Una magica nevicata di racconti

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Una magica nevicata di racconti A.A.V.V.

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Una magica nevicata di racconti A.A.V.V.



1 Natale è… Annuso l’aria fresca del mattino. Quanti odori porta con sé! La mia mamma dorme accanto a me, in questa tana buia e stretta che ci riscalda miracolosamente dal gelido inverno giunto da poco a farci visita. Io sono un cucciolo impaziente, questa mattina non mi va neanche un po’ di aspettare che la mamma si svegli e che mi accompagni a procurarmi qualcosa da sgranocchiare. Nossignore, sto diventando grande ormai, vorrei trovare il cibo che mi serve da solo! E poi il mio stomaco brontola e la mamma dorme così bene che è davvero un peccato svegliarla. Basta, ho deciso: esco fuori dalla tana, i miei zoccoli hanno proprio bisogno di un po’ di sano movimento. Non appena metto il mio piccolo muso fuori da quel nascondiglio caldo e sicuro, vengo investito da una ventata d’aria gelida e rabbrividisco. Tutto intorno a me è bianco, ricoperto da quel manto freddo e soffice che gli umani chiamano neve. Come lo so? Be’, la mamma questo non lo sa, non gliel’ho raccontato perché poi si spaventa inutilmente, ma molte volte mi sono spinto fino al fiume, sotto l’altura in cui abitiamo io, la mia mamma e le altre femmine del branco; lì c’è un grazioso villaggio dove vive un branco di umani e io resto sempre affascinato a guardarli mentre si muovono e sbrigano le loro faccende quotidiane. Sono un capriolo temerario, lo so, non è da tutti spingersi così tanto in là. La mamma dice sempre che l’uomo è il nostro peggior nemico, ma io comincio a credere che non sia così vero, o almeno non tutti gli uomini sono nemici dei caprioli… Ebbene, cammino sulla neve, facendo qualche saltello di tanto in tanto. Prima a destra e poi a sinistra, infine di nuovo a destra. Quanto mi diverto! Scendo un poco a valle, lì si trovano sempre grandi squisitezze e il mio stomaco brontola sempre di più. Una volpe mi taglia la strada e io le faccio la linguaccia, ma lei sembra non notarmi, ma infondo che importa? Io oggi mi sento bello carico, sento una strana forza dentro di me, un’euforia particolare, mai sperimentata nella mia giovane vita. Mi fermo e inizio a cercare qualche radice o qualche piantina che possa soddisfare il mio appetito, quando sento che sul mio musetto si posa qualcosa di umido, poi ancora e ancora. Alzo gli occhi al cielo e vedo candidi fiocchi di neve che scendono dalle nuvole bianche sopra di me e cadono a terra, carezzandomi il muso e il manto. La neve mi piace, anche se la mamma dice sempre che per noi caprioli in questo periodo dell’anno diventa più difficile trovare qualcosa da mangiare. È vero, ha ragione, però quanto è bello vedere scendere i fiocchi e sentirne la morbidezza sotto gli zoccoli? Mentre assaporo una squisita radice e qualche foglia secca caduta dagli alberi mi giunge alle narici un odore strano, sconosciuto. Le mie orecchie si rizzano all’insù perché sentono suoni nuovi, mai uditi prima. Resto fermo per un po’, immobile, per capire se il pericolo è nell’aria oppure no. Improvvisamente comprendo: la fame mi ha spinto un po’ troppo in giù e sono giunto quasi 5


al fiume, vicino al villaggio. Già che ci sono decido di dare un’occhiata, sono troppo curioso di sapere cosa sta succedendo là, fra quelle strane tane che gli umani chiamano case. La neve ha ricoperto tutto anche lì, e al centro del villaggio riesco a scorgere un grande fuoco acceso; i cuccioli degli umani sono seduti tutti intorno, sembrano divertirsi vicino al fuoco, è così che riescono a scaldarsi dal freddo invernale, eppure non riesco proprio a comprendere cos’è che li renda tanto amici del fuoco. A me fa una paura tremenda! Ad ogni modo gli umani sono in festa oggi: cantano e girano per le vie tenendo in mano piccoli recipienti colmi di un liquido fumante che di tanto in tanto si portano alla bocca. Quanta allegria hanno nel cuore! E che profumini arrivano al mio naso, talmente tanti e così invitanti che sarei tentato di avvicinarmi un altro po’ per trovarne la fonte… La mamma ha ragione ancora una volta: anche gli umani sentono il cambiamento nell’aria e si preparano ad accogliere una qualche novità che però a me è sconosciuta. Anche noi caprioli festeggiamo in questi giorni, perché si apre una nuova stagione e perché è in questo periodo che la Natura dorme il suo sonno più profondo, ma presto si sveglierà. Lo farà lentamente, ma il suo cambiamento è già nell’aria e noi lo percepiamo meglio di chiunque altro. I miei zoccoli mi conducono ai margini del paese, io mi faccio silenzioso e il mio cuore inizia a battere a mille per l’emozione del momento: devo stare attento a non farmi sentire né vedere, potrei incappare in chissà quale pericolo, però che profumo! Non resisto più… “Passosvelto! Ecco dove ti eri cacciato!” La voce della mamma mi arriva alle orecchie così forte da farmi sobbalzare. Santo cielo che spavento! Mi faccio piccolo piccolo davanti al suo sguardo severo di rimprovero. “Si può sapere perché sei venuto fin qui? Cosa pensavi di fare? Mi hai fatto prendere un bello spavento!” “Scusa mamma, volevo cercare qualcosa da mangiare e alla fine sono arrivato fino al villaggio. Le luci sono così belle e gli umani sono in festa. È così bello!” “Non farlo mai più, poteva succederti qualcosa… Comunque sì, gli umani sono in festa come sempre in questo periodo dell’anno, ma questo non vuol dire che smettano di cacciare i caprioli e gli altri animali del bosco. Per questo non voglio che tu ti allontani così tanto dalla tana e da me, piccolo coraggioso. Avanti Passosvelto, adesso torniamo più in su, al sicuro.” La mamma mi da una piccola leccata sul muso in segno di affetto e si avvia. Io la guardo per un attimo, poi la seguo con un po’ di malinconia, volgendo di tanto in tanto lo sguardo verso il villaggio. La mia tristezza però dura poco perché so che la mamma dice tutto questo perché mi vuole bene e io sono molto fortunato ad averla con me. Tuttavia non riesco a non sentirmi strano ed euforico. La mia piccola testolina inizia a pensare facendo strane capriole… perché gli umani e gli animali non possono essere amici? Almeno per una volta, almeno adesso che è Natale. Natale… che strana parola. L’ho sentita poco fa al villaggio, la pronunciavano tutti ripetutamente, passandosela di bocca in 6


bocca, ma non so cosa significhi in realtà. Forse ognuno può dare a questa parola il significato che preferisce, e se così fosse vorrei che il Natale fosse un giorno da passare con la mamma, vorrei che fosse il giorno in cui l’uomo è in pace con la Natura e con gli animali, il giorno in cui tutti stanno insieme amandosi in libertà. “Caro Babbo Natale…” scrivo con la mia grande calligrafia un po’ tremolante. Sono seduto sul grande tappeto del salotto, proprio sotto l’albero di Natale che la mia mamma e il mio papà hanno finito di decorare qualche giorno fa. Nel forno stanno cuocendo i biscotti che ho fatto insieme alla mamma questo pomeriggio, le manine mi profumano ancora di vaniglia e già mi viene l’acquolina in bocca! Fuori è quasi buio, il sole è già calato dietro i monti che circondano il mio villaggio e io devo scrivere la lettera a Babbo Natale con l’elenco dei doni che vorrei ricevere quest’anno, ma quanto è difficile farlo! Tiro fuori la lingua, lo faccio sempre quando mi impegno e quasi non me ne accorgo. Sono accovacciato, ma la strana posizione non mi è per niente scomoda. Mentre le lucine dell’albero si accendono e si spengono illuminando a tratti il foglio, io continuo a scrivere. “Caro Babbo Natale, come stai? Spero che tu non sia troppo indaffarato quest’anno e che possa rispondere alla mia lettera. Sai, aspetto tutto l’anno il giorno di Natale, non per i regali che riceverò, ma perché stiamo tutti insieme, la mamma, il papà ed io, e perché a Natale arrivi tu. Vorrei tanto poterti vedere una volta, so che in molti bimbi te lo chiedono, però è strano sapere che una persona così buona che ogni anno porta così tanti regali ai bambini non possa mai ricevere un ringraziamento di persona, non trovi? Quest’anno ho preparato anche io un regalo per te, l’ho fatto con le mie mani, mi ha aiutato mio nonno e vorrei dartelo di persona, ma siccome so già che non vorrai incontrarmi, allora lo lascerò sotto l’albero per te, così come tu farai con i miei regali, spero lo apprezzerai! E adesso, visto che la mamma e il papà mi hanno detto di scriverti una lista dei regali che vorrei ricevere questo Natale te la lascio qui di seguito. Vorrei innanzi tutto un fratellino, lo desidero proprio tanto, quindi lo metto in cima alla lista. Certo, se è una sorellina va bene lo stesso, non preoccuparti! Vorrei un rossetto nuovo per la mamma, proprio ieri si lamentava di aver finito il suo preferito e a me e al papà piace vederla bella e felice. Vorrei una camicia nuova per papà, se l’è macchiata questa mattina e si è arrabbiato proprio tanto perché era in ritardo per andare a lavorare, quella era l’ultima camicia che gli era rimasta. Il nonno ha perso due denti questa settimana, non è che per caso potresti regalargliene due nuovi? Senza denti è molto buffo, però 7


poverino non riesce a mangiare! Per la nonna invece vorrei uno scialle di lana caldo e morbido, il suo è talmente vecchio che quasi non la riscalda più. Per me invece vorrei solo un cucciolo da coccolare e che possa farmi compagnia insieme al fratellino o alla sorellina, non chiedo altro. Certo, sarebbe bello se tu potessi fare altre cose, ma credo che quelle non dipendano da te… la mamma e il papà si lamentano sempre quando leggono il giornale al mattino, sento che parlano spesso dei polichiti… policiti (non mi ricordo come si chiamano quei signori che scrivono le regole che tutti dobbiamo rispettare) perché mettono troppe tasse e vogliono troppo dalla gente, tu puoi farci qualcosa? Ah, quasi me lo scordavo, che sbadato! C’è una famiglia qui al villaggio che non ha quasi niente. Dormono tutti in una casetta abbandonata e di tanto in tanto qualcuno porta loro qualcosa da mangiare. Sono poveri… porta loro qualcosa da vestire se puoi e dei dolci da mangiare per Natale, così si sentiranno meno soli! Adesso però smetto di scrivere, ho già chiesto tanto e ho finito i fogli che mi aveva dato la mamma! Ti voglio bene, salutami i tuoi folletti e le tue renne e ricordati di prendere il regalo che ti lascerò sotto l’albero! A presto, Paul.” Mamma mia che stanchezza scrivere! Ho la mano tutta indolenzita! Non appena alzo la testa dal foglio, i miei occhi si posano sulla finestra e… che meraviglia! Ha ricominciato a nevicare! Fuori è tutto buio e io fremo di eccitazione. “Mamma! Nevica! Posso andare a giocare fuori? Ci saranno sicuramente anche Hans e gli altri.” Urlo saltellando sul tappeto. “Certo tesoro, ma copriti bene mi raccomando!” Afferro la giacca e la sciarpa, me le infilo con cura nonostante la fretta e prima di uscire il papà mi ferma sulla soglia: “Paul, prendi un biscotto per te e questi altri portali ai tuoi amici.” “Grazie papà!” dico, prendo il biscotto e lo metto in bocca, afferro il fagotto pieno di dolcetti alla vaniglia e corro fuori di casa dove tutti gli altri mi aspettano per la grande battaglia a palle di neve. Fruuush, fruuush. Vento scuote i rami questa mattina, soffia tra i monti e porta profumo di umidità. Cra, craaa! Gracchia Corvo appollaiato chissà dove. Gli fa eco Merlo non molto lontano, poi seguono Pettirosso e Picchio. Tic,tic, tic… oh! Questo è il rumore dei passi di una volpe attutiti da Neve! Che gioia sentire la vita che scorre intorno a me! Mi ero appisolato da qualche mese, pochi minuti se si considera la lunga vita che mi porto alle spalle e che ancora ho dinnanzi a me. Guardo Grande Faggio vicino a me: dorme ancora e la sua bella chioma è stata spazzata via da un po’ ormai. Chissà dove avrà portato via tutte quelle foglie Vento… me lo chiedo sempre. 8


Io sono Nonno Larice, pioniere di questa foresta. Anche io ho perduto il mio bel manto verde, questo ciclo è così da molte, moltissime lune, così tante che quasi non ho ricordi di quando ero un piccolo Larice. Sono sempre stato qui ovviamente, e molte cose hanno visto i miei piccoli, invisibili occhi, molte cose hanno udito le mie orecchie, tuttavia io non posso spostarmi da questa foresta. Invidio Vento e Pioggia, Volpe, Orso, Merlo, perfino Vipera! Sì, invidio tutti loro perché possono spostarsi e vedere tutti quei posti che io posso solo immaginare o guardare con gli occhi di chi li ha descritti per me. Molte volte Tramontana ha soffiato fra i miei rami, sussurrandomi storie lontane, narrandomi di posti mai visti. Ed oggi, come ogni anno, Vento mi porta liete notizie: “Svegliati Nonno Larice! Il tempo è giunto! Fruuuush, fruuuush!” Eh, sì, il tempo è proprio giunto. Il cambiamento è palpabile, tutta la foresta festeggia ed è in trepidazione! Cosa sentono le mie orecchie di legno antico? Chiedete voi perché? Ma come, non lo sapete? Per tutte le pigne cascate a terra, davvero non lo intuite? Vento soffia, Neve cade dal cielo, Madre Terra è tutta imbacuccata nella sua coperta bianca, però un lieve canto si leva dagli astri, lassù nel cielo. La luce è ritornata a brillare nella volta celeste e il freddo non fa più paura. Voi umani non lo sapete, non lo percepite, ma noi nel bosco ci risvegliamo perché il Signor Inverno è giunto, portando con sé il giorno più breve dell’anno. Gelo non ci tormenterà ancora a lungo, perché sotto la soffice coperta di Neve la natura si risveglia, invisibile, e il ritmo della vita riprende piede lentamente. Per questo noi tutti oggi gioiamo! Nella mia lunga vita ho sentito molte volte parlare di una festa che voi umani celebrate: il Natale. Festeggiate la nascita di un bimbo, noi invece celebriamo la rinascita della luce! Il Natale è una nascita quindi, e lo è un po’ per tutti. Nascere, vivere… sono misteri che neppure noi vecchi larici comprendiamo. C’è una cosa che però turba molti miei compagni e vicini di foresta in questi giorni: l’uomo è vicino e porta con sé quei terribili aggeggi pronti a spaccare la corteccia di un albero in pochi istanti. Per cosa poi? Per catturare le povere conifere più giovani da esporre come strani trofei nei loro salotti, riempiti e rimpinzati di diavolerie fino allo sfinimento! Ma che possiamo farci? È il ciclo della vita: tutto si rigenera prima o poi, la ruota gira e viene anche per noi il tempo di abbandonare Madre Terra con le sue meraviglie e raggiungere Padre Cielo. Tip,tap,tip,tap… che suono è mai questo? Oh, sì, ora lo riconosco: sono passi umani nella neve! Rabbrividisco un po’ per la paura, quando un uomo è nei paraggi non si sa mai cosa possa accadere. Scuoto un po’ i rami, lasciando cadere la neve che vi si era depositata. Che sorpresa! È una cucciola di uomo! Che vestito strano indossa, non ho visto molti cuccioli come lei da queste parti. Si ferma dinnanzi a me ansimando e sbuffando un po’ di vapore dalla bocca, si guarda intorno con sguardo incantevole, estasiato. Io trattengo il respiro. “Ciao Foresta! Come sei grande!” dice. Molto curiose le parole di questa piccolina! Fa qualche passetto, continuando a guardare in su, poi continua: “E voi Alberi: siete così belli! Lo so che siete miei amici, solo voi potete capirmi.” 9


Poi si volta verso di me, mi guarda, sorride e viene ad accarezzare la mia corteccia. Che gioia, quasi mi sciolgo per la commozione! “Larice, la tua corteccia è proprio dura, però so che in fondo il tuo cuore è morbido, somigli un po’ al mio nonno, che adesso non c’è più. Sai, tra poco sarà Natale, e io vorrei solo che lui fosse qui con me, anche solo per un giorno.” Povera piccola! In fondo io sono Nonno Larice, potrei essere anche tuo nonno, solo per un giorno… penso tra me. “Davvero dici, Nonno Larice?” Un momento! Mi ha sentito! Come avrà mai fatto questa piccoletta? Mi scuoto tutto, mosso da un fremito sconosciuto. La cucciola d’uomo ride, una risata cristallina, leggera, che scalda il cuore morbido che pulsa sotto la mia dura corteccia, poi dice: “ Lo so che sei stupito, ma te l’ho detto: voi Alberi siete i miei veri amici! Però tu, tu sei qualcosa di più, lo sento. Sei il mio Nonno Larice, e per questo oggi ti riempirò di baci e di carezze. Però devi farmi una promessa…” Ecco che adesso mi guarda con quegli occhioni irresistibili. Cosa vorrà da un albero vecchio e indolenzito, questa creatura? “Ecco… tra poco sarà Natale. Io non so scrivere e quindi non posso mandare i miei desideri a Babbo Natale. Sono sicura che passerà di qua con la sua slitta e tu sei così alto che potresti toccare il cielo con un ramo, quindi puoi dirgli tu per me quello che vorrei per questo Natale?” Oh! Per così poco! Ma certo, piccola amica, se Babbo Natale solleticherà la mia chioma spoglia con le sue renne sarò ben felice di riferirgli le tue parole! Dimmi pure, ascolto. “Grazie Nonno Larice, lo dicevo che nonostante il tuo aspetto burbero sei buono come le ciambelle che fa la mia mamma! Chiedi a Babbo Natale se può farmi vedere il mio nonnino, anche solo per un istante.” Pignetta mia, lo sai che queste cose vanno al di là della nostra comprensione… neppure Babbo Natale ha questo potere! “Oh, sapevo che lo avresti detto! Però per favore, tu diglielo!” Va bene piccola pigna, lo farò. Parola di Nonno Larice. La piccola manina della cucciola d’uomo si soffermò sulla mia corteccia, mi carezzò per quelle che mi parvero ore, poi salutandomi con un bacetto se ne andò saltellando, sparendo con la velocità con cui era venuta. Quella piccola pigna testarda… come si fa a spiegare il mistero della Vita e della Morte a una creatura così piccola se neppure io ne comprendo i meccanismi? Eppure qualcosa in me si è riscaldato… il freddo Larice d’un tempo si è trasformato sotto il tocco di quelle mani minuscole, eppure così potenti da scuotermi tutto da cima a radici. Se è vero che il Natale è una rinascita allora perché Babbo Natale non potrebbe riportare a quella pignetta il suo nonno solo per un po’? Crederci è bello e chissà, forse quel signore con la barba che noi chiamiamo Signor Inverno potrà compiere qualche miracolo… Le stelle spuntano nel cielo e io volgo lo sguardo all’insù. Aspetto, attendo: non manca molto ormai.

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“Forza, forza! Avremo un gran daffare questa sera care mie!” urlo alle renne che trainano la mia slitta magica. Ho tanti nomi quante sono le lingue del mondo, se non addirittura di più. Babbo Natale, Signor Inverno, Santa Claus, Père Noël, San Nicola, Sinterklaas… e dietro ogni mio nome si cela una leggenda, una storia diversa. Chiamatemi come preferite, non ha importanza, risponderò alla vostra chiamata in ogni caso. Volo nel cielo limpido di fine dicembre, sorvolando monti, foreste e città. Qualcosa mi pizzica improvvisamente il naso, quasi come se fosse uno starnuto in arrivo. “C’è odore di desideri! Ferme, aspettate un attimo!” dico arricciando il naso e tirando le redini della slitta. Le mie renne rallentano. È sempre così quando qualcuno esprime un desiderio molto forte e sentito in questo periodo dell’anno: il mio naso ne risente e così son costretto a fermarmi e ad annusare le richieste di chi abita nei posti che attraverso. Tra questi monti abita un piccolo capriolo, desidera l’amore di un umano… che desiderio insolito il suo! Ma… un momento! Nel villaggio al di là del fiume abita Paul, quel dolce bimbo che mi ha regalato la renna di legno che ho posto davanti alla mia slitta, a mo’ di polena. Anche lui desiderava tanto un cucciolo. E allora questo è per me un gioco da ragazzi! Avrà il suo cucciolo domani, quando andrà a giocare nella foresta. Conosco Paul e so che non permetterà che a Passosvelto succeda niente di male. Lo proteggerà in segreto, lo coccolerà e cresceranno insieme, da veri amici. Ma Paul voleva anche un fratellino… qualcosa mi dice che la sua mamma domani darà alla piccola famiglia una dolce notizia. Il Natale è Vita! Schiocco le dita della mia mano destra e dal contatto scaturisce polvere di stelle dorata, segno che i desideri sono stati esauditi. Sorrido contento, faccio per ripartire quando sento una voce chiamarmi dal basso: “Signor Inverno! Signor Inverno, mi ascolti!” “Ehilà, Nonno Larice! Bensvegliato! Dimmi tutto, amico mio.” “Proprio oggi è giunta una cucciola d’uomo dal villaggio qui vicino. Mi ha detto di portarle il suo desiderio.” “Ah, sì! È la piccola Marie! Non sa ancora scrivere, la piccolina…” “Esatto. Mi ha detto di chiederle se potrebbe ridarle suo nonno, anche solo per un istante. Può farlo, Signor Inverno?” “Io non ho questo potere, caro Nonno Larice, però… se tu vuoi…” “Cosa? Mi dica, Signor Inverno!” “Potresti essere tu il nuovo nonno di Marie. Posso trasformarti in un uomo vero, anziano però, bada bene. Il tempo trascorso non lo posso fermare.” “Oh, Signor Inverno! Davvero lo farebbe? Lo desidero da così tanto!” “Certo amico mio! Stanotte tutto è possibile! - schiocco di nuovo le dita e ancora una volta la polvere dorata brilla sotto al mio naso - Domani mattina ti sveglierai in carne ed ossa, vedrai! E adesso partiamo, mie care amiche, il sole ci insegue alle spalle!” 11


Vedete, cari lettori? Ognuno di voi festeggia il Natale in mille modi diversi, ma in fondo tutti lo associano agli stessi valori: l’Amore, la Rinascita, la Vita, la Felicità, la Gioia e la Pace. Il Natale è tutto questo, non è una festa, ma uno stato d’animo che ognuno di noi sente dentro di sé e indossa come il vestito più bello dell’anno. Auguri di Buon Natale allora, miei dolci amici, e state attenti: oggi volano desideri!

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2 Mr Natale Indosso un cappello rosso, a punta, con tante gemme colorate cucite lungo il bordo. Quando muovo la testa, ogni gemma si illumina e genera una nota musicale. La canzoncina cantata che ne viene fuori è allegra, piena di ritmo. Deve essere natalizia, o almeno io la associo al Natale, perché è questo il nome che sento ripetere: Natale, il mio. Ho imparato a scattare sull’attenti e a far dondolare il capo, non appena passa qualcuno. Come adesso, per esempio. Piego la testa da un lato, poi dall’altro, le gemme si illuminano e la musica prende vita. Si ferma una signora a guardarmi e sorride. Un sorriso grande e simpatico. Allora sbatto i miei occhioni, sollevo una zampa e agito la coda a destra e a sinistra. Il sorriso della signora si trasforma in una grassa risata. Si ferma qualche altro passante. Tutti sorridono, e io mi diverto. Qualcuno mi dà una pacca sulla testa, qualcuno mi prende la zampa con la sua mano umana e mi sussurra qualcosa che non comprendo. Al suono delle monetine che cadono nel barattolo di latta, l’umano che mi ha preso con sé ringrazia prima i passanti, poi mi allunga una carezza sul dorso. Mi stendo accanto a lui e, pancia e zampe all’aria, mi faccio lisciare il pelo con altre lunghe carezze. Peccato che al suo «In piedi, Mr Natale», sono costretto a balzare di nuovo sull’attenti e ad aspettare che passi qualche altra persona, pronto a scodinzolare e a far dondolare la testa. Punto una bambina che passeggia mano nella mano con una signora più grande di lei. Si somigliano. Credo siano madre e figlia. Sospiro. Sembrano allegre e luminose. Mi guardano a loro volta, con occhi sorridenti. Una volta, tanti anni fa, avevo anch’io una famiglia come la loro, una casa grande, un bel giardino e una cuccia tutta per me. Uscivo spesso con i miei padroni e camminavo per le strade in mezzo ai loro piedi, in mezzo a loro, tenuto stretto al guinzaglio. Ero ubbidiente. Ero il loro cane e mi chiamavo Bob. Un giorno, il peggiore della mia vita forse, mi hanno lasciato legato a un palo, sotto il sole dell’estate, e poi sono andati via su 15


un’automobile carica di bagagli. Nessuna lacrima per loro, tante per me. Ho cambiato diversi nomi, numerosi padroni. Adesso mendico scatolette di cibo insieme all’umano che, poche settimane fa, mi ha raccolto dalla strada. Lui mi chiama Mr Natale. Mi ripete che sono bravo, che faccio sorridere le persone e che grazie a me riesce a racimolare un po’ di monete. Arrivano! Petto in fuori, orecchie tese, occhi spalancati. La bambina indica proprio me. Il mio nuovo padrone sussurra: «Avanti, Mr Natale. Fa’ il tuo dovere». Piego la testa da un lato e dall’altro, le gemme si illuminano e la musica di Natale prende vita. La bambina continua a indicarmi, mentre trascina la madre verso di me. Sbatto i miei occhioni, sollevo una zampa e agito la coda a destra e a sinistra. La musichetta prosegue senza sosta, le gemme continuano a illuminarsi. Le due umane ridono e applaudono, poi la signora fa cadere qualche moneta nel barattolo di latta. Un attimo dopo la bambina fruga nella grossa borsa della madre ed estrae un regalo per me, anzi, due regali! Due grosse scatole di cibo per cani. Mi contorco tutto dall’emozione e mi lascio scappare un latrato. Carezze ovunque e grattatine sui fianchi che ringrazio con rapide leccatine. Sul muso mi rimane un profumo che sa di vaniglia, di buono. Peccato vederle andare via, come tutti gli altri. Si voltano a sorridere ancora una volta, poi via, lontane, fino a sparire dalla mia vista. Continuo a fare il mio dovere per tutto il giorno, per tutta la sera. Comincia a nevicare. Di passanti se ne vedono pochi, le strade sono mezze vuote. Scatto di nuovo sull’attenti, ma questa volta perché il mio nuovo padrone si è alzato da terra. Raccoglie la sua roba, poi apre tutte e due le scatolette e versa a terra il contenuto. Lo guardo, lui mi guarda e mi fa un cenno con la testa. Non aspetto un attimo di più. Mi fiondo a divorare quei deliziosi bocconcini di carne e nel frattempo la canzoncina di Natale continua a ronzarmi nelle orecchie. «Ehi, Mr Natale, questa sì che è un’ottima cena, vero?» Lo guardo, immobile. C’è qualcosa che non va in lui. Ha gli occhi lucidi e le sopracciglia troppo inarcate verso l’alto. «Mi piacerebbe poterti assicurare del cibo ogni giorno. Mi piacerebbero tante cose. Sai, io... vorrei tanto non doverlo fare, ma non ho alternative.» Incastra sotto il braccio la coperta di lana con la quale ci siamo tenuti al caldo, di notte, l’uno stretto 16


all’altro. «I soldi non bastano per tutti e due.» Mi toglie il cappello e mi accarezza la testa. Faccio qualche passo indietro. So cosa sta per succedere. Lo so. Ci sono passato tante altre volte. È semplice, molto semplice: non servo più. «Sei un bravo cagnolino, sei simpatico e ubbidiente.» Sbuffo, ma vorrei guaire. «Le vacanze di Natale sono quasi finite, non ha più senso usare questo cappello» lo fa dondolare in mano. Le gemme non si illuminano. Nessuna musichetta di Natale. «Mi dispiace tanto doverti dire addio, ma se l’anno prossimo sei nei paraggi potremmo...» Mi incammino per la strada, mentre lui continua a parlare. Non mi importa di capire cosa dice, il suo messaggio è chiaro. Sbuffo di nuovo e questa volta guaisco. Fa male, fa tanto male. Dovrei esserci abituato agli addii e invece ogni volta provo lo stesso dolore. Raggiungo un bivio. Guardo da una parte e dall’altra, indeciso su dove andare. Una carezza del vento mi fa arricciare il tartufo. Quello che sento è profumo di vaniglia, di buono. Mi fiondo sulla strada alla mia destra, corro, rallento per annusare la strada e l’aria, riprendo a correre, no, torno indietro e faccio a ritroso un pezzo di strada. La scia profumata mi porta dritto a un cancello di legno. Una spinta con il muso e il cancello si apre. Attraverso il vialetto di acciottolato. Mi fermo su uno zerbino, davanti a una grande porta. Qualcosa mi dice di aspettare, immobile, paziente. Passano i minuti, forse le ore, poi finalmente qualcuno apre la porta. «Butto la spazzatura e torno» dice l’uomo barbuto. Si ferma di colpo e mi fissa. «E tu da dove sbuchi? Che cosa ci fai qua?» «Caro, con chi stai parlando?» Una donna si affaccia sull’uscio. È la stessa di questa mattina, quella che stringeva la mano alla bambina. Sposto lo sguardo dall’uomo alla signora, da lei a lui, in continuazione. «Parlavo con questo cane, si fa per dire. Deve essere un randagio che è riuscito a entrare in giardino.» «Oh, lui è...» «Mr Natale» grida la bambina, affacciandosi alle spalle dei genitori. «Mr Natale 17


è qui. Qui!» Le mie narici vibrano. Il profumo alla vaniglia è molto forte, molto buono. «Deve averci seguito» mormora la signora «e trovato.» «Cos’è questa storia di Mr Natale?» chiede l’uomo. «Mr Natale è il cane che chiede le elemosina all’angolo di una strada. Oggi gli abbiamo dato due scatolette di cibo per cani, forse è qui per questo motivo. Ha ancora fame.» «Ha anche freddo. Sta tremando. Facciamolo entrare» dice la bambina. «Oltre ai cani del canile, adesso ve ne andate in giro a dare da mangiare anche a tutti quelli che trovate per strada?» bofonchia lui. Non so cosa fare: abbaiare, scodinzolare, guaire. Decido. Piego la testa da un lato e dall’altro, sbatto i miei occhioni, sollevo una zampa e agito la coda a destra e a sinistra. Anche se non ho il cappello da gnomo, anche se non ci sono le gemme a illuminarsi e la canzoncina di Natale, la bambina sorride e mi passa una mano sulla testa. È una carezza, a cui ne segue un’altra e un’altra ancora. Agito così tanto la coda che si solleva polvere dallo zerbino. La signora fa un passo indietro, spalanca di più la porta e mi fa cenno di entrare. Vedo l’uomo che solleva gli occhi al cielo mentre borbotta qualcosa. La bambina mi stritola le braccia al collo, quasi soffoco. Quando si stacca da me, guardingo osservo questi tre umani e zampetto verso l’entrata. Mi scrollo la neve di dosso. C’è tanto caldo qui dentro. Mi volto a guardare la signora, che sta chiudendo la porta. Mi lancia un sorriso, io ricambio agitando la coda. «Ti piace Tommy come nome, invece di Mr Natale?» Abbaio e agito la coda. «Allora da oggi ti chiamerai Tommy» mi dà una pacca sulla testa mentre la bambina continua a saltellarmi intorno e a gridare il mio nome. Quello nuovo. Do una rapida occhiata alle stanze e sospiro. Non so se questa sarà la mia ultima casa, se Tommy sarà il mio ultimo nome e Mr Natale solo il ricordo di quello vecchio, come ce ne sono stati tanti. E non so se questi saranno i miei ultimi padroni, quelli che mi ameranno fino all’ultimo giorno della mia vita, ma so per certo che è quello in cui spero, perché la speranza nell’amore vero non l’ho mai persa, nonostante tutto. 18


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3 La Ragazza dei Miracoli “Mi dispiace tantissimo, Emma! Ti prometto che l’anno prossimo...” “Sì sì, papà. Lo so. Il prossimo anno; si tratta sempre del prossimo anno.” “E’ che l’invito del vecchio Jack ci ha colto alla sprovvista; davvero io e tua madre avevamo intenzione di passare le vacanze con te, quest’inverno...” Emma si appoggiò alla parete, si incastrò la cornetta fra il mento e la spalla e sospirò.“Okay.” “Sai cosa? Faremo un bel viaggetto tutti insieme, questa primavera! Che ne dici? Solo io, tu e la mamma. Niente lavoro. Nessun impegno. Solo...” “Sì. Va bene. Papà, adesso devo andare. Alla signora Carey non piace quando stiamo incollate al telefono per più di cinque minuti di fila. Lo sai che qui sono vietati anche i cellulari.” La ragazzina si lanciò un’occhiata alle spalle. La direttrice del C.C. College sedeva a una scrivania in fondo al corridoio e sfogliava una rivista; non alzò la testa nemmeno una volta, e la sua espressione annoiata non cambiò di una virgola. Il padre sospirò. “D’accordo.” Poi, rianimandosi almeno un poco: “Ehi, Emma! Non avrai già aperto il tuo regalo, per caso, vero?”, chiese, in tono vagamente speranzoso. “Quale regalo?” “Io e la mamma lo abbiamo spedito per posta un paio di settimane fa. Dalla Scozia. Il tizio che me l’ha venduto ha detto... Oh, ma lo vedrai! Vedrai!” Emma riusciva quasi a vedere il luccichio deliziato che doveva divampare in quel momento in fondo agli occhi castani del padre. Quasi suo malgrado, si ritrovò a reprimere un sorriso. “Va bene, papà. Ti manderò un’email non appena lo scarto. Non credo che i telefoni prendano, là dove state andando, vero?” “Effettivamente, Jack dice che potrebbero esserci parecchie interferenze. La baita si trova parecchio in alto, e le previsioni meteo...” “Non importa.” “Ci sentiremo su skype quando torniamo, okay?” Un’altra pausa.“Mi dispiace davvero, Emma.” “Sì. Lo so. Non fa niente, non è poi questa tragedia passare le vacanze a scuola”, mentì. “Cercherò di stare con le altre ragazze, tranquillo. Buon Natale, papà. Dai un bacio alla mamma.” Riattaccò e si avviò verso la sua stanza. Le sue scarpette da ginnastica cigolavano come anime in pena. “Faccia sapere alla cuoca e alla signorina Jenkins 21


che non andrò a casa per Natale, per favore”, chiese alla direttrice. La signora Carey la guardò con compassione. “E’ arrivato questo per te, Emma”, la informò, consegnandole un pacchetto avvolto in carta gialla. La ragazzina si sforzò di abbozzare un sorriso e la ringraziò. Nel dormitorio, risuonava una fragorosa ondata di musica. Niente “Silent Night” o “Jingle Bells”: al Trinity College, le ragazze avrebbero preferito essere seppellite da un’ululante tormenta di neve, piuttosto che essere sorprese ad ascoltare musica del genere. Emma passò accanto alla porta che precedeva la sua camera, che non divideva con nessuno, e sentì Claudia intenta a canticchiare con voce intonata e vagamente nasale. Lanciò una rapida sbirciata all’interno. Claudia, che era stata sua amica fino a un paio di mesi prima, stava passando l’aspirapolvere. Mugolava e cantava, ma la sua espressione sembrava strana, quasi vuota, distante. Emma resistette all’impulso di bussare e passò oltre. Con l’eccezione di un paio di rametti di vischio appesi sulle porte, il dormitorio non presentava segni di decorazioni o addobbi. In fondo alle scale, nell’atrio, campeggiava invece un impressionante abete scintillante d’oro e d’argento. Emma si domandò se davvero qualcuna delle altre ragazze si sarebbe trattenuta lì per le feste. Chissà perché, ne dubitava. Quasi sicuramente, le sarebbe toccato passare ancora una volta il Natale in compagnia della cuoca dell’istituto e della signorina Jenkins, nella cucina calda e densa di vapori. Emma lasciò cadere il pacchetto sulla scrivania e si buttò sul letto con la sua copia di “Hunger Games” aperta a pagina cinquanta. Lesse per un paio d’ore, forse quasi tre, prima che qualcuno picchiettasse le nocche contro la porta. “Avanti.” L’apparizione della smunta faccia di Ida sulla soglia la riportò bruscamente con i piedi per terra. Come al solito, la ragazza più giovane veniva col suo stuolo di fedeli seguaci, composto dall’habitué Carmen e dalla new entry Claudia, a rimorchio. “Ciao, celebrità!”, la apostrofò Ida. “Come stanno i tuoi genitori famosi?” Ida aveva quasi quindici anni. Era quel genere di persona che fingeva a volte di essere gentile con Emma, ma solo perché trovava più divertente lanciarle frecciatine di ogni tipo e squadrarla dall’alto in basso con il suo perenne sorrisetto di superiorità stampato in faccia. Emma la detestava. Avrebbe preferito di gran lunga che provasse a infilarle la testa nella tazza del water, o sotto il getto ghiacciato del lavandino, come faceva Carmen. Sarebbe stato più onesto. E nessuno poteva biasimare Emma per i calci che allungava di tanto in tanto ai polpacci flaccidi e molli di Carmen. 22


“Se la cavano bene. Grazie per l’interessamento.” Ida si sedette sul bordo del materasso; con cautela, come se temesse che dalle lenzuola potesse balzarle addosso chissà quale microbo strano. Annuì, con l’aria di chi la sa lunga. “Non verranno a prenderti neanche questa volta, vero?” Emma non disse niente. “Ida...”, chiamò Claudia, piano. L’amica la ignorò. “Lo sai, alcuni scienziati hanno fatto degli esperimenti, di recente. Hanno scoperto che la gente che cresce senza una solida figura materna o paterna accanto, tende a diventare alquanto squinternata. Problemi di socializzazione, difficoltà a relazionarsi... con entrambi i sessi, eh, Emma?” Spalancò gli occhi e si mise a ridere, come se avesse fatto una battuta. Carmen ragliò una risata. Claudia abbozzò un sorrisetto nervoso; stava facendo di tutto per evitare di incrociare lo sguardo di Emma. “Ah, sì?” Emma si aggiustò gli occhiali e si infilò in bocca una caramella gommosa. “Allora vuoi dire che se imparassi a mettere l’eye-liner come se fossi la sorella segreta di Jack Sparrow, e ad ancheggiare in corridoio come Courtney Love, come ti ha insegnato tua madre, a quest’ora sarei un mostro di sensibilità e simpatia, proprio come te?” La bocca dell’altra si contrasse in un minuscolo tic, che Ida si sforzò di riarrangiare in un sorriso. Emma notò che assomigliava vagamente a una rana dalla bocca larga, quando si metteva a fare smorfie in quel modo. “Lo sai, Emma... Sei così incredibilmente saccente, così incredibilmente noiosa, che nemmeno i tuoi genitori sopporterebbero di stare nello stesso party con te. E’ deprimente, dico sul serio!” Si scostò una ciocca di capelli biondi dalla faccia e lanciò un’occhiata a Claudia: “Noi andremo a folleggiare, a partire da domani; vero, ragazze? Ci aspetta una festa ogni sera. E poi shopping, serate danzanti, persino un falò sulla spiaggia, se il tempo sarà clemente...” Si alzò dal letto e mise un braccio intorno alle spalle di Claudia. Quest’ultima si stava praticamente azzannando il labbro, nello sforzo di nascondere la sua eccitazione. Fu l’unica cosa che riuscì a ferire Emma, un pochettino: il fatto che la sua amica di un tempo si sentisse in dovere di nascondere il proprio entusiasmo di fronte a lei, come se pensasse che Emma non fosse in grado di capire. Ida stampò un bacio schioccante sulla guancia di Claudia. “Berremo champagne fino a sentirci male e giocheremo a strip-poker. Sarà grandioso!” Emma si grattò la testa. “Alcol e gioco d’azzardo, dici, eh? Forte! Sarà come... trasformarvi in pirati, per un po’! Potreste persino... sì, organizzare una caccia al tesoro sulla spiaggia, e cercare un tesoro! Il tesoro di Long John Silver! Sarebbe divertente!” Sorrise a Claudia, come per incoraggiarla. Ma l’altra ragazza si limitò a guardare da un’altra parte. La 23


freddezza dei suoi occhi faceva un male allucinante, ma Emma strinse i denti e lottò per fingere che non le importasse. “Già, lo sarà di sicuro. E tu invece cosa farai, stramboide? Te ne starai qui a... a leggere i tuoi libricini?”, chiese Ida. Emma scrollò le spalle. “E’ probabile.” Carmen grugnì. Tagliente e incisiva, Carmen, come al solito! “Divertiti, a Fantasilandia!” Ida mosse la mano, nello stesso modo in cui una persona che sente un cattivo odore potrebbe gesticolare per tentare di liberarsene. “Andiamo, ragazze! Dobbiamo ancora finire di preparare le valige!” “Stendete un palo della luce anche per me, ragazze, sulla via del ritorno in macchina! E non dimenticate di mandarmi una cartolina dall’ufficio dello sceriffo!”, gridò loro dietro Emma. Tentò di reimmergersi nella lettura, ma scoprì che, a quel punto, era del tutto impossibile. Troppi pensieri sgraditi le transitavano per la mente. Si sentiva inquieta e di cattivo umore. Allora afferrò il pacchetto e scartò il suo regalo. Si trattava di una piccola palla di vetro, di quelle che, quando vengono capovolte, danno vita a una vera e propria tormenta di neve. Sotto la cupola trasparente, una cittadina di squisita fattura si snodava come un minuscolo gioiello d’artigianato, con tanta preziosa e rara profusione di dettagli che dalle labbra di Emma sfuggì involontariamente un sospiro di meraviglia. Un’alta torre d’avorio incombeva sul profilo della città. Striature di vernice rossa e dorata ne decoravano il profilo aguzzo e sinuoso. Le stradine sassose erano cosparse di vischio e foglie d’agrifoglio. Dai rami curvi degli alberi pendevano grossi frutti tondi dall’aspetto maturo e succoso, di ogni possibile sfumatura dell’arcobaleno. Sul tetto e lungo la facciata del municipio spiccava un’intera costellazione di minute comete dipinte, le code infuocate che splendevano come fari. Le lancette dell’orologio del campanile vibravano impercettibilmente. Sulla sinuosa linea formata dai binari della ferrovia si era depositato un lieve strato di neve, simile a un velo di zucchero. Emma batté le palpebre, incantata. Udì il suono di uno scampanellio che le riecheggiava nelle orecchie e, per un momento, il suo cuore accelerò i battiti. Poi si rese conto che si trattava solo del campanello che invitava tutte le studentesse a recarsi in sala da pranzo; si riscosse, posò la sfera sulla scrivania e andò a cena, sospirando fra se’ e se’. Quella notte, si ridestò di soprassalto da un sogno agitato pieno di scontri all’arma bianca e di sogghignanti felini dai denti a sciabola. Qualcosa non andava. La notte sembrava troppo silenziosa. Emma si sollevò sui gomiti e aggrottò la fronte. Si strofinò gli occhi un paio di 24


volte, incredula. La sfera di vetro scintillava di un bagliore innaturale, verde come i miasmi di un veleno altamente tossico. Allungò una mano ad accendere la luce, ma la luminosità sinistra che galleggiava all’interno del suo regalo di Natale non accennò minimamente a disperdersi. Con le gambe che tremavano un po’, si alzò dal letto e si accostò alla scrivania. Dal vetro gelido emanò un’ondata di freddo tale da appannarle gli occhiali; pulì frettolosamente le lenti sulla vestaglia e li inforcò di nuovo. Nella cittadina in miniatura immersa nelle nevi, stava succedendo qualcosa di molto, molto strano. Emma percepì del... no, no, era assolutamente impossibile! Scosse la testa, fece un passo indietro. Non aveva appena visto qualcosa muoversi sulle strade bordate da lastre di ghiaccio, vero? Esalò un respiro sofferto attraverso i denti serrati e guardò di nuovo. All’improvviso i veli formati dalla misteriosa foschia verde parvero squarciarsi. Una minuscola ragazza stava correndo sull’acciottolato, agitando le braccia in alto sopra la testa e muovendo la bocca, come se stesse tentando di urlare un avvertimento. Quattro figurine vestite di verde la stavano inseguendo. Indossavano un berretto floscio che terminava in un pon-pon bianco, simile alla coda di un coniglio, e brandivano delle lance nelle piccole mani guantate. Emma si appoggiò alla parete e si protese in avanti, sbalordita. Le guardie si spintonavano l’una con l’altra e sollevavano spruzzi di neve sotto i tacchi delle piccole scarpette a punta. “Oh, mio Santissimo....” Gesù, stava per invocare, ma a quel punto i quattro folletti riuscirono a compiere un’ardita manovra di accerchiamento e a mettere la ragazza in fuga con le spalle al muro. Sul viso pallido della giovane si dipinse un’espressione terrorizzata. Senza riflettere, Emma allungò un braccio e prese uno dei suoi testi di scuola, il più voluminoso che le capitò sotto mano. Come in sogno (non era per niente sicura di non stare ancora sognando, dopotutto), calò con violenza il tomo sulla sfera di Natale. Anziché rompersi, l’oggetto la risucchiò al suo interno. Emma sperimentò la stessa sensazione che si prova quando qualcuno di molto più grande e forte di noi ci impartisce un brusco strattone in avanti. In effetti, non fu troppo diverso dall’essere spintonati da Carmen durante una delle sue frequenti esternazioni di ilarità bruta. Emma capitombolò in avanti. L’istante successivo, si ritrovò a precipitare attraverso l’aria, un urlo bloccato all’interno dei polmoni e le braccia che mu25


linavano come le pale di un elicottero, cercando di aggrapparsi al niente. La caduta non poté durare più di trenta secondi; anche se, a onor del vero, alla ragazza parvero durare molto, molto di più. Si schiantò, faccia in avanti, in un immenso cumulo di neve. Senza quello ad attutirle l’impatto, probabilmente si sarebbe sfracellata; anche così, avvertì un’inquietante fitta di dolore risalirle lungo il costato, e il braccio destro mancò per poco di spezzarsi come un fuscello. Udì delle grida stridule echeggiare intorno. Per un momento fu tutto buio; poi un paio di mani la aiutò a rimettersi goffamente in piedi. “Sei... Oh, buon Signore: respiri ancora, Ragazza dei Miracoli? Dimmi di sì, ti prego!” La minuscola giovane la studiò con espressione turbata. Solo che, adesso, non era più tanto piccola; anzi, era un poco più alta di Emma, la sovrastava di qualche centimetro. “Eh?”, borbottò Emma, con la voce impastata. Aveva un coro assordante di angeli che le ululava nelle orecchie. Non riusciva a capacitarsi di aver fatto un volo del genere ed essere ancora viva. L’altra ragazza aggiunse qualcosa, ma lei non la sentì. Uno dei folletti vestiti di verde aveva fatto cenno di avvicinarsi, agitando minacciosamente la lancia; ma, proprio in quel momento, un immenso gattone dalla pelliccia bianca gli era balzato sulla schiena, atterrando l’elfo di schianto. La guardia squittì e sprofondò nella neve. La tigre albina ruggì e gli premette una zampona artigliata sulle spalle, senza ferirlo. Si limitò a guardare gli altri folletti con i suoi sinistri occhi rosa. Le guardie dalle orecchie aguzze gettarono via le armi e si diedero alla fuga, berciando e starnazzando come oche inseguite da una vecchia contadina in vena di brodo. “Ray!”, chiamò la giovane. I suoi occhi castani scintillarono di felicità. “Oh, santo cielo... ti sei trasformato!” La tigre grugnì. “Cosa ti aspettavi?”, replicò, mettendosi a sedere sul cumulo e leccandosi minuzioso una zampa. “E’ qui, no? La tua Ragazza dei Miracoli. Ha portato con sé abbastanza magia da rendermi forte come... bé, come una tigre, in effetti!” La ragazza parve tentennante. Guardò Emma, che stava ancora sorreggendo. “Bé, sì, ma... questa? Sei sicuro, Ray?” Ray assunse un’aria laconica. “Guardami. Ti sembra una domanda da fare?” Lei sospirò. “Ehi, piccola... Sicura di riuscire a reggerti in piedi?” Emma era ancora frastornata. “No”, mormorò, azzardando un paio di passi traballanti. “Sta benissimo, Diana”, intervenne Ray. E poi, a Emma: “Non fare la frignona, Ragazza dei Miracoli!” 26


Emma ci pensò su, poi si voltò verso Diana. “Quella tigre mi sta prendendo in giro, per caso?” L’altra fece spallucce. “Ray è fatto così.” Emma annuì, come se il ragionamento avesse perfettamente senso. Poi si passò una mano sullafaccia e si guardò lentamente intorno. “E’ un incubo”, disse fra se’ e se’. “Non c’è altra spiegazione.” L’espressione di Diana si intristì. “Già. E’ tutto diverso, qui, ora che la Ribelle ha preso ilsopravvento, giusto?” Emma fissò il folletto che si dibatteva sotto le unghie di Ray, strisciando e cercando invano diliberarsi. “Già”, replicò in un soffio. “Era esattamente quel che intendevo dire.” “Eh, lo so... Sotto il governo del Saggio Monarca, da ogni fontana della città sprizzava sempre ungetto d’aranciata e in ogni ristorante veniva servito un piatto di lenticchie fumanti gratis per tutti. Nelle edicole distribuivano dolcetti canditi alle mandorle e torrone. Nessuno soffriva la fame a Cittàdel Polo, mai. Adesso, invece...” Lasciò sfumare la frase. Il bagliore mesto che aveva negli occhi,comunque, bastava a raccontare quella storia per intero, dall’inizio alla fine. Emma aveva le calze bagnate fradice. Si strinse le braccia intorno al petto (stava congelando, con lasola camicia da notte di flanella a proteggerla dal gelo e dal rigore del vento) e si concentrò perimpedire ai suoi denti di cominciare a battere in modo troppo vistoso. “Ehm... Città del Polo, hai detto, eh?” Diana annuì. “Sì, certo. Nel Regno d’Inverno, il dominio del Saggio Monarca.” “Ah.” Emma tirò su con il naso. “Che è stato spodestato dal trono da questa... come l’hai chiamata?Ribelle?” “Esatto. Tu sei giunta qui per questo, Ragazza dei Miracoli”, la informò Ray. “Devi aiutare Diananella lotta contro la Ribelle. Usare la tua potente magia per far sì che torni la pace nel Regnod’Inverno.” “La mia potente magia, eh?” “La tua immaginazione”, chiarì la tigre, tranquilla. “Ah, ecco!”, annuì Emma. Diana si accigliò. “La Ragazza dei Miracoli mi sembra un po’ scettica, Ray. Sei proprio sicuro... ?” “E’ quella giusta.” La tigre si alzò con grazia ed eleganza, e il folletto ne approfittò per sgusciare viadalle sue grinfie e fuggire. Ray lo lasciò andare. La folta coda di zucchero oscillò come quella di unmicio giocherellone. “Glielo leggo negli occhi. E’ solo che non ha ancora imparato a lottare. Non hamai dovuto farlo. Ha sempre pensato di non averne motivo.” Diana soppesò Emma con lo sguardo. “Sei una tipa bizzarra, tu, Ragazza dei 27


Miracoli”, sentenziòalla fine. Emma roteò gli occhi. “Detto da una che si stava facendo catturare da quattro elfi donnicciola, e cheadesso se ne sta qui a cianciare di fontane d’aranciata e leccornie di marzapane, mi pare davvero ilcolmo!” Si incamminò a casaccio, senza avere la più pallida idea di cosa stesse facendo. “Ehi!”, la richiamò Diana. “Dove stai andando?” Emma agitò una mano, senza voltarsi. “Lontano da voi due. Di tutti gli stupidi sogni balordi che ho fatto... E potrei anche crepare assiderata...” “Ma non puoi andartene!” Nella voce cristallina di Diana si insinuò una nota di disperazione. “Babbo Natale ha bisogno di te!” “Sì, sì, ma cer...” Emma si fermò. “Aspetta un attimo. Hai detto davvero quello che io credo...Babbo Natale?” La ragazza annuì. “Babbo Natale deve riavere il suo trono prima che giunga la notte del solstizio. Altrimenti, la Befana diverrà regina e il Regno sarà perduto!” “La Befana?” Emma guardò Ray, come per avere conferma che Diana facesse sul serio. La tigre si limitò aricambiare il suo sguardo, scondizolando. “Oh, dei del cielo! Ida aveva ragione... Sono una squinternata per davvero!” Ray si mosse e fece come per aggiungere qualcosa; in quel momento, però, un richiamo cavernoso einumano riecheggiò per la strada deserta. Emma sentì arrivare la pelle d’oca. “I guerrieri-fantoccio!”, ansimò Diana, con gli occhi sbarrati. “Fuggite!”, ringhiò Ray. Emma ebbe il tempo di cogliere il minaccioso baluginio di un turbine di neve, lo scintillio di unpaio d’occhi piccoli e maligni, prima che Diana la afferrasse per lacollottola e la trascinasse con se’lungo la via. “Presto! Dobbiamo raggiungere la slitta e poi dirigerci verso la Torre! E’ la nostra unica speranza!” Emma cercò di correre, veloce quanto poteva. Vale a dire non molto, considerando che era semprestata pigra, e non era mai stata brava in educazione fisica. E poi, le dolevano ancora terribilmente lecostole... Diana sbuffò. “Ma quanto sei lenta, Ragazza dei Miracoli?!? Vuoi che ti porti in braccio?” Emma avrebbe voluto risponderle per le rime, ma si sentiva mancare il fiato e non le sembrava unabuona idea sprecarlo. Si girò a dare un’occhiata veloce alle sue spalle; una mezza dozzina disaltellanti pupazzi di neve, con il naso a carota e un cappello a cilindro calcato sul capo, stava dando loro la caccia sfrecciando fra gli edifici allegri e ridanciani che costeggiavano i lati della 28


strada. Una nube di oscurità galleggiava al centro dei minuscoli occhi a fessura dei guerrieri-fantoccio. “La Ribelle li ha corrotti”, spiegò Diana, in un rantolo. “Con la sua magia oscura. Dobbiamo arrampicarci in cima al campanile. Se ci prendono... Se soltanto ci sfiorano.. ” Emma non riuscì a trattenersi. “Cosa?”, sbottò, anche se una parte di lei, beninteso, non era poi così sicura di volerlo sapere. “Diventeremo come loro”, sussurrò Diana. “Vuoti, incattiviti e senza più colore. La peggior sorte che possa capitare ad un abitante del Regno d’Inverno.” Emma non commentò. Ray non si trovava più con loro, e si domandò che fine avesse fatto. Svoltando e tagliando attraverso vicoli e stradine secondarie, riuscirono a raggiungere la piazza della città e il cancello del municipio. In cima alla torre, le lancette dell’orologio segnarono la mezzanotte e un assordante fragore di campane lacerò la quiete della notte, una festosa cacofonia di rintocchi che fece vibrare le gengive nella bocca di Emma e le strappò una smorfia. Diana scosse forte il cancello, che era sbarrato dall’interno, e si mise a gridare: “Rudolph! Rudolph, muovi immediatamente quel sederone molle e vieni ad aprirci!” Emma si voltò a controllare la piazza alle loro spalle. La piccola squadriglia di guerrieri di neve aveva appena voltato l’angolo. Uno di loro ammiccò maligno, un bagliore di sangue negli occhi di tenebra. Diana continuava a sgolarsi. Rudolph però, chiunque egli fosse, impiegò un bel po’ prima di riuscire a sentirla, fra lo sbatacchiare delle campane e lo sferragliare metallico del cancello. All’improvviso una luce si accese all’ultima finestra e una sagoma si protese dal davanzale. “Eh? Chi è? Che succede? Cos’è questo baccano d’inferno?” “Rudolph, idiota, sono io! Vieni ad aprire!” Rudolph inforcò gli occhiali da lettura che portava assicurati al collo attraverso una sottile catenella d’argento. Era una creatura dal muso allungato e gli occhi vispi, coperto da una folta pelliccia marrone e dal nasone rosso e schiacciato. “Ah!” Emma trasalì. “Cosa?” “Emh... Niente, solo che... sai com’è, è che quello lassù ha le corna!” Diana la guardò, sbalordita. “Certo che ha le corna! E’ una renna, no? Per l’amor del cielo!” “Per l’amor del cielo”, ripeté Emma, sottovoce. Rudolph si massaggiò la schiena. “Va bene, va bene. Adesso arrivo!” 29


“Alla buon’ora!”, bofonchiò Diana. Ma ormai i guerrieri-fantocci le avevano raggiunte. Estrasse una piccola fionda dalla tasca e si addossò alla parete del campanile, tirando Emma vicino a se’ e preparandosi a puntare. “Stammi vicino”, le raccomandò. Emma lanciò un’occhiata alla fionda, poi si voltò verso i nemici. Il fantoccio meno imponente era alto due metri e mezzo. Sospirò e frugò nella sterpaglia che si accumulava ai lati del marciapiedi. Afferrò un ramo, il più robusto che riuscì a maneggiare. Nell’istante in cui si voltò per fronteggiare il guerriero più vicino, uno sbuffo di luce divampo’ dalla punta della sua arma improvvisata e il legno si trasformò in una scintillante spada di ghiaccio. “Lo sapevo!”, gridò Diana, trionfante. Applaudì e cominciò a saltellare. “Sei tu! Allora sei veramente tu!” Emma non ci capiva più niente, sapeva solo che il primo pupazzo di neve incalzava, agguerrito. “Coraggio”, lo incitò lei. “Andiamo, fatti sotto! Cosa credi, di essere il primo bulletto che prova ad atterrarmi? E’ da prima che i tuoi genitori prendessero anche solo in considerazione l’idea di darsi il primo appuntamento in una ghiacciaia, che mi tocca vedermela con le tipe come Carmen Lopez nel parco della scuola....” Il guerriero-fantoccio spiccò un balzo in avanti e protese un braccio scheletrico per ghermirla. Emma balzò di lato, un po’ goffamente, ma con abbastanza prontezza di riflessi da sottrarsi alla sua portata. Nel frattempo, Rudolph uscì dalla porta e si avviò lungo il sentierino che portava al cancello, gingillandosi con un enorme mazzo di chiavi. Il pupazzo di neve digrignò i denti con cattiveria. Emma pensò, quasi distrattamente, che sarebbe stato bello poter sciogliere quel nucleo di rabbia, di ferocia inumana, e trasformarlo piuttosto in qualcosa di bello, di colorato, di... dolce, ecco. Poi sferrò un maldestro fendente e il pupazzo di neve assunse le forma golose e invitanti di un grosso tortino ripieno di mirtilli. Emma agitò ancora la spada, e gli altri guerrieri-fantoccio si trasformarono rispettivamente in un budino, in un plum-cake al cioccolato e in un pasticcio di mele. La renna riuscì finalmente a imbroccare la chiave giusta. “Volete darvi una mossa, voi due?”, apostrofò le ragazze. “Mica possiamo stare qui tutta notte!” Emma e Diana si scambiarono un’occhiata esasperata, poi sgattaiolarono dentro. Rudolph le condusse su per una lunga rampa di scale. In cima al campanile, le aspettavano una slitta malmessa, trainata da due renne dall’aspetto indolente, bardate di rosso, e Ray. 30


Diana si sedette in cassetta e afferrò le redini. Emma esitò, poi gettò da parte la spada e la imitò. “Tu non vieni?”, domandò Ray a Rudolph. La renna si sfregò il carnoso labbro superiore con la zampa. “Naaaa! Stasera c’è l’estrazione del bingo, in tv! Portate i miei saluti alla vecchia arpia e al panzone buontempone, vi spiace?” Diana alzò gli occhi al cielo e fece partire la slitta. “Il solito scansafatiche!” Rudolph alzò le spalle. “Vedrai che Dasher e Dancer vi porteranno tutti a destinazione sani e salvi. Buon viaggio, ragazzi!” Li salutò allegramente con la mano. La slitta scivolò fuori dalla finestra e si alzò in volo nel cielo notturno trapuntato di stelle sopra la Città Polare. “Woah!” Emma commise l’errore madornale di sporgersi verso il basso. Diana la afferrò e la aiutò a stabilizzarsi. “Meglio se non guardi giù. La prima volta che ho volato su quest’affare, per poco non mi sono vomitata la colazione sulle scarpe!” Modificò leggermente la traiettoria della slitta e poi allungò un’occhiata alla sua sinistra. “Non posso crederci. Sei davvero tu, chi l’avrebbe detto?” “Già.” Emma aveva le vertigini. Deglutì a vuoto. “Senti, a proposito... Cos’è questa storia della Ragazza Portentosa?” “Dei Miracoli”, corresse Diana. “Sei tu. Quella che è stata scelta per salvare il Regno del...” “Del Natale. Sì sì, ho capito”, interruppe Emma. “Ma non è possibile. Deve esserci un errore.” “E perché no?” Emma rispose con sincerità. “Perché io ODIO il Natale!” Quasi si aspettava che Diana cercasse di buttarla giù dalla slitta e Ray di azzannarla alla giugulare. Invece scoppiarono a ridere entrambi. “E’ troppo assurdo!”, sentenziò Diana, senza riuscire a smettere di ridacchiare. “Cosa?” Emma aggrottò la fronte. “Oh, solo il fatto che... Sai, ho pregato per mesi le stelle affinchè mi mandassero un aiuto! Qualcuno che mi aiutasse a rimediare al danno che avevo combinato. E quando alla fine i numi mi hanno ascoltato, bé... di certo non mi aspettavo che, fra tutti, decidessero di mandarmi proprio il Grinch!” Si guardarono. Emma non riuscì a impedirsi di ricambiare il sorriso allegro e spensierato di Diana. Scosse lentamente la testa. “D’accordo. Così, se io sono Emma la Ragazza dei Miracoli, e lui è Ray la Tigre di Zucchero... Chi saresti, tu?” “Oh, è una lunga storia!” Diana fece spallucce. “Sai, mi sono ritrovata qui per 31


sbaglio, insieme al mio gatto, qualcosa come... sei mesi fa?” “Sette”, corresse Ray, dal “sedile” posteriore. “Sette, allora. Sono finita nel palazzo della Befana e lei... bé, mi sembrava così triste e sola, capisci, una vecchia signora ingobbita dimenticata dai più, con un naso lunghissimo e nient’altro da fare che cucire calze colorate. Così, bé... ho cercato di tirarle su il morale, l’ho spronata a darsi da fare.” “Le ha ispirato l’idea della Cospirazione d’Inverno”, precisò Ray. Diana grugnì. “Già. Bé, non è che l’ho fatto mica apposta, no?” Prima che Emma avesse il tempo di ribattere, qualcosa si abbatté sul fianco della slitta volante. Qualcosa di pesante. Dasher e Dancer si impennarono. Diana cercò invano di tranquillizzarli. “Ma che diavolo... ?!” Le ragazze si voltarono. Altri quattro pupazzi di neve, a cavalcioni di altrettante scope, le stavano braccando fra i tetti. Diana passò le redini a Emma e tirò di nuovo fuori la sua fionda. La sua mira non era male, notò Emma, ma i proiettili erano assurdamente piccoli e i bersagli in movimento troppo grandi e sproporzionati. “Dannazione!”, imprecò Ray. “Non riusciremo a raggiungere il palazzo del Saggio Monarca... Ci abbatteranno prima!” Le renne erano in preda al panico. Diana continuava a mirare e tirare, con la bocca tesa in una linea determinata. Implacabile come la marea durante una notte di luna piena, pensò Emma distrattamente. Si morse il labbro inferiore e pensò: E’ brava, a tirare. Se soltanto avesse un’arma adeguata allo scopo!. Le tornò in mente una sequenza di Hunger Games, e pensò a Katniss. Posò una mano sulla spalla di Diana. La fionda si disintegrò e, al suo posto, si materializzò un meraviglioso arco di legno intagliato. Emma strabuzzò gli occhi. Una pioggia di frecce si separò dalla vibrante corda dell’arco, abbattendo altrettanti guerrieri-fantoccio. Non ci fu il tempo di esultare. La sagoma della Torre diventava sempre più smisurata e incombente, e Ray ad un tratto gridò: “Tenetevi pronte! O ci schianteremo! Le renne hanno perso la bussola!” “Prepararci per cosa?”, replicò Emma, impietrita. Diana la tirò in piedi. “Prepararci a saltare!” Accadde tutto piuttosto in fretta. Non appena la slitta sfrecciò ronzando a tutta birra accanto al telaio di un’immensa finestra ogivale, Diana piegò le gambe e strattonò Emma. Ray compì un arco aggraziato. I tre atterrarono all’interno di una sala del trono interamente foderata di rosso. Un lunghissimo tappeto scarlatto conduceva ad un seggio fatto di rami intrecciati. In alto, sulla parete, svettava una bandiera che presentava uno stilizzato disegno araldico: un uomo barbuto e corpulento con un sacco di 32


tela grezza gettato sulle spalle, una mano sollevata a salutare il suo invisibile pubblico. Lo stesso uomo giaceva in quel momento, privato della sua corona, accasciato sul trono, con la testa canuta ciondoloni sul petto. Una donna alta, vestita di verde scuro, incombeva su di lui con una sorta di pugnale sacrificale stretto fra le mani deformate dall’artrite. Non appena udì dei rumori alle sue spalle, l’anziana signora (che aveva il viso un po’ spiegazzato dalle rughe e qualche filo d’argento sparpagliato fra gli ordinati capelli biondi, ma nel complesso non sembrava meritarsi neanche lontanamente gli epiteti poco lusinghieri che molti terrestri le avevano nel tempo affibbiato), voltò la testa di scatto come uno sparviero e fece un cenno. Le ampie maniche a sbuffo del suo corpetto si gonfiarono come per effetto di una brezza impalpabile. Una scarica d’energia sfrigolò all’interno del salone, e una barriera di viticci stregati si levò dalle pareti e ghermì Diana per le braccia, immobilizzandola contro il muro. Un eguale trattamento fu riservato a Ray: la tigre ruggì e provò a far scattare le potenti mandibole, ma i rampicanti alla fine ebbero la meglio su di lui. Il volto della Befana si ricompose. Riuscì perfino ad azzardare una risatina un po’ incerta. “Voi due! I soliti impiccioni! Cosa pensavate di fare? Credevo che ormai la situazione fosse chiara. Non potete fermarmi.” “Noi forse non possiamo”, ringhiò Diana. “Ma lei sì! E’ venuta fin qui per darti la lezione che ti meriti!” Indicò Emma con l’unica mano libera. Lo sguardo dorato della Befana si posò sulla ragazzina, luccicando come quello di una bestia famelica. Grazie mille, Diana! “Tu?!” La Ribelle rovesciò il capo all’indietro e rise fino a farsi scendere le lacrime. “E che cosa conti di fare tu, miscredente? Inginocchiati al mio cospetto!” Il muro di viticci si protese verso Emma e la ghermì per le braccia. A poco a poco, si insinuò sotto e dietro i suoi polpacci, costringendola a piegarsi. Emma strinse i denti. Per un attimo, un singolo, odioso momento si sentì piccola, stupida e indifesa, come quando Ida e Carmen facevano irruzione nella sua stanza, dandosi un sacco di gomitate l’un l’altra, e cominciavano a sbeffeggiarla. Poi Diana gridò: “Ragazza dei Miracoli! Puoi farcela! Ma devi credere!” Emma lottò per sollevare la testa. “In cosa?” “Magia!”, urlò Diana. “Te stessa!”, ruggì Ray. Emma ripensò alla spada incrostata di ghiaccio. Pensò all’arco, e ai pupazzi maligni che precipitavano nel vuoto in una notte di velluto carica di stelle. 33


Credi nella magia. Credi in te stessa. In quell’attimo, realizzò che entrambi la stavano incoraggiando a fare appello alla stessa forza. C’è della magia, dentro di me. Io ho... il potere. Con un senso di profonda meraviglia e il cuore che le scalpitava fortissimo, rovesciò i palmi e afferrò i grovigli di rovi e spine che la intralciavano. Il suo sangue parve accendersi e cominciare a scorrere come fuoco liquido dentro le sue vene. Pensò: Molto bene. Che fuoco sia, dunque. E una vampata di fiamme divorò i malefici rampicanti, restituendole la libertà. Si rialzò in piedi e fissò la Befana negli occhi. “Restituisci quello che hai preso”, le intimò, con voce calma. La strega biascicò una formula e una serie di lame vorticanti sfrecciò alla volta del volto esposto di Emma, trasportate da un’invisibile corrente. La ragazza inclinò il capo e prese un respiro profondo. La brezza fece rotolare lontano i suoi occhiali ma, all’ultimo secondo, non appena la folata d’aria entrò in contatto con il suo corpo, la magia dell’immaginazione di Emma trasformò l’acciaio in carne viva e pulsante: uno stormo di colombe dal becco arancione frusciò le ali a pochi centimentri dal suo orecchio e poi si lanciò verso la finestra, riversandosi nella città avvolta dalle nebbie. La Befana ruggì di frustrazione. Fece ancora una volta appello ai suoi poteri ed evocò la forma di un gigantesco, ferocissimo grizly irsuto dalle zanne grondanti di bava. Emma scosse il capo. “Ancora non hai imparato, eh? Già... Non imparate veramente mai, voialtri”, mormorò fra sé e sé. Poi si piegò per terra, sfiorò il soffice tappeto e guardò le pieghe nel tessuto assumere la forma di un maestoso orso polare. Le due creature generate dalla magia si scontrarono al centro esatto del salone e si diedero battaglia. Le fauci dell’orso polare si chiusero intorno alla gola del grizly; la seconda bestia si accasciò al suolo e scomparve, in una nube nera di fumo. Al suo posto, comparvero una macchia sul tappeto e un biscottino di pan di zenzero, a forma di orso di montagna. Emma avanzò rapidamente e raccolse il dolcetto. “Puoi mandarmi contro quello che vuoi. Folletti, guerrieri di neve, orsi e lame rotanti. Avanti. Sono qui, non mi tirerò indietro. Dai fondo alle tue riserve. Non cambierà il fatto che, alla fine di questa storia, io sarò ancora in piedi, e tu te ne starai lì, come una stupida allocca, a chiederti come mai il tuo disprezzo e la tua cattiveria, la tua maledetta rabbia, non sono riusciti a mandarmi a terra. Te ne starai lì, e ti renderai conto di non avere niente, mentre io 34


sarò qui a mangiare schifezze e a dire stupidate, mentre intanto canto allegre canzoncine di Natale. Perciò, avanti: colpiscimi con tutta la forza che hai. Tu non puoi toccarmi. Non puoi.” Diede un morso al biscotto. E cominciò a cantare. La Befana la guardò negli occhi. E poi se la diede a gambe. Non appena la sua sgradita presenza abbandonò il palazzò, si verificarono tre cose. Il ciccione col berretto rosso (Babbo Natale, Emma ancora non riusciva a farsi una ragione di doverlo chiamare così) iniziò a riprendere conoscenza. I viticci che tenevano prigionieri Diana e Ray si dissolsero. E Emma, molto lentamente, cominciò a scivolare via, sentendosi nuovamente sopraffare da quella sensazione di trazione e allontanamento che l’aveva ghermita quando era capitombolata in città. Aprì la bocca, ma non fece nemmeno in tempo a salutare i suoi nuovi amici: sobbalzò violentemente e si mise a sedere, con le lenzuola aggrovigliate intorno alle gambe, nella sua stanza al dormitorio della scuola. Si tastò le guance, la fronte, le gambe. Era tornata. Posto che fosse mai andata da qualche parte, naturalmente. Nelle ore successive, Emma si costrinse a credere di aver sognato. Sembrava verosimile, tutto considerato; anzi, suonava probabile: di sicuro non era veramente andata in nessuna fantasiosa città natalizia, e non aveva volato su una slitta in compagnia di una strana ragazza e di una tigre parlante... quel genere di cose non succedeva, nella vita vera. E comunque, non a lei, la noiosa, barbosa Emma. Forse aveva solo fatto indigestione di caramelle gommose. Avrebbe fatto meglio a darci un taglio, con quella roba... Liberò un sospiro, sforzandosi di ingoiare un groppo di delusione e di tristezza. Quel pomeriggio, si mise a fare i compiti e si concentrò per tenere la mente sgombra dalle fantasticherie il più possibile. Intorno alle cinque, un gran baccano si fece sentire dall’ingresso principale della scuola. Emma si affacciò in corridoio e vide molte delle sue compagne rimaste, già pronte per la partenza, avviarsi verso le scale, bisbigliandosi l’un l’altra in preda a una forte curiosità. Vide anche Claudia, che le si accostò, con la faccia mesta e torcendosi le mani. “Emma, io... prima di andare, volevo solo solo dirti che... sì, ecco, insomma...” Emma le sorrise. “Lascia stare. Va tutto bene.” Fece una cosa che le venne dal cuore. Si chinò e stampo’ un bacio d’addio sulla fronte della sua vecchia amica. “Abbi un Natale sereno e felice, okay? Divertiti anche per me.” Claudia la guardò, stupita. Annuì, senza riuscire a parlare. Emma le posò brevemente una mano sulla spalla (quella stessa mano che aveva evocato la spada, quella stessa mano che aveva sprigionato scintille di 35


magia e sconfitto gli incantesimi oscuri della strega), le sorrise un’ultima volta e si allontanò lungo il corridoio. In fondo alle scale, scoprì finalmente la responsabile di tutto quel trambusto: una ragazza minuta vestita di rosso e di bianco, che reggeva una gabbietta da trasporto con dentro un gattino del colore dello zucchero e si trascinava dietro un sacco (ma veramente un sacco!) di bagagli. La signora Carey le stava facendo fare il giro della scuola. Le altre studentesse si accalcavano intorno, incuriosite dall’arrivo inatteso di una faccia nuova all’interno del loro piccolo, claustrofobico mondo... Ma non fu fino a quando Diana riuscì a intercettare lo sguardo di Emma fra la folla, che il suo viso si spalancò in un ampio, luminoso sorriso. “Eccola qua, la mia Ragazza dei Miracoli!”, trillò allegramente. Salì i gradini a due a due e le gettò le braccia al collo. “Buon Natale, Emma!” “Che cosa... Che cosa diamine ci fai, tu, qui?”, esclamò Emma, ridendo. Diana le strizzò l’occhio. “Per prima cosa, sono venuta a riportarti questi.” Le infilò con delicatezza gli occhiali dalla montatura un po’ ammaccata, che Emma credeva ormai di aver perso. “Si sono rotti, quando quella megera li ha fatti scivolare via, ma ho costretto Rudolph ad aggiustarli!” “Quello è...” Emma indicò la gabbia, incredula. “E’ Ray?” “Proprio così!” Abbassò la voce e si sporse verso di lei. “E’ così che appare, quando siamo nel mondo normale e non c’è nessuna Ragazza dei Miracoli a infondergli la sua magia!” Sorrise di nuovo, un sorriso sincero e contagioso, fresco e confortante come una giornata di primavera. “E la seconda ragione per cui sei venuta?” “Bé... Ho sempre desiderato sapere cosa si prova a frequentare una scuola; voglio dire, una scuola vera, con le mura e tutto!” “Fai sul serio?” “Direi!” “Ti iscriverai qui? Al C.C. College?” “Non vedo perché no. Ci passerò le vacanze, anche. I miei sono andati a stare praticamente dall’altra parte del mondo. E poi... Ho scoperto una cosa. Su Ray.” Si morse il labbro. “Non è un gatto... bé, sai, non vorrei offenderlo, ma non è affatto un micio normale. E’ un gatto del Cheshire.” “Come lo Stregatto?”, domandò Emma, confusa. “Già. Ho pensato... Cioé, mi sono detta... Se venivo qui, magari potevamo indagare insieme... Ritrovare la famiglia matta di Ray, vedere se...” Esitò, arrotolandosi una ciocca di capelli intorno al dito e lanciando a Emma un’occhiata speranzosa. “Qesto significa che ci metteremo nei guai?” “Bé, non è detto... Cioé, insomma, può darsi che... Oh, sì. Senz’altro!” “Diavolo, sì!” Emma scoppiò a ridere. “Sì, Diana, certo che voglio farlo!” 36


Un altro sorriso illuminò il viso di Diana. “Tieni”, le consegnò un biglietto. “E’ per te, da parte di Babbo Natale.” Emma aprì la missiva e la lesse. Hai regalato un piccolo, grande miracolo a questo Regno. Io ne dovevo uno a voi. Abbi molta cura di Diana. E’ un po’ matta, ma è sincera, leale e generosa, e ha bisogno di un’amica, di una famiglia, più di qualsiasi altra cosa al mondo. E vale lo stesso per il piccolo Ray. PS: Buon Natale, Emma!

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4 Magie di Natale Le luci sull’albero di Natale lampeggiavano alternatamente attirando l’attenzione di tutti i passanti. Anche quell’anno, infatti, la vetrina della libreria “Le due Torri” era addobbata per l’occasione e, al solo guardarla, sembrava di essere davanti ad un negozio di altri tempi con i suoi lunotti a mezzaluna appannati e la piccola porticina di legno con il chiavistello in ferro battuto, proprio come quello dei castelli: in effetti si trovava al primo piano di un antico palazzo seicentesco che si affacciava su una stradina lastricata, stretta e consumata dal secolare passaggio dei viandanti. Forse proprio per quel suo aspetto particolare, era nata la leggenda che fosse un luogo magico e che, il giorno di Natale, vi accadessero veri e propri miracoli. Era ormai, dunque, un anno che Angelica si fermava davanti a quella vetrina e, dopo essersi alzata in punta di piedi perché non ci arrivava bene, si aggrappava alla pietra che fungeva da davanzale, restando incantata a guardare le figure delle copertine. Immaginava, con l’innocenza dei suoi otto anni, che fosse davvero un luogo magico, che, il giorno di Natale, attraversandone la soglia, avrebbe potuto vivere grandi avventure insieme ai protagonisti di quei libri, e che, forse, avrebbe ritrovato anche qualcosa del suo papà… Arrossiva al sol pensiero e il cuoricino batteva forte per l’emozione, mentre i suoi grandi occhi celesti esaltavano la carnagione rosea, il nasino alla francese e la bocca socchiusa dallo stupore: ogni giorno, dunque, dopo la scuola, passava di lì, si fermava cinque minuti a sognare un po’ per poi correre a casa. Come di consueto, anche quel giorno di Natale la mamma l’aveva portava al Mercatino che si svolgeva in una piazza poco distante dalla libreria e lei, approfittando della grande confusione, era sgattaiolata tra una casupola di elfi e una stalla di renne, per correre a vedere quali novità ci fossero in vetrina. Appena arrivata lì, si era appoggiata alla solita pietra e con le manine si era arrampicata sino al davanzale, restando in bilico a guardare quel mondo me39


raviglioso. «Angelica sei qui!? Finalmente ti ho trovata!» sentì urlare la mamma che l’aveva cercata per una decina di minuti, in quella massa confusa, in preda al panico «Guai a te se lo fai un’altra volta! Mi hai fatto spaventare da morire». All’udire quelle parole, la bimba scivolò giù, consapevole di aver fatto un guaio, cercò di dribblarla per non essere presa e, visto che non vi riusciva, aprì la porta del negozio ed entrò correndo nella speranza di trovare un luogo dove nascondersi. Al suo interno, la libreria sembrava molto più piccola di come se l’era immaginata: lungo i quattro lati vi erano scaffali a muro pieni di libri, tre più piccoli dividevano la stanza rettangolare in zone dedicate, lei si era accucciata proprio sotto la scritta: GENERE FANTASY. Sul fondo del lato destro un bancone in legno con il registratore di cassa delimitava un piccolo spazio con due tavolini e cinque o sei sedie dedicato alla consultazione. Infine un vecchio lampadario in ferro battuto illuminava la stanza, creando strani giochi di luce sul pavimento proprio sulla sua testolina che si muoveva ritmicamente, attratta da tutti quei volumi dai colori più strani. Il “Din Don” del campanello sulla porta la fece sobbalzare, si accucciò ancora di più per non essere vista dal commesso che, annoiato, era appena rientrato da un locale sul retro e non si era accorto della sua presenza. «Mi scusi, per caso sa dov’è andata la bambina che è entrata poco fa?» la voce di sua madre chiese preoccupata. «Io non ho visto nessuno, signora» rispose l’uomo sbadigliando «Sono spiacente». Angelica trattenne il respiro, cercò di gattonare per uscire senza essere vista e, proprio nel momento in cui stava per circumnavigare lo scaffale, lo colpì con la punta della scarpa, facendo cadere, proprio sulla sua testa, un libro appoggiato, in bilico, sul primo piano. «Ahi!» bofonchiò per non essere sentita dalla madre, che nel frattempo, stava controllando ogni angolo del negozio, accompagnata dallo svogliato commesso «Proprio adesso, accidenti!» proseguì prendendo in mano il volume. Guardò la copertina e riconobbe in quella buffa cinquecento, che si allontanava rombando dal paesino magico, il disegno che le aveva fatto suo papà come 40


regalo per il suo sesto compleanno. Il cuore le si strinse in una morsa dolorosa al ricordo del giorno di Natale di due anni prima in cui l’uomo “era volato in cielo” come le aveva detto la mamma. Di lavoro faceva il pittore e, spesso, realizzava copertine ed illustrazioni di libri per Case Editrici; anche per questo si fermava a guardare la vetrina, perché quello era il luogo in cui spesso erano stati esposti i suoi lavori… «Angelica, dove sei? Ti ho vista entrare e non puoi essere uscita quindi smettila di nasconderti e fatti vedere, forza!» la voce della mamma riecheggiava in lontananza. Accarezzò la cover con la manina, mentre le tornavano in mente le parole del padre «Tesoro mio, ti dispiace se copio il disegno che ti ho regalato? Diventerà la copertina di un libro, così sarà anche un po’ nostro. Prometto che te ne leggerò un pezzettino ogni sera, che ne dici?» lei naturalmente aveva accettato e ora se ne ritrovava una copia tra le mani proprio come quella che aveva in casa e non aveva più voluto vedere: dopo la sua morte l’aveva rinchiusa in un cassetto e non aveva mai più voluto aprirlo… «Credo che sia là!» intervenne il commesso indicando i tavolini dietro alla cassa. Angelica trasalì e fece cadere il libro che si aprì proprio su una delle sua illustrazioni preferite. D’improvviso un alone di luce intensa le colpì gli occhi costringendola a chiuderli per non restare accecata «Ma cosa succede!?...» bisbigliò stupita. «Tieni gli occhi chiusi, piccolina» si sentì rispondere da una voce dolce ed elegante che proseguì bisbigliando sottovoce alcune parole incomprensibili «Adesso puoi aprirli». La bambina, sospettosa, socchiuse prima il destro e visto che non sentiva alcun fastidio, li spalanco tutti e due trovandosi, dinnanzi, un magnifico uccello bianco, avvolto nella luce, con le piume dorate e due grandi occhi celesti che la guardavano intensamente. D’istinto, poiché conosceva bene la storia ed era uguale al disegno che ne aveva fatto il papà, disse «Tu dovresti essere la Lumerpa, Petra Regia?» avvicinandosi per cercare di toccarla. «Esatto, vedo che mi riconosci» ebbe in risposta. «Allora è vero che in questo negozio i personaggi dei libri, il giorno di 41


Natale, diventano reali. Lo avevo sempre sospettato…» proseguì la bambina accarezzandola. «In verità, noi viviamo solo nella fantasia degli scrittori, dei disegnatori e di tutti i lettori. Ma oggi è un giorno magico, e, qualcuno, da lassù ha voluto farti un regalo speciale affinché tu non ti senta più sola…» riprese l’animale aprendo le ali. «E chi?» chiese la bambina incuriosita e piuttosto confusa, avvicinandosi alle morbide piume dorate. «Il tuo papà». «Mio papà è volato in cielo due anni fa in questo stesso giorno, lasciando me e mia mamma da sole» ribatté Angelica abbassando la testa con il cuore gonfio di dolore e di rabbia perché si sentiva abbandonata. «Lo so, mi dispiace tanto; ma devi sapere che non lo ha fatto per sua volontà. è stato chiamato a disegnare per gli angeli perché lassù avevano bisogno di un pittore bravo come lui. Comunque vuole che ti dica che vi protegge sempre, vi vuole tanto bene e che, quando guarderai uno dei suoi lavori, lo sentirai ancora più vicino. Questo è da parte sua…» aggiunse abbracciandola stretta. La bimba, commossa, sprofondò nel morbido manto e sentì sciogliersi tutto il dolore che aveva provato sino ad allora e che gli aveva fatto odiare quella ricorrenza: da due anni, infatti, non voleva festeggiare, si rifiutava di aprire i regali, piangeva e soffriva per quella mancanza incolmabile… «Ah, sei qui, birbantella!» la voce della mamma la fece tornare in sé: improvvisamente la Lumerpa non c’era più e si ritrovò, tra le mani, il libro ancora aperto alla pagina su cui si trovava il disegno fatto dal papà. Sorrise. «Scusa mamma, mi sono distratta…» aggiunse, stropicciandosi gli occhi umidi e asciugandosi, di nascosto, due piccole lacrime. «Non importa» rispose la donna con lo sguardo addolcito per la sua commozione «Andiamo a casa» proseguì abbracciandola forte, non più arrabbiata per il suo comportamento. «Sì» ribatté la bimba «A proposito, Buon Natale!» concluse, riponendo il libro al suo posto. Ringraziarono il commesso ed uscirono, mentre la mamma la guardava stupita perché era da tempo che non la sentiva parlare in quel modo. 42


Il giorno dopo, come al solito, Angelica ripassò davanti alla libreria, si fermò per guardarne la vetrina e sorrise nel vedere esposta, tra le altre, la copertina con la cinquecento che le era tanto cara. Alzò gli occhi al cielo, allungò la mano in segno di saluto e disse «Grazie, Papà!»…

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Fiocchi di neve “Quest’anno non so proprio cosa regalare. Dove posso andare per riuscire ad avere un’idea?” Elisabetta, per gli amici Betty, camminava a grandi passi nel bel mezzo della confusione di via del Corso a Roma, tra i tanti negozi, le luci, gli alberi che spiccavano e le persone che, prese dalla frenesia, spingevano e travolgevano chiunque si trovasse sulla loro strada. Faceva freddo ed erano i primi giorni di dicembre. A causa delle lezioni all’università, Betty non aveva avuto tempo di comprare nessuno regalo, né per i suoi genitori, né per sua sorella. Certo non avrebbe dovuto preoccuparsi di altro: le amiche avevano deciso “niente regali, ma solo un caffè insieme per farsi gli auguri” e un ragazzo Betty non ce l’aveva. Per il momento non era nemmeno intenzionata a incontrarlo. “Chi me lo fa fare”, pensava, “Devo prima volere bene a me stessa, poi si vedrà”. Ora si aggirava confusa per quella via, intirizzita dal clima non proprio gentile, avvolta nella sua sciarpa nera con i brillantini, un paraorecchie blu e il suo cappotto. Ovviamente indossava anche i guanti nonostante le dita fossero ormai diventate delle stalattiti. Betty detestava il freddo perché per lei significava solo tosse, mal di gola, febbre, oppure “copriti con tre strati di vestiti altrimenti diventi un ghiacciolo”. E nonostante ciò le piacevano anche tante cose dell’inverno, come la cioccolata calda con una bella spruzzata di panna sorseggiata davanti al caminetto, oppure fare l’albero di Natale e per ogni pallina esprimere un desiderio che puntualmente non si avverava, comporre il presepe sempre troppo affollato, andare in giro per centri commerciali anche solo a guardare le vetrine luccicanti e quell’aria un po’ magica che sembrava aleggiare e avvolgere ogni cosa. Quest’anno però la ragazza non riusciva a sentire l’atmosfera. Il Natale cos’era? Si sentiva un po’ il Grinch a dire il vero, con tanto di colorito verde brillante. Betty si fermò nel bel mezzo della via, immobile a guardare quelle persone che sembravano impazzite, cariche di buste, che si urtavano l’una contro l’altra, più o meno come quando c’era la corsa per i saldi. “Il Natale non può essere solo questo. Non può essere davvero tutto così effimero”. Presa dallo sconforto, fece marcia indietro e si recò alla fermata dell’autobus 45


più vicina. Gettò un’occhiata al Vittoriano, illuminato a giorno, e all’albero che era in costruzione, gigantesco e pieno di luci come sempre, come ogni anno. Inserì la musica alle orecchie e selezionò volutamente la canzone “Cold December Night” di Michael Bublè. Arrivò l’autobus che era quasi vuoto. Erano circa le 17:00 e Roma era già in modalità notturna nonostante le stradine fossero sempre movimentate. Betty si mise a sedere al posto dietro quello del conducente, sguardo perso fuori dal finestrino che con il suo respiro si appannava. “So please just fall in love with me, this Christmas there’s nothing else that I will need, this Christmas won’t be wrapped under a tree, I want something that lasts forever, so kiss me on this cold December night”. Una lacrima scese sulla sua guancia e la ragazza se l’asciugò rabbiosamente con il dorso di lana del guanto. “D’accordo, no. È solo una stupida canzone”. Si voltò dalla parte opposta. Una libreria le si parò davanti. Scese alla fermata successiva. Facendo attenzione alle persone che salivano come un branco di pecore, incuranti di calpestare qualcosa o qualcuno, saltò sul marciapiede e si diresse all’interno del negozio, tra un suono di chitarra e una canzone di Natale stonata cantata da poveracci che si trovavano nei paraggi. Ecco, lì non è che fosse meno affollato, però almeno la gente era più composta, rapita da altri mondi non appena posava lo sguardo sulle righe di un libro o sulla sua copertina. Betty si levò la sciarpa e la ripose nella sua borsa. Il riscaldamento era eccessivo, nonostante ora le facesse piacere riceverlo sulla sua pelle ghiacciata, e la sciarpa le sarebbe servita sicuramente più tardi. Inviò un sms alla sorella per avvertire che avrebbe fatto ancora qualche giro. Betty si conosceva: ogni volta che entrava in libreria, ne usciva dopo un’ora come minimo, anche senza aver comprato nulla. La sua sola curiosità la conduceva attraverso il settore classici, storici, polizieschi, rosa (zona che avrebbe volentieri evitato se non le fosse proprio capitata davanti), fantascienza e… <<Fantasy! Finalmente il mio mondo!>> disse sottovoce rivolta a un libro 46


dalla bella copertina con un drago e altri personaggi dai colori sgargianti. Camminò un po’, passeggiando, lanciando occhiate qua e là per scorgere qualcosa di interessante. Si avvicinò a uno scaffale, sfogliò un libro, guardò il prezzo e scuotendo la testa delusa lo rimise al suo posto. Proseguì la camminata fino ad incontrare un libro illustrato. Lei adorava disegnare e si chiedeva sempre come facessero gli autori di quelle magnifiche opere d’arte stampate a realizzarle, a renderle così realistiche. Sfogliò e sfogliò, rapita dai colori, dalla magia, dall’odore di carta nuova e… improvvisamente cadde. Betty non si rese subito conto di quel che fosse accaduto. Riuscì a capirlo solo quando un ragazzo la prese per mano e l’aiutò ad alzarsi. Poi lui ancora si piegò, raccolse il libro, lo chiuse, lo spolverò e lo posò sullo scaffale. E infine prese l’mp3 di Betty… rotto. La ragazza si massaggiò il braccio e la gamba che aveva urtato contro il pavimento, si strofinò le tempie e sbatté gli occhi. <<Tutto bene signorina?>> chiese un’addetta della libreria che, sentendo il rumore, era corsa a vedere cosa fosse successo. Betty annuì. <<Sicura? Vuole un bicchiere d’acqua? È necessaria un’ambulanza?>> La ragazza disse di no e ringraziò la premurosa commessa. Ora che lo stato di stupore e di paura era passato, la rabbia stava montando. Betty la sentiva crescere dentro di sé, soprattutto osservando quello strano ragazzo che, con un’espressione mortificata, teneva l’mp3 calpestato nella sua mano enorme e provava disperatamente a farlo funzionare. Betty gli strappò l’oggetto dalle dita. <<Grazie mille tonto vagante. Mi ci voleva davvero!>> Il ragazzo, all’incirca della sua età, alto, capelli scuri e un po’ arruffati, occhi di un bel color nocciola, e il viso semicoperto da una sciarpa a causa del suo raffreddore, balbettò qualcosa. Betty infierì. <<Credo di non aver afferrato le tue scuse.>> Il ragazzo prese un respiro profondo. 47


<<Sono veramente dispiaciuto. Ero distratto. Spero che non ti sia fatta male.>> Betty continuò a guardarlo dall’alto (molto alto) in basso con un’aria di disprezzo. Poi sbuffò, infilò il rottame del suo mp3 in borsa e si voltò pronta a imboccare l’uscita. Era sulla soglia quando qualcuno le afferrò il braccio sinistro, quello che aveva sbattuto. <<Ahia!>> esclamò Betty strofinandosi il punto dolente e guardando il suo inseguitore. <<Che cosa vuoi ancora?>> domandò stizzita. Tra l’altro aveva anche notato che fuori aveva iniziato a piovere e lei non aveva l’ombrello. “Bella giornata del cavolo, davvero bella. La segnerò sul calendario!” disse tra sé e sé, mentre faceva nuovamente un passo all’interno del negozio. <<Io sono dispiaciuto per quel che è successo…>> Betty non lo fece terminare. <<Sì, l’ho capito, ora voglio tornare a casa se me lo permetti, prima che qualcun altro riesca a travolgermi.>> Il ragazzo si sfilò la sciarpa e Betty lo poté vedere meglio in viso. Si notava che era imbarazzato ed era anche carino. Pensieri che però scivolarono subito via sostituiti dalla ragione che voleva prevalere su qualsiasi cosa da qualche mese a quella parte. <<Per favore, dammi la possibilità di farmi perdonare. Ti offro una cioccolata calda al bar qui sopra, che ne dici?>> Betty era tentata, ma la sua acidità prevalse. <<Odio la cioccolata.>> Ecco, questa era la bugia più grande della storia dell’intera umanità. Sul viso del ragazzo si disegnò un’espressione perplessa. <<Un cappuccino allora?>> riprovò. <<Detesto anche il latte e il caffè.>> Il ragazzo sorrise. Betty rimase a osservarlo: “È dolce quando sorride”. Poi scosse la testa e si voltò di nuovo.

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Il ragazzo afferrò ancora il braccio di Betty. <<Senti, è quasi Natale e non farmi sentire in colpa, ti prego. Vieni al piano di sopra e ti scegli quello che vuoi, va bene? Così evitiamo che detesti qualcosa.>> Betty stavolta sorrise e fu inevitabile. Seguì il ragazzo per le scale. Lui ogni tanto si voltava per controllare se non fosse di nuovo fuggita, ma Betty era lì dietro. Si diressero al bancone. <<Cosa desidera?>> domandò il cameriere armeggiando con tazzine e cucchiaini, chiudendo il rubinetto e ordinando due caffè al suo collega. Riusciva a fare di tutto solo con due mani, eppure sembrava la dea Calì. <<Allora, io un caffè al ginseng e…>> <<Per me una cioccolata calda per favore>> rispose Betty. <<Con panna>> aggiunse. Il ragazzo si voltò a guardarla sorridente. <<Non avevi detto di odiarla?>> Betty proruppe in una risata. <<Ah sì, ho detto questo? Che sbadata! Devo aver battuto anche la testa.>> Il ragazzo si sfilò il guanto destro e allungò la mano. <<Comunque io sono Matteo… il tonto vagante.>> Betty sorrise ancora e si meravigliò di quante volte dopo quella caduta stesse sorridendo. Non lo faceva da tanto tempo. Si era persino dimenticata del freddo. <<Betty. Avrei preferito presentarmi diversamente, ma va bene lo stesso.>> Il rumore di piattini annunciò le loro bevande calde. I due le presero e si misero seduti a un tavolino. Da lì si vedevano le persone che camminavano al di sotto, cercando libri nel negozio sottostante e quelli fuori, con l’ombrello, che camminavano velocemente per non bagnarsi ancora. Betty faceva finta di osservare altrove, sorseggiava e continuava a far finta di perdersi fuori, nella strada. Matteo la osservava fingere e girava il cucchiaino del suo caffè in attesa che si raffreddasse un pochino. Passarono alcuni minuti di silenzio imbarazzato. 49


<<Beh, ti fa ancora male?>> Betty si riscosse e si sorprese a pensare “Era ora”. <<Sì, diciamo che è solo stata una brutta botta. Mi verrà il livido, ma servirà a colorare questa pelle troppo bianca.>> Matteo sorrise. <<Sei spiritosa.>> Betty si imbarazzò e, accennando un sorriso a sua volta, continuò a bere il cioccolato. <<Cercavi un regalo per qualcuno? Ho visto che avevi un libro illustrato in mano… quando l’ho raccolto ovviamente. Prima ero talmente distratto che… ecco è successo quel che già sai.>> La ragazza si tamponò la bocca con il tovagliolo per evitare di lasciare tracce di cioccolato in giro che la facessero somigliare a una bambina dispettosa che si era appena mangiucchiata tutta una scatola di dolci di nascosto. <<Sì, a dire il vero, ma ecco quello non era il regalo per nessuno. Sono entrata in libreria a farmi un giretto esplorativo. Sono reduce da via del Corso e sono rimasta perplessa, quindi ho preferito rifugiarmi qui.>> Gettò un’occhiata fuori. <<E alla fine ho fatto anche una cosa saggia dato che adesso diluvia e fa freddo.>> <<Sì, detesto il freddo. Guarda come sono conciato?>> Si sfilò la sciarpa vecchiotta e la ripose in borsa. Betty sorrise ancora. Matteo aveva il naso così rosso da sembrare Rudolph, la renna di Babbo Natale. <<Però mi piace passeggiare e quindi non ce l’ho fatta a rimanermene ancora dentro casa. Le lezioni all’università oggi non c’erano e ho deciso di provare a fare qualche regalo.>> <<Per chi?>> domandò curiosa la ragazza, allisciandosi un ciuffo di capelli castani. <<Per i miei e per le mie due sorelline. Per mia madre e mio padre non ho la più pallida idea di cosa regalargli, mentre per le mie sorelline credo ripiegherò su un dvd di Natale, sui cartoni della Disney che loro adorano.>> Betty provò a porre quella domanda, anche se lei stessa si meravigliò di averla pronunciata. 50


<<E alla tua ragazza?>> Matteo la fissò per qualche secondo e si morse il labbro internamente, poi sorrise e scosse la testa. <<Non sto con nessuna ragazza attualmente. Mi sono proposto di pensare solo a terminare gli studi, poi si vedrà.>> Betty annuì e tirò fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni. Era il messaggio di risposta di sua sorella: “Va bene. Non rimanerci a dormire in libreria. So come sei fatta”. Mentre la ragazza era intenta a rispondere a sua volta, ecco la voce di Matteo, dal tono divertito. <<È il tuo ragazzo che non ti vede tornare e si preoccupa vero?>> Betty lasciò stare il cellulare. Probabilmente qualche ora fa avrebbe detto di sì e avrebbe anche finto di sorridere allo schermo mentre inviava un messaggio al suo ragazzo immaginario, inventato solo per depistare colui che ci stava provando. In quel momento non se la sentì e disse la verità, sorridendo. <<Non ho un ragazzo. Ho deciso che voglio provare a voler bene prima a me stessa e poi ne vorrò a qualcun altro.>> Matteo sorrise. <<Benissimo, siamo sulla stessa lunghezza d’onda allora. Saggia decisione.>> Betty fece spallucce e si alzò, seguita da quel ragazzo troppo simpatico. Prese la sua tazzina, ma Matteo gliela sfilò dalle mani. <<Non preoccuparti, faccio io.>> Betty rimase lì a guardarlo mentre si dirigeva con i piattini al bancone e decise di seguirlo, scendendo nuovamente le scale e tornando ancora una volta davanti la porta d’entrata. La pioggia continuava inesorabilmente a scendere. <<Aspetterò qui finché spioverà. Non ho l’ombrello con me.>> Matteo aprì la borsa che portava a tracolla, infilò la mano e ne tirò fuori sciarpa, quella che aveva indosso prima, e un ombrello blu scuro. <<Se vuoi ti accompagno alla fermata e aspetto con te. È il minimo che possa fare, visto che per poco non ti faccio rompere braccio e gamba.>> 51


“Questo ragazzo ci si è messo d’impegno a mettermi in imbarazzo?” pensò Betty mentre si avvicinava a Matteo che, con passo sicuro, si dirigeva verso il gruppo di persone che attendevano pazientemente il mezzo pubblico dove ovviamente la tabella non segnalava l’autobus che serviva alla ragazza. <<Fantastico! Tornerò domani mattina a casa!>> esclamò Betty rivolgendo occhiate malefiche alla tabella elettronica. <<Posso proporti una cosa?>> domandò Matteo di nuovo con il viso coperto da quella sciarpa. <<Avanti, spara.>> <<Anch’io vado in quella direzione. Nel frattempo ci facciamo una passeggiata e guardiamo i negozi. Magari riusciamo anche a farci venire qualche idea per i regali.>> Betty non ci rifletté sopra due volte, ma fece ancora finta di farlo, poi annuì. Passarono davanti a un bar, a un tabaccaio, a un museo, a una chiesa, a un negozio di vestiti troppo antiquati e infine a una gioielleria, dove Betty volle fare tappa, almeno solo per guardare le vetrine. Il suo sguardo si posò su un collier d’oro con brillanti dal prezzo ovviamente e fortunatamente non indicato. <<Voi ragazze andate matte per questi oggetti vero?>> <<Sono belli, ma costano. Non chiederei mai a qualcuno di regalarmi un oggetto simile. Credo che i sentimenti si dimostrino anche senza queste cose costose.>> Era Matteo ora a osservarla stupito. <<E… e poi dove ci andrei? Al giorno d’oggi mi taglierebbero il collo solo per averlo>> balbettò Betty rendendosi conto di iniziare ad arrossire. Senza pensarci, si aggrappò al braccio del ragazzo e proseguirono a camminare. Solo dopo qualche passo, se ne rese conto e si fermò. <<Devi scusarmi, mi è venuto spontaneo. Non volevo. Scusami…>> Matteo scoppiò a ridere. Quella ragazza dagli occhi verdi e dal viso spruzzato di lentiggini era davvero buffa. <<Non ti ho detto nulla. Anzi, se ti prendi dal mio braccio va anche meglio così non ti bagni.>> 52


Betty annuì e titubante ripeté quel gesto che prima era stato totalmente automatico. Camminarono ancora, ma dell’autobus alla fermata successiva, nemmeno l’ombra. <<Ti va di arrivare a Piazza Navona? Tra le bancarelle è più facile trovare qualcosa, sempre se non hai fretta di tornare a casa>> propose stavolta Betty cercando di apparire il più disinvolta possibile. Strano a dirsi, ma quella sensazione, da tempo dimenticata, iniziava a piacerle e a farle dimenticare il freddo che c’era fuori. <<Perché no. Andiamo dai>> disse Matteo entusiasta. La Piazza, colorata da mille luci, li accolse con l’odore di castagne, di caramelle, ciambelle e mele zuccherate, mentre si udiva il sottofondo dell’acqua delle fontane e le risate dei bambini che accorrevano sulla giostrina centrale con i cavalli. C’erano tantissimi banchi, eppure quelli che a Betty più piacevano erano quelli con le decorazioni di Natale. C’erano le ghirlande che aveva sempre sognato fuori da una porta, se avesse avuto una casa grande con giardino come quelle viste nei film americani; e poi ancora palline di vetro, festoni gialli, verdi, rossi, fucsia. E pupazzetti che sorridevano e ricordavano gli omini di pan di zenzero. <<Guarda questo Betty!>> esclamò Matteo richiamandola con una pacca sulla spalla. In mano teneva una piccola renna con il naso rosso che si appendeva all’albero. <<O anche questa!>> e prese un’altra decorazione con un pattino che sembrava di cristallo. Betty sorrise felice. <<Grazie Matt! Hai esattamente trovato ciò che si addice a mia sorella!>> gli sfilò la decorazione a forma di pattino che aveva in mano. <<La mia sorellina lo adorerà!>> La ragazza si avvicinò alla cassa per pagare quando la sua attenzione venne attratta da un’altra decorazione, semplicissima e a forma di fiocco di neve, ma brillava così tanto ed era così trasparente da emanare un’aura magica. Betty la prese tra le dita, come fosse una cosa tanto fragile. <<Non è bellissimo Matt?>> Il ragazzo lo guardò da vicino. <<Sembra quasi incantato.>> <<Mi piace tantissimo, ma magari lo lascerò qui. Lo prenderò un’altra volta.>> 53


A malincuore, tirò fuori il portafogli e pagò il regalo per la sorella. Matteo focalizzò per bene la posizione di quel fiocco di neve e si incamminò nuovamente con Betty accanto a sé. Il pomeriggio sembrò scorrere così velocemente che erano già le 19:00 e Betty non se ne accorse nemmeno. Si riscosse solo quando il suo cellulare squillò. <<Sì, scusami mamma. Lo so che è tardi. Torno subito a casa>> esordì la ragazza pentendosi e sorridendo a Matteo che aveva assunto un’aria colpevole. <<Va bene, mamma. Prendo l’autobus tra pochi minuti. Ci vediamo presto. Ciao.>> Arrivarono alle soglie di un negozio con tettoia e Betty si mise a osservare le vetrine. Matteo si guardò indietro. <<Aspettami un attimo qui. Torno subito. Non andartene che ti accompagno.>> Betty rimase un po’ perplessa a fissarlo mentre correva scivolando sui sanpietrini verso le bancarelle. “Si sarà ricordato di comprare il regalo per qualcuno” pensò, mentre focalizzava nuovamente la sua attenzione su un gigantesco orso polare di peluche. Dopo qualche minuto, ecco accorrere Matteo, bagnato nonostante si fosse portato l’ombrello. <<Ora possiamo andare. Grazie per aver aspettato.>> Betty non disse nulla e ripresero la passeggiata diretti alla fermata. Matteo chiuse l’ombrello. La temperatura si era fatta ancora più rigida e mancava solo che ci fosse il sottofondo di “Jingle Bells” per un’ambientazione perfetta. <<Eccoci arrivati. È stato un bel pomeriggio e mi ha fatto piacere condividerlo con te>> disse Betty rivolgendo un’occhiata fugace al tabellone elettronico: un minuto diceva. Matteo annuì. <<Allora la caduta non è stata poi così male.>> Betty scosse la testa e sorrise. <<Non tutti i mali vengono per nuocere.>>

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Qualche secondo di silenzio, poi lo sguardo di Betty si illuminò: l’autobus era arrivato. <<Bene Matt, è arrivato il mio bus. Sentiamoci allora. Il mio numero ce l’hai.>> <<Sì certo. E comunque ecco>>, prese un sacchetto di carta dalla borsa e lo mise nella mano di Betty, <<questo è tuo.>> La ragazza afferrò quel pacchettino e, spinta dalla folla, entrò sull’autobus senza nemmeno rendersene conto. Matteo la salutò dal marciapiede e l’autobus prese la sua corsa. Betty, ancora confusa, cercò un posto a sedere, in fondo, accanto al finestrino. Con il cuore in gola, iniziò a scartare quella bustina semplice e bianca. I suoi occhi si illuminarono di una scintilla di felicità: davanti a lei c’era il fiocco di neve che aveva visto a quella bancarella. Rimase qualche secondo a osservarlo scintillare, mentre ripensava a Matteo e all’improvviso quella sensazione le sembrava la cosa più bella del mondo. Era un calore che si espandeva all’altezza del cuore e prendeva anche lo stomaco, e somigliava a una carezza o a un abbraccio in una notte di un freddo inverno. <<Guarda mamma, guarda!>> Betty venne riscossa dalla voce felice di una bimbetta che si era avvicinata saltellando al finestrino poco più avanti e indicava fuori. Tutti i passeggeri si voltarono e guardarono meravigliati. <<Nevica…>> Roma aveva iniziato a imbiancarsi ed era semplicemente uno spettacolo impareggiabile. Non accedeva spesso, anzi, era davvero un evento molto raro, ma quando i fiocchi cominciavano a cadere sofficemente dall’alto, la frenesia delle persone spariva e sui volti appariva semplicemente il sorriso di un’infanzia lontana, in cui tutto era più magico. “Grazie, grazie mille. Hai fatto nevicare, hai visto Matt?” scrisse Betty in un suo messaggio che immediatamente inviò. Dopo pochi secondi, ecco la risposta: “I miracoli accadono a volte. E comunque è bello sentirsi chiamare Matt”. Betty non ci aveva fatto caso. Aveva iniziato a chiamarlo “Matt” spontaneamente, così come forse il suo cuore aveva altrettanto spontaneamente ricominciato a battere. Betty tornò a casa e se la cavò senza troppe storie da parte di sua madre. La 55


pioggia prima e la neve poi avevano fatto sì che i trasporti rallentassero e che quindi ogni scusa fosse credibile. Trascorsero i giorni, Betty e Matt continuarono a sentirsi ogni tanto, solo tramite messaggio. Era impossibile vedersi con i parenti a casa. Infine arrivò il 25 dicembre, il giorno di Natale. Casa di Betty era un tripudio di colori scintillanti: rosso per la tavola e le candele che erano al centro, verde per l’albero e la ghirlanda con i campanellini, gialle le luci. Alla radio l’immancabile Bublè cantava sulle note di “Let it snow” e Betty, scartati i suoi regali, guardava ora fuori dalla finestra. Era andata a messa la mattina e aveva aiutato sua madre a cucinare. Ora attendevano tutti l’arrivo degli zii e dei cugini. Qualcuno citofonò. Betty non si soffermò troppo su quello che sua madre ripeteva nel microfono. Pensava semplicemente che stesse ricordando alla zia quale scala imboccare e a quale piano si trovassero. <<Betty, è per te… così sembra.>> Sua madre l’aveva chiamata e ora l’attendeva con la cornetta del citofono in mano e un’espressione perplessa in viso. <<S… sì?>> rispose Betty speranzosa. <<Puoi scendere giù? Volevo farti gli auguri di Natale.>> L’inconfondibile voce di Matt, quella che aveva desiderato sentire, eccola che la chiamava. La ragazza afferrò il cappotto, la sciarpa e uscì, sotto gli sguardi increduli di madre, padre e sorella minore. <<Forza stupido ascensore!>> ripeteva spingendo il pulsante con la convinzione di velocizzarne l’ascesa. Finalmente entrò e quei minuti in cui scendeva sembrarono infiniti. Aprì le porte e… <<Ma che bella sorpresa! Eccoti! Guarda come sei cresciuta!>> Betty si ritrovò avvolta dalle braccia della sua zia americana che non vedeva da un anno. <<Zia, ti prego, aspetta. Ci vediamo…>> <<Ma guarda quanto sei bella! Tua madre mi diceva che eri diventata una 56


signorina!>> Betty si divincolò dalla stretta da grizzly di sua zia. <<Zietta cara, mamma e papà ti aspettano sopra. Io torno subito d’accordo?>> La donna sembrò dubbiosa, ma sorrise e aprì le porte dell’ascensore carica di buste. Betty corse nell’androne, aprì il portone di metallo e si ritrovò sul marciapiede… da sola. Matt non c’era. <<Eppure ho fatto il prima che ho potuto>> disse tra sé e sé, stringendo un piccolo pacchetto che conteneva una sciarpa nuova e morbidissima, l’unico regalo che era riuscita a fargli. <<Che peccato…>> Betty sconsolata stava per rientrare quando qualcuno la abbracciò da dietro. <<Dove te ne vai così triste?>> La ragazza si girò con il sorriso nuovamente dipinto. <<Matt!>> e gli saltò al collo, sorprendendosi nuovamente a notare quanto fosse alto. <<Non ti avevo visto.>> Il ragazzo, rosso in volta a causa del freddo e avvolto ancora in quella sciarpa un po’ consumata, le sorrise e tirò fuori da dietro la schiena un pacchettino minuscolo. <<Ecco, volevo augurarti buon Natale come si deve Betty.>> Mentre prendeva quel regalino, le brillavano gli occhi. <<Aspetta, prima apri tu il mio>> disse la ragazza porgendogli il morbido pacchetto. <<Non dovevi…>> <<Oh sì invece! Avanti, scartalo.>> Matt lo scartò facendo attenzione a non rovinare la carta e srotolò la morbidissima sciarpa verde. Poi si sfilò la sua, ormai troppo rovinata. Corse al primo cassonetto e la gettò, tornando con il suo regalo al collo. 57


<<È molto calda. Grazie. Ora apri il mio però.>> Betty moriva dalla voglia di scartare quel pacchettino, incartato non proprio magistralmente. Sorrise quando vide un I – pod. <<Ti ho calpestato l’mp3 e questo è il minimo che potessi fare. Almeno la musica sarà sempre con te.>> Betty guardò e rimirò il suo regalo. <<Sai una cosa Matt? Ho cambiato idea.>> Matteo la osservò interrogativo. <<Non ti piace?>> Betty sorrise. Quanto poteva essere adorabilmente tonto? <<Credo di volermi abbastanza bene e adesso posso volerne a qualcun altro. Ti va se quel qualcun altro sei tu?>> Il ragazzo la guardò dolcemente e le prese il viso tra le mani. <<Anche io ho cambiato idea: gli studi li finisco con una ragazza accanto che mi sostiene e mi vuole bene.>> I due rimasero lì a baciarsi, mentre di nuovo dei leggeri fiocchi di neve scendevano angelicamente sulla città. E Betty capì finalmente che non era un oggetto da regalare ad animare il Natale, ma il sentimento che aveva mosso quella persona ad acquistarlo. Amicizia, affetto o amore erano i veri sentimenti che potevano rendere quella festa così speciale.

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Il mio Natale più bello Questa è una storia vera. Era il Natale del 1998, avevo cinque anni, e come ogni vigilia avevo deciso che sarei rimasta sveglia a spiare l’arrivo di Babbo Natale nascosta in cima alle scale. E ovviamente come ogni anno, vinse il sonno e mi trascinai a letto convinta che avrei sentito arrivare le renne con i loro campanellini. Intorno alle quattro del mattino, quando era ancora tutto immerso nel buio e nel silenzio del paesaggio imbiancato dalla neve, si sentì un piccolo guaito.. Pian piano le luci cominciarono ad accendersi e, tra sbadigli e vestaglie frusciati, scendemmo tutti al piano di sotto, da dove proveniva il lamento. Ed ecco che, nel salotto illuminato solo dalle luci dell’albero ancora accese, ci attendeva una grande sorpresa e forse il regalo di Natale più bello di sempre. Sotto l’albero vi era infatti la nostra amata cagnolona Heidi, ma non era più sola! Era circondata da piccoli batuffolo pelosi! E fu così che passammo il Natale, in salotto insieme ad Heidi e 12 piccoli cuccioli, dimenticando quasi di scartare i regali. Passamo il Natale più bello di sempre. Con il regalo più bello che si potesse desiderare.

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L’inverno sarà il nostro segreto Apro gli occhi e mi ritrovo a pancia in giù nella coltre bianca. La neve sembra vestirmi con la sua delicata anima. Mi sento viva, ma non del tutto. Appartengo alla terra, a quel piccolo tratto di bosco, ma chi sono? Sono veramente io? La vivace ragazza di sedici anni, che tutti chiamano ‘la peste’. O sono soltanto l’ombra di me stessa? Mi ricordo soltanto tanti passi sulla linea confusa del ghiaccio sulla strada, poi un grandissimo rumore. Un forte tonfo. E adesso mi sono ritrovata a terra, ma non mi sento più così indolenzita. Al momento della grande botta, ho sentito la testa andarsene da un’altra parte. Si è quasi volatilizzata. Pensavo di averci rimesso la pelle, invece sono ancora qui tutta intera. Nessuna traccia di vita, nessuna macchina che attraversa la lunga rettilinea che porta verso la città. Già, mi sono avventurata fin qui, per vedere la bellissima luminara, che ogni anno alla vigilia di Natale viene messa in questo piccolo tratto, quasi per non far sentire la campagna troppo isolata dall’atmosfera natalizia. Luminescenti corde di luci a forma di stelline vengono intrecciate da un lampione all’altro. Poi le baite, che appaiono minuscole in lontananza sembrano evocare la dimora di una fiaba. Dolci addobbi di agrifoglio, rotonde ghirlande con dorate campanelle che suonano ogni volta che la porta viene aperta per una gradita visita del vicinato. File di lucine colorate ornano le piccole verande che si animano di vita e di calore familiare. Ma l’addobbo più spettacolare è l’abete in fondo alla grande curva. Un altissimo esemplare pieno di tante palline di molteplici colori, soffici fiocchetti rossi, dorate stelle di cartapesta, minuscoli bastoncini bianchi, simpatiche renne dal morbido manto di peluche e infine un goliardico puntale a forma di Babbo Natale, che sembra salutare l’arrivo dei turisti e inaugurare l’anno che verrà. E’ il motivo per cui mi sono spinta fin qui, al buio, tutta sola, a dispetto dei 63


miei genitori. Mi hanno sempre negato questo piacere, raccomandandomi sempre di non spingermi in questo tratto isolato di sera. Loro non hanno mai trovato il tempo di portarmici. Sono sempre così impegnati con gli impegni di lavoro. Nella mia famiglia non c’è mai stato un vero attimo per respirare il Natale. Mi accorgo di essermi alzata, ma di essere ancora seduta nella neve a contemplare il magnifico paesaggio, che quell’albero, così magicamente travestito, mi regala. Tutto sembra perfetto, ma mi accorgo di non sentir alcuna sensazione di freddo a così stretto contatto con la neve. Di solito, mi si gela il sangue nelle vene, ma questa notte mi sembra di essere fuori dal mio corpo. Mi sarebbe piaciuto sentir battere forte il cuore di emozione alla vista di quella stupenda atmosfera natalizia. Ma non vedo neanche la piccola nuvoletta di fiato, che sarebbe dovuta fuoriuscire dalla mia bocca per il freddo. E’ buio, ho sempre avuto paura dell’oscurità, ma questa notte sento che il mio corpo non è spaventato. Mi alzo, quando un leggero fruscio di ali bagnate sembra venire verso di me. Una piccola pallina di piume grigie si scrolla qualche goccia di neve dal corpo, poi mi guarda in silenzio, quasi avesse visto un fantasma. Mi accorgo che è un dolce pettirosso, perché sul petto ha venature color scarlatto. E’ strano che un piccolo volatile, che ha vissuto da sempre allo stato selvatico, si faccia avvicinare così tanto da un essere umano. Forse sono io ad aver più paura di lui. Preoccupata, guardo se ha un’ala rotta o una zampetta ferita, ma sta bene. E’ soltanto infreddolito dalla neve. Punta i suoi occhietti sul mio viso come due bottoni neri e lucenti. Io sorrido di fronte a quel tenero musetto indifeso. ‘Ti sei perso? O sei caduto dal tuo nido?’ L’animale gira il piccolo capo fissandomi. ‘No, sono venuto in tuo aiuto…’ Io spalanco gli occhi stupita. 64


‘Ma non ho bisogno di aiuto, sono soltanto caduta nella neve.’ Il volatile emette uno strano e breve cinguettio,quasi una sonora risatina. ‘Allora non ti sei accorta di niente. Tu sei un fantasma.’ ‘Cosa?’ ‘Sì, un fantasma. Sei morta. Non fai più parte del mondo umano.’ ‘Ma che dici? E poi come fai a saperlo?’ ‘Beh, dal fatto che tu possa parlare con me. Soltanto gli angeli possono parlare e capire gli animali.’ Disperata, incomincio a sfiorare il corpo alla ricerca della mia consistenza. Sento qualcosa, ma sembra che il mio tocco sfiori l’aria. Allora e’vero! Quella specie di botta assordante era soltanto l’attimo, che aveva segnato la mia fine. Ora potevo vedere quel mitico albero addobbato, ma ero morta per sempre. In nome di quel piccolo sfizio,avevo messo in pericolo la mia vita, ed ero stata accidentalmente investita da una macchina, che a causa del buio, forse non mi aveva vista in tempo. Un attimo prima ero felice di poter vedere quel silenzioso tratto di bosco animato da quel dicembre così festoso, ma adesso non ero altro che un’anima vagante e destinata alla solitudine in eterno. Non avrei più rivisto i miei genitori, per non pensare ai miei amici, alla scuola, ai sogni che un giorno forse avrei potuto avverare. Ma la persona più importante, colui che non avrei mai potuto abbandonare così. Il mio ragazzo,Giacomo. Rimpiango soltanto ora il fatto di aver odiato anche soltanto un po’ la mia vita precedente. Ci si accorge sempre troppo tardi di quanto siamo fortunati. Ma avrei dovuto fidarmi così tanto di un semplice pettirosso? Mi accorgo in tempo della presenza di una figura, che attraversa la strada nella semioscurità. E’ un uomo alto e magro. L’unica prova inconfutabile, è vedere se riesce a sentirmi. ‘Signore, mi scusi. Signore? Riesce a vedermi o a sentirmi?’ Urlo a squarciagola, gesticolando come una forsennata. Ma l’uomo non dà alcun segno di accorgersi della mia presenza. 65


Non c’è altro da fare. Devo accettare di essere un fantasma. Mi volto e vedo ancora il piccolo pettirosso che mi guarda. ‘Non puoi fare niente. Soltanto accettare di essere un angelo. Ma ricorda, che anche se sarai invisibile, potrai sempre mandare qualche segno o addirittura qualche messaggio sulla terra.’ I miei occhi spenti dalla delusione, improvvisamente si illuminano. ‘Dici sul serio? Ma anche se loro non potranno mai più vedermi, io posso vedere loro o sbaglio?’ ‘Certo. Se può farti felice, io posso farti da spalla. Ogni volta che vorrai mandare un segno della tua presenza ai tuoi cari, sarò al tuo servizio.’ Prendo il piccolo uccellino nel palmo della mano e gli lascio un dolce bacio sul capo. Lui freme per un attimo entusiasta di quel gesto d’affetto e poi spicca un voletto vicino alla mia testa. ‘Portami in città. Voglio rivedere la mia casa per un’ultima volta e poi ho un altro breve compito da svolgere. Accompagnami.’ ‘Volentieri. Ricordati, che anche gli angeli sanno volare, proprio come me. Non pensare a nulla. Pensa soltanto a ciò che desideri di più. Vola sopra gli alberi e raggiungi la tua famiglia. Tu, non hai più bisogno di loro, ma loro avranno sempre bisogno di te... Del tuo ricordo.’ Non ho mai saputo come si fa a volare, ma chiudo gli occhi e sento la mia mente più leggera. In fondo, è rimasta soltanto quella di me. Nient’altro, solo la mia mente che fa da cuore alla mia anima in pena. Riapro gli occhi sul mondo e vedo volare di fianco a me il piccolo pettirosso che sorride, quasi orgoglioso. Quello che sto vivendo, l’ho sempre visto soltanto nei film, ma alla fine dovendo abituarmi a quello stato di invisibilità, non mi sembra così male poter riuscire a volare e a spostarmi senza difficoltà. Forse sarei riuscita anche ad oltrepassare muri, porte e qualsiasi altro ostacolo. All’improvviso, vedo dall’alto una sagoma familiare. Il mio caro cottage,da sempre posizionato in una tranquilla via di periferia, ma comodamente vicino 66


alla città. Voglio tornare, vorrei nuovamente riessere io, ma non posso. Faccio segno al mio amico pennuto che quella è la mia casa. ‘Andiamo. Vedi, è bastato poco per arrivarci ‘ Già, un inspiegabile volo ad alta quota! Comincio a planare intimorita, ma la fredda aria natalizia mi fa da compagna e allieta il mio atterraggio sul cortile di casa. Mi affaccio alla finestra accesa. Il salotto è addolcito dalla luce di candele agghindate per le feste, l’albero proietta la sua ritmata luce nella stanza e il camino acceso riscalda il cuore di quei visi spaventati. Sì, li vedo non sanno ancora niente, ma sono preoccupati per la mia prolungata assenza. Come faccio a dire loro che sono morta, ma che sono ancora qui? Vedo mia madre prendere il telefono e chiamare forse la polizia o qualcuno che possa mettersi sulle mie tracce. I loro volti lividi di ansia e angoscia. E io che avevo pensato non mi amassero abbastanza! Che stupida che sono stata! Forse più in là avrei potuto mandare qualche messaggio per tranquillizzarli, ma adesso devono scoprire l’amara verità da soli. L’unica cosa che decido di lasciare davanti alla porta è quel piccolo pupazzetto a forma di angioletto, che entrambi mi avevano regalato quando ero piccola. L’unico modo per farmi credere che la cara nonna, a quell’epoca da poco scomparsa, sarebbe stata sempre vicino a me. Ora avrei potuto rivedere chi era già scomparso dalla vita terrena, e adesso sono loro ad aver bisogno di quel piccolo gesto per tollerare la mia assenza. Io, che ora sono davvero un angelo, sarei stata vicina alla mia famiglia per sempre con la speranza di poterla riabbracciare un giorno. Tiro fuori dalla tasca quel caro ricordo d’infanzia, che mi ha accompagnato fino alla morte. ‘Tieni, ti affido questo. Lascialo sul davanzale della finestra.’ Il piccolo pettirosso prende nel becco con delicatezza quel docile ciondolo bianco e inizia a svolazzare, sbattendo con forza le sue ali contro il vetro, in 67


modo da attirare la loro attenzione. Io me ne sto lì incantata a guardare senza poter fare niente. La mamma apre la finestra e il mio piccolo nuovo amico fa cadere il portafortuna all’interno della stanza, poi se ne vola via. Poi, papà sorpreso, lo raccoglie sorridendo, mentre entrambi si osservano quasi sollevati, stringendosi al cuore fra le lacrime quel minuscolo segno della mia presenza. Ma non è tutto oro ciò che luccica, e presto si renderanno conto che non esisto più e dovranno accontentarsi soltanto del mio breve ricordo. Fra poco la polizia avrebbe trovato il mio corpo abbandonato e ferito sulla strada che porta al bosco. Ma forse sedici lunghi anni si dimenticano in fretta…..in fondo chi rimane in vita sopravvive sempre alla morte di una persona cara. Invisibili lacrime mi solcano il volto. Non le sento più arrivare in gola ed affacciarsi agli occhi, ma è ciò a cui mi devo abituare nel mio nuovo stato di ectoplasma. Mi allontano senza voltarmi indietro, mentre il pettirosso mi affianca in comprensivo silenzio. Poi mi decido a fare l’ultimo e doloroso passo, prima di passare del tutto a miglior vita. ‘Seguimi fino a quella tavola calda in fondo alla strada. Lì c’è un’altra persona che voglio vedere per l’ultima volta.’ L’animale mi guarda con aria incoraggiante e sferza il nevischio con la sua piccola figura. Io affretto il passo per ritrovarmi senza fiato davanti alla vetrata del locale illuminato a festa. Rivedo il suo caro profilo incorniciato da una ghirlanda di finto abete ornata di rosso. Lui, il mio Giacomo. I suoi indimenticabili occhi verdi e ridenti, mentre serve i clienti con orgoglio al suo bancone. I suoi morbidi capelli color miele che incorniciano la sua dolce faccia. Quanto vorrei correre lì ad abbracciarlo e baciarlo per un’ultima indimenticabile volta. Ma lui non lo sa ancora che non ci potremo mai più amare. Per questo devo scrivergli un biglietto d’addio. 68


Voglio che quando saprà la verità lo conservi per sempre. ‘Da come guardi quel ragazzo, deve esser stato molto speciale per te.’ Alzo gli occhi verso il mio amico pennuto, pensando che mi sono quasi dimenticata della sua presenza. ‘Sì, è il mio fidanzato. Ci conosciamo fin dall’infanzia. E’ .molto dura sapere che non potrò più averlo al mio fianco.’ ‘Lascia qualcosa che gli ricordi il vostro amore. Tu resterai per sempre in un angolo del suo cuore.’ Ci penso su e poi cerco nella cara borsa, che mi è rimasta a tracolla dal momento dell’incidente. Sì, trovo il mio previdente taccuino e una biro blu. Ripenso ai nostri momenti insieme, alle nostre letterine d’amore per San Valentino, ad ogni piccolo gesto che ci ha fatto diventare grandi e maturi l’uno al fianco dell’altra. Sono sicura che lo amerò per sempre, ma lui un giorno troverà un’altra e mi sostituirà, come è giusto che sia. Improvvisamente scrivo di getto e mi innamoro di quei versi, che non riesco a credere vengano proprio dal mio cuore. Con un dolce e armonioso corsivo gli regalo quella frase: ‘Mi senti? Sono qui fra la neve, per dirti che non me ne andrò mai, ma sono soltanto sparita nel bianco bacio di un angelo. L’inverno sarà il nostro segreto. La tua Lara.’

Ripiego il biglietto e lo affido al becco del mio piccolo messaggero dal rosso petto. Non credo ai miei occhi, quando un cliente apre la porta del negozio per uscire 69


ed il mio coraggioso amico sfiora la sua testa per farsi spazio ed entrare nella tavola calda. Come una saetta evita gli sguardi stupiti della gente e lascia con curiosa fretta il mio messaggio dietro al bancone sotto agli occhi meravigliati di Giacomo. Poi scappa via, più veloce della luce, dal piccolo spiraglio di una finestra aperta. Il mio ragazzo afferra quel dolce ricordo di carta e con aria attenta legge quelle brevi righe parecchie volte. Alla fine una breve lacrima sgorga dai suoi occhi per l’emozione, forse anche per il desiderio di vedermi subito e ringraziarmi di quel poetico pensiero, poi gira le spalle al bancone. Chissà, la gente avrà pensato soltanto che quel piccolo uccellino infreddolito e spaventato abbia temporaneamente sbagliato direzione o meta. Invece la sua meta era un cuore. Il cuore di Giacomo. Lui non sa ancora niente, ma un giorno capirà il senso di quelle parole. Sono sicura che quando vedrà anche un semplice passerotto volare penserà a me e al nostro amore. Saprà che il Natale ci ha diviso per sempre, ma che la neve conserverà per sempre il nostro amore. Il misterioso e bianco bacio di un angelo che lo amerà oltre la vita. E mentre me ne vado sorridendo fra le lacrime, penso, Non me ne sono mai andata, prima o poi, mi sentirai, sono qui fra la neve, perché l’inverno sarà il nostro segreto. Poi catturo un fiocco caduto dal cielo e scompaio fra il nevischio.

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Natale da sola Sarò sola questo Natale. I ragazzi sono in montagna con gli amici, e i miei hanno deciso di festeggiare il loro anniversario in crociera. Quarantacinque anni! sembra incredibile poter passare tanto tempo insieme a qualcuno. Resterò da sola dunque, e fammi pensare un momento, forse sarà per la prima volta da che mi ricordo. Eh sì, perché quegli anni in cui mi lamentavo di essere sola, in realtà c’erano i gemelli con me, e anche se era un po’ pesante, sola non lo sono mai stata… C’è stato l’anno zero, come lo chiamiamo noi, quello in cui un biglietto proibito letto dalla persona sbagliata (io!) al momento sbagliato (la vigilia di Natale) ha sancito la fine del mio matrimonio. I bambini si sono stretti a me e, per reazione, da allora i nostri Natali sono stati uno più bello dell’altro. Ogni anno ci superavamo in decorazioni e festoni, e la nostra casa era diventata meta di pellegrinaggio per amici e parenti. Oltre alla bellezza delle luci, alle dimensioni dell’abete, agli addobbi sparsi per casa tanto da sentirti catapultata nella baita di Babbo Natale, c’erano sempre biscotti alla cannella, tazze di cioccolata calda e il pandoro fatto in casa, che impregnava l’aria di vaniglia e zucchero. Il giorno di Natale, poi superavo me stessa. Era un po’ come se volessimo cancellare il ricordo di quel tradimento soffocandolo con l’atmosfera della perfezione. E di Natale in Natale sono invecchiata, accidenti. Me ne accorgo guardando i miei figli, perché per il resto mi sento la stessa. La stessa di diciotto anni fa, quando li ho abbracciati per la prima volta. Non mi sembra nemmeno che sia passato tutto questo tempo… Sono qui incantata davanti alle candele, e non sono riuscita proprio a finire la cena della vigilia. Sparecchierò domani. E’ la prima volta che la trascorro da sola, abbiate pazienza. “Sei proprio sicura, mamma?” mi hanno chiesto con garbo prima di prenotare, preoccupandosi di lasciarmi senza darmi un dispiacere. Cosa rispondere? Mi sarei buttata al collo implorando loro di non lasciarmi mai, avrei piagnucolato in modo pietoso che senza di loro non sarebbe mai arrivato il vero Natale, ma ho annuito decisa, sorridendo per conferma. Andate, figli miei. 73


Come quando li incoraggiavo da piccini a buttarsi nella mischia: quante volte ho dovuto spingere per farli andare, quanti sorrisi di incoraggiamento ho speso per renderli sicuri, per farli camminare con le loro gambe, per far sì che si allontanassero dal nido per la loro strada. Loro si giravano a guardarmi, aspettando un cenno da parte mia, e io annuivo sollevando le sopracciglia, come a dire “Allora? Che aspetti?”. Solo allora si decidevano. E ora che si sono allontanati, ora che camminano decisi, ora che sono due splendidi giovani con il futuro nelle loro mani asciutte e forti, io resto a guardarli. Li osservo dalla mia seggiola traballante, al principio della via, mentre loro si immettono sereni nella corsia della loro vita. La stanza brilla di luci colorate, i canti di Natale come sottofondo, le candele indugiano in quest’atmosfera di festa. Mi accomodo sul divano e mi godo gli addobbi. A quest’ora Babbo Natale prepara le sue renne per iniziare il giro del mondo… Verso dello spumante ghiacciato nel mio calice e lo sollevo per brindare, guardando le bollicine che salgono in superficie partendo da un punto misterioso attaccato al vetro. Dopo un sorso leggero, socchiudo gli occhi e lo assaporo. Sotto il mio albero maestoso, due pacchetti incartati aspettano di essere aperti. Loro torneranno fra qualche giorno, saranno contenti dei loro regali. “Quel lieve tuo candor, neve, discende lieto nel mio cuor…” Abbandono la testa sul divano, e scivolo velocemente nel sonno. Din… din… din… Mi sveglio di soprassalto. E’ già mattina, ho dormito proprio come un sasso! Dove sono? Ah, sì, mi ero addormentata sul divano con la copertina… aspetta un attimo, non avevo la copertina. Devo essermela messa questa notte senza ricordarmene. Che strano. Ancora quel tintinnio! Ma che succede? Oh mamma! E’ passato per davvero Babbo Natale? Sotto l’albero ci saranno almeno dieci pacchetti infiocchettati, e la tavola è apparecchiata per la colazione delle grandi occasioni! Non credo ai miei, occhi, non oso illudermi… “Buon Natale, mamma!” Due cappelli rossi bordati di bianco, un campanellino leggero, tre tazze di cioccolata fumante. Due ragazzi -i miei bambini, due uomini!- sorridenti. I veri amori della vita. 74


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Un magico Natale per Elli Elli era felice. Quella sera di Dicembre, mentre camminava sul marciapiede di Via Verdi in compagnia del suo i-pod, si sentì piena di gioia. Quell’anno, il lavoro era stato particolarmente duro e impegnativo, ma la fatica aveva premiato i suoi sforzi. Era riuscita ad ottenere un aumento di stipendio e un nuovo incarico come assistente, che le avrebbe garantito nuove esperienze nell’azienda dove lavorava. Era una persona creativa ed ingegnosa e il marketing era decisamente il suo campo preferito. Nemmeno l’aria fredda che le pungeva le guance e le faceva svolazzare i lunghi capelli castani, sfuggiti al berretto, poteva guastarle l’umore. Tra le mani, stringeva un sacchetto rosso di Cartier, piccolo e leggero, che le oscillava tra le dita. Quella mattina era uscita in fretta e furia per andare a ritirare quell’orologio, ordinato direttamente al negozio. Maicol ne sarebbe andato pazzo. Lo aveva scelto appositamente per lui e lo aveva fatto arrivare direttamente da Milano pur di averlo. Per quella vigilia di Natale desiderava ardentemente che tutto fosse perfetto. Distrattamente la sua mente si allontanò dalla strada ghiacciata e veleggiò in un primissimo futuro. Maicol che l’ aspettava in casa , con quel sorriso radioso che l’aveva fatta perdutamente innamorare di lui 5 anni prima. Si erano conosciuti in un locale. Lei era uscita con le sue fedeli amiche, Barbara e Ilaria, quando le era arrivato un calice di champagne con un bigliettino “Un brindisi alla donna più bella del locale” e quando lei aveva alzato gli occhi , Maicol era lì a sorriderle. Con i suoi profondi occhi castani e i morbidi capelli chiari pettinati all’indietro, l’aveva conquistata in un battibaleno. E pensare che lei non aveva mai creduto al colpo di fulmine. Chi avrebbe mai immaginato che da quella notte sarebbero passati cinque anni d’amore tra cui due di convivenza? Era sicura che quella sera lo avrebbe trovato intento a preparare il pandoro farcito, una delle sue ricette di Natale preferite. Aveva intravisto gli ingredienti in un angolo della dispensa, ma per non rovinargli la sorpresa aveva sorriso in silenzio. Lo immaginò sotto l’albero di Natale, che avevano addobbato con tanta cura, scartare il pacchetto e sgranare gli occhi stupito. Elli sospirò e sorrise come una sciocca. Niente poteva andare storto in quella magica Vigilia di Natale. Oltretutto quel pomeriggio, il direttore aveva deciso di lasciare uscire in anticipo 77


i suoi dipendenti, in uno slancio di bontà natalizia che lui stesso aveva definito come “una pazzia delle feste”. Aveva almeno due ore di anticipo rispetto al solito, per cui ci sarebbe stato tempo per stappare una bottiglia di vino e gustarla con lui, al calduccio del loro divano… Persa nei suoi pensieri, Elli venne distratta da qualcosa. A prima vista le sembrò un mucchio di coperte e stracci logori, ma osservandolo bene vide che sotto tutta quella stoffa spuntava il viso di una persona. Era un vecchietto. Dal viso raggrinzito e segnato, completamente rannicchiato su se stesso, cercava di ripararsi dal freddo in un angolo dove il vento sembrava essere meno pungente. Due occhi acquosi e intensi la scrutarono sotto il cappello infeltrito, pieno di buchi e toppe. Uno sguardo silenzioso che per Elli fece più rumore di mille tamburi. La fame e gli stenti si leggevano chiaramente su quel viso temprato dalla fatica di una vita di strada, un muto richiamo che Elli non potè far finta di non sentire. Pensò alla sua vita, alla sua famiglia e alla sua infanzia felice e non riuscì a trattenersi. Si avvicinò a quell’uomo e aprendo il portafoglio estrasse una banconota da dieci euro. Li allungò al mendicante e indecisa su cosa dire gli sussurrò “ Questi faranno sicuramente più comodo a te che a me”. L’uomo sgranò gli occhi stupito e rispose “ Signorina, lei è un angelo, che Dio la benedica ”. Elli si allontanò con un ultimo sorriso per quell’uomo e riprese la sua strada. Rabbrividì al pensiero di quante persone in quel momento fossero affamate e al freddo, mentre lei si apprestava a gustare una deliziosa cenetta in un bell’ appartamento caldo. Con quella triste consapevolezza aprì il portone di casa, ancora più trepidante di raggiungere il secondo piano .Non prese nemmeno l’ascensore tanta era la fretta di togliersi le scarpe e mettersi il suo comodo pigiamone. Aprendo la porta del suo appartamento, Elli non immaginava di certo, che da quel momento, la sua vita sarebbe cambiata per sempre. Il corridoio era buio e silenzioso, a parte una luce soffusa che proveniva dalla camera da letto, da dove si diffondevano le note leggere di un cd di Frank Sinatra..Quel pigrone si sarà addormentato con lo stereo acceso.

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Spinse lentamente la porta, mentre pregustava già la faccia che avrebbe fatto Maicol davanti al suo pacchetto regalo. Ad accoglierla però non fu Maicol, ma una donna dai lunghi capelli biondi sciolti sulla schiena , fasciata in una sottoveste di seta rossa. In mezzo alle sue lunghe gambe abbronzate c’era Maicol. I capelli scompigliati, il viso arrossato e gli occhi socchiusi, persi nei meandri del piacere. Le labbra , che Elli aveva così amato mordicchiare, incollate alla bocca della sconosciuta. Elli potè sentire il momento esatto in cui il suo cuore smise di battere. Lo sentì contrarsi e spezzarsi in mezzo al petto mentre la mano scivolava via dalla maniglia e la porta sbatteva contro il muro. Maicol aprì gli occhi e la sconosciuta si voltò. Un silenzio gelido scese tra loro, mentre Maicol si alzava precipitosamente dal letto. Elli corse via senza una parola, senza nemmeno ascoltare le sue scuse farfugliate e farneticanti. L’ultima cosa che fece fu quella di lanciargli addosso il regalo che gli aveva acquistato con tanta premura e gridargli “ E pensare che per tutta le sera, ho pensato a come rendere speciale la tua vigilia di Natale…” Voltandogli le spalle si precipitò per le scale, quasi senza vederle le scese a due a due. L’aria cominciava a mancarle e le pareti del condominio sembravano stringersi su di lei come una trappola. Il freddo l’ avvolse nella sua presa ghiacciata mentre sbatteva il portone e si precipitava in strada. Correva come se il movimento potesse tenere insieme i pezzi della sua anima che si stava sgretolando in un milione di piccoli pezzi. Urtò un passante che si voltò infastidito, ignaro del dolore e del vuoto che la stavano dilaniando e delle lacrime che le rigavano il viso. Quando i polmoni cominciarono a bruciarle e i piedi tremarle per lo sforzo, si fermò. Affaticata e con il fiatone si appoggiò al muretto di pietra per prendere aria e la superficie gelida la riportò alla realtà. Doveva aver corso parecchio e senza nemmeno rendersene conto era finita sul Ponte delle Scritte, il luogo più romantico della città. Quel ponticello risaliva agli antichi romani, che lo avevano costruito per attraversare il fiumiciattolo che scorreva all’interno del paese. Quel luogo era diventato famoso, non tanto per i suoi illustri costruttori, ma perché gli innamorati avevano l’abitudine di trascrivere i loro nomi sulla pietra 79


accompagnati da dediche e date. Elli si appoggio con i gomiti al parapetto, reggendosi la testa tra le mani. Com’era potuto succedere continuava a domandarsi. Amava quell’ uomo più di sé stessa, per lui aveva abbandonato la sua città natale, la sua famiglia e i suoi amici, pur di seguirlo e vivere insieme a lui. Chi era quella donna? E da quanto andava avanti quella storia?.Milioni di dubbi le attraversarono la mente, trafiggendola come aghi. Ad ogni domanda riviveva ricordi e frammenti di vita felice passati con lui. Come aveva potuto ferirla in quel modo? Lacrime calde continuarono a cadere sulla pietra gelata, mentre Elli rabbrividì per il freddo. Era la vigilia di Natale e per strada non c’era nessuno. Si sentiva sola e abbandonata, con un macigno al posto del cuore e un groppo in gola che non voleva scendere. Elli guardò l’acqua che luccicava sotto di lei e per un attimo pensò a come sarebbe stato semplice scavalcare il parapetto e buttarsi. Mettere fine a quell’assurdo dolore che la stava divorando come un tarlo. Scosse la testa .Dio mio, che cosa mi prende? Pensò allontanandosi del bordo di pietra. Era sola e non sapeva dove andare. A casa non sarebbe tornata, questo era certo. L’unica soluzione era chiedere ospitalità ad una delle sue amiche. Alzò gli occhi al cielo, quasi a chiedere consiglio, quando notò che stava nevicando. Minuscoli e soffici fiocchi di neve scendevano pigramente in quella notte scura, danzando alla luce dei lampioni e appoggiandosi su di lei, come tante piccole farfalle. Uno di questi però scese più velocemente degli altri come se avesse una vita propria. Elli strinse gli occhi ,ormai gonfi di pianto, per vedere meglio. Il fiocco di neve emanava un tenue bagliore proprio come una lucciola e si accese ancora di più quando cadde sulla balaustra del ponte. Elli lo stava osservando incuriosita, quando lo vide esplodere come una meteora. Indietreggiò, preoccupata e stupita di fronte a quello spettacolo fantastico, ma innaturale “ Devo essere impazzita” pensò, mentre vide il fiocco di neve mutare, allungarsi e ingigantirsi fino ad assumere sembianze umane. In pochi secondi, seduto sul ponte, apparve un giovane uomo, che di umano aveva solamente la forma fisica. Lunghi capelli lisci, candidi come la neve e striati d’argento gli cadevano sulle 80


spalle e scendevano giù fino alla cintura dorata che chiudeva una lunga veste rossa e verde. Il viso era pallido come un chiaro di luna , illuminato da due splendidi occhi allungati che brillavano come laghi ghiacciati. Con un movimento delle mani , lo sconosciuto scostò i capelli, rivelando un paio di orecchie a punta ricoperte di pelliccia, simili a quelle di un cervo. Elli lo guardò sbigottita, talmente sconvolta e confusa che per un attimo pensò di essersi buttata davvero dal ponte e che quella visione fosse una strana esperienza pre-morte. La creatura alzò gli occhi verso di lei. Uno sguardo che la inchiodò sul posto, non per la paura, ma per l’infinita saggezza che vi lesse dentro. “ Eleonor” disse con voce bassa e calda,come se provenisse da molto lontano. La prima cosa che Elli pensò fu che da anni nessuno la chiamava cosi. Era un nome lungo e pomposo che aveva ereditato dalla nonna di origini anglosassoni e pochissime persone lo conoscevano. “ Chi sei ?” riuscì a bisbigliare dopo lo stordimento iniziale, per poi aggiungere, incerta e preoccupata “Sono morta per caso ?” Un sorriso rischiarò il volto dello sconosciuto, mentre una risata cristallina , fresca come un torrente, fuoriusciva dalle sue labbra. “ Molti mi hanno posto questa domanda in passato e a tutti ho dato molte risposte”. I suoi occhi parvero scurirsi a quell’affermazione , persi ne ricordo in un tempo che Elli poteva soltanto immaginare. “ Per te sarò Máracanwen, che nella mia lingua significa, portatore di buona novella” Senza nemmeno pensarci Elli rispose “ Mi dispiace, ma in me non troverai nulla di positivo” , la voce suonò strozzata e roca. Nonostante l’ apparizione di Máracanwen e la convinzione che in realtà fosse svenuta o in fin di vita , il ricordo di Maicol le strozzò le parole in gola. L’elfo, come Elli lo soprannominò nei suoi pensieri, si alzò lentamente facendo strisciare la lunga veste colorata e si diresse verso di lei. Nel suo viso , la calma e la pace assoluta. Una sensazione che non fece scappare Elli, quando le prese la mano e le disse dolcemente “ Non pensare mai questo di te per l’errore di un uomo. E non perdere mai la speranza”. Elli era meravigliata e per poco non spalancò la bocca come un pesce. Come poteva sapere di Maicol e del dolore che provava ?

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“ Lo so cosa ti stai chiedendo. Leggo la sorpresa nei tuoi occhi.” Per un attimo, intravide un barlume di divertimento attraversare il viso dell’ elfo..La sua espressione emanava una paterna sicurezza, carica di consolazione, come un padre di fronte al figlioletto in lacrime. “ Sono lo Spirito del Natale e tra le mie capacità c’è quella di poter leggere il cuore delle persone. Le loro pene, i dolori, le gioie e tutto quello che li fa battere” Il suo tono era così serio, così sicuro e rassicurante che Elli non riuscì nemmeno per un attimo a mettere in dubbio quello che stava dicendo. “ Vuoi sapere cosa leggo nel tuo cuore Eleonor?” Le mani di Máracanwen strinsero le sue, fredde come ghiaccio in confronto al calore che emanavano quelle di lui. Elli annuì, ormai preda di quella voce che si faceva strada dentro di lei, sciogliendo le sue preoccupazioni come neve al sole. Máracanwen socchiuse le palpebre, serio e riflessivo, come se stesse viaggiando dentro di lei. “Vedo un cuore spezzato, che non guarirà in poco tempo” Una lacrima di Elli cadde bagnando le loro dita intrecciate. “ Vedo anche un’anima forte e combattiva, che non si lascerà abbattere dal dolore e dai rimpianti . Un’ essenza che riuscirà a rinascere più forte che mai, come una fenice risorge dalle proprie ceneri. E’ scritto tutto nel tuo cuore” Elli si sentì viva. Non sapeva come, ma quell’essere magico nato dalla festa più importante dell’anno le aveva infuso speranza. Lentamente Máracanwen, si staccò da lei e le disse “ Che cosa desideri in questo momento?” Elli rimase attonita, colpita dalla domanda. Perché glielo chiedeva dato che leggeva chiaramente i suoi sentimenti? Lo Spirito del Natale sorrise, intuendo ciò che stava pensando. “Voglio sentirtelo dire, Eleonor. Io posso far avverare qualsiasi cosa tu chieda ora, ad alta voce” Elli non capiva più nulla. Dopo tutto quello a cui aveva assistito, pensava che niente avrebbe potuto sbalordirla. Se quello che stava vivendo era reale, aveva la possibilità di chiedere qualsiasi cosa. Molti avrebbero desiderato una vincita milionaria alla lotteria, una villa magnifica in un’oasi tropicale. La tentazione di vendicarsi di Maicol e fargli pagare tutto il dolore subito era fortissima, così come quella di tornare indietro nel tempo e impedire il tradimento, ma niente di tutto ciò sarebbe stato giusto. La sua vita le piaceva così com’era. Il lavoro era faticoso , ma le dava grandi soddisfazioni, non navigava nell’oro, ma quello che aveva le era sufficiente. . Vendicarsi di Maicol poi , a cosa sarebbe servito? 82


Il dolore ormai c’era e se lo sarebbe tenuto per un bel pezzo. Dunque che cosa chiedere? Nella sua mente passò l’immagine del vecchio, seduto all’angolo di Via Verdi, solo e al freddo, senza una casa e una famiglia. In quel momento Elli decise “ Vorrei che l’uomo che ho incontrato questa sera, potesse avere una vita felice” esclamò ad alta voce, ferma e sicura come solo lei sapeva essere. Lo Spirito del Natale la guardò e alzò il capo “ Cosi chiedi e cosi sia” decretò risoluto, con una scintilla di fierezza nel volto “ Addio Eleonor” concluse avvolgendosi nel lungo mantello, scomparendo in un lampo di luce accecante. Al suo posto, appoggiato fra la neve del ponte, comparve un piccolo ramoscello d’agrifoglio. Aveva le foglie di uno splendido verde brillante, screziate d’oro e due paia di lucide bacche rosse. Una pianta natalizia dal profondo significato, un portafortuna contro i demoni e le avversità. La ragazza lo raccolse e dopo aver toccato le piccole bacche e saggiato le punte con le dita, se lo infilò in tasca, come ricordo di quella strana esperienza. Arrivata a casa, Elli la trovò vuota e silenziosa, come se non fosse accaduto nulla. Come se nessuno le avesse spezzato il cuore, appena poche ore prima. Cercando di non pensare e con la mente ancora piena di confusione e strane sensazioni, Elli si sdraiò sul divano e si addormentò ancora vestita, accanto all’albero di Natale illuminato.

La mattina dopo si svegliò, stropicciata e confusa. I capelli erano una massa disordinata e il trucco le aveva impiastricciato gli occhi. Si stiracchiò e con una fitta dolorosa al petto ripensò al tradimento di Maicol, alla sua corsa disperata e allo Spirito del Natale che aveva incontrato…. E se avesse immaginato tutto? Allungò una mano verso la tasca del cappotto e le sue dita pizzicarono a contatto con qualcosa di appuntito. Con stupore estrasse il rametto d’agrifoglio che le aveva lasciato Máracanwen e capì che l’incontro con lo Spirito del Natale e il desiderio che aveva espresso erano reali. Con la consapevolezza di aver fatto qualcosa di buono, decise di sistemarsi e uscire. Era una donna combattiva e tenace, dallo spirito fiero e coraggioso, nonostante fosse silenziosa ed introversa. Doveva lottare e riprendere in mano la sua felicità. Dopo essersi vestita e preparata, decise di prendere l’auto per raggiungere i suoi genitori fuori città. Avrebbe raccontato loro tutta la verità e insieme l’avrebbero 83


aiutata a tornare in carreggiata. Sicuramente sua madre l’avrebbe ingozzata di tacchino arrosto e patate al forno. Il suo stomaco borbottò al solo pensiero. Sul vialetto di casa, Elli venne catturata dall’atmosfera di calma e tranquillità della mattina Di Natale. Un pallido sole faceva capolino tre le nubi, facendo brillare i marciapiedi ricoperti da un leggero strato di neve caduto durante la notte. Stava salendo in macchina, quando delle voci attirarono la sua attenzione. Una coppia felice camminava a braccetto, accompagnati da un bambino dai capelli dorati che stringeva la mano ad un uomo anziano. Si concentrò, per cercare di vedere meglio e capire dove aveva già visto quell’ uomo dall’ aria familiare…. e improvvisamente capì. Aveva faticato a riconoscere in quel signore ben curato, dall’aspetto fresco e riposato, il mendicante che il giorno prima aveva visto per strada, ma non c’erano dubbi era proprio lui. “ Nonno, nonno andiamo a vedere l’albero grande?” squittì il bambino tirando con le manine paffute l’orlo del cappotto del vecchio. “ Certo tesoro, andiamo subito” disse questo accarezzando i riccioli biondi che fuoriuscivano dal cappello del piccolo. La coppia dietro di loro li seguiva a poca distanza e li guardava sorridendo. Erano proprio una bella famiglia. Elli li guardò allontanarsi e prima che il vecchio si voltasse si abbassò dietro l’auto per non farsi vedere. Máracanwen aveva realizzato il suo desiderio., fare felice una persona bisognosa.In quel momento, il cuore di Elli si riempì di gioia nel constatare che grazie al suo aiuto la vita di qualcuno era cambiata ; e nemmeno per un attimo si pentì di non aver utilizzato quel desiderio per lei. Quella mattina Elli fece una scelta. Decise che aiutare gli altri sarebbe stata la spinta giusta per ricominciare e la sensazione di vedere un’altra persona felice, la sua ricompensa. Pochi giorni dopo si iscrisse come volontaria e si impegnò nell’aiutare i meno fortunati. Si appassionò cosi tanto che in breve tempo cominciò a seguire un corso per clown di corsia. Imparò ad andare in ospedale e portare un sorriso a chi aveva perso la speranza. E fu cosi che un paio di mesi dopo conobbe Williams. Un giovane infermiere, dagli intensi occhi scuri , i capelli spettinati e il sorriso perenne. Un uomo che sapeva leggerle dentro e capire cosa stava pensando senza che aprisse bocca. Che riusciva a farla ridere con il solo movimento delle sopracciglia e con un abbraccio, scioglieva ogni preoccupazione. Elli ancora non lo sapeva, ma Williams sarebbe diventato suo marito e il padre dei suoi bambini. La ragazza non avrebbe mai dimenticato quella magica Vigilia di Natale in cui tutto le era sembrato perduto, ma che in realtà si era rivelato solo l’inizio. Non rivide mai più Máracanwen, lo Spirito del Natale, ma la lezione che le aveva insegnato rimase per sempre nel suo cuore “ Non perdere mai la speranza”.

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Uno strano Natale Qualche volta suonava a lungo, certe scampanellate da far sobbalzare tutti nei letti, col respiro corto e gli occhi spalancati. A volte invece non si sentiva arrivare, morbidamente scivolava fra di loro, senza ritardi, nella notte del venticinque. Dicembre rotolava verso quella notte come una grossa palla da bowling, e tutte le volte faceva strike, buttando all‘aria tutti gli altri i giorni e facendo risplendere sfolgorante l‘unico impareggiabile giorno di Natale. Era da sempre stato così, una consuetudine che risaliva alla notte dei tempi, nessuno ricordava un Natale diverso. Cominciò così anche il Natale di quell‘anno, con luci, lucine, stelle rosse e dorate, palle di vetro decorate di lustrini, profumo di incenso, candele dietro vetri dipinti di oro e d‘argento, con l‘intermittenza dell‘albero, finto verde, finto neve, finto vero, che troneggiava nel salotto buono, circondato da panettoni, cioccolato, torrone, cioccolatini, agrifogli biancodorati, cestini di frutta candita, bottiglie di spumante e cascate di fiocchi, fiocchetti, riccioli argentati sopra montagne di pacchi, pacchetti, pacchettini, scatole, cestini, cestoni, sacchettini di miliardi di colori. Pochi non partecipavano all’esplodere della festa: vecchi soli in abitazioni malconce, barboni dimenticati nei ricoveri dei poveri o abbandonati nelle corsie di un anonimo ospedale, bambini che nessuno amava, malati per cui nessuna cura serviva più. Gente insomma che non contava nulla, che non comprava nè riceveva, che non partecipava come dovuto e che non avrebbe certo visto cambiare la vita dal Natale . Nessuno li ricordava, facevano dispiacere. E nella festa il dispiacere era bandito, tutti dovevano essere felici, sorridenti, allegri e soprattutto buoni. Infatti già molto prima dello scoccare della mezzanotte tanta gente buona, baciandosi e abbracciandosi si scambiava regali, doni sempre più lussuosi, sempre più importanti: bottiglie di champagne, sfavillanti anelli di brillanti, orologi di gran marca, le ultime novità per ragazzini che si avventavano sull’i pod dell’ultima 87


ora, e si video auguravano chattando su mega video. . Nessuno però quell’anno si era accorto di uno strano mormorio che nella notte si riusciva a distinguere meglio, un sussurro, quasi un lamento che proveniva da tutte quelle luci, dagli alberi illuminati, dai pacchi e dalle enormi lettere che formavano AUGURI un pò dovunque. Stranamente le scritte luminose, appese sfolgoranti tra palazzo e palazzo ogni tanto si oscuravano, per poi riaccendersi, magari solo in parte, lasciando solo un AU che quasi nessuno notava, se non per darne la colpa al solito Comune che non spendeva abbastanza per le luminarie. Ma proprie le persone dimenticate, quelle che vivevano sotto il ponte su letti di cartone o su luridi materassi di case abbandonate, quelli che non partecipavano ai festeggiamenti, proprio ad essi giunse profondo il lamento portato da un vento che sembrò accarezzarli riscaldandoli, una sorta di preghiera accorata. Tutti gli altri passarono ignari e inconsapevoli, chiusi come erano nei loro caldi cappotti, e, incapaci di sentire il vento di dolore che passava loro accanto, continuarono il loro cammino. Ma alla vigilia alcuni si accorsero che mancava qualcosa, Natale mancava all’appuntamento, cosa impossibile a pensarsi, forse un ritardo nelle consegne o un sonno durato più a lungo , una nevicata improvvisa a bloccare la slitta fatata. Solo quando mancavano poche ore alla mezzanotte, con l‘aria ormai carica di odori di cene, di buffet, antipasti ,croccantini, creme di panna e cioccolato, pian pian le persone cominciarono a guardarsi, ad aprire le finestre per scrutare il cielo adorno di miliardi di stelle e di una luna fosforescente. Lentamente la gente, vestita con abiti eleganti, scialli dorati, pellicce argentate, piano piano uscirono per le strade, guardandosi negli occhi, muti . Non si scorgeva nessuno, neppure un piccolo segno che ne annunciasse la venuta. Nell‘aria già si sentivano echi di cantori, melodie ritmate sull‘onda di antiche nenie , mischiate a leggeri pianti di bimbi, quelli che avevavo sentito per primi la paura, il timore amgoscioso e senza nome di qualcosa che non stava accadendo. Ecco, qualcuno gia‘ singhiozzava più forte, visi preoccupati , mani gelate che cercavano altre mani per darsi conforto, per non continuare a non vedere, a 88


non sentire, a non aspettare. Nulla accadde. Anche la luna e le stelle tristi si oscurarono. Solo, nelle case, nelle strade, nelle piazze, nei vicoli, tutto quello che rappresentava la festa si era ridotto in polvere, niente piĂš luci, scintillii di ori ed argenti, solo grigi mucchietti di impalpabile cenere. Da allora, non accade piĂš nulla, a dicembre i giorni arrivano e vanno, passano e passa anche il venticinque per far posto al ventisei. Qualcuno ancora guarda dai vetri, la sera, un cielo stellato. Qualcuno va in strada e arriva fino all‘angolo, ma non incontra mai nessuno.

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Indice

pag. 5

1 - Natale è… di Mirial

pag. 15

2 - Mr.Natale di Eledie Eledhwen

pag. 21

3 - La Ragazza dei Miracoli di Sophie

pag. 39

4 - Magie di Natale di Annarita

pag. 45

Fiocchi di neve di Cristina Cumbo

pag. 61

Il mio Natale più bello di Arianna

pag. 63

L’inverno sarà il nostro segreto di Francesca Ghiribelli

pag. 73

Natale da sola di Rachele

pag. 77

Un magico Natale per Elli di Paolasini Francesca

pag. 87

Uno strano Natale di Francesca Levo Calvi

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