IL RIUTILIZZO DEI FANGHI E DELLE ACQUE REFLUE IN AGRICOLTURA
In partnership con
per il riutilizzo dei fanghi e delle acque
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Mario Adda Editore
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Raggruppamento temporaneo di scopo tra UNISCO Network per lo sviluppo locale e Legambiente Puglia
A. Angiuli, A. Bonifazi, G. Brunetti, D. Caniani, G. Ciola, V.D. Colucci, M.C. De Mattia, D. Guariglia, R.F. Iannone, F. Lacarbonara, G. Ladisa, N. Longino, I.M. Mancini, S. Masi, M. Piscitelli, N. Senesi, M. Spilotros, C.M. Torre, E. Trulli
il riutilizzo dei fanghi e delle acque REFLUE in agricoltura
L’impianto e il coordinamento del volume sono stati curati da Maria Cristina De Mattia Aldo Fusaro Massimiliano Piscitelli
Mario Adda Editore
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Il presente volume è stato realizzato con il contributo del Fondo Sociale Europeo
Hanno collaborato alla realizzazione del progetto RI.F.A.RE. M. Avantaggiato, A. Berlen, M. Carnevale, A. De Carli, V. Deruvo, N. Frascella, V. Grassi, D. Lavacca, D. Lazzazzara, M. Lieggi, M. Livrea, G. Maldera, R. Marseglia, M. Mastropierro, S. Mazzone, F. Mintrone, M. Omero, A. Pellegrino, G. Pesare, D. Piglionica, A. Poliseno, R. Rodio, G. Trevisi
Libro stampato su carta ecologica certificata FSC
ISBN 9788880829218 © Copyright 2011 Mario Adda Editore - via Tanzi, 59 - Bari Tel. e Fax +39 080 5539502 Web: www.addaeditore.it e-mail: addaeditore@addaeditore.it Tutti i diritti sono riservati a Provincia di Bari – FSE POR PUGLIA 2007 - 2013 Impaginazione: Sabina Coratelli
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Il progetto RI.F.A.RE. ha rappresentato per l’Amministrazione Provinciale di Bari ed il territorio barese un’opportunità di fare rete tra istituzioni ed organizzazioni dedite allo sviluppo locale, puntando in particolare al miglioramento formativo di tutti coloro che operano con e per l’ambiente. Negli ultimi tempi si sta assistendo ad una sempre maggiore attenzione verso le tematiche ambientali in raccordo con il mondo della formazione. È ormai tempo di porre le basi per un forte coordinamento tra tutti finalizzato alla sensibilizzazione e all’informazione dei cittadini e degli imprenditori agricoli verso le tematiche ambientali legate all’utilizzo dell’ambiente durante il loro lavoro; è inoltre necessario diffondere le tematiche ambientali del riciclo anche tra i ragazzi e i cittadini in generale, affinché possano farsi promotori di buone pratiche ambientali ed eco-sostenibili. Il ciclo di incontri di formazione-informazione organizzati nei comuni di Corato (per l’area nord-barese), Mola di Bari (per l’area metropolitana di Bari) e Monopoli (per l’area sud-barese) ha coinvolto oltre 70 partecipanti, tra operatori agricoli (imprenditori agricoli, artigiani, coltivatori diretti), studenti universitari, esperti e professionisti del settore, ma anche cittadini interessati alle tematiche ambientali che “consumano ambiente”. I partecipanti hanno avuto l’opportunità di informarsi e formarsi sui temi della raccolta dei reflui e del relativo recupero al fine di salvaguardare il suolo in un’ottica ambientale sostenibile attraverso un ciclo di incontri di approfondimento in cui esperti e specialisti del settore (Università degli Studi di Bari, Politecnico di Bari, ARPA Puglia, Legambiente Puglia) hanno illustrato possibili azioni concrete, fonti normative e di finanziamento. Il coinvolgimento di realtà istituzionali e imprenditoriali pugliesi nella “RI-FIERA” rappresenta invece l’occasione per illustrare ai cittadini le buone prassi eco-sostenibili e diffondere una nuova cultura legata alla salvaguardia ambientale.
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È essenziale definire obiettivi strategici ed attuare un approccio di prevenzione innovativo per ridurre l’impatto delle nostre attività sul sistema ambiente, diffondendo e rendendo accessibili le leggi, i regolamenti e le migliori pratiche per gestire al meglio le risorse del nostro territorio, aumentando la quantità di materiali e prodotti riciclati e riutilizzati e prevenendo ogni forma di inquinamento ambientale nell’esercizio delle attività agricole ed imprenditoriali; in una espressione di sintesi, coniugare la formazione con il mondo del lavoro e l’esigenza di uno sviluppo sostenibile e duraturo per tutti noi cittadini.
Mary Rina
Assessore al Lavoro e Formazione Professionale della Provincia di Bari
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Il progetto Ri.F.a.Re. nasce da un’attenta osservazione effettuata sul territorio della Provincia di Bari legata alla problematica del riutilizzo dei fanghi e delle acque reflue. La gestione delle acque reflue e dei fanghi biologici prodotti dalla depurazione delle acque rappresenta una vera e propria emergenza ambientale. Ogni giorno vengono prodotte centinaia di tonnellate di fanghi che contengono tutti gli elementi rimossi dalle acque durante il trattamento: sostanze organiche, sali, metalli, ma anche eventuali composti e materiali non biodegradabili o addirittura tossici; ma, se trattati e gestiti secondo norma, i reflui, i fanghi e le acque reflue raffinate, possono arrecare un grande vantaggio soprattutto al comparto agricolo potendo sostituire in tutto o in parte sia la concimazione chimica che l’apporto irriguo da fonte idrica primaria. Riutilizzare i fanghi e le acque significa quindi ottenere enormi vantaggi sia economici che ambientali. Cinquanta Paesi nel mondo, tra cui Stati Uniti ed Israele, hanno colto l’opportunità del riuso delle acque reflue, in particolare per lenire i problemi legati alla scarsità dell’acqua, conosciuti anche dalla nostra regione. Con il progetto RI.F.A.RE., UNISCO e Legambiente Puglia hanno inteso avviare un momento di approfondimento, di sensibilizzazione e di informazione rivolto soprattutto al mondo agricolo, cercando di dare tutte le indicazioni per trasformare le acque reflue ed i fanghi di depurazione in risorse ponendo grande attenzione alle problematiche legate al suolo e ad un miglioramento complessivo della qualità dell’agricoltura. È stato realizzato un importante ciclo di incontri, seminari e meeting, condotto da esperti del settore e rivolto in primis a tutti gli imprenditori agricoli e coltivatori diretti della Provincia di Bari, ma anche a cittadini e studenti, al fine di realizzare una vera e propria campagna di formazione e sensibilizzazione su un tema, quale quello delle acque reflue e dei fanghi, di estrema importanza e altissimo valore ambientale.
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A conclusione di questo percorso di formazione, informazione e sensibilizzazione ci è sembrato opportuno produrre questa pubblicazione con il preciso obiettivo di offrire un utile strumento per gli operatori del settore e per tutti coloro che intendano avvicinarsi a queste tematiche. La proficua collaborazione con Università, centri di ricerca, con docenti ed esperti del settore, ha permesso di realizzare un lavoro di estremo interesse che ovviamente non ha il carattere dell’esaustività, ma che certamente può offrire un ottimo spunto di riflessione e di approfondimento su un tema, quale appunto quello del recupero e del riuso delle acque reflue e dei fanghi, di estrema importanza data l’enorme complessità delle questioni ambientali che insistono intorno a questa tematica.
Serge D’Oria
Presidente Unisco
Francesco Tarantini
Presidente Legambiente Puglia
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Il tema della formazione, dell’educazione ambientale e della condivisione delle buone prassi per la diffusione di comportamenti sostenibili rappresenta il vero terreno di impegno per le Istituzioni coinvolte nella protezione dell’ambiente. Alle fondamentali funzioni tecniche connesse al monitoraggio sulle matrici ambientali, alla vigilanza sul territorio e alla prevenzione dei rischi ambientali, è indispensabile affiancare le attività di comunicazione, informazione, formazione ed educazione, che rendono possibile il trasferimento del patrimonio conoscitivo prodotto e delle competenze acquisite verso tutti i potenziali fruitori sociali, svolgendo un prezioso ruolo nella strategia di tutela del patrimonio ambientale del nostro territorio. Su queste tematiche ARPA Puglia, organo tecnico-scientifico della Regione Puglia in materia di protezione dell’Ambiente, è impegnata per offrire il proprio contributo nella realizzazione di quel processo virtuoso che favorisce il cammino della sostenibilità, supportando sia la promozione di una cultura scientifica dell’ambiente, sia l’adozione di pratiche di tutela dell’ambiente partecipata da parte della società. È in questo contesto che si inscrive la collaborazione dell’Agenzia al Progetto RI.F.A.RE., nato e condotto per promuovere la sensibilizzazione degli operatori del settore agricolo sul tema della raccolta dei reflui e del relativo recupero al fine di salvaguardare il suolo in un’ottica ambientale sostenibile nel tempo. Questa pubblicazione, che rappresenta il momento di sintesi dei contenuti illustrati nei diversi incontri di formazione/informazione realizzati nel contesto del progetto, ha lo scopo di fornire agli operatori uno strumento di riferimento che coniuga l’approfondimento delle corrette procedure e delle modalità di gestione sotto l’aspetto tecnico-scientifico con la tematica della sostenibilità.
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ARPA Puglia ha accolto l’invito dell’Associazione UNISCO e del Comitato Regionale di Legambiente Puglia a mettere a disposizione il proprio patrimonio di competenze e conoscenze tecniche su una tematica così rilevante per il proprio territorio, nella convinzione che la necessità di promuovere strategie e interventi mirati allo sviluppo sostenibile – che favoriscano un’armonizzazione tra sviluppo economico, partecipazione sociale, protezione dell’ambiente e tutela della salute – rappresenti una priorità e si inscriva a pieno titolo nel proprio mandato istituzionale.
Giorgio Assennato
Direttore Generale ARPA Puglia
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La primaria importanza della risorsa idrica non è mai stata posta in discussione da alcuna civiltà. L’acqua, H2O, è da sempre sinonimo di vita. L’essere umano può fare a meno di tutto tranne che dell’acqua e del cibo che a sua volta non sarebbe producibile in assenza di acqua. È in questo scenario che oggi più che mai si colloca l’attenta discussione sull’emergenza ambientale e del diritto mondiale alimentare. Ma l’acqua non è una risorsa inesauribile, ed è per questo che ogni uomo ha il dovere di razionalizzarne l’uso e di sfruttarne al meglio ogni suo processo evolutivo anche quando la stessa rischia di essere considerata un rifiuto poiché contaminata. In questo contesto si innesta il sano principio pragmatico trasmessoci dalla saggezza del mondo rurale in cui “nulla si distrugge ma tutto si trasforma e si riutilizza”. Nasce così la saggia intuizione del riutilizzo delle acque reflue, debitamente depurate, in agricoltura. La frenetica e disattenta quotidianità vissuta oggigiorno impone però la necessità di sollecitare i più a vivere momenti di riflessione e formazione che facciano riscoprire il gusto del “riutilizzo”; ecco perché le AcliTerra, da sempre attente a difendere e promuovere i valori del welfare rurale, hanno intravisto nel progetto RI.F.A.RE. la giusta opportunità per tutti gli operatori agricoli di riqualificarsi, nel rispetto delle normative vigenti, nel ruolo sempre più indiscusso di “sentinelle a difesa del territorio e dell’ambiente, nonché di cavalieri custodi del creato”. Il riutilizzo dei fanghi in agricoltura rappresenta una opportuna risposta al problema dello smaltimento degli stessi, assumendo un’efficace valenza agronomica ed economica nel sostituire le canoniche concimazioni chimiche e, in alcuni casi, organiche; così come il riutilizzo a fini irrigui delle acque reflue debitamente depurate e/o trattate, rappresenta una valida risposta all’emergenza ambientale sul risparmio idrico, oltre che alla salvaguardia del suolo e delle colture.
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L’interesse e l’attenzione prestata dal ragguardevole numero di aziende agricole partecipanti al progetto ha confermato la felice intuizione di Legambiente Puglia e Unisco, enti promotori, di avviare un’azione di partenariato con AcliTerra Puglia e Arpa Puglia. L’augurio è che sulla scia di tale positività possano alimentarsi nuove opportunità di sensibilizzazione e formazione per i tanti operatori del settore, cuore indiscusso di un’economia reale di cui l’intera società non può fare a meno, ma a forte rischio sopravvivenza per le scarse attenzioni prestate dalle istituzioni e dalle stesse comunità locali.
Tommaso Loiodice
Presidente provinciale AcliTerra Bari Vice Presidente Vicario AcliTerra nazionale
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INDICE Introduzione generale Aldo Fusaro................................................................................................... 15 Sezione i PROCEDURE Riutilizzo delle acque reflue depurate tra norme tecniche, stato attuale e scenari futuri nelle province pugliesi Maria Cristina De Mattia............................................................................. 21 Utilizzo dei fanghi di depurazione in agricoltura: normativa di riferimento e prospettive future Filomena Lacarbonara................................................................................. 43 Tutela dell’ambiente ed esigenze dell’agricoltura Alessandra Angiuli........................................................................................ 69 La gestione dei rifiuti agricoli Roberto Francesco Iannone.......................................................................... 81 Sezione II GESTIONE Reflui urbani di depurazione: qualità agronomica e interazione con il suolo Gennaro Brunetti, Nicola Senesi................................................................ 101 Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali per l’utilizzo di acque reflue trattate in agricoltura Ignazio M. Mancini, Salvatore Masi, Ettore Trulli, Donatella Caniani, Vito D. Colucci, Massimiliano Piscitelli..................................................... 129
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Indirizzi pianificatori e tecnologici per l’impiego in agricoltura dei fanghi di depurazione Ignazio M. Mancini, Ettore Trulli, Salvatore Masi, Donatella Caniani, Nicla Longino, Massimiliano Piscitelli....................... 175 Sezione III SOSTENIBILITà Il problema dell’integrazione del piano e delle procedure di VAS Carmelo M. Torre, Alessandro Bonifazi..................................................... 199 I deserti antropogenici: effetti del diserbo chimico e della frantumazione dei banchi calcarei sulla biodiversità del paesaggio agrario pugliese con particolare riferimento agli oliveti secolari Gianfranco Ciola........................................................................................ 225 Combattere il degrado delle risorse naturali per una agricoltura sostenibile Gaetano Ladisa........................................................................................... 239 Le risorse idriche in Italia: aspetti quantitativi e qualitativi Marino Spilotros, Daniela Guariglia.......................................................... 251 Glossario..................................................................................................... 267 Indice normativa di riferimento.................................................................. 271 Lista degli acronimi.................................................................................... 275 Gli Autori.................................................................................................... 277
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Introduzione generale
L’obiettivo di questo volume è quello di fornire un utile strumento di approfondimento e di ricerca su un tema di estremo interesse e di valenza fondamentale riguardo alle problematiche ambientali del territorio pugliese. Parlare di fanghi e di acque reflue, infatti, significa intrecciare una serie di piccole e grandi questioni ambientali che vanno dall’uso dell’acqua agli scarichi urbani, passando attraverso le criticità connesse all’impiantistica per il trattamento ed affinamento, sino al tema della difesa del suolo e della possibilità di riuso in agricoltura delle acque affinate e dei fanghi. Data la complessità di tali importanti temi e la necessità di informare e sensibilizzare il mondo agricolo, i tecnici del settore e i cittadini su di essi, si è dato vita al Progetto RI.F.A.RE. (RIutilizzo dei Fanghi e Acque REflue) con il preciso scopo di realizzare anche un ciclo di formazione su argomenti poco dibattuti ed invece attualmente di estrema rilevanza. Il progetto RI.F.A.RE si è articolato in una prima fase di approfondimenti, di studio ed analisi svolte durante le attività seminariali nei mesi di settembre, ottobre e novembre 2010 per concludersi con la realizzazione di un evento finale denominato “RI-FIERA”, e con la redazione di questa pubblicazione. I destinatari “privilegiati” di questa pubblicazione ed, in generale, dell’intero progetto RI.F.A.RE, sono sopratutto gli operatori del mondo agricolo; l’intento è stato quello di offrire loro un’opportunità non solo di formazione, ma anche di confronto, scambio di esperienze e di diffusione di conoscenze al fine di contribuire a costruire una cultura ambientale e sostenibile del nostro territorio. Come anticipato, la complessità e vastità delle questioni afferenti alle tematiche in esame ha richiesto, per questa pubblicazione, un grande sforzo di sintesi, cercando di fornire gli elementi essenziali per una informazione integrata da evidenze normative, tecniche e scientifiche con l’intento di mettere
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a disposizione un utile strumento per chi voglia proseguire in un lavoro di ricerca o approfondimenti d’interesse comune dettati anche solo dalla curiosità. L’impostazione generale del lavoro rispecchia la complessità dei temi affrontati attraverso l’articolazione dei contributi, redatti dai docenti ed esperti coinvolti, inseriti in tre Sezioni dedicate a specifici ambiti di interesse per una progressiva trattazione degli argomenti. La prima sezione denominata Procedure costituisce un’ampia disamina sulla normativa di riferimento a partire dalle disposizioni di fonte comunitaria, passando per gli sviluppi della legislazione nazionale sino all’importate ruolo della disciplina regionale di settore, con ampi e specifici approfondimenti sullo stato dell’arte in Puglia. Inoltre, questa sezione si arricchisce di due importanti contributi di taglio squisitamente giuridico, che affrontano da un lato il tema più generale della regolamentazione delle problematiche ambientali nel nostro ordinamento – a partire dalle definizioni costituzionali sino alla normativa specifica di settore – e dall’altro affrontano una completa disamina della normativa legata alla gestione dei rifiuti in agricoltura. La seconda Sezione, denominata Gestione, affronta più specificatamente gli aspetti tecnici del tema in esame in tre digressioni. La prima affronta gli aspetti propriamente connessi ai parametri chimico-agronomici dei reflui urbani e delle loro interazioni con il suolo soffermandosi sulle proprietà fisiche del suolo stesso; la seconda e la terza hanno un taglio prettamente ingegneristico: una è rivolta alla trattazione delle tecniche e delle tecnologie disponibili per un corretto e sicuro utilizzo delle acque reflue, con ampio spazio dedicato alle caratteristiche operative dei processi da impiegare per il recupero degli effluenti secondari urbani, ed una trattazione sulle sperimentazioni condotte dall’Università della Basilicata; l’altra si occupa degli aspetti legati alla pianificazione ed alla tecnologia per l’impiego in agricoltura dei fanghi di depurazione. Nella terza ed ultima Sezione, denominata Sostenibilità, si è dato spazio a quattro contributi diversi, ma che tuttavia permettono di allargare gli orizzonti della informazione e della conoscenza verso temi più generali, ma di eguale importanza quali: la democrazia ambientale, la gestione del territorio e la ricerca in campo agronomico. L’impostazione dei contenuti nel primo intervento viene affrontato il tema della “Enviromental Democracy”, ossia della Democrazia Ambientale, introducendo approfondimenti sulla procedu-
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ra di Valutazione Ambientale Strategica (detta V.A.S.), alla quale secondo norme vigenti devono essere sottoposti gli atti pianificatori di qualsiasi settore (acque, rifiuti, urbanistica, ecc.). Il secondo contributo, invece, affronta il tema della desertificazione del suolo analizzando il caso specifico dello spietramento nel territorio dell’Alta Murgia. Infine, il terzo, realizzato dall’Istituto Agronomico Mediterraneo (IAM) di Bari, espone la preziosa esperienza dell’Istituto a partire dal tema della desertificazione, che è stata oggetto di una approfondita ricerca nell’ambito di un progetto realizzato nel 2008, per poi, presentare le principali aree di intervento e di studi messe in campo dall’Istituto stesso. A conclusione di questa sezione si allega una specifica indagine statistica relativa ai principali indicatori ambientali d’interesse per le problematiche in esame. Infine, il presente lavoro si arricchisce di un appendice contente: l’Indice della normativa di riferimento”, un breve Glossario della terminologia ambientale più utilizzata ed una Lista degli Acronimi riportati nella trattazione dei contributi al fine di agevolarne la loro lettura.
Aldo Fusaro
Direttore Legambiente Puglia
Sezione i
PROCEDURE
Maria Cristina De Mattia
Riutilizzo delle acque reflue depurate tra norme tecniche, stato attuale e scenari futuri nelle province pugliesi Sommario: 1. Definizioni ed introduzione alle norme tecniche; 1.1. Controlli relativi al trattamento delle acque reflue prima del reimpiego; 2. Il riutilizzo delle acque reflue affinate in Puglia; 2.1. La pianificazione di scenari futuri nelle province pugliesi; 3. Vantaggi del riutilizzo di acque reflue depurate; 4. Conclusioni.
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Definizioni ed introduzione alle norme tecniche
Il Decreto Legislativo del 11 maggio 1999, n.152 (vecchio Testo Unico di norme sulla tutela delle Acque) promuoveva l’individuazione di “misure tese alla conservazione, al risparmio, al riutilizzo ed al riciclo delle risorse idriche” in linea con la Legge n.36/1994 sulle risorse idriche (detta Legge Galli). Il cosiddetto Testo Unico sull’Ambiente, il D.Lgs. 152/2006, in merito al riutilizzo ed al riciclo delle risorse idriche, riprende i contenuti del vecchio Testo Unico sulle Acque e ne dispone anch’esso l’attuazione (art. 99, comma 2,TITOLO III, CAPO II). La materia del riutilizzo delle acque reflue depurate è stata disciplinata con il Decreto Ministeriale (D.M.) n.185 del 12 giugno 2003, “Regolamento recante norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue”, dal Ministero dell’“Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare”, in attuazione dell’articolo 26, comma 2, del decreto legislativo 11 maggio 1999, n.152, ancora vigente. Ai sensi dell’art. 3 del D.M. Ambiente 185/2003 citato, è ammissibile riutilizzare acque reflue depurate che rispondano a determinati requisiti di qualità a seconda della loro “destinazione d’uso” che può essere di tipo: • irriguo - per l’irrigazione di colture destinate sia alla produzione di alimenti per il consumo umano ed animale sia a fini non alimentari, nonché per l’irrigazione di aree destinate al verde o ad attività ricreative o sportive;
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Maria Cristina De Mattia
• civile - per il lavaggio delle strade nei centri urbani; per l’alimentazione dei sistemi di riscaldamento o raffreddamento; per l’alimentazione di reti duali di adduzione, separate da quelle delle acque potabili, con esclusione dell’utilizzazione diretta di tale acqua negli edifici a uso civile, ad eccezione degli impianti di scarico nei servizi igienici; • industriale - come acqua antincendio, di processo, di lavaggio e per i cicli termici dei processi industriali, con l’esclusione degli usi che comportano un contatto tra le acque. Assumono importanza le definizioni fornite dal DM n.185/2003 citato; si intende per: “a) recupero: la riqualificazione di un’acqua reflua, mediante adeguato trattamento depurativo, al fine di renderla adatta alla distribuzione per specifici riutilizzi; b) impianto di recupero: le strutture destinate al trattamento depurativo di cui alla lettera a), incluse le eventuali strutture di equalizzazione e di stoccaggio delle acque reflue recuperate presenti all’interno dell’impianto, prima dell’immissione nella rete di distribuzione delle acque reflue recuperate; c) rete di distribuzione: le strutture destinate all’erogazione delle acque reflue recuperate, incluse le eventuali strutture per la loro equalizzazione, l’ulteriore trattamento e lo stoccaggio, diverse da quelle di cui alla lettera b); d) riutilizzo: impiego di acqua reflua recuperata di determinata qualità per specifica destinazione d’uso, per mezzo di una rete di distribuzione, in parziale o totale sostituzione di acqua superficiale o sotterranea.” Il settore irriguo e quello industriale rappresentano ambiti di reimpiego delle acque reflue affinate, con una tempistica procedimentale più spedita rispetto agli usi di tali acque nel campo civile; basta por mente alla questione dell’utilizzo di tali acque, negli impianti di scarico dei servizi igienici, che presuppone la progettazione e costruzione di reti duali di adduzione e distribuzione, separate da quelle delle acque potabili, per le quali, come è noto, vige una rigorosa disciplina per essere “destinate al consumo umano”1. Rimane, oltretutto, inammissibile l’utilizzazione diretta in generale delle acque reflue negli edifici a uso civile come negli altri impieghi. Le acque “destinate al consumo umano” devono rispondere ai requisiti stabiliti nel D.Lgs. n° 31/2001 e ss.mm.e ii.
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Riutilizzo delle acque reflue depurate
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Le attività produttive, invece, richiedono determinati standard più o meno vincolanti a seconda del reimpiego cui sono destinate le acque reflue recuperate. La fattibilità di un riutilizzo irriguo di acque reflue recuperate, in particolare, deve essere pianificata nel rispetto della vigente disciplina, sempre nel limite di assicurare il “risparmio idrico” e, comunque, del non superamento del “fabbisogno” delle colture e delle aree verdi afferenti le zone servite dagli impianti di depurazione urbani, che si intende destinare al recupero delle acque. Le esigenze gestionali, di manutenzione e di monitoraggio di un sistema di distribuzione di acque reflue recuperate sono di solito le stesse di un sistema di distribuzione idrica. è necessario ricordare che il riutilizzo per uso irriguo è, inoltre, subordinato al rispetto del “Codice di Buone Pratiche Agricole, di cui al Decreto del Ministro per le Politiche Agricole e Forestali n. 86 del 19 aprile 1999 e ss.mm.ii. Al fine del raggiungimento dei requisiti di qualità ai quali attenersi, rispettando norme igienico-sanitarie ed esigenze dei processi produttivi, le acque reflue urbane depurate devono, dunque, subire un trattamento di “affinamento” all’interno del sistema impiantistico di recupero. 1.1. Controlli relativi al trattamento delle acque reflue prima del reimpiego Per assicurare un adeguato trattamento delle acque reflue urbane, le disposizioni sopra richiamate hanno precisato anche le modalità ed i contenuti delle attività di vigilanza, monitoraggio e controllo. I limiti di cui alle tabelle in Allegato.5 al D.Lgs. 152/99, (riproposto nella Parte III dell’Allegato.5 al D.Lgs. 152/2006), rappresentano, infatti, i valori massimi che devono rispettare le concentrazioni delle sostanze chimiche ed organiche contenute in uno scarico “finale”, ovvero a fine processo di depurazione e prima che l’impianto immetta l’effluente nell’ambiente (corpo idrico superficiale o suolo). Rientra nelle attribuzioni dell’ARPA il controllo periodico – secondo la capacità o potenzialità (in Abitanti Equivalenti) – degli impianti depurativi urbani dislocati sul territorio regionale, da 12 a 24 controlli annui previsti dalla legge vigente su ogni depuratore. Oltre ai controlli istituzionali, l’ordi-
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namento prevede i controlli interni, cosiddetti “autocontrolli”, che devono essere svolti dal “Soggetto Gestore” degli impianti, nonché del Servizio Idrico Integrato (S.I.I.) in un Ambito Territoriale Ottimale2 (A.T.O., che in Puglia è unico con un solo gestore riconosciuto, ovvero la Società AQP SpA). Similarmente un impianto di recupero delle acque reflue è soggetto al controllo interno ed al controllo da parte dell’autorità competente, ai sensi dell’Art. 7 del D.M. 185/2003 (Controllo e monitoraggio degli impianti di recupero), con verifica del rispetto delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione. La verifica dei livelli di conformità dei parametri caratteristici delle acque reflue depurate in uscita dai depuratori urbani, nei casi in cui dovessero presentare anomali valori dal punto di vista microbiologico o chimico, sarebbero sottoposte alle prescrizioni per l’immediato adeguamento. Se un depuratore si avvale, nel ciclo di depurazione, anche di un impianto di affinamento, a maggior ragione assume rilevanza il controllo dei parametri allo scarico in uscita, nonché quello dei valori caratteristici all’ingresso dell’impianto di recupero. Il D.M. 185/2003, quindi, prevede il rispetto di precisi requisiti minimi di qualità delle acque reflue recuperate per i parametri peculiari in uscita dagli impianti di recupero o di affinamento, prima del loro reimpiego. In particolar modo, per il “riutilizzo in agricoltura” sono dettati Limiti di rispetto (Tabella.1) e Valori guida con limiti di riferimento (Tabella.2) per alcuni parametri derogabili da parte delle Regioni.
Per le definizioni dettagliate di un Ambito Territoriale Ottimale e del Servizio Idrico Integrato si rimanda alle leggi nazionali e regionali di riferimento, ovvero la L.n°36/1994 (cd. Legge Galli “Disposizioni in materia di risorse idriche”, abrogata con l’entrata in vigore del D.Lg.152/2006, ad esclusione dell’art.22, comma 6) e la Legge Regionale 6 settembre 1ato 999, n. 28 e ss.mm.ii.
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Riutilizzo delle acque reflue depurate
Tabella 1 - Limiti per il riutilizzo in agricoltura PARAMETRI SEZIONE 1 Solidi sospesi totali (SST) BOD5 COD Escherichia Coli Salmonella SEZIONE 2 pH SAR materiali grossolani Conducibilità elettrica Alluminio Arsenico Bario Berillio Boro Cadmio Cobalto Cromo totale Cromo VI Ferro Manganese Mercurio Nichel Piombo Rame Selenio Stagno Tallio Vanadio Zinco
unità di misura
Valori limite
mg/L mg/L mg/L
10 20 100 10 su 100 ml (80% dei campioni) UFC/100mL 100 (valore puntuale massimo) assente µS/cm mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/l mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L
6-9,5 10 assenti 3000 1 0,02 10 0,1 1 0,005 0,05 0,1 0,005 2 0,2 0,001 0,2 0,1 1 0,01 3 0,001 0,1 0,5
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unitĂ di misura mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L
PARAMETRI Cianuri totali (CN) Cloro attivo libero Solfuri (come H2S) Solfiti (come SO3) Solfati (come SO4) Cloruri Fluoruri Fosforo totale (P) Azoto totale Azoto ammoniacale (NH4) Grassi e olii animali/vegetali Olii minerali Fenoli Pentacloro fenolo Aldeidi totali Tetracloroetilene, tricloro etilene Benzene Benzo(a)pirene Solventi organici aromatici totali Solventi organici azotati totali Tensioattivi totali Pesticidi clorurati Pesticidi fosforati Altri pesticidi totali Trialometani Solventi clorurati totali Litio Molibdeno Coliformi fecali
Â
Valori limite 0,05 0,2 0,5 0,5 500 250 1,5 2 15 2 10 0,05 0,1 0,003 0,5
mg/L mg/L mg/L
0,01 0,001 0,00001
mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L mg/L
0,01 0,01 0,5 0,0001 0,0001 0,05 0,03 0,04 2,5 0,01 0-200 su 100 ml
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Riutilizzo delle acque reflue depurate
Tabella 2 - Valore guida e limite per i parametri derogabili dalle Regioni. PARAMETRI pH Conducibilità elettrica Manganese Solfati (come SO4) Cloruri Azoto ammoniacale (NH4)
unità di misura µS/cm mg/L mg/L mg/L mg/L
Valore guida (ex tab.1) 6-9,5 3000 0,2 500 250 2
Valore limite per parametri derogabili (D.M. 185/03) 5,5-9,5 4000 2 1000 1200 15
L’affinamento delle acque reflue depurate, nei limiti tabellari prescritti, è controllato, assicurando la qualità delle acque ai fini del riutilizzo irriguo e civile. Eventuali deroghe sono ipotizzabili per i “Cloruri” per i quali il DM185/2003, impone un limite di 250 mg/l. Infatti, secondo quanto previsto dal decreto suddetto, “le regioni possono autorizzare limiti diversi da quelli di cui alla tabella, previo parere conforme del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, … comunque, non superiori ai limiti per lo scarico in acque superficiali di cui alla tabella 3 dell’allegato.5 del D.Lgs. 152/06”. Per il parametro “Cloruri” la concentrazione massima (detta anche C.M.A.), comunque, non superabile è pari a 1.200 mg/l. La presenza di tale sostanza, in concentrazioni superiori ai 250 mg/l nelle acque reflue è limitata ad alcune porzioni del territorio regionale, ove l’acqua distribuita per gli usi civili potabili viene approvvigionata dalla falda e, pertanto, talvolta possiede già un tenore di ione cloro talora superiore al limite suddetto (cfr. in Piano di Tutela delle Acque Puglia). 2.
Il riutilizzo delle acque reflue affinate in Puglia.
La situazione esistente nel territorio regionale rivela senz’altro l’evoluzione subita nel tempo dal settore delle acque e, nello specifico, quello della depurazione delle acque reflue, nonché del parco depuratori urbani esistente. È facile accorgersi, ancora oggi, che la nostra regione ha attraversato un dif-
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ficile periodo di transizione, in cui il governo regionale si è impegnato nel tentativo di ultimare tutti gli adeguamenti nei tempi previsti dalla normativa vigente ed in base alle scadenze, dovute allo stato di emergenza ambientale del settore idrico. Infatti, già con riferimento al D.Lgs. 152/1999, il divieto di recapito dei reflui nelle acque sotterranee e nel sottosuolo (art.30, D.lgs. 152/99) ha evidenziato la necessità di individuare aree idonee al recapito sul suolo (campi di spandimento), laddove non fosse possibile il collettamento nei corpi idrici recettori superficiali (laghi, torrenti, fiumi, canali e mare). Il Ministero dell’Ambiente, a valere sui fondi riguardanti la pianificazione ed il monitoraggio, nonché le refluenze del sistema tariffario del Servizio Idrico Integrato, ha destinato alla Puglia diversi finanziamenti, che hanno indotto una intensa attività di pianificazione e di programmazione. Il Piano di interventi urgenti a stralcio - Ha rappresentato per la Puglia un impegno importante per l’adeguamento degli impianti di depurazione delle reti fognarie e dei sistemi di collettamento, (previsto al comma 4 dell’art. 141 della Legge 388/2000), in considerazione delle caratteristiche del territorio e delle soluzioni impiantistiche adottate per i sistemi depurativi prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 152/99. Finalità prioritaria del piano è stata quella, infatti, di adempiere agli obblighi comunitari in materia di fognatura, collettamento e depurazione di cui agli art. 27, 31 e 32 del D.Lgs. 152/99. Le modalità di adeguamento delle strutture di depurazione che recapitano in corsi d’acqua superficiali, ma soprattutto di quelli recapitanti nel sottosuolo, in funzione della potenzialità nominale degli stessi, devono rispettare dei tempi prestabiliti che prefigurano come termine ultimo, mediante le proroghe decretate, il 31 dicembre 2005. Pertanto, la situazione attuale rivela le caratteristiche di un periodo di transizione nel tentativo di ultimare tutti gli adeguamenti nei tempi previsti. Il Piano Direttore - Questo documento ha espletato l’insieme delle prime direttive in merito alla pianificazione relativa alla tutela delle acque nelle more di attuazione del vero e proprio “Piano di Tutela delle Acque” a sensi del d.lgs. 152/99 e che, con il Piano di interventi urgenti, ha messo in moto le operazioni di raccolta e integrazione delle informazioni storiche del Settore acque in relazione a tutto il territorio regionale. Il Piano d’Ambito - Le “Disposizioni in materia di risorse idriche” hanno riguar-
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dato perlopiù la organizzazione dell’ATO Unico Puglia messa in atto dalla Regione insieme al Gestore del Servizio Idrico Integrato (AQP Spa) e all’Autorità d’Ambito (AATO) attraverso il Piano d’Ambito stesso. Il Piano è teso alla realizzazione di una serie di significativi interventi di adeguamento degli impianti di depurazione e potabilizzazione, di rinnovo delle reti e manutenzione straordinaria delle reti fognanti e di quelle acquedottistiche, mirando alla diminuzione delle perdite nelle reti acquedottistiche, nonchè ad un adeguato approvvigionamento idrico. La maggioranza dei progetti inseriti nel Piano d’Ambito sono quelli che il Gestore aveva preordinato nel proprio piano operativo triennale 2003-2005, sottoposto all’approvazione dell’AATO. La costituzione della AATO ha visto il coinvolgimento nella relativa convenzione di tutti i 258 comuni pugliesi.
Nella metà di marzo del 2003, l’Ordinanza che ha siglato l’accordo di programma tra Governo e Regione Puglia per la tutela delle acque e la gestione delle risorse idriche ha previsto una serie di investimenti destinati a soddisfare il bisogno idrico della regione, adeguare le reti idriche e le infrastrutture fognarie e depurative, tutelare e ridurre l’inquinamento dei corpi idrici superficiali e sotterranei fino ad eliminare gli scarichi di sostanze pericolose. A questi si aggiungono gli investimenti destinati a monitorare le acque, a promuoverne il risparmio e a riutilizzare le acque reflue depurate. Molti finanziamenti provengono dal vecchio POR (Programma Operativo Regionale) 2000-2006, oggi dal PO-FESR 2007-2013, mentre una altra quota parte deriva da stanziamenti previsti dalla L. 388/2000, dalla L. 488/2001 del Ministero dell’Ambiente o, ancora, da vecchie ordinanze, per l’emergenza idrica in Puglia, come quelli ricavati dall’OPCM n. 3184 del 22 marzo 2000. Le modalità di adeguamento del sistema di depurazione richiedono, tra l’altro, tempi lunghi e spesso di non facile soluzione, soprattutto in una regione come la Puglia, che, certamente, non vanta una particolare rete idrografica e spesso i deflussi superficiali di acque piovane o gli scarichi vari rappresentano l’unica alimentazione per il “naturale” decorso di acque negli alvei torrentizi. È questo, soprattutto, il caso di alcune aree della regione, in passato sede di grandi fiumi, definite da incisioni profonde della superficie (lame o gravine) ed oggi “ambìto” recapito finale degli impianti di depurazione per alcuni comuni situati nell’entroterra.
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Il sistema di depurazione comunale non ha raggiunto ancora oggi, per quanto detto, uno stato ottimale di conformità, per quanto riguarda i recapiti finali autorizzati dalla legge (il sottosuolo non è più ammesso) e, purtroppo, nemmeno per il rispetto dei valori limite previsti per i parametri caratteristici dello scarico urbano. Ciò si riscontra, in genere, lì dove le scelte passate, avvalendosi di tecnologie superate e non più ammodernate, rischiano di far cadere i Comuni e la Regione in procedure di infrazione comunitaria da parte dell’Unione Europea, con conseguenti sanzioni che penalizzano i già scarni bilanci pubblici. Per superare i ritardi, la Regione, attualmente, insieme alla Autorità dell’Ambito Territoriale Ottimale (A.ATO) ed al “Soggetto Gestore” del Servizio Idrico Integrato (l’Acquedotto Pugliese) e con il supporto tecnico di controllo dell’ARPA Puglia, ha messo in campo una serie di iniziative per valutare lo stato di fatto del parco depuratori urbani sia a livello di verifica impiantistica dei processi di trattamento che di compatibilità dei recapiti finali prestabiliti, con l’intento di individuare idonee integrazioni o alternative ammissibili. Principale preoccupazione nell’accertamento delle conformità, attualmente, riguarda il “tipo” di recapiti finali degli impianti di depurazione. Sono in corso di adeguamento, gli ultimi impianti che immettono ancora l’effluente depurato in sottosuolo; situazione emergente, soprattutto, nelle province di Brindisi e Lecce. Il particolare periodo transitorio di adeguamento del parco depurativo, prorogato di anno in anno fino al termine del periodo di commissariamento per l’emergenza ambientale acque (a fine dicembre 2010), ha indotto a particolari cambiamenti per quanto concerne il sistema dei processi di depurazione, con l’introduzione in alcuni impianti di nuove tecnologie di trattamento (come quelle che utilizzano Ozono, le MBR, ecc.) ed i nuovi indicatori di settore ne rilevano l’alta efficacia. In Puglia, dunque, si può contare su un sistema di impianti di depurazione esistente in numero considerevole, che nel tempo si sta consolidando tra depuratori che risultano essere in funzione a regime (con recapito finale a norma di legge) e quelli per cui si è preferita la dismissione con la messa in esercizio di nuovi depuratori urbani per taluni casi specifici. La pianificazione regionale in atto sul riutilizzo delle acque reflue recuperate ha come obiettivi:
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a)
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apportare vantaggi diretti in termini di risparmio quantitativo e, indiretti, in termini di minor impatto qualitativo degli effluenti, comunque, sversati; b) migliorare l’equilibrio del sistema idrico; c) descrivere la completa filiera del riutilizzo: il trattamento dei reflui con annesso affinamento, l’eventuale accumulo dei reflui affinati, l’interconnessione con la rete finale di distribuzione delle acque affinate e l’utilizzo finale; d) individuare le caratteristiche principali degli impianti di trattamento e delle reti di distribuzione da destinare prioritariamente al riutilizzo dei reflui. Le reti di adduzione per le acque da riutilizzare, per l’uso di tipo civile, devono essere separate da quelle potabili, richiedendo, pertanto, la messa in atto di un lungo processo di costruzioni nell’ambito delle infrastrutture e degli edifici abitativi; come già detto di più immediata fattibilità è senz’altro, invece, il riuso di tipo irriguo o quello industriale. Ruolo fondamentale nella realizzazione del recupero di volumi da riutilizzare e da destinare al riuso irriguo o industriale, ricopre la pianificazione di scenari futuri che possono concretizzarsi attraverso una corretta programmazione e progettazione degli interventi, l’esercizio e la gestione sia degli impianti di depurazione urbani che di quelli di affinamento connessi. La Regione Puglia ha attuato i primi adempimenti con l’attività del Commissario Delegato per l’Emergenza Ambientale Acque in Puglia (20002010), con la realizzazione di uno “Studio per il riutilizzo delle acque reflue affinate nella regione Puglia” (2002) detto anche “Piano straordinario per il riuso delle acque reflue condotta da ricercatori del Politecnico di Bari e dalla struttura commissariale, che hanno verificato, in base al parco depuratori urbani, la possibilità di recupero di alcuni volumi di acqua reflua depurata entro tempi relativamente brevi per un ammontare del 52% del refluo prodotto; successivamente, si sono raggiunte le prime disposizioni al fine di adeguare o realizzare i relativi impianti di affinamento già esistenti o progettati a seguito delle programmazioni e pianificazioni in corso d’opera.
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Il Piano straordinario per il riuso delle acque reflue depurate I contenuti dello studio condotto per la Regione Puglia, su incarico del Ministero dell’Ambiente e Tutela del territorio - Direzione per la qualità della vita, da parte della Sogesid Spa, in collaborazione con professionisti e accademici del Politecnico di Bari, vertono sulla “definizione degli interventi necessari per l’ottimizzazione tecnica, economica e funzionale del recupero delle acque reflue ai fini del loro riutilizzo”. Lo studio è stato articolato in differenti fasi per livelli di approfondimento su: - identificazione delle aree di domanda e confronto con i punti di offerta (di acque da utilizzare); - analisi delle migliori tecniche di affinamento dei reflui; - analisi dei costi di affinamento e gestione degli impianti con tale processo; - identificazione dei progetti che sono risultati potenzialmente realizzabili; - analisi di alcuni casi studio. Esso si compone di diversi Tomi ciascuno dei quali tratta i seguenti argomenti specifici: • Il riuso dei reflui depurati • Processi e tecnologie per il miglioramento qualitativo dei reflui urbani depurati ai fini del riuso • Vincoli tecnici, agronomici ed ambientali per il riuso a scopo irriguo dei reflui urbani depurati • Definizione e dimensionamento dei trattamenti integrativi ai fini del riuso dei reflui urbani depurati • Analisi dei costi dei trattamenti integrativi ai fini del riuso dei reflui urbani depurati • Valutazioni tecnico-economiche per il riuso dei reflui urbani depurati • Analisi delle componenti di costo per le valutazioni tecnico-economiche per il riuso dei reflui urbani depurati • Casi studio per il riuso dei reflui urbani depurati di alcuni centri urbani significativi della Puglia. I “casi studio” condotti su alcuni impianti di trattamento nelle province di Bari, Brindisi, Foggia e Lecce hanno evidenziato la possibilità, in tempi relativamente brevi, di un riutilizzo in totale pari al 52% delle acque reflue depurate corrispondente a 27,84 Milioni di mc in volume recuperabile.
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Nelle more d’approvazione del Piano di Tutela delle Acque della Puglia, infatti, la Regione disponeva, con la Deliberazione della Giunta Regionale n. 662 del 23 maggio 20063, i primi provvedimenti in materia di riutilizzo delle acque reflue depurate. Con tale deliberazione, dunque, venivano definite con precisione le possibilità di reimpiego sia attraverso processi già esistenti per il riuso industriale ed irriguo sia per altri depuratori urbani da integrare con affinamento attraverso interventi specifici, di cui può prendersi visione, in particolare, nei due elenchi-tabelle in allegato alla deliberazione dalla seguente denominazione: 1 - Impianti di affinamento già realizzati – ovvero trattasi di impianti, per processo di affinamento, idonei a licenziare acque per il riuso irriguo e per i quali esisteva già un comprensorio attrezzato destinato a ricevere tali reflui, anche per il comparto industriale. – Tra essi vi erano già previsti affinamenti in provincia di Bari connessi ai depuratori urbani: Bari Est, Bari Ovest, Conversano, Castellana Grotte, Andria, Alberobello, Molfetta. 2 - Impianti di affinamento in corso di realizzazione e/o di adeguamento – Tra questi vi erano previsti affinamenti in provincia di Bari, per il solo riuso irriguo, connessi ai depuratori urbani: Andria, Barletta, Castellana Grotte, Molfetta. I concetti affrontati nelle prime disposizioni regionali sul riutilizzo trovano conferma nella Legge della Regione Puglia n. 27 del 21 ottobre 20084, all’art.1, lettera b), che modificava quanto previsto dagli adempimenti regionali seguiti alla Legge Galli. Principali norme regionali integrative in tema di riutilizzo delle acque reflue depurate sono quelle contenute nel Piano di Tutela delle Acque della regione Puglia, ed in particolare, oltre a misure di intervento figura l’importante “Disciplina degli impianti di riutilizzo delle acque reflue depurate”, che racchiude le prime diposizioni relative al controllo ed alla gestione degli impianti di recupero. 3 D.G.R. n. 662 del 23 maggio 2006 “Regolamento recante norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue approvato con decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio n. 185/03. Adempimenti” Pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Puglia (BURP) n. 67 del 1giugno 2006. 4 Legge della Regione Puglia n. 27 del 21 ottobre 2008 “Modifiche e integrazioni alla legge regionale 6 settembre 1999, n. 28 (Delimitazione degli ambiti territoriali ottimali e disciplina delle forme e dei modi di cooperazione tra gli enti locali, in attuazione della legge 5 gennaio 1994, n. 36)”.
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Il Piano di Tutela delle Acque della Regione Puglia Con il P.T.A. (Piano di Tutela delle Acque) della Regione Puglia è stata pianificata la disciplina relativa alla tutela delle acque, ai sensi dell’art.121 del D. Lgs.3 aprile 2006, n. 152. Prima adottato e, ad oggi, approvato definitivamente con la Deliberazione del Consiglio Regionale n.230 del 20 ottobre 2009, a seguito della D.G.R. del 4 agosto 2009, n. 1441. Il P.T.A. Puglia contiene nell’Allegato.2 alla Deliberazione di approvazione n.1441/2009, le “Linee Guida” per la realizzazione dei Regolamenti Regionali su alcuni argomenti di specifico interesse tra cui: “Disciplina scarichi di acque reflue domestiche o assimilate per insediamenti inferiori ai 10.000 AE…”, “Disciplina delle acque meteoriche di dilavamento e di prima pioggia” “Disciplina degli impianti di riutilizzo delle acque reflue depurate” Tra esse figura l’importante “Disciplina degli impianti di riutilizzo delle acque reflue depurate”, che racchiude le prime diposizioni relative alla gestione degli impianti di recupero. Con esso sono state introdotte specificazioni sul tema del riutilizzo delle acque reflue depurate, rispetto a quelle riportate nel Decreto Ministeriale (D.M.) n.185/2003, in relazione alle caratteristiche del territorio ed alla gestione del Servizio Idrico Integrato (SII) pugliese. Particolare rilievo è da attribuirsi, infatti, ai “recapiti finali” individuati come destinazione finale alternativa al riutilizzo, qualora il riuso non debba avvenire per disponibilità superiore e nei casi di stati d’emergenza. Nel PTA Puglia vi è l’Allegato 14.01 – “Riuso della risorsa idrica”, in cui viene esposto lo stato di attuazione del riuso in Puglia e le proposte di intervento, la Stima dei volumi idrici recuperabili, la Gestione degli impianti di riuso ed i Valori limite per il riutilizzo delle acque reflue in Puglia. Inoltre, la Tabella1.1 del medesimo allegato contiene un Elenco impianti di depurazione già attrezzati per il riuso e impianti oggetto di proposta per l’affinamento, che ricalca quello già Deliberato in precedenza, perseguendone gli stessi orientamenti.
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2.1. La pianificazione di scenari futuri nelle province pugliesi La Regione Puglia ha ripreso nel PTA Puglia, la trattazione delle disposizioni già presenti nella D.G.R. n. 662 del 23 maggio 2006 citata, aggiungendo la specifica linea guida (in allegato alla DGR n° 1441/2009), al fine di individuare un elenco di impianti depurativi, i cui scarichi finali sono idonei per essere destinati al recupero ed al successivo riutilizzo dei reflui depurati prodotti, ai sensi del Decreto Min. Ambiente 185/2003. Al riguardo, la previsione di riuso dei reflui, indicata sulla base degli impianti di depurazione esistenti in ogni provincia attraverso i processi di affinamento previsti (in alcuni casi ancora in costruzione), risulta piuttosto bassa, sia in numero che in percentuale rispetto al totale degli impianti; tuttavia il riuso sta assumendo valore certamente significativo per sviluppare una corretta politica del riutilizzo delle acque come può individuarsi facilmente dalle elaborazioni in Figura 1 e Figura 2 riportate di seguito.
Figura 1. Numero di depuratori urbani esistenti disposti per il riuso dei reflui affinati. Fonte: Elaborazione dati in Deliberazione G.R. n. 662 del 23 maggio 2006 e PTA Puglia.
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Figura 2. Percentuale di impianti depurativi esistenti disposti per il riutilizzo dei reflui urbani. Fonte: Elaborazione dati Piano d’Ambito dell’ATO Puglia.
In Puglia, da alcuni anni è in esercizio un efficace sistema di affinamento per la riutilizzazione delle acque reflue urbane in agricoltura; precisamente si tratta di un impianto di affinamento realizzato a Fasano (BR), nel 2001, con accumulo e distribuzione finalizzati al riuso delle acque reflue urbane a scopo irriguo. Questo preleva, completamente o in parte, le acque in uscita dal presidio depurativo e destinate allo scarico a mare al fine di conferire il grado di qualità imposto dalla normativa vigente (D.M. 185/03; D.Lgs. 152/06) e richiesto per il successivo riutilizzo in agricoltura. Per la corretta gestione dell’impianto, ha assunto un ruolo fondamentale la struttura della domanda irrigua da cui dipende il ruolo funzionale dei processi di trattamento ed accumulo ed i relativi costi specifici di acqua affinata e consegnata alle utenze. La dinamica dei costi è risultata fortemente condizionata dai volumi mensili di acqua affinata ed erogata e, dai volumi annuali considerati nella logica della gestione annuale del servizio (Figura 3). È da evidenziare come nel corso del triennio il costo annuale reale del servizio al punto di consegna delle utenze sia diminuito, passando da 0,93 €/ mc nel 2005 agli attuali 0,3 €/mc, di cui circa 0,15 €/mc, rappresenta il costo specifico di affinamento.
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Figura 3. Andamento del costo specifico della risorsa idrica affinata.
Le previsioni, in condizione limite strutturale di funzionamento, in media individuano tali costi rispettivamente in 0,25 €/mc e in 0,10 €/mc (cfr. nel Piano di Tutela delle Acque). Allo stato attuale, sul costo reale al metro cubo, il costo specifico di affinamento è sostenuto dalle utenze ed i costi energetici e di manutenzione straordinaria sono sostenuti dall’Amministrazione Comunale di Fasano. Nelle attuali condizioni del sistema (erogazione diretta a domanda) l’impianto può sostenere, senza raggiungere il limite strutturale, una domanda di acqua affinata fino ad un massimo di circa 1.000.000 mc/anno5 (cfr. nel Piano di Tutela delle Acque). La concretizzazione, dunque, di una corretta forma di riuso delle acque in Puglia si potrà tradurre nel tempo in una “eloquente risposta” allo stato di deficit del bilancio idrico regionale. Pertanto, l’introduzione in futuro di un regolamento regionale che possa ben disciplinare le iniziative al riguardo rappresenterebbe, attualmente, l’inizio del monitoraggio di un quadro di risposte che la Regione ha messo, ormai, in campo a seguito dell’emergenza ambientale di settore, i cui interventi dovranno concludersi entro giugno 2011. 5
Informazioni ricevute dalla Regione e tratte dal Piano di Tutela delle Acque della regione Puglia.
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Sulla base di tali considerazioni la pianificazione di tali scenari futuri nelle province pugliesi assumerà importanza e, soprattutto, darà i risultati sperati soltanto se il mondo agricolo risponderà positivamente impiegando la risorsa idrica alternativa derivante dalla depurazione delle acque reflue urbane prodotte dalla popolazione. Alla luce di quanto detto, infatti, anche enti come le Province hanno un ruolo fondamentale, sia nelle fasi procedurali di autorizzazione agli scarichi e, quindi, nel sostenere corrette prescrizioni per i processi di trattamento e affinamento dei reflui, sia in quelle di vigilanza da parte del corpo di polizia provinciale, nonché di verifica delle scelte proposte, onde valutare le opportunità che ne possono derivare in termini di funzionamento dell’intera filiera del riutilizzo sopradetta. Anche le iniziative dei Comuni in tali prospettive non devono mancare, contribuendo sia in veste di gestore di impianti6, che come ente cittadino per la sensibilizzazione e promozione del riutilizzo dei reflui non solo nell’agricoltura, ma anche nel settore civile con l’introduzione di disposizioni nella programmazione e pianificazione urbanistica e settoriale a livello comunale. Una importante conseguenza positiva nella realizzazione del “riutilizzo” in Puglia, come lo stesso Piano di Tutela delle Acque regionale ribadisce, è rappresentata dalla riduzione degli scarichi inquinanti. Essendo, infatti, lo scarico delle acque reflue depurate un’attività ineliminabile, il loro riuso per l’irrigazione delle colture agrarie, costituirebbe una mitigazione dell’impatto e fornirebbe un apporto spesso rilevante al soddisfacimento dei fabbisogni idrici non potabili. 3.
I vantaggi nel riutilizzo di acque reflue depurate
È noto, innanzitutto, che la Puglia non è una regione ricca di corpi idrici; l’apporto proprio del territorio pugliese ai volumi di risorsa idrica impiegati nella distribuzione idropotabile è stato spesso limitato alle sole acque sotterranee di cui la falda profonda è ricca, mentre in generale l’Acquedotto pugliese, nell’ambito del SII, gestisce acque interregionali per assicurare alla Alcuni pochi depuratori urbani, ad oggi, nella regione Puglia sono ancora in gestione ai Comuni proprietari.
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regione Puglia l’approvvigionamento idrico idoneo. Tutto ciò ha indotto, ad oggi, un devastante depauperamento di acqua dolce dei corpi idrici sotterranei, con aggravio del loro stato qualitativo nel tempo, sempre più contraddistinto da critici fenomeni di intrusione salina (di acque dal mare) nelle falde idriche superficiali e profonde (De Mattia Mossa, 2007). La tutela quantitativa delle risorse idriche è dettata anche dall’art. 95, comma 1, del D.Lgs. 152 del 2006, è “concorre al raggiungimento degli obiettivi di qualità attraverso una pianificazione delle utilizzazioni delle acque volta ad evitare ripercussioni sulla qualità delle stesse e a consentire un consumo idrico sostenibile”. Troppo volte e troppo facilmente viene utilizzato il termine “sostenibile”, oggi divulgatosi in qualsiasi settore, ma se c’è un comparto davvero risentito, in cui vi è necessità in Puglia di parlare in termini di “sostenibilità”, è proprio quello idrico. Le misure di intervento previste nel Piano di Tutela delle Acque della Puglia riservano, ancora, particolare attenzione al raggiungimento degli obiettivi di qualità posti in essere dalle norme vigenti, contribuendo: a) alla tutela qualitativa e quantitativa delle risorse idriche; b) alla riduzione dei prelievi dalle acque superficiali e sotterranee e alla riduzione degli impatti sui corpi idrici recettori. Il riutilizzo di acque reflue depurate, pianificato ed in corso di attuazione in Puglia, se condotto e concretizzato in maniera efficace, consente di sopperire a diverse esigenze tipiche del nostro tempo e del nostro territorio: da un lato di reperire fonti idriche alternative per fronteggiare la riduzione delle disponibilità di risorsa idrica e dall’altro di ridurre le ripercussioni ambientali, evitando così che il carico inquinante delle acque reflue possa portare ad ulteriore degrado ambientale (nel qual caso vengano scaricate in recapiti finali convenzionali). La Regione, in tal modo, per il nostro territorio ad alta vocazione agricola, nello scenario futuro potrebbe far fronte sempre alla domanda d’acqua utile a garantire un costante processo produttivo nell’agricoltura, senza per questo necessariamente privare o limitare l’offerta nel sistema idrico di erogazione dei volumi di risorsa idrica da destinare al “consumo umano”.
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4.
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Conclusioni
Quanto mai oggi, è necessario soffermarsi sui rischi potenziali – ma di breve periodo – e sulle conseguenze derivanti dal mancato compimento degli interventi prospettati negli scenari futuri oggetto di pianificazione. Fondamentale importanza, in prospettiva, riveste la conoscenza delle tematiche qui affrontate ed il superamento di dubbiosità o incertezze nel riutilizzo di acque reflue depurate, soprattutto nel mondo agricolo, che in larghe fasce appare ancora molto scettico nel reimpiego di tali acque nella irrigazione. Le disposizioni vigenti e quelle regionali che sono allo studio in adempimento alle linee guida del PTA Puglia, non possono che rivolgere grande attenzione sull’argomento, al fine di assicurare la disponibilità di una risorsa idrica alternativa, garantendo sempre il “consumatore” sia dal punto di vista quali-quantitativo che da quello gestionale, individuando adeguatamente tutti i soggetti coinvolti nel sistema da mettere in atto, dai controlli alla distribuzione attraverso corrette responsabilità.
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Bibliografia Testi della Normativa pubblicata in materia di “Acque”, nazionale e regionale: D.M. 185/2003, D.G.R. Puglia n. 662 del 23 maggio 2006, Piano di Tutela delle Acque Puglia, ecc. M.C. De Mattia , M. Mossa, Il Sistema idrico pugliese e la qualità e la salvaguardia delle Acque Sotterranee al fine del loro utilizzo in momenti di crisi di approvvigionamento, Atti dei Convegni Lincei della VII Giornata Mondiale dell’Acqua, 22 marzo 2007, Roma - Convegno “La Crisi dei sistemi idrici: approvvigionamento agro-industriale e civile” - Accademia Nazionale dei Lincei. REGIONE PUGLIA - Programma regionale di Tutela Ambientale 2003-2006 BURP n. 19, del 02.02.2005 e sue modifiche ed integrazioni successive. AA.VV. ARPA PUGLIA - Relazione sullo Stato dell’Ambiente 2004 - Martano Editore - Estratti da Capitolo 2. Ciclo delle Acque, Autore M.C. De Mattia, (pagg. 61-117). SOGESID S.p.A, Piano Direttore (a stralcio del Piano di Tutela delle Acque) della Regione Puglia - Commissario Delegato per l’Emergenza Ambientale, 2002. SOGESID S.p.A-AQP, Legge n. 388/2000 art.141 comma 4-Programma di interventi urgenti a stralcio, Regione Puglia - Commissario Delegato per l’Emergenza Ambientale, 2002. Sitografia www.regione.puglia.it www.arpa.puglia.it www.aatopuglia.it
Filomena Lacarbonara
Utilizzo dei fanghi di depurazione in agricoltura: normativa di riferimento e prospettive future Sommario: 1. Normativa di riferimento; 1.1. Norme tecniche; 1.2. Connessioni con la disciplina dei rifiuti; 2. L’utilizzo dei fanghi in agricoltura; 2.1. Destinazione dei fanghi; 2.2. Problematiche e opportuinità; 2.3. Gli impatti e la situazione in Puglia; 3. Indirizzi per la pianificazione e prospettive future; 3.1. Il Tavolo Tecnico regionale; 4. Conclusioni.
1.
Normativa di riferimento
L’utilizzo di fanghi derivanti dal processo di depurazione delle acque reflue sui terreni coltivati è una pratica incoraggiata dalla normativa comunitaria sin dal 1986, anno di emanazione della Direttiva 86/278/CEE concernente la protezione dell’ambiente, in particolare del suolo, nell’utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura, il cui atto di recepimento in Italia è rappresentato dal D. Lgs. 27.01.1992 n. 99. Tale decreto regola le condizioni e le modalità di utilizzo in agricoltura dei fanghi prodotti dal processo di depurazione dei reflui provenienti da insediamenti civili e produttivi e fissa le limitazioni nelle caratteristiche agronomiche e microbiologiche degli stessi (contenuto massimo di metalli pesanti Cd, Cu, Ni, Pb, Zn, Hg e Cr e contenuto minimo di elementi nutritivi N e P totali) per ridurre al minimo i rischi legati alla possibilità che sostanze pericolose possano entrare nella catena alimentare o inquinare il suolo. I requisiti essenziali per l’utilizzo dei fanghi su suolo agricolo sono: - un preliminare trattamento (ossia un processo di stabilizzazione atto a contenere / eliminare i possibili effetti igienico-sanitari); - l’idoneità a produrre un effetto concimante e/o ammendante e correttivo del terreno; - l’assenza di sostanze tossiche e nocive e/o persistenti e/o bioaccumulabili in concentrazioni dannose per il terreno, per le colture, per gli
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Filomena Lacarbonara
animali, per l’uomo e per l’ambiente in generale; adeguate caratteristiche dei fanghi (Allegato I B del Decreto); adeguate caratteristiche del terreno (Allegato I A). Nella tabella seguente sono indicate, estratte dagli allegati al Decreto, le concentrazioni massime di metalli pesanti consentite nei fanghi prima del loro spandimento su suolo e le relative caratteristiche dei terreni oggetto di tale spandimento. - -
Concentrazioni massime in metalli pesanti consentite (mg/Kg s.s.) Elemento Cadmio
Mercurio Nichel
(D.Lgs. 99/92)
Allegato I A (Suoli) 1,5 1
20 10
75
300
100
1000
Piombo
100
Zinco
300
Rame
Allegato I B (Fanghi)
750
2500
Mentre le analisi sui fanghi vanno effettuate ogni qualvolta intervengano cambiamenti sostanziali nella qualità delle acque trattate e, comunque, almeno: • ogni 3 mesi per impianti > 100.000 A.E. • ogni 6 mesi per impianti < 100.000 A.E. • 1 volta all’anno per impianti < 5.000 A.E. secondo il protocollo analitico fissato nell’allegato B al Decreto. Le analisi per i terreni, da effettuare preventivamente all’utilizzazione degli stessi, devono accertare la rispondenza ai parametri indicati nell’allegato II A e devono essere ripetute almeno ogni tre anni. Inoltre, con le seguenti caratteristiche dei suoli: - capacità di scambio cationico (C.S.C.) superiore a 15 meq/100 gr - pH compreso tra 6,0 e 7,5 i fanghi possono essere applicati su terreni in dosi non superiori a 15 ton/ ettaro di sostanza secca nell’arco di un triennio. Al variare delle condizioni di pH e C.S.C. varia anche la quantità am-
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missibile di fanghi in un suolo agrario. Infatti, in caso di utilizzazione di fanghi su terreni il cui pH sia inferiore a 6 e la cui C.S.C. inferiore a 15, per tenere conto dell’aumentata mobilità dei metalli pesanti e del loro maggiore assorbimento da parte delle colture, i quantitativi di fango utilizzato devono essere diminuiti del 50%. Al contario, nel caso in cui il pH del terreno sia superiore a 7,5 i quantitativi di fango utilizzato possono essere aumentati del 50%. Nel decreto sono fissati una serie di divieti. È vietato applicare i fanghi ai terreni: a) allagati, soggetti ad esondazioni e/o inondazioni naturali, acquitrinosi o con falda acquifera affiorante, o con frane in atto; b) con pendii maggiori del 15% limitatamente ai fanghi con un contenuto in sostanza secca inferiore al 30%; c) con pH minore di 5 e con C.S.C. minore di 8 meq/100 gr; d) destinati a pascolo, a prato-pascolo, a foraggere, anche in consociazione con altre colture, nelle 5 settimane che precedono il pascolo o la raccolta di foraggio; e) destinati all’orticoltura e alla frutticoltura i cui prodotti sono normalmente a contatto diretto con il terreno e sono di norma consumati crudi, nei 10 mesi precedenti il raccolto e durante il raccolto stesso; f) quando è in atto una coltura, ad eccezione delle colture arboree; g) quando sia stata comunque accertata l’esistenza di un pericolo per la salute degli uomini e/o degli animali e/o per la salvaguardia dell’ambiente. Il D.Lgs. 99/92 stabilisce che siano le Regioni ad autorizzare le attività di raccolta, trasporto, stoccaggio, condizionamento ed utilizzazione dei fanghi in agricoltura, oltre a stabilire ulteriori limiti e condizioni di utilizzazione in agricoltura per i diversi tipi di fanghi in relazione alle caratteristiche dei suoli, ai tipi di colture praticate, alla composizione dei fanghi, alle modalità di trattamento. L’utilizzo agronomico dei fanghi è soggetto ad autorizzazione regionale. Con la L.R. n. 29/95 la Regione Puglia ha delegato le Province ad autorizzare lo spandimento dei fanghi nel territorio di competenza.
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L.R. 29/95 - Esercizio delle funzioni amministrative in materia di utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura attraverso le Amministrazioni provinciali. È ammessa l’utilizzazione dei fanghi in agricoltura allorchè si verificano le condizioni di cui all’ art. 3 del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 99, nonché quando il valore residuo dei solidi volatili del fango non risulti superiore al 68% di quello totale ovvero quando sia stato ridotto il contenuto in solidi volatili in misura non inferiore al 33% degli stessi. Oltre i divieti stabiliti dall’ art. 4 del D.Lgs. 99/92, è vietata l’utilizzazione dei fanghi su terreni agricoli nelle aree interdette allo smaltimento così come definite dalle carte tematiche del Piano regionale di risanamento delle acque. È, altresì, vietata l’ utilizzazione dei fanghi su terreni agricoli a distanze pari o inferiori a: - 1.000 m da captazioni idropotabili - 500 m da captazioni idriche a qualsiasi altro uso destinate - 200 m da corsi d’ acqua superficiali - 500 m da autostrade e strade statali - 300 m da strade provinciali - 100 m da strade comunali
Al fine di ottenere l’autorizzazione allo spandimento il richiedente deve indicare: a) la tipologia di fanghi da utilizzare; b) le colture destinate all’impiego dei fanghi; c) le caratteristiche e l’ubicazione dell’impianto di stoccaggio dei fanghi; d) le caratteristiche dei mezzi impiegati per la distribuzione dei fanghi; L’autorizzazione ha una durata massima di cinque anni. L’utilizzatore deve notificare, con almeno 10 giorni di anticipo, alla Provincia ed al Comune di competenza, l’inizio delle operazioni di utilizzazione dei fanghi, indicando: a) gli estremi dell’impianto di provenienza dei fanghi; b) i dati analitici dei fanghi per i parametri indicati all’allegato B; c) l’identificazione sui mappali catastali e la superficie dei terreni sui quali si intende applicare i fanghi; d) i dati analitici dei terreni, per i parametri indicati all’allegato A;
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e) le colture in atto e quelle previste; f) le date previste per l’utilizzazione dei fanghi; g) il consenso allo spandimento da parte di chi ha il diritto di esercitare attività agricola sui terreni sui quali si intende utilizzare fanghi; h) il titolo di disponibilità dei terreni ovvero la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà. Norme Regionali integrative in tema di utilizzazione dei fanghi in agricoltura Con la disciplina della Condizionalità (D.G.R. n. 2460/2008) sono state introdotte modifiche e limitazioni all’uso dei fanghi in agricoltura rispetto a quelle riportate nel D.Lgs. 99/1992 e nella L.R. 29/1995. In particolare, la quantità di fango utilizzabile deve essere valutata in funzione di diversi parametri, quali la profondità dello strato arabile e le frazioni di scheletro. Sono richieste l’acquisizione preventiva dell’autorizzazione del proprietario del terreno ed una relazione da parte di personale qualificato attestante le caratteristiche del terreno. Inoltre, le analisi devono essere eseguite presso laboratori accreditati, con procedure riportate nel D.M. n. 185/1999. Occorre anche tener conto di altre disposizioni regionali che si sono aggiunte a quelle specificatamente indirizzate ai fanghi di depurazione e che, comunque, ne disciplinano l’utilizzo. La DGR n. 19/2007 “Programma d’azione per le zone vulnerabili da nitrati. Attuazione della Direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento da nitrati provenienti da fonti agricole” nella Parte II “programma d’azione” ha sancito dei divieti. 1. L’utilizzo di liquami e dei materiali ad essi assimilati, nonché dei fanghi derivanti da trattamenti di depurazione di cui al decreto legislativo n. 99 del 1992 è vietato: a) entro 10 m di distanza dalle sponde dei corsi d’acqua superficiali, ad esclusione dei canali arginati; b) entro 30 m di distanza dall’inizio dell’arenile per le acque lacuali, marinocostiere e di transizione, nonché dai corpi idrici ricadenti nelle zone umide individuate ai sensi della Convenzione di Rarnsar del 2 febbraio 1971; c) sulle superfici non interessate dall’attività agricola, fatta eccezione per le aree a verde pubblico e privato e per le aree soggette a recupero e ripristino ambientale; d) nei boschi, ad esclusione delle deiezioni rilasciate dagli animali nell’allevamento brado;
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e) sui terreni gelati, innevati, con falda acquifera affiorante, con frane in atto e terreni saturi d’acqua, fatta eccezione per i terreni adibiti a colture che richiedono la sommersione; f) in tutte le situazioni in cui l’autorità competente provvede ad emettere specifici provvedimenti di divieto o di prescrizione in ordine alla prevenzione di malattie infettive, infestive e diffusive per gli animali, per l’uomo e per la difesa dei corpi idrici; g) entro 200 m da strade e centri abitati, a meno che i liquami siano distribuiti con tecniche atte a limitare l’emissione di odori sgradevoli o vengano immediatamente interrati; h) nei casi in cui i liquami possano venire a diretto contatto con i prodotti destinati al consumo umano; i) in orticoltura, a coltura presente, nonché su colture da frutto, a meno che il sistema di distribuzione non consenta di salvaguardare integralmente la parte aerea delle piante; j) dopo l’impianto della coltura nelle aree adibite a parchi o giardini pubblici, campi da gioco, utilizzate per ricreazione o destinate in genere ad uso pubblico; k) su colture foraggiere nelle tre settimane precedenti lo sfalcio del foraggio o il pascolamento. 2. L’utilizzo di liquami è vietato su terreni con pendenza media, riferita ad un’area aziendale omogenea, superiore al 10%; l’utilizzo può essere consentito sui terreni con pendenza fino al 20%, in presenza di sistemazioni idraulico-agrarie, sulla base delle migliori tecniche di spandimento riportate nel CBPA e nel rispetto delle seguenti prescrizioni volte ad evitare il ruscellamento e l’erosione: a) dosi di liquami frazionate in più applicazioni; b) iniezione diretta nel suolo o spandimento superficiale a bassa pressione con interramento entro le 12 ore sui seminativi in pre-aratura; c) iniezione diretta, ove tecnicamente possibile, o spandimento a raso sulle colture prative; d) spandimento a raso in bande o superficiale a bassa pressione in copertura su colture cerealicole o di secondo raccolto. Il Regolamento regionale 18 luglio 2008, n. 15 “Regolamento recante misure di conservazione ai sensi delle direttive comunitarie 79/409/CEE e 92/43/CEE e del DPR n. 357/97 e successive modifiche e integrazioni” all’Art. 5 (Misure di conservazione per tutte le ZPS) comma 1l) prevede: “In tutte le zone ZPS è fatto divieto di:… l) utilizzo e spandimento di fanghi di depurazione, provenienti dai depuratori urbani e industriali, con l’esclusione dei fanghi provenienti dalle aziende agroalimentari, sulle superfici agricole e sulle superfici naturali;”.
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L’applicazione dei fanghi è altresì vietata nelle zone di protezione speciale idrogeologica di tipo A e B individuate nell’allegato 2 della DGR n° 1441 del 4 agosto 2009 di approvazione del Piano di Tutela delle Acque della Regione Puglia, che prevede l’immediata applicazione delle norme inserite tra le “prime misure di salvaguardia” nelle more dell’approvazione del piano.
1.1. Norme tecniche Il D.Lgs. 99/92 indica una serie di norme tecniche che devono essere assicurate per il corretto trattamento dei fanghi e l’adeguata utilizzazione in agricoltura. 1. Raccolta dei fanghi. La raccolta dei fanghi presso gli impianti di depurazione deve avvenire con mezzi meccanici idonei e nel rispetto delle condizioni igieniche per gli addetti a tali operazioni e per l’ambiente. 2. Trasporto dei fanghi. Il trasporto dei fanghi deve essere effettuato con mezzi idonei ad evitare ogni dispersione durante il trasferimento ed a garantire la massima sicurezza da punto di vista igienico-sanitario. In caso di trasporto di altri rifiuti i mezzi devono essere bonificati al fine del successivo trasporto dei fanghi. 3. Stoccaggio dei fanghi negli impianti di produzione e/o di trattamento e/o stoccaggio per conto terzi. Devono essere previsti adeguati sistemi di stoccaggio predisposti in relazione allo stato fisico dei fanghi prodotti ed alla loro utilizzazione. 4. Condizionamento dei fanghi. Si intende per condizionamento dei fanghi qualsiasi operazione atta a modificare le caratteristiche fisico-chimicobiologiche dei medesimi in modo tale da facilitarne l’utilizzazione in agricoltura con esclusione delle operazioni proprie del ciclo fanghi eseguiti presso gli impianti di depurazione. 5. Stoccaggio dei fanghi presso l’utilizzatore finale. Qualora l’azienda utilizzatrice intenda dotarsi di un proprio impianto di stoccaggio, questo deve avere capacità e dimensioni proporzionate sia agli ordinamenti colturali prevalenti, sia alle caratteristiche dei fanghi. 6. Applicazione dei fanghi. I fanghi devono essere applicati seguendo le buone pratiche agricole; durante l’applicazione o subito dopo va effettuato l’interramento mediante opportuna lavorazione del terreno. Durante le fasi di applicazione dei fanghi sul suolo, deve essere evitata
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la diffusione di aerosol, il ruscellamento, il ristagno ed il trasporto del fango al di fuori dell’area interessata alla somministrazione. In ogni caso l’applicazione dei fanghi deve essere sospesa durante e subito dopo abbondanti precipitazioni, nonché su superfici gelate o coperte da coltre nevosa. 1.2. Connessioni con la disciplina dei rifiuti All’Art. 127 Fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue della Parte Terza del D.Lgs. 152/2006 e s.m.i. (Testo Unico Ambientale), con riferimento al tema in oggetto, testualmente si riporta: 1. Ferma restando la disciplina di cui al decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 99, i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue sono sottoposti alla disciplina dei rifiuti, ove applicabile e alla fine del complessivo processo di trattamento effettuato nell’impianto di depurazione. I fanghi devono essere riutilizzati ogni qualvolta il loro reimpiego risulti appropriato. 2. È vietato lo smaltimento dei fanghi nelle acque superficiali dolci e salmastre. Quindi, al termine del processo di trattamento, indipendentemente dalla modalità di smaltimento o riutilizzo, il fango deve essere gestito come un rifiuto e deve essere assicurata, pertanto, la tracciabilità delle varie fasi che vanno dalla produzione al trasporto al collocamento a dimora (sia esso riutilizzo o meno). Gli impianti depurativi di reflui urbani non si configurano come impianti di trattamento di rifiuti, conseguentemente, al termine del processo di trattamento dei fanghi, gli stessi devono essere allontanati con le tempistiche indicate dalla stessa norma (art. 183 lett. bb deposito temporaneo). I fanghi residuali dei processi depurativi, in quanto rifiuti speciali non pericolosi, devono essere allontanati dal luogo di produzione con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dal quantitativo in deposito, o quando il quantitativo prodotto ha raggiunto i 30 mc. In ogni caso il deposito temporaneo non può avere durata superiore ad un anno. In quanto rifiuto, il fango deve essere classificato secondo la codifica (C.E.R.) riportata nell’Elenco dei Rifiuti istituito dall’Unione Europea con la
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Decisione 2000/532/Ce e recepito in Italia a partire dal 1° gennaio 2002 in sostituzione della precedente normativa. L’elenco dei rifiuti riportato nella Decisione 2000/532/Ce è stato trasposto successivamente nel D.Lgs. 152/2006, Parte Quarta, Allegato D. Il Catalogo Europeo dei Rifiuti (CER) è un elenco armonizzato di rifiuti, oggetto di periodica revisione. Il CER contiene tutte le tipologie di rifiuti, urbani e speciali, pericolosi e non pericolosi. Ogni rifiuto ricompreso nell’elenco è classificato con un codice numerico a 6 cifre (codice C.E.R.): • le prime due cifre individuano le categorie industriali o i tipi di attività che hanno generato i rifiuti; • le seconde due cifre individuano i singoli processi all’interno delle categorie industriali o attività che hanno generato il rifiuto; • le ultime due cifre individuano la singola tipologia del rifiuto generato. Per i fanghi provenienti dal processo di depurazione delle acque reflue il codice identificativo è il 19, le successive cifre stanno ad indicare le tipologie di trattamento che hanno appunto prodotto le varie tipologie di fango (ad es., il CER 190805 indica i fanghi originati dal trattamento delle acque reflue urbane).
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1908
190807*
RIFIUTI PRODOTTI DA IMPIANTI DI TRATTAMENTO DEI RIFIUTI, IMPIANTI DI TRATTAMENTO DELLE ACQUE REFLUE FUORI SITO, NONCHÈ DALLA POTABILIZZAZIONE DELL’ACQUA E DALLA SUA PREPARAZIONE PER USO INDUSTRIALE NON PERICOLOSI PERICOLOSI1 Rifiuti prodotti dagli impianti per il trattamento delle acque reflue, non specificati altrimenti Fanghi prodotti dal 190805 trattamento delle acque reflue urbane soluzioni e fanghi di rigenerazione delle resine a scambio ionico
I codici C.E.R. si dividono in non pericolosi e pericolosi; i secondi vengono identificati graficamente con un asterisco “*”. La pericolosità di un rifiuto viene determinata tramite analisi di laboratorio volte a verificare l’eventuale superamento di valori di soglia individuati dalle Direttive sulla classificazione, l’etichettatura e l’imballaggio delle sostanze pericolose.
1
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190811*
190813*
1909
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fanghi prodotti dal trattamento biologico delle 190812 acque reflue industriali, diversi da quelli di cui alla voce 190811 fanghi prodotti da altri fanghi contenenti sostanze pericolotrattamenti delle acse prodotti da altri trattamenti delle 190814 que reflue industriali, acque reflue industriali diversi da quelli di cui alla voce 190813 Rifiuti prodotti dalla potabilizzazione dell’acqua o dalla sua preparazione per uso industriale Fanghi prodotti dai 190902 processi di chiarificazione dell’acqua Fanghi prodotti dai 190903 processi di decarbonatazione
fanghi prodotti dal trattamento biologico delle acque reflue industriali, contenenti sostanze pericolose
La connessione tra la norma che disciplina l’utilizzazione dei fanghi in agricoltura e la normativa sui rifiuti implica che nella gestione delle attività possa sovrapporsi la modulistica necessaria comprovante la corretta gestione degli stessi. Infatti, il D.Lgs. 99/92 impone che i fanghi, proprio perché utilizzati in siti (suolo agrario) diversi da quelli di produzione (impianti di depurazione) siano sempre accompagnati da una Scheda di accompagnamento, che interessa le fasi di raccolta e trasporto, stoccaggio, condizionamento ed utilizzazione e che deve essere conservata per almeno 6 anni. Per assicurare il rispetto della normativa sui rifiuti, per la sola fase di trasporto il fango deve essere accompagnato anche dal suo Formulario di identificazione del rifiuto (F.I.R.), che per legge deve essere conservato per 5 anni.
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Scheda di accompagnamento
Formulario di trasporto
(rispetto della normativa sui fanghi)
(rispetto della normativa sui rifiuti)
• Nelle varie fasi di raccolta e trasporto, stoccaggio, condizionamento ed utilizzazione, i fanghi da utilizzare in agricoltura devono essere corredati da una scheda di accompagnamento compilata dal produttore o detentore e consegnata a chi prende in carico i fanghi.
• Nella fase di trasporto è inoltre necessario accompagnare i fanghi anche con il Formulario di identificazione.
• Tale scheda deve essere compilata secondo lo schema riportato nell’allegato III A. • L’originale della scheda e le copie devono essere conservate per un periodo di almeno 6 anni. • Nella scheda sono riportati, fra l’altro, i dati sui quantitativi di fanghi prodotti / gestiti in relazione al loro stato fisico, la composizione e le caratteristiche degli stessi, la quota fornita per l’utilizzo in agricoltura.
• Tali formulari devono essere conservati, unitamente ai registri di carico e scarico dei rifiuti, per un periodo di almeno 5 anni dalla data dell’ultimo movimento. • Nel FIR devono essere indicati: il produttore, l’origine, la tipologia e la quantità di rifiuto, l’impianto di destinazione, il percorso seguito, il destinatario. Il FIR si compone di n.4 copie (a ricalco), delle quali: •
la prima resta al produttore
•
la seconda al trasportatore
•
la terza allo smaltitore finale
•
la quarta viene restituita al produttore con le annotazioni del trasportatore e dello smaltitore finale
Inoltre, l’utilizzatore dei fanghi è tenuto a istituire un registro, il Registro di utilizzazione, con pagine numerate progressivamente e timbrate dall’autorità competente di controllo, sul quale dovranno essere riportati secondo le modalità indicate nell’allegato III B: • i risultati delle analisi dei terreni • i quantitativi di fanghi ricevuti – la relativa composizione e caratteristiche – il tipo di trattamento subito
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• •
gli estremi delle schede di accompagnamento il nominativo o la ragione sociale del produttore, del trasportatore, del trasformatore • i quantitativi di fanghi utilizzati – le modalità e i tempi di utilizzazione per ciascun appezzamento. I registri, unitamente ai certificati delle analisi e alle schede di accompagnamento, dovranno essere conservati per un periodo non inferiore a 6 anni dall’ultima annotazione. Come le operazioni relative al trasporto devono essere accompagnate da un formulario di identificazione del rifiuto (F.I.R.) – art.193 D.Lgs. 152/2006 –, analogamente tutte le operazioni relative alla gestione del fango come rifiuto vengono annotate su appositi Registri di carico e scarico secondo quanto previsto dall’art.190 D.Lgs. 152/2006. Il produttore di fanghi destinati all’agricoltura, deve annotare sul registro di carico e scarico: a) i quantitativi di fango prodotto e quelli forniti per uso agricolo; b) la composizione e le caratteristiche dei fanghi rispetto ai paramenti di cui all’allegato I B; c) il tipo di condizionamento impiegato; d) i nomi e gli indirizzi dei destinatari dei fanghi e i luoghi previsti di utilizzazione dei fanghi. I registri sono a disposizione delle autorità competenti e deve esserne trasmessa annualmente copia alla Regione. Il Registro di utilizzazione deve avere le pagine timbrate dall’autorità competente di controllo e deve essere conservato per almeno 6 anni. Il Registro di carico e scarico viene vidimato dalla Camera di Commercio e deve essere conservato per 5 anni. 2.
L’utilizzo dei fanghi in agricoltura
2.1. Destinazione dei fanghi La gestione dei fanghi di depurazione rappresenta una delle maggiori criticità del “ciclo della depurazione”. Com’è noto, la funzione svolta dagli impianti di trattamento delle acque di scarico consiste nel depurare i reflui
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prodotti dall’attività umana al fine di consentirne il riuso e/o lo scarico in corpi idrici ricettori, garantendo in tal modo il conseguimento/mantenimento degli obiettivi di qualità dei corpi ricettori stessi. Il processo di depurazione tuttavia produce volumi significativi di fanghi e tali volumi sono tanto più elevati quanto più spinta è la capacità depurativa degli impianti. Il fango biologico è una sostanza particolarmente ricca di sostanza organica e nutrienti in rapporto tale da consentirne l’utilizzazione agronomica, pertanto può rappresentare un utile apporto di elementi nutritivi in natura (azoto, fosforo e potassio) e di sostanza organica al suolo, oltre a garantire in tal modo un recupero di rifiuti che altrimenti andrebbero smaltiti in discarica. È tuttavia indispensabile assicurarsi che l’applicazione dei fanghi di depurazione al suolo non determini una riduzione di funzionalità e/o di utilizzo del suolo rispetto alle condizioni quo ante. A seconda della loro natura i fanghi possono essere gestiti in vari modi: - collocazione in discarica, cioè a giacimento controllato definitivo, eventualmente dopo inertizzazione, cioè miscelazione con leganti minerali (cementi, argille) e/o organici (resine, chelanti) che intrappolano, impedendone o limitandone il rilascio, gli elementi e le sostanze particolarmente inquinanti contenute nei fanghi. La soluzione vale sia per i fanghi a matrice organica che per quelli a matrice inorganica; il requisito fondamentale per il conferimento in discarica di un fango è che la sostanza secca non sia inferiore al 25%; - smaltimento mediante processi di incenerimento, la soluzione prevede che i fanghi possano essere combusti in particolari forni, eventualmente con recupero energetico, in impianti esistenti dedicati allo smaltimento di rifiuti urbani o in impianti specifici dedicati allo smaltimento dei fanghi (ossidazione in fase umida). Nel primo caso potrebbe essere necessario un preventivo essiccamento termico, mentre nel secondo caso potrebbero essere conferiti fanghi a diverso grado di umidità. In ogni caso va verificata la disponibilità effettiva degli impianti ed i relativi costi; - recupero per co-incenerimento in regime ordinario, previa verifica della disponibilità di cementifici e centrali termiche a combustibile solido dove poter conferire fanghi essiccati termicamente. Il ricorso alle procedure semplificate non è conveniente dal momento che richiede-
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rebbe una qualità dei fanghi così elevata da renderli idonei all’uso agricolo (sicuramente preferenziale, se la qualità del fango lo consente); recupero, in particolari produzioni per l’edilizia, miscelati con argille, o cementi od altri materiali (ciò può valere solo per taluni fanghi di natura inorganica) o fatti fermentare insieme ad altri rifiuti organici per la produzione di “compost”2 da destinarsi quale concime per l’agricoltura (naturalmente, trattandosi di un processo di ossidazione biologica, la tecnica vale solo per i fanghi a matrice organica, nel rispetto di determinati requisiti di qualità). Tale soluzione permette di far fronte al problema della bassa concentrazione dei solidi e della scarsa stabilizzazione ai fini dello smaltimento in discarica, tuttavia richiede un contenuto in alcuni metalli (zinco e rame, in particolare) più basso nel fango di partenza per effetto della perdita in peso della sostanza secca che oscilla tra il 30 e il 50% e, quindi, della maggiore concentrazione degli elementi costituenti; recupero diretto in agricoltura, anche qui si sfruttano le caratteristiche agronomiche di alcuni fanghi organici, provvedendo anche a risolvere in parte il problema prettamente agricolo di impoverimento del contenuto di sostanza organica dei terreni.
2.2. Problematiche e opportunità I fanghi di depurazione possono trovare utilizzo in agricoltura purchè siano rispettate le seguenti condizioni: - devono essere stati sottoposti a trattamento (ossia a stabilizzazione per contenere / eliminare i possibili effetti igienico-sanitari); - devono essere idonei a produrre un effetto concimante e/o ammendante e correttivo del terreno, in modo da migliorarne la sua fertilità; - non devono contenere sostanze tossiche e nocive, e/o persistenti e/o bioaccumulabili, in concentrazioni dannose per il terreno, per le colture, per gli animali, per l’uomo e per l’ambiente in generale. La metodica di recupero che comporta lo spandimento di fanghi (pompabili o palabili) sul suolo agricolo presenta pro e contro. 2 Per il compostaggio la norma di riferimento è sempre il D.Lgs. 99/92 oltre al D.Lgs. 217 del 29/04/2006 – revisione della disciplina in materia di fertilizzanti – che disciplina le caratteristiche che il prodotto finito deve avere.
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Vantaggi
Svantaggi • odori da fermentazioni anaerobiche (rischio sanitario)
• miglioramento della tessitura del suolo
•
presenza di sostanze organiche indesiderate (rischio biologico)
•
•
presenza di sostanze inorganiche indesiderate (rischio chimico)
apporto di elementi nutritivi o comunque agronomicamente utili
• risoluzione della problematica dello smaltimento dei fanghi che comunque dovrebbe seguire vie alternative
I vantaggi legati all’impiego dei fanghi in agricoltura derivano dalle loro proprietà fertilizzanti sia per la presenza di elementi nutritivi utili allo sviluppo delle piante, come azoto, fosforo, potassio e microelementi; sia per il contenuto di sostanza organica, che contribuisce al mantenimento delle proprietà fisiche del terreno.
• deriva incontrollata (ruscellamenti, percolazione) •
produzione di aerosol, che diventa mezzo di propagazione di odori e colonie batteriche (rischio sanitario)
Le problematiche connesse a tale pratica risiedono, tuttavia, nel contenuto di metalli pesanti, di microrganismi patogeni e di composti organici nocivi presenti nei fanghi, che possono rappresentare un rischio per l’ambiente e la salute della popolazione.
L’apporto di sostanza organica al suolo è fondamentale per scongiurare il processo di desertificazione del suolo a cui la nostra regione, insieme a Sicilia, Sardegna, Calabria e Basilicata, è particolarmente soggetta e vulnerabile. La desertificazione è, infatti, quel processo per cui il suolo subisce un fenomeno di degrado progressivo dovuto alla mancanza di vegetazione ed alla perdita di sostanza organica, per la concomitanza di più fattori, quali l’erosione, la contaminazione locale o diffusa, l’impermeabilizzazione, la compattazione, il calo della biodiversità, la salinizzazione, le alluvioni e gli smottamenti. Combinati, tutti questi fattori possono alla fine determinare condizioni climatiche aride o subaride che possono portare irreversibilmente alla desertificazione. Sulla base di vari studi condotti in Regione Puglia
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ed in collaborazione con il Comitato Nazionale per la Lotta alla Siccità ed alla Desertificazione, è stata redatta la carta dell’indice delle aree sensibili alla desertificazione (ESAI) ed è emerso una situazione di evidente criticità, allargata all’intero territorio regionale. Infatti, fatta eccezione per lo sperone garganico, dal settore dell’alto Tavoliere a quello del basso Salento la Puglia mostra un elevato indice di sensibilità ambientale alla desertificazione. Risulta altresì fondamentale assicurare un adeguato apporto di sostanza organica al suolo, laddove sono in atto processi di impoverimento della stessa, attraverso ogni strumento a disposizione, tra cui rilevante diventa anche lo spandimento di fanghi. Il destino dei fanghi nel suolo dipende comunque da numerosi fattori, quali, ad esempio, la natura del suolo, la topografia, il clima, le caratteristiche chimiche ed i componenti del fango, la vegetazione e, soprattutto, la gestione del suolo. Le pratiche agronomiche di gestione, irrigazione, drenaggio, selezione colturale e fertilizzazione influenzano notevolmente i fenomeni di adsorbimento, precipitazione, degradazione microbica e assorbimento da parte delle colture. Processi fisici e chimici quali dissoluzione, ossidazione, riduzione, precipitazione, volatilizzazione, complessazione e mobilità influenzano fortemente la velocità e l’intensità della degradazione dei fanghi applicati al suolo. Ad esempio, la velocità di mineralizzazione e nitrificazione dell’azoto (N) organico è direttamente legata alla popolazione microbica del suolo, all’umidità e alla pressione parziale di ossigeno. Al contrario, condizioni riducenti del suolo determinano la trasformazione di azoto in N2, con perdite del nutriente verso l’atmosfera. 2.3. Gli impatti e la situazione in Puglia Laddove lo spandimento su suolo agricolo dei fanghi avvenga senza rispettare i requisiti e i vincoli imposti dalla normativa, gli impatti legati allo sversamento incontrollato dei fanghi sono correlabili alla presenza di: - metalli pesanti in dosi eccessive - grassi, oli animali e vegetali - oli minerali - tensioattivi - solventi organo-clorurati
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solventi aromatici pesticidi organici clorurati pesticidi fosforati. In Puglia la produzione di fanghi derivanti da processi di depurazione delle acque reflue civili, identificati come rifiuto con codici CER 19.08.04 e 19.08.05, registrata nel 2009, si aggira intorno a 160.000 tonn/anno, con una tendenza in aumento rispetto alle 112.000 ton/anno del 2005 ed alle 134.000 del 2007. Tale tendenza trova giustificazione nell’adeguamento e potenziamento dei presidi depurativi, ai fini del conseguimento di limiti più restrittivi previsti dalla normativa di settore, la cui conseguenza è data da un maggiore quantitativo di sostanza che viene trattenuta e rimossa dal ciclo depurativo. Rispetto alla produzione totale dei fanghi, dai dati messi a disposizione da AQP risulta che oltre il 60% viene utilizzato in agricoltura, il 33% circa recuperato in impianti di compostaggio e il restante 7% finisce in discarica. Quantità di fanghi di depurazione utilizzati in agricoltura (in tonnellate s.s.) Provincia ba br fg le ta Totale
2000 39.420,11 n.d. 5.105,21 13.056,00 n.d. 57.581,31
2001 21.749,31 1.906,50 50.000,00 12.456,00 3.995,56 90.107,37
2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 16.062,52 8.873,55 4.109,90 3.539,78 1.387,62 13,81 0,00 42,88 1.421,70 1.446,25 1.286,53 1.217,70 1.664,98 1.586,51 1.192,29 2.923,17 35.000,00 37.500,00 23.395,97 8.843,28 8.139,02 5.586,20 4.419,80 5.215,60 13.451,00 8.186,38 5.556,00 10.767,00 6.764,00 9.172,80 11.619,00 11.238,74 3.797,46 3.408,87 1.600,66 2.480,18 3.002,75 2.851,45 n.d. 4.522,57 69.732,68 59.415,05 35.949,06 26.847,94 20.958,37 19.210,77 17.231,09 23.942,96
Fonte dati: Relazione sullo Stato dell’Ambiente della Puglia, 2009. n.d.: dato non disponibile
Come si osserva dai dati restituiti nella tabella sopra riportata, le quantità di fanghi smaltite per provincia nel periodo 2000-2009 sono molto variabili da provincia a provincia e, nell’ambito della stessa, danno evidenza di una generale riduzione nel tempo fino al 2007 fino a mostrare un cambio di tendenza nel 2009, in cui si registra un generale incremento. Anche in termini di composizione dei fanghi si evidenzia qualche discordanza da provincia a provincia. In ogni caso sono ampiamente rispettati i limiti imposti dalla normativa sia in termini di concentrazioni massime di metalli pesanti sia in relazione ai contenuti minimi di elementi nutritivi.
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Vale segnalare, a tale proposito, che a partire dalla fine del 2008 la società Pura Depurazione, facente parte del gruppo Acquedotto Pugliese, si occupa della gestione unica degli impianti di depurazione delle acque reflue civili presenti in tutto il territorio regionale e, conseguentemente, anche della gestione dei fanghi prodotti. La Società ha affidato con modalità che variano da provincia a provincia la sola attività di conferimento al sito di smaltimento finale (terreni agricoli) riservandosi tutte le attività di individuazione sul territorio dei terreni e la elaborazione e predisposizione di tutti gli atti tecnicoamministrativi per il riutilizzo agronomico, ad iniziare dalla richiesta di autorizzazione alla provincia competente fino al riutilizzo. In provincia di Foggia, l’utilizzazione in agricoltura dei fanghi nel 2009 è avvenuta individuando molteplici piccoli imprenditori. In provincia di Lecce, l’intera attività di trasporto ed individuazione dei siti di riutilizzo e/o smaltimento è assicurata dallo stesso soggetto imprenditoriale. In provincia di Bari, operano due imprenditori cui è affidato il solo trasporto dei fanghi presso i siti di smaltimento (discarica) e riutilizzo (compostaggio), la cui individuazione e contrattualizzazione è rimasta in capo a Pura. Infine, nelle province di Brindisi e Taranto, opera un unico soggetto imprenditoriale che assicura l’individuazione dei terreni per lo spandimento dei fanghi, si occupa di tutte le autorizzazioni necessarie e cura, altresì, il trasporto dei fanghi su terreni agricoli o presso i centri di compostaggio individuati da Pura per quei quantitativi di fango che non possono essere allocati in agricoltura. Per quanto la gestione dei fanghi in Puglia avvenga in maniera più controllata allo scopo di superare situazioni di criticità che nel passato hanno riguardato più o meno sensibilmente l’intero territorio regionale (fenomeni di spandimento illecito dei fanghi), permangono elementi di criticità dovuti alla presenza di oli minerali nei fanghi, requisito di qualità non richiesto per legge. Per superare la problematica dovuta allo sversamento di oli in pubblica fognatura, bisognerebbe intervenire alla fonte ponendo l’attenzione a tutto il sistema di commercializzazione ed uso dello stesso, dalla vendita al dettaglio fino alle officine ed alle stazioni di servizio che dovrebbero essere dotate di disoleatore prima dello scarico in pubblica fognatura e, nei casi di assenza di tali impianti, bisognerebbe effettuare controlli sui registri di carico e scarico del materiale oleoso. In ogni caso lo scarico di oli in pubblica fognatura non dovrebbe essere consentito nei casi in cui questa sia convogliata in impianti
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di depurazione di soli reflui civili, soprattutto quando vi sia certezza che tale scarico possa comportare una preclusione all’uso agricolo dei fanghi. Un ulteriore elemento ctitico è rappresentato dall’assenza di un sistema informatizzato che permetta di evitare effetti nel terreno non chiaramente determinabili derivanti da spandimenti protratti negli anni, pur nei limiti imposti dalla legge. Emerge, infatti, la necessità di regolare nel tempo l’utilizzazione dei terreni, così come avviene per esempio in Emilia Romagna, dove è previsto un periodo di riposo di due anni a valle di uno spandimento protratto per tre anni. 3.
Indirizzi per la pianificazione e prospettive future
3.1. Il Tavolo Tecnico regionale Al fine di gestire al meglio la problematica dei fanghi e di superare le criticità emerse, soprattutto con l’intento di incrementare le quantità da destinare a recupero e di ridurre al minimo il ricorso allo smaltimento in discarica, l’Ufficio regionale Tutela delle Acque nel 2008 ha affidato al gruppo di lavoro multidisciplinare costituito da ARPA Puglia, Politecnico di Bari, CNR IRSA e Università di Bari uno Studio di Fattibilità, avente come oggetto la “Redazione del piano di emergenza straordinario della gestione dei fanghi derivanti dalla depurazione dei reflui urbani, nonché definizione delle linee guida per l’individuazione delle migliori strategie di gestione ordinaria del ciclo depurativo ai fini di un corretto riutilizzo e smaltimento del prodotto fanghi”. Lo studio è stato finanziato con fondi CIPE, attraverso l’Accordo di Programma Quadro Regione Puglia e ARPA Puglia, approvato con DGR n° 1073 del 04/07/2008. Gli uffici della Regione Puglia coinvolti sono stati: Assessorato alle OO.LL.PP. – Settore Tutela delle Acque e Assessorato all’Ecologia – Settore Gestione Rifiuti e Bonifiche. A valle di tale accordo sono state stipulate le convenzioni con i seguenti partner consulenti e costituenti il Tavolo Tecnico (TT): - I.R.S.A. – C.N.R. - Dipartimento di Ingegneria delle Acque e di Chimica (D.I.A.C.) – Politecnico di Bari
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Dipartimento di Biologia e Chimica Agro-Forestale ed Ambientale (Di.B.C.A.) – Università degli Studi di Bari - AQP S.p.A., in quanto soggetto gestore degli impianti di depurazione. Lo studio di fattibilità si poneva il principale obiettivo di redigere un piano straordinario di emergenza per la gestione dei fanghi di depurazione nell’assetto attuale degli impianti, nonché di fissare le basi per la pianificazione ordinaria attraverso la programmazione degli interventi da attuare sugli impianti di depurazione al fine di aumentarne l’efficienza, migliorando la qualità del fango prodotto e riducendone le quantità da smaltire. Tale studio si è reso necessario in seguito alle crescenti difficoltà nel trovare forme di smaltimento economiche, ambientalmente accettabili ed alternative all’uso agricolo dei fanghi, nelle situazioni in cui le caratteristiche qualitative degli stessi non consentissero tale forma di recupero. Ulteriore compito del TT è stato di valutare l’impatto di eventuali modifiche della normativa vigente regionale sull’uso dei fanghi in agricoltura, tenendo conto sia dell’esigenza primaria di garantire la protezione dell’ambiente e della salute, sia della necessità di non appesantire troppo le procedure. Il progetto si è articolato nelle seguenti fasi: A. Attività di raccolta, integrazione, analisi e valutazione dei dati disponibili B. Attività finalizzate alla predisposizione di un piano di emergenza straordinario C. Identificazione delle linee guida di pianificazione ordinaria Nell’ambito della Fase A: Attività di raccolta, integrazione, analisi e valutazione dei dati disponibili, sono stati acquisiti da AQP: - dati relativi alla consistenza degli impianti; - dati consuntivi della produzione dei fanghi nel 2007, disaggregati per impianto e con l’indicazione della forma di smaltimento finale; - dati di esercizio degli impianti, con l’indicazione degli Abitanti Equivalenti (AE) e delle caratteristiche dell’influente e dell’effluente. Non essendo disponibili dati storici relativi alle caratteristiche analitiche dei fanghi prodotti e non essendo possibile procedere ad una campagna di monitoraggio della qualità del fango estesa a tutti gli impianti pugliesi, si è proceduto a predisporre un piano mirato di campionamento, individuando 12 impianti, che per tipologia di refluo trattato e per potenzialità produttiva
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potessero essere rappresentativi di tutti gli impianti gestiti da AQP. La Fase B: Attività finalizzate alla predisposizione di un piano di emergenza straordinario è consistita in: a. acquisizione di dati sperimentali, relativi alla composizione dei fanghi prodotti dai 12 impianti individuati; b. valutazione della disponibilità teorica di suoli da destinare all’uso agricolo dei fanghi; c. valutazione della produzione di fanghi e loro classificazione. I dati analizzati hanno evidenziato alcune criticità gestionali che comportano una ridotta produzione di fanghi rispetto ai valori che ci si sarebbe aspettati considerando il carico degli impianti e l’efficienza di depurazione prevista, oltre a caratteristiche qualitative degli stessi non conformi al loro utilizzo in agricoltura. I fanghi non risultavano idonei all’utilizzo agricolo per una serie di motivi, tra cui principalmente: concentrazione di solidi volatili, prestazioni insufficienti della stabilizzazione biologica che comporta la presenza di patogeni e il conseguente sviluppo di cattivi odori, elevata concentrazione media di azoto totale (per effetto delle notevoli quantità di diverse forme chimiche di azoto riversate su suoli agricoli che tendono inevitabilmente a produrre fenomeni di inquinamento delle acque sotterranee), assenza di una valutazione della disponibilità dei suoli a ricevere fanghi di depurazione. Con particolare riferimento a quest’ultimo aspetto, il TT ha valutato per ogni provincia la disponibilità di suoli aventi caratteristiche idonee per lo spandimento dei fanghi. L’individuazione delle aree potenzialmente disponibili per il riutilizzo agricolo dei fanghi di depurazione ha richiesto l’impiego di numerose banche dati georeferenziate, gestite con un apposito software. L’analisi è stata condotta considerando tutti i divieti all’utilizzo dei fanghi imposti dalle normative vigenti, tra cui i tematismi derivanti dalle aree perimetrate ai sensi del Piano per l’Assetto Idrogeologico, delle aree a vincolo idrogeologico PUTT, delle zone di protezione idrogeologica definite nel Piano di Tutela delle Acque. Si è lavorato su una base cartografica dove sono state prese in considerazione le destinazioni d’uso del suolo da Corine Land Cover, da cui sono state escluse le aree non agricole e, per le aree agricole, sono state analizzate le caratteristiche pedologiche dei suoli pugliesi incrociandole con una valutazione della richiesta di nutrienti delle singole colture. In questa maniera sono state ottenute una serie di carte tematiche con
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riguardo alle tipologie d’uso del suolo, allo spessore di suolo e, conseguentemente, alle quantità di fango applicabili su tutto il territorio regionale. Tale valutazione ha dimostrato che i suoli pugliesi sono ampiamente sufficienti a garantire l’utilizzazione agricola di tutti i fanghi potenzialmente conformi alla disciplina nazionale e regionale. Appare chiaro che perché quanto ottenuto teoricamente abbia un riscontro pienamente operativo, risulta necessario acquisire l’assenso dei proprietari dei terreni, che raramente sono favorevoli a questa pratica. Diventa cruciale, pertanto, il ruolo della Regione che dovrebbe promuovere campagne di sensibilizzazione per incoraggiare all’uso agricolo dei fanghi anche mediante forme di incentivazione. Nello stesso tempo, le Province e le Autorità di Controllo dovrebbero svolgere azioni capillari e periodiche di vigilanza sui fanghi destinati all’uso agricolo, per fornire agli agricoltori le opportune garanzie sull’origine e sulla qualità dei fanghi.
Fonte dati: Tavolo Tecnico regionale Studio di Fattibilità sui fanghi, 2009.
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Infine, nella Fase C: Identificazione delle linee guida di pianificazione ordinaria sono state individuate le strategie di gestione ordinaria del ciclo depurativo, ai fini del corretto utilizzo e smaltimento dei fanghi prodotti. Tali strategie devono essere principalmente orientate a privilegiare la prevenzione e il recupero rispetto allo smaltimento, nell’ottica di garantire il rispetto della gerarchia dettata dalla nuova direttiva europea sui rifiuti Dir. 2008/98/CE. I criteri metodologici generali della pianificazione ordinaria prevedono: - interventi di prevenzione sulla linea acque (minimizzazione della produzione dei fanghi); - interventi di prevenzione sulla linea fanghi (diminuzione della produzione e miglioramento della “qualità”); - uso diretto in agricoltura (uso diretto di fanghi idonei stabilizzati e disidratati); - impulso del compostaggio verde (fanghi in esubero rispetto alla disponibilità di suoli per un uso agronomico diretto, ma meno stabilizzati, previa verifica del rispetto di concentrazioni più restrittive per i metalli pesanti); - digestione anaerobica in impianti di depurazione centralizzati (ai fini della massimizzazione della produzione di energia elettrica dal biogas); - digestione anaerobica in impianti esterni (dedicati al trattamento della frazione organica derivante dai trattamenti meccanico-biologici di produzione del CDR dal rifiuto urbano indifferenziato, dove il fango potrebbe essere accettato senza un preliminare trattamento di essiccazione); - previsione di impianti centralizzati di trattamento termico (realizzazione di due impianti a livello regionale dedicati al trattamento termico di fanghi non idonei all’uso agricolo); - recupero di materia ed energia in cementifici, centrali a carbone, centrali di produzione di energia da biomasse (per i fanghi non idonei all’uso agricolo, previo essiccamento termico); - trattamenti avanzati e trattamenti tradizionali per l’uso agricolo. Infatti, ai fini della buona pratica agricola sarebbe opportuno non utilizzare direttamente fango dopo un trattamento anaerobico a causa della possibile presenza di metaboliti aventi effetto fitotossico. È opportuno, quindi, che il fango subisca un trattamento aerobico di finitura prima della sua
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utilizzazione. È necessario anche incentivare la produzione di ammendante compostato misto, in quanto il processo di compostaggio aerobico assicura un livello migliore di igienizzazione ed un minor impatto olfattivo e costituisce un valido polmone per la produzione di fango nei periodi in cui non può essere immediatamente utilizzato in agricoltura. L’uso di compost sui suoli agricoli pugliesi potrebbe essere incentivato mediante misure economiche a favore degli agricoltori. Il piano di emergenza straordinario e ordinario per la gestione dei fanghi di depurazione delle acque reflue urbane, una volta sviluppato nelle sue linee definitive e approvato, costituirà uno strumento attuativo del Piano regionale di Gestione dei Rifiuti Speciali, recentemente approvato con D.G.R. 28 dicembre 2009 n. 2668 (BURP n. 16/2010). 4.
Conclusioni
Attualmente la direttiva comunitaria che risale al 1986 è in fase di revisione. Nel Documento ENV.E.3/LM della Commissione Europea del 27 aprile 2000 vengono introdotti numerosi nuovi aspetti, tra cui quelli più rilevanti riguardano i trattamenti previsti sui fanghi (distinti in convenzionali ed avanzati) da attuare prima dell’utilizzazione in funzione della tipologia di coltura cui sono destinati e della tipologia di applicazione prevista. Il documento prevede limiti più severi per le concentrazioni di metalli pesanti nei fanghi e nel suolo, limiti di concentrazione nei fanghi anche in riferimento ad alcune classi di microinquinanti organici (composti organici alogenati (AOX), Alchilbenzeni solfonati lineari (LAS), IPA, PCB, diossine e furani) e adozione di processi spinti di disinfezione. Nel complesso, il documento pone un particolare risalto sugli aspetti igienico-sanitari dell’utilizzazione agricola, prescrivendo trattamenti di igienizzazione particolarmente impegnativi, e sulla presenza di microinquinanti organici, sui quali esiste una ricca letteratura internazionale relativamente alla presenza nei fanghi di depurazione. Altre regioni hanno provveduto a disciplinare il riutilizzo agronomico dei fanghi mediante direttive o circolari. Generalmente è stato adottato un approccio più restrittivo e più articolato di quello prescritto a livello nazionale,
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sia dal punto di vista prettamente tecnico che dal punto di vista ambientale. Per esempio, considerando la presenza di microinquinanti organici nei fanghi, si sta effettuando una valutazione sulla loro rilevanza nei suoli nell’evenutalità di inserire valori limite. Inoltre, alcune Regioni stanno lavorando alla progettazione di una rete di punti di campionamento finalizzata a costituire un inventario dei livelli di fondo naturale-antropico delle molecole organiche, dal momento che la loro presenza può essere dovuta ad altre fonti di inquinamento di tipo puntuale o diffuso. Anche in Puglia, attualmente la norma regionale per lo spandimento dei fanghi in agricoltura è in fase di revisione in quanto è emerso che i parametri da monitorare previsti si sono rivelati insufficienti a valutare le reali caratteristiche del fango e, quindi, la presenza di sostanze pericolose eventualmente contenute in esso. La nuova norma si porrà anche l’obiettivo di assicurare l’integrazione con gli altri strumenti di pianificazione regionale esistenti, come il Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico (PAI), il Piano Paesistico Territoriale Regionale (PPTR), il Programma di azione per le zone vulnerabili da nitrati, nonché la normativa vigente sui rifiuti recentemente aggiornata. Bibliografia ARPA Puglia (2010) Relazione sullo Stato dell’Ambiente 2009 Regione Puglia, Cap. “4.2 Siti contaminati”, pagg 182-199, www.arpa.puglia.it. ARPA Puglia, CNR – Istituto di Ricerca Sulle Acque (IRSA), Dipartimento di Ingegneria delle Acque e di Chimica (D.I.A.C.) - Politecnico di Bari (Poli.Ba), Dipartimento di Biologia e Chimica Agro-Forestale ed Ambientale (Di.B.C.A.) Università degli Studi di Bari, AQP S.p.A. (2009) Studio di Fattibilità “Redazione del piano di emergenza straordinario della gestione dei fanghi derivanti dalla depurazione dei reflui urbani, nonché alla definizione delle linee guida per l’individuazione delle migliori strategie di gestione ordinaria del ciclodepurativo ai fini di un corretto riutilizzo e smaltimento del prodotto fanghi”. Commissione Europea (2000) “Working document on sludge. 3rd draft”, ENV.E.3/ LM, 27 April, 2000. Direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive. D.Lgs. 152/2006 (e ss. mm. e ii.) Norme in materia ambientale. D.Lgs. 99/1992 Attuazione della Direttiva 86/278/CEE, concernente la protezione
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dellâ&#x20AC;&#x2122;ambiente, in particolare del suolo, nellâ&#x20AC;&#x2122;utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura. L.R. 19/1995 Esercizio delle funzioni amministrative in materia di utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura attraverso le Amministrazioni provinciali. Regione Puglia (2010) Aggiornamento del Piano di Gestione dei rifiuti speciali nella Regione Puglia, BURP n.16 del 26.01.2010.
Alessandra Angiuli
Tutela dell’ambiente ed esigenze dell’agricoltura Sommario: 1. Rapporto tra ambiente ed agricoltura. Generalità; 2. Diritti ed obblighi connessi all’esercizio delle attività agricole e tutela ambientale; 3. Il riutilizzo delle acque come strumento efficace di tutela dell’ambiente e sviluppo dell’agricoltura; 4. Le problematiche connesse allo sversamento dei fanghi in agricoltura.
1.
Rapporto tra ambiente ed agricoltura. Generalità
Il rapporto tra ambiente ed agricoltura può considerarsi osmotico, atteso il nesso di causa-effetto tra attività agricole ed ambiente naturale. È necessario partire dall’analisi del significato del concetto di “ambiente” nel nostro ordinamento giuridico. Trattasi di nozione alquanto controversa, in quanto trasversale, ma generica. La prima definizione di ambiente è stata formata, come si vedrà in seguito, a livello comunitario. Nel diritto interno, invece, non vi è alcuna definizione di ambiente nella Costituzione, mentre è prevista la “tutela del paesaggio e del patrimonio storico ed artistico della Nazione” (art. 9), oltre che la tutela della salute (art. 32 Cost.)1. Ciò in virtù della scarsa conoscenza delle tematiche ambientali all’epoca di entrata in vigore della Costituzione, unitamente alla quasi assente sensibilità sociale sul tema2. Nella Costituzione, d’altro canto, ampio spazio era attribuito alle esigenze della promozione e del sostenimento dello sviluppo agricolo, in termini di miglioramento produttivo3. Tali norme sono state successivamente interpretate dalla Corte CostituSoltanto una lettura costituzionalmente orientata, posta in essere alcuni anni dopo l’emanazione della Costituzione, ha consentito di leggere unitariamente le previsioni dell’art. 9 e dell’art. 32 Cost., nel senso che la protezione del paesaggio e dell’ambiente sono funzionali alla tutela della salute dell’uomo: Comporti, Tutela dell’ambiente e tutela della salute, in Riv. giur. amb., 1990, 191 ss. 2 Cfr. Cordini, Principi costituzionali in tema di ambiente e giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, in Riv. giur. amb., 2009, 611 ss. 3 L’art. 44 Cost. indica, infatti, lo scopo di “conseguire il razionale sfruttamento del suolo”, si promuove la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo, la ricostituzione delle unità produttive, mentre alcun riferimento è fatto a temi come la sostenibilità ambientale o la tutela delle risorse naturali. 1
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zionale, che, con sentenza n. 614/19874, ha ritenuto che “nel nostro ordinamento giuridico la protezione dell’ambiente è imposta da precetti costituzionali ed assurge a valore primario ed assoluto”. Il quadro normativo costituzionale considerato è stato “arricchito” dalla riforma del Titolo V della Costituzione, avvenuta ad opera della legge Cost. 18 ottobre 2001, n. 3, che ha inserito per la prima volta il termine “ambiente” nella Costituzione e, intervenendo sugli artt. 117 e 118 Cost., ha attribuito alla potestà legislativa dello Stato la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” ed alla legislazione concorrente Stato-Regioni la materia della “valorizzazione dei beni culturali ed ambientali”. Sul punto, tuttavia, nell’incertezza delimitazione tra ambiti di intervento (e non tra materie), la Corte Costituzionale è intervenuta numerose volte, affermando che: - nel settore della tutela ambientale, la competenza esclusiva dello Stato non è incompatibile con interventi specifici del legislatore regionale che si attengano alle proprie competenze5; - la tutela dell’ambiente non può essere considerata come materia riservata alla rigorosa competenza statale, in quanto investe altre competenze che possono essere regionali, dimodoché spetta allo Stato di fissare standard di tutela uniformi sul territorio nazionale e alle Regioni di intervenire in concreto, anche con discipline maggiormente rigorose di quelle poste a livello centrale6. Le dissertazioni sinora compiute sulla rilevanza costituzionale dell’ambiente non risolvono la spinosa questione della definizione del bene giuridico “ambiente” e della nozione di “paesaggio”. Quest’ultima fu accostata alla nozione di “bellezze naturali” da una legge del 19227, mentre fu successivamente specificata dalla l. 29.6.1939, n. 1497, orientata alla tutela delle bellezze naturali, che tuttavia non conteneva il termine “ambiente”, né quello “paesaggio”, ma prevedeva la sua protezione attraverso la tutela di alcuni beni Corte Cost., 30 dicembre 1987, n. 614, in Giur. cost., 1987, 3788. Corte cost., 22 luglio 2004, n. 259, in Giur. cost., 2004, 4, che esprime il principio dell’ambiente come “valore trasversale”. 6 Corte cost., 18 marzo 2005, n. 108, in Giur. cost., 2005, 2 7 Trattasi della legge n. 778/1922, che introdusse per la prima volta una protezione generale del paesaggio, successiva ad una legge del 1905, dedicata alla protezione della pineta di Ravenna. Tuttavia, secondo la dottrina, la nozione di “bellezze naturali” sarebbe alquanto restrittiva rispetto a quella di paesaggio: Predieri, Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, Milano 1969, 55; Santini, Riflessioni sulla tutela del paesaggio tra esigenze unitarie ed autonomie locali, in Riv. giur. urb., 1991, 433. 4 5
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(ville, giardini, parchi), oltre che la tutela di complessi di immobili e bellezze naturali costituenti “bellezze d’insieme”, da proteggere al fine di assicurarne la funzione essenzialmente estetica e visiva8. Per la corretta interpretazione della nozione di paesaggio, solo il 20 ottobre 2000 a Firenze è stata approvata una Convenzione europea, applicabile agli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani, che supera la visione puramente estetica e contemplativa del concetto di paesaggio, per riconoscerne il valore giuridico di “componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento delle loro identità”. Successivamente, al fine di integrare il concetto di paesaggio, per ricomprendervi oltre che funzioni di fruibilità visiva, anche la preservazione degli equilibri ecologici, la Corte Costituzionale specificava che la nozione di paesaggio dell’art. 9 indica un valore storico-estetico che si raccorda con il patrimonio storico-culturale del 2° co. del medesimo articolo e che, in ogni caso, per tutela del paesaggio deve intendersi, altresì, la tutela ecologica9. La nozione di “bene ambientale” nasce, invece, in Italia con il d.l. n. 657/74, conv. in l. 29.1.1975, n. 5, è ripresa dal d.l. n. 312/85, convertito in l. n. 431/85 (l. Galasso) e rimarcata dal d.lgs. n. 490/1999 (t.u. beni culturali ed ambientali). In tutti i provvedimenti normativi citati, tuttavia, non si faceva riferimento al concetto di “ambiente” in sé considerato, bensì alle sue componenti (cose immobili che hanno un cospicuo carattere di bellezza naturale, ville, giardini e parchi dalla non comune bellezza, bellezze panoramiche, territori costieri fino a 300 m dalla linea di battigia, fiumi, torrenti e corsi d’acqua e fasce entro 150 m dalle sponde o dagli argini, ghiacciai, montagne oltre 1600 metri, boschi e foreste, vulcani, zone di interesse archeologico). Nel successivo Codice dei beni culturali e del paesaggio (c.d. Codice Urbani), varato con d.lgs. 22.1.2004, n. 42, viene utilizzato un nuovo termine, quello di “bene paesaggistico”, così annullandosi decenni di evoluzione e riportando al centro dell’attenzione la mera nozione di valore estetico derivante dall’utilizzo del termine paesaggio. Il Codice Urbani definisce il paesaggio quale “parte Il regolamento di esecuzione della l. n. 1497/1939 è contenuto dal R.D. 3 giugno 1940, n. 1357. Sulla nozione di “paesaggio”, cfr. Merusi, Commento all’art. 9 della Costituzione, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, Roma-Bologna 1975, 446. 9 Corte cost., 29 dicembre 1982, n. 239, in Foro amm., 1983, II, 103; Corte Cost., 11 luglio 1989, n. 391, in Giur. it., 1990, I, 1, 338. 8
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omogenea di territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana e dalle reciproche interrelazioni”. La salvaguardia di tali valori è affidata alla tutela di aree e immobili ubicati nelle aree vincolate dai piani paesaggistici. 2.
Diritti ed obblighi connessi all’esercizio delle attività agricole e tutela ambientale
Nel quadro descritto del Codice Urbani, le attività agricole, boschive e pastorali costituiscono un’eccezione, nel senso che sono consentite anche nelle zone vincolate, a condizione che non nuocciano all’ecosistema in modo permanente. La giurisprudenza al riguardo ha precisato che l’alterazione acquista carattere permanente qualora sia di tale durata da comportare per un lungo periodo di tempo o per sempre l’impossibilità della ricostituzione del patrimonio naturale (è sufficiente al riguardo il compimento di qualsiasi opera, anche l’aratura o l’estirpazione di piante10). È pertanto necessario, in caso di compimento di opere, chiedere ed ottenere l’autorizzazione paesaggistica. Si pone, al riguardo, un problema di individuazione del concetto di “normalità” delle opere agricole in caso di presenza di particolari aspetti del paesaggio agrario, come quello costituito dagli ulivi secolari, che non possono essere eliminati. Quanto al taglio degli alberi, esso è consentito se ha le caratteristiche del taglio “colturale”, che deve essere “periodico, non indiscriminato, effettuato secondo le prescrizioni di massima della polizia forestale”11. Torniamo ad esaminare la nozione giuridica di ambiente, che appare alquanto più complessa di quelle sinora delineate. La Corte costituzionale ha affermato al riguardo che essa comprende “la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali, l’esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri o marini, di tutte le specie animali o vegetali che in esso vivono allo stato naturale ed in definitiva la persona umana in tutte le sue estrinsecazioni”, precisando Cass. Pen., 18 giugno 1997, n. 5961, in Riv. pen., 1997, 821. La massima della sentenza era così formulata: “Tale alterazione acquista il carattere di permanenza qualora essa sia di tale durata, da comportare per un lungo periodo di tempo l’impossibilità di una ricostituzione del patrimonio naturale. Nè è indispensabile che il mutamento derivi da strutture edilizie, essendo sufficiente qualsiasi opera civile intendendosi per tale anche l’aratura o l’estirpazione di piante o vegetazione”. 11 Pret. Pen. Avezzano, 21 settembre 1993, in Giur. merito, 1995, 351. 10
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inoltre che “l’ambiente è un bene immateriale unitario, anche se formato da varie componenti, ciascuna delle quali può costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e tutela”12. La Cassazione, sezioni civile e penale, invece, ha sposato una nozione più antropocentrica dell’ambiente, che vede al centro dell’attenzione le risorse naturali “perché la loro conservazione è ritenuta fondamentale per il pieno sviluppo della persona”13. In dottrina, la teoria maggiormente seguita sino alle novità normative delle quali si tratterà di seguito, era quella di Giannini, che aveva elaborato una teoria tripartita, secondo la quale “l’ambiente si riferisce a tre gruppi di istituti giuridici distinti: quelli concernenti la tutela delle bellezze paesaggistiche, quindi un’attività culturale; quelli concernenti la qualità della vita, quindi la lotta contro gli inquinamenti e perciò un’attività sanitaria; quelli concernenti il governo del territorio in quanto siano da preservare certi tratti ecologici e quindi un’attività urbanistica”. Una definizione comunitaria di ambiente la si riscontra nel preambolo della Carta europea e nell’art. 3 della dir. CEE 85/337 del 27.6.2005, che considerava l’ambiente come un “sistema biologico complesso interrelato di risorse naturali ed umane, comprensivo, oltre che degli elementi dell’ecosistema, anche dei beni materiali e del patrimonio culturale, nonché delle componenti socio-economiche provocate dall’interazione tra attività antropiche ed ambiente naturale”. Tale definizione è quella che più appare idonea a ricomprendere anche il concetto di paesaggio e, quindi, assicura la tutela del binomio agricoltura-ambiente. È evidente, infatti, che il paesaggio agrario è espressione della forma di occupazione del suolo e della cultura ad esso collegata, rinvenibile anche in interventi di conservazione che ivi si manifestano, ma è anche ancorato al concetto di ambientalità poiché la sua difesa aumenta l’equilibrio biologicoambientale. La relazione agricoltura-ambiente si ripercuote, con tutta evidenza, sul Corte Cost., 28 maggio 1987, n. 210, in Foro it., 1988, I, 329; Corte Cost., 30 dicembre 1987, n. 641, cit., 3788, che, tra gli altri, esprime il principio della connessione tra tutela dell’ambiente e protezione della salute umana: Predieri, voce Paesaggio, in Enc. Dir., Milano, 1981, 503 ss.; Capaccioli, Dal Piaz, voce Ambiente (tutela dell’), Parte generale e diritto amministrativo, in Novissimo Dig. It., Appendice, Torino 1980, I, 257 ss. 13 Cass. Pen., 15 giugno/28 ottobre 1993, in www.diritto.it. 12
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regime normativo da adottare per tutelare l’ambiente dai rifiuti e dagli scarichi direttamente provenienti dall’attività agricola. Al riguardo, vi sono alcune direttive comunitarie; per citare quelle più rilevanti, si considerino la direttiva 80/68/CEE del Consiglio del 17.12.1979, sulla protezione delle acque sotterranee dall’inquinamento provocato da certe sostanze pericolose, recepita in Italia dal d.lgs. 11.5.1999, n. 152 sulla tutela delle acque dall’inquinamento (c.d. legge acque, che ha sostituito la l. Merli n. 319/76), la direttiva 86/278/CEE del Consiglio del 12.6.1986, recepita dal d.lgs. n. 99/92, per quanto concerne l’utilizzazione dei fanghi in agricoltura sia per conto proprio che per conto terzi, la direttiva 91/271/CEE del 21 maggio 1991, concernente il trattamento delle acque reflue urbane (modificata dalla direttiva 98/15/CE), la direttiva 91/676/CEE del Consiglio del 13.12.1991, recepita dalla legge acque per quanto concerne il monitoraggio, il D.M. 19.4.1999 sul codice di buona pratica agricola, l’istituzione di Zone vulnerabili all’inquinamento dei nitrati (ZVN – di competenza regionale). È, pertanto, evidente che la politica dell’Unione europea in materia ambientale persegua politiche di salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità ambientale e che l’inquinamento delle risorse idriche rappresenti una minaccia per l’ambiente acquatico, per le risorse che derivano dall’agricoltura e per la salute umana. La legislazione europea, quindi, seguita dall’intervento del legislatore italiano, ha inteso affrontare la questione delle emissioni, degli scarichi e della perdita delle sostanze pericolose, al fine di ridurre o eliminare i rischi per l’ambiente e per le acque destinate alla produzione di acqua potabile. 3.
Il riutilizzo delle acque come strumento efficace di tutela dell’ambiente e sviluppo dell’agricoltura
Un punto di contatto a dir poco fondamentale tra le esigenze di tutela ambientale e quelle di sviluppo dell’agricoltura è rappresentato dalla normativa sul riutilizzo delle acque. È stato più volte riconosciuto che l’utilizzazione dell’acqua per usi umani deve essere privilegiata rispetto ad altri usi; tale affermazione la si ritrovava nella l. n. 36/1994, che affermava, altresì, che “gli altri usi sono am-
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messi quando la risorsa è sufficiente e a condizione che non ledano la qualità dell’acqua per il consumo umano”. Il codice ambientale (d.lgs. n. 152/2006), poi, all’art. 2, dispone che l’obiettivo primario del medesimo codice sia quello di promuovere i livelli di qualità della vita umana, attraverso la salvaguardia ambientale e l’utilizzazione razionale ed accorta delle risorse naturali. L’art. 144 del Codice, ricalcando la disposizione precedente della l. Galli (l. n. 36/1994), dispone che tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà14, così comportandosi una sorta di deroga alle previsioni dell’art. 822 c.c., che va letto attualmente nel senso che tutte le acque appartengono al demanio statale. Tale regime “pubblico” delle acque ha formato oggetto, peraltro, di una pronuncia “correttiva”, di rigetto della questione di costituzionalità da parte della Corte Costituzionale15, che ha ritenuto che la pubblicità delle acque attiene al regime di uso di una risorsa naturale che è divenuta limitata, mentre rimane impregiudicato il regime pubblico o privato della proprietà in cui essa è contenuto, così “salvando” la costituzionalità delle norme impugnate nei confronti della previsione dell’art. 42, co. 2°, della Costituzione16. D’altro canto l’acqua è considerabile, altresì, come un bene economico, oltre che giuridico; in tal senso, è compito dell’ordinamento giuridico garantire un giusto equilibrio tra le esigenze naturalistiche e conservative dell’ambiente e quelle di utilizzazione delle acque. Tali obiettivi sono stati perseguiti attraverso l’istituzione dei piani di tutela delle acque, con l’obiettivo di tener conto dei fabbisogni idrici, ma anche dei problemi ambientali legati alle acque; il sistema istituito dal codice ambientale mira a tutelare l’ambiente, la salute, i corretti utilizzi dell’acqua nei settori rilevanti (agricolo, industriale, ecc.)17, anche attraverso il riutilizzo (cfr. al riguardo art. 99, intitolato “Riu14 Si cfr. Rampulla, Il governo e la gestione del ciclo integrato delle acque, in Riv. giur.amb., 2010, 261 ss.; Cazzagon, Le acque pubbliche nel codice dell’ambiente, in Riv. giur. amb., 2007, 435 ss.; Palazzolo, Il regime delle acque pubbliche, in Rass. giur. energia elettrica, 2000, 289 ss. 15 Corte cost., 19 luglio 1996, n. 259, in Riv. Dir. agr., 1999, 3. Sul punto, si legga Germanò, La proprietà delle acque secondo la l. 36/1994 in materia di risorse idriche, in Dir. agricol., 1997, 29 ss. 16 Cfr., altresì, Bruno, Aspetti privatistici della nuova normativa sulle acque, in Riv. dir. agr., 1999, 11; Bruno, La Corte costituzionale di fronte alla pubblicità di tutte le acque, in Rass. giur. energia elettrica, 1997, 155. 17 Sul punto, cfr. Di Dio, Difesa e diritto delle acque, primo passo per la salvaguardia degli ecosistemi, in Dir. giur. agraria e dell’ambiente, 2007, 275.
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tilizzo dell’acqua”). Nella medesima ottica è rivisto, dal nuovo codice ambientale, il sistema delle concessioni, che attualmente sono rilasciate se non pregiudicano il raggiungimento degli obiettivi di qualità, è garantito il minimo deflusso vitale, non sussistono possibilità di riutilizzo delle acque reflue depurate o provenienti dalla raccolta di acque piovane il riutilizzo non sia conveniente sotto il profilo economico. Ed è l’ultimo profilo considerato quello, per così dire, più “debole” di tutto il sistema, atteso che, all’attuale stato della tecnica, nella maggior parte dei casi non si procede ad adottare pratiche di riutilizzo proprio in ragione del costo, ancora elevato, delle stesse, per i produttori. Il Codice ambientale, al riguardo (come modificato dal d.lgs. n. 284/1986 e dal d.lgs. n. 4/2008, nonché dalla l. n. 244/2007), contiene una normativa dettagliata, conferisce un assetto complessivo al regime delle acque e impiantistico funzionale e detta disposizioni sulle Autorità, nell’ambito della quale l’attenzione sarà incentrata sulla “linea di confine” che sussiste tra la nozione di “acqua di scarico” e quella di “rifiuto liquido”. Prima del Codice ambientale la normativa di riferimento era costituita, per le acque, dal d.lgs. n. 152/1999 e, per i rifiuti liquidi, dal c.d. “decreto Ronchi”, il d.lgs. n. 22/1997. Tra i due complessi normativi vigeva una sorta di rapporto genere/specie, nel senso che il decreto Ronchi costituiva la normativa di riferimento per la gestione di tutti i rifiuti, mentre il t.u. acque era la disciplina speciale per le sole acque di scarico, originate dagli insediamenti domestici o produttivi e direttamente convogliate in corpi ricettori, senza l’intervento di soggetti terzi. Per esemplificare, se l’acqua reflua proveniente da un insediamento era qualificata come rifiuto liquido, essa doveva essere gestita nell’ambito della filiera dei rifiuti (ossia raccolta e smaltita), mentre se acquistava lo status di acqua di scarico, in deroga alle norme del decreto Ronchi, poteva essere riutilizzata18. Con l’avvento delle nuove regole, contenute nel Codice ambientale, la disciplina pubblicistica non è mutata, ma è cambiato il criterio di individuazione della natura giuridica del bene coinvolto, che è considerato risorsa ancora utilizzabile o rifiuto a seconda della volontà del produttore. L’attuale art. 74 del Codice ambientale dispone, infatti, che è considerato “scarico” Bruno, Commento alla Sez. II, La disciplina degli scarichi, in Germanò, Basile, Bruno, Benozzo, Commento al Codice dell’ambiente, Torino, 2008, 251. 18
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“qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collegamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione”. La nozione di scarico ruota, pertanto, attorno a quella di “immissione diretta” nel corpo ricettore. Gli elementi essenziali perché ci possa essere immissione diretta sono costituiti dalla presenza di una condotta tra il luogo di origine del refluo e il corpo ricettore, la mancanza di una interruzione funzionale, l’irrilevanza del nesso temporale continuo tra l’attività che origina il refluo, la sua produzione, la sua conduzione e lo scarico nel corpo ricettore. Anche la giurisprudenza19 ha confermato tale impostazione legislativa, individuando il criterio di discrimine tra acqua reflua, riutilizzabile, e rifiuto, da smaltire, nel collegamento, nel passaggio immediato del refluo dal corpo produttore al contenitore di destinazione. La medesima giurisprudenza ha, inoltre, ritenuto che il passaggio tra la disciplina delle acque e quella dei rifiuti si abbia nel momento in cui vi sia l’effettiva separazione del liquame dal sistema di canalizzazione dell’impianto, separazione che avviene esclusivamente attraverso il trasporto su gomma20. Dal sistema appena, a grandi linee, descritto, deriva un’evidente scelta del legislatore, che ha delegato al produttore del refluo la scelta della qualificazione giuridica da attribuire all’acqua reflua, se scarico o rifiuto liquido. Trattasi di un diritto del produttore che costituisce espressione di una strategia aziendale; se il produttore deciderà di disfarsi del refluo, non dovrà depurarlo, non dovrà rispettare limiti tabellari, non dovrà chiedere alcuna autorizzazione allo scarico, ma dovrà compilare formulari di identificazione, utilizzare trasportatori iscritti agli albi appositi, inviare periodicamente i MUD, ecc. La scelta effettuata potrà essere modificata in qualsiasi momento. La normativa prevede, inoltre, tre casi nei quali il refluo cambi status (e divenga rifiuto) di diritto: quando ci sia una sua modifica sostanziale; quando scada l’autorizzazione allo scarico del produttore e non sia rinnovata; nel caso di rottura dell’impianto di depurazione. In tale ultimo caso la Corte di Giustizia 19 Cass. pen., sez. III, 26 ottobre 2006, n. 35888; Cass. pen., Sez. III, 30 ottobre 2007, n. 40191; Cass., pen., sez. III, 11 febbraio 2008, n. 6417. Sul punto cfr. Montagna, Ancora sulla distinzione tra rifiuto, rifiuto liquido e scarico, in Cass. pen., 2007, 10, 3855. 20 Cass. pen., Sez. III, n. 8758/2002, in Cass. pen., 2004, 1028.
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ha precisato che la fuoriuscita delle acque reflue da un impianto costituisce un fatto mediante il quale il produttore si disfa del refluo21. 4.
Le problematiche connesse allo sversamento dei fanghi in agricoltura
Ai sensi della normativa vigente, è consentito utilizzare i rifiuti liquidi, a seguito di un processo di depurazione posto in essere negli appositi impianti, all’uopo autorizzati, al fine della concimazione dei terreni agricoli. L’attività di depurazione delle acque reflue urbane costituisce un segmento del servizio idrico integrato22, che costituisce espressione della esigenza, di carattere generale, già rilevata nella prima parte del presente lavoro, di costituire un sistema coordinato di utilizzo delle risorse e di tutela ambientale e che, per espressa disposizione dell’art. 117 Cost., nel testo novellato nel 2001, compete allo Stato, come peraltro di recente confermato da una sentenza della Corte costituzionale23. La disciplina è contenuta negli artt. 141 ss. del codice ambientale (d.lgs. n. 152/2006). Il processo di depurazione conduce alla produzione dei c.d. “fanghi”, che sono qualificati dal codice ambientale come rifiuti (art. 127). Come ognun vede, la qualificazione dei fanghi come rifiuti è compiuta direttamente dal legislatore, il quale non lascia – come avviene in altri ambiti – la possibilità al produttore di scegliere se qualificare il prodotto del processo di depurazione come bene in senso giuridico ed economico, che cioè può essere riutilizzato e fonte ulteriore di guadagno, oltre che di risparmio di risorse, ma decide che il prodotto del processo depurativo è considerato un rifiuto. Tuttavia, è consentito, in alcuni casi, riutilizzare il fango per la concimazione dei terreni agricoli. Il problema, che appare alquanto rilevante, si pone nei casi in cui nei fanghi sversati sui terreni agricoli risulti la presenza di sostanze inquinanti. Ove ciò avvenga, in attuazione dei principi di precauzioCorte Giust., 10 maggio 2007, causa C-252/2005, in www.curia.eu.int. Sul punto, cfr. Muraro, La gestione del servizio idrico integrato in Italia, tra vincoli europei e scelte nazionali, in Mercato concorrenza regole, 2003, 2, 407. 23 Corte Cost., 20 novembre 2009, n. 307, in Riv. giur. amb., 2010, 341, che ha dichiarato illegittima la norma della legge della Regione Lombardia che separava la gestione della rete dall’erogazione del servizio idrico integrato, in quanto essa viola l’art. 117 Cost., perché si tratta di funzioni affidate completamente allo Stato. 21 22
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ne e – soprattutto – di prevenzione24, il proprietario del fondo e il produttore del fango, ove sia individuato o individuabile, sono responsabili della immediata bonifica del terreno, e devono porre immediato rimedio al pericolo di inquinamento dei terreni, dei prodotti ivi coltivati, oltre che della falda acquifera sottostante. Ove i soggetti responsabili non provvedano, il codice ambientale prevede la possibilità per le Autorità di imporre i comportamenti necessari attraverso il potere di ordinanza, che costituisce applicazione del principio di prevenzione25.
24 Mentre il principio di precauzione opera in un momento precedente anche al verificarsi del pericolo di danno, in via assolutamente preventiva ed in virtù dello stato delle conoscenze scientifiche, che tuttavia siano ancora incerte (sul punto, cfr. Princigalli, Il principio di precauzione: danni «gravi e irreparabili» e mancanza di certezza scientifica, in Dir. agr., 2004, 145; Gragnani, Il principio di precauzione come modello di tutela dell’ambiente, dell’uomo, delle generazioni future, in Riv. dir. civ., 2003, 9), il principio di prevenzione, data una situazione di certezza scientifica in ordine alla nocività di una certa sostanza, comporta l’anticipazione della tutela ad un momento immediatamente precedente alla situazione di danno conclamato, ossia al momento del verificarsi di una situazione di pericolo. 25 Così Lottini, Bonifica di siti inquinati da fanghi di risulta della depurazione delle acque reflue urbane: tra potere di ordinanza extra ordinem e principio di prevenzione, in Foro amm. TAR, 2007, 1444.
Roberto Francesco Iannone
La gestione dei rifiuti agricoli Sommario: 1. L’imprenditore agricolo e l’ambiente; 2. I rifiuti agricoli; 3. Le quattro regole sulla corretta gestione dei rifiuti; 4. Il deposito temporaneo dei rifiuti; 5. Conferimento e trasporto dei rifiuti agricoli; 6. Gli ulteriori obblighi dell’imprenditore agricolo: registro di carico, registro di scarico, il MUD; 7. Il SISTRI (Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti).
1.
L’imprenditore agricolo e l’ambiente
Oltre la metà degli abitanti del pianeta sono agricoltori e gran parte di essi sono organizzati in forma di impresa, ma il rapporto con la terra mai era giunto ad un punto di crisi come accade oggi. La maturazione dell’idea che le risorse non sono illimitate, contrariamente a quanto si pensava nel secolo scorso, si lega alla consapevolezza della necessità di preservare il bene ambiente in cui si esplica l’attività dell’imprenditore agricolo correlato al riconoscimento delle future generazioni quali soggetti giuridici. La centralità assunta dalla problematica ambientale1 nei tempi recenti è testimoniata dal riconoscimento formale che essa ha assunto nei diversi ordinamenti nazionali.2 La tutela dell’ambiente è stata dunque elevata a diritto fondamentale della persona, quale interesse diffuso funzionale al pieno sviluppo e benessere dell’essere umano.3 Un nuovo sviluppo sociale, in cui la S. Patti, Ambiente (tutela dell’), in Digesto civ., Torino, 1987, 292 ss. Si veda ad esempio la Costituzione Greca del 1975 all’art. 24 afferma: «La protezione dell’ambiente naturale e culturale costituisce un obbligo dello Stato…»; quella Spagnola del 1978, all’art. 45 sancisce: «Tutti hanno il diritto di godere di un ambiente adeguato allo sviluppo della persona e il dovere di conservarlo»; Anche diverse Costituzioni adottate dai “Paesi socialisti”, prima dei mutamenti istituzionali, affermavano principii analoghi. La Costituzione della Polonia del 1952 all’art. 2.2 stabiliva: «La Repubblica popolare della Polonia garantisce la protezione e un razionale miglioramento dell’ambiente che costituisce un bene della Nazione»; la Costituzione dell’U.R.S.S. del 1977 prevedeva misure per il risanamento dell’ambiente, definiva la protezione della natura come “dovere del cittadino”; indicava la gestione razionale e la protezione delle risorse naturali, quali compiti assegnati alla competenza del Consiglio dei Ministri. 3 Sul mutato approccio nella materia ambientale dell’ultimo decennio interessanti osservazioni emergono nel contributo di F. Vollero, Diritti umani e diritti fondamentali fra tutela costituzionale e tutela sopranazionale: il diritto ad un ambiente salubre, Napoli, 2002, p, 9. 1 2
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crescita economica non deve valutarsi in termini solo quantitativi e come fine a sé stessa, ma soprattutto per la qualità e l’incidenza che effettivamente può produrre sull’ambiente e, tramite esso, sulla qualità della vita. L’espressione ambiente (dal latino ambiens, participio presente di ambire, letteralmente “andare attorno”) esprime la valenza dinamica del concetto. L’ambiente quale bene comune, unitariamente inteso,4 esalta il suo valore ideale con il conseguente interesse della collettività alla sua conservazione.5 I beni per essere conservati devono essere gestiti e chi ha la responsabilità diretta o indiretta in simili contesti, deve comportarsi ponendosi il problema, oggi più che in passato, del buon governo del territorio e dell’ambiente. La questione ambientale dell’agricoltura deve essere considerata sotto una pluralità di aspetti, poiché nonostante il settore primario sia responsabile della produzione di inquinamento, è altrettanto vero che esso risulta fortemente condizionato da un livello di informazione ambientale alquanto modesto, carente specialmente nel settore agricolo. L’idea di fondo è quella di un’agricoltura polifunzionale nella quale l’agricoltore diventa soggetto ambientale, protagonista, del rapporto con il mondo rurale nel suo complesso, ove accanto alla politica produttiva si associa l’obbligo di controllare l’impatto ambientale delle attività esercitate in osservanza dei principi di derivazione comunitaria,6 recepiti nel codice dell’ambiente (d.lgs. 3 aprile 200, n. 152) che dominano la materia7 nonché Corte cost. 30 dicembre 1987 n. 641, in Foro it., 1988, I, p. 694, con nota di F. Giampietro; Si consideri la giurisprudenza di legittimità rappresentata da Cass., Sez. un., 25 gennaio 1989, n. 440, in cui l’ambiente viene qualificato come «bene immateriale giuridicamente riconosciuto e tutelato nella sua unitarietà», in Riv. giur. ambiente, 1989, p. 475. Anche tra i sostenitori dell’inconsistenza di una nozione giuridica di ambiente (A. Miletti, Tutela inibitoria individuale e danno ambientale, Napoli, 2005, p. 76) si finisce con il riconoscere l’utilità pratica di un concetto idoneo a sottolineare l’aspetto “relazionale” della problematica ambientale quale punto di sintesi. Per la teoria dei beni naturalmente il richiamo è a S. Pugliatti, Beni (teoria gen.), in Enc. dir., V, Milano, 1959, p. 159. 5 C.A. Graziani, Terra e Proprietà ambientale, in Studi in onore di A. Palazzo (diritto privato), A. Grilli e A. Sassi (a cura di), vol. III, Torino, 2009, p. 360. 6 G. Olmi, Agricoltura in diritto comunitario, in Digesto IV, disc. Pubbl., Torino, 1987, p. 123. 7 Le politiche di tutela ambientale si fondano sui principi della precauzione (F. Giampietro, Precauzione e rischio socialmente accettabile: una linea guida interpretativa della legge n. 36/2001, in Diritto e gestione dell’ambiente, 2001, p. 107 ss.; A.M. Princigalli, Il principio di precauzione: danni “gravi e irreparabili” e mancanza di certezza scientifica, in Dir. agr., 2004, p. 145 ss.; per quanto concerne le onde elettromagnetiche si rinvia al lavoro di C.M. Nanna, Principio di precauzione e lesioni da radiazioni non ionizzanti, Napoli, 2003, p. 10) dell’azione preventiva, sul principio della correzione in via prioritaria alla fonte dei danni causati all’ambiente, e sul principio “chi inquina paga”, al fine di garan4
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del preminente valore assunto dalla persona nell’ordinamento. L’art. 2137 c.c. dedicato alla responsabilità dell’imprenditore agricolo necessita, dunque, una lettura coordinata con il panorama delle fonti esistenti. Il processo di decodificazione8 e depatrimonializzazione9 del diritto civile non risparmiano l’impresa agricola e pongono l’imprenditore agricolo di fronte a nuove e più ampie forme di responsabilità legate alla corretta gestione preventiva dei rifiuti agricoli. Lo smaltimento dei rifiuti in agricoltura sta assumendo sempre maggiore importanza anche a causa dell’esigenza di realizzare modelli di agricoltura ecocompatibili e la necessità di integrare la tutela dell’ambiente nella politica agricola. E pensare che un primo tentativo di regolamentazione organica della materia venne intrapreso con la legge 20 marzo 1941, n. 366. I primi timidi approcci del legislatore verso il problema della gestione dei rifiuti erano tesi a risolvere problemi di natura essenzialmente sanitaria, mancando una percezione comune sulla necessità di avviare adeguate politiche ambientali. Come ogni attività umana, infatti, l’agricoltura genera dei rifiuti che devono essere “gestiti”. Nello svolgimento dell’attività agricola vengono prodotte, essenzialmente, due tipologie di rifiuti: quelli cosiddetti “domestici” e quelli che derivano dalle attività agricole vere e proprie. Le stesse attrezzature, le macchine, i prodotti a supporto della pratica agricola, al termine del loro utilizzo, diventano a loro volta dei rifiuti da smaltire. L’impatto che i rifiuti generano sull’ambiente non dipende solo dalla loro quantità ma anche dalla loro qualità: le sostanze pericolose in essi contenute, anche se in piccole percentuali, possono infatti causare notevoli impatti sull’ambiente in particolare sulle acque, sull’aria e sul suolo. tire uno sviluppo sostenibile e di contribuire ad un sensibile e misurabile miglioramento dell’ambiente. Per l’intera produzione della Comunità europea in tema ambientale, si rinvia al sito www.europa.eu.it. 8 N. Irti, L’età della decodificazione, Milano, 1986, p. 25; P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 2006, p. 175. 9 C. Dionisi, Verso la depatrimonializzazione del diritto privato, in Rass. dir. civ., 1980, p. 644; P. Perlingieri, L’art. 2059 c.c. uno e bino, cit., p. 775; Id, L’onnipresente art. 2059 c.c. e la “tipicità” del danno alla persona, cit., p. 520; Id, Rapporti costruttivi fra diritto penale e diritto civile, in Rass. dir. civ., 1997, p. 104 ss.; Id, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 2006, p. 715; Id, Scuole tendenze e metodi. Problemi di diritto civile, Napoli, 1989, p. 175; M. Pennasilico, L’operatività del principio di conservazione, in Rass. dir. civ., 2003, p. 702.
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Roberto Francesco Iannone
I rifiuti agricoli
La normativa vigente in materia di rifiuti agricoli è in continua evoluzione. Il primo intervento degno di nota risale al 1982 (d.P.R. n. 915) a cui ha fatto seguito il Decreto Ronchi, modificato dal D.lgs. del 3 aprile 2006, n. 152 “Norme in materia ambientale”, ulteriormente modificato dal D.lgs. del 16 gennaio 2008, n. 4. In Italia l’ultima normativa è la legge 27 febbraio 2009, n. 13 nella quale si stabilisce all’art. 8-quater che gli Accordi di Programma per la gestione dei rifiuti possono prevedere semplificazioni amministrative da concordare con la pubblica amministrazione, modificando e convertendo in legge il decreto del 30 dicembre 2008, n. 208 “recante misure straordinarie in materia di risorse idriche e protezione dell’ambiente”. Nel campo di applicazione della normativa sui rifiuti, rientra qualsiasi sostanza od oggetto che è riconducibile alle categorie espressamente indicate dal legislatore ovvero qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore: si disfi; abbia deciso di disfarsi o abbia l’obbligo di disfarsi. I rifiuti possono essere “urbani” o “speciali” a seconda che provengano da abitazioni o da attività produttive. I rifiuti domestici prodotti nell’abitazione dell’agricoltore sono rifiuti “urbani” per i quali non vi è alcun obbligo, tranne l’onere di corrispondere per il servizio l’imposizione dovuta (es. Tarsu), mentre quelli prodotti in campo e/o in magazzino sono “speciali”. Quest’ultima tipologia di rifiuti non è soggetta alla TARSU e vanno conferiti, a spese del produttore a terzi autorizzati o al gestore del servizio pubblico in regime di convenzione.10 I rifiuti speciali si suddividono in “non pericolosi” (es. rifiuti plastici di imballaggio, imballaggi in legno, imballaggi di cartone) e “pericolosi”(es. rifiuti agrochimici, oli esausti di autotrazione, batterie ed accumulatori). Nelle aziende agricole possono essere presenti altri “scarti” la cui gestione è regolamentata da leggi che non riguardano la normativa sui rifiuti. È il caso dell’amianto, delle carogne animali, dei materiali litoidi (sassi, rocce, etc.), dei materiali vegetali riutilizzati nelle normali pratiche agricole derivanti dalla pulizia dei prodotti vegetali eduli (frutta, verdura, etc.), delle acque di vegetazione e delle materie fecali quali i liquami o altri effluenti zootecnici. 10
P. Ficco, La gestione dei rifiuti agricoli, in Amb. Sicurezza, 2, 1999, p. 87.
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Questi ultimi, che nelle tradizionali pratiche agricole vengono distribuiti in campo come ammendanti e/o fertilizzanti, vanno dosati oculatamente al fine di evitare effetti dannosi sulla qualità delle acque superficiali e profonde nonché sulle altre componenti ambientali. Il loro utilizzo in agricoltura è regolamentato dal Testo Unico sulle acque (D.lgs. 11 Maggio 1999, n. 152 e successive modifiche e integrazioni) che costituisce il recepimento della direttiva comunitaria 91/676/CEE più nota come Direttiva Nitrati il cui rispetto, oltre che garantire i migliori risultati agronomici ed ambientali, è condizione indispensabile per accedere agli aiuti comunitari ed evitare sanzioni. 3.
Le quattro regole sulla corretta gestione dei rifiuti
La finalità delle politiche e della copiosa legislazione sulla corretta gestione dei rifiuti si basa sulle cosiddette “Regole delle 4R”: Riduzione, Riuso, Recupero dei materiali e Recupero energetico. La riduzione dei costi di produzione è uno degli aspetti al quale gli imprenditori pongono più attenzione. Le aziende attente alla “qualità” devono individuare e ridurre gli sprechi ricorrendo magari all’agricoltura biologica ovvero all’uso di plastiche biodegradabili per pacciamatura o di contenitori di fitofarmaci idrosolubili. Il riuso consiste nell’utilizzare ripetutamente (in più cicli produttivi) mezzi e materiali, allungandone la durata. A tale scopo è opportuno utilizzare per più colture o cicli la stessa plastica di pacciamatura o copertura. Il recupero dei materiali pone l’accento sui vantaggi indiscutibili che offre il riciclo. I rifiuti di un’azienda possono costituire la materia prima indispensabile per l’attività di un’altra, pertanto, possono assumere un valore economico anche abbastanza rilevante. È importante però che questi siano ben separati per tipologia e per quanto possibile “puri”, senza inquinanti rappresentati da rifiuti diversi. Anche il vetro o le batterie possono essere rigenerati, così come gli oli e i lubrificanti. Per queste tipologie di rifiuti sono stati promossi consorzi specifici che curano direttamente il ritiro dai produttori, senza costi aggiuntivi, se non quelli necessari per mantenerli in purezza. L’utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura realizzata in modo da evitare effetti nocivi sul suolo, sulla vegetazione, sugli animali e
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sulla salute dell’uomo risulta determinante nell’ottica di recuperare i materiali impiegati dall’imprenditore agricolo. Per utilizzazione dei fanghi deve intendersi il loro recupero mediante lo spandimento sul suolo e qualsiasi altra applicazione sul suolo medesimo. I fanghi non sono altro che quei residui derivanti dai processi di depurazione delle acque reflue da insediamenti civili, ovvero delle acque reflue di insediamenti produttivi. Ad ogni modo, l’utilizzo dei fanghi è subordinato all’accertamento, al momento del loro impiego, di requisiti tabellari normativamente previsti che garantiscono la non compromissione del suolo e dell’ambiente circostante. In relazione al recupero energetico l’incenerimento in stufe o caminetti domestici della legna derivante dalle potature è consentita dalla legislazione. Ovviamente non deve trattarsi di legno d’opera trattato con vernici o altre sostanze tossiche ma, ripetiamo, di legna di risulta delle operazioni agricole. Per le altre tipologie di rifiuti il recupero energetico attraverso il procedimento di “termovalorizzazione” (l’incenerimento dei rifiuti con il recupero dell’energia prodotta) deve rappresentare l’ultima soluzione, quando non è possibile individuare altre destinazioni o usi. Non deve essere sottovalutato, infatti, l’indirizzo espresso in ambito comunitario secondo il quale è necessario prevenire o ridurre, per quanto possibile, l’inquinamento dell’aria, delle acque e del suolo causato dall’incenerimento o dall’incenerimento dei rifiuti, inclusi i rischi per la salute umana.11 L’art. 214 del D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (codice dell’ambiente) così come modificato ultimamente dal D.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, art. 27, prevede che i procedimenti e metodi di smaltimento o di recupero siano tali da non costituire un pericolo per la salute dell’uomo e da non recare pregiudizio all’ambiente. In particolare, ferma restando la disciplina del D.lgs. 11 maggio 2005, n. 133, per accedere alle procedure semplificate, le attività di trattamento termico e di recupero energetico devono, inoltre, rispettare le seguenti condizioni: a) deve esserci l’impiego di combustibili da rifiuti urbani oppure da rifiuti speciali individuati per frazioni omogenee; b) i limiti di emissione non devono risultare superiori a quelli stabiliti per gli impianti di incenerimento Direttiva 2000/76/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 dicembre 2000 sull’incenerimento dei rifiuti. 11
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dei rifiuti dalla normativa vigente (con particolare riferimento al D.lgs. 11 maggio 2005, n. 133). Il D.Lgs. 11 maggio 2005, n. 133, «Attuazione della direttiva 2000/76/ CE in materia di incenerimento dei rifiuti» tra l’altro, ha recepito le disposizioni della direttiva 2000/76/CE sull’incenerimento dei rifiuti. Il decreto si applica agli impianti di incenerimento e di coincenerimento dei rifiuti (sia non pericolosi che pericolosi) e stabilisce le misure e le procedure finalizzate a prevenire e ridurre per quanto possibile gli effetti negativi dell’incenerimento e del coincenerimento dei rifiuti sull’ambiente, in particolare l’inquinamento atmosferico, del suolo, delle acque superficiali e sotterranee, nonché i rischi per la salute umana che ne derivino. 4.
Il deposito temporaneo dei rifiuti
L’art. 183, comma 1, lett. m) del D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Codice dell’Ambiente) individua la fattispecie del deposito temporaneo, che costituisce un’eccezione alle fasi che caratterizzano il procedimento di gestione dei rifiuti. Il deposito temporaneo consiste nel raggruppare i rifiuti, prima del conferimento, nel luogo in cui sono prodotti, cioè in azienda. Deve essere organizzato per tipi omogenei (es.: oli - batterie - filtri) e nel rispetto delle relative norme tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, in base alle regole che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute. Il deposito temporaneo presuppone che il rifiuto non esca mai dall’area entro la quale è svolta l’attività produttiva e può essere effettuato solo dal soggetto che lo ha prodotto. Tramite la fattispecie del deposito temporaneo, la legge ha voluto tenere in conto le esigenze delle piccole e medie imprese produttrici di rifiuti, le quali possono così evitare di ricadere nella stringente normativa dettata per i rifiuti nelle ipotesi in cui ne producano quantitativi estremamente limitati. Da ciò si deduce che trattasi, in generale, di una particolare modalità di stoccaggio dei rifiuti, consistente nel raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti, a determinate
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condizioni elencate dalla norma sopra richiamata: 1) i rifiuti depositati non devono contenere policlorodibenzodiossine, policlorodibenzofurani, policlorodibenzofenoli in quantità superiore a 2,5 parti per milione (ppm), né policlorobifenile e policlorotrifenili in quantità superiore a 25 parti per milione (ppm); 2) i rifiuti devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento secondo una delle seguenti modalità alternative, a scelta del produttore, con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalle quantità in deposito; quando il quantitativo di rifiuti in deposito raggiunga complessivamente i 10 metri cubi nel caso di rifiuti pericolosi o i 20 metri cubi nel caso di rifiuti non pericolosi. In ogni caso, allorché il quantitativo di rifiuti pericolosi non superi i 10 metri cubi l’anno e il quantitativo di rifiuti non pericolosi non superi i 20 metri cubi l’anno, il deposito temporaneo non può avere durata superiore ad un anno; 3) il deposito temporaneo deve essere effettuato per categorie omogenee di rifiuti e nel rispetto delle relative norme tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute; 4) devono essere rispettate le norme che disciplinano l’imballaggio e l’etichettatura delle sostanze pericolose; 5) per alcune categorie di rifiuto, individuate con decreto del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministero per lo sviluppo economico, sono fissate le modalità di gestione del deposito temporaneo. Dello strumento del deposito temporaneo può servirsi, pertanto, solo il produttore dei rifiuti, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti. La norma, dunque, individua due distinte ipotesi di deposito temporaneo: a) quello riguardante un quantitativo illimitato di rifiuti, provvedendo al recupero o allo smaltimento entro due mesi per i rifiuti pericolosi e tre mesi per i rifiuti non pericolosi; b) quello riguardante il quantitativo massimo di rifiuti che la ditta può conservare (10 m³ per i rifiuti pericolosi e 20 m³ per i rifiuti non pericolosi), dovendo poi procedere al loro smaltimento entro il termine massimo di un anno. In realtà, i limiti quantitativi di deposito temporaneo dei rifiuti sembrano difficilmente raggiungibili da parte dei piccoli imprenditori agricoli. Per tali motivi, la scadenza trimestrale per l’avviamento alle operazioni di recupero o smaltimento dei rifiuti diviene per le piccole imprese agricole un costo talvolta insopportabile. La norma andrebbe calibrata con le reali potenzialità
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inquinanti dei piccoli imprenditori agricoli per cui i limiti quantitativi indicati dalla normativa costituiscono un miraggio. Qualora non vengano rispettate le sopra descritte condizioni di ammissibilità, l’attività diventa illegale e penalmente perseguibile in quanto integra attività di deposito incontrollato di rifiuti, sanzionata ai sensi dell’art. 256, comma 2, D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, con la pena: a) dell’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi; b) dell’arresto da sei mesi a due anni e dell’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti pericolosi. La Corte di Cassazione, con la recentissima pronuncia della Sezione penale, n. 15680 del 23 aprile 2010, si è pronunciata in materia di deposito incontrollato di rifiuti precisando che allorché il deposito dei rifiuti manchi dei requisiti fissati dall’art. 183 D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, per essere qualificato quale temporaneo, si realizza a seconda dei casi: a) un abbandono ovvero un deposito incontrollato sanzionato, secondo i casi, dagli artt. 255 e 256, comma 2, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152); b) un deposito preliminare, necessitante della prescritta autorizzazione in quanto configura una forma di gestione dei rifiuti; c) una messa in riserva in attesa di recupero, anch’essa soggetta ad autorizzazione quale forma di gestione dei rifiuti. La scelta tra le varie opzioni dipende soltanto dagli elementi specifici della fattispecie concreta. Pertanto, quando non ricorre un deposito temporaneo, si configura un deposito preliminare se esso è realizzato in vista di successive operazioni di smaltimento, ovvero una messa in riserva se è realizzato in vista di successive operazioni di recupero, mentre si realizza un deposito incontrollato o abbandono12 quando è definitivo nel senso che non prelude ad alcuna operazione di smaltimento o di recupero. Nella fattispecie non ricorrono le condizioni per il deposito temporaneo, sia perché non era stato osservato il divieto di miscelazione, sia perché non tutti i rifiuti ivi raccolti provenivano da scavi in loco. Nell’affrontare l’illecito di abbandono di rifiuti non si può prescindere dal prendere in considerazione, seppur brevemente, la responsabilità che può investire il proprietario (incolpevole) del sito su cui altri abbiano abbandonato rifiuti. Sempre in materia di deposito incontrollato di rifiuti, ulteriori disposi12
M. V. Balossi, Il punto sull’abbandono di rifiuti, in Amb. Svil., 2010, 2, p. 118.
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zioni si ricavano dalla lettura dell’art. 192, D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152: tale articolo dispone che fatta salva l’applicazione della sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque effettui attività di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo “è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”. Ove poi derivi un inquinamento dell’area, la situazione determinerebbe nuovi scenari. Non di rado avviene che l’imprenditore agricolo, proprietario del suolo ove esercita la proprie attività scopra ad un tratto che quell’area da lui diligentemente sorvegliata in realtà risulta gravemente compromessa, in quanto in precedenza qualche azienda aveva ivi depositato dei rifiuti illegalmente. Non può nemmeno escludersi la possibilità che sia un’azienda limitrofa ad effettuare degli scarichi abusivi. In tal caso occorre distinguere l’ipotesi di abbandono dei rifiuti dalla responsabilità per gli obblighi di bonifica ex art. 239, del D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152.13 In questa sede è sufficiente riporre l’attenzione sull’art. 242 del già citato Testo Unico ambientale che individua nel responsabile dell’inquinamento l’unico destinatario degli obblighi contemplati dalla norma medesima. Il legislatore ha operato, una preferenza ripudiando qualsiasi forma di responsabilità oggettiva.14 Tale scelta comporta che la necessità di individuare il 13 La norma presuppone un fenomeno di vera e propria contaminazione dei luoghi e non un semplice abbandono di rifiuti. Sulla bonifica dei siti contaminati vedi, G. de Santis, Bonifica dei siti contaminati, in Resp. civ. prev., 2009, p. 1478; W. D’avanzo, La responsabilita` del proprietario del fondo nella disciplina dell’art. 14 del D.Lgs. 22/97. Confronto con l’art. 17 e obbligo di bonifica dei siti inquinati, in Dir. giur. agr., 2006, I, p. 335; G. Manfredi, La bonifica dei siti inquinati tra sanzioni, misure ripristinatorie e risarcimento del danno all’ambiente, in Riv. giur. Amb., 2002, p. 667; S. Baiona, Nessuna responsabilità oggettiva in capo al proprietario « incolpevole » per l’abbandono di rifiuti sul fondo di sua proprietà, in Resp. civ. prev., 2009, p. 2127. 14 A. Graziano, Codice dell’ambiente, Annotato con dottrina, giurisprudenza e formule, a cura di P. de Lise e R. Garofoli, Roma, 2009, p. 817; A. L. De Cesaris, Gli obblighi di bonifica del proprietario
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responsabile dell’inquinamento si traduce nel rifiutare ogni automatismo ponendo l’accento sul dovere da parte delle amministrazioni locali di svolgere un’adeguata istruttoria preliminare.15 Il proprietario incolpevole non può dunque, essere obbligato a provvedere al ripristino dello stato dei luoghi a proprie cure e spese. Tuttavia, garantita dal privilegio speciale immobiliare, la Pubblica amministrazione potrà recuperare le somme versate nel limite dell’arricchimento di valore, previamente notificando il provvedimento di bonifica al proprietario incolpevole, rendendolo edotto del suindicato onere reale. Gli istituti dell’onere reale e del privilegio speciale realizzano spesso una notevole pressione nei confronti del proprietario.16 5.
Conferimento e trasporto dei rifiuti agricoli
Nel momento in cui, terminata la fase del deposito temporaneo, si pone il problema di avviare allo smaltimento i rifiuti, sorge l’interrogativo verso quali soggetti, l’imprenditore agricolo può rivolgersi. L’agricoltore può scegliere di: a) rivolgersi al locale servizio comunale di raccolta dei rifiuti solidi urbani; b) effettuare il conferimento ad appositi centri di raccolta; c) rivolgersi a gestori privati autorizzati (iscritti all’Albo Gestori Ambientali). Nel primo caso le municipalizzate comunali vanno considerate alla stregua di un qualsiasi operatore privato con cui cercare un accordo sul prezzo della raccolta o della consegna di determinate quantità e qualità di rifiuti. La seconda opzione può essere utile soprattutto per le piccole e piccolissime aziende che producono modeste quantità di rifiuti e li conferiscono occasionalmente a centri di raccolta affidati “al gestore del servizio pubblico di raccolta dei rifiuti urbani, con i quali sia stata stipulata una convenzione, incolpevole, in Riv. Giur. Amb., 2000, p. 340 ss.; R. F. Iannone, L’azione di bonifica non grava sul proprietario incolpevole del sito contaminato, in Riv. Giur. amb., 2010, 2, p. 379; G. De Santis, Bonifica dei siti contaminati, in Resp. civ. prev., 2009, p. 1478; L. Musumeci, Bonifica di siti contaminati, Milano, 2008, p. 400; S. D’Angiulli, Bonifica di siti contaminati, in A. Buonfrate (a cura di), Codice dell’ambiente e normativa collegata, Milano, 2008, 245 ss. 15 T.A.R. Valle d’Aosta, 20 febbraio 2003, n. 17, in Riv. giur. amb., 2003, pp. 854 ss.; T.A.R. Piemonte, Sez. II, 26 marzo 2004, n. 17, in www.ambientediritto.it. 16 Osserva come spesso il proprietario del sito sia indotto ad eseguire interventi di bonifica per non vedersi espropriare il sito, P. Giampietro, La nuova gestione dei rifiuti, Milano, 2009, p. 320.
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purché tali rifiuti non eccedano la quantità di 30 Kg o 30 litri”. Il trasporto di rifiuti speciali non può essere effettuato direttamente dall’operatore agricolo a meno che: 1) non iscriva la ditta e i mezzi adibiti al trasporto alla sezione semplificata dell’Albo Gestori Ambientali; 2) non operi in un territorio ove vige un accordo di programma che consenta il trasporto diretto; 3) non conferisca i propri rifiuti speciali al gestore del servizio pubblico di raccolta dei rifiuti solidi urbani. I rifiuti nel loro percorso devono essere accompagnati da una documentazione che ne giustifichi il trasporto alla destinazione. Nel caso di imprese private a cui l’azienda agricola ha affidato il servizio di raccolta e stoccaggio dei propri rifiuti, è necessario il “formulario di identificazione” dal quale devono risultare almeno i seguenti dati: nome ed indirizzo del produttore e del detentore; origine, tipologia e quantità del rifiuto; impianto di destinazione; data e percorso dell’instradamento; nome ed indirizzo del destinatario. Una sorta di documento, che permette la “tracciabilità” del rifiuto. Detto formulario firmato in quattro copie, sia dal produttore dei rifiuti che dal trasportatore, e conservato da entrambi per 5 anni. Una copia del formulario deve rimanere presso il produttore o il detentore e le altre tre, controfirmate e datate in arrivo dal destinatario, sono acquisite una dal destinatario e due dal trasportatore, che provvede a trasmetterne una al detentore. L’imprenditore agricolo è sollevato da ogni responsabilità sui suoi rifiuti solo al ricevimento della quarta copia del formulario che deve essere compilata e firmata, oltre che dal trasportatore anche dal responsabile dell’impianto di smaltimento finale. Se entro 3 mesi non ha ricevuto questa copia, deve segnalarlo alla Provincia di appartenenza, pena sanzione amministrativa e rischio di accusa di complicità in eventuali smaltimenti illeciti. La legge 30 dicembre 2008, n. 205 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 3 novembre 2008, n. 171, recante misure urgenti per il rilancio competitivo del settore agro alimentare”, all’art. 4 quinquies rubricato “Semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese agricole” ha introdotto delle modifiche agli artt. 193 e 212, D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, con riferimento al trasporto dei rifiuti speciali non pericolosi prodotti da attività agricole. È previsto l’esonero dal formulario di identificazione e di iscrizione all’ANGA per i rifiuti speciali agricoli purché ricorrano tutte le seguenti condizioni nel trasporto: a) sia effettuato dal produttore di rifiuti in
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modo occasionale e saltuario; b) sia finalizzato al conferimento al gestore del servizio pubblico di raccolta con il quale sia stata stipulata una convenzione; c) il trasporto non ecceda 30 kg o 30 l. Ulteriori semplificazioni operative possono essere previste negli accordi e contratti di programma in materia di rifiuti, stipulati tra le amministrazioni pubbliche e i soggetti economici o le associazioni di categoria rappresentative dei settori interessati. 6.
Gli ulteriori obblighi dell’imprenditore agricolo: registro di carico, registro di scarico, il MUD
Mentre in passato gli imprenditori agricoli, a differenza degli imprenditori non agricoli, usufruivano di una serie di esenzioni poiché ex art. 6-ter, della legge 24 aprile del 1989, n. 144, per i “rifiuti derivanti dall’esercizio dell’impresa agricola sul fondo o relative pertinenze” per cui i primi non erano tenuti alla compilazione del registro di carico e scarico, del formulario di identificazione per il trasporto e dell’iscrizione all’Albo gestori per il trasporto di rifiuti pericolosi, la situazione sin dall’avvento del Decreto Ronchi è mutata. L’annotazione della tipologia e della quantità del rifiuto stoccato nel deposito temporaneo deve essere riportato sul “Registro di carico e scarico” entro 10 giorni. Le imprese che non producono più di 10 tonnellate di rifiuti non pericolosi all’anno e 2 tonnellate di pericolosi possono affidare la tenuta del Registro alle organizzazioni professionali. In questi casi l’imprenditore agricolo comunica all’organizzazione la produzione del rifiuto, conservando copia delle comunicazioni fatte per eventuali controlli. L’organizzazione a sua volta provvederà ad annotare la formazione del rifiuto sul registro entro 30 giorni. Tali registri, se di nuovo acquisto, vanno vidimati presso le Camere di Commercio competenti; in caso siano detenuti prima dell’entrata in vigore del D.lgs del 13 febbraio 2008, n. 4 e vidimate dall’Agenzia delle Entrate, è consigliabile contattare la Camera di Commercio competente per territorio, al fine di accertare l’interpretazione legislativa della norma citata. Ulteriore obbligo per l’imprenditore agricolo è il Mud (Modello Unico di Dichiarazione ambientale).
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Il Mud (Modello Unico di Dichiarazione ambientale) è un modello attraverso il quale devono essere denunciati i rifiuti prodotti dalle attività economiche, i rifiuti raccolti dal Comune e quelli smaltiti, avviati al recupero o trasportati nell’anno precedente la dichiarazione. Le aziende agricole che producono rifiuti pericolosi, e con un volume d’affari annuo superiore agli 8.000 euro, hanno l’obbligo di comunicare il Mud entro il 30 aprile di ogni anno, per via telematica o cartacea, alla Camera di Commercio. Ne sono esonerate, quindi, le aziende che non producono rifiuti pericolosi, quelle con un volume d’affari inferiore agli 8.000 euro e che hanno in essere un accordo/contratto di conferimento al gestore del servizio pubblico. Per coloro che disattendono quest’obbligo o compilino in modo incompleto o inesatto il Registro e/o il Mud, sono previste delle sanzioni pecuniarie. Le Camere di Commercio, su richiesta degli interessati, forniscono i modelli cartacei e/o su supporto magnetico (scaricabili anche tramite Internet). Se ne consiglia il ritiro annualmente poiché lo stesso è soggetto a modifiche. 7.
Il SISTRI (Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti)
Il 13 gennaio 2010 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il D.M. 17 dicembre 2009 “Istituzione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti, ai sensi dell’articolo 189 del D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 e dell’articolo 14-bis del Decreto legge n. 78/2009 convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102”. Il SISTRI (Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti)17 nasce nel 2009 su iniziativa del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare nel più ampio quadro di innovazione e modernizzazione della Pubblica Amministrazione per permettere l’informatizzazione dell’intera filiera dei rifiuti speciali a livello nazionale e dei rifiuti urbani per la Regione Campania ai fini del tracciamento. La gestione informatica degli adempimenS. Maglia, M.V. Balossi, Prime osservazioni al decreto Sistri (D.M. 17 dicembre 2009), in Amb. Svil., 2010, 2, p. 110; B. Albertazzi, Il nuovo SISTRI. Come cambiano i MUD, i registri e i formulari, Rimini, 2010, p. 34.
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ti ambientali prevista dal SISTRI assicura numerosi vantaggi agli Operatori. Infatti, consente un inserimento dei dati più rapido e garantisce una sensibile riduzione degli errori che vengono attualmente commessi nella compilazione cartacea del Formulario di Identificazione dei Rifiuti, del Registro di carico e scarico e del MUD. Agli utenti del SISTRI vengono consegnati: un dispositivo elettronico per l’accesso in sicurezza dalla propria postazione al sistema, definito dispositivo USB, idoneo a consentire la trasmissione dei dati, a firmare elettronicamente le informazioni fornite e a memorizzarle sul dispositivo stesso. Per i trasportatori sussiste un dispositivo elettronico da installarsi su ciascun veicolo che trasporta rifiuti, con la funzione di monitorare il percorso effettuato dal medesimo, definito black box e un dispositivo USB da utilizzarsi in modo congiunto; la consegna e l’installazione della black box avviene presso le officine autorizzate, il cui elenco è fornito contestualmente alla consegna del dispositivo USB e disponibile sul Portale SISTRI; apparecchiature di sorveglianza per monitorare l’ingresso e l’uscita degli automezzi dagli impianti di discarica, di incenerimento e dagli impianti di coincenerimento destinati esclusivamente al recupero energetico dei rifiuti e ricadenti nel campo di applicazione del decreto legislativo 11 maggio 2005, n. 133. Perché nasce il SISTRI ? Per garantire una maggiore azione di contrasto dei fenomeni di illegalità in primo luogo; per conoscere, in tempo reale, i dati relativi alla filiera dei rifiuti e per utilizzarli ai fini di specifici interventi repressivi; per semplificare le procedure attraverso la informatizzazione dei processi e l ’eliminazione di taluni adempimenti (Registro di carico/scarico, Formulario, MUD), con conseguente riduzione dei costi per le imprese. Tale sistema è nato sulla scia del sistema di controllo adottato in Campania durante l’emergenza, il cosiddetto Sitra, che ha mostrato evidenti lacune e problematiche di funzionamento. La gestione del SISTRI è stata affidata al Comando Carabinieri per la Tutela dell’Ambiente (NOE) che dovrà, altresì, garantire la messa a disposizione dei dati sulla produzione, movimentazione e gestione dei rifiuti. Dal sistema sarà, così, possibile ricavare i flussi di informazione che consentiranno di adempiere agli obblighi informativi previsti dalla normativa comunitaria. Il SISTRI18 sarà interconnesso telematicamente con: l’Ispra – 18
Aa.Vv, Manuale ambiente, Milano, 2010, p. 659; C. Bovino, Tracciabilità dei rifiuti: il SISTRI e la
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Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale – che fornirà, attraverso il Catasto Telematico, i dati sulla produzione e la gestione di rifiuti alle Agenzie Regionali e Provinciali di Protezione dell’Ambiente. Le Agenzie Regionali e Provinciali di Protezione dell’Ambiente, a loro volta, provvederanno a fornire i medesimi dati alle competenti Provincie. Il SISTRI sarà interconnesso anche con l’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali, tramite il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, in ordine ai dati relativi al trasporto dei rifiuti. L’articolo 1 del Decreto ministeriale individua: a) le categorie di soggetti tenuti a comunicare, secondo un ordine di gradualità temporale, le quantità e le caratteristiche qualitative dei rifiuti oggetto della loro attività attraverso il SISTRI, utilizzando i dispositivi elettronici indicati al successivo articolo 3; b) le categorie di soggetti esonerate da tale obbligo; c) le categorie di soggetti che possono aderire su base volontaria al SISTRI. Sono obbligati ad aderire le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti pericolosi; le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti non pericolosi di cui all’articolo 184, comma 3, lettere c), d) e g), del D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, con più di dieci dipendenti, lettera c) i rifiuti da lavorazioni industriali; lettera d) i rifiuti da lavorazioni artigianali; lettera g)i rifiuti derivanti dall’attività di recupero e smaltimento di rifiuti, i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti della acque e dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento dei fumi; i Comuni, gli Enti e le Imprese che gestiscono i rifiuti urbani nella territorio della Regione Campania; i commercianti e gli intermediari di rifiuti senza detenzione; i consorzi istituiti per il recupero e il riciclaggio di particolari tipologie di rifiuti che organizzano la gestione di tali rifiuti per conto dei consorziati; trasportatori professionali le imprese di cui all’art. 212, comma 5, del D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 che raccolgono e trasportano rifiuti speciali; il terminalista concessionario dell’area portuale e l ’impresa portuale ai quali sono affidati i rifiuti in attesa dell’imbarco o allo sbarco per il successivo trasporto; i responsabili degli uffici di gestione merci e gli operatori logistici presso le stazioni ferroviarie, gli interporti, gli impianti di terminalizzazione e gli scali merci ai quali sono affidati i rifiuti in attesa della presa in carico degli stessi da parte dell’impresa ferroviaria o dell’impresa che effettua il successivo trasporto; le imprese che raccolgono e fase transitoria, Milano, 2010, p. 1.
La gestione dei rifiuti agricoli
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trasportano i propri rifiuti pericolosi di cui all’art . 212, comma 8, del D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152; le imprese e gli enti che effettuano operazioni di recupero e smaltimento di rifiuti. In conclusione, questa riforma in chiave tecnologica dell’intero sistema dovrebbe permettere una riduzione drastica (addirittura del 50%) dei costi fino ad ora addebitati a MUD, Registro c/s e FIR. Ma una “rivoluzione” di questo genere, nonostante l’impegno di tutte le parti coinvolte, non poteva essere realizzata nel poco tempo originariamente indicato dal decreto istitutivo. E così, dopo una serie di proroghe di termini – fortemente volute dal mondo imprenditoriale – il SISTRI è divenuto operativo il 1° ottobre 2010 per tutti i soggetti obbligati ma solo per coloro che, avendo aderito, hanno anche ricevuto in consegna i dispositivi elettronici necessari per poterlo utilizzare. Pertanto, con un terzo correttivo SISTRI (il D.M. 28 settembre 2010, che ha seguito il D.M. 15 febbraio 2010 e il D.M. 9 luglio 2010) è stata estesa a tre mesi (1° ottobre-31 dicembre 2010) la fase transitoria a “doppio regime” (convivenza delle vecchie modalità “cartacee” di adempimento e impiego del SISTRI) durante la quale saranno applicate, nell’eventualità, le sole “vecchie” sanzioni previste per gli artt. 190 e 193 del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, Testo Unico Ambientale (TUA). In virtù di un’altra proroga, è stata anche spostata al 30 novembre 2010 la data prevista per il completamento della distribuzione dei dispositivi USB e l’installazione delle black box. Dopo innumerevoli sollecitazioni da parte di Confartigianato, il Ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, con il Decreto 22 dicembre 2010, ha sottoscritto una nuova proroga per l’entrata in operatività del Sistema Sistri estesa fino al 31 maggio 2011. Il decreto allunga pertanto il periodo transitorio – che originariamente era previsto dal 1° ottobre al 31 dicembre 2010 – fino al 31 maggio 2011 di ulteriori 5 mesi. Si ricorda che il periodo transitorio è caratterizzato dalla sussistenza del sistema cartaceo con il Sistema Sistri. Per quanto riguarda la dichiarazione MUD relativa al 2010, il decreto interviene abolendo la scadenza del 31 dicembre 2010 contenuta nell’art. 12, comma 1, del DM 17 febbraio 2009 che prescriveva l’obbligo d’invio di una comunicazione semplificata (“mini-MUD”). In sua vece viene disposto l’obbligo di comunicazione entro il 30 aprile 2011. Le informazioni relative ai rifiuti prodotti e smaltiti nell’arco del 2011 e gestite con modalità cartacea
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Roberto Francesco Iannone
prima della attivazione del Sistri dovranno essere comunicate entro il 31 dicembre 2011. Non sono ancora state fissate le modalità tecniche di comunicazione. Tuttavia, a seguito di recenti incontri intercorsi con le Organizzazioni imprenditoriali, il Ministero dell’Ambiente ha dichiarato di ritenere praticabile l’ipotesi di una dichiarazione, denominata “Scheda SISTRI”, individuando, per ciò che attiene alle informazioni richieste, lo schema MUD del 2002. La modalità d’invio della dichiarazione sarà, tuttavia, solamente telematica, tramite accesso Web al portale SISTRI.
Sezione iI
gestione
Gennaro Brunetti, Nicola Senesi
Reflui urbani di depurazione: qualità agronomica e interazione con il suolo Sommario: 1. Introduzione; 2. Composizione dei reflui urbani; 3. Interazioni tra reflui urbani e suolo; 3.1. Proprietà fisiche del suolo; 3.2. Salinità e sodicità; 3.3. Gli elementi nutritivi; 3.3.1. Azoto; 3.3.2. Fosforo; 3.3.3. Potassio; 3.4. Elementi traccia; 3.5. Composti organici naturali e di sintesi; 3.6. Patogeni; 4. Conclusioni.
1. Introduzione Le acque reflue più comunemente usate in agricoltura come fertirriganti sono costituite per la maggior parte dai reflui urbani, dagli effluenti di industrie agro-alimentari ed altre industrie e dai reflui zootecnici, depurati a vari livelli tramite una serie di trattamenti in successione. L’applicazione al suolo adibito ad uso agricolo dei reflui provenienti da impianti urbani di depurazione rappresenta un efficace metodo di recupero di una preziosa fonte di acqua e di elementi nutritivi, utili per le colture. Inoltre, tale opzione di smaltimento evita i potenziali rischi per la salute umana e per l’ambiente globale connessi al loro sversamento diretto nei corsi d’acqua. In condizioni climatiche aride e semi-aride, tipiche degli ambienti mediterranei, in cui la disponibilità di acqua per l’irrigazione rappresenta un prerequisito essenziale per lo sviluppo dell’agricoltura, l’opportunità di usare il refluo per l’irrigazione assume un’importanza pari alla necessità del loro smaltimento. In tali condizioni inoltre le limitate fonti di acqua di elevata qualità sono rese maggiormente disponibili per altri usi. Le acque reflue differiscono dalle comuni acque naturali usate per l’irrigazione per la presenza di elementi fitonutritivi quali azoto, fosforo e potassio e di sostanze organiche più o meno biodegradabili e/o fitotossiche, per il maggior contenuto in sali inorganici solubili, soprattutto cloruri e bicarbonati di sodio, ed elementi traccia fitonutritivi e/o fitotossici, nonché per la possibile presenza di microorganismi patogeni, quali batteri, virus e parassiti in varie
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Gennaro Brunetti, Nicola Senesi
concentrazioni. La specifica composizione del refluo assume pertanto particolare importanza ai fini della sua destinazione per l’irrigazione. Un corretto utilizzo agronomico dei reflui deve tenere conto di molteplici fattori. Il rischio connesso a distribuzioni inopportune non è solo quello della perdita di elementi nutritivi, ma anche di rilascio di sostanze inquinanti nel suolo, nell’atmosfera e nelle acque. Dal punto di vista agronomico, ci sono vari aspetti che concorrono a rendere particolarmente importante una corretta distribuzione dei reflui negli attuali ordinamenti agricoli. Il suolo è il recapito principale e preferito dei reflui civili, agricoli e dell’industria agro-alimentare sia per esigenze irrigue che per necessità di smaltimento. Il suolo, in quanto sistema fisicamente, chimicamente e biologicamente attivo, possiede la riconosciuta e convalidata proprietà di agire quale “filtro” dinamico, o “vivente”, nei confronti del refluo applicato, grazie alla molteplicità delle azioni fisiche, chimiche e biologiche che può esercitare. Pertanto, più che di effetti del refluo sul suolo, ovvero del suolo sul refluo, appare opportuno considerare il tipo e l’entità delle interazioni che vengono ad instaurarsi, in maniera dinamica, tra il suolo ed il refluo. Tali interazioni dipenderanno, ovviamente, sia dalla composizione e dalla quantità di refluo applicato, che dalle specifiche proprietà fisiche, chimiche e biologiche del suolo considerato. Sulla base delle precedenti considerazioni, saranno dapprima presi brevemente in esame i principali parametri fisici, chimici e biologici che caratterizzano i reflui, limitatamente a quelli di origine urbana per i quali è possibile fare delle generalizzazioni. I reflui di industrie agro-alimentari e gli effluenti zootecnici più tipicizzati e quindi soggetti a trattazioni più specifiche, non saranno presi in considerazione in questo testo. Nella seconda parte, si tratterà poi più diffusamente delle molteplici e specifiche interazioni che possono aver luogo tra il refluo ed il suolo, con accenni anche agli effetti sulle colture agrarie e sulle acque superficiali e profonde. 2.
Composizione dei reflui urbani
La composizione e le caratteristiche chimiche dei reflui urbani variano al variare della natura e della fonte di acqua usata originariamente, del siste-
Reflui urbani di depurazione
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ma fognario, della stagione, della natura degli eventuali scarichi industriali che pervengono nelle fognature urbane ed, ovviamente, dei trattamenti a cui il refluo grezzo è stato sottoposto. I processi di trattamento dei reflui urbani sono classificati convenzionalmente in primari, secondari, terziari e quaternari (Shuval 1977). Più spinto è il livello di trattamento, più elevata è la qualità dell’effluente che ne risulta e, quindi, il suo valore d’uso. I trattamenti primari consistono generalmente in processi di grigliatura e dissabbiatura, deoleazione e sgrassatura, sedimentazione e flottazione, che consentono la rimozione dei solidi organici ed inorganici grossolani e delle sostanze grasse ed oleose presenti nel refluo grezzo. I trattamenti secondari consistono essenzialmente in processi di decomposizione biologica, aerobica e/o anaerobica, delle sostanze organiche complesse presenti e di igienizzazione del refluo, attraverso filtrazione, lagunaggio e sedimentazione secondarie, uso di fanghi attivi, ecc. I trattamenti terziari impiegano processi quali clorurazione, microvagliature, microfiltrazione, coagulazione, precipitazione ed uso di carboni attivi adsorbenti, consentendo così l’ulteriore rimozione delle particelle sospese più sottili, dei nutrienti e dei fattori di eutrofizzazione, l’ulteriore abbassamento del BOD e della torbidità, nonché l’eliminazione completa dei patogeni residui. I trattamenti quaternari hanno, infine, l’obiettivo di portare l’effluente a livello di acqua potabile, attraverso l’impiego di tecniche più sofisticate, quali l’ultrafiltrazione, lo scambio ionico, l’osmosi inversa, l’elettrodialisi o la distillazione. Il livello di trattamento richiesto dipende, ovviamente, dal tipo di uso che dell’effluente si vuole fare, nonché dalle leggi vigenti in materia di smaltimento di acque reflue. Nel caso dell’uso in agricoltura per l’irrigazione del suolo a coltura, l’effluente da trattamento secondario può generalmente considerarsi accettabile. I reflui urbani depurati contengono in genere circa il 99.9% di acqua e lo 0.1% di materiali organici ed inorganici. In tabella 1 sono riferiti gli intervalli di concentrazione dei principali componenti comunemente riscontrati nei reflui urbani, sia allo stato grezzo che sottoposti ai comuni trattamenti di depurazione secondaria (Feigin et al. 1991; Pettygrove e Asano 1985). I costituenti e le proprietà più importanti degli effluenti in relazione alle loro interazioni con il suolo, le colture e le acque superficiali e profonde comprendono: la salinità, la sodicità, gli elementi nutritivi ed in traccia, le sostanze
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Gennaro Brunetti, Nicola Senesi
organiche di origine naturale e sintetica, i solidi sospesi ed i microorganismi patogeni. I rischi legati alla salinità ed alla sodicità del refluo vengono in genere valutati attraverso la misura della concentrazione totale dei sali in conducibilità elettrica (ECw), del cosiddetto “rapporto di adsorbimento del sodio” (SAR o RNa corretti), nonché dalla concentrazione di alcuni ioni specifici, quali i cloruri, i bicarbonati ed i carbonati, il sodio, il calcio ed il magnesio (Feigin et al. 1991; Pettygrove e Asano 1985). I reflui urbani contengono in genere una concentrazione di sali superiore a quella dell’acqua originaria, in quanto essi sono introdotti dalle attività domestiche ed industriali e non vengono rimossi dai comuni trattamenti primari e secondari. Nonostante le quantità assolute di sali presenti non siano in genere elevate (Tabella 1), esse possono a volte causare un aumento della salinità della fase liquida del suolo e creare problemi per le colture sensibili o poco tolleranti alla salinità. In particolare, il livello di cloruri può risultare elevato nei reflui contenenti effluenti di industrie alimentari che spesso usano grandi quantità di sali nei loro processi. Ciò nonostante, il tipico intervallo di concentrazione di cloruri riscontrato negli effluenti secondari (Tabella 1) è al di sotto dei livelli di rischio per la maggior parte delle colture di interesse agrario. Rischi comunque possono insorgere per le colture sensibili (tabacco, fragola, agrumi, pesco, patata, lattuga, ecc.) e per la qualità delle acque sotterranee (Accademia Nazionale dell’Agricoltura 1991). La determinazione dei livelli di sodio (sodicità) nel refluo è di particolare importanza a causa del notevole impatto di questo elemento sulle proprietà del suolo e sulla produzione agraria in generale. Elevati livelli di sodio possono causare degradazione fisica del suolo a causa della dispersione dei colloidi argillosi e conseguente perdita della struttura del suolo con diminuzioni sensibili della permeabilità. Inoltre, concentrazione di sodio elevate possono determinare una reazione alcalina del suolo ed esercitare una tossicità diretta su alcune piante. Altrettanto importanti sono le valutazioni degli ioni bicarbonato e carbonato che possono aumentare il rischio da sodio del refluo, causando la precipitazione del carbonato di calcio nel suolo. I livelli di calcio e magnesio riscontrati nei reflui sono generalmente simili a quelli delle acque naturali. La presenza di tali ioni nel refluo riduce i rischi da sodio, migliorandone la qualità per l’uso irriguo, oltre a risultare vantaggiosa sotto l’aspetto nutritivo.
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Reflui urbani di depurazione
Tabella 1. Intervalli di concentrazione dei principali costituenti di reflui urbani grezzi ovvero sottoposti ai comuni trattamenti di depurazione secondaria (Feigin et al. 1991; Pettygrove e Asano 1985). Costituenti
Solidi totali
Solidi sospesi
Solidi disciolti BOD5 COD pH
Azoto totale
Azoto ammoniacale Azoto nitrico
Azoto organico Fosforo totale Potassio
Intervalli di concentrazione (mg/l)
Reflui grezzi
Effluenti secondari
350-100
100-10
1300-200
1000-200
1100-400
1000-250
160-30
85-20
50-10
350-100 8.0-7.0 50-10 1.5-0
10-0
40-10
460-10
Grassi e oli
40-1
25-5
36-4
Sodio SAR
8.1-7.8
------
650-10
Calcio + Magnesio
80-10
35-5
Cloruri
Alcalinità (CaCO3 )
1200-400
17-6
200-40
400-50
700-200
150-25
170-30
------
150-35
250-50
7.9-4.5 ------
Tra i macronutritivi più importanti presenti nei reflui, e che ne aumentano il valore per l’uso irriguo, sono da considerarsi l’azoto, il fosforo ed il potassio. L’azoto risulta presente nei reflui secondari in tre diverse forme che sono, in ordine di importanza: ammoniacale, organico e nitrico (Tabella 1). L’azoto ammoniacale rappresenta spesso l’80% dell’azoto totale ed il nitrico in genere non supera il 7% nei reflui secondari, nei quali l’azoto nitroso
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Gennaro Brunetti, Nicola Senesi
risulta presente in tracce. Date le sue importanti proprietà come elemento macronutritivo da un lato, e come potenziale inquinante delle acque superficiali e sotterranee, dall’altro, la valutazione della concentrazione e delle forme di azoto nei reflui per uso irriguo è essenziale. Il fosforo è sempre presente nei reflui secondari in varie forme organiche e come fosfati inorganici (pirometa- e polifosfati e ortofosfati) (Tabella 1). Le forme organiche di fosforo hanno origine biologica, mentre i fosfati condensati derivano da immissioni di prodotti chimici, quali i detergenti, negli effluenti urbani. Il fosforo organico ed i fosfati condensati possono in parte trasformarsi in ortofosfati durante i trattamenti del refluo ovvero dopo l’arrivo nel suolo. Le quantità di azoto e fosforo aggiunte al suolo attraverso l’applicazione dei reflui urbani sono spesso di considerevole entità, tali da raggiungere in alcuni casi valori simili ai livelli standard di fertilizzazione azotata e fosfatica. Anche il potassio aggiunto tramite il refluo può raggiungere quantità ragguardevoli e tali da consentire la riduzione delle fertilizzazioni potassiche. La valutazione della quantità di materiali organici presenti nei reflui si esegue in genere attraverso metodi empirici basati sugli indici: (a) BOD (biochemical oxygen demand), che rappresenta la quantità di ossigeno richiesta per la degradazione microbiologica delle sostanze organiche nel refluo a 20 °C; e (b) COD (chemical oxygen demand), che rappresenta la quantità di ossigeno necessaria per ossidare la sostanza organica presente col metodo chimico del bicromato. Il test di BOD standard effettuato in laboratorio per un periodo di 5 giorni è denominato BOD5 e rappresenta il 70-80% del BOD totale (Idelovich e Michail 1981). I materiali organici biodegradabili presenti nei reflui sono costituiti, in massima parte, da proteine, carboidrati e grassi che in seguito alla loro biodecomposizione possono causare una diminuzione dell’ossigeno presente nel sistema e quindi l’instaurarsi di condizioni anaerobiche. Il valore del COD è generalmente più elevato di quello del BOD5. Ciò indica la presenza di sostanze organiche persistenti, ovvero scarsamente o per nulla biodegradabili, e di composti riducenti, quali solfiti, solfuri, nitriti e ferro ferroso. Il trattamento secondario del refluo riduce notevolmente il livello delle sostanze organiche presenti, abbassando sensibilmente i valori di BOD e COD (Tabella 1). Le sostanze organiche residue sono presenti per la maggior parte sotto forma di composti solubili e per il resto in forma di sospensioni sottili e/o grossolane. Mentre le sostanze organiche di origi-
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Reflui urbani di depurazione
ne biologica aggiunte al suolo col refluo possono avere effetti positivi sulle proprietà e fertilità del suolo, le sostanze organiche di sintesi presenti in traccia negli effluenti secondari (Tabella 2) possono rappresentare dei notevoli fattori di rischio di contaminazione per il suolo e per le acque superficiali e sotterranee e di tossicità per le colture. Questi composti organici di sintesi, che comprendono acidi e basi organiche, idrocarburi aromatici polinucleari, fenoli, esteri ftalici, alogenuri alifatici, ecc., sono spesso introdotti nei reflui urbani da scarichi industriali non depurati e non sono biologicamente eliminabili nè con i comuni trattamenti delle acque reflue, nè nel suolo. La loro identificazione e valutazione nei reflui da usare in agricoltura risulta pertanto di estrema importanza ed è sempre consigliata. Tabella 2. Intervalli di concentrazione di alcune classi di contaminanti organici riscontrabili comunemente negli effluenti secondari (Overcash 1983). Classe Alogenuri alifatici Aromatici sostituiti Esteri ftalici Aromatici polinucleari
Intervallo di concentrazione (mg/l) 0.16-48 0.21-18 0.21-21 0.16-0.68
Nella Tabella 3 sono presentati i valori tipici di numerosi elementi traccia riscontrati sia nei reflui grezzi che negli effluenti secondari. La presenza di tali elementi e la loro quantità nell’effluente secondario dipende dalla natura e dalla composizione del refluo grezzo e dai metodi di trattamento usati. Ad esempio, il boro è immesso nei reflui attraverso scarichi contenenti detergenti e saponi e risulta tossico per molte piante a valori relativamente bassi (> 0.5 mg/l). Piante tolleranti a concentrazioni più elevate di boro sono, ad esempio, il cotone e l’asparago. In genere, il trattamento secondario riduce il contenuto di elementi traccia nel refluo attraverso la sedimentazione dei solidi sospesi. I valori riferiti in Tabella 3 indicano che in genere i contenuti di elementi traccia potenzialmente inquinanti per il suolo e per le acque superficiali e sotterranee e/o fitotossici sono al di sotto delle soglie di rischio e che tali effluenti possono essere applicati al suolo anche per tempi lunghi senza incorrere in ri-
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schi da inquinamento. La presenza e la quantità di tali elementi va comunque sempre tenuta sotto controllo nel refluo da usare per l’irrigazione, ad evitare che fenomeni di accumulo nel suolo possano indurre fenomeni di fitotossicità ovvero trasferimento nei corsi d’acqua. Tabella 3. Intervalli di concentrazione (mg/l) di elementi traccia negli effluenti urbani grezzi e secondari e livelli massimi consentiti nelle acque di irrigazione (Chang e Page 1983; Page e Chang 1985). Elemento
Refluo grezzo
effluente secondario
Livelli massimi permessia lungo termine
breve termineb
Arsenico
<0.0003-1.9
<0.005-0.023
0.1
10
Boro
<0.123-20.0
<0.1-2.5
0.75
2.0
Cadmio
<0.0012-2.1
<0.005-0.15
0.01
0.05
Cromo
<0.0008-83.3
<0.005-1.2
0.1
20.0
Mercurio
<0.0001-3.0
<0.0002-0.001
----
----
Molibdeno
<0.0011-0.9
0.001-0.0018
0.01
0.05
Nichel
0.002-111.4
0.003-0.6
0.2
2.0
Piombo
0.001-11.6
0.003-0.35
5.0
20.0
Rame
<0.0001-36.5
<0.006-1.3
0.20
5.0
Selenio
<0.002-10.0
<0.005-0.02
0.02
0.05
Zinco
<0.001-28.7
0.004-1.2
2.0
10.0
a) I valori dei livelli massimi permessi sono riferiti a una dose di applicazione del refluo pari a 1200 mm/anno. b) Valori da usare su suolo a tessitura fine.
La eccessiva presenza di solidi in sospensione negli effluenti secondari (Tabella 1) può creare problemi per il suolo, occludendone i pori, soprattutto
Reflui urbani di depurazione
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nella zona superficiale, causando così una riduzione della velocità di infiltrazione dell’acqua e della conducibilità idraulica, nonché dell’aerazione. I trattamenti di depurazione primario e secondario dovrebbero comunque assicurare un abbattimento del livello dei solidi sospesi a valori tali da non creare problemi per il suolo. I reflui grezzi contengono molti microorganismi patogeni, quali batteri, virus e parassiti, che vengono in genere eliminati durante i processi di trattamento biologico e di igienizzazione dell’effluente, che rimuovono quasi del tutto anche le sostanze grasse ed oleose presenti. 3. Interazioni tra reflui urbani e suolo La valutazione delle caratteristiche dei suoli è finalizzata all’obiettivo di contribuire alla definizione delle dosi, delle epoche di spandimento e delle tecniche agronomiche complementari, in grado di conseguire i livelli desiderati di efficienza agronomica dei reflui. La valutazione dei siti destinati all’utilizzo agricolo dei reflui deve essere mirata a comprendere l’influenza che le condizioni litologiche, morfologiche e di drenaggio superficiale possono avere sul trasporto dei nutrienti generati dal processo di degradazione. Infatti, l’efficienza depurativa del sistema suolo-pianta, è controllata da un elevato numero di variabili ambientali, legate al clima, alla morfologia del terreno, alle caratteristiche pedologiche, al tipo di copertura vegetale, alle proprietà idrauliche di superficie e di profondità. Ne consegue che porzioni diverse del territorio possono caratterizzarsi per il fatto di avere una differente attitudine a ricevere i reflui. A riguardo alcune regioni, da parecchi anni, si stanno dotando di utili cartografie indicanti informazioni sui suoli e le loro attitudini ai diversi usi. Il comportamento idrologico del suolo, inoltre, influenza l’infiltrabilità ed il ruscellamento dei liquami. La condizione in cui si trova il terreno è fondamentale nella valutazione della possibilità di spandimento da parte del refluo. Il suolo esercita tutta una serie di effetti nei confronti del refluo che ad esso perviene, grazie alla sua intrinseca natura di sistema poroso, dinamico ed attivo sia sotto l’aspetto fisico, che chimico e microbiologico. Tuttavia il suolo subisce l’azione dello stesso refluo che può, in misura più o meno estesa,
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influenzarne e modificarne, vantaggiosamente o svantaggiosamente, numerose proprietà e funzioni fisiche, chimiche e biologiche di estrema importanza sia per la fertilità e per la produzione vegetale, che in relazione a potenziali fenomeni di inquinamento, di fitotossicità e di contaminazione delle acque superficiali e profonde. L’apporto di effluenti al suolo ha come effetto immediato quello di interagire e modificare, sia sotto l’aspetto stechiometrico e quali-quantitativo che termodinamico e cinetico, tutta una serie di complesse reazioni ed equilibri fisici, chimici, fisico-chimici e biologici. Mentre i costituenti solidi più grossolani del suolo, quali la sabbia e il limo, essendo poco o per nulla reattivi chimicamente e biologicamente, interagiscono col refluo secondo azioni di tipo prevalentemente fisico-meccanico, le frazioni più sottili, quali i minerali argillosi e la sostanza organica, sono coinvolte in misura di gran lunga maggiore nelle interazioni col refluo, determinandone in misura prevalente la sua stessa accettabilità per il suolo. Le principali proprietà del suolo implicate nelle interazioni con le acque reflue sono: la tessitura e la struttura, la porosità, la velocità di infiltrazione, la permeabilità o conducibilità idraulica, il tipo di minerali argillosi, la capacità di scambio cationico, il pH e il potenziale redox, il contenuto e la natura della sostanza organica, il livello dell’attività microbica, la composizione della fase liquida e del complesso di scambio, il contenuto in elementi nutritivi e in calcare. 3.1. Proprietà fisiche del suolo Le proprietà fisiche del suolo, quali la tessitura (o composizione granulometrica), la struttura (tipo, stabilità) e la porosità sono decisive nel determinare i valori di parametri chiave quali la velocità di infiltrazione, la permeabilità e la conducibilità idraulica. Tali parametri, a loro volta, determineranno i tempi di permanenza e la mobilità del refluo nel suolo, e quindi influenzeranno indirettamente la tipologia e l’entità delle reazioni chimiche e biologiche che potranno avere luogo tra i componenti del refluo ed il suolo.
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Reflui urbani di depurazione
Tabella 4. Tipici valori della velocità di infiltrazione (mm/ora) in vari tipi di suoli (Feigin et al. 1991). Tipi di suolo
Velocità di infiltrazione
Sabbioso-argilloso
15 - 10
Limoso-argilloso
10 - 6.5
argilloso
7.5 - 2
Sabbioso
>20
La velocità di infiltrazione del refluo nel suolo dipende sia dalla tessitura (Tabella 4) che dalla struttura, nonché dal contenuto iniziale di acqua nel suolo e dalle dosi di applicazioni del refluo. L’esistenza di una struttura instabile nel suolo può provocare la formazione di croste con notevoli riduzioni della velocità di infiltrazione. Allorché la velocità di infiltrazione risulta minore della dose di applicazione, si potrà verificare ristagno o ruscellamento del refluo sul suolo. La conducibilità idraulica, ovvero la permeabilità del suolo (Tabella 5), dipende prevalentemente dalla tessitura, con valori elevati per terreni sabbiosi e bassi per terreni argillosi. Nei suoli caratterizzati da bassi valori di conducibilità idraulica, gli eccessivi tempi di persistenza (ristagno) del refluo nel suolo creeranno condizioni di anaerobiosi con gravi ripercussioni su tutte le proprietà chimiche e biologiche del suolo e sulle sue funzioni di fertilità. Suoli con classe di permeabilità moderata e rapida assicureranno invece tempi di persistenza adeguati all’instaurarsi delle interazioni tra componenti del refluo, suolo e pianta. Infine, i valori di conducibilità idraulica molto elevati determineranno tempi di ritenzione troppo brevi acché le interazioni possano aver luogo con rischi di contaminazione per le acque sotterranee.
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Tabella 5. Classi di permeabilità e conducibilità idraulica del suolo. Classe di permeabilità Estremamente lenta
Conducibilità idraulica (cm/ora) <0.003
Molto lenta
0.003-0.025
Lenta
0.025-0.25
Moderata
0.25-2.5
Rapida
2.5-25.4
Molto rapida
>25.4
3.2. Salinità e sodicità Gli effetti sul sistema suolo-pianta dovuti alla salinità ed alla sodicità dei reflui usati per l’irrigazione sono simili a quelli provocati dalle comuni acque di irrigazione. Simili pertanto sono in entrambi i casi anche le procedure di controllo di qualità, la valutazione dei rischi e le limitazioni d’uso collegati a questi due parametri (Sequi 2005; Pettygrove e Asano 1991). L’aumento della salinità nella fase liquida del suolo, in seguito all’introduzione dei sali presenti nell’effluente usato per l’irrigazione, può determinare tre possibili effetti sul sistema suolo-pianta: (a) effetto “osmotico” sulle piante, che dipende dalla concentrazione totale di sali dissolta nella fase liquida del suolo; (b) un effetto negativo sulle condizioni fisiche del suolo, nel caso di elevata concentrazione in sodio e bassa salinità totale; e (c) effetti di tossicità da ioni specifici, che possono essere causati da elevate concentrazioni di specifici ioni. L’effetto “osmotico” sulle colture consiste nel maggiore lavoro che la pianta deve compiere per adattare la concentrazione salina nei suoi tessuti (adattamento osmotico), soprattutto nell’apparato radicale, a quella esterna, al fine di poter assumere l’acqua necessaria dalla fase liquida del suolo. Ciò provoca un abbassamento dell’energia disponibile per la crescita generale e lo sviluppo equilibrato della pianta, con ripercussioni negative sulla produzione, allorché si supera il valore soglia di salinità (espresso come conducibi-
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lità elettrica, ECe, nella fase liquida del suolo), caratteristico per ogni specie vegetale. Le diverse piante di interesse agrario hanno valori di tolleranza alla salinità molto diversi, variando dalle più sensibili alle più tolleranti (Feigin et al. 1991; Pettygrove e Asano 1985; Sequi 1989). Altri parametri che influenzano la risposta della pianta alla salinità sono i fattori climatici, quali la temperatura e l’umidità, la stagione, l’età, lo stadio vegetativo e le condizioni generali di fertilità del suolo. I danni da salinità sono in genere più gravi nei climi molto caldi e secchi, soprattutto per le specie più sensibili. L’accumulo dei sali nella fase liquida del suolo dipende non solo dalla quantità di sali che ad esso pervengono dal refluo, ma anche dalla frazione di sali rimossa dal suolo per lisciviazione e allontanata tramite un drenaggio adeguato. Pertanto, l’applicazione di una quantità di refluo superiore a quella che può essere trattenuta dal suolo ed utilizzata dalla pianta assicura la rimozione di una certa quantità di sali per lisciviazione, evitandone l’accumulo oltre certi limiti prefissati nella fase liquida del suolo. Usando quindi una determinata frazione di lisciviazione, la salinità della fase liquida del suolo raggiungerà, dopo un certo tempo, un valore di equilibrio che si manterrà abbastanza costante nel tempo. È stato valutato che, per frazioni di lisciviazioni intorno a 0.15-0.20, l’uso dei reflui con ECw < 0.7 mmho/cm (o dS/m ), non dovrebbe in nessun caso dar luogo a problemi di salinità, mentre per reflui con ECw tra 0.7 e 3.0 mmho/cm (salinità da leggera a moderata) sono prevedibili limitazioni d’uso, ovvero particolari pratiche di gestione. Infine, reflui con ECw > 3.0 mmho/cm sono soggeti a limitazioni d’uso ed attenta gestione per il controllo della salinità nel suolo. Un drenaggio adeguato è comunque sempre richiesto nell’uso a lungo termine di acque reflue per l’irrigazione. L’elevata concentrazione di sodio nell’effluente esercita effetti negativi sulle proprietà fisiche del suolo, in particolare ne deteriora la struttura, ne riduce la porosità, la velocità di infiltrazione, la permeabilità, e l’aerazione. L’insediamento di quantità eccessive di ioni sodio sul complesso di scambio del suolo (percentuale di sodio di scambio, ESP > 15%) determina la dilatazione del doppio strato elettrico, con conseguente rigonfiamento e dispersione delle argille, perdita della struttura e diminuzione della permeabilità del suolo all’acqua ed all’aria. Tali effetti sono causati da elevati valori del sodio e bassi valori della salinità (calcio più magnesio). Valori di salinità elevata riducono in parte gli effetti negativi dovuti ad un valore elevato del sodio, mentre
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quando la fase liquida del suolo si diluisce, per intensa lisciviazione o forti piogge, esso diventa più sensibile all’effetto disperdente causato dal sodio, con formazione di croste e conseguenti fenomeni di ristagno, ruscellamento o erosione. L’effetto del sodio è influenzato, oltre che dal calcio e magnesio, dalla presenza di carbonati e bicarbonati e dalla concentrazione di CO2, che tendono a precipitare ovvero a dissolvere il calcio. Al fine di valutare e prevedere correttamente i potenziali problemi di permeabilità per il suolo è opportuno pertanto usare congiuntamente il valore dell’ECw e del rapporto di adsorbimento del sodio (SAR), possibilmente corretto (adj RNa), cioè tenendo in conto i fenomeni appena descritti (fig. 1) (Pettygrove e Asano 1985; Feigin et al. 1991; Sequi 1989). La natura dei minerali argillosi presenti nel suolo esercita un ruolo importante sugli effetti di dispersione provocati dal sodio. La montmorillonite è il minerale più dilatabile e pertanto più sensibile agli effetti negativi del sodio, mentre l’illite è moderatamente sensibile e la caolinite la meno sensibile a tali fenomeni. Gli effetti dovuti alla sodicità del refluo, in particolare la formazione di croste e la riduzione della velocità di infiltrazione risultano poi particolarmente marcati nei terreni limosi. Problemi di fitotossicità dovuti alla presenza di ioni specifici spesso accompagnano e complicano i problemi dovuti all’eccessiva salinità e/o sodicità del refluo. Sotto questo aspetto gli ioni di maggior rilievo sono il sodio ed i cloruri. Le specie di interesse agrario presentano diverse soglie di tossicità per questi ioni, risultando più o meno tolleranti o sensibili. Particolarmente sensibili ai cloruri ed al sodio, per le turbe nutrizionali causate dall’eccessiva assimilazione di questi ioni relativamente ai nitrati ed al calcio e potassio, sono le specie legnose, quali gli agrumi e l’avocado, mentre molto più tolleranti risultano gli ortaggi e le specie da granella, da foraggio e da fibra (Pettygrove e Asano 1985). Gli effetti di tossicità dovuti al sodio ed ai cloruri dipendono anche dai sistemi di irrigazione usati, risultando in genere accentuati in condizioni climatiche di elevata temperatura e bassa umidità, per cui l’irrigazione notturna in questi casi riduce notevolmente i rischi di tossicità. Nonostante il boro sia un micronutritivo essenziale, effetti di fitotossicità compaiono per concentrazioni nel refluo al di sopra di 0.5-1.0 mg/l. Il boro viene fortemente adsorbito nei terreni ricchi di argilla, che ne abbassa l’attività in soluzione e quindi lo rende meno disponibile per le piante. Nei
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terreni argillosi pertanto la fitotossicità da boro risulta fortemente limitata. In tali terreni comunque il boro è estremamente difficile da rimuovere e può accumularsi in notevoli quantità. 3.3. Gli elementi nutritivi Gli elementi nutritivi presenti negli effluenti secondari apportati al suolo ne accrescono la fertilità a vantaggio della produzione vegetale. In alcuni casi, comunque, le quantità apportate risultano eccessive per le necessità delle colture e possono causare problemi, stimolando un eccessivo sviluppo vegetativo, dilazionando la maturazione, o riducendo la qualità del prodotto (Pettygrove e Asano 1985). È consigliabile pertanto effettuare controlli periodici del refluo usato per valutarne la quantità di nutrienti, che in ogni
Figura 1. Curve della salinità e del rapporto di adsorbimento del sodio (SAR) indicanti combinazioni
di SAR e di conducibilità elettrica in grado di promuovere condizioni di permeabilità favorevoli o sfavorevoli nel suolo.
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caso vanno considerati come parte della dose di fertilizzanti programmata. I nutrienti presenti nei reflui in quantità importanti per l’agricoltura sono soprattutto l’azoto ed il fosforo, ed occasionalmente il potassio. 3.3.1. Azoto L’irrigazione con effluenti secondari apporta al suolo considerevoli quantità di azoto, influenzandone la disponibilità, l’assunzione da parte delle colture, la lisciviazione al di sotto del livello delle radici e le perdite per volatilizzazione. Nello strato superficiale dei comuni terreni, l’azoto è presente prevalentemente (circa 90%) in forme organiche, mentre il resto si trova come ione ammonio, legato ai minerali argillosi in forme non-scambiabili e scambiabili, e come ione nitrato solubile. Le varie forme di azoto presenti nel terreno fanno parte di un ciclo dinamico, di cui diviene parte integrante l’azoto del refluo, prevalentemente sotto forma di ione ammonio, non appena esso è applicato al suolo. Le quantità di azoto apportate al suolo dai reflui di irrigazione possono raggiungere valori simili o addirittura superiori a quelle applicate con le fertilizzazioni azotate standard (Feigin et al. 1991). Valori eccessivi di azoto nel suolo, determinati dall’apporto del refluo possono avere effetti positivi negli stadi iniziali della crescita, ma negativi alla maturazione. In alcuni casi l’eccesso di azoto causa riduzione della resa e della qualità dei fruttiferi, ritardo della maturazione nel cotone, riduzione del contenuto in zuccheri della barbabietola da zucchero e in amido della patata (Page et al. 1983; Bower and Chaney 1974). I principali fenomeni cui può soggiacere l’azoto apportato dal refluo nel suolo sono l’adsorbimento in forme scambiabili da parte del complesso di scambio, la mineralizzazione-immobilizzazione e la nitrificazione-denitrificazione, con assunzione da parte delle piante, ovvero perdita per ruscellamento o lisciviazione o volatilizzazione. L’azoto organico è soggetto nel suolo alla decomposizione microbica in forme inorganiche semplici e disponibili per la nutrizione vegetale, quali gli ioni ammonio e nitrato. I responsabili dei processi di mineralizzazione sono i microorganismi eterotrofi che usano i composti organici che contengono azoto come sorgente di energia. Poiché il rapporto C/N nella sostanza organica degli effluenti secondari è generalmente intorno a 5, questi materiali risultano
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facilmente decomponibili nel suolo e l’effetto dell’irrigazione con gli effluenti risulta simile a quella della fertilizzazione. Le forme inorganiche di azoto (prevalentemente NH4+ e NO3-) che pervengono al suolo attraverso l’irrigazione col refluo, ovvero sono prodotte dalla mineralizzazione dell’azoto organico, oltre a poter essere direttamente assunte dalle piante superiori, possono essere soggette a fenomeni di temporanea immobilizzazione per assimilazione da parte dei microorganismi del suolo. La velocità relativa dei fenomeni di mineralizzazione ed immobilizzazione dipende dalla quantità e dalla natura della sostanza organica apportata col refluo e presente nel suolo, dal livello dell’azoto inorganico e dalle condizioni e proprietà del suolo, quali umidità, aerazione, temperatura e pH. Gli ioni ammonio sono prevalentemente adsorbiti in forme scambiabili dal suolo, ma possono subire anche fenomeni di fissazione in forme non scambiabili da parte di certi tipi di minerali argillosi, quali le illiti, ovvero volatilizzazione in suoli alcalini, o ancora essere soggetti ai fenomeni di ossidazione a ione nitrato (nitrificazione). I batteri responsabili dei processi di nitrificazione nel suolo sono i Nitrosomonas e i Nitrobacter e la velocità di nitrificazione dipende da diversi fattori, quali i livelli di NH4+ e NO3-, l’aerazione, l’umidità, la temperatura ed il pH. La nitrificazione avviene con difficoltà nei suoli asciutti, ed aumenta all’aumentare dell’umidità e dell’aerazione in rapporto adeguato. Il valore ottimale di temperatura per la nitrificazione si aggira sui 20-40 °C e di pH tra 6 e 8. L’irrigazione con effluenti secondari influenza il livello dei nitrati nel terreno, nel sottosuolo e nelle acque profonde, al variare della qualità e quantità dell’effluente, della fertilizzazione azotata, delle proprietà del suolo, del tipo di coltura e delle condizioni climatiche. I nitrati nel suolo, oltre ad essere facilmente disponibili ed assunti dalle piante, possono essere immobilizzati da parte dei microorganismi ovvero facilmente allontanati per ruscellamento o lisciviazione fino alle acque sotterranee, grazie alla loro elevata solubilità e non adsorbibilità da parte dei colloidi a carica negativa del suolo. Nei suoli acidi (pH < 5.5-6), ovvero nei suoli ricchi di minerali amorfi di origine vulcanica, la presenza di materiali a carica positiva e capaci di adsorbire lo ione nitrato rende la lisciviazione dei nitrati minore. I nitrati possono anche subire nel suolo fenomeni di denitrificazione che portano alla perdita di azoto per volatilizzazione sotto forma di ossidi
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di azoto e, soprattutto, di azoto molecolare. La denitrificazione ha luogo in condizioni di anaerobiosi ed è operata da microorganismi capaci di ridurre gli ossidi d’azoto in presenza di carbonio organico con azione riducente. I valori ottimali di temperatura e pH per la denitrificazione sono rispettivamente tra 50 e 70 °C e tra 6 e 8 unità di pH. Il processo è quindi controllato soprattutto dalla disponibilità di carbonio organico e dallo stato di anaerobiosi del suolo. La quantità di azoto perduta per denitrificazione può variare da quasi 0 a 90% dell’azoto applicato, a secondo della composizione e proprietà del suolo. In generale, terreni a tessitura grossolana, ben drenati, ed a basso contenuto di sostanza organica presentano bassi livelli di denitrificazione, che assume valori medi nei suoli sabbioso-argillosi e raggiunge valori elevati nei terreni limoso-argillosi e argillosi (Pettygrove e Asano 1985). 3.3.2. Fosforo Gli effluenti secondari spesso contengono un elevato contenuto di fosforo (Tabella 1) e rappresentano una importante fonte dell’elemento per il suolo, potendo parzialmente, ed in alcuni casi del tutto, sostituire la fertilizzazione fosfatica. La quantità di fosforo apportata al suolo dai reflui è ritenuta in genere non eccessiva. Un eccesso di fosforo, anche se generalmente non pone problemi per la nutrizione vegetale, può causare, se in forma disponibile, sbilanci nutritivi, quali deficienze di Cu, Fe e Zn (Feigin et al. 1991). L’applicazione del fosforo tramite l’effluente determina un immediato incremento del livello di fosforo solubile nel suolo, seguito poi da un rapido calo (entro uno o due giorni). Tale rapido abbassamento dipende solo in piccola parte dall’assunzione del fosforo da parte delle colture, ma soprattutto dai noti fenomeni di immobilizzazione cui è soggetto il fosforo nel suolo. Ciò, in seguito ai processi di adsorbimento anionico da parte dei colloidi del suolo e di precipitazione come fosfati insolubili di Ca nei suoli calcarei a pH > 6.5-7 e di Al e Fe nei suoli acidi a pH < 5.5-6. L’immobilizzazione del fosforo da parte dei microorganismi del suolo è alquanto ridotta, mentre solo una piccola frazione del fosforo apportato (< 3%) viene mobilizzato ed allontanato per ruscellamento o per lisciviazione. 3.3.3. Potassio Il contenuto di potassio negli effluenti secondari (Tabella 1) non è ge-
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neralmente elevato, per cui l’apporto al suolo tramite l’irrigazione con i reflui solo raramente può soddisfare le esigenze di potassio delle colture, mentre estremamente improbabili sono i casi di eccesso. Il potassio apportato col refluo aumenta il livello dell’elemento presente nella fase liquida del suolo e disponibile per le colture, ma buona parte soggiace facilmente sia ai fenomeni di adsorbimento in forma scambiabile da parte degli scambiatori del suolo, che a fenomeni di fissazione in forme non scambiabili da parte di alcuni minerali argillosi, nonché alla lisciviazione. La capacità di ritenzione del potassio apportato dal refluo dipende soprattutto dal valore della capacità di scambio del suolo (CEC). Maggiore è la CEC, minore è la quantità di potassio mobilizzato lungo il profilo. La lisciviazione risulta maggiore nei suoli a tessitura grossolana, mentre in quelli ricchi in argilla il potassio è prevalentemente trattenuto. Un aumento del pH fino a 6-6.5 in suoli sabbiosi acidi riduce la lisciviazione del potassio (Feigin et al., 1991). Il suolo subisce significative perdite di potassio anche per ruscellamento ed erosione. 3.4. Elementi traccia Gli elementi traccia sono normalmente presenti in basse concentrazioni nei sistemi naturali, quali il suolo e le acque. Molti di essi sono considerati micronutritivi essenziali per le funzioni biologiche che svolgono, se presenti in piccole quantità, negli organismi, mentre altri sono ritenuti non essenziali alla vita. Tutti questi elementi assumono un carattere tossico per le piante e/o gli animali, allorché sono presenti in quantità disponibili eccedenti determinati valori soglia. Il margine tra la concentrazione raccomandata (o accettabile) e quella tossica è in genere molto ristretto. Pertanto, il rischio che nel suolo si possano superare i valori limite è incombente e va sempre tenuto in debita considerazione. L’apporto incontrollato di elementi traccia al suolo è sempre da evitare, in quanto, se se ne verifica un accumulo, risulta praticamente impossibile rimuoverli. Gli elementi traccia, in definitiva, rappresentano un potenziale fattore di tossicità per le colture, e quindi per la catena alimentare, nonché di rischio per la possibile traslocazione nelle acque superficiali e/o sotterranee. I reflui urbani contengono sempre una gran varietà di elementi traccia in concentrazioni molto variabili a seconda della loro origine e delle attività dell’ambiente urbano da cui provengono. Nonostante i sistemi di depurazione
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secondaria dei reflui urbani non prevedano trattamenti specifici tendenti ad eliminare gli elementi traccia, essi risultano in gran parte rimossi, in forme adsorbite o di precipitati, con i solidi in sospensione. In definitiva, essi si concentrano nei fanghi di depurazione, più che negli effluenti. Pertanto, la concentrazione degli elementi traccia nei reflui secondari (Tabella 3) risulta in genere ben al di sotto dei limiti richiesti per le acque di irrigazione e le quantità realmente apportate al suolo con tali effluenti sono generalmente bassi. Ciò nonostante, il livello degli elementi traccia è una caratteristica importante e molto variabile degli effluenti secondari usati per l’irrigazione e va sempre tenuto rigorosamente sotto controllo analitico sia nel refluo, che nel suolo e nei tessuti vegetali. Poiché gli elementi traccia tendono ad accumularsi nel suolo, irrigazioni con reflui urbani molto prolungate nel tempo possono portare ad incrementi marcati della loro concentrazione nel suolo ed all’insorgere di effetti tossici dilazionati nel tempo. Stime attendibili suggeriscono comunque che un tipico effluente secondario può essere applicato per circa 100 anni al suolo, alla dose di irrigazione comunemente usata nelle regioni aride e semi-aride di 1200 mm/anno, prima che l’accumulo di qualsiasi elemento traccia nel suolo possa raggiungere la soglia di rischio attualmente proposta per l’elemento (Page e Chang 1985). Tra gli elementi traccia comunemente riscontrati negli effluenti secondari, il Mn, Fe, Al, Cr, As, Se, Sb, Pb e Hg sono presenti in concentrazioni talmente basse e/o hanno attività chimica talmente ridotta nel suolo, che il loro apporto col refluo non è ritenuto rischioso per le colture agrarie e l’ambiente in generale. Il Cd, Cu, Ni, Zn, Mo e B sono considerati invece elementi traccia che possono limitare l’uso dei reflui per l’irrigazione. Ciò, a causa sia della loro concentrazione a volte relativamente elevata nel refluo, che della fitotossicità dilazionata nel tempo che può insorgere in seguito al loro accumulo nel suolo. In certe condizioni, per esempio nel caso di suoli che presentano microdeficienze nutritive come i suoli calcarei, l’apporto di micronutritivi con i reflui può risultare molto vantaggioso per le colture. Gli elementi traccia sono presenti negli effluenti secondari sia nelle particelle solide in sospensione che allo stato dissolto. La frazione associata ai solidi sospesi viene trattenuta dal suolo soprattutto per filtrazione e pertanto si accumula nella zona superficiale, mentre la frazione disciolta si infiltra e penetra nel suolo entrando a far parte della sua fase liquida.
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Gli elementi traccia nello stato sospeso e, soprattutto, nello stato dissolto interagiscono con i componenti del suolo attraverso numerosi e differenti reazioni chimiche, tra cui le principali sono: lo scambio ionico, l’adsorbimento specifico (o chemiadsorbimento), la precipitazione e la formazione di complessi (fig. 2). Altri processi cui soggiacciono gli elementi traccia nel suolo sono l’assunzione da parte delle piante superiori e l’incorporazione da parte dei microorganismi, varie reazioni di ossidoriduzione abiotiche e/o biotiche ed, eventualmente (As, Se, Hg), la volatilizzazione (fig. 2). Tutte queste reazioni possono verificarsi in parte simultaneamente e sono più o meno reversibili, in dipendenza di diversi fattori cinetici e termodinamici che le influenzano e delle condizioni e proprietà del suolo.
Figura 2. Diagramma schematico dei possibili processi che gli elementi traccia possono subire nel suolo.
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Le principali proprietà del suolo che influenzano la solubilità e quindi la ritenzione degli elementi traccia sono: la tessitura, la CEC, il pH e il contenuto in sostanza organica ed in ossidi amorfi di Fe, Al e Mn (Feigin et al. 1991; Page e Chang 1985; Chang e Page 1983). Il livello di ritenzione di molti elementi traccia sia cationici che anionici aumenta all’aumentare della CEC e del contenuto in argilla e in ossidi di ferro del suolo. Piccole variazioni nel pH provocano notevoli variazioni nell’adsorbimento degli elementi traccia sulle superfici dei componenti del suolo. In particolare, la solubilità degli elementi cationici aumenta e quella degli elementi anionici diminuisce, al diminuire del pH. La presenza e la natura della sostanza organica del suolo influenza notevolmente la solubilità di molti elementi traccia che possono formare complessi stabili con ligandi organici. La maggior parte dei suoli presenta un’elevata capacità di ritenzione nei confronti degli elementi traccia, che si accumulano in gran quantità nello strato superficiale (circa 20 cm). Ciò nonostante, la capacità del suolo a trattenere questi elementi non è illimitata e fenomeni di lisciviazione sino alle acque profonde, anche se limitati, sono stati riscontrati soprattutto in terreni con elevata velocità di infiltrazione ed elevata conducibilità idraulica. 3.5. Composti organici naturali e di sintesi Poiché i metodi di trattamento primari e secondari standard rimuovono la maggior parte dei materiali organici presenti allo stato sospeso e dissolto nei reflui grezzi, i valori tipici di BOD e COD negli effluenti secondari sono molto minori che nel refluo grezzo (Tabella 1) e le quantità di sostanze organiche apportate al suolo dall’effluente risultano relativamente basse. Per esempio, l’applicazione di 1200 mm/anno di un comune effluente secondario contenente 50 mg/l di C organico ne apporta al suolo 600 Kg/ ha all’anno. La maggior parte dei composti organici presenti negli effluenti sono di origine naturale e, data la loro bassa concentrazione ed il favorevole rapporto C/N, risultano favorevoli alla fertilità del suolo, in seguito al rilascio di azoto e altri elementi nutritivi per mineralizzazione. Inoltre, essi esercitano effetti positivi sulla struttura del suolo e sulla sua stabilità. Effluenti che presentano un elevato valore residuo di BOD possono comunque creare problemi
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riducendo il livello di ossigeno nel suolo con intensificazione dei processi di denitrificazione. Insieme alle sostanze organiche di origine naturale, negli effluenti secondari è riscontrata la presenza di numerosi composti organici di origine sintetica in concentrazioni molto basse (in traccia) e tutti intrinsecamente tossici (Tabella 2). Sebbene i processi di trattamento primari e secondari convenzionali non prevedono in maniera specifica la rimozione di composti organici in traccia, tali processi riducono notevolmente il loro numero e la loro concentrazione nel refluo, per cui l’impatto ambientale associato alla loro applicazione al suolo risulta nettamente inferiore a quello derivante da altre fonti di inquinamento organico, quali i pesticidi ed i loro residui. I principali processi cui i composti organici in traccia sono soggetti nel suolo, e che ne riducono notevolmente l’impatto ambientale, sono l’adsorbimento, la volatilizzazione, la degradazione biotica e abiotica e la fotodecomposizione. Inoltre, tali composti possono in parte traslocare dal suolo alle acque superficiali per ruscellamento ed alle acque profonde per lisciviazione, nonché essere assunti dalle piante superiori e/o dai microorganismi. Gli indici normalmente usati per descrivere e valutare il comportamento ed il destino dei composti organici in traccia nel suolo sono simili a quelli usati per i pesticidi: il coefficiente di ripartizione tra acqua e aria, Kw, il coefficiente di adsorbimento, Kd o Koc, ed il coefficiente di ripartizione ottanoloacqua, Kow (Chang e Page 1985). L’entità dei fenomeni di volatilizzazione viene valutata attraverso la misura del coefficiente di ripartizione del composto tra la fase liquida e la fase gassosa, Kw . Molti composti aromatici, quali il benzene, il toluene, il cicloesano e l’acido benzoico sono volatili e possono essere in parte rimossi dal suolo per evaporazione. L’aumento della temperatura e della ventilazione aumenta la volatilizzazione, mentre l’aumento del contenuto in sostanza organica la diminuisce. I valori dei coefficienti Kd , Koc e Kow danno una misura dell’adsorbimento del composto organico da parte dei costituenti del suolo ed in particolare della sostanza organica. I fenomeni di degradazione possono essere di natura chimica, di natura biologica, cioè catalizzati da enzimi ed operati da microorganismi del suolo, e di natura fotochimica (Senesi 1993). L’entità e la velocità di tali processi dipende dalle proprietà chimiche del composto organico, dalle proprietà del suolo e dal tipo di microorganismi presenti. Nella Tabella 6 sono riferiti
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alcuni esempi di valori di vita media per alcuni composti organici. Alcuni composti organici in traccia apportati al suolo con i reflui, quali i fenoli e i chinoni, possono inibire alcune attività enzimatiche nel suolo e/o ridurre alcune popolazioni microbiche. Alcuni composti organici, quali gli aromatici polinucleari e fenolici, possono anche essere degradati per via fotolitica alla superficie del suolo (Senesi 1993). Tabella 6. Valori di vita media relativi alla decomposizione di alcuni composti organici (Overcash 1983). Composto Amminoantrachinoni
Valori approssimativi di vita media 100-2200 giorni
Antracene
110-180 giorni
Benzo (a)pirene
60-420 giorni
Esteri n-butilftalici
80-180 giorni
Tensioattivi nonionici
300-600 giorni
2,4-metilanilina
1.5 giorni
n-nitrosodietilammina
40 giorni
Fenolo
1.3 giorni
Pirocatechina
12 ore
Acido acetico
5-8 giorni
Idrochinone
12 ore
Cellulosa
35 giorni
Poiché i valori di BOD e COD non danno alcuna indicazione sulla composizione delle sostanze organiche presenti nel refluo, nè consentono di identificare i composti organici tossici, la determinazione quali-quantitativa di tali composti va eseguita tramite l’uso di metodi analitici più sofisticati e specifici.
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3.6. Patogeni Gli organismi patogeni che possono sopravvivere ai moderni trattamenti di depurazione secondaria comprendono numerosi batteri, protozoi, elminti (vermi parassiti) e virus. Tali organismi patogeni vengono quindi immessi nel suolo coll’uso degli effluenti di irrigazione. I tempi di sopravvivenza dei patogeni nel suolo variano da poche ore a parecchi mesi (Tabella 7). Per la maggior parte dei patogeni un periodo di 2-3 mesi dall’apporto nel suolo è sufficiente per ridurne il numero a livelli trascurabili. La sopravvivenza dei batteri enterici nel suolo dipende da numerosi fattori. L’aumento dell’umidità del suolo, l’abbassamento della temperatura ed un elevato contenuto di sostanza organica ne favoriscono la sopravvivenza, mentre condizioni di pH acide o basiche, l’illuminazione solare, e la presenza di microflora antagonista nel suolo la sfavoriscono (Frankenberger 1985). I protozoi e gli elminti presentano tempi di sopravvivenza nel suolo simili a quelli dei batteri enterici. Gli enterovirus sono inattivati nel suolo dalla presenza di cloruri, da elevate temperature ed elevati valori di pH, da specie virucide come l’ammoniaca e dalla microflora antagonista, mentre la sostanza organica e l’argilla esercitano un’azione protettiva sui virus aumentandone i tempi di sopravvivenza. Tabella 7. Tempi di sopravvivenza di alcuni patogeni nel suolo (Frankenberger 1985). Organismo Coliformi
Streptococchi
Streptococchi fecali Salmonelle
Salmonella del tifo
Bacilli della tubercolosi Leptospire
Enterovirus
Tempi di sopravvivenza (giorni) 38
35-63 26-77
15- >280 1-120 >180
15-43 8-175
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I patogeni apportati dall’irrigazione coi reflui in genere si accumulano sulla superficie del suolo, ma possono migrare per trasporto da parte di insetti ed altri animali e per ruscellamento, ovvero percolare lungo il profilo del suolo ed occasionalmente raggiungere le acque profonde. I principali fattori che limitano la migrazione dei patogeni nel suolo sono l’azione filtrante, la sedimentazione e l’adsorbimento da parte della sostanza organica e dei minerali argillosi. L’adsorbimento dei virus da parte del suolo è anche favorito da una elevata CEC, elevati contenuti di argilla e di sostanza organica e bassi valori di pH e di forza ionica nella fase liquida. 4.
Conclusioni
Le interazioni poste in atto in seguito all’applicazione al suolo di reflui urbani per scopi irrigui dipendono dalla composizione e proprietà sia del refluo che del suolo, nonché dalle dosi di refluo usato e dalle condizioni geoclimatiche del sito. Nel caso di suoli adibiti ad uso agricolo, non si può prescindere dagli effetti esercitati dal refluo sulle colture, attraverso il suolo, così come si devono tenere in debito conto gli effetti sulle acque superficiali e profonde. Il refluo apporta al suolo sia acqua che elementi nutritivi, ma anche elementi inorganici ed organici in traccia potenzialmente inquinanti per il suolo e le acque e potenzialmente tossici per le colture ed a rischio per la catena alimentare. Le considerazioni sviluppate in questo testo in merito all’applicazione al suolo adibito ad uso agricolo di reflui urbani che abbiano subito i comuni trattamenti di depurazione definiti “secondari”, portano a concludere che in generale tale pratica presenta sperimentati ed indubbi benefici per la fertilità del suolo e la produzione agraria che si avvantaggia, oltre che dell’acqua, anche degli elementi nutritivi, soprattutto azoto e fosforo. D’altro canto, è stato ampiamente dimostrato come l’apporto col refluo di elementi inorganici ed organici in traccia non crea, anche sul lungo periodo, rischi di inquinamento per il suolo, di tossicità per le colture e di contaminazione delle acque superficiali e profonde. Ciò nonostante, data la estrema variabilità della composizione e proprietà, nonché della gestione dei sistemi interagenti, refluo e suolo, e delle condizioni geoclimatiche dei siti di applicazione, sono in ogni caso suggeriti
Reflui urbani di depurazione
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controlli continui a livello analitico, qualitativo e quantitativo, in modo da evitare l’insorgere di fenomeni non desiderati che possono portare a conseguenze estremamente dannose per il suolo, i corsi d’acqua, le piante, gli animali e la catena alimentare, fino all’uomo. Bibliografia Accademia Nazionale di Agricoltura. Agricoltura e Ambiente. Edagricole (1991). Bower H., Chaney R.L. Land treatment of wastewater. Adv. Agron. 26:133-176 (1974). Chang A.C., A.L. Page. Fate of trace metals during land treatment of municipal wastewater. In: Page A.L., T.L. Gleason III, J.E. Smith Jr., I.K. Iskandar, L.E. Sommers (eds.). Utilization of municipal wastewaters and sludge on land. University of California, Riverside, pp. 107-122 (1983). Chang A.C., A.L. Page. Fate of wastewater constituents in soil and groundwater: trace organics. In: Pettigrove G.S., T. Asano (eds.) Irrigation with reclaimed municipal wastewater - a guidance manual. Lewis publishers, inc., Chelsea, MI pp. 15.1-15.20 (1985). Feigin A., I. Ravina, J. Shalhevet. Irrigation with treated sewage effluent. Management for Environmental Protection. Advanced Series in Agricultural Sciences 17, Springer-Verlag, Berlin (1991). Frankenberger W.T. Fate of wastewater constituents in soil and groundwater: patogens. In: Pettygrove G.S., T. Asano (eds.) Irrigation with reclaimed municipal wastewater - a guidance manual. Lewis Publishers, Inc., Chelsea, Mi, pp. 14.114.25 (1985). Idelovitch E., Michail M. Gross organics measurements for monitoring of wastewater treatment and reuse. In Copper W.J. (ed.) Chemistry of water reuse, vol. I, Science Publicher, Ann Arbor, pp. 35-64 (1981). Page A.L., Chang A.C. Fate of wastewater constituents in soil and groundwater: trace elements. In Pettygrove G.S., T. Asano (eds.) Irrigation with reclaimed municipal wastewater - a guidance manual. Lewis Publishers, Inc., Chelsea, MI, pp. 13.1-13.16 (1985). Page A.L., T.L. Gleason III, J.E. Smith Jr., I.K. Iskandar, L.E. Sommers. Proc. of the 1983 Workshop on Utilization of municipal wastewater and sludge on land. University of California, Riverside, (1983). Pettygrove G.S., T. Asano. Irrigation with reclaimed municipal wastewater - a guid-
128
Gennaro Brunetti, Nicola Senesi
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Ignazio M. Mancini, Salvatore Masi, Ettore Trulli, Donatella Caniani, Vito D. Colucci, Massimiliano Piscitelli
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali per l’utilizzo di acque reflue trattate in agricoltura
Sommario: 1. Stato dell’arte; 1.1. Le pratiche di riutilizzo; 1.2. I trattamenti per lo scarico; 1.3. Le problematiche igienico-sanitarie associate al riutilizzo; 1.4. La normativa di riferimento; 2. Le tecnologie per il riutilizzo irriguo; 2.1. I trattamenti terziari di affinamento; 2.1.1. La filtrazione su membrane; 2.1.2. Ipotesi di configurazioni impiantistiche; 2.1.3. I trattamenti MBR; 2.2. Tecniche di disinfezione; 2.2.1. Disinfettanti chimici a base di cloro; 2.2.2. Acido peracetico; 2.2.3. Ozono; 2.2.4. Radiazione ultra violetta; 2.3. Confronto fra i costi; 2.4. Impianti sperimentali per il riutilizzo irriguo; 2.5. Prospettive future: i processi AOP; 3. Soluzioni sperimentali per il reimpiego degli effluenti secondari; 3.1. Schemi a rilascio controllato; 3.2. Bacini di trattamento unico a deflusso longitudinale; 3.3. Sistemi integrati di impianti di depurazione; 4. Conclusioni.
1. Stato dell’arte 1.1. Le pratiche di riutilizzo La crescente necessità e consapevolezza da parte degli utilizzatori di proteggere le risorse idriche e l’ambiente, sta portando ad un maggiore recupero delle acque reflue e ad un impiego più sostenibile delle risorse idriche convenzionali. La questione rilevante riguarda i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, soprattutto nei mesi estivi quando aumenta la richiesta da parte del comparto agricolo e dei flussi turistici nelle località balneari. L’uso di un trattamento appropriato per la depurazione ed eventualmente per il riutilizzo dei reflui porterebbe quindi ad un significativo aumento dell’acqua disponibile e garantirebbe una maggiore tutela dell’ambiente e della salute pubblica (Brenner A. et al, 2000; U.S. EPA, 2004). Appare ovvio quindi che, le acque reflue prima di essere restituite all’ambiente, necessitano di trattamenti di depurazione per rimuovere diverse sostanze, quali: scarti organici, ammoniaca, azoto e fosforo; inquinanti contenuti nei concimi e pesticidi; ioni solfato; metalli pesanti (Masi S. et al., 2008), oltre agli inquinanti emergenti che stanno
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I.M. Mancini, S. Masi, E. Trulli, D. Caniani, V.D. Colucci, M. Piscitelli
destando molto interesse nella comunità scientifica. Le stime suggerite dallo studio di Angelakis A.N. et al. (2008), indicano un potenziale di riutilizzo delle acque reflue di 2.455 Mm³/anno per l’Unione Europea (circa il 2-3,5% dei volumi d’acqua annualmente impiegati nell’UE per l’irrigazione). La scelta dello schema di trattamento più idoneo per favorire il riutilizzo delle acque reflue dipende per lo più dalla destinazione finale del refluo recuperato. Diverse sono le linee guida proposte per il recupero delle acque in funzione del tipo di riutilizzo (U.S. EPA 2004, Angelakis A.N. et al., 2008). In letteratura esistono numerose soluzioni impiantistiche per il riutilizzo dei reflui, la quasi totalità impiega trattamenti terziari di filtrazione associati a tecniche di disinfezione alternative al cloro. Oltre che i composti patogeni e dannosi per l’ambiente, i processi di affinamento terziari rimuovono anche altre sostanze quali, azoto, fosforo e sostanza organica. Tali composti notoriamente sono utilizzati nella pratica di fertirrigazione, quindi, potrebbero essere molto utili nel caso di riutilizzo delle acque reflue in agricoltura (Progetto PON AQUATEC (20022007), Masi et al., 2008 e 2010), anziché essere rimossi dai processi terziari. Proprio queste considerazioni sono alla base delle sperimentazioni condotte dall’Università della Basilicata, la quale ha sviluppato approcci gestionali integrati e schemi impiantistici modificati per il riutilizzo irriguo di effluenti urbani secondari. 1.2. I trattamenti per lo scarico La depurazione delle acque reflue ai fini dello smaltimento in un corpo idrico ricettore (superficiale o sotterraneo) viene usualmente attuata in impianti di depurazione a fanghi attivi (aerobici a biomassa sospesa) secondo lo schema modificato di Ludzack-Ettinger. La scelta dei processi di trattamento da adottare dipende dal tipo di inquinanti e costituenti presenti nel refluo e da quali di essi si vuole rimuovere con più attenzione (Tabella 1).
131
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
Tabella 1. Trattamento da adottare in relazione ai costituenti tipicamente presenti nelle acque reflue (Metcalf & Eddy 2006). CLASSIFICAZIONE
Inquinanti convenzionali
Inquinanti non convenzionali
Inquinanti emergenti
UNITÀ DI MISURA
COSTITUENTI
mg/l
BOD5, COD, TOC, NH4, NO3, NO2, Ntot, P, SST, Solidi colloidali, Batteri, Cisti, Oocisti di protozoi, Virus
mg/l
VOC, Metalli; Tensioattivi; Solidi totali disciolti; Sostanze organiche refrattarie
mg/l ng/l
Farmaci e Antibiotici; Ormoni sessuali; Steroidi; Droghe; Detersivi; Prodotti industriali; Distruttori endocrini
TRATTAMENTI IDONEI ALLA RIMOZIONE Trattamenti fisici; Processi chimici; Trattamenti biologici; Filtrazione; Disinfezione Filtrazione in volume e su membrana; Adsorbimento (su carboni attivi); Desorbimento dei gas; Scambio ionico; Processi di ossidazione avanzata; Distillazione
Per rimuovere i contaminanti emergenti si possono applicare tutti i tipi di processi, ma i livelli di rimozione non sono alti e non sono sempre definiti e/o definibili a priori
1.3. Le problematiche igienico-sanitarie associate al riutilizzo L’analisi dello stato dell’arte individua due aspetti fondamentali da tenere in considerazione per un corretto riutilizzo delle acque reflue: le problematiche igienico-sanitarie-ambientali e le questioni tecnico-progettuali degli impianti. Alcuni degli effetti negativi indotti dall’utilizzo delle acque reflue recuperate possono essere: - i rischi igienico sanitari per la salute e per le comunità, soprattutto quando l’irrigazione è prolungata, avviene con acque reflue non idoneamente depurate, vengono irrigate colture che si consumano senza cottura;
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I.M. Mancini, S. Masi, E. Trulli, D. Caniani, V.D. Colucci, M. Piscitelli
-
la contaminazione delle acque sotterranee a causa di un eccessivo sversamento di nitrati; - l’accumulo di inquinanti chimici nel suolo, soprattutto metalli pesanti; - la creazione di vettori e habitat favorevoli allo sviluppo di malattie; - l’eutrofizzazione nei canali che trasportano le acque reflue. I principali rischi sanitari derivanti dall’uso delle acque reflue possono essere causati dalla trasmissione di agenti patogeni agli operatori ed ai consumatori, e dall’accumulo di elementi tossici all’interno dei prodotti coltivati che potrebbero entrare nella catena alimentare. I rischi igienico-sanitari derivano dalla presenza di agenti patogeni nei reflui ed il rischio aumenta con la presenza rispettivamente di: virus, batteri (ad esempio gli Escherichia coli ed i Coliformi), protozoi e nematodi. Con l’applicazione delle giuste tecnologie e di vari accorgimenti, l’utilizzo di acque reflue trattate in agricoltura risulta sicuro. In ogni caso il livello di rischio dipende dai seguenti aspetti (Tabella 2): A) tipo di colture irrigate; B) tecniche di irrigazione utilizzate; C) tipologia dei trattamenti di affinamento applicati. Tabella 2. Livello di rischio sanitario nel riutilizzo delle acque reflue trattate. LIVELLO DI RISCHIO Alto
Medio Basso Molto Basso
COLTURA IRRIGATA – Verdure da consumarsi crude – Frutta cresciuta a livello del suolo – Giardini e parchi pubblici
– Ortaggi da consumarsi cotti – Frutta da albero raccolta nel periodo irriguo
– Foraggio consumato dopo essiccamento – Coltura da semi (mais, soia)
– Colture da fibre (cotone, canapa) – Colture energetiche
TECNICA DI IRRIGAZIONE Aspersione
TIPOLOGIA DEI TRATTAMENTI Nessun trattamento
Sommersione Infiltrazione
Depurazione classica a
Irrigazione localizzata a goccia
Depurazione classica + Disinfezione spinta
Sub-Irrigazione
Depurazione classica + Trattamenti terziari + Disinfezione spinta
a. Per depurazione classica si intende: trattamento primario + trattamento secondario + disinfezione
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
133
Discorso a parte deve essere fatto per i contaminanti emergenti il cui problema principale è che le concentrazioni di questi composti causano effetti ambientali e sugli organismi acquatici con concentrazioni di molto inferiori alle concentrazioni ritenute pericolose per l’uomo (Metcalf & Eddy 2006); inoltre, i composti xenobiotici (o ECDs), sono causa di malattie riguardanti il sistema endocrino umano (Belgiorno V. et al. 2007). Infatti, solo poco più del 60% dei farmaci residui (in concentrazioni di μg/l e ng/l) presenti nelle acque reflue, vengono rimossi con il processo a fanghi attivi (Metcalf & Eddy 2006) generando un sempre più elevato livello di allarme nel settore della depurazione acque. Per rimuovere queste concentrazioni residue si possono applicare tutti i tipi di processi esistenti, ma i livelli di rimozione non sono alti e non sono sempre definiti e/o definibili. 1.4. La normativa di riferimento La normativa di riferimento in Italia che regola il riutilizzo delle acque reflue è il D.Lgs. 152/2006 o Testo Unico Ambientale (Tabella 3). Nello specifico il TUA. definisce tre possibili tipi di riutilizzo: industriale, civile e irriguo. Il D.M. 2 maggio 2006, riporta invece le “Norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue, ai sensi dell’articolo 99, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”. La norma individua inoltre, nel relativo allegato, i Requisiti minimi di qualità delle acque reflue recuperate all’uscita dell’impianto di recupero1.
1 Con comunicato pubblicato sulla GU n. 146 del 26-6-2006, il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio ha diffuso un avviso relativo alla segnalazione di inefficacia di diciassette decreti ministeriali ed interministeriali, attuativi del TUA. Ad oggi, dunque, il Dm 2.05.2006, risulta inefficace mentre ancora vigente è il precedente DM 12.06.2003, n. 185.
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I.M. Mancini, S. Masi, E. Trulli, D. Caniani, V.D. Colucci, M. Piscitelli
Tabella 3. Confronto tra i limiti di normativi per lo scarico ed il riutilizzo delle acque reflue. LIMITE PER IL RIUTILIZZO (D.M. 02/05/2006) e (D.M.12.06.2003, n. 185)
UNITÀ DI MISURA
LIMITE PER LO SCARICO (D.L. 152/2006 e s.m.i.)
pH
/
6-8 e (5,5-9,5 d)
6 - 9,5
SAR
/
10 e
10
SST
mg/l
PARAMETRO
BOD5 COD
Fosforo totale Azoto totale Azoto ammoniacale Conducibilità elettrica Cloro attivo libero Escherichia Coli
mgO2/l
25 (35 ) e
10
a
20 e (25 a) (40 d)
20
mgO2/l
100 (125 ) (160 )
100
mgP/l
2 e,b (1 b) (10 d)
2 (10 f)
mgN/l
15 e,c (35,6 d)
15 (35 f)
0,6 (15 d)
2
/
3000 h
0,2 d
0,2
< 5.000 d
10 g
mgNH4/l mS/cm mg/l UFC/100ml
e
a
d
a. Tab.1-all.P.III, limiti di emissione per gli impianti di acque reflue urbane b. Tab.2-all.P.III, limiti di emissione per gli impianti di acque reflue urbane recapitanti in aree sensibili per A.E.=10.000-100.000, abbassato a 1 mgP/l per A.E.>100.000 c. Tab.2-all.P.III limiti di emissione per gli impianti di acque reflue urbane recapitanti in aree sensibili per A.E.=10.000-100.000, abbassato a 10 mgN/l per A.E.>100.000 d. Tab.3-all.P.III, limiti di emissione in acque superficiali e. Tab.4-all.P.III, limiti di emissione per le acque reflue urbane ed industriali che recapitano sul suolo f. Nel caso di riutilizzo irriguo, i limiti per fosforo e azoto totale possono essere elevati rispettivamente a 10 e 35 mg/l. g. Riferito all’80% dei campioni, con un valore massimo puntuale di 100 UFC/100 ml. h. Non deve essere superato il valore di 4000 mS/cm.
2.
Le tecnologie per il riutilizzo irriguo
Le problematiche da affrontare per un corretto riutilizzo delle acque reflue, specialmente in agricoltura, si risolvono adottando particolari accorgi-
135
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
menti impiantistici che vanno ad agire essenzialmente sul processo di disinfezione. Per poter riutilizzare le acque reflue in tutta sicurezza, bisogna scegliere tecniche di disinfezione spinte, alternative ai composti del cloro, associate a processi terziari di affinamento (solitamente non presenti nei classici ed obsoleti impianti di depurazione). La legislazione italiana pone indirettamente un limite all’utilizzo di cloro-derivati per la disinfezione delle acque reflue, soprattutto nel caso di riutilizzo agricolo: infatti, il limite relativo ai THM totali (Trialometani, sottoprodotti tossici di disinfezione del cloro) fissato in 0,03 mg/l, è difficile da rispettare anche quando l’effluente da sottoporre a disinfezione deriva da un processo di rimozione spinta dei nutrienti, comprensivo di filtrazione terziaria (Antonelli M. et al., 2007). Un’indicazione di massima è riportata in Tabella 4. Tabella 4. Trattamenti da adottare per il riutilizzo irriguo.
SCHEMI SPERIMETALI
TRATTAMENTI PER IL RIUTILIZZO IRRIGUO DELLE ACQUE REFLUE: 1 + 2
RIUSO IRRIGUO ACQUE REFLUE
OPERAZIONE
TRATTAMENTI
TECNOLOGIA E PROCESSI
CARATTERISTICHE DELL’EFFLUENTE PER IL RIUTILIZZO
1: Miglioramento delle caratteristiche chimiche, fisiche, biologiche e batteriologiche
Trattamenti terziari di affinamento
– Filtrazione – MBR
Reflui affinati con bassa torbidità e basse concentrazioni residue di elementi nutritivi e sostanze disciolte
2: Abbattimento della carica microbica
Processi di disinfezione spinta
– Chimici – Fisici – Meccanici a – AOP
Ridotto contenuto microbico
Possibilità di rilasciare sostanze nutritive e fertilizzanti
Schemi a fanghi attivi modificati e disinfezione spinta (Univ.Bas)
Schemi semplificati a rimozione controllata
Reflui con concentrazioni variabili di sostanza organica, azoto, fosforo e altri nutrienti, ottime per pratiche di fertirrigazione
a. I processi meccanici per l’abbattimento della carica microbica sono costituiti dai sistemi di filtrazione e dagli MBR.
136
I.M. Mancini, S. Masi, E. Trulli, D. Caniani, V.D. Colucci, M. Piscitelli
2.1. I trattamenti terziari di affinamento 2.1.1. La filtrazione su membrane I trattamenti terziari di filtrazione hanno lo scopo di: - rimuovere la frazione residua dei solidi sospesi in uscita dal trattamento secondario che può interferire con la successiva fase di disinfezione e può ridurre l’efficienza del sistema di irrigazione utilizzato; - ridurre la concentrazione di materia organica residua aumentando l’efficacia dell’agente disinfettante e riducendo la produzione di indesiderati sottoprodotti di disinfezione; - migliorare la qualità estetica delle acque reflue depurate in termini di torbidità e solidi sospesi; - rimuovere i sali disciolti (e quindi la conducibilità). Complessivamente le tecnologie di filtrazione su membrana si distinguono in: microfiltrazione (MF); ultrafiltrazione (UF); nanofiltrazione (NF) e osmosi inversa (RO). I trattamenti terziari possono essere divisi in due gruppi a seconda della capacità di rimozione dei sali disciolti: i trattamenti che rimuovono anche i sali sono la NF e l’RO. La rimozione dei sali disciolti si rende necessaria soprattutto quando la concentrazione dei sali nelle acque reflue depurate è tale da danneggiare le colture irrigate. I trattamenti terziari di filtrazione sono molto efficaci tali da generare effluenti con gradi di trattamento molto elevati rispetto i processi convenzionali di depurazione ai fini dello scarico (Oron G. et al. 2008.). I trattamenti terziari hanno una efficienza di rimozione molto alta in grado di rimuovere anche cisti di giardia, cellule batteriche, virus, pesticidi e sali disciolti (Metcalf & Eddy 2006). Nella figura 1 si riporta il confronto fra la dimensioni dei pori delle membrane filtranti, le dimensioni dei costituenti presenti nelle acque reflue ed un convenzionale processo di filtrazione in volume. Nella Tabella 5 sono riportate le efficienze di rimozione medie per i processi di micro filtrazione e osmosi inversa in riferimento ai principali costituenti delle acque reflue.
Stato dellâ&#x20AC;&#x2122;arte ed applicazioni sperimentali
Figura 1. Tipologie di membrane e capacitĂ di rimozione (Metcalf & Eddy 2006).
137
138
I.M. Mancini, S. Masi, E. Trulli, D. Caniani, V.D. Colucci, M. Piscitelli
Tabella 5. Efficienza di rimozione di alcune membrane (Metcalf & Eddy 2006). EFFICIENZA DI RIMOZIONE [%]
Parametri
Micro filtrazione
Osmosi inversa
TOC
45-65
85-95
BOD
75-90
30-60
COD
70-85
85-95
SST
95-98
95-100
STD
0-2
90-98
N-NH3
5-15
90-98
N-NO3
0-2
65-85 a
PO3-4
0-2
95-99
S02-4
0-1
95-99
Cl
0-1
90-98
Torbidità
>99
40-80
-
a. L’efficienza di rimozione dei nitrati dipende anche dal materiale con cui è realizzata la membrana per l’osmosi inversa. Essa può essere realizzata in cellulosa triacetata (CTA) poco costosa e poco sensibile ai clorati, con efficienze di rimozione dei nitrati intorno al 50-70%; oppure di tipo TFT, molto efficienti nel rimuovere i nitrati fino al 95%, molto costose e suscettibili al cloro disciolto nel refluo (Cheremisinoff N. P., 2002).
La microfiltrazione (MF) e l’osmosi inversa (RO), in grado di dare ottimi risultati migliorando notevolmente anche il processo di disinfezione, permetterebbero il riutilizzo dei reflui in modo praticamente illimitato nell’irrigazione, compresa quella delle colture alimentari (A. Brenner et al. 2000). Grazie alle peculiarità delle membrane viste fino ad ora, esse sono oggi sempre più impiegate negli impianti di trattamento, sia come supporto alla fase di disinfezione, ma anche in sostituzione di elementi convenzionali del trattamento dei reflui come il trattamento biologico e la normale filtrazione. Oltretutto, con l’avanzare dell’innovazione tecnologica, i consumi energetici si stanno notevolmente riducendo garantendo costi più sostenibili. Un’indicazione approssimata dei costi energetici è riportata nella Tabella 6. Si ricorda
139
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
che tali costi dipendono da molteplici fattori tra cui: tipo di membrana adoperata, pretrattamenti subiti dal refluo, tipo di refluo da trattare, pressione operativa delle membrane, ecc. Tabella 6. Principali caratteristiche operative delle membrane (Metcalf & Eddy 2006).
TIPO DI MEMBRANA Microfiltrazione Ultrafiltrazione Nanofiltrazione Osmosi inversa
CONSUMI ENERGETICI Pressione operativa [kWh/m3] media [kPa]
PARTICELLE RIMOSSE [mm]
PRESSIONE OPERATIVA [kPa]
FLUSSO TRATTATO [l/m2 d]
0,08-2
7-100
400-1600
100
0,4
0,005-0,2
70-700
400-800
525
3,0
0,001-0,01
500-1000
200-800
875
5,3
0,0001-0,001
800-7000
300-500
1575 2800
10,2 a 18,2 a
a. Secondo Cheremisinoff N. P. (2002) il sistema di trattamento di circa 400 m3/d di acque reflue con osmosi inversa comporta un costo di 300-450 €/d escluso il costo di ammortamento per la sostituzione delle membrane a fine vita. Questo comporta che il costo puro di trattamento con osmosi inversa può essere quantificato in circa 0,7-1,2 €/m3 di refluo trattato (escluso ammortamento), il che lo rende comunque paragonabile a quanto proposto da Metcalf & Eddy (2006).
Per scegliere il tipo di membrana più idonea è inoltre opportuno fare riferimento a prove su impianti pilota. Lo scopo è quello di minimizzare i fenomeni di intasamento e deterioramento anticipato del componente, che comunque dovrebbe essere sostituito ogni 3-5 anni. Inoltre, poiché le caratteristiche chimiche delle acque reflue variano sensibilmente a seconda del tipo di refluo trattato, risulta molto difficile prevedere l’efficienza di rimozione delle membrane utilizzate, quindi, la scelta tra le varie tecnologie disponibili dovrebbe essere fatta sulla base di preventive indagini sperimentali su impianti a scala pilota.
140
A) B) C) D) E)
A) B) C) D) E)
I.M. Mancini, S. Masi, E. Trulli, D. Caniani, V.D. Colucci, M. Piscitelli
VANTAGGI: buona capacità di disinfezione senza l’utilizzo di agenti disinfettanti; tiduzione della quantità di agenti chimici coagulanti utilizzati per la rimozione delle sostanze disciolte; minori ingombri di impianto rispetto agli impianti tradizionali (anche del 50-80%); minore richiesta di personale; costi di gestione in continuo calo, anche rispetto a sistemi convenzionali. SVANTAGGI: per aumentare l’efficienza di rimozione può essere necessario effettuare un pre-trattamento del refluo per ridurre il contenuto di solidi; è necessario effettuare la sostituzione ogni 3-5 anni; può essere necessario eseguire un trattamento a parte per il corretto smaltimento del concentrato; il sistema a osmosi inversa è molto costoso, soprattutto in riferimento ai metodi tradizionali; l’efficienza di gestione richiede un sistema di controllo costoso.
141
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
2.1.2. Ipotesi di configurazioni impiantistiche Nella Tabella 7 si riportano alcune configurazioni impiantistiche che permettono gradi di affinamento diversi per acque reflue risanate. Tabella 7. Possibili livelli di trattamento raggiungibili con varie combinazioni di processi di trattamento per il risanamento delle acque (Metcalf & Eddy 2006). SCHEMA A B C
D
E
F
STADI DEL PROCESSO I. fanghi attivi II. filtrazione su sabbia I. fanghi attivi II. filtrazione su sabbia III. adsorbimento su carboni attivi I. fanghi attivi II. de fosfatazione III. filtrazione su sabbia I. fanghi attivi II. filtrazione su sabbia III. adsorbimento su carboni attivi IV. osmosi inversa I. fanghi attivi II. de fosfatazione III. filtrazione su sabbia IV. adsorbimento su carboni attivi V. osmosi inversa I. fanghi attivi II. de fosfatazione III. microfiltrazione IV. osmosi inversa
QUALITà CHIMICO-FISICHE DELL’EFFLUENTE [mg/l] SST
BOD5
COD
NTOT
NH3
P
NTU
4-6
4-10
30-70
15-35
15-25
4-10
0,3-5
<5
<5
5-20
15-30
15-25
4-10
0,3-3
3-5
1-2
≤1
0,3-2
≤1
0,01-1
< 5-0
< 5-10 20-30
≤1
≤1
5-10
<2
<2
≤1
≤1
2-8
≤1
≤ 0,1
≤ 0,5 0,01-1
≤1
≤1
2-8
≤ 0,1
≤ 0,1
≤ 0,5 0,01-1
2.1.3. I trattamenti MBR Ai fini del riutilizzo irriguo delle acque reflue, si stanno sempre più diffondendo i sistemi MBR (Reattori biologici a membrana), ovvero reattori biologici a biomassa sospesa dotati di unità di micro filtrazione (interna
142
I.M. Mancini, S. Masi, E. Trulli, D. Caniani, V.D. Colucci, M. Piscitelli
o esterna al reattore). In sostanza, gli MBR sono in grado di produrre un effluente con qualità confrontabili con quelle di un processo a fanghi attivi dotato di sedimentazione secondaria e micro filtrazione (Metcalf & Eddy 2006), permettendo il riutilizzo dei reflui trattati dopo la disinfezione. Le percentuali di rimozione per un MBR sono del 95% per il COD, del 98% per il BOD5 e maggiori del 99% per i SS (Aileen N.L. Ng et al. 2007). Altri dati operativi sono riportati nelle Tabelle 8-9-10-11. Tabella 8. Dati operativi di un MBR a membrana immersa. PARAMETRO
UNITÀ DI MISURA
INTERVALLO
Kg/m3 d
1,2 - 3,2 a
MLSS
mg/l
5.000 - 20.000 a
MLVSS
mg/l
4.000 - 16.000 a
d
5 - 20 a
l/m2 d
600 - 1.100 a
Depressione applicata
kPa
4 - 35 a
Temperatura
°C
10 - 35 b
/
7 - 7,5 b
Frequenza di controlavaggio
min
5 - 16 b
Durata controlavaggio
sec
15 - 30 b
Nm3/h
8 - 12 b
kgSS/kgCOD d
< 0,25 b
COD (Carico di)
SRT (Tempo si residenza) Portata
Ph
Portata d’aria per modulo Produzione fanghi a. b.
Metcalf & Eddy 2006 Capannelli G. 2007
143
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
Tabella 9. Prestazioni medie dell’effluente da un MBR a membrana immersa. PARAMETRO
EFFLUENTE
COD
< 30 mg/l a
BOD5
< 5 mg/l a
Ntot
< 10 mg/l a
Torbidità
< 1 NTU a
SST
< 1 mg/l b
Escherichia Coli
< 10 UFC/100ml c
NH3
< 1 mg/l a
a.
Metcalf & Eddy 2006 Belgiorno V. 2010 c. Ranieri E. 2003 b.
Tabella 10. Costi di gestione degli impianti MBR a membrana immersa (ENEA, 2009). VOCI DI COSTO
INCIDENZA (%)
COSTI
Moduli a membrana
35 - 50
3,6-82 €cent/m2 per celle polimeriche Il costo di quelle ceramiche è circa 10 volte superiore
Lavaggi
12 - 35
Variabile in funzione della frequenza di lavaggio, della qualità del refluo, del tipo di membrana
15 - 18
L’introduzione di software per la gestione automatica degli impianti riduce fino al 50% il costo della manodopera, ma aumenta leggermente il costo di investimento
Manodopera Consumo di energia per la filtrazione a.
Capannelli G. 2007
a
15 - 20 a
0,2-0,4 kWh/m3
Per aerazione della membrana: 80-90% Per il pompaggio del permeato: 10-20%
144
I.M. Mancini, S. Masi, E. Trulli, D. Caniani, V.D. Colucci, M. Piscitelli
Tabella 11. Confronto tra i costi di realizzazione e di gestione di impianti MBR e a fanghi attivi (Belgiorno V. 2010). Rapporto di costi MBR / fanghi attivi
Costi di impianto Costi di gestione
A) B) C) D) A) B) C)
2.400 A.E.
38.000 A.E.
1,34
2,40
0,68
1,89
VANTAGGI: funzionamento con alte concentrazioni di MLSS; maggiori tempi di residenza nel reattore e minore produzione di fanghi di supero; effluente di elevata qualitĂ ; minori volumetrie di impianto. SVANTAGGI: elevati costi di investimento; elevati costi di gestione a causa della sostituzione frequente delle membrane, dei consumi energetici e delle operazioni di contro lavaggio; smaltimento del concentrato.
2.2. Tecniche di disinfezione Il processo di disinfezione permette di rimuovere molto efficacemente la carica batterica presente nelle acque reflue. I microrganismi patogeni possono essere rimossi anche come effetto collaterale dei processi meccanici e biologici a cui sono sottoposte le acque (Tabella 12).
145
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
Tabella 12. Efficienza di rimozione e di distruzione dei batteri in varie unità di trattamento (Metcalf & Eddy 2006). EFFICIENZA DI RIMOZIONE (diretta o collaterale) 0 - 5% 10 - 20% 10 - 25% 25 - 75% 90 - 95% 90 - 98% 98 - 99,999%
PROCESSO Vagliatura grossolana Vagliatura fine Dissabbiatura Sedimentazione Filtri percolatori Ossidazione a fanghi attivi Disinfezione
In seguito vengono esposte le tecniche di disinfezione che verranno analizzate: Agenti chimici: cloro e suoi derivati, acido peracetico, ozono; Processi fisici: raggi ultra violetti; Processi meccanici: filtrazione su membrana. 2.2.1. Disinfettanti chimici a base di cloro Le principali forme di cloro utilizzate sono (Tabella 13): il cloro gassoso (Cl2), l’ipoclorito di sodio (NaOCl), l’ipoclorito di calcio (Ca[OCl]2) ed il biossido di cloro (ClO2). Ognuno di tali composti, grazie alla presenza del cloro attivo, possiede un’azione disinfettante e ossidante. Tabella 13. Caratteristiche principali dei disinfettanti a base di cloro. CARATTERISTICHE DISINFEZIONE SICUREZZA DI IMPIEGO COSTO SOTTOPRODOTTI TOSSICITà APPROVVIGIONAMENTO DISINFEZIONE RESIDUA
CLORO (Liquido/ gassoso) ottima pericoloso
IPOCLORITO DI SODIO
IPOCLORITO DI CALCIO
buona sicuro
basso
alto
alta Serbatoi pressurizzati
Soluzione commerciale Sì
BIOSSIDO DI CLORO ottima pericoloso media
MONO CLORO AMMINE bassa sicuro basso
alta
Prodotto in situ
146
I.M. Mancini, S. Masi, E. Trulli, D. Caniani, V.D. Colucci, M. Piscitelli
Aspetto fondamentale per il processo di clorazione è il grado di miscelazione iniziale, ovvero il tempo di contatto tra il refluo ed il disinfettante dal momento in cui vengono miscelati. È opportuno che la vasca di contatto sia realizzata con un rapporto tra la lunghezza totale del canale e la larghezza del medesimo pari a L/l > 40 (Metcalf & Eddy 2006). Ai fini del solo scarico di acque reflue trattate in impianti biologici a fanghi attivi è, per esempio, sufficiente un dosaggio di 10 mg/l di ipoclorito di sodio con un tempo di contatto minimo di 20-30 minuti tra l’agente disinfettante ed il refluo (Bonomo L. 1996). Possono essere invece sufficienti 2 mg/l di biossido di cloro. Il biossido di cloro, invece, ha un potere battericida molto forte, infatti 1 g/m3 di ClO2 equivale a 2,63 g/m3 di cloro (Ranieri E. 2003). Uno dei problemi principali dei disinfettanti a base di cloro è la formazione di sottoprodotti tossici che, non si riescono a rimuovere completamente neanche applicando i processi terziari di filtrazione (ad esempio l’efficienza di rimozione delle nitrosammine è pari al 50-75% (Metcalf & Eddy 2006). Nella Tabella 14 si riportano alcuni dosaggi di cloro utili per il riutilizzo dei reflui. Tabella 14. Indicazioni di dosaggio medio di cloro per garantire alcuni limiti allo scarico di coliformi (Metcalf & Eddy 2006). DOSAGGIO DI CLOROa PER IL RIUTILIZZO [mg/l] N° coliformi dopo la disinfezione, PRETRATTAMENTO N° di coliformi tempo di contatto = 30 minuti APPLICATO prima della diAL REFLUO DA sinfezione Limite di 23 Limite < 2,2 DISINFETTARE MPN/100 ml MPN/100 ml MPN/100 ml dosaggio richiesto nessun trattamento 107 - 109 dosaggio richiesto troppo elevato, protroppo elevato, problemi con i sottoprotrattamento primario 107 - 109 blemi con i sottoprodotti di disinfezione dotti di disinfezione 5 6 fanghi attivi 10 - 10 10 - 30 6 - 20 8 - 30 fanghi attivi + filtrazione 104 - 106 5 - 10 8 - 18 filtrazione su sabbia 102 - 104 1 3 2-6 4 - 10 microfiltrazione 10 - 10 ~0 0 0-2 osmosi inversa b
a. I dosaggi sono basati sul cloro combinato. b. Dosaggi basati su cloro libero.
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
A) B) C) D) E) F) A) B) C) D) E)
147
VANTAGGI: efficace per un ampio spettro di agenti patogeni; possiede capacità disinfettanti residue; dosaggio flessibile; tecnica molto affermata ed efficiente; processo economico rispetto i RUV e O3, ma solo se non è necessaria la declorazione; rimuove odori e colori sgradevoli (ma solo per dosaggi non eccessivi). SVANTAGGI: genera pericolosi sottoprodotti reagendo con il BOD residuo (THM, cloroformio, nitrosammine, ione clorato e bromato); il cloro e tutte le sue forme sono corrosive e tossiche per l’ambiente, la vita acquatica e l’uomo; spesso è necessario eseguire la declorazione; alcuni composti del cloro sono pericolosi da trasportare, stoccare e maneggiare; l’efficacia di disinfezione diminuisce all’aumentare del ph.
2.2.2. Acido peracetico L’acido peracetico (PAA) può essere una valida alternativa ai disinfettanti a base di cloro, in particolare può essere usato come unico sistema di disinfezione o in sinergia con altri trattamenti, a patto di verificare, oltre la sua efficacia, anche la convenienza economica (le caratteristiche operative sono riportate nella Tabella 15). Dal punto di vista dell’utilizzo pratico, non è possibile utilizzare l’acido peracetico puro in quanto estremamente instabile e sensibile alla temperatura, per questo motivo viene venduto in soluzione acquosa. Il prodotto, pronto all’uso e di facile impiego e dosaggio, è regolabile anche sulla sola portata. La non fitotossicità del prodotto stesso rende inoltre possibile il riuso agricolo. L’acido peracetico è un liquido incolore, caratterizzato da un odore pungente ed è solubile con un ampia gamma di concentrazioni in acqua ed in molti solventi organici (Ranieri E. 2003). La caratteristica più importante dell’acido peracetico è quella di essere un agente ossidante con una trascura-
148
I.M. Mancini, S. Masi, E. Trulli, D. Caniani, V.D. Colucci, M. Piscitelli
bile formazione di sottoprodotti di disinfezione indesiderati, in quanto durante l’impiego, esso si decompone principalmente in acido acetico e ossigeno attivo. Come misura cautelativa, è richiesto un pretrattamento di filtrazione e/o chiariflocculazione prima di procedere alla disinfezione con PAA (Caretti, Lubello 2001). L’impiego dell’PAA si è dimostrato attivo nei riguardi dei batteri, ma ha fornito risultati meno soddisfacenti nei confronti dei virus, delle muffe e dei lieviti (Bonomo L. 1996). All’aumentare del dosaggio, si osserva una diminuzione del tempo necessario per l’abbattimento totale dei microrganismi. L’efficacia del processo è influenzata dal pH (Sansebastiano G. et al. 2001), anche se altri autori affermano il contrario (Metcalf & Eddy 2006). Tabella 15. Caratteristiche dell’acido peracetico. CARATTERISTICHE
PARAMETRI OPERATIVI
Tempo di contatto
30 - 60 min a, b
Titolo soluzione
1 - 15% c
Dosaggio
0,5 - 6 mg/l d
Costo
~ 2,2 €/kgPAA (in soluzione al 15%)
Pretrattamenti
Preferibile la filtrazione e
Capacità residue di disinfezione
Sì
a. I tempi di contatto, nel caso specifico dei batteri, non superano i 5 minuti in un intervallo di temperatura compreso tra i +5° e i +40°C (Kemper 2006). Per quanto concerne invece le muffe e i lieviti, tali valori si possono differenziare significativamente in dipendenza della specie da distruggere e della temperatura d’applicazione: si passa infatti dai 3 minuti per il S. cerevisiae ai 40 minuti per la C. mycoderma (Kemper 2006). Anche per l’Escherichia coli le concentrazioni di PAA diminuiscono con l’aumentare del tempo di contatto: si passa da 25 mg/l al tempo 0 a 10 mg/l per 5 minuti ed a 4 mg/l per 15 minuti di contatto (Sansebastiano G. et al. 2001). Dell’Erba et al. (2004) riportano che dosi di 4-8 mg/l con tempi di contatto superiori ai10 minuti possono essere sufficienti ad abbattere il 99% dell’Escherichia coli per rispettare la norma italiana per il riutilizzo irriguo. b. L’influenza della miscelazione, in corrispondenza dell’inserimento del disinfettante nella vasca di contatto, si è rilevata piuttosto marginale in relazione ai lunghi tempi di contatto e al dosaggio. Infatti, in presenza di miscelazione sono necessari più di 25 mg/lPAA per ottenere l’abbattimento dei Coliformi in soli 5 minuti, mentre per tempi di contatto superiori ai 30 minuti, sono sufficienti 10 mg/lPAA per il rispetto dei limiti italiani per il riutilizzo irriguo (Liberti L. et al. 1999). c. Le concentrazioni impiegate variano generalmente tra il 5-15%. d. Si sono ottenuti abbattimenti degli indicatori fecali variabili dalle 2 alle 3 unità logaritmiche (99 e 99,9%) con concentrazioni di acido peracetico comprese tra 1 e 6 mg/l e con tempi di contatto
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
149
di 5 e 30 minuti. Dosaggi di 5 mg/l necessitano di tempi di contatto inferiori rispetto a dosaggi di 2 mg/l (Antonelli M. et al. 2007). Per determinare l’abbattimento di circa 7 unità logaritmiche di Escherichia coli al tempo 0 sono stati sufficienti 25 mg/l di PAA (Sansebastiano G. et al. 2001). e. Il PAA non sembra risentire, a differenza di altri disinfettanti, di elevate concentrazioni di solidi sospesi totali, in alcuni casi anche di concentrazioni dell’ordine di 100 mg/l; diverso è il caso della sostanza organica residua che viene ossidata dal PAA a discapito della carica microbica. È comunque consigliata anche una semplice prefiltrazione su sabbia.
A livello di disinfezione dei reflui, l’PAA non determina particolari problemi igienico-sanitari, ma, nel caso di sovradosaggi, potrebbe indurre un aumento della concentrazione di BOD residuo (Ranieri E. 2003). L’acido peracetico mostra avere anche una migliore azione sui biofilm rispetto al perossido d’idrogeno (Sansebastiano G. et al. 2001). A) B) C) D) A) B) C) D) E)
VANTAGGI: alto potente ossidante e disinfettante; non genera sottoprodotti tossici; bassi dosaggi richiesti; capacità disinfettanti residue. SVANTAGGI: costo elevato del reagente; bisogna comprarlo in soluzione perché è pericoloso da gestire; solitamente è necessario un pretrattamento di filtrazione; alti dosaggi aumentano il tenore di sostanza organica nell’effluente; tempi di contatto lunghi, quindi grandi volumetrie della vasca di disinfezione.
2.2.3. Ozono L’ozono (O3) è l’agente disinfettante più energico disponibile in commercio (itt 2009), infatti, il suo potenziale redox (inferiore solo a quello del fluoro) è circa il 52% maggiore di quello del Cloro. L’O3 è in grado di rimuovere le sostanze organiche solubili biorefrattarie al posto dell’utilizzo del carbone attivo, oltre ad eliminare odori e sapori molesti. La sua elevata reattività, con tempi di contatto variabili da qualche secondo alle decine di minuti in acqua (Scaramuzzi G. 2010), lo rende instabile e non conservabile, per cui deve essere prodotto sul posto e subito prima di essere utilizzato (itt
150
I.M. Mancini, S. Masi, E. Trulli, D. Caniani, V.D. Colucci, M. Piscitelli
2009). Le caratteristiche operative sono riportate nella Tabella 16. La produzione di ozono avviene in sistemi molto complessi nei quali flussi di ossigeno vengono sottoposti ad elevate differenze di potenziale (15.000-20.000 Volt) che, tramite la scarica elettrica, scindono l’ossigeno per formare l’O3. Si possono utilizzare diversi tipi di corrente gassosa in ingresso all’impianto, in particolare: aria filtrata, ossigeno puro, ossigeno liquido e aria arricchita. L’utilizzo di aria per la generazione di ozono è sicuramente più economico in termini di costo di approvvigionamento, ma l’utilizzo di ossigeno puro è più efficiente in quanto il consumo energetico si riduce di circa un terzo e la produzione di ozono raddoppia (Ranieri E. 2003). A temperatura ambiente l’ozono sotto forma gassosa, tende al colore blu ed è caratterizzato da odore pungente. La presenza di O3 può essere rilevata solo quando ha una concentrazione variabile tra 0,01 e 0,05 ppmv (Metcalf & Eddy 2006). Tabella 16. Caratteristiche dell’ozono. CARATTERISTICHE
PARAMETRI OPERATIVI
Tempo di contatto
5 - 30 min a
Dosaggio
0,5 - 40 mgO3/l b, c
Pretrattamenti
Preferibile la filtrazione ed il controllo della temperatura d
Agente disinfettante
Da produrre in situ
Costo
1 - 3 € / kgO3 e, f
Capacità residue di disinfezione
NO
a. La sua azione disinfettante, a causa della sua instabilità, è estremamente rapida, da 1 a 5 minuti; per garantire i limiti per il riutilizzo i tempi salgono a 15-30 minuti. b. Il dosaggio dipende dal tipo di refluo, dal pretrattamento subito e se è previsto il riutilizzo irriguo (vedi Tabella 17). Se l’intento è la sola disinfezione, sono sufficienti 1,5 mg/l per abbattere i batteri e 3 mg/l per i virus con un tempo di contatto di 5-15 minuti. Per l’abbattimento del 99,9% (3 unità log) di Escherichia coli in acque reflue sono sufficienti 2,2 mg/l per 19 minuti. Un abbattimento del 99,99% di Escherichia coli in acqua superficiale si ottiene, invece, con dosi di 0,25 mg/l e tempi di circa 1,5 min (ITT 2009). c. Se l’intento non è la disinfezione, ma un supporto alla rimozione biologica del COD, di solito si stimano circa 2-3 gO3/gCOD rimosso (ITT 2009). d. I parametri che possono influenzare l’efficienza del trattamento sono principalmente tre: A) Com-
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
151
posizione delle acque che esercita una fondamentale influenza sull’efficienza del trattamento a causa delle sostanze organiche e dei solidi sospesi che presentano una elevata domanda di ozono; B) Sostanza organica: un incremento della concentrazione di COD riduce le rese di disinfezione in quanto, parte dell’ozono dosato viene consumato per i processi di ossidazione della frazione organica; C) Temperatura, al crescere della quale diminuisce l’efficacia dell’ozonizzazione, probabilmente a causa della scarsa solubilità dell’ozono alle alte temperature. e. Per la disinfezione il costo medio è circa 2 €/kgO3 consumato a seconda del tipo di produzione di ossigeno, dell’energia elettrica consumata e della portata da trattare. f. Per l’ossidazione della sostanza organica si stimano circa 4-6 €/ kgCOD di costi di esercizio (ITT 2009). Questo ovviamente spiega il perché si adoperano combinazioni dell’ozono e di trattamenti biologici come scelte più vantaggiose per l’ossidazione di alti carichi di COD (pratica che solitamente non avviene in processi di recupero delle acque reflue, specialmente ad uso irriguo).
Si riportano nella Tabella 17 delle indicazioni generali di dosaggio di ozono; esse non possono essere assunte come tali per la progettazione, ma sono prettamente indicative per dare un ordine di grandezza di riferimento. Tabella 17. Indicazioni di dosaggio medio di ozono per garantire alcuni limiti allo scarico di coliformi (Metcalf & Eddy 2006). DOSAGGIO DI OZONO PER IL RIUTILIZZO a [mg/l] N° coliformi dopo la disinfezione, PRETRATTAMENTO N° di coliformi tempo di contatto = 15 minuti APPLICATO prima della AL REFLUO DA disinfezione Limite di 23 Limite < 2,2 DISINFETTARE MPN/100 ml MPN/100 ml MPN/100 ml dosaggio troppo dosaggio troppo nessun trattamento 107 - 109 b elevato , elevatob, trattamento primario 107 - 109 efficacia non garantita efficacia non garantita fanghi attivi 105 - 106 16 - 30 30 - 40 fanghi attivi + 16 - 25 30 - 40 104 - 106 filtrazione 12 - 20 16 - 25 filtrazione su sabbia 102 - 104 3-8 4-8 microfiltrazione 101 - 103 osmosi inversa ~0 0 0,5 - 2
a. Confrontando la Tabella 17 (relativa all’ozono) con la Tabella 14 (relativa al cloro combinato) si osserva che i dosaggi di O3 sono più bassi, grazie alla maggiore efficacia dell’ozono, anche quando il refluo subisce un pretrattamento di filtrazione spinto su membrana, mentre è più alto nel caso opposto a causa della concentrazione residua di sostanza organica e solidi disciolti. b. La solubilità dell’ozono in acqua è funzione della temperatura e del pH, la massima concentrazione è di 40mg/l.
152
I.M. Mancini, S. Masi, E. Trulli, D. Caniani, V.D. Colucci, M. Piscitelli
Ad eccezione dei sottoprodotti derivati dallo ione bromato (in presenza dei quali è meglio adottare un altro disinfettante), la maggior parte degli altri sottoprodotti di reazione, anche se tossici, non creano grosse preoccupazioni perché sono molto instabili dal punto di vista chimico venendo rapidamente biodegradati e scomparendo dopo pochi minuti dalle acque ozonizzate (Metcalf & Eddy 2006). È comunque sconsigliabile l’uso contemporaneo del cloro e dell’ozono. Bisogna inoltre tenere presente che, anche se normalmente la disinfezione dell’acqua con l’ozono non produce sostanze alogenate, una durata dell’applicazione troppo breve, può causare un aumento del tenore dei precursori dei trialometani. I costi di produzione sono molto elevati rispetto alla clorazione, tanto che, in termini di costi complessivi dell’esercizio, la spesa viene valutata anche 5-6 volte maggiore degli altri metodi di disinfezione (Metcalf & Eddy 2006). Il costo effettivo è però funzione anche dell’economia di scala, ovvero della quantità totale di ozono necessaria all’intero impianto (ad esempio anche per eventuali deodorizzazioni di altre parti dell’impianto). I costi di gestione, ovviamente, dipendono anche dalla concentrazione di ozono da fornire per ogni metro cubo di refluo. Valori indicativi per il processo completo sono riportati nella Tabella 18. Tabella 18. Costi di gestione per la disinfezione con ozono (Metcalf & Eddy 2006). PROCESSO Pretrattamento dell’aria da ozonizzare Produzione di ozono – Alimentazione ad aria – Alimentazione ad ossigeno puro Unità di ozonizzazione Altre operazioni
CONSUMO TOTALE medio Impianto ad aria Impianto a ossigeno puro
CONSUMO ENERGETICO [kWh/kgO3] 4-7 13 - 20 6 - 14 2-7 1-3 20 - 37 13 - 31
153
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
Studi più recenti indicano che i costi di produzione oraria di ozono variano secondo leggi di economia di scala; si ha infatti, che all’aumentare della produzione di ozono i costi diminuiscono, fino a diventare concorrenziali con altre tecnologie innovative di disinfezione, come ad esempio i raggi ultra violetti. Nelle Tabelle 19 e 20 si riporta la stima della variazione dei costi di produzione e di ammortamento in funzione della richiesta oraria di ozono. Tabella 19. Variazione dei costi di produzione e di ammortamento in funzione della richiesta oraria di ozono (ITT 2009; Scaramuzzi G. 2010). PRODUZIONE ORARIA SPECIFICA [kgO3/h] a
COSTO DI PRODUZIONE [€/kgO3] b
COSTI DI AMMORTAMENTO [€/kgO3]
COSTO TOTALE DI PRODUZIONE [€/kgO3]
1
3,3
1
2,3 c,d
10
1,8
0.3
2,1
500
0,8
0.2
1
a. Produzione di ozono con fornitura di ossigeno puro a condizioni standard di temperatura (T=15°C) e di concentrazione di ozono da ossigeno puro (CO3=7%) e da aria (CO3=2%). b. Si è ipotizzato un costo medio dell’energia di 0,12€/kWh e dell’ossigeno di 0,14€/Nm3. c. Si stima un consumo di 10m3/h di ossigeno e di 7,5kWh di energia elettrica. d. Se si produce ozono con aria, l’energia richiesta è di circa 24kWh/kgO3 con un costo di circa 2,88 €/kgO3.
Tabella 20. Stima dei costi di produzione di ozono (ITT 2009). PRODUZIONE ORARIA SPECIFICA
[€/kgO3] Costo di produzione totale
Manutenzione
Raffreddamento acqua
Energia
Fornitura ossigeno
Ammortamento
1
3,3
0,3
0,1
0,5
1,4
1,0
10
2,1
0,1
0,1
0,4
1,2
0,3
500
1
0,05
0,1
0,25
0,4
0,2
154
A) B) C) D) E) A) B) C) D) E) F)
I.M. Mancini, S. Masi, E. Trulli, D. Caniani, V.D. Colucci, M. Piscitelli
VANTAGGI: disinfettante molto potente (più dei composti clorati e dei RUV), efficace per batteri, Cryptospiridium, virus e Giardia; bassi tempi di contatto (10-15 minuti, max 30); gli eventuali sottoprodotti generati (organici come l’aldeide, l’acido acetico e formico; inorganici come i clorati) si decompongono rapidamente ed è al massimo necessaria la post-filtrazione su carbone attivo; l’ozono residuo si converte in ossigeno aumentando il contenuto dello stesso nell’effluente; controlla le proprietà organolettiche dell’acqua (gusto, odore, colore). SVANTAGGI: costi di impianto e di gestione molto alti; non ha capacità residue di disinfezione (sconsigliato l’uso di Cl + O3); necessita di un pre-trattamento di filtrazione per rimuovere le sostanze organiche (che ne aumentano i consumi) e particolate (che potrebbero proteggere i microrganismi riducendo l’efficacia di disinfezione); produce sottoprodotti pericolosi e tossici in presenza di bromo, aldeide e chetoni (in presenza di questi è meglio applicare i RUV); l’aria in uscita dall’ozonizzatore deve essere trattata prima del rilascio in atmosfera; deve essere prodotto in situ perché molto instabile.
2.2.4. Radiazione ultra violetta La disinfezione con raggi UV è un processo di disinfezione di tipo fisico legato al trasferimento di energia elettromagnetica al materiale genetico della cellula modificando il patrimonio genetico del DNA e impedendone la riproduzione. Tutto questo avviene in brevissimi istanti e, difatti, si ha la distruzione dei microrganismi patogeni presenti nell’acqua, anche quelli che possono sopravvivere ad altri processi di trattamento. L’utilizzo della radiazione ultravioletta, inoltre, non ha conseguenze sul sapore, sull’odore e sulla limpidezza dell’acqua e non dà origine a sostanze residue o sottoprodotti nocivi per la salute. L’azione biocida si ha in corrispondenza di lunghezze d’onda della radiazione comprese fra 250 e 270 nm; in tale intervallo rientrano i raggi UV-C
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
155
che hanno quindi un forte effetto germicida e presentano la massima efficacia in corrispondenza della lunghezza d’onda di 253,7 nm (Bonomo L. 1996). I microrganismi sottoposti a RUV rispondono in maniera differente, in particolare si ha che i batteri sono i più sensibili, mentre protozoi, virus e spore di batteri sono man mano più resistenti (ITT, 2009). Le caratteristiche operative sono riportate nella Tabella 21. Tabella 21. Caratteristiche dei RUV. CARATTERISTICHE
PARAMETRI OPERATIVI
Tempo di contatto
5 - 20 sec
Pretrattamenti
Filtrazione c
Dosaggio
Agente disinfettante Costo
5 - 180 mJ/cm2 a, b Da produrre in situ 0,08 - 1,15 €/m3
Capacità residue di disinfezione NO d
a. Dosi UV pari a 100 e 160 mWs/cm2, rispettivamente per l’effluente chiarificato-filtrato e per quello solo chiarificato, consentono il raggiungimento di circa 2 MPN/100 ml di Coliformi totali (Avicenne Initiative, Project No. AVI-CT94-0010, Commissione Unione Europea, 1995). b. In condizioni “ideali” bastano bassissimi dosaggi e brevi tempi di contatto per la rimozione di alcuni batteri (Escherichia Coli, Salmonella, ecc.) e virus, mentre sono richiesti dosaggi e tempi maggiori per rimuovere cisti, protozoi e uova di elminti (Bonomo L. 1996). Nella pratica impiantistica, ai fini di un sicuro riutilizzo in agricoltura, le dosi consigliate variano tra 60-80 mJ/cm2 per garantire abbattimenti degli Escherichia Coli di 2-4 unità logaritmiche con un tempo di contatto di almeno 5-10 secondi (ITT 2009). c. Per una corretta disinfezione, la prefiltrazione è necessaria quando: A) CSST > 30mg/l; B) torbidità >> 2 NTU; C) trasmittanza < 55%. Quando si riutilizzano i reflui per scopi irrigui si consiglia che la concentrazione di SS all’ingresso degli UV sia inferiore ai 10 mg/l. d. La mancanza di azione disinfettante residua dei raggi UV facilita la ricontaminazione che si potrebbe ripresentare spontaneamente dopo 12-24 ore nelle acque sottoposte al trattamento UV. Se è previsto il riutilizzo dell’acqua per l’irrigazione, esso deve essere abbinato ad un opportuno sistema che garantisca, anche durante lo stoccaggio, un bassissimo livello di inquinamento microbiologico.
Ai fini dell’efficienza di questa tecnologia, assumono un ruolo determinante le caratteristiche del refluo. Per ottenere elevati rendimenti di inattivazione batterica, necessari per il riuso dei reflui in agricoltura, l’acqua da disinfettare con raggi UV dovrebbe avere una trasmittanza (ovvero la percentuale di UV
156
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che viene trasmessa dall’acqua) superiore al 75%, una bassa concentrazione di solidi disciolti (fig. 2) ed una bassa torbidità. Queste caratteristiche sono ottenibili tramite un trattamento terziario (di filtrazione su sabbia o microfiltrazione) posta a monte della disinfezione.
Figura 2. Curva dose UV-risposta in funzione della concentrazione di SST (Metcalf & Eddy 2006).
La dose effettiva assorbita dall’acqua è influenzata dai seguenti fattori: A) tipo, rendimento, età e stato delle lampade; B) disposizione delle lampade all’interno del reattore UV; C) idraulica e tempo di irraggiamento nel reattore; D) portata; E) trasmissione della radiazione nell’acqua. È buona norma adottare condizioni operative prudenziali ipotizzando perdite dell’efficacia superiori al 10% e, in alcuni casi, valori anche più alti (Ranieri E. 2003).
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
157
La dose UV è espressa dalla seguente relazione: D = I * t dove: D = dose UV (mWs/cm2, J/m2); I = intensità utile (o effettiva) della radiazione UV (mW/cm2, W/m2); t = tempo di esposizione (s). La valutazione della dose necessaria e anche di quella effettivamente percepita dai microrganismi, così come del tempo minimo di esposizione alla radiazione UV, è problematica da stabilire in quanto dipende da: frequenza e intensità delle radiazioni, numero e configurazione delle lampade, dalla distanza tra il liquido e le lampade, dalla turbolenza del refluo, dal tempo di esposizione, dal coefficiente di assorbimento del refluo. Numerosi studi a partire dagli anni ottanta concordano nel confermare la estrema efficacia delle radiazioni UV sulle forme vegetative dei batteri (come Coliformi totali e fecali, Escherichia coli) di cui si ottengono abbattimenti del 99,9% già a dosaggi < 20 mW*sec/cm2 (Bonomo L. 1996). Ciò viene ulteriormente confermato dalle linee guida proposte da US EPA nel 2006: per gli Escherichia Coli si ottengono inattivazioni del 99,999% con dosaggi di circa 10 mJ/ cm2 (fig. 3). Nelle Tabelle 22-23 si riportano altri dosaggi minimi richiesti per l’inattivazione di diversi microrganismi di riferimento.
Figura 3. Dosi UV necessarie per l’inattivazione di alcuni principali microrganismi (US EPA, 2006).
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Tabella 22. Dosi UV per l’inattivazione dei principali microrganismi di interesse. AGENTE PATOGENO
Virus e batteri
Batteriofagi MS-2 Protozoi, oocisti
INATTIVAZIONE [%]
DOSE UV a [mWsec/cm2, mJ/cm2]
1 log (90%)
2-6
2 log (99%)
5 - 25
3 log (99,9%)
30 - 40
4 log (99,99%)
55 - 65
4 log (99,99%)
> 90
1 log (90%)
80
2 log (99%)
120 - 180
a. L’impianto di Milano S. Rocco utilizza un sistema UV per la disinfezione di circa 345.000 m3/d di acque reflue urbane destinate al riutilizzo irriguo (L’escherichia coli in uscita deve essere < 10 UFC/100ml). Il sistema è dotato di 3 canali, ognuno di essi costituito da 3 banchi formati da 7 moduli, per un totale di 1.134 lampade per linea. Il consumo elettrico totale del sistema UV è di circa 420kW e fornisce una dose di circa 60 mJ/cm2 con un tempo di esposizione di oltre 6 secondi (Feretra G. 2010).
Tabella 23. Tabella teorico-empirica per la determinazione dei parametri di progetto di un impianto UV (ITT, 2009). Livello di disinfezione richiesto di Coliformi Fecali [NTU/100ml] a 1000 200 100 10 2,2
SS disciolti [mg/l] b
Trasmittanza [%]
max 30
> 55
max 10
> 60
max 4,5
> 65
Dose UV [mJ/cm2] c 20 - 30 25 - 37 25 - 35 45 - 60 80 - 90 d
a. Il numero di Coliformi fecali in ingresso è di 105 NTU/100ml b. Concentrazione di SST in uscita dal pretrattamento di filtrazione su sabbia c. I Coliformi Fecali hanno concentrazioni più elevate degli Escherichia Coli secondo un fattore moltiplicativo di ~1,2. Il valore dei Coliformi totali si ottiene moltiplicando il valore dei Coliformi Fecali per ~4. d. La torbidità di riferimento è < 2NTU.
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
159
In generale più elevato è il livello della disinfezione richiesto e maggiore deve essere il numero dei banchi da porre in serie in ciascun canale. Per valori finali di Coliformi Totali di 100/100ml sono consigliati almeno due banchi in serie per canale mentre se il valore finale dei Coliformi Totali è minore di 5/100ml, il numero minimo di banchi in serie è 3 (ITT 2009). Gli impianti di trattamento UV si dividono essenzialmente in due categorie: impianti a canale aperto e impianti in condotta. I primi sono principalmente impiegati per la depurazione delle acque reflue, mentre i secondi sono tipici degli impianti di trattamento per acquedotti e per potabilizzatori. Attualmente, esistono varie tipologie di lampade capaci di emettere RUV, alcune sono già comunemente utilizzate, come le lampade a vapori di mercurio a bassa e media pressione (Tabella 24), altre sono in fase di sperimentazione e studio (come le lampade ai sali metallici; lampade allo xenon; led).
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Tabella 24. Caratteristiche delle lampade a bassa e media pressione (US EPA, 2006). BASSA PRESSIONE
BASSA PRESSIONE ALTA INTENSITÀ
MEDIA PRESSIONE a
Condizioni di esercizio
Basse portate Bassa torbidità
n.r.
Alte portate Alta torbidità
Lunghezza d’onda emessa [nm]
253,7 (85% della radiazione totale emessa)
254
254 (15-20% della radiazione totale emessa)
40 - 60
60 - 100
600 - 900
0,5
1,5 - 10
50 - 250
35 - 40
41
10 - 20
0,2
0,5 - 3,5
5 - 30
Perdita di efficienza dopo un anno di funzionamento [%]
30 - 40
n.r.
n.r.
Lunghezza lampada [cm]
10 - 150
10 - 150
5 - 120
alto
intermedio
Basso
4.000 - 16.000
8.000 12.000
3.000 - 8.000
PARAMETRO
Temperatura operativa [°C] Potenza elettrica richiesta [W/cm] Efficienza di conversione [%] Potenza germicida [W/cm]
Numero di lampade necessarie a parità di dose fornita Durata operativa [ore]
a. Le lampade a media pressione costano 4-5 volte in più rispetto quella a bassa pressione, ma la convenienza dipende dal numero di lampade da utilizzare. n.r.: non rilevato.
Si riporta di seguito l’estratto di uno studio condotto nel 2010 relativo alla stima dei costi di disinfezione con RUV di acque reflue urbane per il riutilizzo irriguo nel rispetto della carica microbica ammissibile dal D.Lgs. 152/2006 (Tabella 25).
161
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
Tabella 25. Stima dei costi per la disinfezione con raggi UV di acque reflue destinate al riutilizzo in agricoltura in rispetto dei limiti imposti dal D.Lgs. 152/2006 e s.m.i. (Feretra G. 2010). IPOTESI a
Lampade senza sistema di pulizia automatica
Lampade con sistema di pulizia automatica
portata [m3/d]
n° lampade
costo investimento [€]
costo gestione [€/m3]
n° lampade
costo investimento [€]
costo gestione [€/m3]
1.300
8
50.000
0,09
4
27.000
0,120
8.600
48
179.000
0,08
32
129.000
0,107
17.300
96
283.000
0,08
64
220.000
0,100
25.600
144
407.000
0,08
90
280.000
0,090
36.700
216
528.000
0,08
120
350.000
0,083
a. Le caratteristiche del refluo ipotizzato, dopo prefiltrazione, sono: CSS<10 mg/l; trasmittanza>65-70%; DoseUV=70-80 mJ/cm2; Escherichia Coli in ingresso al sistema UV=100.000 UFC/100ml; Escherichia Coli in uscita dal sistema UV=10 UFC/100ml; abbattimento ipotetico del 99,99%.
A) B) C) D) E) A) B) C) D) E)
VANTAGGI: nessuna produzione di sottoprodotti tossici; richiesti brevissimi tempi di contatto (10-30 secondi); sistema sicuro da usare, ma sono comunque da evitare le esposizioni dirette; il costo di trattamento è competitivo con la clorazione; i reflui così trattati possono essere riutilizzati in agricoltura. SVANTAGGI: non ha capacità disinfettanti residue (sconsigliato l’uso di RUV + Cl); l’efficienza è influenzata dalla torbidità e dalla concentrazione di solidi sospesi: è necessaria la pre-filtrazione; le lampade a bassa pressione non sono efficaci per reflui con concentrazione di SST maggiore di 30 mg/l; difficile stabilire il giusto dosaggio; limitata durata delle lampade;
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F)
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È necessario effettuare la pulizia periodica delle lampade a causa della crescita di batteri sul rivestimento delle lampade.
2.3. Confronto fra i costi Attualmente è difficile eseguire stime attendibili per confrontare i costi derivanti dall’impiego delle differenti tecniche di disinfezione a causa della velocità di fluttuazione dei prezzi, delle differenze sul prezzo dei materiali e dell’energia, sui costi finanziari degli ammortamenti. Un’indicazione di massima è indicata nella Tabella 26. Tabella 26. Confronto tra i costi di trattamento per tecnologia di disinfezione applicata (ITT, 2009). TECNOLOGIE
Cloro
UV
Ozono
Acido peracetico
Membrane
COSTO [€/m3]
0,04 - 0,06
0,08 - 0,13
0,05 - 0,18
0,13 - 0,27
0,2 - 0,82
In Tabella 27 è riportata una valutazione economica di massima, relativa ad un impianto per 40.000 abitanti equivalenti. Tabella 27. Costi approssimativi per il risanamento dei reflui (US EPA, 2004). TRATTAMENTI
stagno di ossidazione fanghi attivi
fanghi attivi + filtrazione + disinfezione UV costo addizionale trattamento terziario costo addizionale di disinfezione
pretrattamento con calce + osmosi inversa microfiltrazione + osmosi inversa
$/m3 0,18 0,34 0,42 0,24 0,07 0,75 0,54
2.4. Impianti sperimentali per il riutilizzo irriguo Tra le numerosissime sperimentazioni di letteratura, si riporta di seguito una breve rassegna non esaustiva delle principali linee di ricerca e configura-
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
163
zioni di impianto che si possono adottare per riutilizzare i reflui in agricoltura. Alonso E. et al. (2001): la sperimentazione, avvenuta utilizzando un refluo secondario urbano filtrato, è consistita nel confronto tra la Micro-filtrazione e l’Ultra-filtrazione. Per entrambe le tipologie, si è riscontrata una qualità del refluo trattato abbastanza simile, ma la MF ha comportato costi minori. Entrambe le tecnologie non hanno garantito un alto abbattimento di azoto e fosforo residuo dal trattamento biologico, tanto che nell’effluente si è riscontrato un significativo contenuto residuo di sostanze nutrienti utili alla fertirrigazione. Pollice A. et al. (2004): sono state confrontate le performance agronomiche di pomodori e finocchi irrigati con acque convenzionali (di falda) e con acque provenienti da un impianto pilota costituito da una filtrazione su membrana a fibre cave applicata ad un refluo secondario di un impianto a fanghi attivi. Dopo due anni di monitoraggio la qualità degli ortaggi coltivati nei due campi è stata la stessa. Gideon Oron et al. (2008): l’impianto pilota utilizzato era costituito da due processi di filtrazione su membrana posti in serie: UF e RO per assicurare rispettivamente la rimozione della componente patogena e della sostanza organica sospesa residua e l’abbattimento della salinità. L’effluente è risultato idoneo all’irrigazione e caratterizzato dalla quasi totale assenza di sali e di sostanze nutritive. Caretti C., Lubello C. (2003): è stato eseguito il confronto sulle quattro principali tecniche di disinfezione alternative al cloro: PAA; RUV; PAA immesso a monte dell’UV; PAA immesso a valle dell’ UV. Monitorando l’efficienza di abbattimento di Coliformi totali, Coliformi fecali ed Escherichia Coli si è constatato che la disinfezione realizzata con PAA a monte dei RUV, è risultata più efficiente e quindi migliore per il riutilizzo dei reflui in sicurezza. Petala M. et al. (2006): l’impianto pilota è costituito da unità di filtrazione su sabbia, asdorbimento su carboni attivi e disinfezione con ozono. L’effluente è risultato conforme alle normative US EPA per l’utilizzo delle acque in ambito urbano (escluso l’uso potabile), per l’irrigazione delle colture alimentari e per le aree ricreative; i costi di gestione sono risultati elevati (0.24 €/m3). Montse Meneses et al. (2010): lo studio è consistito nella valutazione
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dell’impatto ambientale del refluo, riutilizzato in ambito irriguo ed in applicazioni urbane, comparando tre tecniche di disinfezione: ozonizzazione; ozonizzazione + perossido di idrogeno; clorazione + UV. L’analisi del ciclo di vita ha indicato che la tecnica di clorazione + UV è risultata la meno impattante (si evidenzia che nello studio non è stata considerata l’attitudine dei disinfettanti a produrre sottoprodotti indesiderati di disinfezione, ndr). Belgiorno V. et al. 2007: l’impianto pilota realizzato, costituito da una disinfezione con RUV a valle di un sistema in grado di emettere ultra suoni, mirava alla rimozione anche dei distruttori endocrini. Oltre a tale effetto si è riscontrata una maggiore efficienza della disinfezione grazie all’azione degli US in grado di evitare lo sporcamento delle lampade UV (Naddeo V. et al. 2009). 2.5. Prospettive future: i processi AOP I classici impianti a fanghi attivi non rappresentano un’adeguata soluzione per l’abbattimento di alcune sostanze, come gli inquinanti emergenti, a causa della loro estrema complessità. In futuro le tecniche AOP (Processi avanzati di ossidazione), che utilizzano l’accoppiamento O3/UV e O3/H2O2, in seguito al loro maggiore sviluppo ed abbassamento dei costi, saranno più frequentemente utilizzate per l’effettiva distruzione di sostanze tossiche e refrattarie, batteri e virus presenti nei reflui, garantendo una maggiore sicurezza nel riutilizzo. La loro efficienza di reazione è infatti superiore a quella dei singoli processi costituenti, purché nella progettazione dei reattori si tenga conto del fatto che l’ozono è un gas scarsamente solubile e che è quindi estremamente importante il suo contatto con gli altri ossidanti. Questi processi si possono applicare in particolare per la rimozione di: fenoli, clorofenoli, acidi umici e fulvici, alogenocomposti, aldeidi e ossiacidi, composti aromatici ed eterociclici complessi, BTX, VOC. 3. Soluzioni sperimentali per il reimpiego degli effluenti secondari 3.1. Schemi a rilascio controllato L’applicazione sperimentale consiste nel modificare i classici schemi biologici di trattamento in modo da rimuovere le sostanze patogene e dannose per l’ambiente, rilasciando in modo controllato concentrazioni di sostan-
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
165
ze organiche e di nutrienti utili alla fertilizzazione dei suoli e delle colture. Lo schema è quello proposto dall’Università della Basilicata nell’ambito del progetto PON “AQUATEC” 2002-2007 (Masi S. et al. 2008). Durante tale periodo, è stata condotta una cospicua attività sperimentale, tuttora in corso, mediante la progettazione, realizzazione e gestione di un impianto pilota fisico-chimico (filtrazione su sabbia e disinfezione con acido peracetico) appositamente realizzato per il trattamento e riutilizzo irriguo di reflui urbani civili su parcelle agronomiche di prova con uno sviluppo di circa due ettari. Il problema che si è affrontato riguarda la realizzazione di schemi di trattamento in grado di rimuovere selettivamente la componente organica rapidamente biodegradabile pur restando stabile alle variazioni delle condizioni ambientali e di carico. L’impianto, schematizzato nelle figure 4-5, è basato su un classico schema di trattamento a fanghi attivi in cui è stato modificato il punto di scarico delle acque trattate.
Figura 4. Schema semplificato a rimozione controllata (Progetto PON AQUATEC, 2002-2007).
Figura 5. Schema dell’impianto pilota (Progetto PON AQUATEC, 2002-2007).
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La coltura prescelta per l’irrigazione è stata l’olivo; le piante già pienamente sviluppate, non erano mai state sottoposte ad irrigazione. Sono state apportate al terreno acque reflue trattate con un notevole contenuto di sostanza organica, fino a 250 mg/l. Con i quantitativi di acqua utilizzati per l’irrigazione (circa 2.000-3.000 m3/ha per anno) sono stati forniti circa 125 kg ci carbonio organico, 50 kg di azoto, 50 kg di potassio e 5 kg di fosforo. I quantitativi di azoto e fosforo hanno coperto per circa i due terzi il fabbisogno delle colture. La disinfezione è stata effettuata con ipoclorito di sodio (5-10 mg/l) e acido peracetico (2-5 mg/l), quantitativi in grado di portare il livello di carica microbica (come coliformi totali) intorno a 1.000 UFC/100ml. L’irrigazione è stata effettuata in maniera costante portando al limite della capacità di campo i terreni nella stagione primaverile in modo da costituire un “serbatoio” per le esigenze delle piante nei mesi caldi. L’irrigazione goccia a goccia ha permesso di contenere al massimo l’area superficiale bagnata ed i relativi problemi di dispersione microbica. I riscontri microbiologici sul frutto e sull’olio prodotto hanno escluso qualsiasi fenomeno di contaminazione. Il protocollo di analisi ha preso in considerazione i metalli pesanti (Cu, Pb, Cr, Zn, Cd), gli indicatori di salificazione (Na, Mg, Ca), i solfati; i cloruri e gli indicatori di contaminazione organica (BTX, IPA). Dall’analisi delle misure, non è stato rilevato alcun valore anomalo o indice di degrado del terreno. L’intervento di irrigazione si è configurato come una vera unità di trattamento in grado di trasformare gli inquinanti residui (sostanza organica e composti nutrienti), in materiale vegetale utilizzabile. L’apporto idrico ha comportato, inoltre, il recupero degli elementi fertilizzanti (azoto e fosforo), contenuti nei reflui civili sottraendoli nel contempo alle acque superficiali per le quali gli stessi sono da considerare elementi inquinanti. 3.2. Bacini di trattamento unico a deflusso longitudinale L’affinamento degli effluenti urbani secondari da impianti di depurazione di bassa potenzialità può essere realizzato in un bacino di trattamento “unico” che opera i processi di chiari-flocculazione e disinfezione in serie di canali o vasche a deflusso longitudinale (Boari et al. 1998). Questi bacini
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consentono inoltre di ottenere una funzione di compenso delle portate giornaliere degli effluenti del depuratore e di fatto operano uno stadio di controllo dell’efficienza depurativa dell’impianto a monte. Una conveniente applicazione può essere ottenuta in sistemi irrigui che operino la sub-irrigazione. Impianti a scala reale sono stati utilizzati per l’irrigazione di campi da golf provvisti di bacini di compenso giornaliero. Il bacino (fig. 6) è realizzato con canali disposti in serie, costruiti in scavo o in rilevato ed opportunamente impermeabilizzati. Da una vasca di piccole dimensioni che opera il mescolamento dei reagenti di coagulazione, i reflui passano nel primo canale che opera come flocculatore e sedimentatore. Un secondo canale consente la raccolta dei fanghi sedimentati estratti mediante l’ausilio di una pompa pneumatica collegata a tubi forati che corrono lungo il fondo della vasca. La fase di disinfezione viene condotta in un terzo canale mediante clorazione, aggiunta di cloro gas o utilizzo di lampade UV. Oltre alla fase di reazione operata nella zona iniziale, il terzo canale va a costituire la vasca di contatto. Nella parte terminale di questo canale si effettua l’estrazione dell’effluente attraverso un impianto di sollevamento.
Figura 6. Schema planimetrico di bacini di trattamento deflusso longitudinale per il trattamento di effluenti urbani secondari (Boari et al. 1998).
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3.3. Sistemi integrati di impianti di depurazione Le basse portate prodotte dagli impianti di depurazione di ridotta potenzialità possono costituire un limite all’applicazione del riutilizzo irriguo non rendendo economicamente sostenibile il sistema. In alcuni casi, sfruttando la vicinanza geografica e le convenienti quote altimetriche, può risultare proficuo l’utilizzo integrato dei flussi di reflui provenienti da più impianti di depurazione. Le problematiche che si presentano nella costruzione dei sistemi che realizzano l’utilizzo congiunto delle acque di scarico di più impianti risultano tuttavia complesse richiedendo elevati costi di investimento e presentando un gravoso impegno gestionale. Oltre alle problematiche connesse al trattamento per il raggiungimento dei livelli richiesti di qualità degli effluenti, si aggiungono quelli correlati al mantenimento della qualità delle acque nelle opere di trasporto e accumulo. Inoltre gli aspetti connessi alle opere di approvvigionamento e distribuzione sono evidentemente da valutare attentamente. Questi sistemi diventano fattibili quando un incremento di potenzialità può essere ottenuto con la disponibilità di una capacità di invaso per l’accumulo stagionale dei reflui nei periodi non irrigui, come piccoli bacini realizzati con le finalità dell’approvvigionamento idrico in aree agricole. In tal caso, le soluzioni impiantistiche possono prevedere che nei periodi irrigui i reflui affinati vengano impiegati direttamente mentre nei periodi non irrigui gli effluenti secondari, anche non affinati, siono accumulati nell’invaso. A tal fine, si evidenzia che deve attentamente analizzarsi l’opportunità di effettuare il trattamento in impianti centralizzati ovvero presso i singoli impianti comunali. Uno studio condotto per la Regione Puglia (Sogesid, Boari et al. 2004) descrive un sistema che prevede l’impiego irriguo integrato dei reflui trattati di alcuni comuni limitrofi dell’alta Murgia barese (Altamura, Gravina e Santeramo in Colle) che utilizza la capacità di invaso del bacino artificiale del Saglioccia. I principali dati di progetto e lo schema di impianto del sistema, che realizza una potenzialità di circa 130.000 a.e., sono illustrati in Tabella 28 e in figura 7.
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Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
Tabella 28. Dati progettuali di un sistema per il riutilizzo integrato degli effluenti urbani trattati di alcuni comuni dell’Alta Murgia (Sogesid, Boari et al. 2004). Territorio comunale
Disponibilità di reflui Potenzialità Impianti di periodo depurazione periodo irriguo non irriguo
Capacità di invaso
Superficie
Fabbisogno irriguo
Lunghezza delle condotte di adduzione
Zone irrigue servite
a.e.x1000
Mm3/stagione
Mm3/stagione
Mm3
Km2
Mm3/stagione
Km
Altamura
64
3.1
1.5
---
24
7.0
22
Gravina in Puglia
42
2.1
1.0
5
3
1.0
6
Santeramo in C.
26
1.3
0.6
---
4
1.5
18
Totale
132
6.5
3.1
5
28
9.5
46
Figura 7. Schema di impianto di un sistema per il riutilizzo integrato degli effluenti urbani trattati di alcuni comuni dell’Alta Murgia (Sogesid, Boari et al. 2004).
4.
Conclusioni
La presente memoria descrive e confronta le tecniche e le tecnologie di trattamento attualmente disponibili per un corretto e sicuro riutilizzo delle acque reflue urbane. Per garantire la sicurezza nelle pratiche di riuso, l’analisi della letteratura individua due aspetti fondamentali da tenere in considerazione, ovvero le questioni igienico-sanitarie-ambientali e le soluzioni tecnicoprogettuali degli impianti.
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Le problematiche da affrontare, specialmente nel riuso agricolo, si risolvono adottando particolari accorgimenti impiantistici che agiscono sull’efficacia della disinfezione e sull’introduzione di processi terziari di affinamento. Le tecniche di disinfezione analizzate riguardano l’impiego di reagenti chimici (cloro; acido peracetico e ozono), di processi fisici (radiazioni elettromagnetiche ultra violette) e di processi meccanici (filtrazione su membrana); quest’ultimi impiegati anche nei processi di affinamento. Ai fini del riutilizzo irriguo delle acque reflue, si stanno sempre più diffondendo i sistemi MBR (Reattori biologici a membrana), ovvero reattori biologici dotati di unità di Micro-filtrazione. I metodi avanzati di trattamento delle acque reflue eliminano la maggior parte dei problemi ambientali così che, le principali preoccupazioni per il riutilizzo delle acque risanate, possano essere mitigati. È da sottolineare che, oltre i composti patogeni e dannosi per l’ambiente, i processi di affinamento terziari rimuovono anche altre sostanze quali azoto, fosforo e sostanza organica, che notoriamente sono utilizzate nella pratica di fertirrigazione tramite l’impiego di fertilizzanti industriali. Le sostanze nutritive naturalmente contenute nelle acque reflue, invece, potrebbero essere riutilizzate anziché rimosse, in quanto molto utili nel caso di recupero delle acque reflue in agricoltura. In questo ambito si inseriscono le ricerche e sperimentazioni condotte dall’Università della Basilicata, tese ad introdurre differenti approcci tecnico-gestionali per il riutilizzo in agricoltura di effluenti secondari trattati secondo schemi di trattamento semplificati in grado di rilasciare in modo controllato le sostanze nutritive. Si può comunque affermare che la tecnica di disinfezione che maggiormente si sta sviluppando, e che viene sempre più adottata negli impianti per il recupero delle acque reflue per l’irrigazione, sfrutta l’azione battericida dei raggi ultra violetti, associata ad un processo di affinamento di prefiltrazione su membrana. In funzione della qualità dell’effluente finale, e della sua destinazione d’uso, dalle varie sperimentazioni internazionali, si deduce che, al singolo processo di affinamento e/o disinfezione, si preferirà sempre di più la sequenza di più processi e tecnologie. Infine, l’evoluzione tecnologica e la previsione di un maggiore recupero e riuso degli effluenti urbani, comporterà negli anni futuri un’ulteriore diminuzione dei costi di trattamento ed una maggiore sicurezza d’impiego.
Stato dell’arte ed applicazioni sperimentali
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Ignazio M. Mancini, Ettore Trulli, Salvatore Masi, Donatella Caniani, Nicla Longino, Massimiliano Piscitelli
Indirizzi pianificatori e tecnologici per l’impiego in agricoltura dei fanghi di depurazione Sommario: 1. Introduzione; 2. Inquadramento normativo; 3. Indirizzi per il trattamento dei fanghi di depurazione ai fini dell’utilizzo in agricoltura; 4. L’impatto ambientale delle pratiche di impiego in agricoltura dei fanghi di depurazione; 5. Limiti all’impiego e potenzialità agronomiche dei fanghi di depurazione; 5.1. Limiti per l’applicazione dei fanghi sui terreni; 5.2. Valutazione dell’idoneità all’impiego dei fanghi di depurazione in agricoltura mediante test di fitotossicità; 6. Schemi impiantistici di trattamento; 6.1. Processi aerobici di compostaggio; 6.2. Sistemi integrati anaerobico-aerobico; 6.3. Co-digestione dei fanghi di depurazione con rifiuti organici; 6.4. Trattamenti integrativi; 7. Conclusioni.
1. Introduzione I fanghi costituiscono il principale sottoprodotto degli impianti di depurazione e sono considerati, in generale, un rifiuto. Già il D.L. 22/97, “Decreto Ronchi”, classificava questi materiali come “rifiuto speciale”. Attualmente il riutilizzo in agricoltura si inserisce nel quadro delle pratiche per la gestione dei fanghi che include anche il deposito in discarica controllata e l’incenerimento. Deve osservarsi che le fasi di trattamento e smaltimento influenzano notevolmente i costi economici e gestionali degli impianti di depurazione e costituiscono una rilevante problematica per i soggetti coinvolti nelle azioni di pianificazione territoriale. Lo smaltimento in discarica e l’incenerimento risultano di fatto non idonei; le caratteristiche fisiche e la biodegradabilità dei fanghi di depurazione nonché le limitazioni normative di carattere ambientale gravanti sulle procedure di ammissione dei rifiuti in discarica e sulle emissioni atmosferiche originate nei processi di distruzione termica (Dir. 1999/31/CE, Dir. 2000/76/CE , D.L. 11 maggio 2005 n.133) promuovono l’impiego di tecno-
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I.M. Mancini, E. Trulli, S. Masi, D. Caniani, N. Longino, M. Piscitelli
logie che ne riducano i quantitativi prodotti e le pratiche che ne consentano il riutilizzo. Ulteriori operazioni di recupero di materiale e energia sono, rispettivamente, la stabilizzazione per l’ottenimento di compost da utilizzare in agricoltura e la digestione anaerobica, quest’ultima preferita all’incenerimento come tecnica di recupero energetico data la maggiore compatibilità ambientale. L’utilizzo dei fanghi in agricoltura rappresenta ad oggi la più interessante tra le alternative considerate poiché ne consente lo smaltimento ad un costo relativamente basso. Nondimeno, la crescente attenzione dedicata a questa pratica è dovuta alla più difficile applicabilità delle altre tecniche di smaltimento nonostante le rigide misure di controllo a cui suoli e fanghi sono assoggettati in base alla normativa vigente. Il riutilizzo agronomico rappresenta una soluzione di notevole interesse al problema dello smaltimento, sostituendo, in parte, la concimazione chimica o altri tipi di concimazione organica. Oltre alle considerazioni di natura legislativa e ambientale occorre tener conto delle questioni di tipo economico, quali la disponibilità di un sistema di smaltimento a basso costo e la riduzione del bisogno energetico per unità di superficie coltivata. 2. Inquadramento normativo Il trattamento delle acque reflue produce elevate quantità di fanghi primari e secondari, contenenti frazioni elevate di acqua e piccole percentuali di materiale solido, il che si traduce in consistenti volumi e notevoli costi di smaltimento finale. Nella recente legislazione, i “fanghi” di depurazione sono citati dal D.L. 5 febbraio 1997, n.22, quali “rifiuti speciali” e identificati nel Catalogo Europeo dei Rifiuti. L’utilizzo dei fanghi derivanti da trattamenti di depurazione delle acque reflue, domestiche o industriali nei terreni agricoli è disciplinato dal D.L. 27 gennaio 1992, n.99, attuazione della Direttiva 86/278/CEE “concernente la protezione dell’ambiente, in particolare del suolo”, mentre gli aspetti gestionali generali (raccolta, trasporto, deposito, trattamento, ecc.), dal D.L. 3 aprile 2006, n. 152, recante “norme in materia ambientale” Parte IV, Norme in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti in-
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Indirizzi pianificatori e tecnologici
quinati. Tale decreto suggerisce che i fanghi di depurazione devono essere sottoposti al regolamento generale dei rifiuti, dove applicabile, e in particolare quando il fango è un residuo al termine del processo completo dell’impianto di trattamento delle acque reflue (art.127). Le linee guida nel D.L. 16 gennaio 2008, n.4 (art 2, comma 12-bis) sottolineano l’opportunità di riutilizzo ogni qualvolta ciò risulti appropriato. Il D.L. 99/92, Art. 2, comma 1, definisce: a) Fanghi, i residui derivanti dai processi di depurazione di: - acque reflue provenienti esclusivamente da insediamenti civili, definiti dalla lettera b), art. 1-quater, Legge 8 ottobre 1976, n.670; - acque reflue provenienti da insediamenti civili e produttivi: aventi caratteristiche non diverse da quelle possedute dai fanghi di cui al punto a.1. (Tabella 1); - acque reflue provenienti esclusivamente da insediamenti produttivi, come definiti dalla Legge 319/76 e s.m.i. b) Fanghi trattati, i fanghi sottoposti a trattamento biologico, chimico o termico, a deposito a lungo termine ovvero ad altro opportuno procedimento, in modo da ridurre in maniera rilevante il loro potere fermentescibile e gli inconvenienti sanitari della loro utilizzazione. Tabella 1. Attività produttive con produzione di fanghi potenzialmente idonei per essere destinati all’utilizzo in agricoltura. Descrizione
Preparazione e trattamento di carne, pesce ed altri alimenti di origine animale (Regolamento CE/1774/2002)
Codice C.E.R. 02 02 04
Preparazione e trattamento di frutta, verdura, cereali, oli alimentari, cacao, caffè, tè e tabacco; conserve alimentari; di lievito e melassa
02 03 05
Industria lattiero - casearia
02 05 02
Raffinazione dello zucchero
02 04 03
Industria dolciaria e della panificazione
02 06 03
Produzione di bevande alcoliche ed analcoliche
Produzione e lavorazione di polpa, carta e cartone
Trattamento in loco degli effluenti di allevamento zootecnico
02 07 05 03 03 11
19 08 99
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I.M. Mancini, E. Trulli, S. Masi, D. Caniani, N. Longino, M. Piscitelli
A garanzia dell’idoneità agronomica dei fanghi e dei suoli e della tutela ambientale e sanitaria, il D.L. n. 99/92 all’art.3 ammette l’utilizzo dei fanghi se concorrono tre condizioni di base: i fanghi siano sottoposti a trattamento; i fanghi siano idonei a produrre un effetto concimante e/o ammendante e correttivo del terreno; i fanghi non contengano sostanze tossiche e nocive e/o persistenti, e/o bioaccumulabili in concentrazioni dannose per il terreno, le colture, gli animali, l’uomo e l’ambiente. I suoli interessati dal reimpiego dei fanghi devono essere caratterizzati da un pH inferiore a 5 e una C.S.C. (capacità di scambio cationico) minore di 8 meq/100g. Per quanto attiene le pratiche di utilizzo devono essere comunque seguite le indicazioni del codice di “buona pratica agricola” (D.M. 19/04/1999). L’impiego dei fanghi è comunque vietato (art.7) in siti destinati ad uso pubblico e in prossimità dei centri abitati, in aree allagabili e in terreni ove la falda acquifera è affiorante, su pendii maggiori del 15%, con frane in atto o soggette a vincolo idrogeologico, nelle aree destinate a pascolo o foraggere nonché nelle zone destinate all’orticoltura e frutticoltura i cui prodotti siano a contatto diretto con il terreno e sono di norma consumati crudi; nelle zone di rispetto delle sorgenti di montagna e dei pozzi di captazione di acqua potabile. 3.
Indirizzi per il trattamento dei fanghi di depurazione ai fini dell’utilizzo in agricoltura
La rimozione del materiale particolato sedimentabile e dei composti biodegradabili nei processi convenzionali di depurazione delle acque reflue producono ingenti quantitativi di fanghi. Questi fanghi contengono un’elevata frazione di solidi volatili e di acqua, da cui derivano volumi estremamente grandi che comportano significativi costi di trattamento e smaltimento. Indipendentemente dal loro destino, i fanghi di supero degli impianti di depurazione necessitano di un trattamento a causa del contenuto di sostanza organica ad alto grado di putrescibilità, di metalli pesanti, di microinquinanti organici, di parassiti, batteri e virus patogeni.
179
Indirizzi pianificatori e tecnologici
La quantità e la qualità dei fanghi da trattare dipendono dalle caratteristiche delle acque reflue e dai trattamenti applicati. Le fasi di trattamento meccanico e chimico-fisico possono influire in modo considerevole sulla produzione dei fanghi. I dosaggi di reagenti chimici per la precipitazione del fosforo e l’addizione di carbone attivo possono determinare un aumento della produzione dei fanghi. In Tabella 2 sono riassunte le quantità e le caratteristiche dei fanghi prodotti nelle diverse unità di trattamento. Tabella 2. Caratteristiche fisiche e produzione dei fanghi di depurazione (valori medi, modificato da W.P.C.F., 1982). Caratteristiche fisiche
Produzione
Contenuto di acqua
Densità relativa
Volume
%
---
____________________
____________________
1000*ab*giorno
ab*giorno
Fanghi primari
95,0
1,020
1,4
275
Fanghi attivi di supero
98,5
1,005
3,5
496
96,0
1,020
3,3
525
94,0
1,030
1,3
308
92,5
1,025
0,4
106
92,5
1,030
2,5
727
Tipologia di fanghi di depurazione
Fanghi misti, primari e attivi di supero
Fanghi primari e fanghi attivi digeriti
Fanghi biologici da filtri percolatori con sedimentazione secondaria
Fanghi da precipitazione chimica
m3
Massa di solidi secchi gST
La gestione dei fanghi di depurazione può oggi correlarsi con i cicli di gestione dei rifiuti organici biodegradabili prodotti in aree urbane agricole e industriali, provenienti principalmente da: raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani; attività dell’industria agro-alimentare; attività zootecniche.
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I.M. Mancini, E. Trulli, S. Masi, D. Caniani, N. Longino, M. Piscitelli
Dal punto di vista della pianificazione dei sistemi integrati di gestione dei rifiuti, assumono rilevante interesse e presentano grandi potenzialità nel prossimo futuro la separazione delle linee di trattamento dei fanghi di depurazione primari e secondari, la centralizzazione degli impianti e il trattamento combinato di rifiuti organici (RSU da raccolta differenziata, agricoli e zootecnici). La definizione prioritaria nelle scelte progettuali è quella di mantenere separati nel trattamento i fanghi primari da quelli biologici, perlomeno negli impianti di potenzialità medio-grande (Trulli e Boari, 2008). I fanghi primari presentano concentrazioni sensibilmente più elevate di micro-inquinanti, chimici e microbiologici che rendono il fango misto non rispondente ai requisiti di qualità del D.L. n. 99/92. I fanghi biologici, per l’elevato contenuto di nutrienti possono più facilmente trovare un idoneo utilizzo sul suolo agricolo, direttamente o come frazione di un compost di elevata qualità. Altresì, il fango primario risulta più convenientemente trattabile di un fango misto attraverso i processi di stabilizzazione e disidratazione, in particolare di ispessimento a gravità e digestione anaerobica. La Figura 1 illustra uno scenario di intervento per il trattamento integrato e lo smaltimento di fanghi di depurazione e rifiuti organici biodegradabili.
Figura 1. Schema di processo dei trattamenti dei fanghi di depurazione per il riutilizzo in agricoltura (Trulli e Boari, 2008).
Indirizzi pianificatori e tecnologici
181
Obiettivi di primaria importanza, che si riflettono positivamente nei costi economici e ambientali, sono la limitazione della produzione dei fanghi e l’adeguamento della loro qualità per sfruttare le potenzialità delle differenti unità di processo. Le tecniche idonee a tali fini possono essere applicate nei diversi comparti degli impianti di depurazione, sia sulla linea di trattamento delle acque che dei fanghi. Alla base delle scelte pianificatorie devono essere tenuti in conto, oltre all’efficacia del processo e al contenimento dell’impatto ambientale, anche la presenza di vincoli dovuti alle peculiarità dell’area di intervento: localizzazione degli impianti; soluzioni tecnologiche adottabili; natura e composizione delle matrici organiche; destinazione finale del prodotto; vincoli normativi; sostenibilità dei costi. I sistemi integrati sono da tenere in grande considerazione, seppure la valutazione dei costi di investimento e di esercizio sia un aspetto da valutare attentamente, sia per la costruzione di nuovi impianti che nel potenziamento di quelli già esistenti. La disponibilità dei materiali dipende dalla variabilità del numero e dalle dimensioni dei centri di produzione dei rifiuti, dai fattori climatici, dalle quantità di rifiuti prodotti e dalle modalità di smaltimento. I quantitativi sono da valutarsi attraverso un’analisi delle attività presenti sul territorio, tenendo conto che i bacini di raccolta dei materiali da trattare possono essere definiti a livello di singolo centro produttivo o interessare territori comunali o inter-comunali. 4.
L’impatto ambientale delle pratiche di impiego in agricoltura dei fanghi di depurazione
L’applicazione di fanghi di depurazione può presentare impatti ambientali negativi. A partire dalla Direttiva 86/278/CE e successive modifiche e integrazioni, è stato introdotto un nuovo approccio alla gestione dei fanghi di depurazione, improntato ad una maggiore attenzione riguardo alle potenziali sostanze inquinanti provenienti dalla depurazione delle acque reflue urbane ed industriali. La presenza di metalli pesanti o contaminanti organici (PAH, PCB, PCDD, ecc.) può, di fatto, ridurre la possibilità di riutilizzo in agricoltura
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a causa degli effetti tossico-nocivi correlati all’ambiente e di conseguenza alla salute umana. Il “Working document on sludge” è stato redatto al fine di promuovere un utilizzo corretto dei fanghi in agricoltura, indicando i principi necessari alla salvaguardia della salute e la protezione dell’ambiente dall’inquinamento di composti organici complessi. Una fase spinta di defosfatazione delle acque reflue può comportare un eccesso di fosforo nel fango rispetto al rapporto P/N richiesto dalle coltivazioni, il che si traduce in una minore efficienza di utilizzo da parte delle colture e un progressivo arricchimento in fosforo del suolo con conseguenti potenziali rischi per i sistemi acquatici. L’applicazione dei fanghi di depurazione è in generale permessa in suoli in cui la naturale presenza di metalli pesanti non è elevata. I microrganismi del suolo risultano sensibilmente soggetti all’azione dei metalli pesanti che oltre una certa soglia di concentrazione diventano tossici per la comunità microbica, alterandone la crescita e il metabolismo (Mohanty et al., 2000). La tossicità dei metalli dipende da fattori di natura fisica, chimica e biologica. La notevole variabilità della tossicologia è attribuibile all’influenza delle caratteristiche chimico-fisiche del suolo e al diverso livello di tolleranza dei microrganismi (Giller et al., 1998). Il tipo e le modalità di accumulo di metalli pesanti nelle piante variano in funzione del tipo di suolo, della specie vegetale, della fenologia e degli effetti chelanti di altri metalli (Mahler et al., 1980). Numerosi processi biochimici e fisiologici delle piante risentono dell’influenza dei metalli pesanti. Alcuni di questi, tra cui Cu, Mn, Co, Zn e Cr, se presenti in tracce risultano essenziali per il metabolismo della pianta, ma possono diventare tossici se presenti in forme biodisponibili e a livelli notevoli di concentrazione. L’assorbimento di massicce quantità di questi metalli può rappresentare da un lato una sorgente di metalli pesanti nella catena alimentare e dall’altra una diminuzione delle rese produttive a causa dell’effetto deprimente sulla crescita delle colture (Hall, 2002). La possibile utilizzazione dei fanghi in agricoltura può essere limitata dalla presenza di queste sostanze a causa della elevata tossicità e del rischio di ingestione e di bio-accumulo nella catena alimentare. I fanghi di depurazione possono contenere numerosi composti organici tossici (Smith, 2008): prodotti della combustione incompleta (IPA, PCB, PCDD);
Indirizzi pianificatori e tecnologici
183
solventi, elasticizzanti, ritardanti di fiamma (DEHP); pesticidi; detergenti (LAS e NPE); prodotti farmaceutici e per l’igiene personale (antibiotici, ormoni sintetici, triclosan). Tali sostanze possono accumularsi nel suolo, ma la loro persistenza è caratteristica del singolo composto e dipende da molteplici processi (adsorbimento, desorbimento, degradazione, volatilizzazione, lisciviazione, etc.). Alcuni composti chimici fortemente adsorbiti risultano apparentemente non disponibili ai microorganismi in quanto vengono desorbiti in soluzione solo in concentrazioni ridotte per poter essere poi disponibili per l’assorbimento da parte dei microorganismi e per il metabolismo intercellulare (O’Connor, 1996). Per alcuni contaminanti sono disponibili numerose informazioni sul destino e sul comportamento di queste sostanze nell’ambiente, mentre per altre, la mancanza di informazioni sui reali effetti che la presenza di questi composti nei fanghi può esercitare sull’ambiente e sulla salute umana rappresenta una fonte di preoccupazione. La rimozione dei microrganismi patogeni (virus, batteri, protozoi ed elminti) nelle acque reflue comporta il loro trasferimento nella fase semi-solida dei fanghi. I patogeni più comuni sono Salmonella, Shigella e Campylobacter. L’implementazione dei requisiti previsti dalla direttiva europea 86/278/CEE, dalla disciplina nazionale e dai codici di buona pratica agricola, ha consentito una riduzione significativa della potenziale diffusione di patologie, sebbene il rischio di trasmissione dal fango di depurazione ad un altro recettore, sia esso uomo, animale o pianta, continui ad essere il principale timore per l’opinione pubblica.
5.
Limiti all’impiego e potenzialità agronomiche dei fanghi di depurazione
L’applicazione dei fanghi di depurazione in agricoltura consente di ottenere una serie di benefici ambientali connessi alla sostituzione dei fertilizzanti di sintesi, all’apporto di sostanza organica nel suolo, nonché al contributo benefico nell’ambito dei cambiamenti climatici e dell’emissione di gas serra.
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Le caratteristiche del sito di spandimento, le proprietà del suolo (pendenza, permeabilità, pH, profondità della falda, ecc.) influenzano fortemente gli effetti benefici dell’applicazione dei fanghi di depurazione. I vantaggi derivanti da questa pratica, infatti, sono legati soprattutto: al contenuto in sostanza organica; alla presenza di macroelementi (N, P2O5, K2O); al contenuto di nutrienti (Fe, B, Mn, Zn, Cu, Mo). In Tabella 3 sono riportati i valori tipici delle principali caratteristiche di qualità dei fanghi di depurazione. Tabella 3. Tipiche composizioni dei fanghi di depurazione (Passino, 1994). Parametri
Unità di misura
Fanghi primari
Fanghi biologici
unità
5,0 ÷ 8,0
5,5 ÷ 7,5
mgCaCO3
500,0 ÷ 1500,0
500,0 ÷ 1100,0
%
2,0 ÷ 7,0
0,83 ÷ 1,16
% di ST
60,0 ÷ 80,0
65,1 ÷ 79,3
Proteine
“
20,0 ÷ 30,0
---
Gelatine e grassi
“
5,0 ÷ 30,0
---
mgHAc/l
200,0 ÷ 2000,0
1100,0 ÷ 1700,0
“
8,0 ÷ 15,0
---
Azoto
% di Ntot
1,5 ÷ 4,0
2,4 ÷ 5,0
Fosforo
% di P2O5
0,8 ÷ 2,8
2,8 ÷ 11,0
% di Fe
2,0 ÷ 4,0
---
% di K2O
0,8 ÷ 1,8
---
15,0 ÷ 20,0
---
pH Alcalinità Solidi totali (*) (°) Solidi volatili
Acidi organici Cellulosa
Ferro
(#)
Potassio Silice (SiO2) (*)
“
fango grezzo; (°) basato sul 60% in peso di materia volatile; (#) escluso ferro solfato.
Il contenuto di sostanza organica, oltre alla funzione nutrizionale, contribuisce a migliorare alcune proprietà fisico-strutturali del terreno. In termini di rapporto C/N, i fanghi stabilizzati presentano un contenuto in carbonio
Indirizzi pianificatori e tecnologici
185
organico simile ai valori riscontrati per la sostanza organica del terreno, prossimo a 10, che è indicativo di un livello ottimale di umificazione. Il contributo fertilizzante è dovuto alla presenza dell’azoto che però, essendo prevalentemente presente in forma organica (50-80%), rende lo spandimento dei fanghi di depurazione una pratica integrativa ma non sostitutiva dell’impiego di fertilizzanti minerali. Inoltre, la disponibilità per le piante dell’azoto contenuto nei fanghi di depurazione è influenzata dal tipo di trattamento di stabilizzazione cui è stato sottoposto il fango di depurazione: dal punto di vista agronomico un fango sottoposto a digestione anaerobica e disidratato (20÷30% s.s.) risulta meno adatto in termini di disponibilità di azoto, rispetto a un fango in forma liquida digerito aerobicamente (3÷8% s.s.), che contiene azoto in forma ammoniacale prontamente utilizzabile dalle piante (RPA, WRc, 2010). Nonostante ciò l’applicazione di fango disidratato risulta più vantaggiosa dal punto di vista pratico rispetto alla gestione di un fango in forma liquida e si conferma la soluzione più utilizzata in agricoltura. Il fosforo prevale invece nella forma inorganica (60÷85%), rendendo gli apporti di fango molto efficaci nel colmare le carenze nutrizionali del terreno rispetto a questo elemento (Sequi, 1989). Fanno eccezione i fanghi derivanti dalla chiarificazione di acque mediante trattamento con cloruri di ferro o alluminio, in quanto in questi ultimi lo ione fosfato è precipitato sotto forme insolubili. La bio-disponibilità di fosforo è meno influenzata dal tipo di trattamento cui è stato sottoposto il fango. Il potassio nei fanghi, nonostante sia contenuto in quantità minori rispetto all’azoto e al fosforo, si caratterizza per un’elevata biodisponibilità essendo prevalentemente presente in forma solubile. 5.1. Limiti per l’applicazione dei fanghi sui terreni La normativa nazionale definisce le condizioni per l’utilizzo dei fanghi in agricoltura con il D.L. n.99 del 27 gennaio 1992 che recependo la Dir. 86/278/CE specifica: i valori limite di concentrazione per alcuni metalli pesanti che devono essere rispettati nei suoli e nei fanghi; le caratteristiche agronomiche e microbiologiche dei fanghi; le quantità massime dei fanghi applicabili sui terreni.
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L’utilizzo dei fanghi, stabilizzati e igienizzati, è consentita qualora la concentrazione di uno o più metalli pesanti non superi nel suolo i valori limite fissati nell’allegato I A, e nei fanghi i valori limite per le concentrazioni stabiliti nell’allegato I B, Tabella 4 e Tabella 5. Tabella 4. Valori limite di concentrazione dei metalli pesanti nei suoli. Parametri
Valore limite di concentrazione (mg/kg di sostanza secca)
n. 86/278/CEE
D.L. n. 99/92
6<pH<7
6<pH<7.5
5≤pH<6
1÷3
1.5
0.5
Piombo, Pb
50 ÷ 300
100
Zinco, Zn
150 ÷ 300
300
Mercurio, Hg Cadmio, Cd Nichel, Ni Rame, Cu
Cromo, Cr
1 ÷ 1.5
30 ÷ 75
50 ÷ 140 ---
1
75
100 ---
Working Document on Sludge
0.1 15
70
20
60
30
6≤pH<7
pH≥7
1
1.5
70
100
150
200
0.5 50
50
60
1
70
100
100
In particolare, è richiesto un valore minimo di contenuto in carbonio organico, azoto e fosforo totale rispettivamente pari al 20%, 1,5% e 0,4%. La qualità microbiologica è espressa in funzione del solo parametro “Salmonelle” per il quale è fissato un valore limite massimo di 1000 MPN/gSS. Tabella 5. Valori limite dei metalli pesanti nei fanghi per l’utilizzo sul suolo.
Parametri Mercurio, Hg Cadmio, Cd Nichel, Ni Piombo, Pb Rame, Cu Zinco, Zn Cromo, Cr
n. 86/278/CEE 16 ÷ 25 20 ÷ 40 300 ÷ 400 750 ÷ 1.200 1.000 ÷ 1.750 2.500 ÷ 4.000 ---
Valore limite di concentrazione (mg/kg di sostanza secca) Working Document on Sludge D.L. n. 99/92 attualità al 2015 al 2025 10 10 5 2 20 10 5 2 300 300 200 100 750 750 500 200 1.000 1000 800 600 2.500 2500 2000 1500 --1000 800 600
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Indirizzi pianificatori e tecnologici
Oltre al rispetto dei limiti massimi di concentrazione dei metalli pesanti, sono previste quantità massime di fanghi utilizzabili per unità d’area nel tempo (Tabella 6). Queste sono legate a parametri chimico-fisici dei suoli, quali pH e C.S.C., che dovrebbero dare ragione della mobilità dei metalli nel terreno e del loro possibile assorbimento da parte delle colture. Sulla base dei valori del pH e della capacità di scambio ionico del terreno, viene definito l’apporto annuo ammissibile di fango. La presenza e gli effetti potenziali degli inquinanti devono essere verificati con idonei test di fitotossicità. Tabella 6. Quantità massime di fanghi utilizzabili sul suolo (D.L. 99/92, Allegato I). C.S.C. 8÷15 meq/100 g
> 15 meq/100 g
pH 5÷6
6 ÷ 7.5
pH > 7.5
Quantità annuale (ton/ha) 2.5 3.7 5
5÷6
3.7
pH > 7.5
7.5
6 ÷ 7.5
5
In accordo con quanto dispone la nota in calce all’Allegato I A del D.L. 99/92, sui terreni destinati all’utilizzazione dei fanghi deve essere eseguito, prima della somministrazione, un test rapido di Bartlett e James (allegato A, rif. 3) per l’identificazione della capacità del suolo ad ossidare il Cr III a Cr VI. I terreni che, sottoposti a tale test, producono quantità uguali o superiori a 1 μM di Cr VI non possono ricevere fanghi contenenti cromo. È da evidenziare la mancanza di un elenco esaustivo delle sostanze e dei relativi limiti che caratterizzino la pericolosità dei fanghi. Tale vuoto legislativo è stato colmato con la pubblicazione del “Working document on sludge (3rd Draft, 2000)” da parte della Commissione Europea, che oltre all’obiettivo di promuovere l’uso dei fanghi di depurazione in agricoltura, individua i principali punti per la sicurezza sanitaria dell’applicazione sui suoli agricoli. Il documento fornisce un elenco dei principali composti organici contraddistinti da caratteristiche di tossicità, persistenza, bioaccumulo, ubi-
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quità e propone dei valori limite di concentrazione al fine di limitare fenomeni di inquinamento (Tabella 7). Tabella 7. Valori limite dei composti e sostanze organiche persistenti (Working document on sludge, 3rd Draft, 2000) Composti organici
Parametri
Composti organici alogenati (AOX )
Unità di misura a
Alchilbenzensolfonato lineare (LAS)
“
Di(2-etilesil)ftalato (DEHP)
Etossilati di nonilfenolo (NPE)
“
B
“
b
Idrocarburi policlici aromatici (PAH) Diossine / Furani
mg/kg SS
d
Policloro-bifenili (PCDD/ PCDF)
c
“ “ ng TE/kg SS e
Valori limite 500
2600 100 50 6
0.8
100
sommatoria di lindano, endosulfan, tricoloroetilene, tetracloroetilene,clorobenzeni; comprende le sostanze nonilfenolo e nonilfenolo etossilato con 1 o 2 gruppi etossi; c sommatoria di acenaftene, fenantrene, fluorene, fluorantene, pirene, benzo(b+j+k)fluorantene, benzo(a)pirene, benzo(g,h,i)perilene, indeno(1,2,3-c,d)pirene; d sommatoria dei componenti indicati ai numeri 28, 52, 101, 118, 138, 153, 180); e TE tossicità equivalente. a
b
5.2. Valutazione dell’idoneità all’impiego dei fanghi di depurazione in agricoltura mediante test di fitotossicità Ai sensi dell’art. 3, comma 1, del D.L. 99/92, il rispetto dei limiti di concentrazione di uno o più metalli pesanti per il suolo (All. I A) e per i fanghi (All. I B) “devono essere convalidati da test di fitotossicità di germinazione o di vegetazione che devono essere eseguiti sia alla prima certificazione sia ogni qual volta cambi sostanzialmente la composizione dei rifiuti”, al fine della verifica dell’eventuale presenza di tossicità permanente. I saggi forniscono dati sulla tossicità permanente osservata sui vegetali dalla presenza di matrici complesse liquide e solide quali fanghi, compost, ammendanti, reflui. Il principale parametro di misura è l’indice di germinazione. Il protocollo analitico per l’indice di germinazione è quello previsto dai metodi I.R.S.A.-C.N.R. (1984), test di fitotossicità con Lepidium sativum L. La procedura prevede le seguenti fasi: a) preparazione del campione da testare, 200 g in massa mantenuti ad un
Indirizzi pianificatori e tecnologici
189
contenuto di umidità dell’85% per 2 ore; la fase liquida, dopo centrifugazione (2340 G per 30 minuti) è filtrata (filtro con porosità 0,45 µm) e l’estratto acquoso è diluito con acqua distillata in rapporto in volume pari al 50% e 75%; b) preparazione del bianco: 10 semi di Lepidium sativum L., fatti rigonfiare in acqua distillata per 1 ora, sono disposti su carta assorbente in una capsula di Petri; c) preparazione dei test: 10 semi di Lepidium sativum L., fatti rigonfiare in acqua distillata per 1 ora, sono disposti su carta assorbente in una capsula di Petri con aggiunta di 1 ml delle soluzioni da testare a differenti concentrazioni; d) Incubazione delle capsule a 27 C° per un tempo di 6÷10 giorni. Sono testate 5 concentrazioni del campione per ognuna delle quali sono utilizzati 5 prove. A fissati tempi di incubazione (2, 4, 6 giorni) si contano i semi germinati e si misura la lunghezza radicale. Per la specifica condizione di prova testata, l’indice di germinazione Ig si calcola mediante la formula di seguito riportata; per il calcolo dell’Ig si effettua quindi la media aritmetica tra i valori ottenuti ai due rapporti di diluizione del 50% e del 75% (1) in cui: Gc è numero medio di semi germinati nel campione; Lc è la lunghezza radicale media nel campione; Gt è il numero medio di semi germinati nel bianco; Lt è lunghezza radicale media nel bianco. Il fango stabilizzato, sottoposto al saggio di fitotossicità deve avere un indice di germinazione maggiore del 60% alla diluizione del 30%. Può essere autorizzato l’uso di fanghi che presentano un indice di germinazione inferiore al 60%, qualora esso risulti superiori al 60% dopo un periodo di almeno 5 giorni di esposizione all’aria a 20°C. In tale caso, i fanghi devono essere utilizzati solo in un periodo che preceda di almeno 30 giorni la semina o la messa a dimora della coltura.
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6. Schemi impiantistici di trattamento 6.1. Processi aerobici di compostaggio Le principali applicazioni di reimpiego in agricoltura dei fanghi di depurazione prevedono il trattamento con l’ausilio di tecniche quali il compostaggio. I fanghi di depurazione sono inseriti tra i materiali idonei alla produzione di compost allorquando presentino caratteristiche conformi a quelle previste nell’allegato 1B del D.L. 99/92. Ai sensi del Dlgs n. 75 del 29.04.2010: “Riordino e revisione della disciplina in materia di fertilizzanti, a norma dell’articolo 13 della legge 7 luglio 2009, n. 88”, il compost di qualità, prodotto da scarti organici selezionati alla fonte, è inserito tra gli ammendanti organici soggetti a libero commercio e impiego in agricoltura. L’ammendante compostato misto è un prodotto ottenuto attraverso un processo di trasformazione e stabilizzazione controllato di rifiuti organici che possono essere costituiti “(…) da reflui e fanghi”. Nei sistemi di produzione deve essere previsto il controllo dei flussi di materia, la realizzazione di un efficace processo di stabilizzazione della frazione organica e la garanzia di qualità ambientale del compost, affinché non costituisca un vettore di contaminazione dei comparti suolo/acqua, degli eco-sistemi e della catena alimentare umana e animale. Il fango di depurazione può essere sottoposto al compostaggio da solo o mescolato con materiali di supporto per l’aerazione quali cortecce, paglia, trucioli di legno, rifiuti urbani, e comunque, in misura non superiore al 35% sulla sostanza secca nella preparazione della miscela di partenza. Le caratteristiche e la qualità del compost, sono strettamente connesse alle caratteristiche della materia prima impiegata. I rifiuti generalmente destinati al compostaggio sono eterogenei sia da un punto di vista fisico (pezzatura, consistenza, densità) che chimico (rapporto C/N.). Il compostaggio di miscele di rifiuti organici misti richiede quindi una composizione bilanciata delle differenti matrici in funzione delle loro caratteristiche (Vismara and Darriulat, 1994). In Tabella 8 sono riportate le caratteristiche dei principali rifiuti compostabili.
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Indirizzi pianificatori e tecnologici
Tabella 8. Parametri caratteristici di miscele di fanghi e rifiuti compostabili. Tipologia di rifiuto Fanghi biologici e agroindustriali Residui di origine zootecnica Rifiuti organici umidi
Rifiuti vegetali
Rapporto C/N
Umidità (%)
Densità (tonn/m3)
8
80
0,9
8
25
65
80
> 65
40 ÷ 50
0,9
0,45 0,4
6.2. Sistemi integrati anaerobico-aerobico Grande interesse è rivolto all’impiego dei fanghi di depurazione per la produzione di combustibili gassosi e in particolare di biogas mediante processi biologici anaerobici (Murphy and McKeogh, 2004; Ahring, 2005; Berglund and Borjesson, 2006; Lehtomaki, 2006; Amon et al., 2007). Su questa linea sono stati sviluppati trattamenti che integrano i processi anaerobici con quelli aerobici ai fini del recupero di materiale in agricoltura e di produzione di combustibili gassosi. In questi impianti la frazione solida ottenuta dalla separazione solidoliquido del digestato è alimentata ad una fase di compostaggio. A tal riguardo, deve considerarsi che ove il compostaggio consuma energia per l’areazione delle miscele, la digestione anaerobica produce energia rinnovabile; inoltre il processo realizza una buona protezione dai microorganismi patogeni e utilizza reattori chiusi che non rilasciano emissioni gassose maleodoranti in atmosfera. Di contro, gli impianti anaerobici richiedono investimenti iniziali maggiori e gli effluenti necessitano di uno specifico trattamento che può essere operato mediante processi biologici. L’integrazione dei due processi può portare a notevoli vantaggi, in particolare legati al miglioramento del bilancio energetico dell’impianto e al ridotto impatto delle emissioni di odori. Il postcompostaggio aerobico del digestato, materiale parzialmente già stabilizzato, richiede un minor tempo di processo e comporta così un ridotto impiego di superficie e minori emissioni di anidride carbonica. I processi anaerobici sono inseriti quale trattamenti di stabilizzazione dei fanghi nell’elenco degli Sludge Treatment Processes, del “Working document on sludge” (allegato I) al fine della riduzione della sostanza organica,
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della putrescibilità, dei solidi sospesi volatili, e della carica batterica patogena, migliorandone la disidratabilità. Tra le applicazioni impiantistiche sono inclusi i seguenti trattamenti: Trattamenti convenzionali: - stabilizzazione anaerobica termofila (temperatura > 53°C) con un periodo di ritenzione (RT) medio di 20 giorni; - digestione anaerobica mesofila (temperatura = 35°C) con un RT medio di 15 giorni; Trattamenti avanzati (igienizzazione): - digestione anaerobica termofila (temperatura > 53°C) per 20 ore in batch, senza aggiunta/prelievi nel corso del trattamento; - trattamento termico dei fanghi liquidi per un minimo di 30 minuti a 70°C seguita da digestione anaerobica mesofila ad una temperatura di 35°C con un RT medio di 12 giorni. Una soluzione ottimale di impiego del biogas è costituita dai sistemi di cogenerazione che combinano la produzione di calore e di energia elettrica. Un aspetto di rilevante interesse è l’implementazione dei dispositivi di sicurezza e prevenzione ai fini di eliminare il rischio di incendi ed esplosioni nelle fasi di trattamento, accumulo e utilizzo del biogas. Per l’impiego del metano da biogas in autotrazione è necessario arricchire il biogas, fino a raggiungere un contenuto di metano pari a circa il 95%. In sistemi combinati può prevedersi il recupero dell’anidride carbonica per uso tecnico. 6.3. Co-digestione dei fanghi di depurazione con rifiuti organici Il trattamento combinato di due o più substrati organici per via anaerobica è comunemente chiamato co-digestione. I rifiuti organici ai quali si fa generalmente riferimento per l’applicazione del processo di co-digestione sono le acque reflue e i fanghi organici di origine urbana, zootecnica ed industriale, e la frazione organica dei rifiuti solidi urbani (FORSU), derivante da raccolta differenziata o selezionata. Diversi sono i vantaggi offerti da queste applicazioni: effetto di diluizione dei composti tossici; effetti sinergici sulle attività dei microrganismi; migliori rendimenti per unità di volume; riduzione dei costi di investimento ed esercizio.
Indirizzi pianificatori e tecnologici
193
Le tecniche di co-digestione anaerobica di fanghi urbani di depurazione e rifiuti organici sono oramai ampiamente conosciute (Boari and Mancini, 1990; Boari et al., 1992). La co-digestione dei fanghi di supero e della FORSU da raccolta differenziata presenta attualmente un interesse crescente. Con limitate spese di adeguamento di impianto è possibile ottenere l’autonomia energetica del processo, oltre che a conseguire un’ottimizzazione dei flussi di rifiuto nei sistemi di gestione integrata, evitando che gran parte dei materiali umidi biodegradabili terminino in discarica o vengano destinati alla termovalorizzazione. La fattibilità del trattamento con una FORSU selezionata meccanicamente deve essere opportunamente valutata in funzione del contenuto di materiale inerte che può rendere problematico lo sviluppo del processo biologico. Il trattamento anaerobico combinato di substrati organici può risultare idoneo in situazioni in cui gli impianti interagiscono con centri produttivi o con aziende agricole con sufficiente superficie utile in cui si possa progettare anche una riconversione delle produzioni in colture energetiche. Gli schemi di impianto per la co-digestione sono del tipo: “consortile” presso impianti a servizio di più centri urbani; “centralizzato” presso impianti dei rifiuti o presso impianti dedicati, a servizio di più centri di produzione. Un aspetto da analizzare attentamente riguarda la miscelazione di substrati “puri” con fanghi e rifiuti caratterizzati dal contenuto di “sostanze indesiderate”, quali inquinanti inorganici e microbiologici. Ove fattibile, un trattamento centralizzato può consentire migliori rendimenti di produzione di biogas ed energetici e la riduzione dei costi di esercizio e di investimento, seppure tale soluzione presenti una maggiore complessità gestionale. L’aumento dei rendimenti energetici è attribuibile all’effetto scala, alla possibilità di alimentare il digestore con biomasse caratterizzate da potenziali di biogas più alti, dimensioni di impianto più modeste a parità di carico alimentato, l’adozione di impianti di cogenerazione più grandi. Gli svantaggi sono connessi alle operazioni di trasporto della biomassa all’impianto sia in termini economici che ambientali. 6.4. Trattamenti integrativi Numerosi trattamenti non trovano attualmente larga considerazione
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applicativa ma tuttavia integrati ai processi convenzionali possono consentire di ottenere rilevanti miglioramenti nei rendimenti di trattamento e nelle operazioni di gestione e smaltimento. Tra questi si evidenzia il processo di essiccamento termico che trova un’efficace integrazione e un’idonea gestione (Vaxelaire et al., 1999). 7.
Conclusioni
L’integrazione delle tecniche impiegate negli schemi di processo convenzionali con soluzioni impiantistiche innovative, introdotte in seguito al consolidamento della tecnologia e derivanti da nuove indagini sperimentali, può consentire nel breve futuro di riadeguare i sistemi di trattamento dei fanghi di depurazione urbani ai più efficienti criteri gestionali e di tutela ambientale. Tale obiettivo viene oggi forzato dalle più recenti normative che spingono verso la sostenibilità ambientale degli impianti inseriti in rinnovati sistemi integrati di smaltimento dei rifiuti. Le differenti opzioni di smaltimento sono da valutare attentamente in funzione di criteri tecnici e ambientali. L’incenerimento, considerato il processo più completo di stabilizzazione delle sostanze organiche, richiede tuttavia il controllo delle emissioni gassose e lo smaltimento delle ceneri. I quantitativi dei fanghi inviati allo smaltimento in discarica controllata devono essere integrati necessariamente ai flussi di rifiuti solidi urbani. Il riutilizzo sul suolo agricolo e l’impiego come materiale compostabile costituiscono sul territorio nazionale un’efficace alternativa e deve essere primariamente favorito allorquando le realtà territoriali e i costi di trattamento e smaltimento lo consentano. Non devono essere trascurati gli effetti potenziali derivanti dalla diffusione di sostanze indesiderate. Un tale approccio deve essere in ogni caso correttamente pianificato tenendo in debito conto i vincoli normativi, le modalità applicative, in particolare i tempi di applicazione dei materiali ammendanti così prodotti, i costi economici di investimento e di esercizio.
Indirizzi pianificatori e tecnologici
Bibliografia
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Sezione iII
SostenibilitĂ
Carmelo M. Torre, Alessandro Bonifazi
Il problema dell’integrazione del piano e delle procedure di VAS Sommario: 1. I concetti di Environmental Democracy e valutazione ambientale di piani e progetti; 2. Il quadro normativo delle valutazioni ambientali; 3. Dalla VIA dei progetti alla VAS dei piani; 4. Analisi e valutazione del piano: due concetti non coincidenti; 5. Un caso: il processo di VAS nel Piano Urbanistico Generale del Comune di Monopoli; 6. Il ruolo della valutazione nell’uso della campagna. L’“appartenenza” della risorsa rurale; 7. Riflessioni finali.
1. I concetti di Environmental Democracy e valutazione ambientale di piani e progetti Introduzione. Una questione rilevante di appartenenza A chi appartiene l’ambiente? La risposta a questa domanda rappresenta il nodo da risolvere per dare un senso totalmente compiuto al concetto di Environmental Democracy, in italiano, di “democrazia ambientale”. Rispondere a tale domanda infatti aiuta a interpretare le valutazioni ambientali di piani e progetti nella loro accezione più moderna, a dare un significato al sistema di relazioni azioni-ambiente che rappresenta il punto cruciale di un sistema di pianificazione ambientale multilivello e multiattore, necessario oggi nel perseguimento della sostenibilità dello sviluppo. La sorpresa più grande potrebbe però essere rappresentata dallo scoprire che la questione della “legittima proprietà” dell’ambiente può non trovare in maniera scontata una risposta unica. La descrizione dell’ambiente non è univoca, e le differenti descrizioni dell’ambiente non sono equivalenti a causa dell’assenza di tale unicità, e conseguentemente, non lo sono né la pianificazione, né le valutazioni che lo interessano. Ammettere che esistano descrizioni non equivalenti (Munda 2007) dell’ambiente significa ammettere implicitamente che queste descrizioni possano nella generalità dei casi non convergere su un unico punto di vista automaticamente. A partire da questo preambolo, in questo contributo si svilupperanno
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Carmelo M. Torre, Alessandro Bonifazi
i concetti di democrazia ambientale, la sua relazione con la scala di lettura territoriale dell’ambiente, la relazione imperfetta con il concetto di coinvolgimento del soggetto interessato, per fornire una chiave interpretativa del concetto di “proporzionalità” della valutazione ambientale, di integrazione senza sovrapposizione, come elementi interpretativi del sistema di valutazione delle azioni caratterizzate da impatto ambientale, previste in piani e progetti. Infine questi concetti si ricollegheranno al caso dell’uso del territorio agricolo più in generale, e alla tematica del riuso dei reflui in particolare, oggetto del presente volume. Dimensione comunitaria dell’Environmental Democracy La democrazia ambientale è stata definita universalmente nella Convenzione di Aarhus come il diritto di tutti i soggetti coinvolti alla partecipazione ai processi decisionali che riguardano l’ambiente. Tale diritto si esercita attraverso l’uso di strumenti di partecipazione e di informazione della comunità, dei soggetti coinvolti, gli stakeholders, che per molti coincidono con i cosiddetti proprietari dell’ambiente. Possiamo definire insieme dei soggetti coinvolti l’insieme di tutti coloro che godono di un beneficio, o subiscono un danno, di carattere economico, sociale o ambientale, legato all’attuazione di un piano, un programma, un progetto. L’insieme degli stakehoders non coincide, nel caso più generale, con la comunità, contrariamente a quanto si pensi. Il termine stakehoder ha un età plurisecolare. Letteralmente significa “colui che possiede il paletto”, e fa riferimento ai pionieri americani, che alla ricerca di nuove terre si cimentavano in vere e proprie gare raccontate anche nei film, nelle quali chi arrivava prima a piantare un paletto su un suolo, si aggiudicava il diritto di possederlo. Il termine inglese che traduce paletto infatti è “stake”. Quindi il concetto di stakeholder è legato a quello di proprietà, intesa però come proprietà privata di un suolo, di un immobile, di un progetto. Infatti, i pianificatori progressisti americani, che negli anni ‘60 e ‘70 hanno praticato la pianificazione negoziale (come ad esempio Norman Krumohlz o John Forrester) intendevano un atto democratico quello di coinvolgere tutti gli stakeholder, intendendendo, con il termine “tutti”, sia i proprietari forti, beneficiari di una trasformazione, che quelli deboli, proprietari di immobili che venivano danneggiati da quella trasformazione.
Il problema dell’integrazione del piano e delle procedure di VAS
201
La metodologia di valutazione dei tempi era la valutazione costi benefici. La prima legge di tutela ambientale che la considerava, promulgata negli Stati Uniti con il “Flood Control Act” del 1936 – a tutti gli effetti una legge sulla difesa del suolo ante litteram – considerava tra gli stakeholders anche i proprietari danneggiati dai disastri ambientali causati da allagamenti e inondazioni. Il Flood control act, limitatamente alla dimensione semplicemente economica monetaria, considerava già allora benefici e costi sociali, ma già allora era criticabile per l’antidemocraticità del suo bilancio, che si riduceva ad una semplice sottrazione dai benefici dei costi, a prescindere da come essi fossero distribuiti, certo non in maniera equipartita. Il concetto di stakeholder è quindi precedente all’esplodere della questione ambientale nella pianificazione urbana e territoriale. Per poter ampliare il campo della democrazia bisogna arrivare alla introduzione dei beni pubblici nel concetto di “coinvolgimento”: un famoso articolo di Garrett Hardin del 1968, sulla rivista “Science”, dal titolo “The tragedy of the commons”, segnò nel campo dell’economia una svolta. In esso si descriveva il comportamento di una comunità di individui, agenti autonomamente uno dall’altro, che tendevano a consumare le risorse comuni nel breve periodo, senza pensare all’effetto della scomparsa della risorsa nel lungo termine. Le risorse ambientali, appunto, la cui proprietà non è attribuibile in maniera esclusiva a qualcuno. I beni comuni del racconto di Hardin sono i suoli soggetti a forme di uso civico per il pascolo: i pastori lasciano pascolare il loro gregge. All’aumentare del bestiame i profitti aumentano per i pastori, ma il pascolo scompare per tutti, e non sono per loro. Si introduceva così il concetto di esternalità ambientale e la necessità del controllo pubblico dell’ambiente. Venivano quindi descritte le risorse ambientali come risorse limitate, scarse, condivise, che nel tempo andavano ad esaurirsi, di proprietà di tutti, quindi di nessuno (come per l’appunto i commons). Tra questi spicca oggi l’acqua, bene comune per eccellenza, oggi tanto richiamato nei dibattiti per le politiche che interessano la sua gestione. Il dibattito sui beni ambientali come beni comuni nasce quindi contemporaneamente all’avvio delle prime pratiche di valutazione di impatto ambientale dell’Agenzia di Protezione Ambientale Americana (EPA).
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Quindi il concetto di democrazia ambientale allarga il campo: il suolo, la proprietà, è degli stakeholders, ma l’ambiente, il paesaggio che rappresentano la descrizione ambientale di tale proprietà è di tutta la comunità. Si è passati da una concezione più descrittiva del concetto di proprietà, ad una più ampia, in cui i proprietari sono tutti i membri della comunità, e quindi la comunità ha la necessità di dover regolare l’uso della proprietà privata per non mettere a rischio le prerogative di coloro che non hanno proprietà fondiaria. Applicando il ragionamento precedente in un ambito più vasto, potremmo spiegare la difficoltà di condivisione dei trattati internazionali sull’ambiente: tra questi, ad esempio la Dichiarazione contro la Deforestazione della Foresta Amazzonica nella Conferenza di Rio del 1992, contraddetta pochi anni dopo proprio dall’allora Presidente del Brasile Lula, dichiaratosi pronto a cedere parti della più grande distesa verde del mondo. Il governo del Brasile, pur non essendo detentore dell’ambiente mondiale, ha dimostrato in tale frangente di poter non solo decidere del futuro della Foresta Amazzonica regolando l’uso dei proprietari delle sue aree boscate, ma anche di gestire il futuro del “polmone dell’umanità” e di tutta l’umanità stessa. Così come l’interesse comune del Governo dei brasiliani detiene il diritto di limitare il vantaggio ottenibile dai soli proprietari, la regola imposta dalla comunità mondiale può limitare lo sviluppo economico del Brasile, constringendolo alla tutela totale del Bacino Amazzonico. Da qui nasce la richiesta di aiuto economico di Lula nella gestione della Foresta. In un ottica di democrazia ambientale mondiale, Lula afferma, i costi della preservazione amazzonica non possono essere sostenuti solo dai brasiliani. La criticità del rapporto tra democrazia e ambiente si amplifica allorquando la sequenza delle decisioni da prendere non ha solo una caratterizzazione gerarchica, da una comunità più grande ad una più piccola fino al singolo individuo, ma assume anche una caratterizzazione distributiva delle decisioni tra soggetti dello stesso livello territoriale e gerarchico. Il moltiplicarsi delle competenze sul territorio comporta che l’esito delle politiche ambientali sia più spesso lo specchio del rapporto di potere tra i differenti decisori, tutti agenti in nome della comunità, Il livello di coinvolgimento va allora rapportato alla scala di definizione
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degli impatti, o dell’ambito di impatto. Dall’articolazione tra livelli di definizione o ambiti di definizione deriva la “non equivalenza” delle diverse forme di trattazione di un problema ambientale. La possibilità di trattazione secondo diverse forme di una questione ambientale, può rappresentare una evidenza esplicita delle forme di “perdita di razionalità collettiva” nelle questioni ambientali. L’esistenza di una razionalità unanimistica, capace di conciliare efficienza, efficacia ed equità nelle decisioni collettive è stata ampiamente negata da Kennet Arrow, nel suo famoso ed antico teorema (1951), detto dell’impossibilità (che fa il pari con la “tragedia” di Hardin, e che è stato infine rivisto da Allan Gibbard and Mark Satterthwaite nel 1973). La valutazione ambientale oltre che supportare le scelte deve in qualche modo conciliare la “non equivalenza” delle visioni ambientali di singoli soggetti pubblici operanti in nome della collettività, partendo dalla consapevolezza di una impossibilità di totale conciliazione dei punti di vista, intrinseca in un contesto pluralista. Un suolo può essere visto come un paesaggio agrario, o come uno strato pedologico, o come una piattaforma di pascolo, o come un tratto morfologico, e così via. Il valore associato a ciascuna di queste interpretazioni in funzione delle decisioni da prendere, e dei soggetti che poi troveranno difficoltà a decidere, cambia, ma il suolo, nella sua identità ambientale è sempre lo stesso. Quest’ultima affermazione ci riporta a Costanza e Folke, che attribuiscono un valore “primario”, quasi intrinseco e indipendente dall’uomo, ai beni ambientali, che prescinde da valori di uso e di uso sociale, che si articolano in priorità dei differenti soggetti, pubblici e privati, che partecipano ai processi decisionali riferibili all’ambiente stesso. Gli attrezzi del mestiere: informazione, formazione, consultazione, negoziazione, valutazione Il breve racconto introduttivo ha avuto lo scopo di illustrare il quadro conflittuale nel quale si muove chi produce valutazioni ambientali. Le procedure di valutazione ambientale usano gli attrezzi possibili per affrontare un contesto nel quale le valutazioni si scontreranno sempre con il non-unanimismo. Questi, sono la diffusione di informazione tecnica e non tecnica, l’obiet-
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tivo “didattico” della valutazione, in termini di educazione ambientale della/ delle comunità, la valutazioine di coerenza delle politiche, dei piani e dei progetti con i quadri ambientali descritti dagli altri attori (che nella procedura di VAS prende il nome di coerenza esterna), la valutazione di efficacia delle politiche, dei piani e dei progetti a perseguire i propri scopi ambientali (che nella procedura di VAS prende il nome di coerenza interna) e la consultazione negoziale tra i soggetti, che sulla base della valutazione possono migliorare la politica, il piano e il progetto. La valutazione, è quindi necessariamente multidimensionale, fondata su un valore sociale definibile come “complesso” (per dirla con Fusco Girard), si articola in fasi, ha natura procedurale, non è possibile fissarla ad un momento ex post o ex ante. Gli ostacoli iniziali da superare sono: 1. Difficoltà di scala: informazioni disponibili non coerenti con la scala territoriale di analisi; 2. Difficoltà di conoscenza: quand’anche ci fossero, i soggetti detentori di informazione non scambiano facilmente le proprie conoscenze; come diceva Forrester in Planning in the face of power, l’ “Informazione è potere”; 3. Difficoltà di interlocuzione razionale: i diversi soggetti difendono la loro rendita di posizione non mettendo a disposizione le informazioni citate nel punto precedente. Questo porta ad un conflitto che riduce la razionalità collettiva del processo trattato. Ciò accade in verticale (tra un livello e l’altro) e in orizzontale. Nei conflitti sull’uso agricolo del suolo, di cui i versamenti di reflui sono una conseguenza, esistono tutte le difficoltà elencate. Nelle pagine a seguire si fornirà una ipotesi di traduzione operativa della risoluzione delle problematiche fino ad ora affrontate concettualmente. 2. Il quadro normativo delle valutazioni ambientali Dopo la recente approvazione del D.Lgs 4/2008, sulla integrazione del Testo unico sull’ambiente, in riferimento alle procedure di valutazione ambientale (VIA e VAS), si è sanata una situazione di “vacatio legis” che ha
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comportato, tra l’altro, una sanzione per l’Italia da parte della Corte di Giustizia Europea (con la sentenza del Novembre 2007, n. C-40/07), per il mancato adempimento di quanto previsto dalla direttiva 42/2001 CE, sulla valutazione obbligatoria di piani e programmi. Andando oltre il racconto dell’antefatto normativo ora esposto è utile evidenziare alcuni aspetti. Per quanto riguarda le indicazioni metodologiche, da un punto di vista istituzionale le linee guida (regionali, degli stati membri e della stessa UE) forniscono indicazioni generalmente orientate a scandire le fasi della valutazione o gli ambiti della valutazione, leggendone il carattere processuale, in stretto legame con il piano. In altri termini è spesso indicato “cosa” e “quando” valutare, ma non “come”. Le metodologie assumono quindi il ruolo di “cassetta degli attrezzi” che l’esperto valutatore affronta attingendo dalla propria esperienza e dalla propria competenza. L’interesse espresso nella letteratura sugli approcci alla VAS ha contribuito alla crescita del dibattito sulla valutazione ambientale di piani e politiche. In tale ambito, le indicazioni di letteratura prevalenti sul miglioramento delle pratiche valutative forse hanno subito l’influenza del paradigma della post modernità, ponendo l’attenzione soprattutto sull’ integrazione della VAS nei processi decisionali reali e nella flessibilità procedurale, facendo intravedere una inadeguatezza della valutazione ambientale vista in senso deterministico in maniera forse troppo “sbrigativa”, come afferma Fisher (2003), portando ad una rivendicazione della necessità di valutazioni strutturate. In relazione a tale problematica, questo contributo vuole rivendicare il ruolo delle valutazioni “strutturate”, o ancora meglio “integrate”, inserite in un processo più ampio di apprendimento sociale, nella costruzione del piano e nella valutazione del piano. Pur essendo necessario riconoscere che una dimensione puramente tecnicistica e paradigmatica della Valutazione ambientale appartiene al passato, si ripropone la necessità di una costruzione di procedure valutative capaci di incrociare le istanze di flessibilità degli stakeholders con quelle di tutela dell’ambiente e di promozione dello sviluppo sostenibile. Siffatto processo metodologico valutativo fornisce nuova linfa al concetto di Valore Sociale
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Complesso, visto come misura multidimensionale, non appiattita sul solo aspetto dell’impatto ambientale, ma rivolto alla ricerca del miglior compromesso tra tutela e sviluppo nelle trasformazioni insediative, che agiscono su capitali sociali, manufatti e naturali, in quadri integrati e complessi tipici dei piani urbanistici più innovativi. 3.
Dalla VIA dei progetti alla VAS dei piani
Sia la direttiva CE 42/2001, che le normative urbanistiche regionali hanno sancito in breve tempo il passaggio dalla VIA alla VAS come strumento di analisi e valutazione delle trasformazioni territoriali in funzione della loro interferenza con l’ambiente. Ciò potrebbe essere soprattutto imputato alla necessità di superare i limiti dell’approccio VIA. Le ragioni della limitatezza della valutazione di impatto come strumento di verifica ambientale dei piani urbanistici sta, come già anticipato in premessa, nella difficoltà di gestione della complessità del piano, nella molteplicità dei suoi interventi e nella continua evoluzione che il suo processo di formazione ha, anche per motivo dell’interazione dei diversi attori coinvolti nel suo processo di formazione. La logica consolidata e tradizionale della VIA è quella di costituire una barriera alla realizzazione di interventi o di progetti incompatibili con le istanze ambientali del territorio. Tali istanze vengono oggettivate dai metodi, fondamentalmente basati sull’indagine ambientale, la costruzione di indicatori e l’individuazione di aspetti di irreversibilità delle trasformazioni, che trovano luogo nelle fasi di screening, scoping e scaling. La problematicità dell’applicazione ai piani di tale sequenza è riconducibile ad almeno due aspetti significativi. Il primo aspetto si può rappresentare nella trasformazione (negativa) della neutralità della valutazione di impatto in astrattezza metodologica. Non vi è frequentemente rapporto tra valutazioni così costruite e istanze ambientali reali avanzate dalle comunità insediate: la valutazione di impatto non riesce del tutto a seguire una logica coevoluzionistica, nella quale l’ambiente è un dato dinamico, soprattutto nella logica del piano, nel quale gli
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scenari si evolvono dinamicamente, nel rapporto tra ambiente percepito culturalmente e socialmente e ambiente fisico. Lo strumento urbanistico stesso, nel passaggio dalla rigida logica tradizionale fondata sulla demarcazione e la perimetrazione dei differenti land use ad una logica che da un lato guarda alla pianificazione strategica, e dall’altro tende a separare il trattamento riservato ai grandi quadri territoriali dalle istanze più dettagliate della progettazione urbanistica nella divisione tra piano strutturale e piano operativo/programmatico, richiede una maggiore dinamicità e adattività della valutazione. L’incremento di complessità che caratterizza il piano urbanistico, sempre più evidente nell’articolarsi della sua dimensione territoriale in componenti economiche, fisiche, sociali e ambientali, il fatto che il piano sia un insieme di interventi, una articolazione di azioni, una organizzazione di trasformazioni molteplici e dotate di molteplicità, non può esaurirsi nella logica del fare/non fare tipica della conclusione di una sequenza di valutazione di impatto. Un piano nelle sue articolazioni con poca probabilità potrà mai essere completamente sostenibile o insostenibile. La risposta del piano alle istanze della comunità, dell’ambiente, dell’economia è spesso caratterizzata dalla presenza di alcuni interventi che comportano squilibri territoriali, da trade off spesso non risolvibili o compensabili, che si accompagnano ad azioni di reale trasformazione in positivo del territorio, ad interventi di valorizzazione ambientale, oltre che immobiliare o infrastrutturale. Gli squilibri comunque presenti nel piano renderebbero quasi scontata una valutazione di impatto ambientale negativa, giustificabile anche solo da alcune irreversibilità del piano. Tale negatività porterebbe ad una bocciatura del piano tout court, senza possibilità di appello. La valutazione strategica invece parte dal bilancio ambientale per costruire nuovi scenari, in un processo che accompagna il piano, e quindi non si presenta semplicemente alla fine del percorso per una censura o una assoluzione. A sottolineare questa complessità di rapporto tra la valutazione e il piano alcune normative evidenziano fortemente quanto la valutazione strategica sia complementare al piano. La recente normativa nazionale e regionale, cioè quella derivante dalle linee programmatiche per la redazione dei PUG in Pu-
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glia, vede la VAS come parte integrante del documento di piano, il cui processo inizia con l’approvazione del documento preliminare di piano, e finisce con l’adozione e la definitiva approvazione regionale. Il profilo di complessità e di coevoluzione del piano è il punto di riferimento della valutazione, che a questo punto si articolerà in momenti non solo di bilancio ambientale, ma anche e soprattutto di condivisione, di riscrittura condivisa delle regole del piano, di caratterizzazione e specificazione degli ambiti della trasformazione (Fusco Girard 2006). Questo è lo spirito della valutazione strategica. C’è da chiedersi però se questo passaggio dalla logica rigida e non propositiva della VIA alla logica dinamica e coevolutiva della VAS è presente e leggibile nelle pratiche reali, e non solo nella letteratura e nei richiami alla normativa. 4.
Analisi e valutazione del piano: due concetti non coincidenti
Nelle pratiche urbanistiche la definizione del quadro conoscitivo ha rappresentato una fase frequentemente sottoposta a revisione nell’evolversi del processo di costruzione del piano, e sulla quale molta letteratura si è cimentata. Dalla “rivoluzione ambientale” avviata in Italia a cavallo tra anni ‘80 e ‘90 all’affacciarsi dei bilanci partecipativi e della ricerca di sintesi e integrazioni tra conoscenze esperte e diffuse, la costruzione dei quadri conoscitivi ha pesato al punto di legittimare una posizione nella letteratura del planning che interpreta l’intero processo di piano stesso come “progetto di conoscenza” (Besio 1994). Sempre più frequentemente la VAS si configura nell’ambito di piani la cui redazione ha sicuramente compreso analisi di carattere ambientale e socio-ambientale, non necessariamente però finalizzate alla produzione di informazioni utili alla redazione di una valutazione, e quindi non sostitutive della valutazione stessa. Tale non sostituibilità della valutazione con analisi ambientali, per quanto ben prodotte, è coerente con il dettato della sentenza pronunciata dalla Corte di Giustizia Europea. Infatti, le analisi ambientali e sociali, già presenti in tali strumenti nella nostra realtà, non costituiscono di per sé un percorso di VAS, che a questo
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punto, si deve intendere come processo che rispetto alle conoscenze territoriali rappresenta fondamentalmente il momento di sintesi, attraverso una valutazione integrata. L’interesse suscitato dalla costruzione dei quadri cognitivi ha talvolta spostato l’attenzione dalla valutazione vera e propria degli effetti del piano alla definizione condivisa degli obiettivi del piano stesso, confondendo questa ricerca di condivisione con la VAS stessa. Le metodologie diventano in questo caso lo strumento di un mero adempimento, e la verifica di coerenza del piano rispetto agli obiettivi di sostenibilità diventa una applicazione meccanica. Lo stesso schema DPSIR in questa ottica a volte è utilizzato in una visione meccanicistica della valutazione. La sua sequenzialità, svuotata di una costruzione robusta e condivisa della valutazione, in tali casi non evidenzia il distacco dalle logiche della valutazione monosettoriale, spesso incapaci di cogliere sinergie, di costruire collegamenti tra differenti componenti, ambiti, azioni. Lo schema determinante-pressione-stato-impatto-risposta nei casi meno virtuosi non determina una giusta forma di aggregazione di fattori complessi, alla ricerca di una sintesi di valori, ma produce catene di implicazione parallele, che si incrociano raramente. L’applicazione acritica delle metodologie di valutazione quindi riduce la valutazione stessa ad una forma di processo automatico, invece che esaltarne la costruzione creativa. Dall’analisi di un campione certo non statisticamente significativo, ma sicuramente significativo1 di procedure VAS prevalentemente relative a piani comunali (dieci piani comunali, prevalentemente strutturali, un piano intercomunale e uno provinciale) i cui iter di approvazione sono perfezionati e conclusi (Bonifazi e Rega 2007). Emerge un quadro sicuramente incoraggiante per quanto attiene alla costruzione di conoscenza e di consapevolezza ambientale, ma nel contempo 1 Documentazione tratta da: Piano di Assetto Territoriale di Arzignano, Piano di Assetto Territoriale di Bassano del Grappa, Piano di Assetto Territoriale di Camposampiero, Piano di Assetto Territoriale di Rosà, Piano Generale Territoriale di Monza, Piano Regolatore Generale di Cuneo, Piano Regolatore Generale di Pegognaga, Piano strutturale intercomunale di Ferrara, Piani Strutturale Comunale di Bologna, Piani Strutturale Comunale di Ravenna, Piano strutturale Provinciale di Padova, Variante Generale al Piano Regolatore di Falconara Marittima, Variante Generale al Piano Regolatore di Chieri.
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si evidenzia una parziale limitatezza degli approcci valutativi (fig. 1), e, tranne che in pochi casi, un limitato coinvolgimento di expertise specifiche nel campo delle metodologie della valutazione. La parte prettamente valutativa dei rapporti ambientali è spesso soccombente rispetto all’analisi ambientale del piano. La trasformazione indotta dal piano, è classificata e decodificata attraverso gli usi del territorio senza svincolarsi dalla settorialità. Il più elevato livello di integrazione si registra nella convergenza di analisi e valutazioni nella rappresentazione cartografica (il webgis è pressoché uno strumento consolidato nella innovazione dell’ICT). Esso però raramente viene utilizzato per rappresentare valori, limitandosi a descrivere in maniera integrata il quadro delle conoscenze. In alcuni casi, tra l’altro, i metodi di valutazione strutturati sono presenti sì nel Piano, ad esempio per definire priorità di intervento, piuttosto che nella VAS. Tale uso della metodologia è attribuibile almeno in parte a differenti punti di vista degli staff di redazione dei piani (nell’ambito dei quali è ge-
Figura 1. Metodologie utilizzate per la fase valutativa delle procedure VAS di alcuni piani urbanistici.
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neralmente presente expertise valutativa in senso metodologico), rispetto a quelli degli staff di esperti coinvolti nei processi di VAS analizzati. La differenziazione delle competenze tra chi redige il piano e chi effettua la valutazione è spesso giustificata in solido dalla istanza di terzietà rispetto al piano richiesta alla valutazione stessa. Se la VAS però è parte integrante del processo di piano, se parte dalle analisi che il piano, secondo una buona prassi deve aver prodotto, è chiaro la sua terzietà valutativa non si fonda sulla costruzione di una analisi terza, rispetto al piano, ma su una valutazione terza, appoggiata sull’analisi prodotta dal piano stesso. Il piano allora costruisce geografie descrittive dell’ambiente, mentre la VAS costruisce geografie di valori ambientali. Conseguentemente, il principio di terzietà, che può giustificare diversificazioni tra staff ed expertise, non dovrebbe necessariamente condurre ad un predominio di discipline ambientali nell’expertise della VAS e di discipline urbanistiche nell’expertise del piano. Il caso che ci si accinge a illustrare rappresenta un tentativo di soluzione di questi nodi. 5.
Un caso: il processo di VAS nel Piano Urbanistico Generale del Comune di Monopoli
Elementi introduttivi Il Piano Urbanistico Generale di Monopoli si appresta ad essere con una certa probabilità il primo strumento urbanistico comunale in Puglia ad essere accompagnato nella sua adozione da una valutazione ambientale strategica. Esso arriva a circa trenta anni di distanza dal Piano Regolatore Generale di Luigi Piccinato, il cui approccio, aveva rappresentato sicuramente uno strumento urbanistico caratterizato da non pochi tratti di innovazione. La procedura di Valutazione Ambientale Strategica è stata avviata dopo l’adozione del Documento Programmatico Preliminare del Piano (DPP) nel gennaio 2007, e in presenza di una bozza del Piano Urbanistico Generale già pronta per la presentazione alla conferenza di copianificazione in sede regionale, in ossequio al principio di sussidiarietà e di pari dignità sancito dalla
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modifica del Titolo V della Costituzione, e secondo quanto previsto dalle linee programmatiche regionali sui piani. La VAS nelle Linee Programmatiche regionali in verità si inserisce tra l’adozione del documento preliminare e quella del piano urbanistico. Per il comune di Monopoli tali linee programmatiche erano giunte ad approvazione quando la fase di costruzione della bozza di piano era già in fase avanzata. In queste condizioni il mandato valutativo non poteva che partire dalle analisi già prodotte nel processo di piano e collateralmente ad esso in altre attività strettamente connesse al piano. La valutazione infatti aveva già avuto una sua collocazione nel processo di piano, in occasione del “PartecipaPUG”, un processo di sperimentazione di e-democracy nell’ambito del quale la conduzione di forum reali e in
Figura 2. La convergenza delle conoscenze costruite nelle fasi di bilancio partecipato e di agenda 21 nella valutazione ambientale strategica del Piano di Monopoli.
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rete aveva condotto da un lato ad una valutazione di scenari per alcuni ambiti strategici del piano, dall’altro ad una valutazione di priorità alle quali dare risposta nella fase di pianificazione operativa (o meglio “programmatica”, secondo la definizione della legge regionale pugliese 20/2001 “Tutela ed uso del territorio”). Quasi contemporaneamente alla fase di partecipazione del “PartecipaPUG”, era stato avviato il processo di Agenda 21 locale, che non aveva però dato rilevanti contributi al quadro di consapevolezza locale sui temi della sostenibilità. A riprova di ciò gran parte delle informazioni riportate nel rapporto sullo stato dell’ambiente di A21 erano tratte dal Documento Programmatico Preliminare del Piano. La figura 2 evidenzia come, nella scansione delle differenti fasi della Valutazione Ambientale Strategica siano intervenuti contributi provenienti dalle elaborazioni del Documento Preliminare Programmatico del Piano, dall’Agenda 21 e dal “PartecipaPUG”. Il contributo maggiore ha interessato la definizione di obiettivi di sostenibilità per la fase di valutazione di coerenza degli obiettivi del Piano, e la costruzione del rapporto sullo stato dell’ambiente. La fase valutativa, caratterizzata dall’uso di metodi strutturati di valutazione, si è invece compiuta completamente nella VAS. Il piano si è quindi dimostrato un momento di raccolta quasi unico di conoscenze, nell’ambito del quale si è prodotto uno sforzo notevole, ad esempio, per organizzare le informazioni ambientali in maniera sistematica, in riferimento a una serie di strumenti che nel trentennio passato dall’approvazione del PRG vigente avevano descritto, modificato e normato al livello sovraordinato il quadro dei valori ambientali e culturali espressi nel territorio (in particolare dal Piano Regionale per le Attività Estrattive, dal Piano Regionale Paesistico, dal Piano Regionale di Assetto Idrogeologico). A queste conoscenze strutturate la VAS non poteva che attingere per limitatezza di tempo e di risorse. Il limite di questa presenza di un quadro di conoscenze ambientali e di conoscenze diffuse già disponibile è la mancata organizzazione delle analisi fondate su quelle conoscenze nella prospettiva di una metodologia di valutazione strutturata. Il lavoro dello staff di valutazione a questo punto è stato innanzitutto di rileggere il territorio, e di fornirne una interpretazione valutativa, piuttosto
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che cognitiva, per non rischiare di cadere in una mera riproposizione della lettura già effettuata dal piano. L’uso dei layer del Sistema Informativo del Piano è allora stato finalizzato alla costruzione di una Geografia di Valori Ambientali, secondo una prassi consolidata di divisione del territorio in elementi geografici nei quali i differenti piani corrispondono a criteri dal quale fare emergere i valori del sistema ambientale e di quello dei beni culturali (Maciocco 1988, Stellin e Rosato 1997, Malcewzky 1999, Orlando et al. 2005). Le procedure di valutazione La rilettura in questo caso non ha potuto che partire dall’analisi di quali valori siano in gioco. Di per sé l’informazione ambientale non rappresenta un valore, se essa non diviene elemento di discriminazione, non costruisce differenze in qualche modo misurabili. La valutazione quindi sostanzia il rapporto sullo stato dell’ambiente, evidenziando lo snodo tra azioni di piano e criticità emergenti, determinando il quadro dei “valori complessi” attribuiti alla trasformazione. Un primo momento di valutazione, ad opera di parte dello stesso staff responsabile della VAS, è stato sviluppato nell’ambito del progetto “PartecipaPUG”. In tale ambito, anche con l’ausilio di mappe mentali rappresentanti l’esito di Focus Group Virtuali e di Forum, sono state individuate alcune criticità e alcune istanze di progettazione territoriale. La valutazione del livello di priorità delle istanze così rilevate è stata invece condotta con l’ausilio di metodi multicriterio fuzzy utilizzate a supporto di approcci alla valutazione degli impatti comunitari e già presenti in letteratura (Munda 1995; De Marchi et al. 1998; Cerreta e Torre 2000). Di tale fase in questo contributo per brevità si omette la descrizione. Le istanze rilevate sono state poi richiamate nel rapporto sullo stato dell’ambiente della VAS. Per quanto riguarda la metodologia di valutazione vera e propria, invece, attraverso una procedura di valutazione multicriteri basata sull’applicazione dell’Analytic Hierarchy Process (Saaty 1994) si è stimato il “grado di impattività” della trasformazione insediativa. Il “grado di impattività” diventa la misura della trasformazione e si riferisce ai cosiddetti “contesti territoriali”; questi ultimi rappresentano di fatto le
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forme di trasformazione o di tutela definite dalle Linee di indirizzo programmatiche regionali. I contesti territoriali sono caratterizzati da un’unica tipologia di azione (tutela, conservazione, recupero, trasformazione), distinti in urbani e rurali. La parte strutturale del Piano urbanistico Generale individua la delimitazione dei contesti. La parte programmatica del Piano urbanistico Generale invece “conforma” i contesti individuando quale incidenza in ciascun contesto potrà avere la trasformazione insediativa, e con quali parametri urbanistici. I contesti sono riferiti - al completamento dell’insediamento esistente (contesti consolidati); - al nuovo insediamento (contesti di nuovo impianto); - alla tutela paesaggistica e all’extraurbano (contesti rurali). Essi presentano un carattere di rigidità inferiore alle zone omogenee del PRG, e possono caratterizzati da - “prevalente” trasformazione residenziale (contesti residenziali); - “prevalente” trasformazione produttiva (contesti per attività); - “prevalente” trasformazione turistica (contesti per attività turistiche); - “prevalente” trasformazione terziaria (contesti per servizi). L’elemento di discriminazione tra un contesto e un altro diventa quindi il carattere generale dell’intervento, e la sua misura, attraverso i parametri urbanistici.
Figura 3. Articolazione delle forme qualitative e quantitative della trasformazione.
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Le modalità di trasformazione definite dal piano possono avere una dimensione qualitativa o quantitativa. Sono dimensioni quantitative ad esempio le densità volumetriche ammissibili, i coefficienti di deflusso, gli indici di piantumazione. Sono invece dimensioni qualitative la ammissibilità di demolizioni, ricostruzioni, ampliamenti dell’esistente, riferibili al patrimonio architettonico edilizio, o a quello infrastrutturale (figg. 3 e 4). L’AHP è stato applicato utilizzando una valutazione su due livelli gerarchici: il livello più alto definisce le tipologie di interventi, così classificati: - interventi a carattere conservativo; - interventi di trasformazione; - interventi di ristrutturazione e ripristino; - interventi di infrastrutturazione. Il livello gerarchico inferiore invece è riferito alle modalità di intervento ammissibile contenute nella parte programmatica del piano. Attraverso l’AHP è stato definito il peso di ciascun intervento (secondo livello) e famiglia di interventi (primo livello).
Figura 4. Peso delle forme qualitative e quantitative della trasformazione attuata nei contesti territoriali del Piano definito con l’ausilio dell’AHP.
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Si è tentato così, attraverso l’uso del metodo gerarchico, di considerare in qualche modo la complementarità delle diverse tipologie di intervento, che nella loro aggregazione creano degli impatti cumulati. Per ciascun contesto la misura dell’impattività è quindi rappresentata dalla somma dei contributi dati dal peso di ciascun intervento ammissibile. Il valore dell’impattività ha come estremi zero (nessun impatto, nessun intervento di trasformazione), e uno (compresenza di tutte le modalità di intervento massime). Il valore dell’indice di impattività massimo riportato dalla valutazione è stato pari a 0,67. Il grado di impattività della trasformazione è stato successivamente incrociato con le criticità ambientali del territorio, emergenti dal rapporto sullo stato dell’ambiente della VAS. Il rapporto sullo stato dell’ambiente, nella fase di formulazione delle criticità non si è basato solo sulle risultanze delle analisi ambientali, ma ha anche tenuto conto delle valutazioni effettuate nella fase del “PartecipaPUG”. Le criticità emerse dalla fase partecipativa sono le seguenti:
Figura 5. Grado di impattività dei contesti territoriali del PUG definito attraverso un approccio additivo dei contributi di ciascun intervento ammissibile, nei differenti contesti.
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il degrado del paesaggio; il consumo di suolo; il turismo come elemento di presisone antropica; l’equilibrio tra tutela intesa come insieme di vincoli alla trasformazione e lo sviluppo inteso come impulso alla trasformazione; - il consumo delle risorse ambientali; - il rischio idrogeologico. Alle criticità emerse nella fase partecipativa si sono aggiunte: - le aree SIC (per le quali è stato necessario redigere la valutazione di incidenza ambientale delle azioni di piano dei territori interessati); - il rischio tecnologico (in aggiunta a quello idrogeologico). Il metodo AHP, è stato utilizzato quindi non solo per pesare la trasformazione, ma anche per la costruzione di indici ambientali (Socco 2006) qualiquantitativi delle criticità. Il territorio è stato diviso in sei ambiti: - ambito costiero, a nord del centro urbano; - ambito costiero, a sud del centro urbano; - ambito urbanizzato; - ambito portuale; - ambito agricolo, della piana degli ulivi; - ambito agricolo, della Murgia. Per ciascun ambito territoriale è stato assegnato un peso relativo a ciascuna criticità attraverso una procedura AHP. Quindi ogni ambito territoriale alla fine della valutazione è stato caratterizzato da un profilo di criticità differente, a causa delle differenti incidenze (determinate attraverso la procedura analitica-gerarchica). I dati delle valutazioni, da un lato l’impatto della trasformazione, e dall’altro il profilo di criticità degli ambiti territoriali, sono stati quindi implementati nel Sistema Informativo Territoriale. Infine attraverso un overlay si sono generati dei valori di interazione, pari al prodotto del valore medio dell’impatto della trasformazione relativa a ciascun contesto territoriale per il peso di ciascuna criticità in ogni ambito. La figura a seguire illustra la frammentazione del territorio secondo i valori delle interazioni.
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Figura 6. Peso dell’incidenza delle differenti criticità sugli ambiti definito con l’ausilio dell’AHP.
6. Il ruolo della valutazione nell’uso della campagna. L’“appartenenza” della risorsa rurale Il Piano Urbanistico ha affrontato la questione dell’uso sostenibile delle risorse nel territorio agricolo da tre punti di vista: - la lotta alla dispersione insediativa; - la tutela del patrimonio di ulivi secolari; - il riuso delle risorse idriche e il risparmio energetico. Dei tre argomenti, il più rilevante si è dimostrato quello relativo al lotto minimo edificabile, per il quale la Regione, anche su indicazione di quanto
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previsto dal rapporto ambientale, ha richiesto che in alcuni ambiti rurali di particolare interesse paesaggistico vi fosse un lotto non inferiore ai diecimila metri quadri, a fronte di quello previsto di taglio decisamente inferiore (duemila metri quadri). Sul tema del risparmio delle risorse idriche nelle nuove realizzazioni il piano introduce l’obbligo di realizzare servizi tecnologici atti al recupero delle acque piovane e alla gestione sostenibile dei reflui per usi agricoli. Il tema dell’edificazione dei reflui, apparentemente slegato dalla questione delle risorse idriche, ha nella realtà un legame rilevante con la questione dell’equilibrio tra carico ambientale e pressione antropica indotta dall’insediamento. Infatti la possibilità di una densificazione maggiore dell’insediamento rurale può generare impatti dovuti alla moltiplicazione delle reti tecnologiche e alla produzione stessa di reflui. Tale dibattito però è passato in secondo piano nei diversi incontri svolti nelle contrade, dove il tema della casa in campagna è risultato talmente tanto prevalere dall’aver presentato il maggior punto di scontro nel dibattito che ha interessato sia l’adozione che l’approvazione del Piano. Sul versante della campagna periurbana, tra l’altro, la valutazione ambientale strategica sottolineava che soprattutto il tema delle acque, e la concentrazione dei punti di deflusso nelle aree agricole collocate all’interno del semicerchio rappresentato dalla viabilità tangenziale al centro urbano (la Strada Statale 16 bis) rappresentava un tema rilevante, da affrontare in fase di pianificazione attuativa, e dal quale poteva dipendere la sostenibilità ambientale di tali parti “riurbanizzate” del territorio. L’“appartenenza” dell’ambiente a tutta la comunità e l’addebitamento dei costi alla sola proprietà fondiaria impongono spesso che i proprietari del territorio agricolo si facciano carico del corretto uso delle risorse rurali. Da questo punto di vista, la possibilità di avere incrementi premiali di volumetria edificabile per chi adottava tecnologie di gestione delle acque nell’edificazione rurale poteva essere una buona forma di compensazione. Questi stessi temi sono richiamati nel Piano di Sviluppo rurale, o nel Piano di Tutela delle Acque, allorquando si individuano eventuali incentivi per lo sviluppo di tecnologie di uso agricolo del territorio sostenibili. Tali incentivi, molto vaghi in un piano di dimensione regionale, diventano norme
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specifiche sulle quai si formano conflitti e consensi nella dimensione locale. Da questo punto di vista vale la pena richiamare il “Principio di proporzionalità”. Il comma 4 dell’Art. 13 del D.Lgs 4/2008 (che norma di fatto le procedure di VAS) recita quanto segue: “Nel rapporto ambientale debbono essere individuati, descritti e valutati gli impatti significativi che l’attuazione del piano o del programma proposto potrebbe avere sull’ambiente e sul patrimonio culturale, nonché le ragionevoli alternative che possono adottarsi in considerazione degli obiettivi e dell’ambito territoriale del piano o del programma stesso. L’allegato VI al presente decreto riporta le informazioni da fornire nel rapporto ambientale a tale scopo, nei limiti in cui possono essere ragionevolmente richieste, tenuto
Figura 7. Territorializzazione dell’incrocio dei valori di impatto della trasformazione con i valori ambientali dei differenti ambiti territoriali.
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conto del livello delle conoscenze e dei metodi di valutazione correnti, dei contenuti e del livello di dettaglio del piano o del programma.” Il D.Lgs 4/2008 quindi richiama il “principio di proporzionalità”, che nel rapporto ambientale si traduce nel mettere in relazione il grado di dettaglio del piano con il grado di descrizione degli impatti. Il principio di proporzionalità può essere un utile riferimento allorquando di fronte ad un livello di generalità delle prescrizioni/norma/indicazioni di un piano/programma si può rendere difficoltosa l’individuazione di azioni finalizzate alla riduzione degli impatti più specifiche e dettagliate. 7.
Riflessioni finali
Nell’esperienza raccontata in questo contributo la principale riflessione relativa al ruolo delle metodologie di valutazione può essere rivolta alla rilevanza che esse hanno assunto nel processo di costruzione di conoscenza. La conoscenza, infatti, delle dinamiche del piano, delle analisi in esso contenute, diventa la base fondamentale per l’avvio di un processo adattivo, creativo (Zeleny 1994) nel quale la valutazione, in assenza di regole metodologiche decodificate da norme, tende ad una de-costruzione e ri-costruzione del quadro delle conoscenze già disponibili, a volte attingendo informazioni dagli esiti di bilanci partecipativi, di rapporti ambientali, già prodotti in altri processi (come Agenda 21 o pianificazione strategica), o dal piano stesso nelle sue fasi preliminari. Tale attività valutativa non può che essere fondata su una forma di sapere critico che consente un corretto utilizzo delle metodologie, oltre che su una visione non statica del processo valutativo stesso, di certo non relegato ad un mero momento nell’orizzonte delle decisioni. È evidente che in situazioni come quelle tracciate in questo racconto, viene enfatizzata la rilevanza degli approfondimenti, e degli incroci tra ricerca e applicazione operativa della valutazione dei piani, attraverso l’uso di riferimenti metodologici, rispetto ai quali il caso di studio qui illustrato pretende di essere una buona pratica.
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Gianfranco Ciola
I deserti antropogenici: effetti del diserbo chimico e della frantumazione dei banchi calcarei sulla biodiversità del paesaggio agrario pugliese con particolare riferimento agli oliveti secolari Sommario: 1. Introduzione; 2. L’adozione di pratiche agricole irrazionali pone la Puglia a rischio di desertificazione; 3. La macinatura dei suoli, una pratica disastrosa che conduce alla desertificazione; 4. La primavera silenziosa della campagna pugliese, effetti del diserbo chimico sulla biodiversità; 5. Adozione di pratiche sostenibili nella gestione del suolo; 5. Conclusioni.
1. Introduzione Da secoli la campagna pugliese ci ha regalato un paesaggio suggestivo, che assume aspetti diversi col succedersi delle stagioni. Bellissima è l’immagine degli oliveti secolari in primavera – quelli risparmiati dall’uso dei diserbanti – che mostrano tutta la bellezza delle fioriture tipiche della flora mediterranea. È ancora possibile osservare sistemi agricoli gestiti in maniera estensiva, caratterizzati da una forte naturalità per la ricca varietà floristica, che rappresentano habitat ideale e fonte trofica per molte specie animali che vi trovano rifugio. Tuttavia nel corso degli ultimi decenni una gran parte di questi sistemi hanno subito notevoli cambiamenti a causa della diffusione di alcune discutibili pratiche agronomiche che hanno comportato drammatici effetti sulla biodiversità, impoverendola, e sul paesaggio, semplificandolo e banalizzandolo. Lo spietramento e la macinazione del suolo, il diserbo chimico, l’impiego di acqua salmastra per le irrigazioni, la mancanza di rotazioni nelle coltivazioni, ed il ricorso ad altre tecniche agricole irrazionali sta portando alcune aree agricole della Puglia verso un processo di desertificazione. Occorre riflettere sulla vera utilità di tali pratiche e sulla necessità di porvi rimedio attraverso il diffondersi di una nuova cultura di difesa e conservazione del suolo, che faccia ricorso a tecniche agronomiche sostenibili.
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2. L’adozione di pratiche agricole irrazionali pone la Puglia a rischio di desertificazione Quando si parla di deserto tutti immaginano le enormi dune di sabbia che si susseguono in sconfinati paesaggi africani percorsi da beduini che cavalcano cammelli. In realtà esistono altre forme di deserto più subdole e meno evidenti. La desertificazione si configura infatti in una drammatica riduzione della fertilità del suolo ed è dovuta sia a cause naturali che alle attività umane. Come è noto questo argomento sta suscitando preoccupazione, in quanto i processi di desertificazione si stanno sviluppando su scala globale e a ritmo accelerato interessando gran parte delle regioni mediterranee tra cui il sud Italia. Il cambiamento del clima risulta la causa naturale più rilevante, sebbene anche tale modificazione è in larga parte attribuibile alle attività umane. Tra le cause determinanti vi sono, anche, senza dubbio, l’eccessiva pressione antropica sugli ecosistemi naturali e l’adozione di inopportune tecniche agricole, come: - la mancanza di rotazione delle coltivazioni o, ancor peggio, la monocoltura intensiva; - l’accorciamento dei cicli di coltivazione; - la mancanza di riposo del suolo affinché riacquisti i nutrienti necessari al ripristino dei normali livelli di produttività; - gli allevamenti e i pascoli intensivi con la conseguente riduzione della copertura vegetale e compattazione e rimozione di suolo; - la separazione tra allevamento e agricoltura, con la perdita del regolare apporto di letame, fonte primaria di fertilizzanti naturali utili alla rigenerazione del suolo; - gli incendi ed i disboscamenti con la scomparsa della copertura vegetale che aumenta le perdite di acqua per evapotraspirazione e l’innesco di processi di erosione del suolo ad opera delle acque e del vento; - l’utilizzo di acqua salmastra per l’irrigazione. L’agricoltura intensiva impedisce al suolo di rigenerarsi naturalmente e di riprodurre ciclicamente i principali elementi nutritivi e la sostanza organica necessaria a garantire la sua costante fertilità. La sterilità del suolo è causata anche dalla sua progressiva salinizzazione. Gli eccessivi apporti chimici (fertilizzanti, pesticidi, regolatori di cresci-
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ta, ecc.) dell’agricoltura intensiva, hanno inizialmente aumentato la produttività dei terreni ma nello stesso tempo hanno generato una progressiva salinizzazione con conseguente riduzione della fertilità naturale. La salinizzazione è anche il risultato dell’eccessivo ed irrazionale utilizzo irriguo delle acque sotterranee, che ha favorito la contaminazione salina delle falde acquifere per ingressione di acqua marina: l’utilizzo di queste acque contribuisce a rendere sterili i suoli. Ciò nonostante l’impiego dell’irrigazione nelle aree semi-aride della Puglia è aumentata negli ultimi decenni, stimolata dall’impiego di nuove cultivar vegetali dalle forti esigenze idriche, prodotte da ditte sementiere e vivaisti per essere diffuse su scala mondiale e che risultano per nulla adatte alle nostre condizioni ambientali. Invece tutte le varietà agrarie tradizionali della Puglia (di olivo, mandorlo, fico, vite e ortaggi), sono quelle che generazioni di agricoltori hanno selezionato nei secoli in funzione della resistenza alle limitate disponibilità idriche: tutte queste coltivazioni, infatti, sono state condotte per secoli in condizioni di aridocoltura. Ma vediamo il risultato tangibile che scaturisce dallo sfruttamento irrazionale delle aree a clima sub-arido: dal 1900 al 1970 le aree a rischio desertificazione sono cresciute in Europa del 40%. In Italia le regioni maggiormente a rischio sono Sicilia, Sardegna, Puglia e Calabria. Le pratiche agricole irrazionali, il sovrapascolamento, la deforestazione, gli incendi ed i processi di cementificazione ed urbanizzazione concorrono ad incrementare l’estensione di queste aree. Ogni anno in Italia 30.000 ettari di suoli ad alta fertilità sono sottoposti a cambio d’uso da agricolo ad urbanistico; 3,7 milioni di ettari di suolo nel sud Italia risultano degradati a causa di inidonee pratiche agricole. La progressiva perdita di fertilità del terreno, la riduzione della sostanza organica e della diversità animale e vegetale, il conseguente calo di raccolti e di redditività, sono gli effetti di questo processo che coinvolge gran parte del territorio pugliese, dal Salento all’arco jonico e a gran parte della Capitanata. Sulla base dei processi di desertificazione e dei cambiamenti climatici in atto si prevede uno spostamento degli ambienti caldo-aridi verso latitudini e altitudini sempre maggiori. Occorre intervenire subito per evitare che l’intero paesaggio agrario di Puglia subisca un esodo verso il nord Italia. A questo punto non saranno più i tir sulle autostrade a portare gli ulivi verso il nord, ma i cambiamenti climatici e le errate conduzioni agricole attualmente in atto sulle nostre terre.
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3. La macinatura dei suoli, una pratica disastrosa che conduce alla desertificazione La vulnerabilità alla desertificazione è ulteriormente accentuata dalla pratica dello spietramento, che partita inizialmente nell’Alta Murgia, si è poi diffusa su più vasta scala nella regione dove terra e roccia sono trasformate in fine polvere calcarea. Questa pratica ebbe origine quando la Regione Puglia emanò la L.R. n. 54 del 31 agosto 1981 che, utilizzando fondi comunitari, finanziava il miglioramento delle superfici foraggere rendendo seminabili i pascoli naturali. Pratica di dubbio valore agronomico, il dissodamento e la frantumazione dei banchi calcarei rappresenta un grave danno ambientale. Infatti ogni suolo è costituito da una componente minerale ed una componente organica. In quest’ultima è presente flora e fauna microbica, che svolgono un ruolo fondamentale nel ciclo della sostanza organica, di trasformazione dell’azoto e delle altre sostanze nutritive rese così assimilabili dalle radici delle piante. Invertebrati, insetti e piccoli mammiferi nel loro insieme compongono un vero e proprio ecosistema in grado di assicurare la fertilità del suolo. Quando tutto ciò è finemente macinato, la componente vivente del suolo viene irrimediabilmente cancellata e lo stesso risulta trasformato in sostanza prevalentemente inerte, dando così avvio ad inesorabili processi di desertificazione. La rimozione dei massi e la macinazione del primo strato di suolo con lo scopo di rendere il terreno “fine come borotalco”, predispone lo stesso a fenomeni di erosione e desertificazione prima sconosciuti. Infatti il dissodamento e la frantumazione, interrompendo e tappando il reticolo carsico creatosi nel corso dei secoli, ostacolano l’infiltrazione della acque superficiali nel sottosuolo riducendo l’alimentazione delle falde sotterranee; le acque che avrebbero dovuto infiltrarsi scorrono invece superficialmente, portando via humus e suolo fertile, impoverendo i suoli, aumentando lo scorrimento superficiale e innescando gravi fenomeni di dissesto idrogeologico. La desertificazione, come in un deserto che si rispetti, avviene anche in forme più subdole, continue e non percepibili, con il vento che trasporta le particelle più leggere e lascia al suolo la inerte farina di roccia. Nell’Alta Murgia la superficie interessata è immensa: oltre 50.000 ha sono stati coinvolti da questo fenomeno, generando dei paesaggi “arlecchi-
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no” con geometrie dettate dagli effetti della macinatura del suolo e dei banchi calcarei sottostanti. Altri elementi del paesaggio e del tessuto produttivo devastati dallo spietramento sono i pascoli perduti, tratturelli e muri a secco dissodati e frantumati: questa pratica ha così travolto anche gli aspetti storici e culturali del territorio. Dai pascoli brulli dell’Alta Murgia agli oliveti secolari dell’Alto Salento il dissesto ambientale non cambia e tutto per l’illusione di poter conquistare ulteriori strati di terra arabile, senza sapere che in realtà si è solo trasformata la roccia affiorante in una mescola di terra sterile. 4. La primavera silenziosa della campagna pugliese, effetti del diserbo chimico sulla biodiversità Abbiamo già ricordato che le campagne pugliesi hanno da secoli regalato un paesaggio quanto mai suggestivo, che assume aspetti diversi col succedersi delle stagioni. Gli oliveti ad esempio in primavera mostrano la magia dei colori più vari delle fioriture della flora mediterranea: il verde del tappeto erboso si macchia con il rosso dei papaveri, il giallo dell’acetosella e l’arancio della calendula. Si possono osservare gli anemoni, le cui corolle variano dal bianco all’azzurro, al violetto, al rosso brillante; l’aglio roseo con le infiorescenze a forma semisferica e le spate giallo-verde del gigaro. Stupenda è la contrapposizione tra la breve vita della vegetazione erbacea, dei fiori che durano appena una stagione, e la longevità degli olivi secolari che si legge nella maestosità dei tronchi contorti. L’oliveto è luogo insostituibile di sosta per una varietà di uccelli che in esso vi trova, oltre al cibo, tranquillità e protezione. In primavera fanno la loro apparizione l’upupa che nidifica nel tronco cavo degli olivi, la cincia, la capinera, l’averla, il verdone, il succiacapre, il codirosso, la sterpazzola, il luì e molte altre specie, tutte insettivore e quindi di grande aiuto per l’agricoltore. Nella stagione fredda si vedono pettirossi, fringuelli, tordi, merli e storni, che nell’uliveto hanno sempre trovato condizioni di vita e luogo di svernamento ideali. Lo storno, temuto dall’uomo per la grande razzia di olive che procura, ha i suoi nemici naturali, tra questi il gheppio, un rapace che nidifica nei casolari abbandonati. In primavera, negli oliveti, scavano le loro gallerie lombrichi e talpe, sul terreno e fra l’erba
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sono presenti cavallette, grilli, coleotteri e molte specie di insetti. Nei muretti a secco che segnano i confini dell’oliveto vivono lucertole, ramarri e i gechi, che attendono immobili e con illimitata pazienza, gli insetti di cui si nutrono. Tra le chiome degli ulivi, di notte, è possibile scrutare anche il barbagianni e la civetta ed ascoltare i loro versi aspri e striduli. Di notte l’uliveto è visitato anche dal tasso, dalla volpe, dal riccio, dalla donnola che lo attraversano alla ricerca di prede. L’oliveto, quindi, è sempre stato un ambiente agricolo con forte naturalità. Ma se questo è ciò che accade negli uliveti non trattati con i diserbanti, negli ultimi decenni il loro numero si è progressivamente ridotto. Sempre più spesso passeggiando tra le strade di campagna, nel periodo in cui l’inverno cede il passo alla primavera, si osservano i campi di un colore strano che non appartiene al verde dell’erba, ma a colori che vanno dalle tonalità del giallo, del rosso, dell’arancio provocate dall’azione dei diserbanti irrorati nei campi. Sono i colori di una campagna resa sterile dove ogni forma di vita è stata cancellata. Negli ultimi anni sta diventando consuetudine impiegare diserbanti chimici nelle aree agricole senza più svolgere l’aratura o lo sfalcio, e così il suolo si presenta duro e compatto come un pavimento, triste e senza vita come un paesaggio lunare. Se prima ogni filo d’erba si trasformava in carne, latte, uova, formaggio, oggi per molti l’erba appare come un “flagello di Dio” da distruggere, avvelenare, eliminare ad ogni costo. Si è passati da oliveti che hanno convissuto con la vegetazione spontanea sia erbacea che macchiosa, ad oliveti sterili per la mancanza di buon senso e per una falsa cultura della produttività che ha dichiarato una guerra chimica alla bellezza e alla diversità della vita. Ecco perché con l’avvio della primavera larghi tratti della campagna diventano silenziosi e senza vita. Sono drammatici gli effetti di queste pratiche, effetti che non sono solo di natura estetica, ma riguardano l’impoverimento del paesaggio o della biodiversità. Ma anche se non volessimo considerare l’aspetto estetico e la difesa della biodiversità, e volessimo soffermarci solo sul fatto che la campagna è un luogo dove si produce cibo, quella campagna avvelenata dovrebbe far riflettere sul nostro autolesionismo. Se come dice più di qualcuno, siamo quello che mangiamo, allora quella campagna sterile e silenziosa è lo specchio dei nostri tempi, del nostro modo di concepire la bellezza, la diversità della vita e la salute del nostro corpo.
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Adozione di pratiche sostenibili nella gestione del suolo
Un’agricoltura a basso impatto ambientale, ha l’obiettivo di migliorare la fertilità del terreno, evitando l’impiego di prodotti che possono contaminare l’agro-ecosistema e limitando l’utilizzo delle risorse non rinnovabili. Dall’esigenza di raggiungere questi obiettivi derivano alcune buone norme fondamentali: - evitare le perdite di elementi solubili; - possibilmente utilizzare le leguminose come fonte di azoto; - non impiegare prodotti ottenuti per sintesi chimica; - salvaguardare l’attività degli organismi vegetali e animali che vivono nel terreno; - contenere i fenomeni erosivi. Diversi sono i fattori su cui si può agire per migliorare la fertilità del terreno dal punto di vista fisico, e che attengono al miglioramento del rapporto tra aria e acqua nel suolo. Per migliorare le condizioni fisiche di un terreno è fondamentale occuparsi del fattore acqua e della struttura del terreno dalla quale dipende anche la sua porosità. L’apporto di sostanza organica migliora la porosità e la capacità di ritenzione dell’acqua, l’aerazione del suolo, la vita del terreno, la struttura, la resistenza meccanica, il colore, il pH, la fertilità chimica, favorendo pertanto un migliore sviluppo delle radici. I microrganismi e la fauna del terreno costituiscono un importante fattore della fertilità non solo chimica ma anche fisica. La loro attività dipende in primo luogo dall’umidità, dalla temperatura, dall’aerazione e dalla presenza di sostanza organica. Nell’agricoltura a basso impatto ambientale la fertilità e l’attività biologica dei suoli devono essere mantenute o incrementate, combinando le diverse tecniche di copertura e protezione del suolo (inerbimento, sovescio, ecc.) attraverso l’impiego dei residui vegetali e derivanti dagli allevamenti animali, con l’obiettivo di contenere al minimo l’impiego di mezzi provenienti dall’esterno dell’azienda. Tale modalità di gestione sostenibile del suolo si può conseguire attraverso l’applicazione di diverse pratiche, come: - l’utilizzo di coperture vegetali, rappresentate dall’inerbimento con la coltivazione di specie da sovescio, in particolare di leguminose, che
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sono in grado di fissare azoto aumentando il contenuto di questo elemento nutritivo nel terreno; l’incorporazione nei suoli di materiale organico proveniente dalla stessa azienda o da altre aziende che praticano metodi di coltivazione a basso impatto ambientale; l’uso di fertilizzanti esterni all’azienda sia organici, sia minerali (di origine naturale), da ipotizzare solo nel caso i sistemi sopra citati non si siano mostrati efficienti nel garantire la fertilità e la normale attività biologica dei suoli.
Inerbimento e lavorazioni L’erosione idrica è un problema in molti dei nostri terreni soprattutto in quelli che presentano un minimo di pendenza. In Puglia la piovosità si concentra in periodi in cui il terreno può essere ancora nudo. L’erosione idrica provoca notevoli danni e in alcuni casi può farsi sentire, seppur in tono minore, l’erosione eolica. L’unica difesa in entrambi i casi, è mantenere una copertura vegetante del terreno. Con l’inerbimento le proprietà fisiche del terreno vengono migliorate dalla presenza di un fitto capillizio radicale che si distribuisce uniformemente e più o meno profondamente a seconda delle specie, inoltre la presenza di apparati radicali fittonanti favorisce l’infiltrazione profonda dell’acqua soprattutto nel caso di piogge intense. La gestione del suolo attraverso le lavorazioni, determina maggiori perdite di sostanza organica per mineralizzazione, fenomeni di erosione in terreni in pendenza ed una minore portanza del terreno, soprattutto subito dopo il verificarsi di piogge. L’inerbimento permanente (gestito con numerosi sfalci per ridurre al minimo la competizione per l’acqua) può rappresentare la giusta soluzione per salvaguardare il contenuto di sostanza organica del suolo. Nei terreni che rimangono nudi dall’autunno alla primavera inoltrata, si verifica una notevole perdita per lisciviazione di elementi nutritivi e di azoto in particolare. Il risultato di ciò è doppiamente negativo perché si ha un impoverimento del terreno ed un inquinamento della falda freatica. Al contrario un terreno coperto agisce in due modi: da un lato ostacola il ruscellamento (scorrimento superficiale) dell’acqua, dall’altro incamera gli elementi nutritivi nei tessuti vegetali, bloccandoli momentaneamente sotto forma organica e rendendoli disponibili in seguito con la decomposizione dei tessuti vegetali.
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Il cotico erboso va controllato effettuando un primo sfalcio all’inizio della primavera e gli altri in seguito quando lo stesso raggiunge circa 20 cm di altezza. Nel periodo primaverile-estivo, grazie agli sfalci si crea uno strato pacciamante che permette di ridurre le perdite di acqua per evaporazione. Per non ridurre la capacità di ricaccio dell’erba, l’altezza del taglio da terra deve essere di 5-6 cm. Indicativamente, l’inerbimento permanente può fornire 3-6 t/ha/anno di sostanza secca, pari a 0,6-1,8 t/ha/anno di humus. - - - - - -
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In sintesi l’inerbimento presenta numerosi vantaggi: permette di mantenere o incrementare il livello di sostanza organica del terreno; favorisce la presenza di organismi utili che aiutano nel controllo di quelli dannosi; riduce l’erosione nei terreni in pendenza; diminuisce il compattamento del suolo causato dal passaggio dei mezzi meccanici; permette lo sviluppo dell’apparato radicale anche negli strati superficiali di terreno; diminuisce la perdita di azoto per lisciviazione e, quindi, i rischi di inquinamento degli strati profondi del terreno e delle falde; determina una migliore disponibilità del fosforo e del potassio e degli altri elementi nutritivi lungo il profilo del terreno; se comprende leguminose, può fornire azoto immediatamente assimilabile; nel caso degli oliveti agevola l’esecuzione della raccolta (più facile spostamento dei teli e movimentazione delle macchine e riduzione dei rischi di infangatura delle olive) e della potatura.
Impiego di materiale organico di origine vegetale o animale Per conservare o migliorare la fertilità del terreno è di grande importanza l’apporto di sostanza organica. I materiali organici di origine vegetale o animale che possono essere utilizzati per la fertilizzazione, sono numerosi: - letami di bovini, ovini, caprini, equini, ecc.;
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compost; pollina; sovescio; residui di potatura; residui dei processi di trasformazione delle olive, quali la sansa e le acque di vegetazione. Tali materiali organici rilasciano gradualmente gli elementi nutritivi, fornendo gli stessi man mano che sono richiesti dalle piante. I primi due materiali rientrano tra gli ammendanti organici di origine vegetale o animale, caratterizzati da una bassa concentrazione di sostanze nutritive e da un elevato contenuto di sostanza organica e di flora batterica. È importante che i materiali organici impiegati siano facilmente reperibili in zona, soprattutto tenendo sempre presente il rapporto costi-benefici delle somministrazioni. Nell’ottica di ridurre gli input esterni, è rilevante impiegare una tecnica di fertilizzazione che utilizzi al meglio i residui della filiera olivicola, come il materiale di potatura o la sansa vergine e le acque di vegetazione che residuano dai processi di trasformazione. Per l’uso delle sanse e dei reflui di frantoi oleari (acque di vegetazione), occorre rispettare la specifica normativa, che stabilisce i limiti di accettabilità e le modalità d’uso. A quest’ultimo riguardo, le dosi massime di sansa o acqua di vegetazione tal quali, che possono essere somministrate sono di 50 m3/ha/anno se tali materiali sono stati ottenuti con sistemi a pressione (discontinui) di estrazione dell’olio dalle olive e di 80 m3/ha/anno se sono state ottenute con sistemi continui di estrazione dell’olio dalle olive. Le sanse e le acque di vegetazione possono anche essere miscelate con altri materiali per ottenere un compost con un valore fertilizzante maggiore. A tale riguardo, potrebbe essere utile compostare la sansa e le acque di vegetazione con il materiale di potatura dell’olivo, con l’aggiunta di paglia, materiale sfalciato, letame e/o pollina, ecc., magari direttamente in campo per ridurre i costi del successivo trasporto. La somministrazione di letame o di altri materiali organici compostati o no (ad es. le sanse) andrebbe fatta in autunno/inverno dopo la raccolta. Se il terreno è gestito mediante lavorazioni e si esegue un intervento in autunno, la distribuzione andrebbe fatta prima di tale intervento.
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In oliveti privi di inerbimento, con produzioni di 30-40 q/ha, la fertilizzazione può essere effettuata interrando i residui di potatura trinciati ed apportando annualmente 20-30 t/ha di letame o di compost con composizione equivalente. Per oliveti con produzioni superiori occorre aumentare l’apporto di letame/compost. Un’altra possibilità consiste nell’alternare l’apporto di letame/compost e l’esecuzione del sovescio (di graminacee e leguminose o di sole leguminose). Se il terreno è gestito mediante inerbimento o sovescio, è consigliabile triturare i residui di potatura al momento del sovescio o dello sfalcio del prato. Tale abbinamento, soprattutto con il sovescio, è molto utile per sopperire alla temporanea possibile sottrazione di azoto da parte dei microrganismi demolitori dei materiali legnosi (materiale di potatura). Sarebbe opportuno effettuare apposite concimazioni che apportino azoto prontamente disponibile (20-30 kg/ha di azoto), somministrando letame o compost, tale apporto per massimizzare l’effetto, andrebbe interrato. L’interramento, anche parziale, potrebbe coincidere con la rottura del prato fatta per “arieggiare il terreno”, che potrebbe essere eseguita ogni 2 anni a filari alterni, raddoppiando le dosi annuali. Se non è necessario effettuare la rottura del prato, e/o se il terreno è a forte rischio di erosione, il letame/compost può essere lasciato in superficie. Sovescio (concimazione verde) Come già accennato la fertilità può anche essere assicurata attraverso la pratica del sovescio. In particolare il sovescio apporta sostanza organica nelle situazioni in cui l’impiego di letame o compost risulta non praticabile (es. non reperibili in zona/alti costi di trasporto), in quanto consente apporti di sostanza organica secca fino a 4-6 t/ha, che corrispondono a 0,4-1,2 t/ha di humus. In Puglia dove le estati sono lunghe e gli inverni miti, è possibile praticare il sovescio adottando numerose specie erbacee autunno-primaverili (leguminose, graminacee, crucifere, ecc.) seminate singolarmente o in miscuglio. In genere il miscuglio di diverse specie per la costituzione di una copertura verde da interrare risulta migliore dell’uso di una singola specie grazie all’effetto complementare offerto dalle diverse piante. Combinando leguminose a radici fittonanti con graminacee a radici fascicolate si ottiene un miglioramento della fertilità sia in termini chimici che fisici (struttura/
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permeabilità/porosità). Una pratica ben radicata, soprattutto negli ambienti semi-aridi, quale quello pugliese, prevede la coltivazione di specie a ciclo autunno-primaverile da sovesciare in marzo o aprile. Le specie con ciclo autunno-primaverile più utilizzate in Puglia sono rappresentate da graminacee e leguminose; molto comuni i miscugli di orzo e favino o di orzo e veccia. Si può scegliere di coltivare sole leguminose nel caso si voglia privilegiare l’apporto dell’azoto massimizzando quindi la fissazione di questo elemento. Orientativamente, il sovescio con leguminose può rendere disponibili da 50 a 100 kg di azoto/ha. Gestione delle lavorazioni In particolare affinché la gestione del suolo persegua l’obiettivo di preservare e migliorare le risorse naturali e ambientali, tenendo in conto al contempo della necessità di contenere i costi di gestione, bisognerebbe prestare attenzione alla modalità di attuazione ed al numero delle lavorazioni che, talvolta, possono risultare dannose per la struttura del suolo e per la biodiversità in genere e che costituiscono un onere dal punto di vista finanziario. Si ribadisce che, per limitare gli inconvenienti delle lavorazioni, si può sostituire la lavorazione autunnale con uno sfalcio delle piante spontanee, in modo da avere il terreno inerbito nel periodo autunno-primaverile; ciò, faciliterebbe l’accesso delle macchine nei campi riducendo i fenomeni erosivi. 6.
Conclusioni
Le cause che innescano i processi di desertificazione in Puglia sono dovuti in parte ai cambiamenti climatici in atto e in parte a dannose pratiche agronomiche che generano ulteriori danni sulla qualità del paesaggio agrario pugliese. Occorre porre rimedio a ciò attraverso la diffusione di pratiche agronomiche di aridocoltura in grado di non depauperare la fertilità del suolo attraverso l’impiego di specie e varietà native resistenti alla siccità; il recupero di tecniche di lavorazione del suolo (inerbimenti controllati al posto delle lavorazioni meccaniche) e colturali volte alla riduzione dell’erosione; l’uso di fertilizzanti organici.
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Ma per contrastare il rischio di desertificazione occorre anche agire sulla consapevolezza di ognuno, mediante la giusta informazione e formazione dei cittadini e degli agricoltori sugli effetti negativi di pratiche agricole oggi ampiamente diffuse e sensibilizzando e coinvolgendo la popolazione locale ad un utilizzo consapevole della risorsa idrica. Molte di queste pratiche pur apparendo oggi innovative provengono da una cultura agricola appartenuta ai nostri progenitori. Bibliografia ARPA Puglia – Relazione sullo Stato dell’Ambiente – Degradazione dei suoli e rischio idrogeologico, Le aree a rischio desertificazione, 2003 Boccaccio L. 2005 – Sito Natura 2000 Alta Murgia: Linee guida per una gestione agroambientale partecipativa. Tesi di laurea, Facoltà di Agraria, Università di Pisa. Anno Accademico 2004-2005. Canora F., Ferrigno L., Fidelibus M.D., Spilotro G. & Straziuso K. (2003) – Modificazioni antropiche delle tessiture dei suoli carsici dell’Alta Murgia e finalizzazione agricola: implicazioni idrogeologiche. Riassunti FIST, Bellaria 2003, 476-478. Fiore A., Loizzo, Moretti M., Pappalepore M. & Tropeano M., 1995. II telerilevamento da satellite per l’osservazione dello spietramento nelle aree carsiche delle Murge. Applicazione su un’area campione (Murgia Materana). VII Congresso dell’Associazione Italiana di Telerilevamento, Chieri, Torino. Giglio G., Moretti M., Tropeano M., 1996. Rapporto fra uso del suolo ed erosione nelle Murge Alte: effetti del miglioramento fondiario mediante pratiche di spietramento. Geologia Applicata e Idrogeologia, XXXI: 179-185. Guario A. D. Petruzzella, Proscia A., Simeone V., Verrastro V., Cesari G. – Linee guida di coltivazione biologica dell’olivo. Regione Puglia Area Politiche per lo sviluppo rurale, CIHEAM IAM BARI Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari, Osservatorio Regionale sull’Agricoltura Biologica. Settembre 2010 19-27. Lopez R., Miano T.M., 2005. Dissodamenti e spietramenti di suoli ricadenti nel Parco Nazionale dell’Alta Murgia: elaborazioni geostatiche ed indicatori di stato. Atti Società Italiana della Scienza e del Suolo, Bari 21-24 giugno 2005 419-425. Nardi M., 2005. L’attività di spietramento nelle zone di protezione speciale. Regione Puglia, Ambiente e Agricoltura anno I, n. 2: 22-26. Moretti M., Fiore A., Piero P., Tropeano M. & Valletta S., 2004. Effetti dei “Mi-
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glioramenti Fondiari” nelle Murge Alte (Puglia): L’impatto antropico sul paesaggio carsico e costiero. “Il Quaternario” Italian Journal of Quaternari Science, vol. 17(2/1): 323-330. Moretti M., Fiore A., Piero P., Tropeano M. & Valletta S., 2004. Effetti dei “Miglioramenti Fondiari” nelle Murge Alte (Puglia): L’impatto antropico sul paesaggio carsico e costiero. “Il Quaternario” Italian Journal of Quaternari Science, vol. 17(2/1): 323-330. Moretti M. 2005. Le alluvioni nel settore adriatico delle Murge (Terra di Bari) cause geologiche e ruolo dell’azione antropica. Geologi e territorio, n. 3/2005 Pieri P., Giglio G., Moretti M., Tralli F., Tropeano E. & Tropeano M.(1999) – Pratiche di spietramento e impoverimento dei suoli in aree carsiche: il caso delle Murge alte. Forum internazionale sulla desertificazione: Azioni italiane a sostegno della Convenzione delle Nazioni Unite per combattere la desertificazione. 243-246 e 217-220 nella versione inglese.
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Combattere il degrado delle risorse naturali per una agricoltura sostenibile Sommario: 1. Il Mediterraneo: un sistema minacciato; 2. Il degrado delle risorse naturali in Puglia; 3. La sostenibilità in agricoltura: una sfida raccolta dall’Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari.
1. Il Mediterraneo: un sistema minacciato Il Mediterraneo è un’eco-regione ben definita, caratterizzata da una grande diversità di paesaggi, suoli, acque e biodiversità animale e vegetale. Il suo paesaggio si è co-evoluto attraverso l’interazione tra le sue caratteristiche geo-climatiche e l’azione costante della presenza umana. Lungo queste coste sono sorte le grandi civiltà, è qui che è nata l’agricoltura, qui l’uomo ha praticato per la prima volta l’irrigazione e la coltivazione stanziale delle piante, fornendo così un contributo determinante alla nascita della civiltà moderna. Sistemi tradizionali di gestione del territorio e delle sue risorse, perfettamente adattati alle diversità delle situazioni morfologiche ed ecologiche, hanno realizzato nel Mediterraneo un complesso mosaico di paesaggi ed ecosistemi di differente produttività. Lungo i suoi 46.000 km di costa si affacciano 22 paesi e 430 milioni di abitanti chiamano il Mediterraneo “la loro casa” e da esso traggono sostentamento. Questa enorme pressione antropica, esercitata sin dalle epoche più antiche, ha inevitabilmente portato ad un intenso sfruttamento delle risorse naturali: acqua, suolo e biodiversità. Benché si possa affermare che il paesaggio mediterraneo si sia andato modificando proprio sotto l’azione costante della presenza umana condizionando, al contempo, le modalità di vita delle popolazioni residenti sulle sue sponde, è innegabile che, negli ultimi decenni, il degrado ambientale in quest’area abbia subito un’accelerazione, mettendo in moto delle tendenze irreversibili. Tra queste possiamo evidenziare:
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la conversione di habitat naturali in terreni agricoli, aree urbane o altri ecosistemi antropizzati; - le pratiche agricole poco razionali che attraverso l’impiego di fertilizzanti, pesticidi, metalli pesanti, stressano incessantemente i nostri suoli; - la perdita di terreni agricoli a causa della salinizzazione e dell’alcalinizzazione; - l’aumento dell’urbanizzazione sulle regioni costiere (sulla base dei progetti in atto, il 50% del litorale mediterraneo rischia di essere cementificato entro il 2025) e il loro conseguente sovrapopolamento e, all’opposto, l’abbandono delle aree marginali dell’entroterra; - l’inquinamento delle aree costiere e marine, l’erosione dei litorali e l’impoverimento delle risorse ittiche; - il progressivo impoverimento della biodiversità e l’incombente pericolo legato al diffondersi di specie esotiche invasive in grado di competere con le specie endemiche; - lo sfruttamento eccessivo delle risorse idriche, già minacciate dall’impoverimento e dal decadimento qualitativo; - l’esposizione della regione, sempre più vulnerabile, ad eventi climatici estremi (inondazioni, smottamenti, terremoti, tsunami, siccità, incendi) con impatto diretto e immediato sul sostentamento e sul benessere di larga parte della popolazione. Nonostante sia difficile valutare i costi del degrado ambientale, questi sono chiaramente significativi: secondo stime della Banca Mondiale, tali costi assommano ad oltre il 3% del PIL in alcuni Paesi dell’Africa del Nord. Il Mediterraneo deve affrontare queste sfide nel nuovo millennio che richiedono sempre più l’applicazione di forme sostenibili dell’uso del territorio. La scelta di lungo termine è tra uno sviluppo diseguale e uno sviluppo congiunto basato su un forte senso di destino comune nella regione. 2. Il degrado delle risorse naturali in Puglia Nel 2008 la Regione Puglia ha realizzato il Progetto Pilota1 “Attuazione
Il progetto s’inquadra nell’ambito dell’Accordo di programma, stipulato in data 19 dicembre 2006 (prot. n. DDS/2006/13780), tra il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, il 1
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sperimentale della nuova Direttiva per la protezione del suolo finalizzata alla lotta alla desertificazione in Puglia” che, in coerenza con le “Linee Guida” redatte dal Comitato Nazionale per la Lotta alla Siccità ed alla Desertificazione ed applicando sperimentalmente il percorso metodologico indicato nell’ambito della Proposta di Direttiva per la protezione del suolo del Parlamento Europeo e del Consiglio (COM(2006) 232 del 22.9.2006), ha tracciato un quadro dello stato del processo di desertificazione2 nel territorio regionale, definendone criticità e priorità di intervento. Accanto a fattori climatici (clima semi-arido con periodi siccitosi prolungati ed improvvisi eventi piovosi di forte intensità e con tendenza ad una riduzione delle piogge e ad un innalzamento graduale delle temperature) e pedologici (suoli tendenzialmente poveri di sostanza organica e con marcata tendenza all’erosione), sono stati individuati numerosi fattori antropici in grado di ridurre la resilienza del sistema acqua-suolo-habitat (l’urbanizzazione massiccia delle aree costiere della regione e la concentrazione nelle stesse aree delle attività produttive industriali e residenziali, la competizione nell’uso delle risorse idriche con altri settori produttivi, la produzione di rifiuti e reflui con conseguente inquinamento del suolo e delle acque sotterranee e costiere) diminuendo la capacità dello stesso di rispondere alle determinanti della degradazione. L’intensivizzazione dell’agricoltura (che interessa quasi l’84% del territorio regionale) può essere considerata una delle principali cause di origine antropica del degrado del suolo e quindi del processo di desertificazione in Puglia (Ladisa 2007; Regione Puglia 2008) (fig. 1). La necessità di mantenere elevate le produzioni (a fronte di una contrazione generalizzata della Superficie Agricola Utilizzabile che in Puglia, tra il 1982 e il 2007, ha raggiunto il 21%) provoca un aumento degli input di produzione (irrigazione, fertilizzanti, fitofarmaci, meccanizzazione) con impatti sulle acque superficiali/sotterranee e sulle caratteristiche fisico-chimiche del suolo. Comitato Nazionale per la Lotta alla Siccità ed alla Desertificazione e la Regione Puglia. Il progetto è stato condotto dall’Assessorato all’Ecologia della Regione Puglia in collaborazione con ARPA Puglia, IAMB, INEA e CNR-IRSA. 2 La desertificazione è “il degrado delle terre nelle aree aride, semiaride e sub-umide secche, attribuibile a varie cause, fra le quali le variazioni climatiche e le attività antropiche”; la definizione è quella adottata dalla Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta contro la Siccità e la Desertificazione (UN Convention to Combat Drought and Desertification – UNCCD) entrata in vigore il 26 dicembre 1996 e ratificata, ad oggi, da più di 190 Paesi.
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Figura 1. Flowchart degli effetti dell’agricoltura intensiva sul degrado dei suoli e sul processo di desertificazione (fonte: Ladisa 2007, modif.).
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In particolare si osserva: il sovrasfruttamento delle acque sotterranee causa – soprattutto nel sud della Puglia – del fenomeno dell’intrusione salina; l’irrigazione con acque saline che provoca il rapido decadimento delle proprietà chimico-fisiche del suolo agrario (le aree del territorio pugliese in cui tali fenomeni raggiungono ormai livelli più che preoccupanti sono il Salento, l’Arco Ionico Tarantino ed il Litorale Adriatico); l’eccessivo uso di fertilizzanti (in Puglia si distribuiscono, in media, poco meno di 70 kg/ha di concimi azotati, ben superiori ai 54 kg/ha somministrati nelle altre regioni del Mezzogiorno) che conduce all’inquinamento delle falde sotterranee ed alla modificazione delle caratteristiche chimiche del terreno; l’intensificazione dei cicli produttivi, che conduce ad una riduzione della sostanza organica e della fertilità, innescando il conseguente incre-
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mento nel consumo di fertilizzanti allo scopo di mantenere i livelli di produttività desiderati; - la meccanizzazione spinta che è causa del compattamento del suolo con alterazione delle sue proprietà fisiche ed idrauliche; tra le lavorazioni agricole particolarmente impattante risulta essere lo spietramento che altera completamente il profilo originario del terreno creando un suolo “artificiale” che rapidamente perde le caratteristiche di fertilità; - la sostituzione della vegetazione naturale (arbustiva ed arborea) con colture erbacee a ciclo breve che riducono il pool di sostanza organica del suolo, dipendono dall’irrigazione ed hanno una minor capacità di resistere alla siccità oltre a presentare una minore diversità genetica. Allorché le coltivazioni non possono più essere economicamente sostenute, le aree marginali sono abbandonate innescando una serie di processi anche di tipo socio-economico (spopolamento delle aree interne, invecchiamento della popolazione rurale, riduzione degli occupati in agricoltura). In tali aree, venendo a mancare la funzione di presidio del territorio esercitata dall’agricoltura tradizionale, rapidamente si innescano fenomeni di degradazione, spesso connotati dall’erosione e dal dissesto idrogeologico3. Partendo dall’analisi delle succitate criticità, il Progetto ha individuato specifiche Linee d’Azione che stanno trovando concretizzazione in misure operative nell’ambito della Programmazione 2007-13 della Regione Puglia (PSR, PO FESR, Programma Triennale Ambiente) in corso di attivazione. La prima linea di intervento proposta è quella della “protezione del suolo” che individua azioni per il ripristino della sostanza organica nei suoli pugliesi, la mitigazione dei fenomeni di salinizzazione ed alcalinizzazione, la bonifica dei suoli contaminati, il contrasto ai fenomeni di dissesto anche attraverso la riqualificazione e l’incremento delle superfici forestali, la limitazione dei fenomeni di compattamento dei terreni agrari. Altra importante linea di intervento è quella della “gestione sostenibile delle risorse idriche” che individua quali obiettivi prioritari la razionalizzazione degli usi plurimi della risorsa idrica, il ripristino degli equilibri e della Secondo le indagini condotte dal Ministero dell’Ambiente sono 64 i comuni pugliesi (pari al 24,8% del totale) caratterizzati da un livello di rischio idrogeologico definito “molto elevato” o “elevato”. In particolare è la provincia di Foggia a presentare il dato più rilevante con 38 comuni pari a circa il 59% dell’intero territorio regionale soggetto a rischio, seguita dalle province di Lecce, Brindisi e Taranto e Bari.
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funzionalità del sistema idrogeologico, l’adozione di un piano di gestione congiunta della risorsa idrica che permetta di quantificare le disponibilità di acqua, i fabbisogni delle colture e le limitazioni d’uso necessarie a ottimizzare e razionalizzare il consumo della risorsa, l’incremento e miglioramento delle azioni volte al riuso a fini irrigui delle acque reflue depurate, il contrasto dei fenomeni di salinizzazione della falda, l’adozione di tecniche di coltivazione eco-compatibili e l’introduzione di colture non idroesigenti. La linea di intervento “riduzione dell’impatto delle attività produttive” definisce azioni volte a limitare gli impatti delle pratiche agricole intensive e idroesigenti ed alla diffusione una cultura ambientalista nel tessuto imprenditoriale regionale al fine di favorire un razionale impiego delle risorse disponibili. La quarta linea di intervento individuata è quella del “riequilibrio del territorio” che si concentra su azioni volte alla messa a punto di una metodologia analitico-valutativa di pianificazione integrata, basata su un modello di indicatori di sostenibilità ambientale di stato e di monitoraggio, alla definizione e applicazione di procedure di negoziazione con gli attori locali, al recupero e riqualificazione dei suoli degradati per processi di dissesto, erosione, salinizzazione, contaminazione, ecc. Infine, è stata definita una linea di intervento orizzontale che si propone di potenziare il sistema di monitoraggio regionale rispetto alle problematiche della lotta alla desertificazione e alla siccità, di dare vita ad un articolato sistema di formazione e informazione, necessario ad educare gli operatori agricoli, gli imprenditori, i tecnici e l’intera collettività ad un uso sostenibile delle risorse ambientali coinvolgendo gli stakeholders in processi partecipativi decisionali sulle tematiche legate alla siccità e alla lotta alla desertificazione, al fine di favorire l’accesso alle informazioni attenuando i fenomeni di conflittualità tra gli stessi. Da quanto detto, tale Piano d’Azione risulta fortemente incardinato sul paradigma della sostenibilità, un principio che a più di 20 anni dalla sua prima formulazione4, è divenuto sempre più un criterio di base dell’attività economica e sociale, rappresentando una sfida globale da coniugare a scala locale. Il concetto di sostenibilità, emerso nei primi anni ‘70, si è diffuso con maggiore enfasi nel 1987, con il Rapporto Bruntland in cui era definito come “development that meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs.”
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3. La sostenibilità in agricoltura: una sfida raccolta dall’Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari Il CIHEAM (Centre International de Hautes Etudes Agronomiques Méditerranéennes) è un organismo internazionale con sede a Parigi, costituito nel 1961 per iniziativa dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo in Europa) e del Consiglio d’Europa. Ne fanno parte 13 Paesi dell’area mediterranea: Spagna, Portogallo, Francia, Italia, Albania, Grecia, Malta, Turchia, Libano, Egitto, Tunisia, Algeria e Marocco. La missione del CIHEAM è promuovere lo sviluppo sostenibile dell’agricoltura mediterranea. Per attuarla ha fondato quattro Istituti Agronomici Mediterranei (IAM), che hanno sede a Bari (Italia), Montpellier (Francia), Saragozza (Spagna) e Chania (Grecia), ciascuno dei quali opera in specifici campi di attività. Articolandosi attraverso attività di ricerca scientifica applicata, formazione d’eccellenza ed interventi sul territorio, le azioni dello IAM di Bari si indirizzano al raggiungimento dei seguenti obiettivi: • la valorizzazione della risorsa umana come fattore determinante dello sviluppo sostenibile dell’agricoltura mediterranea; • l’approfondimento, l’ampliamento e la diffusione delle conoscenze scientifiche come fattore determinante del miglioramento delle tecniche produttive; • la diffusione della cultura della cooperazione internazionale come fattore determinante dello sviluppo socio-economico e della coesistenza solidale dei popoli mediterranei. Agendo in partenariato con circa 50 istituzioni formative e di ricerca nei paesi membri, il CIHEAM opera per lo sviluppo dei sistemi educativi e l’insegnamento post-universitario, nel campo della ricerca scientifica applicata e della progettazione di interventi nell’ambito dei programmi della cooperazione internazionale. L’IAM di Bari opera in quattro aree tematiche: 1) “Gestione del suolo e delle risorse idriche”, che propone, come strategia di gestione, l’integrazione tra il risparmio idrico (ottenuto attraverso il miglioramento dell’efficienza d’uso e delle prestazioni dei sistemi irrigui tanto a scala comprensoriale quanto a scala aziendale) e la conservazione delle risorse acqua (anche mediante l’uso di risorse idriche
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non convenzionali) e suolo (diffondendo tecniche di protezione dei suoli dall’erosione idrica ed eolica). 2) “Protezione integrata delle colture frutticole mediterranee”, che promuove la gestione sostenibile delle principali affezioni delle piante mediterranee (agrumi, palme, vite, olivo, fruttiferi) attraverso azioni volte allo studio dei patogeni, alla prevenzione dall’introduzione e diffusione di organismi pericolosi nella regione mediterranea ed alla lotta attiva biologica. 3) “Agricoltura Biologica Mediterranea” si pone come obiettivo di sostenere lo sviluppo agricolo nel bacino del Mediterraneo attraverso corsi di formazione, attività di ricerca e cooperazione nel campo dell’agricoltura biologica, occupandosi nello specifico della gestione dei sistemi colturali e della fertilità del suolo, della qualità dei prodotti agricoli e recupero dei sottoprodotti, della agro-biodiversità, dei metodi di controllo biologico di infestanti e patogeni delle principali colture mediterranee. Sono inoltre presi in considerazione gli aspetti legati all’economia e marketing dei prodotti biologici e quelli legati alle politiche di sostegno al settore biologico. 4) “Agricoltura Sostenibile e Sviluppo Rurale” si pone come obiettivo il rafforzamento delle capacità istituzionali nell’ambito dell’agricoltura sostenibile e della lotta alla povertà nella regione del Mediterraneo e dei Balcani. Le sue attività sono volte a sensibilizzare gli operatori agricoli sulle tematiche della sostenibilità dei mezzi di sussistenza nelle aree rurali promuovendo, a livello locale, l’agricoltura e lo sviluppo rurale attraverso il coinvolgimento degli attori interessati, facilitando il dialogo tra i vari settori produttivi. Emerge con evidenza quanto il know-how dell’Istituto possa contribuire alla diffusione di pratiche sostenibili in agricoltura in grado di raggiungere gli obiettivi del Piano d’Azione precedentemente descritti. Nei suoi quasi 50 anni di esistenza, l’Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari ha stabilito un rapporto unico con gran parte dei paesi che circondano il Mediterraneo basando il proprio modello di cooperazione su principi di lealtà, del rispetto per le culture, religioni e costumi di vita dei popoli. Le cooperazioni avviate dall’Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari (IAMB) con le istituzioni territoriali europee e con i Paesi ‘vicini’ sono fon-
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date su programmi e progetti basati su di un armonico equilibrio tra sviluppo economico, tutela dell’ambiente e delle sue risorse, puntando ad una cooperazione duratura e proficua inquadrata nell’ambito di strategie, priorità e programmi pluriennali. L’Istituto opera in collaborazione continua e sistematica con il Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Italiana (MAE), la cui Direzione Generale per la Cooperazione e lo Sviluppo (DGCS) costituisce il suo principale riferimento. Molto stretta è la collaborazione con l’Unione Europea, con gli organismi internazionali della cooperazione allo sviluppo (in particolare con la FAO e la Banca Mondiale), con gli organismi scientifici internazionali5, con i governi e le istituzioni scientifiche nazionali dei Paesi Mediterranei ed anche con le Regioni italiane, prima fra tutte la Puglia. La funzione peculiare che l’IAM di Bari svolge nelle attività di cooperazione è quella di stimolo e di catalizzazione. Alla proposta delle iniziative, infatti, si accompagna un’azione a pieno campo mirante a mobilitare tutte le competenze locali – governative, scientifiche, tecniche ed imprenditoriali – affinché collaborino strettamente fra loro nelle fasi di studio e realizzazione, sviluppando il massimo di sinergia. Alla progettazione degli interventi sono invitate a collaborare le istituzioni scientifiche del Paese di volta in volta interessato, le quali possono, così, avvalersi del patrimonio di conoscenze ed esperienze dell’Istituto, delle sue competenze specifiche, delle sue strutture, delle sue attrezzature e delle sue risorse umane. Certamente, lo studio e l’applicazione di innovazioni coerenti con la sostenibilità ambientale, sociale ed economica del sistema agricolo allargato sono più difficili nelle regioni dei Paesi emergenti, dove vanno studiate e sperimentate forme di sostenibilità funzionali ad ecosistemi spesso fragili (perché sfruttati per sopperire alle esigenze della popolazione, o perché marginalizzati dalla desertificazione e dalla salinità) rendendole coerenti con le legittime aspirazioni di sviluppo e di sicurezza delle popolazioni. 5 L’Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari è uno dei fondatori del GWP (Global Water Partnership), è membro del suo Comitato Tecnico Consultivo per la regione mediterranea ed ha la responsabilità di tutte le sue iniziative in materia di agricoltura irrigua nell’ambiente mediterraneo. È tra i membri fondatori del Consiglio Mondale dell’Acqua (WWC) e nel 1996 è stato scelto come sede del Consiglio per il Mediterraneo. È inoltre sede del segretariato di AgroBioMediterraneo, il Gruppo mediterraneo dell’IFOAM (Federazione Internazionale dei Movimenti per l’Agricoltura Biologica).
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Proprio dall’incontro con le realtà di questi Paesi, dall’ascolto degli agricoltori, dalla costruzione di rapporti ancor prima che di progetti condivisi, i ricercatori dello IAMB traggono insegnamenti, “success stories” che cercano di trasferire, attraverso processi partecipativi, alla realtà agricola pugliese, sperimentando innovativi modelli di equilibrio fra produttività e funzionalità dell’agricoltura, fra impiego delle risorse naturali e loro durevole salvaguardia, per consentire la rigenerazione naturale del capitale ambientale e delle sue funzioni ecologiche nell’interesse delle prossime generazioni. Un’agricoltura mediterranea sostenibile deve garantire il fondamentale diritto alla sicurezza alimentare per il maggior numero di esseri umani, ma con minori impatti sul suolo, sull’acqua, sulla biodiversità e con minori consumi di materia e di energia. Tale fine può essere raggiunto, in un clima di solidale cooperazione politica internazionale e di attiva partecipazione di tutti, se vi sarà una forte espansione delle conoscenze scientifiche e delle innovazioni tecnologiche, nella maturazione delle attitudini e capacità di uomini e donne. Cooperazione, Ricerca e Formazione: una sfida che l’Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari ha raccolto da tempo con responsabilità.
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Bibliografia CIHEAM – Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari. Siti web: www.ciheam.org; www.iamb.it. Lacirignola C., Ladisa G. (2006) – La salvaguardia dell’ambiente mediterraneo attraverso la cooperazione. Atti del 3° Convegno Nazionale – Piante Mediterranee “Le Piante Mediterranee nelle Scelte Strategiche per l’Agricoltura e l’Ambiente” Bari, 27 Settembre – 1 Ottobre 2006. Italian Journal of Agronomy, October-December 2009 Supplement Issue Vol.4, No. 4 Suppl. ISSN: 1125-4718. Ladisa G. (2007) – La desertificazione: priorità per la Puglia. In: La terra è una sola!, pp. 26-33. Numero unico, ottobre 2007, Bari. Ladisa G. (2007) – Definizione delle aree sensibili alla desertificazione in Puglia. Atti del Convegno: “La protezione del suolo e la lotta alla desertificazione in Puglia”. Valenzano (BA), 7 novembre 2007. Regione Puglia, Assessorato all’Ecologia, Bari. Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del Mare – Regione Puglia Assessorato all’Ecologia (2008) – Attuazione sperimentale della nuova Direttiva per la Protezione del Suolo finalizzata alla lotta alla desertificazione in Puglia. Ottobre 2008, Regione Puglia, Assessorato all’Ecologia, Bari. UNEP (1994) – United Nations Convention to Combat Desertification in those countries experiencing serious drought and/or desertification, particularly in Africa. UNEP, Geneve. World Commission on Environment and Development (1987) – Our Common Future. Oxford University Press, Oxford, United Kingdom.
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Le risorse idriche in Italia: aspetti quantitativi e qualitativi L’acqua è una sostanza indispensabile per la vita: è il mezzo in cui avvengono tutte le reazioni metaboliche degli organismi viventi e la sua presenza è il fattore condizionante più importante per la sopravvivenza nella biosfera. Già questo sarebbe sufficiente per giustificare una sua utilizzazione razionale, tuttavia negli scorsi decenni si è verificato uno sfruttamento eccessivo che ha portato all’impoverimento delle risorse idriche disponibili. Allo stesso tempo si è avuto l’aumento della domanda, rendendo necessaria la gestione sostenibile di questa preziosa sostanza, definita dall’UNEP (United Nations Environment Programme) nella Strategia Mediterranea per lo Sviluppo Sostenibile “una risorsa scarsa e fragile, distribuita in maniera diseguale nel tempo e nello spazio”. Per analizzare la situazione delle acque in Italia, sono stati utilizzati i dati pubblicati dall’ISTAT nel 2007 e relativi agli anni dal 1990 al 2006. Una prima informazione riguarda le portate medie annue dal 1990 al 2006, espresse in metri cubi al secondo, determinate nelle stazioni di misura più prossime alla foce, di alcuni corsi d’acqua rappresentativi delle diverse realtà territoriali.
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Stazione di misura Corsi dâ&#x20AC;&#x2122;acqua
Denomina- Regione zioni
Sigla Comune Provincia
Distanza Superficie Portata medalla foce del baci- dia (km) no di annua degli dominio ultimi trenta (km2) anni (metri cubi al secondo) 105 1567 63,2
Periodo di osservazione (ultimi trenta anni disponibili)
Brenta
Barziza
Veneto
VI
Bassano del Grappa
Adige
Boara Pisani
Veneto
PD
Boara Pisani
51
11954
188,5
FE
Ferrara
91
70091
1542,5
1960-66 1969-77 1982-83 1987-96 2004-05 1969-77 1980-86 1989-00 2004-05 1963-06
PI
Vicopisano
37
8186
78,5
1977-06
RM
Roma
43
16.545
194,9
PE
Spoltore
9
3.125
43,6
CB
Portocannone
9
1290
10,8
CE
Cancello ed Arnone
18
5.558
73,6
Campania
SA
Albanella
10
3.235
47,0
Rifornitore Sardegna Tirso ponte statale S. Samuele Puglia di Cafiero
SS
Illorai
592
90
2,99
1976-91 1993-06 1965-76 1986-03 1966-77 1986-03 1961-75 1979 1992-93 1995-06 1976-94 1996-06 1967-97
FG
San Ferdinando di Puglia
25
2.716
10,5
1967-97
Po Arno Tevere Pescara
PontelagoEmilia scuro Romagna S.Giovanni Toscana alla Vena RomaLazio Ripetta S.Teresa Abruzzo
Biferno
AltopanMolise tano Volturno Cancello ed Campania Arnone Sele Tirso Ofanto
Albanella
Fonte: ISTAT- Statistiche ambientali.
Dalla tabella si può notare che i fiumi con la maggiore portata annua media si trovano nelle regioni del nord Italia (vedere ripartizioni geografiche riportate in coda), con una portata complessiva di 1794 metri cubi al secondo,
253
Le risorse idriche in Italia: aspetti quantitativi e qualitativi
i due fiumi dell’Italia centrale, e cioè Tevere e Arno, hanno una portata complessiva di 273 metri cubi al secondo, mentre i fiumi del sud Italia sono i più poveri: la loro portata complessiva è di 188 metri cubi al secondo. Inoltre i fiumi con maggiore portata media annua sono quelli con superficie di bacino di dominio più elevata. Questi dati evidenziano la diseguale distribuzione geografica di acqua nel nostro Paese. La portata media annua dipende sia dall’estensione del bacino imbrifero, sia dall’entità delle precipitazioni che alimentano il corso d’acqua. In Italia le precipitazioni sono nella maggior parte dei casi concentrate nei mesi compresi fra ottobre e marzo. Per garantire la disponibilità di acqua in tutti i 12 mesi dell’anno, sono stati costruiti dei grandi invasi che immagazzinano il deflusso nei mesi piovosi per poi utilizzarlo nel resto dell’anno. Inoltre è diffusa la pratica del trasferimento di risorse fra compartimenti idrografici, per assicurare quanto più possibile una uniforme disponibilità in tutto il territorio nazionale. Ad esempio la Puglia utilizza l’acqua proveniente dagli invasi della Basilicata. È importante anche analizzare eventuali variazioni della portata media annua di questi corsi di acqua nell’arco di più anni. I dati sono riportati nella tabella seguente: Portata media annua di alcuni corsi d’acqua - Anni 1990-2006 (metri cubi al secondo)
Differenza tra la portata media annua e la portata media annua degli ultimi trenta anni (valori percentuali) CORSI D’ACQUA Brenta Adige Po Arno Tevere Pescara Biferno Volturno Sele Ofanto Tirso
Stazioni di misura Barziza Boara Pisani Pontelagoscuro S.Giovanni alla Vena Roma-Ripetta S.Teresa Altopantano Cancello ed Arnone Albanella S. Samuele di Cafiero Rifornitore Tirso ponte statale
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
-42,4 -23,6 -41,3 -39,5
-19,7 -0,7 -11,9 25,8
6,7 -2,2 -1,7 41,8
-18,7 8,5 18,0 -2,7
-27,0 -3,8 23,9 -14,5
-37,3 -15,2 8,4 0,8
-1,1 -11,3 34,1 17,7
…. -1,4 -22,0 -17,0
…. 6,1 -14,6 -25,4
…. 16,0 -7,2 -5,7
…. 10,2 27,0 -6,9
…. …. 12,6 -5,0
…. …. 25,1 -28,5
…. …. -33,5 -27,6
4,1 -3,9 -7,1 47,2
-24,7 -32,00 -39,0 56,9
…. …. -40,2 -39,7
-34,6 1,8 5,2 ….
20,9 2,0 10,1 ….
….. 2,1 12,6 -34,5
-17,6 1,8 6,4 -45,8
-6,0 1,8 11,1 ….
-31,1 1,7 5,8 -37,2
-7,4 1,8 9,5 -8,8
3,9 1,7 10,6 -20,8
-3,9 2,2 6,8 -38,1
-8,0 2,6 11,6 -21,1
-18,6 2,3 3,9 -57,3
-14,3 2,2 1,6 -64,2
-32,9 2,2 5,0 -78,5
-26,2 2,6 13,9 -46,7
-0,5 …. …. -29,2
1,4 …. …. 18,2
-16,5 …. …. -49,1
-30,3 -46,6
-33,2 -55,6
…. -64,8
-48,2 -36,3
…. -15,4
…. -19,9
0,6 -22,7
-48,8 -42,4
-30,7 …
-28,4 …
-49,2 …
-63,8 …
-60,7 …
-25,7 …
-33,1 …
-8,5 …
-24,2 …
-62,5
11,5
-18,1
-58,5
-53,2
-82,2
48,6
-49,5
…
…
…
…
…
…
…
…
…
Fonte: Regioni.
254
Marino Spilotros, Daniela Guariglia
Si può notare che le percentuali riportate nella tabella hanno, nella maggior parte dei casi, valore negativo, il che indica una diminuzione della portata media annua e quindi un impoverimento delle risorse idriche da essi rappresentate dai relativi corsi d’acqua. Per valutare le condizioni dei corpi idrici presenti in Italia è importante anche conoscerne la qualità. In base al Testo Unico Ambientale (Decreto Legislativo 3 aprile 2006 n 152), la qualità ambientale di un corpo idrico è legata alla sua capacità di conservare i naturali processi di autodepurazione e di sostenere comunità vegetali ed animali ampie e ben diversificate, mentre la qualità per specifica destinazione di un corpo idrico ne individua lo stato adatto ad un particolare utilizzo da parte dell’uomo. Le statistiche ISTAT disponibili purtroppo non riportano dati relativi ai corsi d’acqua delle regioni meridionali, tuttavia vengono indicati ugualmente i parametri utilizzati. Indici Ibe Lim
Classe I > 10 480 - 560
Classe II 8-9 240 - 475
Classe III 6-7 120 - 235
Classe IV 4-5 60 - 115
Classe V 1, 2, 3 < 60
Il Lim (Livello di inquinamento da macrodescrittori) è un indicatore sintetico di inquinamento delle acque superficiali, introdotto dal D.lgs 152/99, attualmente non più in vigore poiché abrogato dal Testo unico sull’ambiente (Decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152). L’indicatore descrive in modo sintetico la qualità delle acque utilizzando un insieme di parametri definiti macrodescrittori: Percentuale di ossigeno disciolto, Bod5, Cod, NH4 (azoto ammoniacale), NO3 (azoto nitrico), fosforo totale, Escherichia Coli. A valori elevati dell’indice corrispondono livelli di inquinamento elevati. Il biomonitoraggio ambientale si basa sulla risposta quantitativa di determinati organismi viventi a diversi livelli di inquinamento e valuta la qualità ecologica dei diversi ambienti. Uno degli indicatori utilizzati per le acque correnti è l’Ibe (Indice biotico esteso), basato sulle modificazioni della composizione delle comunità di macroinvertebrati sensibili sia a fattori di inquinamento, sia ad alterazioni fisiche dell’ambiente fluviale. I valori decrescenti dell’indice vanno intesi come un progressivo allontanamento dalla condizione “ottimale o attesa”, definita sulla base di una struttura della comunità che in condizioni di naturalità dovrebbe colonizzare quella determinata tipologia
255
Le risorse idriche in Italia: aspetti quantitativi e qualitativi
fluviale. Nel monitoraggio di qualità delle acque è considerato un metodo complementare al controllo chimico e fisico delle acque. Le classi di qualità hanno il seguente significato [Apat, Irsa-Cnr (2003)]: • Classe I: Ambiente non alterato in modo sensibile • Classe II: Ambiente con moderati sintomi di alterazione • Classe III: Ambiente alterato • Classe IV: Ambiente molto alterato • Classe V: Ambiente fortemente degradato A questo punto è necessario analizzare il percorso seguito dall’acqua che esce dai nostri rubinetti. L’acqua viene prelevata da una fonte e, attraverso la rete di distribuzione di un acquedotto, giunge nelle nostre abitazioni, uffici, negozi, scuole ecc., dopo aver subito trattamenti di potabilizzazione. L’acqua utilizzata in ambito domestico viene eliminata attraverso gli scarichi che confluiscono nella rete fognaria. Questa trasporta i liquami fino ad un impianto di depurazione, in cui l’acqua viene depurata e quindi scaricata in un corpo idrico recettore che può essere un mare, un lago oppure un fiume. I dati quantitativi sono riportati nella tabella seguente. Volumi di acqua ad uso potabile per regione - Anno 2005 (migliaia di metri cubi)
REGIONI
Acqua prelevata
Acqua potabilizzata
Italia Nord Centro Mezzogiorno Puglia
8.705.837 4.004.541 1.651.073 3.050.223 174.475
2.709.316 1.606.200 307.562 795.554 100.266
Acqua immessa nelle reti di distribuzione 7.799.364 3.710.515 1.533.702 2.555.148 458.023
Acqua erogata 5.450.554 2.795.911 1.055.490 1.599.153 245.788
Fonte: Istat, Sistema delle indagini sulle acque 2005.
Si può notare che in tutte le aree geografiche del nostro Paese l’acqua prelevata è più di quella erogata; questa differenza è dovuta principalmente alle perdite di rete, per cui una gestione e manutenzione attenta degli acquedotti eviterebbe sprechi di questa risorsa preziosa. Inoltre in Puglia l’acqua erogata è più di quella prelevata perché l’Acquedotto Pugliese utilizza una
256
Marino Spilotros, Daniela Guariglia
notevole quantità di acqua proveniente dagli invasi della Basilicata. L’agricoltura è l’attività economica maggiomente coinvolta nel consumo di risorse idriche, soprattutto in Italia, dove le condizioni climatiche di tipo mediterraneo rendono necessario rimediare alla mancanza di acqua, meteorica o disponibile nel terreno, attraverso l’irrigazione. Nella tabella seguente vengono indicati dati relativi alla superficie irrigata nel nostro paese Aziende agricole e relativa superficie irrigabile e irrigata per regione Anno 2003 (superficie in ettari) REGIONI
Aziende con superficie irrigabile
Numero
Italia
710.522
Nord
246.489
Mezzogiorno
386.410
Centro
Puglia
77.623
85.204
% su aziende totali (a) 36,2
Superficie irrigabile Valori assoluti 3.977.206
51,2
2.382.831
33,3
1.225.526
24,3
30,0
368.849
408.050
Aziende con superficie irrigata
% su superficie coltivata (b)
Numero
% su aziende totali (a)
30,0
622.541
31,7
50,1
215.629
20,2
344.565
15,2
31,8
62.347
74.171
Superficie irrigata Valori assoluti 2.763.510
% superficie coltivata (b) 20,9
44,8
1.740.831
36,6
29,7
827.894
13,7
19,5
26,1
194.785
286.773
8,0
22,4
Fonte: Istat, Indagine struttura e produzioni delle aziende agricole, Anno 2003. (a) Le aziende totali comprendono le aziende con superficie agricola utilizzata e/o superficie ad arboricoltura da legno (b) La superficie coltivata comprende la superficie agricola utilizzata e la superficie ad arboricoltura da legno.
Occorre specificare che la superficie irrigabile è la superficie dell’azienda che, nel corso dell’anno, potrebbe essere irrigata in base alla quantità di acqua disponibile ed alla potenzialità degli impianti a disposizione dell’azienda, mentre la superficie irrigata è quella che nel corso dello stesso anno viene effettivamente irrigata. Si nota sia a livello nazionale che regionale che la superficie irrigata è minore di quella irrigabile. è importante anche conoscere il metodo di irrigazione, in quanto un’azienda agricola può utilizzare una o più fonti d’acqua per l’irrigazione. Le fonti si distinguono in: - acque superficiali: poste all’interno dell’azienda (bacini naturali e artificiali interamente situati nell’azienda o utilizzati da una sola azienda) o
257
Le risorse idriche in Italia: aspetti quantitativi e qualitativi
al di fuori dell’azienda (laghi naturali e laghetti artificiali, fiumi o corsi d’acqua); - acquedotto o altre reti comuni di distribuzione: ossia fonti esterne all’azienda diverse dalle acque superficiali al di fuori dell’azienda ed accessibili ad almeno due aziende; - acque sotterranee ossia fonti situate nell’azienda, o nelle vicinanze, che utilizzano acqua pompata da pozzi forati o scavati o che fluisce liberamente da fonti naturali o simili; - acque reflue depurate vale a dire le acque reflue provenienti da impianto di depurazione; - acque desalinizzate, derivanti da fonti altamente saline che vengono trattate per ridurne la concentrazione di sale prima dell’utilizzazione; - acque salmastre, derivanti da fonti a basso tenore salino, che possono essere utilizzate direttamente senza trattamento. Dai dati riportati nella tabella si ricava la potenziale pressione sulle diverse fonti idriche. Superficie irrigata per tipo di fonte e regione - Anno 2003 (valori assoluti in ettari) - Composizioni percentuali FONTE SINGOLA REGIONI
Acqua superficiale
Acquedotto
Acqua sotterranea
ITALIA Nord Centro Mezzogiorno Puglia
38,3 48,6 36,2 17,1 6,9
18,6 18,8 7,9 20,9 12,1
24,0 11,6 41,2 46,2 67,6
Acque reflue depurate, desalinizzate e salmastre 0,1 0,1 0,1 0,1 0,2
Fonte: Istat, Indagine struttura e produzioni delle aziende agricole, Anno 2003.
Più di una fonte
Totale
19,0 21,0 14,6 15,7 13,2
100,0 100,0 100,0 100,0 100,0
Si può notare che a livello nazionale predomina l’approvvigionamento da fonti superficiali (38,3% della superficie irrigata), mentre in Puglia le aziende agricole utilizzano nella maggior parte dei casi la sola acqua sotterranea per l’irrigazione (67,6% della superficie irrigata). Tale dato è in armonia con quello delle regioni meridionali, in cui l’irrigazione con acque sotterranee
258
Marino Spilotros, Daniela Guariglia
riguarda il 46,2% della superficie agricola. è da segnalare anche lo scarso ricorso ad acque reflue, destalinizzate e salmastre che a livello nazionale sono usate solo per lo 0,1% della superficie irrigata. Come già detto, le acque reflue utilizzate in ambito agricolo sono quelle risultanti dai processi di depurazione dei liquami fognari. Esistono diversi gradi di depurazione: se tutti i reflui fognari confluiscono nel depuratore (o in più depuratori) si parla di grado di depurazione completo, se vi confluiscono in parte e per la parte rimanente vengono scaricati direttamente nel corpo idrico recettore senza subire un trattamento di depurazione, il grado di depurazione è parziale, se i reflui fognari vengono scaricati totalmente nel corpo idrico recettore senza subire un trattamento di depurazione il grado di depurazione è assente. Il concetto di confluenza all’impianto di depurazione implica che l’impianto sia in esercizio indipendentemente dalla tipologia di trattamento effettuata dal depuratore. Nella tabella viene indicato il grado di depurazione relativo ai comuni italiani. Comuni e popolazione residente secondo la presenza del servizio di fognatura e il grado di depurazione delle acque reflue convogliate nella rete fognaria per regione - Anno 2005 (valori percentuali) Grado di depurazione nei comuni con il servizio di fognatura REGIONI
Depurazione completa
Depurazione parziale
Depurazione assente
Comuni privi del servizio di fognatura
Totale
Numero Comuni
Popolazione residente
Numero Comuni
Popolazione residente
Numero Comuni
Popolazione residente
Numero Comuni
Popolazione residente
Numero Comuni
Popolazione residente
ITALIA
56,4
55,4
37,2
40,8
5,8
3,2
0,7
0,6
100,0
100,0
Nord
57,2
60,5
39,0
37,8
3,5
1,6
0,3
0,1
100,0
100,0
Centro
37,8
31,4
51,5
64,9
10,7
3,7
0,1
---
100,0
100,0
Sud
62,2
61,9
28,3
31,5
7,9
5,1
1,5
1,5
100,0
100,0
Puglia
87,5
95,6
3,1
0,8
0,5
0,0
8,9
3,6
100,0
100,0
Fonte: Istat, Sistema delle indagini sulle acque 2005.
Le risorse idriche in Italia: aspetti quantitativi e qualitativi
259
In Italia il 56,4% dei comuni e il 55,4% della popolazione usufruisce della depurazione completa, mentre il 5,8% dei comuni, corrispondente al 3,2% della popolazione, presenta depurazione assente. In Puglia l’87,5% dei comuni ed il 95,6% della popolazione è caratterizzato dal grado di depurazione completo. Depurare un liquame significa sottoporlo a trattamenti che, imitando i processi naturali dei corpi idrici, determinano l’abbattimento della sostanza organica (misurata in BOD5 e COD) e della carica patogena. In pratica il refluo da depurare viene messo a contatto con popolazioni microbiche che degradano gli inquinanti presenti nelle acque, trasformandoli parte in composti più semplici, parte in nuovi microrganismi che formano i fanghi di risulta dell’impianto di trattamento. Ci sono diversi livelli di trattamento dei reflui: • trattamenti preliminari, ossia in trattamenti di grigliatura, dissabbiatura e separazione dei grassi e servono per separare dal liquame le sostanze solide estranee che potrebbero causare problemi agli impianti di depurazione; • trattamenti primari, che rimuovono buona parte dei solidi sospesi totali, prevalentemente di natura organica, presenti nel liquame da trattare. Questi trattamenti avvengono per decantazione meccanica nei bacini di sedimentazione, con o senza uso di sostanze flocculanti che aumentano la sedimentabilità delle particelle; • trattamenti secondari, che abbattono la sostanza organica biodegradabile sospesa e disciolta nelle acque di scarico, utilizzando batteri ed altri organismi; • trattamenti terziari, che consentono di rimuovere efficacemente sostanze non eliminate completamente con i trattamenti primario e secondario, quali microrganismi, sali nutritivi, sostanze organiche (si possono attuare la nitrificazione-denitrificazione, la precipitazione del fosforo, la clorazione e altri trattamenti chimico-fisici).
260
Marino Spilotros, Daniela Guariglia
Impianti di depurazione delle acque reflue urbane in esercizio e Abitanti equivalenti serviti (Aes).effettivi per tipologia di trattamento e regione al 31 dicembre 2005 Impianti per tipologia di trattamento REGIONI
Primario
Secondario
Terziario
Totale
Numero
Aes
Numero
Aes
Numero
Aes
Numero
Aes
ITALIA
8.416
4.439.968
5.515
33.863.306
1.692
30.925.703
15.623
69.228.977
Nord
6.153
2.514.041
2.680
13.452.864
763
17.922.903
9.596
33.889.808
Centro
1.256
260.465
1.343
6.732.556
378
6.628.755
2.977
13.621.776
Sud
1.007
1.665.462
1.492
13.677.886
551
6.374.045
3.050
21.717.393
Puglia
21
104.053
108
2.433.485
69
1.787.726
198
4.325.264
Fonte: Istat, Sistema delle indagini sulle acque 2005.
In Puglia la maggior parte degli impianti di depurazione giunge fino ai trattamenti secondari, mentre a livello nazionale la maggior parte degli impianti svolge i soli trattamenti primari. I reflui trattati provenienti dai depuratori nella maggior parte dei casi vengono scaricati nei corpi idrici recettori, dove spesso causano inquinamento, provocato dall’eccessiva concentrazione di sostanza organica e di nutrienti come azoto e fosforo. Questi ultimi sono essenziali per lo sviluppo degli organismi vegetali e, se sono presenti nelle acque in concentrazioni elevate, provocano lo sviluppo abnorme di alghe (fioriture algali), con conseguenze dannose per gli ecosistemi acquatici. Questo spiega perché è necessario eliminarle dai liquami con i trattamenti terziari. Queste stesse molecole vengono somministrate ai terreni agricoli per migliorarne la fertilità, quindi riutilizzare i reflui trattati in ambito agricolo permetterebbe sia di risparmiare acqua, sia di recuperare preziosi nutrienti che altrimenti andrebbero persi. Per comprendere meglio i benefici derivanti da tale pratica, è il caso di analizzare il ciclo dell’azoto (N). Questo elemento fa parte di importanti molecole biologiche come proteine ed acidi nucleici. Esso è molto abbondante in atmosfera di cui costituisce il 79%, tuttavia può essere assimilato ed utilizzato dagli esseri viventi solo se è combinato con altri elementi.
Le risorse idriche in Italia: aspetti quantitativi e qualitativi
261
La prima tappa del suo ciclo è la fissazione, cioè il procedimento chimico in cui l’azoto gassoso (N2) forma composti chimici assimilabili. Il principale processo naturale di fissazione è realizzato da alghe azzurre, da batteri simbionti di piante (Rhizobium), e batteri non simbionti (Azotobacter, Clostridium) che usando azoto ed idrogeno producono ammoniaca (NH3): N2 g 2N (attivazione dell’azoto) 2N + 3 H2 g 2NH3 L’ammoniaca così prodotta viene convertita in nitrito da batteri come quelli del genere Nitrosomonas: NH3 + ½ O2 g HNO2 + H2O (reazione di nitrosazione) Il nitrito viene trasformato in nitrato da batteri del genere Nitrobacter: KNO2 + ½ O2 g KNO3 (reazione di nitrificazione) I nitrati così formati vengono assimilati dai vegetali ed utilizzati per sintetizzare amminoacidi e proteine. Queste molecole vengono utilizzate a loro volta dagli animali erbivori e carnivori. Le piante e gli animali morti vengono attaccati da vari organismi che trasformano le molecole organiche complesse in composti più semplici e facilmente utilizzabili. Per esempio gli amminoacidi (es. glicina CH2NH2COOH) vengono degradati a biossido di carbonio ed acqua con produzione di ammoniaca in una reazione di ammonificazione, svolta da batteri come quelli dei generi Desulfovibrio e Clostridium: C H2NH2COOH + ½ O2 g 2CO2 + H2O + NH3 L’ammoniaca così prodotta rientra nel ciclo attraverso le reazioni di nitrosazione e nitrificazione. L’azoto viene restituito all’atmosfera da cui e stato prelevato grazie al processo di denitrificazione, in cui i nitrati vengono trasformati in azoto molecolare gassoso: 5C6H12O6 + 24 KNO3 g 30CO2 + 18H2O + 24 KOH + 12N2 In condizioni naturali il ciclo dell’azoto, come quello di tutti gli elementi chimici, è chiuso, cioè i prelievi sono bilanciati dalle restituzioni
262
Marino Spilotros, Daniela Guariglia
all’ambiente; purtroppo gli interventi umani hanno turbato questo equilibrio, poiché viene immesso nel ciclo più azoto di quanto ne venga effettivamente utilizzato e restituito in atmosfera. In questo caso i principali responsabili degli squilibri sono la fissazione industriale per la produzione di fertilizzanti sintetici, nonché gli sversamenti di composti azotati di rifiuto in atmosfera (prodotti di combustione), nelle acque e al suolo.
Fonte: “Human alteration ofthe global nitrogrn cycle:Causes and consequences” P.M. Vitousek, C.J. Aber, R. W.Howarth, G.E. Likens, P.A.Matson, D.W. Schindler, W.H.Scelesinger, ,G.D. Tilman.
Dai dati della tabella si può notare che i rilasci di origine artificiale superano di ben 80 miliardi di tonnellate i rilasci di origine naturale. Tutto questo azoto in eccesso si trasforma in nitrato, che si accumula nelle acque dove come già detto, produce eutrofizzazione e conseguenti fioriture algali. La necessità di una gestione corretta dei fertilizzanti è nota da tempo, infatti vengono attuate diverse pratiche per ridurre l’eccessivo utilizzo dei nutrienti. Un primo intervento è l’analisi fisico-chimica del terreno agrario, per conoscerne le caratteristiche fisiche (come la composizione in sabbia, limo e argilla) e chimiche (pH, disponibilità in elementi nutritivi, capacità di scambio cationico, rapporto di assorbimento del sodio, ecc.). Sulla base di queste informazioni si può determinare un piano di concimazione annuale, che consente di modulare la distribuzione dei fertilizzanti, tenendo conto della disponibilità di nutrienti nel terreno, del potenziale dilavamento realizzato da
263
Le risorse idriche in Italia: aspetti quantitativi e qualitativi
precipitazioni e/o irrigazioni, del ritmo di assorbimento da parte delle colture in atto. L’obiettivo è massimizzare l’assorbimento da parte delle piante e minimizzare gli sprechi, con vantaggio economico per l’agricoltore e ridotta pressione sull’ambiente. In contrasto con le buone pratiche di fertilizzazione si considera la bruciatura dei residui vegetali, ossia la pratica della rimozione dal campo, mediante bruciatura, dei sottoprodotti della coltivazione (es. paglie dei cereali, potature, altri residui colturali). La tabella seguente presenta lo stato di adozione di queste pratiche in Italia. Aziende con pratiche di fertilizzazione per regione - Anno 2003 Pratiche di fertilizzazione REGIONI ITALIA Nord Centro Mezzogiorno Puglia
Analisi chimico-fisica del terreno negli ultimi 5 anni 110.278 59.213 17.499 33.566 5.842
Applicazione di un piano di concimazione annuale 500.091 151.305 75.483 273.303 63.828
Bruciatura dei residui colturali 131.345 27.339 15.800 88.205 9.758
Fonte: Istat, Indagine struttura e produzioni delle aziende agricole.
La tabella successiva mostra le quantità di concimi distribuite nel complesso e per ettaro di superficie potenzialmente concimabile. I dati relativi ai fertilizzanti si riferiscono al contenuto in elementi nutritivi dei fertilizzanti venduti e non al peso complessivo degli stessi.
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Marino Spilotros, Daniela Guariglia
Le risorse idriche in Italia: aspetti quantitativi e qualitativi
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Dalla figura si può notare che l’utilizzo di composti azotati ha registrato un aumento negli ultimi 25 anni, ad indicare la costante necessità di somministrare questo elemento ai suoli per garantire buone rese colturali. Come già detto, una valida alternativa all’impiego dei concimi sintetici potrebbe essere l’utilizzo di reflui depurati. Naturalmente questa pratica deve essere svolta tenendo conto delle caratteristiche del suolo e delle esigenze delle coltivazioni. In conclusione il riutilizzo di acque reflue in ambito agricolo deve essere considerata una buona pratica per realizzare una gestione sostenibile delle risorse idriche. Alla base vi è la concezione ecologica che considera gli scarti delle attività umane non più come rifiuti di cui ci si deve liberare perché inutili, ma come risorse da recuperare e riutilizzare.
Ripartizioni geografiche Nord: Emilia – Romagna, Friuli – Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Trentino – Alto Adige, Valle d’Aosta, Veneto. Centro: Lazio, Marche, Toscana, Umbria Mezzogiorno: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia
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Glossario Abitanti equivalenti serviti (Aes): rappresentano l’unità di misura con cui viene convenzionalmente espresso il carico inquinante organico biodegradabile in arrivo all’impianto di depurazione attraverso il sistema di fognatura esistente. Abitanti Equivalenti (AE oppure AbEq): si definisce un Abitante Equivalente (AE), ai sensi dell’art. 74 della Parte III del D.Lgs. 152/2006, intendendo “il carico organico biodegradabile avente una richiesta biochimica di ossigeno a 5 giorni (BOD5) pari a 60 grammi di ossigeno al giorno”; ovvero si assegna ad un abitante equivalente il carico organico che potrebbe effettivamente attribuirsi ad una persona, defluito fino all’impianto di depurazione; vale l’equivalenza: 1 abitante equivalente = 60 grammi/giorno di BOD5. Tale definizione è utilizzata nel linguaggio tecnico-scientifico per indicare la capacità di abbattimento del carico inquinante di un impianto di depurazione esistente o per misurarla in fase di progettazione di un depuratore. Acqua erogata: è l’acqua che giunge al rubinetto di ogni cittadino-utente del Servizio idrico e può coincidere con quella effettivamente consumata dai diversi utenti, salvo perdite d’acqua. Acqua immessa nella rete di distribuzione: è costituita dall’acqua addotta dagli acquedotti e/o da apporti diretti da pozzi e sorgenti. Acqua potabilizzata: rappresenta quella parte di acqua prelevata che, non rispettando i requisiti di legge, è sottoposta a processi di trattamento fisici e chimici che la rendono idonea per il consumo umano prima di essere distribuita attraverso la rete del servizio idrico. Acqua prelevata: è l’acqua sottratta all’ambiente attraverso le diverse tipologie di fonti di prelievo (sorgenti, pozzi, fiumi, laghi naturali, bacini artificiali, acque marine o salmastre di superficie). Può alimentare l’acquedotto o direttamente la rete di distribuzione comunale dell’acqua potabile. Bacino di dominio: bacino idrografico sotteso ad una determinata sezione del corso d’acqua.
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Bacino idrografico: area che convoglia tutte le proprie acque in determinati sistemi fluviali. BOD: (biochemical oxygen demand, domanda biochimica di ossigeno): esprime il quantitativo di ossigeno necessario all’ossidazione biologica del carico organico biodegradabile presente in un refluo. E’, pertanto, una misura indiretta della concentrazione della sostanza organica presente in un refluo che può essere biodegradata da microrganismi. Convenzionalmente è misurato il Bod5, i.e. il consumo di ossigeno dopo un’analisi di 5 giorni. Il Bod5 pur non corrispondendo al Bodu, (Bod ultimo, che esprime il quantitativo di ossigeno necessario alla completa ossidazione biologica del carico organico presente nel refluo), è più facilmente misurabile e corrisponde all’ossidazione di circa il 60-70% del carico organico biodegradabile complessivo. La scelta della durata dell’analisi pari a 5 giorni è da attribuire alla United Kingdom Royal Commission on Sewage Disposal che tra il 1898 e il 1915 definì il concetto di Bod nell’ambito di uno studio sull’inquinamento delle acque dei fiumi inglesi, caratterizzati da una lunghezza tale che il tempo di residenza idraulica risulta inferiore a 5 giorni. COD (chemical oxygen demand, domanda chimica di ossigeno): esprime il quantitativo di ossigeno necessario all’ossidazione chimica del carico organico presente in un refluo. Sebbene sia una misura semplice e immediata (la prova dura circa 3 ore), non fornisce indicazioni sull’entità del carico organico biodegradabile e di quello organico non biodegradabile. Per le acque reflue civili il rapporto Bod5/Cod è, in genere, pari a circa 0,5 Concime: qualsiasi sostanza naturale o sintetica, minerale od organica, idonea a fornire alle colture l’elemento o gli elementi chimici della fertilità a queste necessarie per lo svolgimento del loro ciclo vegetativo e produttivo, secondo le forme e le solubilità prescritte dalla legge. Fertilizzazione, pratiche di: includono interventi quali: - l’analisi fisico-chimica del terreno, per la conoscenza delle caratteristiche fisiche (come la composizione in sabbia, limo e argilla) e chimiche (pH), disponibilità in elementi nutritivi, capacità di scambio cationico, rapporto di assorbimento del sodio, ecc.) del terreno agrario; - l’applicazione di un piano di concimazione annuale, che consente di modulare la distribuzione dei fertilizzanti sia nelle quantità complessive sia nel formulato, tenendo conto della disponibilità di nutrienti nel terreno, del potenziale dilavamento realizzato da precipitazioni e/o irrigazioni, del ritmo di assorbimento da parte delle
Glossario
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colture in atto. L’obiettivo è la massimizzazione dell’assorbimento da parte delle piante e la minimizzazione degli sprechi, con vantaggio economico per l’agricoltore e ridotta pressione sull’ambiente. In contrasto con le buone pratiche di fertilizzazione si considera la bruciatura dei residui vegetali, ossia la pratica della rimozione dal campo, mediante bruciatura, dei sottoprodotti della coltivazione (es. paglie dei cereali, potature, altri residui colturali) Impianto di depurazione delle acque reflue urbane: si intende una installazione adibita alla depurazione di acque reflue provenienti da insediamenti civili ed eventualmente da insediamenti produttivi (impianti misti), cui possono mescolarsi le acque meteoriche e quelle di lavaggio delle superfici stradali. Le vasche Imhoff sono da considerarsi impianti di depurazione a tutti gli effetti. Impianto di depurazione a fanghi attivi: impianto di depurazione in cui la rimozione del carico organico biodegradabile avviene ad opera di microrganismi aerobi che lo convertono in tessuto cellulare. La separazione della biomassa avviene mediante un’unità di sedimentazione. Fanghi primari: miscuglio acquoso estratto dall’unità di sedimentazione primaria posta a monte del reattore biologico. Fanghi secondari o biologici: miscuglio acquoso estratto dall’unità di sedimentazione secondaria posta a valle del reattore biologico. Portata di un corso d’acqua (metri cubi al secondo): volume di acqua (in metri cubi) che attraversa una sezione definita di un corso d’acqua in una determinata unità di tempo (secondo). Processo aerobico: processo biologico operato da batteri aerobi che sopravvivono soltanto in presenza di ossigeno. Processo anaerobico: processo biologico operato da batteri anaerobi che sopravvivono soltanto in assenza di ossigeno. Processo a biomassa adesa: processo biologico in cui i microrganismi colonizzano un mezzo/supporto inerte quali rocce, sabbie o materiali speciali in plastica o ceramica.
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Processo a biomassa sospesa: processo biologico in cui i microorganismi vengono mantenuti in sospensione nel liquido. Processo di nitrificazione: processo biologico a due stadi attraverso il quale l’ammoniaca viene prima convertita in nitriti e poi in nitrati. Rete di distribuzione dell’acqua potabile: è il complesso di opere (tubazioni, serbatoi, impianti di pompaggio, eccetera), relativo all’intero territorio comunale, che partendo dalle vasche di accumulo (serbatoi, vasche di carico) adduce l’acqua ai singoli punti di utilizzazione (abitazioni, stabilimenti, negozi, uffici eccetera). Rete fognaria: si tratta del sistema di condotte per la raccolta e il convogliamento delle acque reflue domestiche o il miscuglio di queste con acque reflue industriali, assimilabili alle acque reflue urbane, e/o acque meteoriche di dilavamento. Solidi totali: rappresentano la totalità delle sostanze presenti in una soluzione. Sono definiti come la materia residua in un processo di evaporazione a 105°C. Solidi volatili: frazione volatile dei solidi totali alla temperatura di 550°C. Tale frazione è costituita da materia organica. Trattamenti biologici: la rimozione degli inquinanti avviene principalmente per biodegradazione, attraverso l’azione di biomasse costituite da popolazioni microbiche. Trattamenti chimici: la rimozione o la trasformazione dei contaminanti avviene per effetto di reazioni chimiche. E.g.: precipitazione, disinfezione, adsorbimento. Trattamenti fisici: si tratta di trattamenti in cui prevale l’applicazione di principi fisici. E.g.: grigliatura, miscelazione, flocculazione, sedimentazione, filtrazione.
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Indice Normativa di Riferimento Normativa Internazionale Convenzione di Ramsar 2 febbraio 1971: Zone umide di importanza internazionale Normativa Comunitaria Direttiva 2009/90/CE della Commissione delle Comunità europee, che stabilisce, conformemente alla direttiva 2000/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, specifiche tecniche per l’analisi chimica e il monitoraggio dello stato delle acque. Direttiva 2008/98/CEE: Direttiva relativa ai rifiuti Direttiva 2006/118/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006 sulla protezione delle acque sotterranee dall’inquinamento e dal deterioramento. Direttiva 2006/11/CE del Parlamento Europeo e Consiglio, del 15 febbraio 2006 concernente l’inquinamento provocato da certe sostanze pericolose scaricate nell’ambiente idrico della Comunità. Direttiva 2001/42/CEE: Direttiva relativa alla valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente. Direttiva 2000/76/CEE: Direttiva relativa alla norme sull’incenerimento dei rifiuti Direttiva 2000/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2000 che istituisce un quadro per l’azione comunitaria in materia di acque, modificata dalla Decisione 2001/2455/CE e dalla Direttiva 2008/32/CE. Direttiva 1992/43/CEE: Direttiva relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali della flora e della fauna selvatiche Direttiva 1991/676/CEE: Direttiva relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole. Direttiva 1991/271/CEE: Direttiva del Consiglio del 21 maggio 1991 concernente il trattamento delle acque reflue urbane. Modificata Direttiva 98/15/CE della Commissione del 27 febbraio 1998. Direttiva: 1986/278/CEE: Direttiva relativa alla protezione dell’ambiente, in particolare del suolo, nell’utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura.
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Direttiva 1979/409/CEE: Direttiva relativa alla conservazione degli uccelli selvatici Normativa Nazionale D. Lgs n. 219/2010:Standard di qualità ambientale nel settore della politica delle acque - Attuazione della direttiva 2008/105/Ce. D. M. 17/12/2009: Istituzione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti, ai sensi dell’articolo 189 del Decreto Legislativo n. 152 del 2006 e dell’articolo 14-bis del Decreto-Legge n. 78 del 2009 convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 102 del 2009. L. n. 205/2008: Conversione in Legge, con modificazioni, del Decreto-Legge 3 novembre 2008, n. 171, recante misure urgenti per il rilancio competitivo del settore agroalimentare. D. Lgs. n. 4/2008: Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale. D. Lgs. n. 152/2006, Parte III: Norme in materia ambientale - Stralcio delle “Norme in materia di difesa del suolo e lotta alla desertificazione, di tutela delle acque dall’inquinamento e di gestione delle risorse idriche” (G.U. n. 88 del 14/04/2006 S.O. n. 96) - Testo vigente, aggiornato e coordinato, da ultimo, al D.Lgs. n. 56/2009, Legge n.36/2010, D.lgs. 10 dicembre 2010, n. 219. D. M n. 185/2003: Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio. Regolamento recante norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue in attuazione dell’articolo 26, comma 2, del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152. (GU n. 169 del 23-7-2003) D. Lgs. n. 133/2005: Attuazione della Direttiva 2000/76/CE, in materia di incenerimento dei rifiuti D. Lgs. n. 42/2004: recante il “Codice dei beni culturali e del paesaggio” ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137 - [Cod. Urbani] D. M. 19.04.1999: Approvazione del Codice di Buone Pratiche Agricole D. Lgs. 490/99: T.U. Beni Culturali ed Ambientali D. M. 27.03.1998: Modificazione all’allegato 1C della legge 19 ottobre 1984, n. 748,
Indice Normativa di Riferimento
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recante nuove norme per la disciplina dei fertilizzanti. L. n. 36/1994 - [Legge Galli]: Disposizioni in materia di risorse idriche. D. Lgs. n 99/1992: Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole. Abrogato dall’art. 175 D.Lgs. 03.04.2006, n. 152 - Attuazione della direttiva 86/278/CEE concernente la protezione dell’ambiente, in particolare del suolo, nell’utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura. L. n. 144/1989: Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 2 marzo 1989, n.66, recante disposizioni urgenti in materia di autonomia impositiva degli enti locali e di finanza locale. L. n. 431/1985: [Legge Galasso]: Conversione in legge con modificazioni del decreto legge 27 giugno 1985, n. 312 concernente disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale. L. n. 748/1984: Nuove norme per la disciplina dei fertilizzanti. L. n. 5/1975: Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 icembre1974, n. 657, concernente la istituzione del Ministero per i beni culturali e ambientali L. n. 778/1922: Tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico. Normativa Regionale D.G.R. n. 2668/2009: Piano Regionale di Gestione dei rifiuti Speciali. D. G. R. n. 1441/2009 - “Piano di Tutela delle Acque della Regione Puglia - art. 121 del D. Lgs. n. 152/2006”, approvato con Deliberazione del Consiglio Regionale n.230 del 20 ottobre 2009, insieme alle “Linee Guida” contenute nell’Allegato.2 al PTA tra cui: “Disciplina insediamenti ricadenti all’interno delle zone di rispetto delle opere di captazione per l’approvvigionamento di acque destina te al consumo umano …”; “Disciplina scarichi di acque reflue domestiche o assimilate per insediamenti inferiori ai 10.000 AE e…”; “Disciplina delle acque meteoriche
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di dilavamento e di prima pioggia”; “Disciplina delle zone di protezione speciale idrogeologica”; “Disciplina degli impianti di riutilizzo delle acque reflue depurate” D.G.R. n. 2460/2008: Disciplina relativa al regime di condizionalità PAC: modifiche e integrazioni D.G.R. n. 883/2007: Adozione, ai sensi dell’articolo 121 del Decreto legislativo n. 152/2006, del Progetto di Piano di Tutela delle Acque della Regione Puglia. D.G.R. n. 19/2007: Programma d’azione per le zone vulnerabili da nitrati – Attuazione della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato da nitrati provenienti da fonti agricole D.G.R. n.1963/2004: Programma regionale di Tutela Ambientale 2003-2006 e sue modifiche ed integrazioni successive (Disposizioni generali sulle Acque) - BURP n. 19 del 02.02.2005. D.G.R. n.1440/2003: “L.R. n. 17/2000 - art. 4 - Programma Regionale per la Tutela dell’Ambiente”. Aggiornamenti e determinazioni. Decreto CD n. 282/2003: Acque meteoriche di prima pioggia e di lavaggio aree esterne di cui all’art. 39 D Lgs 152/99 come modificato ed integrato dal D Lgs n. 258/200. Disciplina autorizzazioni. L.R. n. 25/2001 e s.m.i.: Semplificazione adempimenti per il rilascio della concessione per l’estrazione e l’utilizzazione di acque sotterranee per le utenze minori (aggiornata con L.R. n.36/2001). L. R. n.20/2001: Norme generali di governo e uso del territorio. L.R. n. 18/1999 e s.m.i.: Disposizioni in materia di ricerca ed utilizzazione di acque sotterranee (aggiornata con atti regionali di successive modifiche e integrazioni quali: L.R. n. 14/2004, L.R. n. 9/2001, L.R. n. 7/2000, L.R. n.8/2000, L.R. n. 26/1999). L.R. n. 31/1995, Art. 14 legge 8 giugno 1990, n.142: Autorità competente al rilascio delle autorizzazioni degli scarichi. L. R. n. 29/1995: Disciplina relativa all’esercizio delle funzioni amministrative in materia di utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura attraverso le Amministrazioni provinciali.
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Lista degli acronimi TERMINOLOGIA TECNICA A.E.
Abitante equivalente
AOX
Composti organici alogenati
AOP
Processi a Ossidazione Avanzata
BOD5
Domanda Biochimica di ossigeno dopo 5 giorni
CDR
Combustibile Derivato dai Rifiuti
BTX
COD
C.S.C. DEHP ECDs HAc IPA
LAS
MBR MF
MLSS
MLVSS MPN NF
NPE NH4 NO2 NO3
Ntot
NTU
Benzene, toluene e xilene
Domanda Chimica totale di Ossigeno Capacità di scambio cationico Di(2-etilesil)-ftalato
Distruttori Endocrini Acetato di idrogeno
Idrocarburi Policiclici Aromatici Alchilbenzeni solfonati lineari Bio Reattori a Membrana Microfiltrazione
Solidi Sospesi nella Miscela Liquida
Solidi Sospesi Volatili nella Miscela Liquida Most Probable Number Nanofiltrazione
Etossilati di nonilfenolo Azoto ammonicale Nitriti
Nitrati
Azoto totale
Unità di Torbidità Nefelometrica
P
Fosforo
PAH
Idrocarburi policlici aromatici
PAA PCB (PCDF)
Acido PerAcetico Policloro-bifenili
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PCDD
Policloro-dibenzo-p-diossine
RUV
Raggi Ultra Violetti
RO
SRT s.s. SS
SST ST
TE
THM TOC UF
UFC
VOC
Osmosi Inversa
Tempo di Ritenzione dei Fanghi Sostanza secca Solidi Sospesi
Solidi Sospesi Totali Solidi totali
Tossicità equivalente Trialometani
Carbonio Organico Totale Ultrafiltrazione
Unità Formanti Coliformi
Composti Organici Volatili
TERMINI NORMATIVI, CODICI E REGOLAMENTI CBPA
Codice di Buona Pratica Agricola
D.G.R.
Delibera di Giunta Regionale
C.E.R. D.L.
D.Lgs. D.M.
D.P.R. F.I.R. L.R. PAI
PPTR PUG
PUTT SIC TT
TUA VAS ZPS
Codice Europeo dei Rifiuti Decreto Legge
Decreto Legislativo
Decreto Ministeriale
Decreto del Presidente della Repubblica
Formulario di Identificazione del Rifiuto Legge Regionale
Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico Piano Paesistico Territoriale Regionale Piano Urbanistico Generale
Piano Urbanistico Territoriale Tematico Sito di Interesse Comunitario
Tavolo Tecnico per lo Studio di fattibilità sulla correttta gestione dei fanghi Testo Unico Ambientale (D.Lgs. 152/2006 e ss. mm. e ii.) Valutazione Ambientale Strategica
Zona di Protezione Speciale, ai sensi della Direttiva 79/409/CEE
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Gli Autori Alessandra Angiuli è dott.ssa di ricerca in “Diritto ed economia del mare” (2005) nel Dipartimento di Diritto privato della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari, ove è stata altresì assegnista di ricerca dal 2006 al 2010. Docente a contratto di “Nozioni giuridiche fondamentali” (9 CFU) nella Facoltà di Lettere e Filosofia della medesima Università dall’a/a 2008/2009 a quello in corso. Avvocato, iscritto all’Albo dal 2002, si occupa di diritto ambientale, diritto di famiglia, diritto di proprietà, diritto dei contratti.
Allessandro Bonifazi, biologo, dopo aver conseguito il Master in Ecologia Umana presso la Vrije Universiteit di Brussel ha conseguito il dottorato di Ricerca in Pianificazione Territoriale e Urbanistica presso il Politecnico di Bari, presso il quale ha anche tenuto come Professore a Contratto il corso di Tecniche di valutazione di impatto ambientale. Attualmente lavora presso l’Ufficio VAS-Via della Regione Puglia come consulente di ricerca su incarico dal Ministero dell’Ambiente.
Gennaro Brunetti è professore associato presso il Dipartimento di Biologia e Chimica Agroforestale e Ambientale dell’Università di Bari. Il prof. Brunetti è responsabile del laboratorio di Chimica Agraria ed Ambientale del Dipartimento. È coautore di numerosi lavori scientifici e coordinatore di alcuni progetti di ricerca finanziati da Enti di Ricerca Nazionali ed Internazionali. Donatella Caniani è ricercatore confermato di Ingegneria Sanitaria Ambientale presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi della Basilicata dove svolge attività di docenza dei corsi di Laurea e di Dottorato di Ricerca. Svolge attività di ricerca nelle tematiche della gestione del trattamento e riuso delle acque reflue e nella gestione di rifiuti solidi urbani. Gianfranco Ciola, di Ostuni, è un agronomo e naturalista esperto in sviluppo ru-
rale. Specializzatosi in management ambientale ha maturato esperienze sul territorio come “animatore e facilitatore” per lo sviluppo rurale. Conoscitore degli aspetti ambientali e del contesto rurale del territorio pugliese, svolge attività di consulente per pubbliche amministrazioni, agenzie di sviluppo, associazioni e imprese, su temi che riguardano la pianificazione e gestione di attività riferite allo sviluppo rurale, alla valorizzazione del territorio e del paesaggio.
Vito Dario Colucci è dottore magistrale in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio. Nel Novembre 2008 è vincitore di una borsa di studio triennale finanziata dalla
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Fondazione Enrico Mattei per la frequenza del corso di Dottorato di Ricerca in “Metodi e Tecnologie per il Monitoraggio Ambientale” con sede presso il Dipartimento di Ingegneria e Fisica dell’Ambiente dell’Ateneo Lucano.
Maria Cristina De Mattia è ingegnere civile idraulico-sanitario. Libero profes-
sionista dal 1998, nel settore civile ed impiantistico con diverse esperienze nel campo della valutazione di impatto ambientale (VIA) e della depurazione delle acque, svolgendo anche attività di sostegno alla didattica per il Politecnico e Centri di formazione. Dal 2001 al 2008 ha fatto parte della Task Force del Ministero dell’Ambiente, nell’ambito del P.O.N.-Assistenza Tecnica del QCS 2000-2006 rivolto alle regioni “Obiettivo 1”, inizialmente presso l’Assessorato “Ambiente” (oggi “Ecologia”) della Regione Puglia e dal 2002 presso l’ARPA Puglia. Dal 2008 è funzionario tecnico esperto dell’ARPA Puglia nel settore delle Acque in ambienti naturali di acque superficiali e sotterranee, nel ciclo delle acque reflue (scarichi e depurazione) ed in idrogeomorfologia applicata per la classificazione dei corpi idrici superficiali, nonché nella prevenzione dei casi di rischio idrogeologico.
Daniela Guariglia si è laureata in Scienze Biologiche presso l’Università degli
Studi di Bari. Fa parte del circolo Legambiente di Bari, per il quale si occupa di educazione ambientale e divulgazione scientifica.
Roberto Francesco Iannone è consulente in materia ambientale e svolge la pro-
pria attività professionale in ambito civile, lavoro e amministrativo. È dottorando di ricerca in Diritto ed Economia dell’Ambiente presso il Dipartimento di Diritto Privato dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” ove è altresì cultore della materia di Istituzioni di Diritto Privato per le relative cattedre della Facoltà di Giurisprudenza e di Scienze Politiche.
Filomena Lacarbonara, geologa, dopo aver svolto l’attività di libero professio-
nista e diverse esperienze nel campo della programmazione dei fondi strutturali a supporto degli Enti locali, dal 2001 e fino al 2008 ha fatto parte della task force del Ministero dell’Ambiente per fornire assistenza tecnica nel campo dello Sviluppo Sostenibile alle regioni dell’Obiettivo 1 nell’ambito del QCS 2000-2006, svolgendo la propria attività inizialmente presso l’Assessorato all’Ambiente della Regione Puglia e successivamente presso l’ARPA Puglia, a seguito della sua costituzione. Dal 2008 è funzionario esperto dell’ARPA Puglia nel campo del suolo, rifiuti e bonifica di siti inquinati.
Gaetano Ladisa, laureato in Scienze Forestali nel 1995, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Idronomia presso l’Università di Padova. Ha collaborato a vario titolo
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con l’Università degli Studi di Bari nell’ambito di progetti di ricerca sulla degradazione del suolo in ambiente mediterraneo. Consulente dell’Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari dal 2002, ha seguito per quattro anni il Piano Forestale Nazionale a Malta. È stato consulente scientifico nell’ambito di due progetti di cooperazione sulla gestione sostenibile delle risorse naturali in aree protette (“INNOVA” - INTERREG III B – ARCHIMED 2000-06; “INTEGRA” Interreg/Cards-PHARE) e del Progetto Integrato AQUASTRESS (EU 6° Programma Quadro). Attualmente è componente dello staff scientifico del progetto LIFE+ Nature & Biodiversity “Cent. Oli.Med.” sulla gestione sostenibile della biodiversità negli oliveti secolari.
Nicla Longino è dottore magistrale in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio.
Laureata presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi della Basilicata nel giugno del 2008, nel Novembre 2009 è vincitrice di una borsa di studio triennale per la frequenza del corso di Dottorato di Ricerca in “Ingegneria dell’Ambiente” con sede presso il Dipartimento di Ingegneria e Fisica dell’Ambiente dell’Ateneo Lucano.
Ignazio Mancini è professore ordinario di Ingegneria Sanitaria Ambientale presso
la Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi della Basilicata, dove è stato preside vicario ed attualmente preside di facoltà. Coordina attività di ricerca nelle tematiche della gestione del trattamento delle acque, della gestione e smaltimento dei rifiuti e della bonifica di siti contaminati.
Salvatore Masi è professore associato di Ingegneria Sanitaria Ambientale presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi della Basilicata dove svolge attività di docenza dei corsi di Laurea e di Dottorato di Ricerca. È delegato del rettore per le attività di placement e direttore del centro di orientamento studenti. Svolge attività di ricerca nel campo del trattamento delle acque, della gestione dei rifiuti, della valutazione di impatto ambientale e della bonifica di siti inquinati. È responsabile scientifico del laboratorio di Ingegneria Sanitaria Ambientale. Massimiliano Piscitelli, ingegnere per l’ambiente e il territorio e dottore di ricer-
ca in Ingegneria per l’Ambiente, si occupa di gestione e trattamento di rifiuti solidi, reflui civili e industriali, bonifica di siti contaminati, Ippc, Via e Vas. Consulente di amministrazioni pubbliche, attualmente ricopre il ruolo di ingegnere ambientale presso la Provincia di Bari e collaboratore esperto della struttura commissariale per l’emergenza ambientale in Puglia.
Nicola Senesi è professore Ordinario di Chimica del Suolo e Direttore del Dipartimento di Biologia e Chimica Agroforestale e Ambientale dell’Università di Bari. Il
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prof. Senesi, attuale Presidente della Società Italiana Scienza del Suolo (SISS) e della European Conference of Soil Science Society (ECSS), ricopre numerose cariche in società scientifiche nazionali e internazionali, oltre ad essere editore di numerosi testi scientifici e coordinatore di alcuni progetti di ricerca finanziati da Enti di Ricerca Nazionali ed Internazionali.
Marino Spilotros, nato a Bari nel 1971, laureato in Scienze Statistiche ed Economiche presso Università degli Studi di Bari, è attualmente Presidente Circolo Legambiente di Bari e fondatore del sito www.euro-jobbing.com. Ha lavorato per la Commissione e Parlamento Europeo curando tra l’altro la pubblicazione dell’Annual Report 2003 della Commissione Trasporti ed Energia e le statistiche sulle modalità di trasporto nella zona UE. Ha pubblicato diversi articoli su testate Nazionali ed Internazionale su tematiche quali: trasporto, cooperazione internazionale, ambiente, inclusione sociale. Carmelo M. Torre, ingegnere civile laureato a Bari, dopo aver conseguito il Con-
joint Master dell’Università di Cantabria e delle Coventry University in European Construction ha conseguito il dottorato di Ricerca in Metodi di Valutazione per la Conservazione Integrata del Patrimonio Architettonico, Urbano e Ambientale presso l’Università Federico II di Napoli. Presidente della Sezione Pugliese dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, è Ricercatore del Politecnico di Bari, presso il quale insegna Valutazione e Gestione Urbana in qualità di Professore Aggregato.
Ettore Trulli è professore associato di Ingegneria Sanitaria Ambientale. Docente nei corsi di laurea in “Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio” tenuti dalla Facoltà di Ingegneria l’Università degli Studi della Basilicata. Svolge attività di ricerca nelle tematiche della gestione del trattamento e riuso delle acque reflue e della valorizzazione energetica e del recupero di materiali dai rifiuti. È consulente presso amministrazioni pubbliche.