Worstward Ho, in Nohow on, op. cit., pag. 115.

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rapporto con l’altro del mondo – è ben semplificato dalla metafora del padre e della figlia a rappresentare l’arte di Giuseppina che al contempo prega ma pure incatena il popolo-padre ad una pretesa di riconoscimento. L’autocoscienza singolare da una parte (arte-Giuseppinafiglia-credente) e dall’altra (mondo-altri topi-padre-dio), conserva da entrambi i lati un grado di ignoranza del perché dell’altro; e nonostante questo i due lati sono tra loro reciprocamente necessari: in quanto compresenti, mantengono un grado di mancanza di giustificazione. Il popolo si lascia andare al canto – che Giuseppina crede fonte di ristoro dalle fatiche e di salvezza nei momenti avversi – non per meriti particolari di Giuseppina ma per la somma di circostanze favorevoli (necessitanti) affinché a quel canto sia prestato ascolto. Non è solo la <<pace prima del combattimento>>, che può essere desiderata, ma è pure l’imposizione di uno <<stuolo di adulatori all’opera in un senso di universale utilità … mentre a tutti gli altri è imposto il silenzio>>. Il canto è tutt’uno con le conditiones sine qua non esso non sarebbe. È presentazione della compresenza degli enti, e della loro universale necessità reciproca … Di certo per l’arte si tratta di volgersi alla sua eterna componente eteronoma: <<[Giuseppina] mira unicamente al riconoscimento dell’arte sua, pubblico, inequivocabile, superiore al comune e duraturo nel tempo28>>. Essa vive di e con ciò che essa ha storicamente riconosciuto come diverso, nella narrazione della sua autocoscienza. La storia di Giuseppina termina con lo stesso dubbio che pervadeva gli abitanti del villaggio di Durante la costruzione della muraglia, che cioè che tutto quel che passi e svanisca, come il canto di Giuseppina, come le lotte e le alternanze degli imperatori, si mescoli e si confonda infine. <<La più recente novità è questa: si aspettava che cantasse e Giuseppina non si presentò! … Giuseppina è scomparsa, non vuol cantare … è in declino. Presto verrà il momento in cui squillerà e ammutolirà il suo ultimo fischio. Ella è un breve episodio nella perenne storia del nostro popolo e il nostro popolo si rassegnerà alla perdita>>. Le parole, il racconto della vita passata, sono destinate a confondersi e ad essere solo simboli che non rappresentano più, ma che sono anch’essi giustapposti, com-presenti, nel ricordo eterno e muto: <<Il fischiare [di Giuseppina] era in realtà più forte e notevolmente più vivo di quanto ne sarà il ricordo? È stato forse, quando era ancora viva, più di un mero ricordo? Non ha invece il popolo nella sua saggezza collocato in alto il canto di Giuseppina appunto perché era impossibile che andasse perduto?>>. Quel che rende l’ente eterno è la 28

Kafka, op. cit., pagg. 528-529.

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partecipazione di esso all’impossibile, cioè all’essere; per questo l’arte è riconosciuta come un ente eterno e come tale rispettata: <<Tutto quanto si oppone alla purezza del suo canto … può contribuire a svegliare la folla, a insegnarle se non la comprensione, almeno un istintivo rispetto29>>. Il tema del ricordo dell’essere è chiaramente presente nell’Immortale di Borges; la chiusa del racconto in particolare evoca la differenza tra le parole che rappresentano un uomo nella storia e quelle che sono simboli della sua storia, nella sua storia. <<Quando si avvicina la fine, non restano più immagini del ricordo; restano solo parole. Non è da stupire che il tempo abbia confuso quelle che un giorno mi rappresentarono con quelle che furono simboli della sorte che mi accompagnò per tanti secoli. Io sono stato Omero; tra breve, sarò Nessuno, come Ulisse; tra breve, sarò tutti: sarò morto>>. Sono le ultime parole che Cartaphilus annota nel manoscritto che egli inserisce nell’edizione dell’Iliade venduta alla principessa di Lucinge. Nella Postilla Borges interviene poi con una fantomatica difesa dell’autenticità del manoscritto di Cartaphilus: se le sue parole ricalcano quelle di altri autori nel corso della storia, è perché <<parole, parole sradicate e mutilate, parole di altri, fu la povera elemosina che gli lasciarono le ore e i secoli>>. A dispetto della straordinaria varietà di immagini e di particolari e di eventi contenuta nel volgere di una vita millenaria, le parole con cui essa viene ricordata sono necessariamente impersonali e destinate alla vacuità rappresentativa. Non solo perché <<i particolari possono abbondare nei fatti ma non nella memoria di essi30>>; ma soprattutto perché l’immortalità è una condizione tale per cui già le azioni medesime compiute dagli uomini tendono all’indifferenza, ovvero all’indiscernibilità e all’impersonalità, giacché in un tempo infinito tutti possono fare tutto: <<Visti in tal modo, tutti i nostri atti sono giusti, ma sono anche indifferenti. Non esistono meriti morali o intellettuali … Nessuno è qualcuno, un solo uomo immortale è tutti gli uomini31>>.

Nella collezione Nohow on, scritta tra il 1980 e il 1983, Samuel Beckett spinge la prosa agli estremi confini dell’impersonalità. Ma traviseremmo la grande ricchezza tematica dei racconti se ci accontentassimo di una lettura esistenzialistica incentrata sulla perdita di 29

Ibidem, pag. 520. Borges, op. cit., pagg. 23-25. 31 Ibidem, pag. 19. 30

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personalità o sulla mancanza di speranza per l’uomo contemporaneo ridotta a ombra che neanche più cammina ma trascina il suo corpo informe, brancolando verso il “peggio” (Worstward ho) al pari della sua mente (Company). Dalla collezione (Beckett non la riteneva una trilogia) emergono spunti molto consoni alla riflessione che qui stiamo conducendo sulla fine della storia e la parola, la comunicazione; storia e concetto, non dimentichiamolo, trovano un punto d’incontro nell’identità del singolo: infatti, come il singolo rischia l’assimilazione all’altro per mezzo della Storia, così il più semplice concetto presenta una singolarità inequivocabile già come amalgama di singoli eventi e fatti. Prendiamo Company. Il primo elemento da sottolineare è la precedenza della parola sul riconoscimento e sulla verifica del suo contenuto. Le parole possono possedere lo stesso, scarsissimo valore che hanno per Borges nella Postilla; ma Beckett avanza un passo oltre e prefissa l’obiettivo di costruire l’identità del personaggio, del tempo e dello spazio della narrazione, pur accettando il grado di inutilità della parola. Parafrasando quanto sostenuto da Danto sull’illusionismo della pittura fino agli Impressionisti, si può dire che Beckett utilizzi la parola come una scelta stilistica per formare un’identità, quella del suo racconto32. L’unità-identità personale del protagonista è formata da una coppia dialogante oratore – uditore: la personalità per essere completa è compagnia (non già “deve avere una compagnia”), e questa attività dialettica è qualsiasi grado di attività della mente. Lo spazio del racconto e l’identità del protagonista sono coestesi e si esauriscono entrambi nella loro narrazione; questa coincidenza non è resa esplicita, ed anzi sulle prime sembra non darsi, ma viene di volta in volta riproposta sotto forma del dubbio della voce protagonista intorno allo spazio in cui si trova. <<Lentamente egli entrò nel buio e nel silenzio … Finché infine [udì] la voce dire, Tu sei sdraiato nel buio … Tu sei sdraiato nel buio e finché l’udire non cesserà questa voce non cesserà33>> . <<Dalla voce viene gettata una debole luce … Se gli occhi fossero stati aperti avrebbero notato un cambiamento. Da dove l’ombrosa luce? … Chiudere gli occhi e provare a immaginarlo … Nessuna sorgente … Cosa può aver visto

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Discuteremo nel capitolo successivo se poterci avvalere di questo uso stilistico della parola come strumento per salvare la comunicazione alla fine della storia. 33 Beckett, Company, op. cit., pag. 11: Slowly he entered dark and silence … Till in the end the voice saying, You are on your back in the dark. … You are on your back in the dark and not till hearing cease will this voice cease.

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allora sopra la sua faccia rivolta all’insù. Chiudere gli occhi e provare a immaginarlo 34>>. La dialettica domanda-risposta circa lo spazio esterno (apparentemente) al protagonista termina sempre al suo interno, con un’attività mentale, l’invito al gioco di fantasia (<<provare a immaginarlo>>). Ma proprio quest’ultima frase suggerisce anche che il terminale, l’autentico spazio della narrazione, è il lettore. D’altronde proprio la prima frase è un imperativo rivolto a chi legge da parte di una storia consapevole di sé: <<Una voce giunge a qualcuno nel buio. Immagina35>>; o ancora: <<Indaga pure cosa abbia provato egli allora paragonato a prima … Come allora non c’era allora così non ce n’è nessuno ora 36>>. Il rapporto tra personaggio del racconto, questa figura che giace solitaria al buio, e il lettore è quello di un presente eterno, cioè senza passato (ed in Worstward Ho ritroveremo lo stesso concetto: <<Nessun una volta. Nessun una volta nel presente senza passato 37>>). Il racconto prosegue enumerando le diverse modalità con cui concepisce la storia stessa per (la propria?) compagnia. Il verbo principale di Company è, appunto, to devise, ovvero pensare, concepire, congetturare. Ma ciò che rimane oscuro è proprio l’identità del deviser, di colui, cioè, che progetta la storia: è in questa impersonalità che il racconto stesso raggiunge un grado massimo di autoreferenzialità e autocoscienza, nella confusione di mittente e destinatario della comunicazione. Così le memorie riportate alla mente dalla voce, dal deviser come “pensiero”, sono continuamente rinegoziate allo stato presente della narrazione. Ma cos’è quello che al presente della lettura, lo stesso della narrazione, se ne va? Company, al pari di Worstward ho, racconta il movimento delle creature della sua storia, ma è un movimento tutto in funzione dell’ineliminabile eterna presenza di ciò che rimane – essendo questo l’intera opera Company, un ente che elude la pretesa stessa di giustificazione. Company nel rivolgersi al lettore si rivolge a te (you): a te, lettore, narra <<la favola di uno che narra la favola di uno con te nel buio38>>. È la favola di chi va in cerca di compagnia entro la ragione (within reason), ed incappa nei dubbi e nelle spiegazioni che fungono da meccanismo per la creazione dei personaggi, delle finzioni

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Ibidem, pagg. 12-13: By the voice a faint light is shed. … Had the eyes been open then they would have marked a change. Whence the shadowy light? … To close the eyes and try to imagine that. … No source. … What can he have seen then above his upturned face. To close the eyes in the dark and try to imagine that. 35 Ibidem, pag. 3: A voice comes to one in the dark. Imagine. 36 Ibidem, pag. 15: As well inquire what he felt then about then as compared to before … As then there was no then so there is none now. 37 Beckett, Worstward ho, op. cit., pag. 110: No once. No once in pastless now. 38 Beckett, Company, op. cit., pag. 46: The fable of one fabling of one with you in the dark.

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(figments) narrate insieme alla memoria che intreccia le proprie trame con le vicende del presente. Così, come il tu si confonde con l’egli, il lettore non si distingue più dal personaggio39, e la storia esce dall’opera ad agire sul nostro presente (ermeneutico) di destinatari del messaggio. Il procedimento con cui il racconto istituisce se stesso è esemplificato alle pagine 38-39: <<Può lo strisciante creatore strisciante nello stesso buio creato della sua creatura creare mentre striscia? Una delle domande che egli si pone come se fosse fermo tra due passi trascinati … Accada quel che accada la risposta che infine azzardò fu no egli non poteva. Strisciare nel buio nel modo descritto era una faccenda troppo seria e troppo monopolizzante per permettere qualsiasi altra occupazione fosse solo la cospirazione di qualcosa dal niente … Così mentre allo stesso tempo deplorava una stravaganza tanto ragionata e osservava quanto revocabili i suoi voli non poté che rispondere no egli non poteva. Non poteva concepibilmente creare mentre strisciava nello stesso buio creato della sua creatura40>>. Company prosegue di paragrafo in paragrafo passando dalle esortazioni ad un lettore ideale alle descrizioni di ciò che il lettore “vede” nel buio della storia o immagina, imputando l’attività immaginativa a volte al lettore/narratore, a volte ai personaggi immaginati. Per ritornare infine al tu, che non rappresenta soltanto lo strumento necessario allo svolgimento del racconto, ma è la sintesi – reale perché unicamente presente – dei due sé che si affrontano dialogicamente, l’oratore e l’uditore, il ricordante e il ricordato, il deviser e il devised. Nel “tu” del lettore ogni finzione ingiustificata trova rifugio ed ogni alterità che paradossalmente emerge nella mente di colui che immagina è com-presente41. Con quest’ultima osservazione riproponiamo un dato caratteristico dell’opera letteraria già rilevato, nel paragrafo precedente, a proposito dell’arte Moderna: la circolarità orizzontale del procedimento razionale che istituisce l’opera medesima. Con un’importante differenza però: al fatto che il testo preso qui in esame abbia bisogno di un agente esterno per realizzarsi, in particolare del destinatario del messaggio narrativo, segue che, per 39

Né distingue più il personaggio. Company, op. cit.: Can the crawling creator crawling in the same create dark as his creature create while crawling? One of the questions he put himself as between two crawls he lay … Come what might the answer he hazarded in the end was no he could not. Crawling in the dark in the way described was too serious a matter and too all-engrossing to permit of any other business were it only the conjuring of something out of nothing … So while in the same breath deploring a fancy so reason-ridden and observing how revocable its flights he could not but answer finally no he could not. Could not conceivably create while crawling in the same create dark as his creature. 41 Il “tu” che il lettore rivolge a se stesso è il medesimo “tu” che Beckett probabilmente rivolse a se stesso, essendo presenti in Company diversi motivi autobiografici. Anche se alla luce di quanto detto l’elemento autobiografico non è indispensabile, tuttavia a rigore il racconto non dovrebbe essere scritto altrimenti. Vedi Nohow on, op. cit., Introduction e Alan Astro, Understanding Samuel Beckett, pag. 201 e segg. 40

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inusitata che sia la sua grammatica, il testo non si sottragga mai completamente ad una continuità ontologica rispetto all’esterno del mondo artistico in esso presente. Certo, si potrà obiettare che il lettore inesperto e privo di familiarità con il retroterra letterario Beckettiano incontrerà resistenza nell’accettare un tale racconto come artisticamente lodevole. Invero, l’intera collezione Nohow on appare più come una studiatissima metodologia narrativa che come una narrazione in senso tradizionale; di questo discuteremo nel capitolo successivo. Ora ci accontentiamo di rilevare il nuovo rapporto storico tra l’opera d’arte, il suo concetto e la sua narrazione, declinando al singolare tanto i concetti e le narrazioni contenuti nel testo dell’opera, quanto i concetti e le narrazioni (messaggi) applicati all’opera d’arte. La compresenza dialogica di personaggio, narratore e lettore nella “rappresentazione” testuale è tutt’uno con la compresenza dell’opera d’arte con gli altri enti nel mondo. Essa non è più il presente ermeneutico di un passato di cui è consapevolmente protagonista; né essa guarda più all’indietro, riflettendo l’interno del proprio circolo e così trasfigurandone il contenuto banale in funzione della propria istituzione42. Nella rinnovata singolarità e unicità dell’opera d’arte il testo tende a mantenere le proprie radici nel quotidiano, richiedendo una lettura di sé eternamente presente, in quanto è al presente del testo che la storia narrata si fa opera d’arte. Essa possiede una grande capacità evocativa, immaginifica, fantastica, surreale; eppure il mondo metafisico in cui ci conduce è davvero tutto nel testo. In questo caso un ottimo esempio sempre dalla penna di Beckett è Molloy: i dubbi, le incertezze cognitive del protagonista, che è anche il narratore della storia, sulla propria realtà – intesa come vita presente –, sul proprio essere nella sua totalità, “passato”, “presente” e “futuro”, non sono semplicemente, alla maniera moderna, i tratti stilistici dell’opera d’arte e del suo autore. Non più stile di Beckett ma verità dell’ente Molloy, che così viene a interagire con lo scrittore Beckett e con i suoi contemporanei e posteri che se ne inter-essano. Come ogni ente presente, l’opera caratterizza l’essere alla fine della storia. L’essere si manifesta nel meccanismo poetico con cui Beckett scrive il racconto, come una profonda e strettissima interazione continua (conciliazione) dell’individuo Molloy con il tutto del racconto da cui provengono le sue giustificazioni. Queste però, a differenza di quanto accadeva, ad esempio, nei poemi omerici, non sopraffanno l’individuo, perché sono il racconto con cui il personaggio stesso ripete e 42

Che, è bene ricordarlo, è innanzitutto auto-istituzione.

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presenta lo stesso essere del meccanismo narrativo dell’autore. La realizzazione (cognitiva o poetica) della finitezza della Storia, del concetto, di noi uomini, degli oggetti che incontriamo quotidianamente, dei fatti e così via, determina una rete di molteplici unicità che sono necessarie alla configurazione del presente, perché presentano una unicità narrativa comune. Queste unicità dell’essere sono eternamente in comunicazione. Ecco come in Molloy il racconto giustifica l’individuo: <<Preferivo il giardino alla casa (l’individuo presente), a giudicare (giustificazione) dalle lunghe ore che spendevo là (il racconto)>>. Con una continua necessità di giustificare le proprie inferenze: <<perché spendevo là gran parte del giorno e della notte, sia che ci fosse umido o bel tempo 43>>. Ma l’ignoranza del personaggio circa la sua vita lo colloca in straordinaria complicità con il lettore della storia, conoscendo entrambi soltanto quello che viene offerto dal testo della narrazione. Questa è la grande forza comunicativa dell’ente che sa la propria finitezza ed è perciò in grado di condividere lo stesso presente con gli altri.

Parole insensate, non importa. Perché non so più quel che faccio, né perché, quelle sono cose che comprendo sempre meno, non lo nego, poiché perché negarlo, e a chi, a te, al quale niente è negato? … E stante tutto così qualsiasi cosa io faccia, ossia qualsiasi cosa io dica, sarà sempre come dire la stessa cosa, sì, come dire. E se parlo di principî, quando non ce ne sono, non ci posso far niente, ce ne deve essere qualcuno da qualche parte. E se far sempre la stessa cosa come dire non è lo stesso che osservare lo stesso principio, non ci posso ancora far niente. E poi come puoi sapere se lo stai osservando oppure no? E come puoi volerlo sapere? No, tutto quello non vale niente, non merita di essere considerato, e tuttavia tu te ne preoccupi, il tuo senso dei valori sparito. E delle cose che contano non ti preoccupi, le lasci così, per lo stesso motivo, o saggiamente, sapendo che tutte queste questioni di valore e dignità nulla hanno a che fare con te, che non sai quel che fai, né perché, e devi andare avanti senza saperlo, sotto pena di, mi domando cosa, sì, mi domando.44

43

Samuel Beckett, Molloy, in Three Novels, op. cit., pag. 47: I preferred the garden to the house, to judge by the long hours I spent there, for I spent there the greater part of the day and of the night, whether it was wet or it was fine. 44 Beckett, op. cit., pag. 41: Mad words, no matter. For I no longer know what I am doing, nor why, those are things I understand less and less, I don’t deny it, for why deny it, and to whom, to you, to whom nothing is denied? … And all the less so as whatever I do, that is to say whatever I say, it will always as it were be the same thing, yes, as it were. And if I speak of principles, when there are none, I can’t help it, there must be some somewhere. And if always doing the same thing as it were is not the same as observing the same principle, I can’t help it either. And then how can you know whether you are observing it or not? And how can you want to know? No, all that is not worth while, not worth while bothering about, and yet you do bother about it, your sense of values gone. And the things that are worth while you do not bother about, you let them be, for the same reason, or wisely, knowing that all these questions of worth and value have nothing to do with you, who don’t know what you’re doing, nor why, and must go on without knowing it, or on pain of, I wonder what, yes, I wonder.

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Tutta l’ignoranza e l’apprensione disillusa riguardo alla condizione di Molloy sono tanto sue quanto del lettore, perché il narratore, Molloy stesso, è consapevole che la propria comprensione è incompleta – e per questo finita, unica: <<Ma degli altri oggetti che erano scomparsi perché parlare, dal momento che non sapevo esattamente cosa fossero>>. E d’altra parte un racconto esaustivo degli eventi non servirebbe ad altro scopo che a dichiarare la fatalità e la necessità degli eventi al presente: <<Ora a proposito del rivelarti perché rimasi un po’ di tempo con Lousse, no, non posso. Cioè suppongo che potrei, se mi prendessi la briga. Ma perché dovrei? Per stabilire al di là di ogni dubbio che non avrei potuto fare altrimenti? Perché questa è la conclusione cui giungerei, fatalmente>>. La presenza di Molloy nella narrazione si mostra sia quando la conoscenza dello spazio esterno è subordinata alla sua comunicabilità, sia quando viene a crearsi una tensione narrativa improvvisa tale per cui il personaggio è costretto ad ammettere il proprio errore narrativo, quasi il testo si prendesse gioco di Molloy. <<Così avevo due buone ragioni per togliermi [il cappello] ed esse non erano troppe, nessuna delle due da sola avrebbe mai prevalso credo. Lo gettai via da me con un noncurante e generoso gesto e indietro ritornò, alla fine della sua corda o laccio, e dopo qualche urto si fermò contro il mio fianco. Poi cominciai a pensare, vale a dire, ad ascoltare più attentamente45>>. Il testo che si istituisce come individuo presenta la consapevolezza della necessità di raccontare le ragioni per raccontare se stessi. Tutto questo senza sconfinare nell’incomunicabilità o in una solitaria angoscia esistenziale dovuta all’inadeguatezza della cognizione della propria condizione: la priorità dell’individuo è quella di essere consapevoli della propria finitezza; la finitezza è il presupposto dell’individuo-narratore della propria vita. <<Perché se ti accingi a menzionare tutto, non finirai mai, ed è quello che conta, finire, aver finito46>>; ed al contempo cadremo in errore pur mantenendo la nostra buona, anzi, excellent faith. Perché, nonostante possediamo conoscenze imprecise circa il nostro stato, oppure non sappiamo bene come usarle (<<And if you are wrong, and you are wrong>>; <<Well, well, I didn’t think I knew this story so well>>), tuttavia siamo giustificati dal fatto che <<non sapere niente è niente,

45

Beckett, op. cit., pag. 56: So I had two good reasons for taking it off and they were none too many, neither alone would ever have prevailed I feel. I threw it from me with a careless lavish gesture and back it came, at the end of its string or lace, and after a few throes it came to rest against my side. At last I began to think, that is to say to listen harder. 46 Beckett, Molloy, op. cit., pagg. 36-37: For if you set out to mention everything you would never be done, and that’s what counts, to be done, to have done.

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non voler conoscere niente altrettanto, ma essere oltre la conoscenza di qualcosa, sapere che sei oltre la conoscenza di qualcosa, lì è quando la pace fa il suo ingresso, nell’anima del cercatore non curioso47>>. Le parole dell’istituzione artistica hanno in questo modo affermato coscientemente la loro individualità, riconoscendo in un certo rispetto la propria finitezza e degli altri enti coinvolti nel meccanismo comunicativo della letteratura. Nel prossimo paragrafo studieremo invece l’approccio “filosofico” al problema dell’istituzione in sé.

Parole per l’istituzione Non c’è modo migliore di iniziare l’analisi di un saggio di estetica analitica come l’importante The Artworld di Danto48, che cimentarsi con un esperimento mentale, alla maniera in cui Danto stesso, in più di un’occasione, conduce le proprie riflessioni. Immaginiamo dunque di raggiungere le esotiche plaghe del mondo dell’arte e ivi imbatterci nei personaggi di cui abbiamo sentito parlare spesso. Poniamo di incontrare per prima l’opera Paesaggio con la caduta di Icaro di Bruegel il Vecchio (1558), di cui solo l’occhio esperto del critico o del professore hanno rivelato in precedenza l’arcano. Se le domandassimo che cosa conosce di Icaro, essa risponderebbe che sa che egli precipitò in mare in certe circostanze ambientali e sociali molto simili a quelle che andavano caratterizzando le Fiandre (sebbene la natura mediterranea sembra risentire del viaggio in Italia che l’artista probabilmente effettuò nel 1551), dominate dallo spirito attivo e mercantilistico tipico della civiltà avanzata del Rinascimento. Per l’opera d’arte, qualora le accordassimo un peculiare tipo di “razionalità” consono alla tela, alla polvere e alla pittura ad olio, Icaro è quella macchia bianca. Poniamo poi di fermarci a parlare con una seconda opera d’arte, Il bacio (questa volta di Roy Lichtenstein, 196249) e di farle la stessa domanda,

47

Op. cit., pagg. 58-59: For to know nothing is nothing, not to want to know anything likewise, but to be beyond knowing anythingm to know you are beyond knowing anything, that is when peace enters in, to the soul of the uncurious seeker. 48 A. Danto, The Artworld, in The Journal of Philosophy, vol. 61, n. 19, del 15 Ottobre 1964, pagg. 571-584. 49 Opera a cui Danto è molto legato, avendolo per prima indirizzato al pensiero di una fine della storia correlata alla possibilità che tutto sia arte. Vedi sopra, pag 57.

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cioè di parlarci del suo contenuto. Rimarremmo sorpresi nello scoprire che essa non solo conosce dell’abbraccio tra la donna bionda e l’aviatore, ma sa pure che quell’abbraccio è altro, una rappresentazione a guisa di quella di una striscia fumettistica. Allo stesso modo, essa non ci direbbe che il bacio è unicamente quello in lei rappresentato, ma saprebbe dirci che esso è un bacio di quelli che vengono disegnati nei fumetti. L’opera d’arte in questo lasso di tempo ha pertanto elaborato un concetto sulla base della diversità (alloconoscenza) compresa, oltre il singolo ente, nella parola – così “metafisica” o “meontologica”. Ritornando alla prima opera, qualora provassimo a convincerla della storia e delle rappresentazioni di Icaro – diverse cioè dalla sua idea –, Paesaggio reagirebbe con stupore, meraviglia o anche scetticismo, rifiutando le nostre nuove connotazioni di qualcosa che ritiene unico. Ma se presentassimo a Il bacio di Lichtenstein qualsiasi altra immagine di un bacio o di un abbraccio, sia essa un’altra opera d’arte, sua “concittadina”, oppure no, essa reagirebbe accettandola freddamente, avendo già pre-visto possibili deviazioni del concetto dall’immagine che costituisce la sua conoscenza. Perché quest’immagine non monopolizza lo spazio del concetto di bacio che ha Il bacio, ma ne presuppone l’astrattezza, la condivisione dello stesso nome con altri enti. Incontreremmo allora, nel Mondo dell’arte, un’opera d’arte che ragiona come noi. Dopo ottant’anni di Modernismo, durante i quali l’opera ha vissuto nel continuo ed eroico sforzo di auto-affermarsi, libera dai precetti dell’epoca in cui non si era ancora data un nome, non essendosi ancora avventurata in una configurazione autocosciente della propria soggettività (l’epoca a cui appartiene, ancora, Paesaggio), l’opera d’arte è finalmente maturata, ed è ora conscia della propria forza, della propria voce e della propria autorità. Forse l’arte contemporanea – dalla Pop in poi – è stata quest’età adulta e sicura dell’arte. Non a caso, come informa Danto, essa ha coinciso con la massima sicurezza economica e con la grandiosa fioritura, quasi imprescindibile, di un fiorente mercato dell’arte con cui spesso si è confuso il mondo dell’arte (<<Capita che il costo di queste scatole [di Brillo] sia 2 x 103 volte quello delle loro controparti nella vita quotidiana – una differenza difficilmente imputabile ad un loro vantaggio in durata50>>). Questo perché le opere d’arte sembrano, da allora, consapevoli di quello che sanno e che dicono, o almeno credono di esserlo, proprio come gli adulti. Il letto di Rauschenberg (per

Danto, The Artworld, op. cit., pag. 580: The cost of these boxes happens to be 2 x 103 that of their homely counterparts in real life – a differential hardly ascribable to their advantage in durability. 50

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usare un altro esempio tratto da The Artworld) sa di essere assimilabile a milioni di altri letti in giro per il mondo, allo stesso modo in cui chi scrive sa di appartenere, insieme ad altri sei miliardi di persone, allo stesso genus. Ma allo stesso modo in cui noi ci rifiutiamo di essere scambiati per qualcun altro, a meno che non sia “per scherzo”, così il letto di Rauschenberg accetterebbe di buon grado un assonnato visitatore solo per imbrattarlo di vernice. Comprensibilmente, la felicità per l’arrivo dell’età adulta durò poco: furono i due decenni di spasmodica sperimentazione prima del black-out degli anni Ottanta, a giudizio di Greenberg (e per certi versi di Danto e Belting). Ora, se l’esperimento mentale con cui abbiamo scherzato fin qui mantiene a ben vedere una sua validità, dovremmo trovarci in una poco invidiabile situazione di declino biologico dell’arte, e sarebbe proprio come afferma Greenberg, che nei trent’anni (ora quasi mezzo secolo) che vanno dalla Pop art ad oggi niente sia successo nel mondo dell’arte. Forse è proprio così. Ma non per appoggiare Greenberg contro quanto sostiene Danto, ovvero che in realtà, essendo entrati nel periodo post-narrativo dell’arte, si tratterebbe solamente di tarare la nostra bussola critica per orientarci nel dedalo delle nuove e infinite possibilità artistiche. Diciamo che possiamo fare un ottimo uso della decadenza dell’individuo “arte”, permettendogli una gioiosa vecchiaia in cui godere dei frutti della sua presenza, consapevole, nel mondo. Perché, se la storia è finita, possiamo contare sull’eternità della festa il cui ritardo ci era grave, per parafrasare Leopardi: l’arte e l’uomo vivranno in eterno godendo delle proprie conoscenze a beneficio del presente e dei problemi che essi incontreranno di continuo. Certo, con questa rappresentazione allegorica siamo andati ben al di là di quanto dice Danto sul mondo dell’arte nel suo saggio del 1964. Uno dei motivi che rendono il saggio interessante è il fatto che esso definì una linea teoretica poi mai abbandonata dall’autore; ma soprattutto, The Artworld è un ottimo saggio perché i motivi che lo rendono incompleto ai nostri occhi sono legati ad un percorso storico che le stesse teorie in esso avanzate hanno contribuito ad inaugurare. Perché il lato debole della teoria che avanza consiste in una petitio principii come dato minimo di ogni determinazione concettuale, teorica, razionale, sullo sfondo di un’eterna presenza ontica della stessa. Innanzitutto vediamo nel dettaglio l’articolazione dell’argomento con cui Danto propone la teoria ad istituzione dell’arte; sarà nostro obiettivo giungere a riconoscerne l’imprecisione che costringe tanto la teoria quanto l’arte così istituita alla circolarità – erigendola a simbolo di quanto essa rappresenta. Il fatto 102


che le nostre integrazioni alla teoria appartengono alla storia gioverà infine a non ricusare del tutto la teoria medesima. Prospettiva storica: la prima teoria dell’arte fu quella imitativa (illusionistica), la stessa che poi, in Dopo la fine dell’arte, Danto riserverà alla narrazione Vasariana dell’arte. Già qui Danto informa che la teoria (o, come l’abbiamo chiamata nella prima parte, il criterio narrativo) ha la capacità di prevedere quello che non potrà accogliere: le deviazioni dal mimetismo coincidono con l’essere tenuti fuori dalla storia (to lie outside the pale of history, come dirà poi): la teoria imitativa <<è semplice da sostenere contro i molti controesempi proposti grazie ad ipotesi ausiliarie come quella che l’artista che devia dal mimetismo sia perverso, inetto, o pazzo51>>. Con l’avvento dei post impressionisti lo scenario è cambiato. Perché se da un lato i nuovi dipinti erano ritenuti inaccettabili dagli esponenti dell’Accademia, rigidamente fedeli al giudizio secondo la sola tradizionale teoria mimetica52, d’altra parte essi introducevano qualcosa che si era disposti a istituire come arte in nome di nuovi criteri di giudizio (si tratta degli stessi criteri narrativi). Pertanto come già visto, con il Modernismo l’arte utilizza la filosofia (sotto forma di teoria in generale) per la propria istituzione, la quale ne sancisce così da testimone l’auto-affermazione e l’autocoscienza. Perché proprio nella circolarità logica di questo movimento razionale c’è tutta l’autocoscienza dell’arte. Una teoria coinvolta in questa dialettica istitutrice è la teoria realista di Fry, secondo la quale <<i post-impressionisti andavano spiegati come genuinamente creativi, mirando, nei termini di Fry, “non all’illusione ma alla realtà” 53>>. L’arte secondo l’istituzione che di essa ne fece il realismo costituì un paradigma efficace perché la teoria sulla quale era costruita sopportava elasticamente gli strappi stilistici cui l’opera d’arte veniva sottoposta col passare dei decenni. In questo senso la teoria Greenbergiana dell’arte Moderna è un’ulteriore restrizione del campo non tanto al fine di indicare le opere d’arte in generale, quanto per instituirne una gerarchia raggruppandole nella stessa storia, nello stesso sviluppo progressivo a sua volta concepito circolarmente a partire dall’autocoscienza dell’Espressionismo astratto.

51

Danto, The Artworld, op. cit., pag. 572: Moreover, it is a simple matter to shore it up against many purported auxiliary hypotheses as that the artist who deviates from mimeticity is perverse, inept, or mad. 52 Come Danto stesso annota, il singolare è convenzionale e rappresenta il minimo comune denominatore di diverse teorie artistiche. 53 Op. cit., pag. 574: the post-impressionists were to be explained as genuinely creative, aiming, in Roger Fry’s words, “not at illusion but reality”.

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Le cose si complicano con l’arte Pop: essa infatti non solo pretende che le opere d’arte siano considerate nella loro realtà di opera d’arte, ma anche nella loro realtà di oggetto di vita quotidiano. O meglio: pongono lo spettatore di fronte ad una ipotesi razionale – il fatto che esse siano opere d’arte, e quindi in qualche modo diverse dagli oggetti della realtà quotidiana – che la percezione però smentisce: è lo stesso meccanismo per il quale i manifesti delle varie avanguardie rappresentano atti di fede (enactments of faith) in Dopo la fine dell’arte. Come ammette Danto stesso, l’enunciazione di questo problema relativo alla teoria che istituisce l’arte, non è possibile senza che emerga la circolarità della teoria. E questo non deve spaventare, ma piuttosto corroborare l’ipotesi che l’arte sia diventata cosciente di sé, al punto da operare teoreticamente pur sapendo che la teoria è debitrice della storia e quindi continuamente negoziabile al presente della propria coscienza. È per questo motivo che abbiamo aperto il paragrafo con un esperimento mentale: perché solamente mettendoci nei panni di un’opera d’arte possiamo certificare come la fede nella propria appartenenza ad una categoria razionale-linguistica (il predicato “opera d’arte”) non si discosti dalla nostra fede nell’appartenere al genere umano. In realtà la circolarità dell’argomentazione risiede nel fatto che Danto considera i <<predicati artisticamente rilevanti>> (artistically relevant predicates) proprio assumendo il punto di vista dell’opera d’arte; ma nessuno di quei predicati è essenziale, perché l’opera d’arte comunque c’è, il concetto di arte ha già coscienza di sé e un mondo dell’arte è già in piedi. Analizzando la matrice stilistica che in The Artworld viene disegnata per introdurre il problema delle interazioni tra le teorie artistiche e le aporie che esse cagionano, osserviamo che Danto è consapevole – come abbiamo già sottolineato – della circolarità del suo argomento; eppure sembra tralasciare il fatto che la matrice ne protragga gli effetti contraddittori. Essa viene poi ampliata e arricchita in Dopo la fine dell’arte (capitolo nove), rimanendo tuttavia inutile al fine della definizione dell’arte. Nell’ultimo paragrafo del saggio, introducendo per la prima volta la matrice, scrive: Sono interessato ora ai predicati rilevanti [per un tipo di oggetti K] per la classe di opere d’arte K. Siano F e non-F una coppia di predicati opposti. Ora può succedere che, per un intero lasso di tempo, ogni opera d’arte sia non-F. Ma dal momento che niente finora è sia un’opera d’arte che F, potrebbe non essere ravvisato da nessuno che non-F sia un predicato artisticamente rilevante. La non-F-ità delle opere d’arte non viene notata. All’opposto, tutti i prodotti fino ad un certo periodo potrebbero essere G, non avendo mai nessuno ravvisato

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fino a quel momento che qualcosa possa essere sia un’opera d’arte che non-G; qualcuno potrebbe aver pensato davvero che G fosse un tratto definitorio (defining trait) delle opere d’arte quando in realtà qualcosa dovrebbe in primo luogo essere un’opera d’arte prima che G ne sia sensatamente predicabile – nel qual caso non-G potrebbe anche essere predicabile delle opere d’arte, e G stesso quindi non avrebbe potuto essere un tratto definitorio di questa classe.54

Così, assumendo F la proposizione “è espressionista” e G “è rappresentativo”, nella stessa matrice verrebbero catalogati rispettivamente il Fauvismo (prima riga), la pittura di Ingres (seconda riga), l’Espressionismo astratto (terza riga) e l’astrattismo più radicale (nel libro del 1995 la riga dei negativi esemplificherà il Suprematismo o la pittura monocromatica in generale). F

G

+

+

+

+

+

L’aporia a causa della quale risulta impossibile evitare la circolarità della petitio principii sta nello scegliere innanzitutto una coppia di predicati opposti, vale a dire simultaneamente porre il predicato e negarlo. Senza avventurarci in giudizi sulla insensatezza ontica di tale operazione “logica” – e che invero cela un grande tradimento dell’essere, dell’ente – siamo portati a contestarlo in questa sede per un altro motivo55: perché confonde il soggetto con l’oggetto, l’interpretans con l’interpretandum, noi con l’opera d’arte. La logica proposizionale impiegata da Danto può risultare certo comoda, ma è uno strumento inutile e forse dannoso al fine che il filosofo dell’arte si propone. Perché la dimostrazione di una certa correttezza della teoria “istituzionale” di Danto sarebbe piuttosto confermata dal fallimento di una qualsivoglia analisi logica, anziché dalla sua efficacia dimostrativa. Ogni

54

Danto, The Artworld, op. cit., pagg. 582-583: I am now interested in the K-relevant predicates for the class K of artworks. And let F and non-F be an opposite pair of such predicates. Now it might happen that, throughout an entire period of time, every artwork is non-F. But since nothing thus far is both an artwork and F, it might never occur to anyone that non-F is an artistically relevant predicate. The non-F-ness of artworks goes unmarked. By contrast, all works up to a given time might be G, it never occurring to anyone until that time that something might both be an artwork and non-G; indeed, it might have been thought that G was a defining trait of artworks when in fact something might first have to be an artwork before G is sensibly predicable of it – in which case non-G might also be predicable of artworks, and G itself then could not have been a defining trait of this class. 55 Il motivo è lo stesso, cambiano le parole…

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osservazione, dunque ogni predicato, comporta tanto la posizione quanto la negazione dell’osservato, del soggetto della proposizione, pur essendo, in sé, un tutto positivo. Danto stesso ammetterà, nello stesso capitolo nove di Dopo la fine dell’arte, di aver trascurato l’elemento insito nella matrice stilistica (style matrix) che la rende controproducente ai fini dell’argomento da dimostrare. Infatti supporre l’intero spettro delle possibilità logiche come presente all’opera d’arte È come trattare tutte le opere d’arte come contemporanee, o comunque piuttosto fuori dal tempo. Ma sono molto meno persuaso adesso della percorribilità o persino dell’utilità di queste pratiche. Eliot ha scritto: “Nessun poeta, nessun artista di alcuna arte, possiede da solo tutto il suo significato. Il suo senso, il suo apprezzamento, è l’apprezzamento della sua relazione ai poeti e agli artisti morti. Non puoi valutarlo da solo, devi inserirlo, per contrasto e paragone, tra i morti. Intendo questo un principio estetico, non semplicemente critica storica. La necessità con cui si dovrebbe confrontare e alla quale dovrebbe essere coerente, non è unilaterale, quel che succede alla creazione di una nuova opera capita simultaneamente a tutte le opere che l’hanno preceduta”. E io credo che ciò che mi interessi sia la separazione dell’estetico dallo storico in questa maniera. È un gesto che colma la distanza tra bellezza artistica e naturale. Ma nel farlo ci rende ciechi alla bellezza artistica come tale. La percezione artistica si fa via via più storica. E nella mia visione anche la bellezza artistica è storica. Quella era a grandi linee la tesi principale di The Artworld, e ciò che non avevo colto al tempo era il grado in cui essa è incoerente rispetto alle motivazioni della matrice stilistica.56

Occorre mettere un po’ di ordine tra i diversi piani. In The Artworld il procedimento logico di premesse vere o false viene utilizzato per costruire il modello del mondo dell’arte, costituito appunto dalle sue teorie, e verificarne il funzionamento data la capacità di inserimento dei più diversi stili nella griglia dei suoi possibili predicati. A noi, come in una certa misura a Danto, interessa contestare la dipendenza della teoria dalla storia in essa contenuta, a partire dalla presenza di una nuova coscienza dell’ente che dovrebbe essere 56

Danto, After the end of art, op. cit., pagg. 164-165: It is to treat all works of art as contemporaries, or as quite outside time. But I am very much less persuaded today of the viability or even the usefulness of these practices. Eliot wrote, “[No poet, no artist of any art, has his complete meaning alone. His significance, his appreciation, is the appreciation of his relations to the dead poets and artists. You cannot value him alone, you must set him, for contrast and comparison, among the dead]. I mean this as a principle of aesthetics, not merely historical criticism. [The necessity that he shall conform, that he shall cohere, is not one-sided, what happens when a new work is created is something that happens simultaneously to all the works which precede it]”. And I think that what concerns me is the separation of aesthetic from historical in this way. It is a move that closes the distance between artistic and natural beauty. But in doing that it blinds us to artistic beauty as such. Artistic perception is through and through historical. And in my view artistic beauty is historical as well. That was more or less the main thesis of “The Art World, and what I had not seen at the time was the degree to which it is inconsistent with the motivations of the style matrix.

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interpretato. Al fine di condurre le nostre analisi sviluppando sinergicamente le nostre perplessitĂ e quelle dell’autore a distanza di tre decenni, introduciamo una matrice logica che rappresenti la genesi del predicato “opera d’arteâ€? di quest’altro tipo: M đ?‘€âˆ’+ đ?‘€âˆ’+đ?‘€âˆ’+ N đ?‘ −+ đ?‘ −+ O đ?‘‚−+ t

IT

Dove m è una generica macchia di colore, M la proposizione “m è una macchia di coloreâ€?, N la proposizione “m rappresenta qualcosaâ€?, O la proposizione “m rappresenta qualcosa naturalisticamenteâ€?, e t il procedere del tempo. IT, la teoria imitativa dell’arte nei termini di Danto57, risulta infine il positivo che concede alle positivitĂ precedenti (le proposizioni M, N e O) la possibilitĂ di essere o non essere, rappresentata dal segno diverso + o −; allo stesso modo avevano operato in precedenza le altre proposizioni, proiettando retrospettivamente sul loro soggetto le due diverse possibilitĂ . Certo, secondo l’IT “m è un’opera d’arteâ€? non solamente perchĂŠ “rappresenta qualcosa naturalisticamenteâ€?, ma probabilmente anche perchĂŠ lo fa in maniera originale, introducendo nuove tecniche rappresentative o inventando un nuovo genere artistico, utilizzando cioè l’arte a scopi diversi oppure semplicemente avanzando nella conquista di un maggiore realismo dell’immagine; per ragioni di semplicitĂ abbiamo tralasciato ogni altra colonna che potrebbe concorrere alla definizione dell’arte secondo l’IT. Ricordiamoci comunque che stiamo ragionando negli stessi termini dell’arte secondo la storia dell’arte Vasariana, che, come descritto all’inizio del nostro lavoro, assume ancora il concetto di “arteâ€? come la tecnica di ri-produzione della realtĂ possibile rispettando le norme di intellezione della natura58. La prima osservazione da fare è che nella misura in cui ogni diversa proposizione introduce un nuovo ente teorico, una nuova predicazione o un nuovo nome per lo stesso oggetto, essa si comporta come una teoria nel suo insieme, come può essere, appunto, la teoria imitativa. Essa non si distingue dalle altre proposizioni perchĂŠ sviluppa un argomento logico basato sulla concatenazione di cause

57

In The Artworld, pagg. 571-572, per Imitation Theory of Art (IT), si intendono genericamente le teorie artistiche che, nei diversi periodi storici, giudicano le opere d’arte a partire dalla loro imitativitĂ . Il primo giudizio dell’arte secondo la teoria imitativa è quello di Socrate nella Repubblica. 58 Vedi Prima parte, capitolo I, L’arte secondo l’imitazione.

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(osservazioni, premesse e condizioni) ed effetti (ipotesi): poiché ogni proposizione, a ben guardare, sottintende un ragionamento di questo tipo. Dobbiamo piuttosto ammettere che le parole, e quindi le teorie che di esse sono costituite, non tanto seguono il loro significante, quanto si aggiungono ad esso: della parola, quand’anche non sia consapevolmente arrangiata in argomentazione o in teoria, non si può “fare come se non ci fosse”. Questo senza voler entrare in un dibattito linguistico tra realisti e destrutturalisti, ma per obiettare alla supposizione di un <<è dell’identificazione artistica>> (is of artistic identification) essenzialmente diverso da un qualsiasi altro “è” predicato. Secondariamente però, dobbiamo ravvisare che una differenza deve esserci, perché, se la teoria imitativa agisce efficacemente a partire dall’oggetto, tutte le teorie artistiche dell’arte Moderna, fino alla sublimazione di questa nella Pop, funzionano <<attraverso un’atmosfera pervasa di teorie artistiche ed attraverso la storia della pittura più o meno recente … e conseguentemente a ciò l’opera [dell’astrattista] appartiene a questa atmosfera ed è parte di questa storia. Egli ha raggiunto l’astrazione respingendo l’identificazione artistica … La sua identificazione di quel che ha prodotto dipende logicamente dalle teorie e dalla storia che egli rifiuta59>>. Pertanto, se le nostre osservazioni sono corrette, dobbiamo supporre un altro motivo per il quale la teoria agisce in maniera diversa nell’istituzione dell’arte moderna; questo ci riporta, ancora, a quanto detto in precedenza sul cambiamento del rapporto tra il soggetto umano e la realtà a lui esterna. Con il criticismo Kantiano la ragione umana da tecnica conoscitiva (normatività teleologica del pensiero) diventa essa stessa oggetto teorico la cui conoscenza è subordinata all’aderenza ad una legislazione (normatività essenziale). Ma quando alla filosofia, e quindi giù fino a comprendere ogni manifestazione teorica, viene attribuita un’essenza normativa, ogni teoria sulla tecnica del rapporto tra il soggetto umano e la natura (ogni teoria sull’arte) diventa subordinata al rispetto di una legislazione autonomistica che sia essenziale all’arte 60. In questo modo però l’oggetto della teoria, l’arte, entra nella storia come conoscenza, dal momento che in sé ha

59

Danto, The Artworld, op. cit., pag. 579: … this artist has returned to the physicality of paint through an atmosphere compounded of artistic theories and the history of recent and remote painting … and as a consequence of this his work belongs in this atmosphere and is part of this history … His identification of what he has made is logically dependent upon the theories and history he rejects. 60 In riferimento all’importanza della normatività essenziale del soggetto (autonomo) per le teorie dell’arte moderna vedi Parte prima, cap. I, L’arte secondo la teoria.

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una memoria61. Il sapere di sĂŠ è ciò che permette ad ogni soggetto artistico di incorporare la propria storia e cioè di scegliere i piĂš e i meno delle proposizioni che la raccontano nella teoria stessa. Questo significa che, laddove la teoria imitativa seguiva una successione causale di proposizioni M, N e O che la propria presenza accettava come positive, secondo il Principio di ragion sufficiente, ora la “teoria normativaâ€? dell’arte pone come altro da sĂŠ la memoria e la storia (alloconoscenza) per la propria affermazione. CosĂŹ criticando la teoria l’arte decreta la possibilitĂ del negativo come strumento del proprio progresso storico; e l’arte, con le sue teorie, procede allo stregua del pensiero dell’uomo in quanto immune dalla negazione della propria storia, del proprio essere. La conquista di una progressiva autocoscienza del soggetto umano e dell’arte segue l’aumento della potenza negativa del pensiero. A questo riguardo l’arte Pop non è che la manifestazione di forza di un soggetto, l’arte, divenuto a tal punto cosciente di sĂŠ da permettersi – con un vero e proprio gesto di sfida – di raccogliere solamente entro di sĂŠ, come unico ente positivo della storia, le ragioni per giudicare qualcosa “arteâ€?. Le teorie passate non sono (piĂš) sufficienti. Certo, questo era il rationale di tutte le teorie artistiche successive alla teoria imitativa, necessarie per spiegare le nuove essenze artistiche che venivano man mano ricercate. Eppure lo “strappoâ€? della Pop art sta proprio nell’aver messo in discussione la buona fede del mero oggetto, rendendolo ambiguo, malizioso. Ăˆ il caso di ampliare la nostra versione della matrice stilistica per esemplificare quanto detto sulla differenza tra una teoria imitativa dell’arte, le teorie moderniste e una teoria che istituisca l’arte Pop in quanto terminale del percorso di autocoscienza dell’arte.

M

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đ?‘€âˆ’ đ?‘ − đ?‘‚− đ??źđ?‘‡âˆ’ đ??¸âˆ’ đ??´âˆ’ POP

61

Nello stesso luogo sopraccitato abbiamo affermato che nell’epoca moderna <<L’arte può considerarsi un personaggio vivo, che non è piĂš strumentale a ma ha degli strumenti>>.

109


Dove M, N, O e IT sono le stesse proposizioni usate nella prima matrice; E è una generica teoria espressionista dell’arte del tipo “m è un’opera d’arte perché esprime lo spirito dell’artista” (come può essere nel caso dei Fauves, movimento il cui stile Danto giudica secondo il metro della teoria “realista” di Fry); A è una generica teoria astrattista dell’arte, ad esempio il plasticismo dello Stijl, del tipo “m è un’opera d’arte perché presenta <<proporzioni bilanciate tra l’universale e l’individuale62>>”; infine, POP è la proposizione con cui un artista di arte Pop fornisce una “lettura” della propria opera: “m è un’opera d’arte perché celebra il banale”. Con l’andare del tempo, il susseguirsi di teorie sull’arte e dell’arte manifesta una crescente autocoscienza da parte del soggetto, rappresentata dall’estensione del segno – ad un numero sempre maggiore di proposizioni. L’arte Pop fiorisce al culmine di tale sentiero ascendente, ricongiungendosi all’oggettualità alla fine della propria storia, avendo negato, criticato, studiato o anche solo ri-guardato il mondo teorico che ne costituiva la storia. È lo stesso movimento che Danto descrive con le parole del maestro Zen Ch’ing Yuan, del quale cita un passo: <<prima che studiassi Zen per trent’anni, vedevo le montagne come montagne e le acque come acque. Quando giunsi ad una conoscenza più intima, venni al punto in cui vidi che le montagne non sono montagne, e le acque non sono acque. Ma ora che possiedo la sostanza reale sono a riposo. Semplicemente perché vedo ancora una volta le montagne come montagne, ed ancora una volta le acque come acque63>>. La differente identificazione, che nel prosieguo della pagina Danto ascrive ad un utilizzo diverso del predicato “è”, dovrebbe piuttosto imputarsi ad una differente storia, non già in quanto raccontata, bensì in quanto vissuta. In The Artworld Testadura è il personaggio che, osservando le raffigurazioni della prima e della terza legge di Newton (due rettangoli bianchi intersecati a metà da una linea orizzontale nera), indiscernibili l’una dall’altra se non grazie all’enunciazione delle suddette, afferma di non vedere che due rettangoli intersecati da una striscia nera. Mentre la sua proposizione “Quella linea nera è una linea nera” è una tautologia, e non aggiunge nessuna positività al mero oggetto (accetta il positivo della prima proposizione, M), quella

62

Vedi il Primo manifesto della rivista “de Stjil”, 1918, di Theo Duisburg et alia, in Antologia critica dell’arte moderna, op. cit., vol. 6, pag. 34. 63 Danto, The Artworld, op. cit., pag. 579: Before I had studied Zen for thirty years, I saw mountains as mountains and waters as waters. When I arrived at a more intimate knowledge, I came to the point where I saw that mountains are not mountains, and waters are not waters. But now that I have got to the very substance I am at rest. For it is just that I see mountains once again as mountains, and waters once again as waters.

110


del maestro Zen, come del soggetto autocosciente o dell’arte Pop, si afferma immaginando o teorizzando (tesi) l’illegalità della sua storia (antitesi – negazione delle proposizioni precedenti) fino alla sua fine, per la prima volta raggiunta perché modificata (sintesi – negazione della prima proposizione). Con la differenza che una volta raggiunta la fine della storia, essendosi affermato quel soggetto pienamente cosciente che si costituisce da sé della sua storia, che è la sua storia e con lei dialoga, le “identificazioni” precedenti, più o meno “artistiche”, non ne rimangono annichilite ma lasciate essere in eterno, e ogni ente storico e razionale condivide lo stesso presente pacificamente. Nel mondo così istituito si può parafrasare una delle affermazioni centrali del saggio, <<Ciò che alla fine segna la differenza tra una scatola Brillo e un’opera d’arte costituita da una scatola Brillo è una certa teoria dell’arte64>>, in questo modo: <<Ciò che alla fine segna la differenza tra una scatola Brillo e un’opera d’arte costituita da una scatola Brillo è un’opera d’arte costituita da>>. Per completare il nostro commento alle parole che Danto offre per l’istituzione del mondo dell’arte dalla teoria, dobbiamo aggiungere un positivo che caratterizzi lo stato presente dell’analisi del mondo dell’arte e del suo rapporto con la storia conservando quanto raggiunto in precedenza. La negazione storica del passato, quindi delle parole circa un ente finito, non annichilisce l’ente in questione ma caratterizza al presente il soggetto che ne è cosciente. Si verificherà allora che utilizzando a proprio piacere la tradizione – la tecnica del postmodernismo non a caso è la decontestualizzazione – ciò che ne era di essa prima che fosse detta “tradizione” (ma piuttosto “avanguardia”) non ne risulta modificato, perché se ne risultasse modificato durante il processo non si potrebbe ravvisare l’autonomia del soggetto autocosciente. A questo riguardo cresce la nostra distanza da Danto, che ancora sostiene la comunicabilità delle negazioni poste in essere ogni qual volta un nuovo stile imponga l’introduzione di una nuova teoria. Se siamo alla fine della storia, come crediamo, l’arricchimento non sarà tanto perché, cosciente di una nuova “possibilità” dell’arte, l’individuo potrà aggiungere una colonna alla sua matrice stilistica; piuttosto, perché il soggetto che, al pari dell’arte, è autocosciente della convergenza tra storia e concetto in sé, comprende il significato dell’illusorietà dell’opposizione tra il positivo e il negativo della storia, della teoria. Se la teoria che spiega un soggetto autocosciente come può essere

64

Ibidem, pag. 581: What in the end makes the difference between a Brillo box and a work of art consisting of a Brillo box is a certain theory of art.

111


l’artista Pop (essendo questo un modello) è già anche la stessa storia, l’affermazione del primo non deve più operare mediante l’esclusione delle ragioni (ora) non sufficienti, incorporate nel canone stilistico, nell’opera, nel manifesto o nella teoria precedente. Andando a decretare l’insufficienza del concetto in sé, non tanto apponendo a tal scopo un nuovo significato per il soggetto della proposizione originale, quanto istituendosi a nuovo spazio concettuale per la realtà “quotidiana”, a nuova comprensione e a nuovo con-fine delle sue “possibilità” storico-razionali, chi abbia coscienza del debito linguistico da contrarre per il proprio presente storico salvaguarda ogni altro ente, ogni altra proposizione pur mantenendo la propria individualità. Questo perché nell’andare alla sorgente dell’identificazione, sul limite estremo che divide la cosa dalla parola, ogni altra identificazione, e con esse l’intero concetto di arte, vengono consegnate alla Storia, finite, perché finita la loro critica, la loro aggiunta-per-negazione65.

Approfondimento del problema Forti delle nuove riflessioni sulla logica interna della teoria istituzionale dell’arte, ovvero della teoria come istituzione dell’arte, possiamo ora ritornare alle osservazioni generali sul concetto di storia, iniziate nella prima parte del nostro lavoro. Il senso della frase che balzò alla mente di Danto la prima volta che seppe dell’esposizione de Il Bacio di Lichtenstein, ovvero che se essa poteva essere accettata come un’opera d’arte, allora tutto era possibile (vedi sopra), può essere descritta secondo la logica impiegata nella nostra matrice dicendo che a partire da una premessa falsa – “m non è la tavola di un fumetto” – ogni conclusione è vera, conservando così le teorie che costituiscono la storia di tale concetto. È esattamente in questo modo che si consegna il concetto di arte alla storia, stabilendone la fine: poiché i confini dell’arte vengono a coincidere con i confini della storia, esaurendone le possibilità avendo tollerato la presenza delle loro conclusioni negative come conseguenza del medesimo

loro

porsi.

Questa

nuova

manifestazione

razionale

è

consapevole

dell’indispensabile esperienza precedente, operante secondo le regole del Principio di ragion 65

Alla fine della storia (Storia) svanisce ogni Aufhebung.

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sufficiente, eppure lo rende evanescente: da una parte ne forza la legittimità, abusando del suo potere di far della sostanza concetto; dall’altra il nuovo ente ha già accettato la presenza dell’altro, comunicando con lui al di là della logica cognitivistica, di cui spezza l’efficacia. Al punto che non importa più affermare l’inutilità del Principio stesso, avendolo consegnato alla storia. Infatti – è utile ripeterlo – per l’artista che si dedica alla decontestualizzazione, alla “trasfigurazione” tipica delle opere contemporanee, non si tratta di affermare una nuova concezione dell’arte avendo saggiato per primo la vera essentia dell’oggetto utilizzato. Il gesto con cui Rauschenberg fa di una capra imbalsamata un’opera d’arte, è tanto assurdo quanto primitivo; d’altronde quella dell’artista non è una scelta dettata dal bisogno, come poteva essere quella di Pollock di dipingere entrando in contatto con la matericità del colore. Il suo desiderio è ancora quello di stabilire un dialogo con un’entità superiore, perché più arduo è sentire la sua voce: occorre immedesimarsi nella sua vita. Così descrive il suo rapporto col dipinto: <<Sul pavimento sono più a mio agio. Mi sento più vicino, più “parte del dipinto” … Mi allontano sempre di più dai soliti strumenti del pittore, preferisco i bastoncini, la cazzuola, i coltelli e la vernice fluida gocciolata o un pesante impasto di sabbia, vetro sminuzzato ed altri materiali insoliti. Quando sono “nel” mio dipinto, non sono consapevole di quello che sto facendo. È solo dopo un periodo in cui “ne faccio la conoscenza” che vedo di che cosa mi sono occupato. Non ho timore di fare dei cambiamenti, distruggendo l’immagine ecc., perché il dipinto ha una vita tutta sua. Cerco di fare in modo che essa si manifesti>>66. Rauschenberg invece incontra l’oggetto casualmente, e realizza di potergli dare un altro nome, ma sceglie di non farlo, rimettendolo all’indeterminato:

<<Cosa vuole comunicare con un quadro?>>. <<Se mi chiedeste se voglio piacere o dispiacere, provocare o convincere e se mi deste ancora una dozzina di alternative sarei obbligato a dire che è esattamente tutto questo e tutto insieme. La metà delle mie ragioni sarebbe negativa e l’altra positiva. Ma lo sforzo di concentrare la mia energia su un messaggio mi limiterebbe e preferisco andare verso l’ignoto>>. <<Vuole insinuare che lei non sa ciò che vuol dire e che non cerca niente di tutto ciò che si pretende trovare nelle sue

66

Jackson Pollock, My Painting, in Possibilities 1 (winter 1947-48), traduzione in Antologia critica dell’arte moderna, op. cit., vol. 12, pag. 65.

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tele?>>. <<Se ci fosse un messaggio specifico, sarei limitato dai miei ideali e dai miei pregiudizi. Insomma, ciò che mi interessa è un contatto, e non esprimere un messaggio … >>67

Mentre l’abituale esercizio razionale ci spinge ad associare istantaneamente ad una cosa la sua storia, con il suo passato e futuro, nel significato – e così era per l’Espressionista astratto, che lo cercava però entrando nell’oggetto significante –, l’artista Pop deve consegnare ogni messaggio al passato affinché il significante sia presente. Sceglie dunque la non-specificazione, la non-determinazione, la non-identificazione dell’altro (l’oggetto che nel paragrafo precedente abbiamo indicato con m); l’artista lascia al mondo e alle altre persone il compito di servirsene seguendo i propri precetti e le proprie teorie. Egli si limita ad indicare, a fare un cenno per segnalarci la presenza non ancora compresa in concetto di un ente nuovo. Dall’originaria ignoranza e spaesamento (l’ambiguità maliziosa della riproduzione) ad una nuova comunicazione (compresenza) a-teorica in cui l’idea realizzerà la pratica, saggiando la necessità priva ancora di “perché” (da cui, appunto, l’insensatezza di una Ragion sufficiente). Il giudizio negativo che l’artista Pop riserva al mondo della industrializzazione avanzata non giunge ad essere causato dall’ente degno di biasimo, perché la Pop art <<è coinvolta con quelle che credo siano le caratteristiche più sfacciate e minacciose della nostra cultura, le cose che odiamo, ma che sono anche così potenti nella pressione che esercitano su di noi>>. Ecco ritornare, in queste parole di Lichtenstein, il tema del contatto con l’altro ente, con il passato, con il compreso, nell’arte. Ed è per questo motivo che il significato della spregevolezza del mondo che viene dipinto nell’arte commerciale non è nel dipinto, ma è nella caratterizzazione del presente che esso fa e di cui il soggetto è cosciente 68. L’artista Pop sembra aver compreso che mentre il mondo dell’arte lavorava e s’interessava delle proprie norme giuridiche, dei propri paradigmi strutturali e delle proprie motivazioni autonome, essendo costituito essenzialmente dalla propria teoria, fuori il mondo “quotidiano” – ed in esso le sue immagini – veniva intrappolato nella successione storica necessaria al fine di sapersi destreggiare logicamente con il concetto allo stato presente delle cose. In questo senso la Pop art recupera un rapporto assolutamente primitivo con il resto 67

Robert Rauschenberg, Intervista con André Parinaud, Arts 821, Parigi 1961, op. cit., vol. 13, pag. 61 (enfasi

mia). 68

Non è – quindi – tutto nel dipinto. Al fine del significato il mezzo significante ha bisogno del destinatario della comunicazione.

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del mondo, ritornando alla sua originaria e incompresa diversità. Per forza di cose è un movimento caotico e spasmodico, un brancolamento nel buio, un avanzamento a tentoni: il riutilizzo degli oggetti in contesti casuali, nuovi, è il tentativo di permettere a quegli enti di avere coscienza del proprio presente mediante l’originario strumento della conoscenza biologica, la prova a somma uno. Se sarà in grado di stabilire una comunicazione con il mondo, ma anche se avrà un impiego – e quindi un potenziale morale – essa sarà giusta. Il problema è che, spingendo fino in fondo tale ragionamento, ogni cosa risulta giusta ad un determinato scopo, approdando infine ad una visione del mondo fredda, distaccata, “fatalista”. Allora si potrà ripetere il procedimento fino a non avere ottenuto il risultato sperato, ad esempio fin quando, secondo i gusti di qualcuno, l’arte Pop non apparirà meno <<spregevole>>. L’intero nuovo rapporto del fruitore e dell’autore dell’opera scende nella praticità del presente, insinuando agli occhi del lettore la necessità di impiegare ciò che gli viene posto davanti, senza che per questo venga suggerito al lettore un impiego. Ogni giudizio pratico e morale sull’arte Pop è così devoluto all’intero spettro della realtà di cui essa prende parte – e lì proiettato. Come già detto nella prima parte, Dopo la fine dell’arte elude una analisi seria del rapporto tra l’ente e la storia. D’altronde è così difficile parlare di storia rimanendo coi piedi ben saldi nel presente, alla maniera in cui vorrebbe Rauschenberg: <<Sono nel presente. Cerco di celebrare il presente nei miei limiti ma utilizzando tutte le mie risorse. Il passato non esiste, così come l’avvenire, che è una supposizione. È presuntuoso pensare al passato e all’avvenire senza dirsi che l’idea che se ne ha è solo un’interpretazione del momento>>69. Il punto in cui Danto esemplifica magistralmente il problema del coinvolgimento della storia nella teoria e del loro fondamentale apporto al fine della concettualizzazione dell’arte, è, già da La trasfigurazione del banale, la critica – il giudizio – sulla pittura monocromatica. Così facendo però esplicita tutte le contraddizioni e le debolezze di un discorso imperniato sulla distinzione dell’indiscernibile (apparentemente). Il ragionamento dell’autore, comincia dalla costatazione che è possibile e interessante studiare l’evoluzione storica della pittura monocromatica, non essendo questa meno ricca stilisticamente di qualsiasi altro tipo di pittura: <<Avvertivo come, quanto a ricchezza stilistica, non ci fosse niente da scegliere tra 69

Rauschenberg, intervista citata.

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Il giudizio universale di Michelangelo e un qualsiasi quadrato nero di Reinhardt. Il mondo dell’arte era radicalmente egualitario, ma sapeva pure arricchirsi reciprocamente>>70. Danto arriva quindi a giustificare le singole opere monocromatiche, sulla base dell’analisi critica delle loro <<storie individuali>> (individual histories, pag. 169). Per poi approdare infine al rifiuto di ogni identificazione della pittura monocromatica con la “morte della pittura”, intesa come perdita del ruolo storico di guida e modello per l’arte a venire. Se il nucleo di tale idea, diffusasi soprattutto durante gli anni Settanta, era che <<I criteri di validità che si applicavano alla pittura avevano cessato di essere automaticamente i criteri della buona arte>>71, la possibilità di esporre nello stesso museo tutte le opere monocromatiche dimostrerebbe, secondo Danto, che <<il monocromatismo ha poco a che fare con l’esaurimento interno delle possibilità della pittura, e l’esistenza di quadrati bianchi, rossi, neri – o triangoli rosa, cerchi gialli, pentagoni verdi – non ci dice nulla sulla morte della pittura, o, a questo riguardo, sulla fine dell’arte>>72. La pittura, piuttosto, è l’arte che ha sofferto di più della contaminazione di generi e materiali tipica del postmodernismo, in un impulso artistico attraverso il quale decine di altre “situazioni” – <<esibizioni, installazioni, fotografie, movimentazioni, aeroporti, filmati, lavori in fibra e strutture concettuali di ogni ordine e grado>> – sono emerse come artisticamente rilevanti. La pittura monocromatica secondo Danto mette in discussione la separazione di estetica e critica storica, alla maniera in cui voleva Eliot nel passo succitato (pagina 106). Le differenze estetiche fra diversi quadri monocromatici emergono infatti solamente attraverso il loro posizionamento in una struttura storica. È però la stessa creazione di un’unità storica sotto cui raccogliere le diversità dei singoli monocromi ad occasionarne le differenze. L’approssimazione con cui riportiamo il dato percettivo dei diversi monocromi non offre differenze apprezzabili ma tende a farci propendere per l’indiscernibilità tra gli enti. Purtroppo però l’indiscernibilità, come il percepito in generale, non ha significato, ed è a tutti gli effetti incomunicabile se non convenzionalmente, attraverso le parole. Non c’è 70

Danto, After the end of art, op. cit., pag. 164: I felt that, in point of stylistic richness, there was nothing to choose between The Last Judgment of Michelangelo and any black square by Reinhardt. the art world was radically egalitarian, but also mutually self-enriching . 71 Op. cit., pag. 171: The criteria of goodness that applied to painting had stopped being automatically the criteria for good art. 72 Op. cit., pag. 170: But it would, beyond that, demonstrate that the monochrome has little to do with the internal exhaustion of the possibilities of painting, and that the existence of white squares, red squares, black squares – or pink triangles, yellow circles, green pentagons – tells us nothing about the death of painting or, for that matter, the end of art .

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niente che impedisca allo spettatore di scrollare le spalle di fronte ad un qualsiasi quadrato di Malevich, allo stesso modo in cui Testadura giudicava la raffigurazione delle leggi di Newton. Il colore è prima di comunicare qualcosa, ma al contempo il monocromatismo perde la sua forza espressiva se sottoposto a troppi interrogatori da parte della mente <<che entra, e chiede73>> all’occhio che cosa ci sia nel colore. Ci troviamo dunque di fronte all’alternativa tra un corpo di enti con il loro diritto di presenza (i vari dipinti monocromatici), precedente ad ogni giudizio; e, dall’altra parte, un discorso critico la cui presenza renda l’unicità dei diversi enti comunicabile. Portando agli estremi le due alternative, si capisce come sussista uno scarto tra l’essere degli enti e il loro comunicare, laddove quest’ultimo rappresenti l’azione presente del soggetto che parla degli enti come oggetto. Una affermazione a questo riguardo che ha particolarmente colpito la nostra attenzione durante l’analisi del capitolo nove di Dopo la fine dell’arte, è la seguente: Hafif scrive di “Rosso Cinese 33 × 33” che “ha luogo nella scia di qualche centinaia di dipinti ed esiste per sé soltanto così come nel contesto del resto dell’opera”. Questo non è meno vero del lavoro di Ryman, o, suppongo, di chiunque. L’opera trae il suo significato dal corpus delle opere entro cui si dispone, e ciò chiarifica la misura in cui la mostra sia oggi il luogo adatto per il dipinto, offrendo essa il contesto in cui l’opera da sola deve essere giudicata e apprezzata. Non tutta l’energia e il significato che essa trae dalla sua collocazione sono percettivi … il nostro coinvolgimento estetico con le opere d’arte visiva dipende da quelli che si potrebbero prudentemente chiamare, con Malevich, fattori non-oggettivi, o comunque non-percettivi. È questo che ci si deve attendere quando “la mente entra, e domanda”. Voglio offrire questa discussione sulla pittura monocromatica come modello del modo in cui pensare circa la critica, una volta compreso che è necessario pensare, per quanto profonde le somiglianze tra le opere, alle loro storie individuali (individual histories).74

73

Danto, op. cit., capitolo nove. Danto, op. cit., pag. 169: Hafif writes of “Chinese Red 33 ×33” that it “takes its place in a stream of some hundred of paintings and exists for itself alone as well as in the contest of the rest of the work”. This is no less true of Ryman’s work, or, I suppose, of anybody’s. the work draws meaning from the body of work within which it is placed, and this makes clear the degree to which the place of painting today is the exhibition, which provides the context in which the work alone is to be judged and appreciated. Not all of the energy and meaning it derives from its placement is perceptual … our aesthetic involvement with works of visual art derives from what one might, with Malevich, guardedly call nonobjective, or, in any case, non-perceptual factors. That is to be expected when “the mind comes in, and asks”. I offer this discussion of the monochrome painting as a model of how to think about criticism, once we realize that we have to think, however profound the resemblances between works, of their individual histories. 74

117


Il passo citato contiene molti interrogativi che cercheremo di dipanare nel corso dell’ultima parte del nostro lavoro. Innanzitutto, per fugare ogni dubbio: riteniamo che le tesi di The Artworld poi emendate in quest’ultima opera siano largamente valide per raccontare l’arte nella sua evoluzione novecentesca. Tuttavia, esse non completano l’indirizzo critico indicato dallo stesso autore, indugiando sull’arte quando ora il problema della storia e della comunicazione dell’arte necessita un allargamento della “giusta” concettualizzazione dell’individuo all’intero pensiero. I tre termini che colpiscono di più sono “significato”, “percettivo” e “non-oggettivo”. Probabilmente quest’ultimo vuole indicare la non-verificabilità delle <<storie individuali>> che soggiacciono al materiale dipinto, conferendo, investendo il dato percettivo di un significato che non travalicherebbe la proposizione fondamentale “Quadrato Rosso è un quadrato rosso”. L’evoluzione storica della coscienza dell’arte (e con essa, del Pensiero), ci ha però condotto ad osservare – e a toccare con mano – l’assenza di un significato pertinente alla materia dell’arte soltanto (quindi nel caso della pittura, all’immagine in sé). Questa la conquista dell’arte Pop, ottenuta con la contestazione della proposizione fondamentale sul suo contenuto: le tavole dei fumetti non seguivano più lo svolgersi della narrazione, non erano più strumentali a essa, ma rimanevano sospese nell’ambiguità del loro presentarsi allo spettatore completamente nude. Essa ha consegnato ai posteri la decisione di cosa fare dell’immagine avendo corroso le motivazioni che storicamente ne spiegavano la raffigurazione in una certa maniera, in un certo stile, piuttosto che in un altro. Questo processo è evidente nelle opere dei maggiori artisti: Lichtenstein, Oldenburg, Warhol, Rosenquist; se possiamo sostenere, insieme a Danto, che gli artisti Pop hanno guidato il concetto di arte alla sua autocoscienza, è perché nella loro arte essi hanno reso esplicito l’intero movimento razionale dell’arte Moderna. Essa ha proceduto speditamente incaricando di volta in volta le proprie opere di incarnare un significato, una teoria dell’arte di cui esse fossero testimonianza. La Pop invece si avvicina con occhio ingenuo all’immagine, ferma restando la “malizia” di una concettualizzazione che torna sui suoi passi ricongiungendosi alla matericità dell’ente – così compiendo l’intero orizzonte teorico, e quindi storico, dell’oggetto. Lichtenstein diceva del suo lavoro che <<Non sembra la pittura di qualche cosa, sembra la cosa stessa>>: la verificabilità di un significato è competenza della critica d’arte, ma la cosa stessa – il disegno di un hot dog o di un quadrato rosso – non potrà mai dire se una teoria artistica è 118


vera o falsa. Nelle parole di Danto: <<L’occhio non lo rivelerà a meno che e fino a che “la mente [non] entri, e chieda”>>75. Quando il rationale dell’arte Moderna venne applicato al di fuori del medium artistico, l’istituzione teorica dell’arte non andava già più ad operare sull’arte stessa, ma operava su se stessa come arte. Questa l’autocoscienza artistica mediante la quale l’arte è sublimata nella filosofia come metodologia dell’istituzione. È compito del presente immaginare una comunicazione tra gli enti abbastanza stabile da sopportare tanto l’assenza quanto l’onnipotenza del valore della parola, al di là dell’arte, alla fine dell’arte.

Una soluzione metodologica. Rauschenberg lo dice chiaramente nella video-intervista di cui abbiamo parlato nella prima parte: per distinguere tra loro oggetti apparentemente indiscernibili (come possono essere due tele ugualmente cancellate) e dichiarare che uno solo di essi (“il fu” de Kooning) è un’opera d’arte <<occorre pensare in un certo modo, affinché tutto questo funzioni>>. Il pensiero è strumentale all’istituzione dell’arte, e l’arte è a sua volta subordinata ad una teoria che la istituisca, come insegna Danto. Il passo successivo per attualizzare la discussione è osservare che, essendo l’arte prima trapassata nella filosofia, ed essendo questa (o, più in generale, il pensiero, la razionalità, la parola) lo strumento tecnico con cui si è concretizzato il passaggio, è lecito assumere che l’arte dopo la fine della sua storia recuperi il carattere tecnico che era venuto meno con l’affermazione della sua autonomia dal resto della natura. L’arte contemporanea ha mostrato il suo fondamento cognitivo; ma scegliendo di non conoscere l’altro, rifiutandosi cioè di comprendere il suo significato, essa ha conciliato la sua presenza come ente che comunica l’altro con l’alterità stessa, l’esserenon-concetto dell’altro ente. Probabilmente è ancora una comunicazione verbale, sicuramente però consapevolmente a-concettuale: la fine della storia (Storia) è il raggiungimento della fine del concetto. Warhol diceva che <<Più guardi la stessa identica cosa, più perde di significato, e più ti svuoti e ti senti bene>> 76; Rauschenberg, a proposito

75 76

Danto, op. cit., pag. 168: The eye will not tell you unless and until “the mind comes in, and asks”. Vedi sopra, pag. 50.

119


di Monogram, che <<tutto si mise a riposo>> quando la sua opera cessò di essere <<arte con una capra>>77 e che in fondo <<ciò che mi interessa è un contatto, e non esprimere un messaggio>>78. Allo stesso modo Rosenquist, affermando di non voler produrre <<qualcosa che potesse essere offerta come sollievo>>79, non si dedica ad una comprensione del contenuto di ciò che rappresenta (l’opera in questione era F-111), ma lo presenta analogicamente. Così infine leggendo Lichtenstein siamo persuasi che il mantenimento di un contenuto significativo senza appropriarsene nella maniera tradizionale, ma conciliando la propria affermazione con l’affermazione di quello che l’ente (oggetto) storicamente è, rappresenta l’apertura di una nuova modalità di comunicazione con il presente. <<La Pop art ha significati immediati ed attuali che svaniranno … e si avvantaggia di questo “significato” che si suppone non durerà, per distogliere l’attenzione dal suo contesto formale>>80. A questo proposito ritorna un passo di Danto già segnalato in precedenza: <<Il senso in cui tutto è possibile è quello in cui tutte le forme sono nostre. Il senso in cui non tutto è possibile è che dobbiamo ancora relazionarci ad esse a modo nostro>> 81. La nostra tesi è che questa nuova forma di appropriazione si sia palesata, ed occorra perlomeno tentare di prendere sul serio quanto dice Danto sul passaggio delle prerogative dell’arte alla filosofia, immaginandone le conseguenze dall’osservazione dello stato presente delle cose. Danto le riduce all’opposizione tra un’idea di arte sottoponibile ad un giudizio estetico ed un’idea nuova la cui designazione è affidata alla filosofia dell’arte, potendo questa agire alla fine della storia. Il raggiungimento di tale obiettivo equivarrebbe ad una <<rivoluzione concettuale>> che avrebbe luogo, appunto, <<in un concetto extra-storico di arte>>82. Alla luce di quanto detto sinora dovremmo concordare invece sull’inconciliabilità di un pensiero propriamente “concetto” alla fine della storia, condividendo la Storia lo stesso meccanismo razionale-teoretico incorporato nel concetto. Poiché delle due alternative, occorre scegliere l’una: o la storia è finita – essendo pervenuto un concetto, l’arte, all’autocoscienza; oppure la coscienza razionale dell’arte deve ancora manifestarsi al pensiero, sì da attendere ancora una “vera” comprensione concettuale. Ho l’impressione

77

Ibidem. Vedi sopra, pag. 112. 79 Vedi sopra, pag. 52. 80 Lichtenstein, intervista citata. 81 Vedi sopra, pag. 61. 82 Vedi sopra, ibidem. 78

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però che il fatto stesso di trovarsi a parlare della presenza di due alternative, una delle quali priva, consapevolmente, di concetto, testimoni della sostanziale inutilità del concetto al fine della descrizione dell’end-state; viceversa, questa compresenza rende necessaria una scelta pratica dell’ente autocosciente di fronte all’alternativa tra il concetto (storico) e l’esserenon-concetto (presente). L’arte ci chiede di partecipare della sua autocoscienza: qui inizia il problema della comunicazione dell’arte contemporanea a studiosi e fruitori, che ricalca il problematico rapporto tra un ente fuori dalla storia (outside the pale of history) ed un ente (ancora) in essa e, più in generale, della comunicazione tra il narratore e il narrato. Si può dire che ci siamo liberati dalla necessità storica: abbiamo rivolto lo sguardo (theorein) all’ente a prescindere dalle sue possibilità, trascurando il suo significato. Tuttavia, non volendo confrontarci con il solo ente-comunicazione, l’autocoscienza di noi stessi in quanto soggetto della comunicazione (alla fine della storia), accettiamo che, avendo un significato storico, l’oggetto si inserisca in una concatenazione di cause ed effetti “possibili”, reali in quanto almeno immaginati o creduti (atto di fede). Il presente rispetta ogni singola storia, ogni ente concepito; pertanto occorre una narrazione (che è ugualmente descrizione e spiegazione) che nel suo essere parziale, presente come singolo ente significativo, nel soggetto che parla (inventore di un racconto o elaboratore di una teoria “verificabile sperimentalmente”), sia cosciente tanto della parte (sé stesso), quanto dell’altro. L’autocoscienza riconosciuta all’altro da parte del soggetto che comunica permette la necessaria autocoscienza dell’altro (l’oggetto) nel racconto cui dà corpo il soggetto. Questi deve presentare tanto sé medesimo come narratore cosciente del proprio ruolo, quanto il narrato come cosciente della propria dipendenza ontica – la stessa dipendenza ontica che è il primo. Il contenuto deve presentarsi come significante di un significato da ricercare nell’intero narrato, comprendendo questo il narratore di quel contenuto. La necessità della loro com-presenza è il significato del messaggio. Da tutto ciò discende

una

riflessione

metodologica

generale

sull’analisi

condotta

sull’arte

contemporanea, e sulle conclusioni a venire. Una razionalità che ha proceduto storicamente – cioè nella Storia e pensando a sé in quella – ha attraversato il riconoscimento dell’altro (prima) e le conseguenti proprie affermazioni (poi), facendosi concetto “in-sé-e-per-sé” come positivo cui non era bastato un passato e che ora, alla luce di ognuna di queste affermazioni, appare come negativo. Questa 121


razionalità, una volta giunta ad osservare il meccanismo logico-teorico che rappresenta le possibilità (storia delle possibilità) dell’affermazione di sé come di qualsiasi altro positivo, sa che esso sopravvive come storia, finita, dopo che il presente è entrato in contatto con la necessità di ogni singolo “fattore storico” – ogni singolo più o meno – al fine del proprio essere autocosciente. Questa era la sconfitta del Principio di ragion sufficiente di cui abbiamo trattato in riferimento alla matrice stilistica ai tempi dell’arte contemporanea. Ora occorre chiedersi in che misura l’autocoscienza, artistica e non, abbia bisogno dell’altro, della storia che è finita. Perché se con la storia è finita pure la comunicazione concettuale, deve essere abbandonato ogni tentativo di perlustrazione dell’intero spettro logico-teorico al fine di comunicare la propria autocoscienza. L’autocosciente ha bisogno del non-(ancora)autocosciente nella misura in cui per presentare se stesso egli necessita di un concetto di cui rendere ragione. La partecipazione collettiva alla fine della storia richiede invece una comunicazione non (solo) concettuale. Ma finché l’intero orizzonte dell’essere non avrà raggiunto l’end-state sarà necessario impegnarsi nell’adesione allo stato presente delle cose accettando il concetto come entità storica – quindi finito. Tutto questo si riflette nel nostro procedere per condizioni: non è solo un vezzo, un’imprecisione o una debolezza argomentativa quella di voler indugiare in una certa circolarità del discorso. Nella maniera in cui abbiamo bisogno di affrontare il presente accettandone le condizioni storiche che l’hanno cagionato, così la “verità” del ragionamento deve dapprima riconoscere le ipotesi concepite per poi affermarsi positivamente come ente (comunicativo) necessario, caratterizzando al presente il concetto stesso. Da questo movimento finale di caratterizzazione del singolo a partire dal necessario (al contempo condizionato, storico, logico), conseguiamo la caratterizzazione istantanea dell’intero compresente rispetto al singolo. Lo scarto fondamentale tra una siffatta narrazione caratterizzante e l’idea del valore ermeneutico del concetto giace nella consapevolezza (e non volontà) di mantenere l’altro – passato, finito – come caratteristica del presente. Nell’ultimo capitolo affronteremo un modello di narrazione artistica che possa essere utile per la comunicazione dell’arte, essendosi questa vista come concetto finito.

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Capitolo II. Dallo studio di Danto ai testi di Beckett.

Il ruolo della poetica di Beckett. Come abbiamo visto, l’intero “sistema” Dantiano ha l’obiettivo di mantenere il concetto di arte, per quanto vago possa sembrare ai giorni nostri, anche <<fuori dalla narrazione>> (outside narrative); quello che ci sembra inconseguente in questa prospettiva, è dichiarare la sopravvivenza del concetto nell’end-state. Se la condizione post-narrativa è la medesima condizione post-storica – in questo caso notiamo che l’anglofono si avvantaggia della più chiara distinzione tra post-narrative e post-historical – e il concetto si è manifestato all’autocoscienza filosofica come terminale storico, una conciliazione tra il concetto e l’ente al presente non appare possibile. La problematica generale ci impone dunque una riflessione circa il tipo di narrazione e di comunicazione di cui avvalersi alla fine della storia. Cercheremo di mostrare in questo ultimo capitolo in che misura la narrazione di Beckett raccolga gli interrogativi emersi grazie al lavoro di Danto e soprattutto in che misura essa costituisca una risposta concreta al bisogno pressante di avvalersi diversamente delle parole. Non ci sembra sufficiente accontentarsi di sostenere un’estrema duttilità del concetto di arte oggi, dal momento che siamo giunti a scegliere di salvare la parola pur sacrificando il suo valore per l’ente che la ospita e la utilizza. Certo, assistiamo ad un florilegio di “libertà artistiche” mai esperito prima d’ora; eppure questo non impedisce di chiederci a che pro, questa libertà? Ha valore una libertà prodotta dalle sue possibilità? Di questo ci occuperemo nei prossimi paragrafi. Perché, tra tutte le possibili letture dell’opera di Beckett, scegliamo di accostarla alle teorie di Danto sulla fine dell’arte? Perché rappresenta un buon modello di comunicazione non tradizionale, in quanto si giova dell’autocoscienza filosofica del soggetto come tecnica per dar voce al contenuto narrativo. Questo è presentato simbolicamente dal testo in maniera simile a quella in cui le parole si presentavano a Borges alla fine del racconto La ricerca di 123


Averroè: <<Sentii, giunto all’ultima pagina, che la mia narrazione era un simbolo dell’uomo che io ero mentre la scrivevo, e che, per scriverla, avevo dovuto essere quell’uomo, e che, per essere quell’uomo, avevo dovuto scrivere quella storia, e così all’infinito. (Nell’istante in cui cesso di credere in lui, Averroè sparisce.)>> 83. Anche in Nohow on le parole hanno coscienza di essere un particolare ente al di là del significato della determinazione che incorporano. Questa distinzione tuttavia non vuole lasciare adito a considerazioni accrescitive dell’ente per mezzo del suo significato; essa riporta piuttosto al differenziale ontologico tra l’essere immutabile – l’ente presente, fuori dal tempo – ed il diveniente, cioè il concetto che sopporta una determinazione negativa, per usare le parole di Severino. La parola presente a sé non manca di un significato a lei esterno e che sarebbe proprio della determinazione, sottoposta al divenire e quindi altra rispetto all’intero immutabile: <<… si può dire che l’immutabile è “diverso da sé” in quanto diveniente e il divenire è “diverso da sé” in quanto immutabile: appunto perché il divenire non incrementa l’essere, ma lo rispecchia>>84. Essere (della parola) e determinazione (del significato) convivono senza aggiungere nulla al presente – come già com-presenti. Pertanto dobbiamo porci la questione: quale possibilità abbiamo di essere alla fine della Storia e al contempo di continuare a fare affidamento sul concetto, sulla teoria, sulla storia? Questo affinché non dimentichiamo che nell’ente che comunica (la parola oppure il soggetto umano), davvero fuori dalla storia (fuori dal tempo narrativo), c’è già una doppia presenza (almeno) che non può più essere sacrificata in nome dell’autocoscienza del concetto, perché rappresenta l’orizzonte storico che è già stato perlustrato teoreticamente dalla filosofia, nella sua totalità. Ora che ne siamo fuori, ora che siamo dopo, comunque accettiamo l’altro rispetto all’autocoscienza filosofica (il “diverso da noi”), non tanto come possibilità ma come riflesso delle necessità che hanno caratterizzato il nostro approdo teoretico autocosciente. Il non-ancora-autocosciente è una condizione che deve subire un Aufhebung – che deve aver subìto un Aufhebung – affinché si mostri una certa autocoscienza. In Nohow on quello che colpisce è il continuo lavorìo sul testo a partire dal rapporto tra la singola parola, il singolo concetto e l’intero della narrazione. Seguendo quanto affermato finora nel nostro lavoro, una comunicazione adatta alle esigenze post-storiche di

83 84

Borges, op. cit., pagg. 99-100. E. Severino, Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pag. 30 (enfasi mia).

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presentazione dell’altro deve oltrepassare l’orizzonte del concetto come prova della verità della comunicazione. In che modo la collezione di Beckett ne è capace? Smascherando dapprima l’illusorietà della logica condizionale volta, appunto, all’affermazione coerente del concetto; secondariamente, utilizzando il residuo inefficace di questo. La logica dietro alla parola rimane come pietrificata, vera e propria struttura storica che alla fine della storia – pur rimanendo in piedi per grazia del soggetto – è paralizzata, ammutolita. Il soggetto autocosciente, il testo, agisce in quella regolando e caratterizzando il presente, il positivo della parola stessa. Addentrandoci nel racconto Worstward ho, il primo elemento di cui tenere conto è che lo spazio e gli oggetti descritti in esso sono subordinati al loro essere nominati. Certo, si tratta di un’accezione positivistica del linguaggio; ma il positivismo in questione è privo di concetto, perché, come dicevamo prima, elude le ragioni e le condizioni di possibilità del concetto. E questo, a sua volta, non perché non venga tollerata una causalità logica interna al dispiegarsi del testo nelle sue parole, ma perché la parola e il “concetto” al presente del testo non si possono più servire di quella storia, intesa come concatenazione teorica a partire da supposte ragioni sufficienti, di cui la coscienza filosofica ha scorto la fine. Il confronto tra Danto e Beckett può risultare fruttuoso soprattutto se concentriamo la filosofia dell’arte del primo intorno al mantenimento ed anzi al consolidamento del concetto di arte rispetto all’opera in sé. Partendo da questo presupposto, più forte appare il contrasto con Beckett, nonostante indubbiamente l’opera di questo si avvantaggi idealmente delle conseguenze del pensiero del filosofo. Giova qui tornare al libro di Danto in cui si definisce l’opera d’arte, ovvero La trasfigurazione del banale, e sottolinearne ancora una volta i debiti cognitivistici. È nel primo capitolo che Danto sostiene, facendo leva ed anche giocando a mescolare e far interagire tra di loro diversi esempi della storia dell’arte e della teoria dell’arte, che se anche ogni cosa non è un’opera d’arte, tuttavia può esserlo. L’opera d’arte soffre così di una certa asimmetria ontica, dovuta al fatto che – traducendo quanto appena detto – essa non è quel che è per quello che è, ma essa è quel che è per quello che può essere. Con questa trascrizione è più immediato il rilevamento del debito concettuale al fine di comprendere quella distanza tra i due indiscernibili (mero oggetto e opera d’arte) di cui parlavamo sopra a proposito di The Artworld: la comunicazione tra il fruitore e l’opera d’arte avviene in un ambiente già condizionato dal fatto che il primo sappia della distanza 125


tra questo ed una sua qualsiasi riproduzione “quotidiana”. Lo spettatore sa che c’è un elemento differenziale, anche se non lo conosce. Questo significa che la cognizione di un dato differenziale qualunque precede ogni verificabilità dello stesso, il che in ultima istanza conduce a ritenere l’opera d’arte tale già nella misura in cui la predicazione preceda la realizzazione materiale dell’ente che sarà un’opera d’arte: è questo, appunto, il motivo per cui l’arte (concetto) può essere senza le opere d’arte, mentre non può accadere il contrario. L’esperienza artistica non prevede la possibilità del riconoscimento del mero oggetto già a causa della sola parola: “artistica”. Tutto questo risultava espresso, nel saggio del 1964, con la frase: <<Vedere qualcosa come arte richiede qualcosa che l’occhio non può screditare – un’atmosfera di teoria artistica, una conoscenza della storia dell’arte: un mondo dell’arte>>85. Non sorprende a questo punto che la regina delle teorie <<che l’occhio non può screditare>> sia proprio la filosofia di Hegel, così fortemente ripresa in ogni luogo dell’opera di Danto. Il giudizio è ovviamente quello (negativo) di Karl Popper, secondo cui il sistema Hegeliano, non essendo falsificabile, non è neppure scientifico. In questo senso l’identificazione artistica secondo Danto non è falsificabile, poiché precedendo ed in un certo senso presupponendo l’oggetto-opera d’arte, essa non può essere smentita da alcuna osservazione condotta sulle proprietà dell’oggetto in sé. Certo, secondo Danto affinché questo avvenga l’artista – e, dall’altra parte, il fruitore – deve aver raggiunto un certo livello di coscienza di sé: non appena questo accade, ecco individuata la nuova condizione necessaria e sufficiente per l’opera d’arte. Con la differenza che il predicato rimane a tal punto slegato dal suo soggetto (l’oggetto-opera d’arte) da non aver bisogno di quello in particolare per compiere l’identificazione artistica di cui è causa. Possiamo recuperare in questa sede quanto detto in precedenza circa l’orizzontalità della ragione, e sua onnipotenza, aggiungendo che il concetto in questione, il predicato “è un’opera d’arte”, in virtù della sua dipendenza dalla sola autocoscienza filosofica, risulta estremamente vacuo dal lato oggettuale. E laddove Danto saluta con entusiasmo l’effimera onnipotenza della parola “arte” alla fine della storia, Beckett propone un utilizzo del linguaggio attraverso il quale forma e contenuto si ritrovino strettamente uniti senza rinnegare il passato logicamente significativo delle parole che vanno a comporre il testo.

85

Danto, The Artworld, op. cit., pag.580: To see something as art requires something the eye cannot decry – an atmosphere of artistic theory, a knowledge of the history of art: an artworld.

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Le differenze metodologiche linguistico-razionali tra i due autori rende necessaria una risposta a quella che consideriamo un’osservazione lecita. L’osservazione suona più o meno così: non si possono paragonare né il concetto di arte né quindi il predicato “è un’opera d’arte” ad alcun altro meccanismo linguistico-razionale, essendo quello che genericamente indichiamo come “il concetto di arte” l’unica tra le entità di questa sorta ad avvalersi dell’onnipotenza del linguaggio. Ogni altra parola, ogni altro predicato, ogni altra teoria persevererebbe nella proposizione estensiva e non intensiva del proprio significato: vale a dire che in nessun altro caso, tranne che per i predicati del tipo “m è arte” oppure “m è un’opera d’arte”, ritornerebbe la situazione di un predicato precedente l’ente significato. L’osservazione è, appunto, del tutto lecita, perché le parole di solito seguono i fatti, e non viceversa. All’autoreferenzialità che da qui discende dedicheremo il prossimo paragrafo, riallacciandoci ai cenni preliminari contenuti nella prima parte (si veda a pagina 69 e segg.). Ma occorre non dimenticare che è Danto stesso a concludere la propria ricerca dichiarando che l’arte nel corso del Novecento ha devoluto le sue prerogative al linguaggio, alla filosofia dell’arte. Di conseguenza, l’arte che viene predicata mediante quella filosofia, quel linguaggio, per il fatto di essere diventata, secondo Danto, quella predicazione stessa, non può sfuggire alle considerazioni mosse intorno alle parole che la istituiscono. Ora, il motivo per cui la prosa di Beckett mi ha affascinato a tal punto da farne una delle materie principali di questo lavoro, è stato l’essermi accorto di un certo “bipolarismo” della parola utilizzata per comporre il testo. Da un lato, essa si comporta alla stessa maniera della predicazione autocosciente, erigendosi presuntuosamente a unica causa e ragione di sé medesima. D’altro canto però, un tratto che accomuna i tre racconti Molloy, Company e Wortward ho, e che li caratterizza per un utilizzo innovativo della parola rispetto alla descrizione del linguaggio post-storico di Danto, è la scelta consapevole di recuperare una certa necessità logica come condizione affinché la parola si mostri, forte dell’unità che essa viene ora a formare con le altre sue pari del racconto – e quindi del passato. L’enigmaticità della loro disposizione, della loro grammatica e sintassi mi sembrava foriera di spunti per una riflessione sull’arte in generale, non solo alla maniera di una critica contenuto-stilistica. Perché se una narrazione e una descrizione dell’arte non sono più possibili, pur continuando a essere prodotta in tutto il mondo una gran quantità di arte, allora il “tipo” di arte a cui dovremmo rivolgerci è la letteratura. Lì potremmo trovare il materiale – artistico, secondo quanto sostiene Danto – 127


per quello che la nostra coscienza filosofica non è più in grado di indicare con il nome di arte. Il paragone tra i mezzi di comunicazione dell’arte qui discussi ci proietta dunque nella prospettiva di una scelta: la filosofia, ed il linguaggio in generale, può rivolgersi alla potenza (ed anzi, all’onnipotenza) del concetto e farla sua, postulando che ad un certo punto della storia l’arte coincida con il conferimento della massima potenza al pensiero. Oppure la filosofia può affermare la forza della parola, capace allora di segnalarsi come ente presente, al contempo rispettando e comprendendo ciò di cui essa predica. Per farlo essa è costretta ad abbandonare la pretesa di essere strumentale unicamente alla propria affermazione.

Fine della storia e fine della comunicazione. Ritorniamo per un momento alla “struttura storica” del concetto di arte. Scrive Danto a pagina 13: <<Recentemente la gente ha iniziato a percepire che gli ultimi venticinque anni, un periodo di grandiosa produttività sperimentale nel campo delle arti visive privo di una singola direzione narrativa sulla base della quale poter escludere le altre, si sono stabilizzati come norma>>. Risulta evidente che se sussiste ed anzi incrementa (almeno in un certo rispetto) la produzione artistica, ma allo stesso tempo non possiamo affidarci completamente ai concetti e ai nomi che abbiamo in possesso per l’arte, il problema riguarda proprio le parole, e non tanto “l’arte in sé”. Se <<nella misura in cui concerne le apparenze (sensibili), qualsiasi cosa può essere un’opera d’arte>>86, allora il rischio è quello che, ferma restando la presenza di una certa forma di arte, l’uomo ammutolisca accettando passivamente l’appropriazione di un concetto (“arte”) unicamente perché l’autocoscienza soggettiva ne dà la possibilità. Di qui la già discussa devoluzione delle prerogative esteticoteoriche dell’arte alla filosofia. Quando il pensiero si avverte come fatto storico è soggetto all’azione revisionista del presente che tende ad appropriarsi del passato perseverando così nella propria concettualizzazione sulla scorta di quello. Eppure i meccanismi storici

86

After the end of art, op. cit.: Recently people have begun to feel that the last twenty-five years, a period of tremendous experimental productiveness in the visual arts with no single narrative direction on the basis of which others could be excluded, have stabilized as the norm … It meant that, as far as appearances were concerned, anything could be a work of art.

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conducono ad un’impasse comunicativa se riproposti per un pensiero cosciente del proprio presente. Un cliché filosofico è già quello di muoversi alla fine della storia alla ricerca di un concetto laddove tutto è già stato concepito come possibile. La teorizzazione dell’infinita possibilità accordata all’intero gruppo di enti che compongono il mondo dell’arte si ripercuote immediatamente sul contenuto di verità del concetto in questione. <<Non c’è davvero un’arte più vera di qualsiasi altra, e non c’è una maniera in cui l’arte deve essere: tutta l’arte è ugualmente e indifferentemente arte 87>>. La verità dell’arte non è più da ricercarsi in un unico ente, come l’arte Moderna prescriveva coi suoi manifesti: il concetto di arte può applicarsi a qualunque cosa purché il soggetto sia cosciente del proprio concepimento concettuale. Nel concepire un contenuto di verità comune a tutta l’arte Danto riprende quanto teorizzato da Wittgenstein nel Tractatus Logico-Philosophicus, così riallacciandosi ai giudizi polemici riservati a Hegel da parte di Popper. Danto però intende affermare la non verificabilità dell’arte, al pari della non verificabilità della filosofia, al di là del <<grido di battaglia del movimento logicopositivista,

che

si

votò

all’estirpazione

dell’intera

metafisica

dimostrandone

l’insensatezza88>>, che dall’opera di Wittgenstein prese, appunto, le mosse. Danto offre una breve ma interessante ricognizione di come i filosofi della sua generazione erano venuti a doversi inevitabilmente confrontare con il positivismo logico, e come gli sviluppi successivi a questo incontro-scontro abbiano inciso sui lavori immediatamente successivi. Il criterio di verificabilità del significato stava ad indicare – e ciò suona meraviglioso in Tedesco – die Uberwindung der Metaphysik. E questo era quello che ci insegnavano. Ciò lasciava alla filosofia davvero poche opzioni … Wittgenstein stesso invitò [ad abbandonare la filosofia e dedicarsi ad un lavoro onesto] quelli che si raccolsero intorno a lui, ed egli in effetti tentò di farsi una posizione come impiegato in Unione Sovietica. Il resto di noi si preoccupava di predicati disposizionali, definizioni ponte, condizionali controfattuali, riduzione, assiomatizzazione, e somiglianza alla legge … I positivisti continuarono a insistere su tutto questo come se dovesse essere vero e fatale, ma alla fine, eccetto come stratagemma intimidatorio, cessò di essere interessante. Eppure, la filosofia procedette come se fosse vero …

87

Danto, op. cit., pag. 34: But the true philosophical discovery, I think, is that there really is no art more true than any other, and that there is no one way art has to be: all art is equally and indifferently art. 88 Ibidem: This view was transformed into a battle cry by the logical positivist movement which vowed the extirpation of all metaphysics through demonstrating its nonsense.

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Nei primi anni Sessanta qualcosa di simile accadde in arte: diventò obbligatorio, per quanto un’opera d’arte fosse concepita come sovversiva dell’espressionismo astratto, che essa fosse macchiata e sgocciolata con della vernice … Il verificazionismo in filosofia fu molto simile al modernismo nella teoria artistica, vietando certe cose, costringendo un’accettabile pratica artistica in canali accettabili, e definendo il modo in cui la prassi critica doveva essere strutturata.89

Prendendo le distanze da questo atteggiamento, difendendo il diritto di parola delle teorie dell’arte e della filosofia, Danto dichiara che niente può essere lasciato fuori dalla teoria – in un certo senso – dopo che questa ha centrato la domanda più opportuna per l’arte. <<La vera forma della domanda … è: cosa rende differenti un’opera d’arte e qualcosa che non è un’opera d’arte quando tra loro non sussiste un’apprezzabile differenza percettiva?90>>. Dopo ogni indagine alla ricerca della vera arte, la scoperta della <<vera forma della domanda>> fa sì che la teoria sia onnipotente, anche se non ha più senso dopo la fine della storia. La speculazione filosofica è onnipotente poiché l’oggetto dell’indagine viene disarmato di quel contenuto unico di verità che faceva di esso una condizione per il movimento (cioè per il senso) della storia. <<Un segno del fatto che l’arte sia finita è che non ci sia più alcuna struttura oggettiva con uno stile definitorio, o, se si preferisce, che ci sia una struttura storica oggettiva nella quale tutto è possibile. Se tutto è possibile, niente è storicamente condizionato: una cosa è, così per dire, valida come l’altra. E questa è, secondo la mia opinione, la condizione oggettiva per l’arte post-storica91>>. Ma everything is possible è, appunto, una frase pronunziata da un soggetto che si ponga al di fuori della presenza storica, in quanto contenuto razionale. E quel con-tenuto non può con-tenere il soggetto: è l’alternativa ineliminabile tra un ente e l’Altro. Perciò l’affermazione di Danto 89

Danto, op. cit., pagg. 142-143: The thought was that the verifiability criterion of meaningfulness meant – and it sounds marvelous in German – die Uberwindung der Metaphysik. And that is what we were taught. This gave philosophers very narrow options … Wittgenstein himself urged this on those who got close to him, and he in fact tried to get a position as an industrial laborer in the Soviet Union. The rest of us worried about dispositional predicates, bridge definitions, counterfactual conditionals, reduction, axiomatization, and law-likeness … The positivists continued to insist upon it as if it were true and fatal, but finally, except as a stratagem of intimidation, it stopped being interesting. Still, philosophy proceeded as if it were true … In the early 1960s something like this happened in art: it became obligatory, however subversive of abstract expressionism one meant one’s work to be, that it be dribbled and dripped over with paint … Verificationism in philosophy was very like modernism in artistic theory, forbidding certain things, constraining acceptable artistic practice in acceptable channels, and defining the way critical practice was to be structured. 90 Op. cit., pag. 35. Vedi anche sopra, pag. 49. 91 Op. cit., pag. 44: one mark of art having ended is that there should no longer be an objective structure with a defining style, or, if you prefer, that there should be an objective historical structure in which everything is possible. If everything is possible, nothing is historically mandated: one thing is, so to say, as good as another. And that in my view is the objective condition for post-historical art.

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secondo cui <<viviamo e produciamo entro l’orizzonte di un periodo storico chiuso 92>> appare poco conciliabile con il fatto di trovarsi al di fuori di quel periodo storico, a meno che l’orizzonte di cui si parla non mantenga anch’esso le condizioni per le quali una precedente struttura storica veniva dichiarata chiusa, terminata. Allora equivarrebbe a dire che il presente post-storico ha già subìto l’ispezione dell’occhio teorico che ne ha dichiarato la finitezza, fornendone un concetto e, paradossalmente, consegnandolo al passato. Con questo introduciamo una questione, perché no, metafisica intorno al problema: c’è spazio alla fine della storia? Danto sostiene con forza la possibilità da parte della produzione e della ricerca artistica in generale di muoversi in infinite direzioni, offrendo così all’arte il grado più elevato di libertà mai raggiunto. A questo riguardo, l’arte a partire dagli anni Sessanta ha davvero eguagliato la filosofia, perché come questa è andata avanti evolvendosi noncurante dei divieti posti alla metafisica dal positivismo logico, così l’arte ha scavalcato ogni muro eretto a difesa della fedeltà materica dalle più avanzate propaggini del Modernismo. Ora che la necessità dell’arte – per usare il tanto citato Hegel – si è trasferita nella filosofia, questa ha stabilito la necessità delle multiformi possibilità di quella, possibilità che l’arte ha saputo conquistarsi affrancandosi dai costrutti narrativi del Modernismo. Dobbiamo però soffermarci a guardare da vicino cos’è la libertà che l’autocoscienza filosofica ha donato all’arte in questi ultimi decenni, perché rischiamo di festeggiare una sconfitta. Gli artisti si possono muovere ad inventare e scovare metodi innovativi e sempre nuove applicazioni per ciò che producono, nonché nuovi modi di coinvolgere il pubblico e di essere da questo giudicato, così come nuovi spazi in cui esporre le proprie opere. Ma facendo quello che vogliono non possono pretendere nulla dal resto del mondo. La massima libertà produttiva ed espressiva degli artisti non può chiedere altro alla comunicazione, alla teoria: essa è rimasta indietro, ferma sul confine della storia, nel punto esatto in cui ha dichiarato che – per quanto riguarda l’arte – <<everything goes>>, e ciò basti. Certo, gli artisti non se ne possono lamentare, finché non abbiano intuito a cosa stia conducendo questa loro libertà. L’intuizione non sarà allora dell’artista in quanto artista, ma in quanto uomo. Le istituzioni del mondo dell’arte, comunque, resistono solide nelle loro posizioni. Resiste il Museo di arte Moderna o Contemporanea; resistono ed anzi si moltiplicano e si ampliano le Mostre, le Fondazioni, le Scuole; il mondo dell’arte si allarga 92

Ibidem: we live and produce within the horizon of a closed historical period.

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fino ad abbracciare il design, le Biennali sono cosa internazionale, ogni anno una nuova città annuncia il proprio festival del Cinema e gli allievi delle Accademie conseguono ipso facto il diploma di Artista. Davvero le dimensioni spaziali del mondo dell’arte sembrano espandersi infinitamente, ed il fatto che ad ogni angolo spuntino nuove forme d’arte viene salutato come una riprova di questo allargamento, una riprova della sempre maggiore libertà degli artisti. L’arte diventa il capolavoro con cui la filosofia istituisce uno spazio tra l’intero e l’uno, tra il “mondo reale” e il mondo dell’arte. La filosofia dell’arte individua, nell’indeterminato del tutto, qualcosa di cui essa stessa segna la differenza con il resto del mondo in virtù di un concetto: l’esistenza di una struttura storica oggettiva in cui tutto è possibile. Qui si innesca tuttavia un processo molto pericoloso al fine della comunicazione tra i due supposti lati. Il manufatto artistico viene tenuto in vita dalla filosofia, che ha sostituito ogni possibile “perché” (in senso finalistico) di quello, con il suo essere “a causa di” quel medesimo pensiero onni-potente. Si può parlare dell’esistenza di una ricca produzione artistica, sì, ma non è possibile descriverne le peculiarità, al di là dei suoi fondamentali debiti nei confronti di un certo pensiero sull’arte. Se esiste uno spazio affinché nuova arte nasca e muoia, esso non è descrivibile all’esterno del mondo dell’arte. Così ogni proposta concettuale, ogni programma proveniente dall’interno di quel mondo, ancorché libera di essere fatta e poi messa in atto, viene disarmata e resa inefficace dalla frontiera instaurata dalla riflessione che l’arte compie su di sé. Come si può celebrare la libertà dell’arte quando le sue possibilità non hanno ripercussioni su altro ente fuorché se stessa? L’autocoscienza filosofica dell’arte non può trascurare la presenza condizionante del soggetto razionale: esso determina allo stesso tempo l’onnipotenza teorica e storica e l’im-potenza del concetto al presente. Questo significa che mai come nel periodo post-storico l’arte è andata alla ricerca di un collocamento storico e ne è stata da questo condizionata. Inoltre, così sublimata nella propria filosofia, l’arte ha perduto ogni capacità pratica: il legame con la tecnica, che nel periodo Moderno ancora persisteva come affermazione della propria essenza normativa da parte dell’opera d’arte, si è definitivamente sciolto. Danto in realtà, nell’affermare la vitalità della pittura e dell’arte in generale anche dopo la fine della validità di ogni criterio narrativo, dice che <<la pittura, liberata dal modernismo, possiede tante funzioni e può essere prodotta in tanti stili quante sono le immaginabili finalità che può servire la pittura – 132


inclusa, per chi ne sia interessato, la semplice creazione di oggetti belli oppure di oggetti che prolunghino i fili consunti di un’estetica materialistica alla maniera, per esempio, di Robert Ryman93>>. Siamo tornati così a conferire all’arte i più diversi scopi, alla maniera dell’epoca pre-Moderna, quando essa poteva decorare gli interni dei palazzi (con il Rococò) oppure muovere l’animo del devoto durante la Controriforma. Con la differenza che l’arte non ha bisogno di nessuno scopo in particolare affinché essa sia quello che già è, dal momento

che

la

propria

affermazione

è

garantita

dall’essersi

auto-compresa

filosoficamente. Se esiste, come crediamo, un elemento destabilizzante in questa caratterizzazione dell’arte contemporanea, esso è di natura linguistico-concettuale. Non le opere d’arte, quanto la parola d’arte è infatti oscura e superflua per gli uomini; e questo comporta uno spaesamento dell’uomo nei suoi rapporti con il mondo, perché affrancata da ogni dovere tecnico, sicura e libera nel mondo teorico che ha preso il suo posto, la parola “arte” non serve più all’uomo. Così istituita (o destituita) dalla storia come storia del pensiero, a rendersi opaca non è stata tanto l’arte intesa come ammasso di oggetti più o meno inermi e più o meno colorati, quanto la comunicazione intorno ad essa. Non dice forse questo Danto già ne La trasfigurazione del banale? Nel settimo capitolo si dice infatti che l’opera d’arte è retorica, e che essa tematizza la propria operatività rappresentazionale: qualsiasi contenuto abbia, l’opera d’arte esprime qualcosa a proposito di esso, ne fa cioè un tema a proposito del quale affermare qualcosa con uno stile peculiare. In questo modo anche il diagramma può essere un’opera d’arte, poiché, nella misura in cui conosce il proprio contenuto, può diventare metafora di quello che mostra. L’opera d’arte, a differenza della rappresentazione non artistica, è opaca nella misura in cui esprime qualcosa sul contenuto che mostra: <<Per ogni rappresentazione che non è un’opera d’arte si può trovare una rappresentazione identica che lo è: la differenza tra le due risiede nel fatto che l’opera d’arte usa il modo in cui la non-opera d’arte presenta il suo contenuto per affermare qualcosa a proposito del modo in cui quel contenuto viene presentato94>>. L’opera d’arte, dal momento che è metafora, retorica, stile, espressione, non è forse, in generale, una comunicazione? Se poi la 93

Danto, op. cit., pag. 149: But as Philip Guston demonstrated, painting, liberated from modernism, has as many functions and can come in as many styles as there are imaginable ends for painting to serve – including, for those interested in it, just the making of beautiful objects or the making of objects which draw out the attenuated attention of a materialist aesthetics in the manner, say, of Robert Ryman. 94 Danto, La trasfigurazione del banale, op. cit., pag. 178.

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definiamo “opaca”, in un certo modo significa che di quella parola non ce ne possiamo servire come delle altre: essa non oltrepassa i propri confini, ma si rivolge a sé caratterizzando le modalità della propria presentazione – questo sembra essere in definitiva il senso del carattere “intensionale” dell’opera d’arte ne La trasfigurazione95. La combinazione di questa definizione del prodotto dell’artista con quanto detto circa l’intero concetto di arte post-narrativa, ovvero l’assenza di una caratteristica peculiare all’arte oggigiorno, trasferisce la “aproposità” teorizzata in quell’opera dall’oggetto al concetto di arte. Dopo la fine dell’arte, è il concetto di arte ad essere opaco e “circa se stesso”; è tutta l’arte ad essere quindi un “contesto intensionale”. A questo riguardo appare pertanto necessario abbandonare l’arte in quanto concetto e trovare una soluzione allo scopo di relazionarsi in maniera appropriata con gli enti frutto del movimento di autocoscienza dell’arte.

La comunicazione alla fine della storia. Danto in ultima analisi costringe non tanto ad una critica della storia dell’arte, quanto dapprima ad una critica della teoria, della filosofia dell’arte; infine, per far fronte all’onnipotenza conscia di sé di tale parola dell’arte, dobbiamo spenderci in una critica dell’elemento concettuale in sé. Abbiamo così enunciato la dipendenza totale di ogni giudizio sull’arte dalla “struttura storica oggettiva in cui tutto è possibile”: la parola dell’arte. In conclusione dobbiamo affrontare la fine della storia dell’arte a partire da un elemento basilare: l’arte finita; questo concerne non soltanto la fine della validità del concetto – l’opacizzazione dell’arte –, ma pure l’impegno del soggetto-artista ad aderire alla finitezza dell’ente-opera d’arte. La testimonianza di questo impegno è fornita da alcune manifestazioni artistiche le cui modalità superano l’impasse comunicativa a cui costringe l’arte contemporanea se ci si accontenta di darne una giustificazione “possibilista” alla maniera di Danto. In questo modo impediamo la comunicazione al momento del

95

L’autore stesso, come visto, ha bollato come insufficienti le tesi intorno all’opera d’arte contenute nel libro del 1981; ma nella sua ultima opera non le rinnega, piuttosto sviluppa una teoria di più ampio respiro a partire da esse.

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raggiungimento di un livello di autocoscienza teorica dell’ente. A nostro avviso una delle cause originarie del blocco si cela nell’attinenza al ragionamento sulla struttura storica anche dopo la fine dell’arte. Proviamo a pensare (se tutto è possibile …) che finita la storia non c’è movimento: finita la storia c’è il presente sempre fermo alla fine della storia. In questo luogo il significato principale da intendersi è Storia (history) perché è da supporsi anche senza il racconto (narrative). Stiamo qui richiamando alla mente la critica che abbiamo fatto all’affermazione di Danto secondo cui noi siamo parte di quella struttura storica nel suo valore già verificato dalla nostra attività teorica di infinita possibilità. Così scindiamo il concetto, chiuso, dall’ente, che viene dichiarato allo stesso tempo chiuso e indeterminato. Allora lasciamo che l’ente condivida lo stesso presente, inteso come necessità, con la totalità dell’essere rilevandone il concetto ma rinunciando a conciliarsi con esso. Secondo il nostro parere occorre ingaggiare una comunicazione differente rispetto a questa imperniata sul concetto (ad es. di “arte”) di cui ora è necessario e sufficiente predicare che “c’è”. Perché questa predicazione – sinonimica di <<everything goes>>, dopotutto – non viene fatta propria dal dialogante, che è l’altro, nonché il primo ente autocosciente, l’uomo. Non appena <<la natura filosofica dell’arte ha raggiunto un certo grado di coscienza96>> si pone il problema di affrontare il mondo, la cui necessità del presente è eterna, assecondando questa e non più la necessità storica e teorica (nella maniera in cui abbiamo visto) finita. Questo perché non si capisce come si dichiari l’arte “libera” in virtù del fatto che non debba più obbedire ad alcuna teoria-storia dell’arte, o perché si debba preferire una tale condizione: se esistono certe necessità da cui non si può prescindere (aldilà di quelle razionali, finite), il valore individuale va cercato sulla base della finitezza individuale, all’interno della necessità, unica, dell’intero presente. I testi di Beckett che abbiamo nominato offrono validi spunti analogici per una comunicazione che, partendo dall’accettazione della propria finitezza come ente, sia espressione di unicità e individualità non sullo sfondo di un vuoto ontologico, di uno spazio ricalcato dal “nulla” che dà forma alla possibilità, bensì accettando tutto ciò che ne caratterizza la necessità in quanto com-presente. Un concetto derivato dall’appartenenza ad una struttura storica entro la quale “tutto è possibile” è un concetto del tutto inutile,

96

Danto, op. cit., pag. 140: That narrative ended when the philosophical nature of art attained a certain degree of consciousness.

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superfluo, allo scopo della conciliazione comunicativa; esso con-tiene infatti un con-tenuto di cui si è consapevoli dell’illusorietà: la possibilità di essere, mentre esso è, finito. Fare di un concetto la forma della possibilità significa letteralmente “parlare di nulla”, ovvero affermare un movimento dialogico tra soggetto (ente) e nulla, tra io e non-io, pur coscienti della propria posizione presente e ferma in antitesi a quel movimento storico, di cui si conosce la fine. Non è forse alienato l’uomo che parla un linguaggio che reiteri siffatta disparità storica, una siffatta com-presenza non conciliata? Beckett indica una strada a questo proposito, una strada limitata e modesta eppure saldissima sulla quale far transitare il messaggio tra i due enti. <<Niente eccetto fanghiglia (su) come (non ci sia) niente, eppure97>> … eppure quella fanghiglia che sono le parole nel testo c’è e racconta una storia, che per quanto sgangherata sia ha una sua dignità ontica. Un racconto che inizia dichiarando che esso procederà <<Avanti. Dico avanti. Sia detto avanti. In qualche modo avanti. Finché in nessun modo avanti. (Finché non sia) Detto in nessun modo avanti98>>. Cioè fino a che esso non avrà più modo di procedere, ovvero fino alla parola (del racconto) che si e lo autolimita: <<In nessun modo avanti. Detto in nessun modo avanti99>>. Il racconto si chiude così infatti, con la parola che dice la propria fine. Non è questa un’innegabile sconfitta del nulla, consapevolmente supposto al fine di concettualizzare l’onnipotenza del concetto dopo la fine della storia? Beckett ci assicura che la comunicazione dell’essere autocosciente è salva. Perché l’ente che sa di essere una parola è finito, unico ed eterno; esso non dimentica di articolarsi “nohow on in pastless now”, parafrasando. Possiamo quindi parlare di “nulla” senza che l’essere ne venga scalfito, fermo restando l’acconsentimento ad un coinvolgimento nella parola da parte del parlante al fine della caratterizzazione presente dell’ente. Questa appare allora una profonda e tragica sconfitta della teoria, che, in linea con un latente antropocentrismo, persisteva nella supposizione della propria dipendenza causale – quindi spaziale e temporale – da un ente estraneo che ne considerasse “maliziosamente” un’altra possibile interpretazione. Di fronte alla scoperta, o all’invenzione, dell’ambiguità del valore di verità del concetto, gli enti del linguaggio smettono di aderire alla logica costruita su una loro necessità storica (perciò rappresentabile in una storia imperniata su di criterio narrativo indagabile), per ammettere la necessità di 97

Beckett, Worstward ho, in op. cit., pag. 115: Nothing but ooze how nothing and yet. Op. cit., pag. 89: On. Say on. Be said on. Somehow on. Till nohow on. Said nohow on. 99 Op. cit., pag. 116: Nohow on. Said Nohow on. 98

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una loro partecipazione al presente. Non è forse questo il fallimento cercato da Beckett in Worstward Ho? Una maledizione per la parola, la stessa maledizione che il poeta riserva alla ginestra: come questa è <<contenta dei deserti>>, così quella di Beckett è una fanghiglia di parole che nel vuoto dicono come non ci sia niente. La sconfitta del concetto “storico” da parte dell’essere è la condanna del pensiero a pensare. E per quanto riguarda gli altri enti, tra cui l’opera d’arte (finita), a non accontentarsi delle possibilità fornite dal concetto, ma a comprendere seriamente come un certo grado di coscienza di sé li inserisca nella catena di necessità del mondo – non del mondo del concetto, non del mondo dell’arte. L’opera d’arte, cosciente di sé, deve accettare la necessaria compresenza degli enti; nel caso di un’opera letteraria, essa deve realizzare, nella sua totalità, un gioco di continui rimandi causa-effettuali tra le parole e l’intero al cui interno esse sono concepite (la dialettica devised-deviser di Company), analogamente alle cause e agli effetti che costituiscono la necessità dell’opera intera nei confronti degli altri enti, “esterni”, “quotidiani” o “oggettuali”. Il testo è gravido di esempi in questo senso: Prima il corpo. No. Prima il luogo. No. Prima entrambi. Ora l’uno. Ora l’altro. Stanco dell’uno prova l’altro. Stanco di esso torna stanco dell’uno. Così avanti. In qualche modo avanti. Finché stanco di entrambi. Vomita e vai. Dove nessuno dei due. Finché stanco di là. Vomita e indietro. Il corpo ancora. Dove nessuno. Il luogo ancora. Dove nessuno. Prova ancora. Fallisci ancora. Meglio ancora. O meglio peggio. Fallisci peggio ancora. Ancora peggio ancora. Finché definitivamente stanco. Vomita definitivamente. Vai definitivamente. Dove nessuno dei due definitivamente. Per sempre.100

In questo modo la narrazione diventa la metodologia di se stessa: l’essere del concetto, della parola, del testo è una metodologia del proprio essere. Questo è evidente nel caso di un’opera letteraria, in cui le parole dichiarano la loro appartenenza all’ente-racconto intero. Ci permettiamo, al fine di una migliore comprensione del carattere che si vuole valorizzare, di riportare un’intera pagina.

100

Op. cit., pag. 90: First the body. No. First the place. No. First both. Now either. Now the other. Sick of the either try the other. Sick of it back sick of the either. So on. Somehow on. Till sick of both. Throw up and go. Where neither. Till sick of there. Throw up and back. The body again. Where none. The place again. Where none. Try again. Fail again. Better again. Or better worse. Fail worse again. Still worse again. Till sick for good. Throw up for good. Go for good. Where neither for good. Good and all.

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Testa sprofondata su mani storpie. Occhi fissano sbarrati. Le ombre nel vuoto fioco. Una in piedi a riposo. Un vecchio e bambino. A riposo si trascinano avanti. Chiunque altro farebbe così male. Quasi chiunque. Quasi così male. Svaniscono. Ora l’una. Ora l’altra. Ora entrambe. Riappaiono. Ora l’una. Ora l’altra. Ora entrambe. Svaniscono? No. Improvvisamente andate. Improvvisamente indietro. Ora l’una. Ora l’altra. Ora entrambe. Immutate? Improvvisamente tornate immutate? Sì. Dico di sì. Ogni volta immutate. In qualche modo immutate. Finché no. Finché non dico no. Improvvisamente tornate cambiate. In qualche modo cambiate. Ogni volta in qualche modo cambiate. La penombra. Il vuoto. Andati anch’essi? tornati anch’essi? No. Dico di no. Mai andati. Mai tornati. Finché sì. Finché non dico sì. Andati anch’essi. Tornati anch’essi. La penombra. Il vuoto. Ora l’uno. Ora l’altro. Ora entrambi. Improvvisamente andati. Improvvisamente tornati. Immutati? Improvvisamente tornati immutati? Sì. Dico di sì. Ogni volta immutati. In qualche modo immutati. Finché no. Finché non dico di no. Improvvisamente tornati cambiati. In qualche modo cambiati. Ogni volta in qualche modo cambiati.101

Il risultato che l’autore raggiunge impiegando questo modello linguistico è quello di travalicare i confini dell’opera per inserirla nella dialettica abituale autore-personaggiolettore-personaggio; tuttavia, il valore che si staglia sullo sfondo dei rilevamenti stilistici è quello di un’armonia molto profonda che accomuna tutti i gradi di partecipazione all’opera mediante la fiducia nel valore unitario dell’ente. I “gradi” che partecipano all’opera sono, appunto, i diversi momenti di realizzazione di quella: l’immaginazione dello scrittore, il concretarsi della parola, la grammatica testuale, la lettura, il colorito sentimentale che essa assume al contatto con l’esterno, eventualmente. I gradi sono ovviamente enumerabili a piacere, e diversamente accettabili. Quello che importa sia condiviso è che l’armonia che emerge dal testo è incarnata in ogni componente individuale dell’opera che di volta in volta viene analizzato, nella misura in cui di esso si rammenta la necessità presente, coinvolgendolo quindi in un dialogo che superi il suo passato. Astraendo dalla narrazione Beckettiana, quando Danto insegna a confidare nell’arte che tutto può va lui tributata la giusta attenzione, essendo ogni teoria giusta e degna di riempire lo spazio con cui 101

Op. cit., pag. 94: Head sunk on crippled hands. Clenched staring eyes. At in the dim void shades. One astand at rest. One old man and child. At rest plodding on. Any others would do as ill. Almost any. Almost as ill. They fade. Now the one. Now the twain. Now both. Fade back. Now the one. Now the twain. Now both. Fade? No. Sudden go. Sudden back. Now the one. Now the twain. Now both. Unchanged? Sudden back unchanged? Yes. Say yes. Each time unchanged. Somehow unchanged. Till no. Till say no. Sudden back changed. Somehow changed. Each time somehow changed. The dim. The void. Gone too? Back too? No. Say no. Never gone. Never back. Till yes. Till say yes. Gone too. Back too. The dim. The void. Now the one. Now the other. Now both. Sudden gone. Sudden back. Unchanged? Sudden back unchanged? Yes. Say yes. Each time unchanged. Somehow unchanged. Till no. Till say no. Sudden back changed. Somehow changed. Each time somehow changed.

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l’interpretante deve necessariamente confrontarsi. Ciò nonostante ad essa attribuiamo un contenuto di verità di diversa sorta: essa è infatti comunicabile soltanto se il soggetto giudicante si presenta come individuo intero nel far proprie le ragioni di quella. La verità del mondo è una caratteristica della parte che ne parla. Il concetto di arte finita è vero nella misura in cui esso ha una parte non trascurata dal soggetto nel dialogo con un suo interlocutore. La sua insufficienza dipende però dalla parzialità dell’autonomia con cui si presenta: esso non è infatti l’unico terminale di un percorso storico che si manifesta in quel concetto soltanto; bensì si trova nel presente a dover negoziare le proprie ragioni con gli altri enti: predicati, soggetti o meri oggetti che siano – perché di lei abbiamo detto (con Danto) che ha raggiunto un certo grado di coscienza di sé. E questo grado del quale la comunicazione deve tener conto non è stato ottenuto, per così dire, nel e dal concetto soltanto: esso è emerso come movimento dell’intera compagine ontica, di cui, piuttosto, esso rappresenta un simbolo. Tradotto nel linguaggio Beckettiano, il contenuto negativo e negante, personaggio del suo racconto, deve negoziare continuamente la propria presenza con le altre entità nel racconto: con la grammatica, con la fonte del messaggio e con i problemi strutturali del testo. <<Di chi le parole? Chiedo invano. O non invano se dico non (c’è) conoscere. Non dire. Non parole per colui di cui le parole102>>. Questo gioco di rimandi è sottolineato in un passaggio in cui l’autore tocca il tema profondo e di sapore metafisico della “fine delle parole”; da questo cogliamo da nuova prospettiva uno dei temi toccati nel nostro lavoro, e cioè l’unicità ontica del concetto, da una parte, e della parola dall’altra. Della parola, che è nel nostro presente, non si può dire l’assenza: né, da qui, si può dire la nostra.

Cosa quando le parole andate? Nessuno per ciò che allora. Ma dico andando in qualche modo avanti in qualche modo a che fare con la vista. Con meno di vista. Ancora penombra e tuttavia –. No. In nessun modo così avanti. Dico meglio (o) peggio le parole andate quando in nessun modo avanti. Ancora penombra e in nessun modo avanti. Tutto veduto e in nessun modo avanti. Quali parole per ciò che allora? Nessuno per ciò che allora. Non parole per ciò che quando le parole andate. Per ciò che quando in nessun modo avanti. In qualche modo in nessun modo avanti.

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Beckett, op. cit., pag. 98: Whose words? Ask in vain. Or not in vain if say no knowing. No saying. No words for him whose words.

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Parole peggioratrici di chi sconosciuto. Da dove sconosciuto. Ad ogni costo sconosciuto. Ora per dire nel peggiore in cui possono loro soltanto loro soltanto. Penombra vuoto ombre tutto esse. Niente eccetto ciò che dicono. In qualche modo dicono. Niente eccetto loro. Ciò che dicono. Di chiunque da qualunque dicano. Alla peggio potrebbero fallire sempre a dire il peggio.103

Queste poche pagine rappresentano un modello di comunicazione la cui manifestazione si lascia alle spalle i confini dell’artistico per entrare nel mondo sotto forma precettistica. L’arte, giunta ad un adeguato livello di autocoscienza, si offre nella sua essenza concettuale (rispettando l’apporto Dantiano per la sua presentazione) nuovamente come tecnica, la cui forza è compresa da colui che osserva solamente attraverso un movimento di ripetizione della consapevolezza ontica propria del soggetto che si ha di fronte. Questo è presentato dalle parole, capaci sempre di comparire al presente di chi riceve il messaggio, ripetendo in loro la sua consapevolezza di essere (necessariamente) presente. Al punto che esse non sono sottoponibili a domande che le descrivano: il valore della loro presenza (necessariamente) verbale non è dichiarato ma dichiara di comprendere le opposte alternative. Se chi riceve il messaggio può prescindere dalla teoria intorno alla presenza di cui si parla, il medesimo non può prescindere dalla semplice sua presenza, quale che sia il valore. <<… Lo stesso stretto vuoto. Davanti agli occhi che fissano. Dove sarebbe anch’esso se non anche lì? Non chiedo. No. Chiedo invano. Meglio (o) peggio così>>104. La duplicità compresa dall’individuo-parola – il “vuoto stretto” che c’è senza sapere per quale motivo, positivo o negativo che sia – è presente nella ripetizione del suo metodo comunicativo da parte del soggetto che parla. Il travalicare la sfera dell’artistico, la dimensione spaziale e temporale di una narrazione la cui unicità è solitamente prestabilita anzitempo dal soggetto che la giudica, senza così attendere le testimonianze della coscienza personale di quella, giunge ad entrare in contatto con l’Altro. La meta dell’incedere è simboleggiata dalle entità della narrazione stessa (prendiamo ad es. Company), come quando essa si rivolge direttamente al lettore (si veda sopra), oppure prova a nominarlo e 103

Op. cit., pag. 104: What when words gone? None for what then. But say by way of somehow on somehow with sight to do. With less of sight. Still dim and yet –. No nohow so on. Say better worse words gone when nohow on. Still dim and nohow on. All seen and nohow on. What words for what when words gone? For what when nohow on. Somehow nohow on. Worsening words whose unknown. Whence unknown. At all costs unknown. Nor for to say as worst they may only they only they. Dim void shades all they. Nothing save what they say. Somehow say. Nothing save they. What they say. Whosesoever whencesoever say. As worst they may fail ever worse to say. (enfasi mia). 104 Beckett, op. cit., pag. 97: The same narrow void. Before the staring eyes. Where it too if not there too? Ask not. No. ask in vain. Better worse so.

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conclude descrivendone il tratto in comune con l’ente-parola: l’unicità. <<Perché perché o? Perché in un'altra oscurità o nella stessa? E di chi è la voce che domanda questo? Chi domanda, Di chi è la voce che domanda questo? E risponde, Di chiunque concepisce il tutto. Nella stessa oscurità della sua creatura o in un’altra. Per compagnia. Chi chiede alla fine, Chi chiede? E alla fine risponde come sopra? Ed aggiunge tempo dopo a se stesso, A meno che un altro ancora. Da trovare in nessun posto. Da cercare in nessun posto. L’impensabile ultimo di tutto. Innominabile. Ultima persona. Io. Lascialo in fretta105>>. L’enigma di una compagnia cercata nell’immaginazione dall’io, dall’individuo, è il simbolo del modo in cui la comunicazione dell’ente, altro rispetto a chi parla, debba necessariamente risolversi nel com-presente del “soggetto” e dell’ “oggetto”. Ecco perché il fatto di lasciare che sia un concetto di arte per la quale tutto va bene a rappresentare il limite narrativo per i fatti “artistici”, non aiuta a parlare del tema “l’arte dopo la fine dell’arte”. Il concetto così descritto rimane un testimone muto dell’evoluzione di certe pratiche e della comparsa di altre. Ma ad esso non possiamo chiedere alcunché. Uno volta accettato ciò, nulla vieta di lasciare il concetto per comunicare con l’ente in maniera nuova. Ricordiamo il finale di Company, di cui <<… ogni parola vacua un poco più vicina all’ultima … E come meglio alla fine il travaglio disperso e silenzio. E tu come sei sempre stato. Solo 106>>. A parte il pathos di tale chiusura, ravvisiamo che davvero l’individuo è l’unico “limite” in cui comprendere ogni narrazione. Ogni altro concetto autocosciente fa lo stesso (è la tesi di Danto sull’arte), e perciò nell’accettarne la presenza occorre ammettere il suo grado di inutilità al fine del discorso tradizionale. In ultima istanza è da sottolineare (ancora una volta) che una comunicazione “nuova” non prescinde da limiti e necessità. Di nuovo, da ottenere allo scopo, c’è la consapevolezza della ripetizione, ovvero, del dato che accomuna il soggetto e la narrazione. È la partecipazione al presente. Per l’uomo questo si traduce nella coscienza della propria finitezza – già presente nel momento in cui l’ente si eleva “ad un grado adeguato di consapevolezza”. Egli non pensa senza una certa presa di coscienza della sua unità; così è l’arte finita: uno. Ed è questo il limite per le nostre parole. 105

Op. cit., pagg. 16-17: For why or? Why in another dark or in the same? And whose voice asking this? Who asks, whose voice asking this? And answers, His soever who devises it all. In the same dark as is creature or in another. For company. Who asks in the end, Who asks? And in the end answers as above? And adds long after to himself, Unless another still. Nowhere to be found. Nowhere to be sought. The unthinkable last of all. Unnamable. Last person. I. quick leave him. 106 Beckett, op. cit., pag. 46: With every inane word a little nearer to the last … And how better in the end labour lost and silence. And you as you always were. Alone.

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Così, la parola – sia essa “arte”, oppure “penombra”, “vuoto”, “ombre” – necessita un confronto di pari livello con la “realtà quotidiana”. Altre forme d’arte mostrano la necessità di una loro comprensione sullo sfondo dei rapporti con gli altri enti. Esempi molto significativi ci vengono dal mondo dei graffiti, una forma d’arte che non si pone (o, almeno in un certo grado, non dovrebbe) il problema di rispondere alle domande sull’arte tradizionalmente intesa. Artisti celebri in questo senso sono l’inglese Banksy, “terrorista artistico” per la polizia britannica, e l’italiano Blu. Non credo si possa parlare a loro riguardo allo stesso modo in cui Danto si rivolge a certe azioni artistiche di Cristo oppure riguardo al coinvolgimento del pubblico nella creazione artistica. Non si tratta di creare degli invisibili confini museali all’infuori del museo, nelle strade e nelle piazze. Si tratta di un’interazione naturale di un ente “artistico” o meno (non ha importanza) con la realtà quotidiana. Non c’è alcuna etichetta prestabilita: il concetto onnipotente di arte che tutto può non è il Primo motore per queste manifestazioni del pensiero in decorazioni e in rappresentazioni, perché il concetto stesso non è più il fine, essendo finito. Il rapporto tra certe presentazioni materiali e il concetto di arte è passato: accettato, ma non interessante. E tale rapporto persiste, nello stesso modo in cui Danto afferma persistere la pittura illusionistica anche ai tempi dell’arte Moderna, oppure come sopravvivono ancora ai giorni nostri <<Nazisti in Germania e comunisti in Sud America>>. Soltanto che nel frattempo alcuni “artisti”, e con essi “critici” e filosofi, stabiliscono diversi rapporti con la produzione artistica, e tra questa ed il mondo intero. Il concetto di arte – ed in esso il concetto che per l’arte <<everything goes>> – è un criterio narrativo passato, una narrazione finita. Le opere d’arte si inseriscono in un presente necessario nel quale intrattengono, semplicemente, tutti i rapporti ontici che già sappiamo presenti e che coinvolgono anche noi stessi: funzioni (decorazione, tecnica, rituale), espressioni, causalità (attive o passive, materiali o logiche), giudizî di valore (positivo, negativo, bellezza o ribrezzo) e simili rapporti “fondamentali” e familiari concorrono alla comunicazione tra le opere ed il mondo.

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Bibliografia.

Opere di Arthur C. Danto (in ordine cronologico di pubblicazione). [L’elenco riporta i libri dell’autore; sono stati omessi i singoli articoli e saggi laddove non esplicitamente richiamati nel testo]: − Philosophy of Science, New York, Meridian Books, 1960. − The Artworld, in The Journal of Philosophy, vol. 61, n. 19, del 15 Ottobre 1964, pagg. 571-584. − Nietzsche as Philosopher, Columbia University Press, 1965, 1980. − What Philosophy Is, New York, Harper & Row, 1968. − Analytical Philosophy of Knowledge, London, Cambridge U.P., 1968(trad. it. Filosofia analitica della storia, Bologna, il Mulino, 1971). − Analytical Philosophy of History, Cambridge, Cambridge U.P., 1968. − Analytical Philosophy of Action, Cambridge, Cambridge U.P., 1973. − Jean-Paul Sartre, Viking Press, 1975. − The Transfiguration of the Commonplace: A Philosophy of Art, Harvard University Press, 1981 (trad. it. La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte, Laterza). − Narration and Knowledge: Including the Integral Text of Analytical Philosophy of History, Columbia University Press, 1985. − The Philosophical Disenfranchisement of Art, Columbia University Press, 1986 (trad. it. La destituzione filosofica dell’arte, Aesthetica). − Mysticism and Morality: Oriental Thought and Moral Philosophy, Columbia University Press, 1987, 1988. − Sartre, Fontana Press, 1991. − Beyond the Brillo Box: The Visual Arts in Post-Historical Perspective, Farrar Straus Giroux, 1992. − After the end of art: contemporary art and the pale of history, The A. W. Mellon lectures in the fine arts, 1995, Bollingen series XXXV: 44 Princeton, Princeton 144


University Press, New Jersey, 1997 (trad. it. Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia, Bruno Mondadori). − Connections to the World: The Basic Concepts of Philosophy, University of California Press, 1997. − The Wake of Art: Essays: Criticism, Philosophy and the Ends of Taste, G+B Arts Int'l, 1998. − Seeing and Showing e The Pigeon Within Us All: A Reply to Three Critics, Journal of Aesthetics and Art Criticism 59 (1), 2001 (trad. it La storicità dell’occhio. Un dibattito con Noel Carroll e Mark Rollins, Armando Editore). − The abuse of beauty: aesthetics and the concept of art, Chicago-La Salle, Open Court, 2003 (trad. it. L’abuso della bellezza. Da Kant alla Brillo Box, Postmedia).

Altri testi utilizzati: − Nicola Abbagnano, Ideologia, in Dizionario di Filosofia, terza edizione ampliata e aggiornata da Giovanni Fornero, Torino, UTET,1998. − Samuel Beckett, Company e Worstward ho, in Nohow on, New York, Grove Press, 1996. − Molloy, in Three novels, New York, Grove Press. − Walter Benjamin, Angelus Novus, a cura di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1995. − Hans Belting, Il culto delle immagini: storia dell'icona dall'età imperiale al tardo Medioevo, Roma, Carocci, 2001. − U. Boccioni, C. Carrà, L. Russolo, G. Balla, G. Severini, Manifesto dei pittori futuristi, 11 Febbraio 1910, in I manifesti del Futurismo, Firenze, Lacerba, 1914. − F. Bollino, Ragione e sentimento. Idee estetiche nel Settecento francese, Bologna, Clueb, 1991. − Jorge Luis Borges, L’Aleph, Milano, Feltrinelli, 2008. − Georges Burdeau, Ideologia, in Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1978, vol. III. − George Braque, Le jour et la nuit, Cahiers de 1917-1952, Parigi, Gallimard, 1952, trad. in Antologia critica dell’arte moderna, Milano, Fabbri, 1975

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