Io, Carolina e il grande viaggio.

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Precedenti. A quei tempi Testosterone era signore indiscusso della giovane mente. Il suo territorio era marcato dall’odore acre dell’adolescenza e qua e là, aveva predisposto dei torrioni di guardia, rossi e gonfi, pronti a sparare persino il loro sangue. Nulla sembrava poter offuscare il suo dominio. Orgoglio, Passione e Coraggio erano i suoi più fidati consiglieri. Grazie a loro il suo nome era sulle labbra se non nel cuore di ogni dama del paese. Anche quell’anno il freddo dell’inverno venne sconfitto con delle gran feste ed era ormai imminente il tempo in cui molto nasce e quel che già c’è si colora di vivo. Era appena il terzo o quarto giorno di primavera, quando Passione chiese ed ottenne la convocazione del Gran Consiglio. - Sono proprio curioso di sapere il motivo di questa riunione. Esordì Monsieur Orgoglio. - Principessa Progesterona! – Rispose lapidariamente Passione. Il suo tono di voce non era però deciso come quello di Orgoglio, sembrava più titubante ed anche questo sommato a quel nome contribuì a creare un senso d’insicurezza negli astanti. Paura che nei Gran Consigli non aveva diritto di parola rideva sotto i baffi. Orgoglio, di scatto, si voltò a guardare Testosterone e dal volto un po’ distratto del suo re, capì che Passione si era già portato avanti col lavoro.


- Mio sire, non vorrà veramente infilarsi in questo letto di spine? – Tuonò. - Forse il mio caro collega Orgoglio vuole prendere posto vicino a paura al prossimo Consiglio? – Orgoglio stava già adeguatamente rispondendo a quell’offesa, quando Testosterone lo interruppe prendendo la parola. - Signori, non voglio che si sprechi del tempo in sterili litigi. – Lui teneva molto a questo aspetto. - Penso che sia giusto dare una possibilità a Passione. Ti concederò una settimana di tempo. Se durante questi sette giorni non vedrò dei risultati concreti lascerò carta bianca ad Orgoglio. Qualcuno ha delle obiezioni? – Anche Orgoglio pur di non dare nessun segno di collusione con paura, diede il suo tacito consenso. - Bene, allora così sarà. – Era questa la frase con cui Testosterone chiudeva ogni Gran Consiglio. Principessa Progesterona. Lei non era come le altre, questa gentilissima fanciulla possedeva armi così terrificanti da poter disarcionare qualsiasi condottiero. Aveva bellezza, per la quale anche le ragazze si voltavano a guardarla, aveva dei silenzi che avrebbero fatto sentire in colpa chiunque e aveva mille capricci per i quali chicchessia si sarebbe sentito Dio se fosse riuscito ad esaudirne anche uno solo. Passione fece un gran bel lavoro. Con l’aiuto di Messer Coraggio, travestì Timidezza da Dolcezza e la scaraventò oltre le linee di difesa di Principessa. Una settimana fu più


che sufficiente per permettere a Testosterone di cavalcare sul cuore di quella meraviglia. Passione trionfava. - Monsieur Orgoglio, l’attuale situazione ha ormai cancellato ogni sua remora? – - Mio sire non vorrei offendere la sua intelligenza ricordandole di non sottovalutare Principessa Progesterona. Mi sembra che per il momento abbiamo vinto una grande battaglia e ci siamo però condannati a combattere ogni giorno una nuova guerra. Per quanto bella una donna possa essere non so se ne vale la pena. – - Caro Orgoglio la sua misoginia non mi stupisce. Le garantisco che appena sospetterò che il gioco non valga più la candela, mi ritirerò in buon ordine e lascerò a lei il compito di far valere i nostri interessi. Per il momento le chiedo di restare sempre vigile e di collaborare con tutti noi. A tal riguardo, ha qualche consiglio da darmi? – - Finché Principessa Progesterona si preoccuperà di quanto Lei, sire, le vuole bene, mai si preoccuperà di quanto lei gliene vuole. – - Arguto come sempre. – - Al suo servizio sire. – Queste erano le parole ma i fatti raccontavano di una Passione sempre più travolgente in cui Orgoglio non aveva quasi senso. - Sire, passi camminare mano nella mano e baciarsi in pubblico ma questa volta Principessa Progesterona ha veramente esagerato. Non le si può permettere di cancellare un simbolo della vostra potenza. Con l’uso di sole due dita ha distrutto più di dieci torrioni! – - Orgoglio mi stia bene a sentire. Ho già dato ordine di rimpiazzare tutti i torrioni ma la prossima volta che mi


distrai con queste scemate mentre faccio sesso ti faccio impiccare per sabotaggio! Così andavano in realtà le cose. Con lo strapotere di Passione il perfetto sistema di difesa andava però realmente smagliandosi. Per Principessa Progesterona non era difficile far entrare ogni giorno, nel territorio del suo signore, delle schegge, delle piccole cose di sé che come abili spie rivelavano umori e pensieri del suo uomo. Non lo faceva certo per cattiveria o per secondi fini, era solo la logica conseguenza del suo grande Amore. Nessuno sembrava fare caso a questa pacifica invasione. Tutti con la testa chissà dove, tutti tranne Monsieur Orgoglio. - Paura vieni qui! – Ordinò Orgoglio. No, lui non aveva paura ma aveva bisogno che gli altri ne avessero. Sarebbe dovuto andare contro alcuni suoi principi ma, alla fine, avrebbe tirato fuori tutti da questo enorme pasticcio. - Adesso smettila di tremare che mi fai venire il voltastomaco e stammi bene a sentire. Per una volta tanto devi dimostrare di avere le palle. Perché questo miracolo avvenga, sembrerà strano, hai bisogno di tua sorella. Voglio che tu e lei continuiate a girare per il palazzo facendovi vedere il più possibile. – - Ma io ho paura. – Biascicò paura. - Non ti devi preoccupare in questo periodo le guardie sembrano peggio di un italiano ad Amsterdam. Corri da tua sorella ed eseguite il mio ordine. Se riuscirai nell’intento forse anche il tuo nome avrà diritto alla maiuscola. – - Come vuole eccellenza. –


Seguirono due settimane di tensione. L’aria stava diventando sempre più rarefatta quando finalmente venne convocato il Gran Consiglio. Subito Orgoglio prese la parola. - Sire Principessa ha riaffilato le sue armi e le sta puntando contro di voi. – - Il cigno spiega le sue ali ma non lascia mai il suo stagno. – Controbatté Passione con tutto se stesso. Testosterone voleva credergli. Come sarebbe stato tutto più bello se Passione avesse avuto veramente ragione. Da un po’ di tempo, però, i suoi sonni non erano molto tranquilli. Non pensava fosse colpa di Paura, d’altronde chi poteva dire se era più paura non agire o reagire. C’era qualcos’altro, era la sorella di Paura. Non era passato giorno che Gelosia non gli avesse sorriso e non si fosse intrattenuta con lui per domandargli qualche cosa. Lui la odiava ma non riusciva a cacciarla o perlomeno a non risponderle. L’unico sistema per distruggerla era forse quello di ascoltare i consigli di Orgoglio. - Sire, quando una donna alza la testa, vede più in là di quello che deve e per nulla al mondo potrà più rinunciarvi. Bisogna allora spostare la sua curiosità, fare in modo che trovi in Voi orizzonti così vasti da non poter mai esser completamente visitati. – Sentenziò Orgoglio, abile nel capire i sentimenti dei suoi alleati ma completamente incapace di sentire quelli degli altri. - Parli più chiaro, cosa intende dire? – - I vostri sogni mio sire. Quei sogni che avete accantonato per stare con lei, che avete sacrificato per lei. Principessa non li ha mai visti né sentiti. Voi li avete solo sentiti perché


ve li siete tanto raccontati ed ora è giunto il momento di vederli. Poi li terrete nascosti, in modo che lei vi segua per sempre, domandandosi se è più bella lei o i vostri sogni. – I sogni stavano dormendo in fondo alla stanza ma sentendo il loro nome sobbalzarono sulla sedia. - Bene allora cosi sarà. – A nulla valsero i pianti e le crisi depressive di passione, una decisione era stata presa, il viaggio doveva cominciare. Non era passato molto tempo quando passione corse ansimante da Testosterone. - Sire, non ce l’ho fatta a resistere e l’ho chiamata. - Come hai osato! – - E’ terribile, ha detto che non c’è più posto per noi nel suo cuore. Mentre noi inseguivamo quegli stupidi sogni pensavamo di muoverci ma in realtà eravamo fermi ed era lei ad allontanarsi! – - Sei sicuro. – - Certo sire. – Concluse Passione tra le lacrime. Testosterone prese a calci orgoglio e si mise a strisciare da lei. A nulla valse, d'altronde come poteva quel servo riconquistare l’amore perso da un cavaliere? Per mesi ogni volta che chiudeva gli occhi una scheggia conficcata nel suo corpo iniziava a bruciare allora egli urlava: - Chi siete voi dannate spie, tornate da lei, cosa volete ancora da me? – Sofferenza che era rimasta la sua unica amica gli spiegava dolcemente: - Non ti preoccupare, è solo Amore. Un giorno passerà e ti rimarrà solo la gioia di averlo incontrato. –


Col passare del tempo Testosterone sembrò ritrovare la pace. Eliminò tutti i torrioni di guardia, migliorò il suo odore e conobbe perfino delle altre principesse. Solo ogni tanto aveva ancora degli sbalzi di pressione ma esternamente lo si poteva notare solo dall’abbondante caduta di capelli. Ancora oggi però che sono quasi convinto di essere io il padrone assoluto dell’ancor giovane mente, sento bruciare qualche scheggia, tenero regalo del mio amico testosterone, oltre naturalmente la precoce calvizie.

Carolina. Graziosa e dolce, per chi le voleva bene era Little Carol. In inglese non per mascherare una banalità ma perché a quei tempi, i verdi prati di Scozia, erano il tappeto della sua giovinezza. Anni spensierati, fatti d’oziose giornate campali, con semplici picnic vegetariani in compagnia di tante amiche. A tutte lei donava il suo sorriso ed il suo affetto e tutte la chiamavano Little Carol. A nessuna delle altre importava che fosse un po’ strana, tutte la chiamavano Little Carol. Strana, non certo per le sembianze, lei era come le altre, più bella certo, ma come le altre. La cosa che la rendeva particolare era che lei non si accontentava. Non le bastava quella vita serena e tranquilla dove avresti potuto già scrivere nel tuo diario al mattino quello che avresti dovuto sapere solo la sera. Certo ogni tanto capitava qualche cosa di diverso di bello o


di brutto, come quando morì il figlio di Tootsie. Carol soffrì molto ma tutte le dicevano: - Non ti preoccupare, sono cose che capitano, è naturale. – Naturale, forse era proprio quello il problema. Poteva essere la vita solo un passatempo della morte, in cui il nostro unico sforzo è quello di far passare il tempo dimenticando al più presto quel che non ci piace? Dove era il confine di tutto questo naturale? I verdi prati di Scozia erano però troppo vasti e Carol troppo piccola per avvistarne i limiti. Non le restava che attendere aspettando che si verificasse qualcosa di innaturale o qualche cosa di talmente naturale da apparire innaturale. La sera quando si doveva rientrare accompagnate, lei si faceva sempre trovare nel punto più distante rispetto al dormitorio, per allungare ancora di qualche minuto la giornata, prima che il portone le venisse chiuso alle spalle escludendola dalle possibilità della vita. Per lei ogni piccolo segnale si trasformava in presagio di sensazionali eventi. Carol guardava il sole e pensava che magari sarebbe inciampato su di una nuvola e sarebbe caduto per terra. Quando lo vedeva tramontare un po’ pallido, dietro le colline, credeva che non si sarebbe più svegliato, come il figlio di Tootsie, solo che col sole nulla sarebbe più potuto tornare come prima. Se un filo di vento iniziava a fischiare, Carol aspettava il resto dell’orchestra che le avrebbe sicuramente fatto provare l’ebbrezza del volo o, perlomeno, avrebbe scoperchiato il dormitorio permettendole di capire se il sole russava. Ogni tanto qualche amica, che la vedeva completamente rapita da chissà quale pensiero, cercava di riportarla a terra: - Little Carol non andare troppo lontano con la fantasia,


rischieresti di ritrovarti sola. – Lei rispondeva con un sorriso splendente al punto che anche le amiche più preoccupate si rasserenavano convinte che nessuno avrebbe mai potuto voltare le spalle ad un essere così dolce. Una giornata senza sole e senza vento mise a dura prova la fantasia di Carol. Per non darsi per vinta, smise di aspettarsi qualche cosa dal cielo ed iniziò a cercare tra i fili d’erba microcosmi capaci di portare rivoluzioni. Ammirò la laboriosità delle formiche e le acrobazie delle cavallette ma, ad un tratto, colori inusitati intercettarono il suo sguardo interessato. Non sapeva dire se fosse un filo d’erba un po’ grassoccio o un fiore particolare, fatto sta che quella strana creatura era andata a nascere proprio sopra una cacca. Carol, per nulla schizzinosa, una volta soddisfatta la sua curiosità visiva ed olfattiva decise subito di scoprire di cosa sapeva. Se ne avesse mai assaggiata una, il sapore che sentiva credo l’avrebbe associato ad una di quelle caramelle gelatinose alla frutta. Non proprio alla frutta, più gusto bosco, legna umida, terriccio e foglie secche. Comunque, Carol non ebbe il tempo per pensarci su troppo perché di colpo si ritrovò in un caleidoscopio. All’inizio le si annebbiò la vista. Sulla scia di un giramento di testa miriadi di vetrini colorati vorticando andarono a coprire la volta celeste. Anche se non si vedeva, era evidente che il sole ne stava approfittando per fare la pipì. Una forza misteriosa sembrava agitare quell’intreccio di arcobaleni proponendo sempre nuove combinazioni. Forse quel movimento era solo dovuto al tremito delle sue gambe. Il caldo dei colori però fermò quei brividi e diede alle zampe poteri eccezionali che le permisero di fare piroette in quel plaid spaziale. La luna


accorse a vedere e restò a bocca aperta. I fili d’erba si agitavano come le braccia di un pubblico entusiasta ed ogni tanto si scontravano a due a due facendo partire uno scrosciante applauso. Piano piano però l’azzurro riuscì a squarciare quel bailamme, riprendendosi il suo territorio. Il sole si era già riallacciato la patta e la luna se ne era tornata a nascondersi per poter sbadigliare in santa pace. Tutto era tornato alla norma e solo negli occhi stupefatti di Carol sembrava essere rimasta traccia di quegli eventi. Cos’era successo? Stava forse diventando pazza? Si era forse inventata tutto? Non era possibile, era troppo reale. Provò a fare un salto, ma le sue gambe non si sollevarono che di qualche millimetro dal terreno. Le compagne erano poco distanti e mangiavano come al solito. Possibile non si fossero accorte di niente? Il pensiero di Carol si stava incamminando verso il labirinto della paranoia, quando degli strani suoni, provenienti dagli accompagnatori, provocarono in lei un nuovo turbamento. Aveva spesso sentito quegli uomini emettere dei versi ma questa volta le sembrava che quei rumori avessero un senso. Ogni singolo suono, che usciva dalla bocca di quelle persone, arrivava ordinato alla sua mente, nello stesso linguaggio dei suoi pensieri. All’inizio confuso poi sempre più chiaro. - ……. Avanti …….muovetevi …è ora di fare la nanna. – - Forza, forza… Quella notte il buio dovette impegnarsi non poco per riuscire a proporre i suoi sogni, confondendo ulteriormente la realtà. Solo la mattina successiva, quando l’omaccione che veniva a spremere il frutto del quieto lavoro di Carol, spiaccicò il suo saluto lei si accorse che tutto era veramente accaduto.


Carolina poteva capire il linguaggio degli uomini. Non le ci volle molto per scoprire che cosa aveva procurato questa novità. Il solito menù si era arricchito di una prelibatezza. Appena le parole tornavano ad essere solo dei suoni sconclusionati, non doveva far altro che mangiare un funghetto ed il mondo della comprensione le spalancava le porte. Grazie al suo olfatto eccezionale non era un problema per lei trovare quello che cercava. Un nuovo passatempo occupava la maggior parte delle sue giornate: origliare i discorsi della gente. Ogni giorno imparava tante cose, tutte diverse, che contribuivano a comporre un grande mosaico. Ogni tanto provava anche lei ad emettere quelle vibrazioni, rispettando l’ordine assimilato e cercando di mantenere l’esatta forma del pensiero che le si creava nella mente. Non era affatto facile ma Carol era così affascinata dal mondo degli uomini che si dedicava costantemente a questa attività. In breve tempo i primi risultati cominciarono ad arrivare. Durante una giornata di queste prove Tommaso le si avvicinò. - Senti, senti. La bella Carolina sta imparando la lingua degli uomini. – Carol aveva sempre provato simpatia per quel nanerottolo rosastro e ciccione che ciondolava tutto solo intento a ringraziare ogni cosa di esistere. - Vuoi dire che anche tu li capisci? – Esclamò speranzosa di poter finalmente condividere la sua esperienza. - Diciamo che interpreto ciò che dicono, capirli completamente penso che sia al di sopra delle possibilità di chiunque. – - Tommaso, sono convinta che sai un sacco di cose su di


loro, per favore me le puoi insegnare? – Tommaso sembrava un po’ recalcitrante ma piano piano il fascino di Carol riuscì a penetrare la sua dura scorza. - Se mi prometti una cosa, vedrò cosa posso fare. – - Prometto tutto quello che vuoi. – - Non dovrai mai rivolgere la parola ad un uomo. – - Perché? – - Vedi loro hanno deciso che il mondo è governato da determinate regole. Se tu gli rivolgessi la parola, tutte queste regole salterebbero e sono sicuro che non reagirebbero tanto bene. – Aveva sempre sognato di chiacchierare con loro: “Buon giorno signora come sta?”. Ogni volta che li vedeva scendere da una macchina era impaziente di essere in grado di domandare: “Scusi, cosa c’è dopo quella collina?”. Ora però aveva assoluto bisogno di Tommaso. Anche se non le avesse insegnato nulla, aveva finalmente qualcuno con cui confrontarsi senza sentirsi una pazza. - Va bene, lo prometto. – Rispose un po’ a malincuore. Carol aveva trovato un ottimo maestro. Come insegnante Tommaso era strano ma i suoi metodi alla fine si rivelarono più che soddisfacenti. Le lezioni erano aperte puntualmente da riti apparentemente sciamanici, d’altronde tutti sapevano che Tommaso era un tipo mistico ma Carolina sospettava che lui questi rituali se li inventasse giorno per giorno. Comunque creavano una certa atmosfera. Seguivano duri esercizi di dizione che forse erano l’unica cosa che veramente serviva ed alla fine il maestro esponeva le sue teorie. Carolina amava ascoltarlo, anche se non sapeva fino a che punto tutto ciò fosse attendibile e Tommaso non si


prendeva più di tanto sul serio per queste cose, così si permetteva discorsi sempre più arditi e molte volte si trovavano a ridere per qualche cosa che aveva detto. - Ci sono gli uomini e le donne. Gli uomini sono fisicamente più forti e per questo motivo per molti anni hanno avuto il dominio assoluto su tutto. Prevaricando imposero la loro forma di pensiero e la chiamarono razionalità. Alle donne erano assegnati i compiti più basilari, come pulire la casa, cucinare e curare i bambini. Erano loro concesse insomma le cose più pratiche. Gli uomini avevano scelto per sé i compiti più impegnativi ma anche più gratificanti, nei quali davano sfogo alla loro intelligenza creativa. Apparentemente, l’estro delle donne era destinato ad atrofizzarsi, finché un giorno non si resero conto che avevano l'utero dalla parte delle ovaie e così, in breve tempo, riuscirono a far valere i loro diritti. L’intelligenza delle donne, che per molti anni non aveva potuto esprimersi ma che fortunatamente non aveva neanche dovuto omologarsi alla massa, adesso può dire la sua e questa si chiama irrazionalità. L’irrazionalità è imprevedibile per l’irrazionale, figurarsi per il razionale. Col raggiungimento della parità dei due sessi, inoltre, nessuno si e più vergognato di ammettere che in ogni singolo essere umano sono racchiuse componenti sia maschili che femminili. Per concludere, se a grandi linee possiamo collegare il razionale con il lavoro e l’irrazionale con l’arte, ci spieghiamo come mai le donne manager usano poco le gonne e perché molti artisti sono gay. – Su cosa Tommaso basasse le sue opinioni, era un mistero spiegabile in parte col fatto che godeva della più assoluta libertà all’interno della fattoria. Poteva tranquillamente


raggiungere una postazione dalla quale era in grado di vedere e sentire la televisione dei padroni. Forse avevano appena trasmesso un concerto di Elton Jhon. Tommaso però preferiva la radio. Si piazzava ore ed ore sotto la finestra della nonnina della casa ad ascoltare Mary Radio. Alla lunga questa mania avrebbe potuto causargli qualche problema psichico ma lui non sapeva resitere. A Tommaso bastava ascoltare Saidi, l’inserviente di colore, per due giorni, per affermare con apparente certezza: - La teoria della deriva della specie è chiara. Un tempo tutti vivevano vicini, poi iniziarono a diventare troppi, così molti dovettero spostarsi. Alcuni andarono ad occupare zone dove le stagioni erano molto diverse. C’erano mesi caldi, tiepidi e freddi. Questi cambiamenti influenzarono quegli uomini in maniera tale che pensavano sempre al futuro. Quando era caldo si preoccupavano di quando sarebbe diventato freddo e così via. In pratica, non si godevano molto l’oggi, perché pensavano al domani ma il presente lo vivevano abbastanza bene perché ci avevano già pensato ieri. Altri uomini andarono invece nei posti dove faceva sempre caldo. Ogni giorno era lungo a sufficienza per risolvere i suoi problemi e se fosse stato più lungo, avrebbe creato solo più problemi. Se per caso avevano un po’ di soldi, li spendevano tutti subito perché l’unica cosa certa del domani era il caldo. Pensavano sempre all’immediato senza preoccuparsi del futuro. Così, per proteggersi dal sole, diventarono scuri scuri, senza pensare che un giorno sarebbero venuti qui a lavorare e tutti gli avrebbero detto “Ehi tu, negro!”. – Col passare del tempo grazie all’aiuto di Tommaso e ovviamente dei funghetti, Carolina riuscì a farsi un’idea più o meno reale dell’universo umano. Era sufficientemente


allenata per poter comprendere discorsi lunghi e complicati. Un occhio attento sarebbe riuscito a notare una sorta di sorriso ogni volta che qualcuno faceva una battuta spiritosa. Si avvicinava però un periodo in cui le barzellette dovevano lasciare il posto ad un argomento per nulla divertente. Tutta la gente della fattoria diventava, di giorno in giorno, sempre più triste e preoccupata per una nuova forma di epidemia. Se anche le loro bestie fossero state contagiate, sarebbe stata una rovina. Il termometro della tensione toccò l’apice quando giunse la notizia che il giorno successivo sarebbe venuta una delegazione dall’Ufficio Sanitario Nazionale a controllare lo stato di salute del bestiame. Se anche un solo capo fosse risultato positivo al test, tutta la mandria sarebbe stata abbattuta. Carol era a conoscenza di questa situazione ma le sarebbe bastato sentire come la stava strizzando l’omone, per capire quanto era alto il livello di preoccupazione. Contravvenendo agli insegnamenti di Tommaso, decise di dire qualche cosa a quell’uomo, una frase qualsiasi, magari una battuta spiritosa, giusto per tirargli su il morale. La battuta partì ed andò a colpire dritto in fronte l’omone che si ribaltò dallo sgabello. Il pallido scoprì nuovi parametri cromatici. Tutti i patemi di quei giorni avevano dunque un fondamento, nella sua fattoria c’era qualcuno che aveva contratto il nuovo virus. Nella sua stalla c’era una mucca pazza. Doveva farla sparire a tutti costi. Non poteva permettersi di farsi abbattere tutta la mandria. Non poteva ucciderla perché se avessero rinvenuto la carcassa gliela avrebbero attribuita certamente. Quel giorno non poteva proprio spostarsi dalla tenuta per portarla lontano. Avrebbe tentato la fortuna, l’avrebbe fatta scappare da sola, nella speranza che se ne


sarebbe andata a morire il più distante possibile. La mattina successiva Tommaso, cercando Carol, dovette fare i conti con le amiche della sua allieva. Dopo avergli lapidariamente raccontato l’accaduto iniziarono ad insultarlo. - E’ solo colpa tua tutto quello che le è successo! – - Se non gli insegnavi le tue diavolerie sarebbe ancora qui con noi. – - Little Carol era troppo buona e tu ne hai approfittato. – E via via accusando. Tommaso era furioso. Non con loro, solo con Carolina che gli aveva disubbidito. Non lo offendevano quegli insulti, d’altronde quelle bestie non avevano avuto la fortuna della comprensione. Stava cercando il modo per sfogarsi, quando udì la voce del veterinario. - Mi dispiace Mr Boardline i test sono risultati positivi. Domani, in mattinata, manderemo i carri a prendere il bestiame. – Il fattore piangeva. Tommaso ammutolì. I pensieri si ribaltavano nella testa, il giusto diventava sbagliato e lo sbagliato giusto. Si concentrò per riprendere le redini dei pensieri. Doveva fare qualcosa. Scavò un buco sotto la recinzione e fiutò la pista. Non ci mise molto a raggiungere la sua preda. Pensava di trovarla in lacrime, disperata da qualche parte senza sapere dove voltarsi invece era lì tutta allegra a godersi il fresco delle piante. - Tommaso, Tommaso lo sapevo che saresti arrivato. Non sono andata apposta lontano perché ti aspettavo. E’ tutto meraviglioso qui attorno. E la notte Tommaso, tu non ti immagini, diventa tutto buio e ci sono dei rumori tra gli alberi che ti fanno venire un po’ di fifa. Pensa che le lucciole


erano così spaventate che sono volate in altissimo. Sai cosa penso, come era quella parola che cercavi di spiegarmi e io non capivo? Aspetta, libertà ecco era libertà. Nessuno ti dice più cosa devi fare, si può andare dove si vuole, se non vuoi dormire puoi giocare con le falene e poi c’è questa paura di perdere tutto ciò da un momento all’altro che ti fa godere di ogni cosa anche se stupida. E’ questa vero la libertà? – - Forse. – Rispose Tommaso orgoglioso di lei al punto da perdonarla definitivamente per avergli disubbidito. Era ora giunto il momento, però, di riferirle le brutte notizie, mettendola così in guardia dai pericoli che correva. Carolina in tutto quel periodo aveva mantenuto una fresca ingenuità ma sotto sotto era maturata parecchio, così Tommaso non perse troppo tempo per indorare la pillola. - Tommaso, dobbiamo andare indietro a salvarle. – Era l’unica frase che poteva servirle da tampone per le lacrime. - Non credo sia il caso. E’ troppo pericoloso. Cosa vuoi che possiamo fare noi due soli? – -Andiamo laggiù di nascosto, gli raccontiamo cosa sta per succedere, poi tutti insieme sfondiamo la recinzione e scappiamo. – - Non è così semplice, non ci staranno mai ad ascoltare, vedi c’è gente che non vuole salvarsi e quindi non può essere salvata, anzi è così schiava che non riesce nemmeno a vedere nemmeno le sue c… ehi Carolina aspettami … Era già partita. I guardiani erano troppo disperati per accorgersi di qualsiasi cosa. Margie, la più anziana, la vide arrivare per prima. - Dolce Carol, sei tornata a salutarci, tenera amica non


dovevi rischiare così tanto per noi. – - Oh Margie è bello rivedervi tutte. Mi sarebbe piaciuto essere qui solo per salutarvi ma purtroppo devo portarvi delle notizie terribili. Non c’è tempo da perdere, dovete scappare subito. Gli uomini hanno deciso che domani all’alba vi porteranno via. Vi vogliono uccidere! – Tutte erano accorse a salutare Carol e tutte udirono quelle parole. - Come, come fai ad essere sicura di quello che dici. – - Me lo ha detto Tommaso, che li ha sentiti proprio con le sue orecchie. – Un brusio diffuso fece sollevare nuvolette di fumo nell’aria fresca. - Carol, tu lo sai che ti vogliamo bene ma sai anche che molte di noi non si fidano tanto di quel che dice il tuo amico. – - Ve lo giuro, non mentirebbe mai su una cosa così grave. – - Sì , ma anche se gli credessimo, cosa pensi che potremmo fare noi, da sole, fuori da questo recinto? - Lo so, non è facile ma almeno avreste qualche possibilità di salvarvi. Se restate qui, l’unica cosa certa è la morte. Là fuori ci saranno dei momenti di forte paura ma alla lunga scoprirete che proprio la paura è un ingrediente fondamentale della vita. Capiremo insieme cos’è la libertà e mille altre cose. – Per cercare di convincerle Carol aveva intrapreso discorsi incomprensibili per loro, con l’unico risultato di allontanarle. - Ehi, non è che tu sei gelosa perché noi siamo a casa e invece a te hanno sbattuto fuori? – Disse una con la forza delle retrovie aprendo così il vortice


delle cattiverie. - Mi sa che è diventata pazza anche lei a furia di stare con Tommaso. – - Carol perché non te ne vai da sola col tuo amichetto, non è abbastanza alto per te? – Le risate schioccavano come fruste. Tommaso aspettò un pochino pensando che quella era una importante lezione di vita che forse le sarebbe servita per affrontare con più rabbia i pericoli dell’immediato futuro, poi le tirò la coda e senza dire una parola ritornarono sui loro passi. Solo Margie tenne gli occhi ben fissi su quella strana coppia che correva lontano. Sentiva che stava perdendo più di un’amica, vedeva la sua vita che scappava via e per un attimo pensò di inseguirla, poi si disse: “Sei troppo vecchia Margie, non hai mai corso ed iniziare adesso dopo avergli lasciato tutto quel vantaggio, sarebbe la tua prima ed ultima stupidata.”. Con le lacrime agli occhi si confuse in mezzo alle altre. Arrivati in un posto riparato Tommaso aspettò giusto il tempo di riprendere il fiato e poi: - E’ più facile andare a salvare qualcuno che lasciarsi salvare in fondo non c’è gusto se ti salvano, prima fai la figura di quello che ha sempre bisogno degli altri, poi devi anche ringraziare. Ogni tanto però ci vuole umiltà. Tu hai fatto tutto quello che potevi ma adesso devi seguire i miei consigli. Questo stato per te è troppo pericoloso ma devi sapere che c’è un posto lontano, lontano dove nessuno oserebbe farti del male. Saresti amata e rispettata come una dea. Questo posto si chiama India. Il viaggio è molto lungo e pericoloso ma non hai altre alternative. – - Lo sai che seguirei tutti i tuoi consigli, e sono sicura che


questo posto che dici deve essere meraviglioso ma non esiste un posto dove anche a te non farebbero del male? – - Mah ci sarebbe anche, solo che là gli uomini non possono bere alcolici, le donne devono coprire perfino il volto e tu lo sai, anche se sono un tipo mistico sono pur sempre un porco! – Cancellarono un po’ di nervosismo con una risata. - Allora, se mi prometti che mi accompagni, una volta arrivati laggiù dirò a tutti che sei mio amico così, non ti faranno nulla! – - Glielo prometto, mia dea. – Risero ancora. Stranamente per tutto il resto della giornata, passato a fantasticare, Carolina era riuscita a non versare neanche una lacrima. Il giorno successivo bastò il rombo dei carri bestiame in lontananza, per farla naufragare. Solo un’altra volta pianse così tanto, quando il fato avverso volle che Tommaso non poté mantenere fede alla promessa data, lasciando Carol più sola che mai con l’unica convinzione di andare in India.

Io. Io sono Io. Non è stato un cammino filosofico a portarmi a questa conclusione. Appena nato io ero già Io. Forse se mi fosse stato permesso di diventare Io, con un ragionamento o con una maturazione come gli altri, tutto ora sarebbe diverso. In ogni caso io mi chiamo Io e il mio problema più grande non è mai stato quello di non sapere quando era il mio onomastico. All’inizio non ci feci caso. Ero un bambino come tutti gli altri, ogni tanto mi scherzavano ma c’era


sempre qualche cosa per cui potevo prendere in giro loro. Tutti i bambini hanno qualcosa per cui poterli prendere in giro. Comunque a quell’età un sano egocentrismo era ammesso. Sopravvissi anche alla fase dei capricci ormonali, già carica di per sé di dubbi e con i suoi strascichi mi trovai a tu per tu col momento meravigliosamente pericoloso in cui la mia storia dipendeva da me. La palestra della vita era terminata e mi doveva essere servita a scovare, sotto tutta quella montagna di apparente fatalità, noia e immutabilità del passare dei giorni, la mia corsa. E quando finalmente mi resi definitivamente conto di che cosa mi avessero fatto, i responsabili di tutto ciò, se ne erano già andati. Per molto tempo vagai senza rotte predeterminate, alla ricerca di un suicidio eroico, nascondendo calamite dietro ogni bussola. Tutti quelli che conoscevo sembravano apprezzare il mio nome. Non beneficiavo mai del soggetto sottinteso. Nessuno usava il mio cognome così lo dimenticai. - Pronto chi parla? – - Sono Io. – - Io chi? – - Io, Io. – Il problema in apparenza era limitato a questo e a pochi altri episodi ma in me questi equivoci innescavano una serie di turbamenti. Quasi tutti o prima o poi si domandano “Chi sono io?”. Però questa è una domanda che si può facilmente eludere o rimandare, lasciando che i casi della vita ti distolgano. Più difficile per me era non saper rispondere a chi era Io. Dentro di me regnava il caos e così non sapevo mai se posponevo riflessioni su chi ero io o su chi era Io. Non fu affatto facile venirne a capo. Per uno strano caso di omonimia non potevo essere accusato di non essere me


stesso. Io ero sempre Io e questa era proprio la mia grande colpa. Non avevo lasciato che il mio io più profondo, lanciasse una sua costola nel mondo di tutti i giorni, facendola plasmare dalla realtà. Facendole subire le intemperie della vita, lasciandola diventare Io. Tutto questo per la scelta di questo nome ambiguo ma anche per una innata, enorme sfiducia verso tutto quell’immenso esterno che senza tenere conto dell’origine, avrebbe cucinato quella costoletta come più gli sarebbe piaciuta. Genitori che si rifiutano di fare figli per paura che nasca qualcosa di talmente estraneo che gli possa risultare odioso. Questa situazione era mantenuta pagando un prezzo altissimo. Umiliazioni, mortificazioni e tutto ciò che era utile per appiattire e smussare era ben accetto, perché era più facile che tutto rimanesse uguale se non si era niente. Abitavo in una città divisa, nella mia immaginazione, da una barriera invisibile che era però capace di nascondere bene alcuni aspetti delle due realtà. Solo in una parte c’erano i miei amici. Tutti sembravano avere un piccolo segreto, per cui stavi con loro più tempo possibile perché da un momento all’altro te lo potevano rivelare. Passavamo la maggior parte del tempo seduti per terra a chiacchierare, scherzare, ad annoiarci e a sbirciare ogni tanto oltre la barriera guardando la gente seduta ai tavolini dei portici o che entrava a comprare nelle boutique rispondendo al cellulare. Avevamo la presunzione che le nostre risa fossero più sincere, i nostri pianti meglio spesi, i nostri segreti più avvincenti e le nostre droghe superiori. Eravamo un paesino di periferia nel centro della città. Passavano i giorni ed ogni tanto qualcuno di noi esagerava e ci abbandonava per sempre ed era tutto il mondo a morire. Qualcuno veniva


arrestato e tutto il mondo era una prigione. Qualcuno trovava un lavoro serio o l’amore e se ne andava oltre la barriera e tutto il mondo era un traditore. Molti se ne andavano ma prima di partire non mi svelavano mai il loro piccolo segreto. Arrivavano sempre nuovi ragazzini a sedersi con noi. Sempre più piccoli e sempre più colorati. Dietro a quelle tinte però non vedevo nascosto più nessun piccolo segreto. Non perché loro fossero peggiori di noi vecchi ma perché, purtroppo, erano uguali a noi. Avrebbero preso prima o poi la loro strada ed io ero stufo di guardarli andare via, in un modo o nell’altro, senza che mi rivelassero nulla. Ero stanco di stare seduto per terra, mi alzai ed andai oltre la barriera. Per la prima volta guardai quella gente con benevolenza. Anche loro erano come me, avevano solo scelto di essere un ingranaggio più o meno consapevole di questa società. Si erano solo presi le loro responsabilità. Sorrisi e poi non ce la feci proprio più a trattenermi. Iniziai a vomitare. La gente per bene mi guardava giustamente schifata. Mi sarebbe piaciuto che avessero saputo come mi chiamavo, se fosse arrivato qualcuno e avesse urlato: “Chi è stato?”, tutti avrebbero risposto “Io, Io, Io.”. sarebbe stato come in quella classe della pubblicità dove il professore chiede di chi è il preservativo. Qualcuno avrebbe forse sorriso di quell’involontaria collusione. Nessuno però mi conosceva e quella era l’unica cosa che avevo in comune con loro. Riuscii a mettere via dei soldi e partii. Partii perché se sei confuso la nebbia confonde ancor di più la tua confusione. Dovevo prendere un treno per andare all’aeroporto. Alla stazione incontrai un amico. - Perché scappi? –


Chiese. - Non sto scappando, sto solo correndo il più velocemente possibile verso qualche cosa di più bello. – Risposi abbastanza convinto anche se sembrava più la frase tratta dal diario di un ragazzino che aveva appena scoperto la “beat generation”. D’altronde me ne stavo andando e volevo far credere al mio amico che quello fosse il mio piccolo segreto. Non penso che ci cascò, perché mi rispose: - Ti auguro una fuga gioiosa. – La mia corsa mi aveva portato in un posto dove le ragazze, uscendo dall’acqua, si lasciavano rubare il sale dal collo, poi mangiavi una fettina di limone e ti bevevi una tequila. Come monaci tibetani si procedeva all’annullamento dell’io in una cornice certo più romantica della stazione di Berlino. Nessuno mi conosceva e così cambiai nome. Mi facevo chiamare Giò. Tutti però parlavano spagnolo e così pronunciavano Jo. La vita era una continua passeggiata sulla spiaggia, la notte arriva il mare e cancellava ogni traccia. Una sera, forse stufo di questo lavoro notturno, il mare mi chiamò. Camminavo sul bagnasciuga mentre il sole si tuffava nell’acqua, illuminando con la sua ombra le morbide acque. Come un enorme occhio di bue, proiettava il suo fascio di luce sul palcoscenico della terraferma. Una gigantesca freccia incandescente, smossa dalle onde, puntava proprio me. Intimidito mi spostai di qualche metro. Niente da fare. Molto distante da dove mi trovavo, c’era una coppia di ragazzi ma al sole sembrava non fregargliene per niente. Nel copione dell’universo quella luce doveva indicare proprio me. Mi sentivo l’unica star di quel palco immenso. Vinsi


l’imbarazzo e dimenticando quanto ero stonato, iniziai a cantare. Tenni per ultima la canzone che avevo scritto per Principessa Progesterona. Divenne tutto buio e migliaia di accendini si accesero in cielo. Avevo una ragazza capelli come il vento, avevo una ragazza con gli occhi come il tempo. Avevo anche un sogno un sogno da bambino, un sogno da bambino un sogno da cretino. Il sogno da bambino, geloso come un nano, prese la ragazza e la strinse in una mano. Lontano la gettò, vicino all’equatore e sono convinto che lì è nato un fiore. Il sogno non contento del bieco tradimento, pagò una strega troia per la mia finta gioia. Un filo del telefono come paravento ed ora la sua voce solo io sento.


L’amore cieco è un gioco che dura troppo poco, bacio la cornetta, non è come una tetta. Meglio stare soli, vicino all’equatore fumando un bel cannone e cercando un fiore, cercando il fiore. Il mare applaudì a lungo. Quella notte faticai ad addormentarmi. Troppa adrenalina e troppa gioia mi cullavano con la dolcezza di un fratellino geloso. L’unico neo era di non aver avuto nessuno al fianco per poter condividere quella meraviglia. Prima che questo rimpianto riuscisse ad incrinare quell’euforia, il mio cervello mi lanciò una scintilla. Non ero completamente solo, c’era io e Io. I due gemelli eterozigoti saldati insieme dal destino non erano più un figlio unico. Una parte aveva avuto il coraggio di urlare le sue canzoni al mondo. Non importa che non ci fosse stato nessun altro ad ascoltare, per le critiche c’era sempre tempo. La cosa più importante, però, sembrava che quella parte dell’io che era rimasta immobile, che non si era esposta, godeva anch’essa di quella felicità. Anche se separati dovevano rimanere amici per riuscire di nuovo a stare bene come in quella notte. Sarebbero stati alternatamente lo stimolo e il limite dell’altro, senza competizioni, uniti solo per raggiungere un risultato superiore. Forse è proprio questo il potere dell’Illuminazione.


Una gioia che nasce dal nulla e ti dà una forza incredibile, che ti fa accontentare di risposte superficiali a problemi complessi. La mattina dopo, non avevo ancora aperto completamente gli occhi e già mi chiedevo se fosse stata solo un’euforia momentanea, che come solitamente accade, si addormenta con te e si risveglia chissà quando. Saltai in piedi e sentii dentro me ancora una voglia di vivere speciale. Il sole mi aveva per la prima volta davvero Illuminato. Colsi ancora qualche fiore ma appassirono tutti dopo pochi baci. Avevo finito i soldi e dovevo tornare a casa. Ero ancora contento, ormai ero ricco di qualche orma leggera sulla sabbia. Tracce che né il vento né il mare né altri passi avrebbero potuto cancellare, dovevo solo stare un po’ attento. Infatti tornare a dormire con altre migliaia di persone sotto la stessa coperta di cemento non fu affatto facile. Provai nuove vie e nuovi corsi. Andavo avanti e indietro come un forsennato. Passavo così tante volte per quelle strade che, le commesse dei negozi mi riconoscevano e mi salutavano dalle vetrine anche se non ero mai entrato da loro. Mi accorsi in tempo che stavo ricadendo nel vortice che ti risucchia, fino a farti credere che esistono solo le cose e le persone che conosci. Non mi restava che ripartire e visto che il mare mi aveva già detto cosa ne pensava, andai a parlarne con le montagne.

Il grande viaggio. Le montagne dormono. Le montagne non parlano. Le montagne aspettano. Le montagne spostano i profeti.


Ai loro piedi non sei nessuno ma sulla vetta ti regalano un’ombra così grande, che ti basta allargare un po’ le braccia per accarezzare tutta la valle. Dei giorni puoi pensare che sono salite, altri che sono discese così forti da spingere i fiumi fino al mare. Ogni cosa ti costa più fatica, sembra che ti voltino le spalle e non avrai nulla se non guardi dove è volto il loro sguardo. Ma cosa importa, era Primavera. Camminavo sul bordo di un laghetto, il cui colore mi parlava del freddo dell’inverno passato. Il sole stava andando a dormire. Evidentemente troppo stanco per accorgersi della mia presenza, la sua scia indicava un punto abbastanza distante da me, dove una mucca pascolava pacifica. All’inizio mi sentii un po’ come nell’incontrare un vecchio amico e lui non ti riconosce ma il quadro generale infondeva una serenità tale che non mi sentii derubato. Giustificai addirittura la scelta del grande faro, sottolineando il fatto che in fin dei conti era un occhio di bue con le sue logiche preferenze. Divertito da questa intuizione cantai felice la mia canzone. - Che bella canzone. – Una fanciullesca voce sculettava alle mie spalle. Appoggiai la chitarra e con un lieve sorriso paccianesco, mi voltai come chiunque, nel pieno delle sue facoltà, dopo qualche giorno di solitudine, avesse sentito una voce simile. Tutto molto lentamente. La sorpresa fu enorme. I tratti delle sue curve abbandonavano i solchi prevedibili della bellezza classica per intraprendere ampie volte, tese al compimento di una più grande opera di serenità e dolcezza. Era straniera e anche lei aveva una canzone da raccontarmi.


Naturalmente non poteva suonare la chitarra ma mi disse i tre accordi che più le piacevano. Fortunatamente facevano parte dei quattro che conosco io e così potemmo cominciare. Mi chiamo Carolina sono una mucca assai carina. Per errore ho cominciato, poi per scelta ho continuato: mangiar funghi allucinati per umani esser scambiati. Ciò non porta alla pazzia, mi dà voce e un po’ poesia. Ma a quel tempo in Inghilterra per le vacche era una guerra, poi per scherzo io quel giorno feci al tipo un discorso porno. Sono tre anni che alle sette tu trastulli le mie tette! Non ti sembra che mi tocca almeno un bacio sulla bocca. Lui pensando è mucca pazza mi cacciò dalla mia razza. Per l’addio nessuna torta, mi caccio fuori dalla porta. Io lo presi per il naso, via portai porcel Tommaso, un maiale mistico, da menù turistico.


Che mi disse Carolina la tua meta non è vicina. Se vuoi pace e serenità devi andare molto in là: dove sono nati i grandi, proprio dove è nato Gandhi. Dove le mucche delle città hanno odore di santità. Io risposi circospetta non lo so cosa mi aspetta non mi importa per il costo ma non so dov’è sto posto. Io risposi ecchemminchia devo andare fino in India. Io risposi ecchemminchia devo andare fino in India. Che voce aveva. Il mare dei Caraibi delle onde sonore. Non mi sarei mai stufato di ascoltarla. - Ma Tommaso dov’è adesso. – Il suo sguardo si incupì quanto basta per farmi sentire uno sciocco. Poi riprese a cantare. Col porcellino Tommaso ero il terrore di ogni maso. Là nei verdi prati mangiavamo funghi colorati, parlavamo poi pacati lasciando voi allucinati. Questa era la storia,


molta gioia e poca gloria, finché non fu arrivato quel topastro blu dannato. Non sono un topo buffo, il mio nome è Grande Puffo e l’avevo anche avvisato quel maiale un po’ scimmiato. Non mangiatevi quel fungo, non vivrete poi a lungo; troppo forte è la passione che cancella ogni ragione; troppo lunga la legione dei martiri in passione; troppo piccola la vita, per affrontare questa salita. Ma Tommaso era Tommaso e credeva solo al naso e ne fece un sol boccone di quella libagione. Poi correndo come un razzo intonò un canto pazzo e due giorni ho impiegato per trovarlo già scannato. Venne presto condannato da un popolo integrato. Un porcello tutta panza è stato colto in flagranza, in flagranza di reato


per avere lui cantato “Dio è fatto a nostra immagine e anche somiglianza, Dio è fatto a nostra immagine e anche somiglianza.”. nella sagra del paese fa il salame a fine mese. I suoi occhi si sciolsero come cubetti di ghiaccio al sole. Come un macigno, le sue sofferenze mi affogarono. Quando vedo una giovane piangere non mi vergogno di essere patetico. Presto si ricompose, appagando ulteriormente la mia sete di suoi suoni. Mi raccontò anche come aveva fatto ad arrivare fino a lì. Trovatasi sola, anche la sfortuna decise di abbandonarla permettendole di trovare una via di fuga. Era nei pressi di un bosco e lì venne Sally con un tamburello. Sally era una zingarella che lavorava in un povero circo. Diventarono amiche riuscendo così a mettere insieme un numero per lo spettacolo. L’attrazione ebbe talmente successo che l’impresario del circo decise di attraversare la manica per tentare fortuna anche in Francia. La vera fortuna baciò solo Sally, che ad uno spettacolo incontrò un principe Rom. Si innamorarono e si sposarono. Sentendosi un po’ in colpa per aver abbandonato Carol, con i soldi del ricco marito, Sally pagò l’impresario affinché la lasciasse andare dove voleva. L’uomo ne fu più che contento, tenuto conto del fatto che, a parte la ragazzina, nessuno riusciva a far eseguire un ordine a quella mucca. Carol era di nuovo abbandonata a se stessa ma libera, in uno stato meno pericoloso. L’ultima cosa che Carol chiese alla sua amica fu:


- Da che parte è l’India? – Dopo aver vagato per un po’ sulle Alpi, Carolina aveva raggiunto il posto dove il destino ci aveva apparecchiato il futuro. Sulla tavola trovammo fin da subito una meravigliosa amicizia, che ci permise di non spaventarci alla vista del dessert. Testimoni di quel che avvenne furono solo vecchi dalla corteccia così dura, che neanche l’inverno riusciva a convincere di cambiare il colore delle foglie o giovani troppo intenti a cibarsi di sole e a succhiare acqua dalla terra rocciosa, per fabbricarsi la loro dose giornaliera di linfa. Tutta gente occupata sufficientemente ad essere quello che era per preoccuparsi di fatti altrui e andare in giro a spettegolare. Carolina e io potevamo permetterci lunghe passeggiate in tutta tranquillità. Sembrava che non ci stancassimo mai. Non dovevamo neanche preoccuparci del ritmo del passo che aveva l’altro, perché era sempre identico, come se ci stessimo tenendo per mano. Parlavamo, parlavamo e parlavamo senza annoiarci mai. Ci ascoltavamo, ascoltavamo e ascoltavamo senza annoiarci mai. Stavamo zitti, zitti e zitti senza mai nessun imbarazzo. Il silenzio non ci faceva paura. In quelle battute di uno spartito che il compositore aveva voluto lasciare vuote, le nostre solitudini uscivano allo scoperto e senza dire parole, che avrebbero potuto cancellare tutto, si prendevano per mano e cominciavano a ballare. Un giorno, non potrei giurarlo, mi sembrò che si baciassero. Ridevamo sguaiatamente per delle battute idiote anche per delle ore e ci intristivamo contemporaneamente al passaggio di alcuni pensieri credo per tutti gli altri normali. I nostri sentimenti erano in ogni


momento tesi a sufficienza e bastava un nonnulla a farli scuotere. Eravamo incoscientemente vulnerabili, come se non potessimo proprio porre alcun limite alle emozioni. Lo so, non è la norma, ma capita a volte che la luna copra completamente il sole. E’ un evento raro ma solo perché abbiamo solo un punto di vista. Un punto di vista grosso come il mondo ma pur sempre un punto. Se avessimo veramente la libertà di viaggiare, ovunque nell’universo, potremmo sempre vivere col punto di vista di un’eclisse. Capitò che i nostri volti si trovarono perfettamente allineati, ad una distanza troppo ravvicinata che ci causò un senso di vertigine. Chiudemmo gli occhi e ci tuffammo. Carolina, lo so è strano ma son certo che ti amo. Se mi sveglio al mattino hai già in grembo un cappuccino. Se parole dolci ti sussurro tu mi fai un po’ di burro. Ma più amo la tua grande libertà che è il sogno della mia età, non dovere mai pagare per dormire o per mangiare, per cantare o per giocare, per ballare o per sballare. Carolina lo so è strano ma son certo che ti amo. Non mi chiedi cosa penso, già lo sai che non ha senso. Quel che dice la mia mente,


a te lo confido immediatamente. Il segreto è solo questo dell’amore mai indigesto, dai all’altro gli aiutoni perché non ti rompa i coglioni. Carolina lo so è strano ma son certo che ti amo. Chi mi dice l’amore è cieco, non lo guardo neanche di sbieco. Una persona che fa schifo, ha scritto in breil che fa schifo. Per amare non da sciocchi devi aprire tanto gli occhi, per vedere quelle cose che non sono solo pose e i commenti turpi e biechi sono loro i veri ciechi. Carolina lo so è strano voglio prendere la tua mano. Quando riaprimmo gli occhi lei mi fissò e mi chiese: - Credevi che mi sarei trasformata in una principessa? – - Noooo. – Risposi con la bocca e con la testa. Sorridevo e pensavo che c’era qualcosa di strano in tutto quello. Forse era perché le persone si sposano con un sì, invece noi ci siamo sposati con quel no. Il viaggio di Carolina si trasformò nel nostro grande viaggio, di nozze. Dovevamo andare semplicemente verso il


sorgere del sole e ogni tanto, quando ci sarebbe girato, svoltare verso sud. Poi o molto poi ci saremmo arrivati in India. Non avevamo nessuna fretta e le vallate erano tavole imbandite per Carolina che generosamente provvedeva anche al mio mantenimento. Ogni tanto scendevo nei paesini più a valle dove non era difficile scambiare il latte con altre provviste. Avevamo tutto quello che ci serviva: amore e giovinezza.

Il vecchio. Avevamo una meta, ma questo non ci impediva di sacrificare la maggior parte delle nostre ore sull’altare della dea pigrizia. I nostri spostamenti, nell’arco di una settimana, non erano misurabili in chilometri ma in numero di passi. Il sole la mattina ci trovava sempre dove ci aveva salutato il giorno prima. Solo una volta una strana energia ci svegliò che ancora il buio dettava la sua legge. Non mancava però molto all’alba e così decidemmo di fare uno scherzo al sole. Ci saremmo nascosti, in modo che lui non vedendoci si sarebbe agitato, dopodiché saremmo saltati fuori urlandogli: “Ehi dormiglione siamo qui.”. Chissà che salto avrebbe fatto quel buon vecchio pallone gonfiato. - Quegli alberi là fanno al caso nostro. – Sussurrai. - Va bene. Camminiamo in punta di piedi. – Certo non dovevamo fare rumore, i fiorellini dormivano ancora tutti raggomitolati su loro stessi. Se si fossero


svegliati di botto, senza trovare il sole, si sarebbero spaventati troppo e magari per vendicarsi avrebbero fatto la spia. - Ehi Carolina, tu come fai a camminare in punta di piedi?”. – - Shhht! – Un tappeto rosso di chiarore si stendeva annunciando l’arrivo di sua lucentezza e proprio quando dovevamo accelerare un pochino, per portare a buon fine il nostro piano, udimmo dal fitto della boscaglia un rumore che ci immobilizzò. L’animale potenzialmente più pericoloso per me e Carolina era a pochi passi da noi e ci aveva visti. - Buongiorno. – Disse lui, facendo splendere quel poco di luce che c’era sui suoi denti bianchi. Io indietreggiai un passo, il sole sbucò fuori dalle montagne e ci fece “buh!”. Il mio cuore registrò una scossa del decimo grado della scala Mercalli. - Tommaso diceva sempre che uomo che sorride non morde. – - Il problema è quando smette. – Il sole rideva ancora sotto i baffi ma finalmente ci permetteva di vedere il viso di quell’uomo. Era un vecchietto con un volto così pacifico, che non avrebbe spaventato neanche un bambino, semprechè non se lo fosse visto uscire all’improvviso dalla boscaglia nella penombra del mattino. Tranquillizzato a sufficienza ricordai le buone maniere. - Buongiorno a lei signore. – - Non volevo spaventarvi ma ero proprio impaziente di incontrarvi. Tutto era già scritto e tutto si sta avverando oggi. Dove le valli alzano le loro possenti teste verso il


cielo, lasciando che il vento le incoroni di saggezza con bianchi capelli di nubi, lì io vi avrei incontrato, dopo aver vagato per tredici giorni e tredici notti, con mente libera e cuore puro. – Guardai Carolina e dal suo sguardo capii che anche lei pensava che il vecchio avesse perso qualche rotella. Tra l’altro non avevo capito se mi dava del voi o si rivolgeva sia a me che a Carolina. Ve lo immaginate uno che parla con una mucca? Era proprio matto! - Andiamo a sederci laggiù e dopo che mi sarò riposato vi racconterò tutto. – Pensammo bene di assecondarlo. Una volta seduto fissò la mia fidanzata. - Tutto era già scritto ma nulla riesce a rendere l’idea della tua bellezza Carolina. – Rimanemmo a bocca aperta. Non solo si rivolgeva con naturalezza ad una mucca ma sapeva anche come si chiamava. - E tu giovanotto smettila di guardarmi con quella faccia da tonno. – - Ma voi vi conoscevate già? – Dissi io, tradendo un misto di sorpresa e avvilimento per essere stato tenuto all’oscuro di qualche cosa che, dentro di me, sentivo il diritto di dover sapere già da prima. - Non l’ho mai visto prima! – Quasi giurò Carolina. - Non ti preoccupare Io. Vedi, conosco anche il tuo di nome ed è proprio da una tua omonima che dobbiamo far partire la nostra storia. Io era una bellissima sacerdotessa di Era. – Otre allo sbalordimento generale, dovevo anche scoprire che


il mio era un nome da donna. Il vecchio non aveva però intenzione di lasciare spazio alle mie menate maschiliste e riprese a raccontare con quella sua voce da pubblicità di minestroni. - La sua bellezza arrivò a conquistare il cuore di Zeus, signore dell’Olimpo nonché marito della gelosissima Era. Zeus, per poter salvare Io dall’invidia di Era, la trasformò in un animale. Indovinate un po’ in che animale la trasformò? – - In che animale la trasformò? – Ripetemmo in coro. Le idee per la paura del vuoto non osavano passarci per la testa. - In una mucca! Questo espediente però non bastò ad evitare alla fanciulla l’ira di Era che, imbufalita, oh scusate forse questo non era il termine più adatto, mandò un grosso tafano a perseguitarla, obbligandola a vagare in lungo e in largo finché un giorno, giunta in Egitto, riprese forma umana e poté ricongiungersi a Zeus. – - Noi andiamo in India. – Ingenuamente dichiarò Carolina quasi a voler sottolineare che noi non c’entravamo niente con l’Egitto. Il mio cervello cercò di elaborare il tutto ma andò in breve tempo fuori giri. C’era questa che si chiamava come me ed era stata trasformata in una mucca. Io amavo una mucca. Anche noi dovevamo più o meno vagare. C’erano indubbiamente delle analogie ma quello che più mi preoccupava era che se questo Zeus aveva il coraggio di trasformare una bellissima ragazza in una vacca, non è che adesso voleva inchiappettare me? - Non preoccupatevi ragazzi, vi ho raccontato questa storia solo per farvi capire che il fato non è solo caso. Il passato


si annida nel presente. C’è un piano predefinito e se prestate attenzione agli eventi, che paiono coincidenze, potreste leggere cose utilissime a prevedere il futuro. Tutto è scritto. Tutto si può prevenire e per il momento ancora salvare. – Automaticamente Carolina ed io cercammo di riguardare i fatti che ci erano capitati e colpito di più, per cercare di leggere tra le righe di quella bizzarra nostra storia. Eravamo però analfabeti e ancora una volta il vecchio prese parola guidandoci nella sua interpretazione. - Voi siete il risultato di un patto segreto, concepito dalle forze benefiche che fanno girare il mondo. Siete l’incontro più sincero tra le energie positive, senza alcun secondo fine se non quello dell’amore. Un uomo ed un animale che possono finalmente comunicare grazie ad un altro elemento, che per la sua importanza assurge a rappresentante del mondo vegetale. – - E i sassi? - Chiesi. - I sassi vi sostengono, l’acqua vi disseta e l’aria vi ciba. Voi siete il ritratto di Madre Natura. Madre Natura. Da quando l’uomo scaturì dal suo ventre si è sempre comportato come un bambino viziato, assoggettando a suo unico beneficio tutte le regole che lei aveva imposto per il quieto vivere di tutti. Nel suo immenso amore materno lasciò fare, nella speranza che questo suo figlio maturasse, mettendo al servizio degli altri questa sua esperienza. Passavano i secoli ma l’uomo diventava sempre più egoista: oltre a mortificare la madre, non metteva più nemmeno in comune con i suoi fratelli i benefici che derivavano dalle sue scorrerie. Con tutti però divideva le conseguenze del suo agire. Madre


Natura ogni tanto, esasperata, mollava uno scappellotto. Terremoti, uragani colpivano con sempre maggiore intensità ma visto che anche queste azioni lasciavano l’uomo indifferente decise di mandare come ultima chance i suoi due figli prediletti. Voi. – A me succede che quando mi viene in mente una domanda, per non farmela scappare continuo a ripetermela nella testa e continuo ad annuire per non far capire che non sto ascoltando. Così, mi persi la gravità delle ultime parole e domandai di botto: - Ehi, com’è che di solito quelle disgrazie capitano sempre in posti già messi male? – - Forse perché se capitassero nei paesi ricchi nessuno potrebbe mandare i soldi per aggiustarli. – - Cavolo, questo è lo spirito reazionario di Madre Teresa di Calcutta! – - Senti anche se è scritto che siete i prescelti per salvare le sorti del mondo, non è detto che vi sia già chiaro il concetto di amore universale. – Disse incrinando il suo sorriso serafico. Finalmente sentii chiaramente “i prescelti per salvare le sorti del mondo.”. Carolina, che aveva recepito il concetto già dalla sua prima enunciazione, aveva avuto il tempo di riprendere a respirare, io ero in apnea. Fino ad un’ora prima gli avremmo riso in faccia ma ora quel vecchio, forse col fatto che sapeva i nostri nomi o col fatto che aveva fatto leva sul nostro infiammabile orgoglio, ci teneva in mano come due marionette. Non riuscivo ad immaginarci due eroi. Di solito nei libri o nei film i prescelti erano i più tontoloni, che con una serie di botte di fortuna riuscivano a portare a termine l’impresa e venivano portati in trionfo. Forse anche noi


apparivamo come due sfigati? A me non sembrava poi così evidente la cosa. Il vecchio aveva ancora il volto un po’ imbronciato per la mia domanda di prima e mi fissava. Avevo già usato il mio bonus di scemenze ma quel silenzio mi innervosiva e quando stavo per chiedergli se ci aveva scelto perché eravamo i più sfigati, Carolina parlò. - Ma noi cosa dobbiamo fare? – - Madre Natura, anche se stanca, non è ancora stufa di amare. Si lascerà sfruttare ancora a lungo, se questo è il desiderio di qualche suo figlio e cercherà di tenere da parte qualche dono per le creature che non vogliono o non hanno la forza di abusare di lei. L’unico suo desiderio è che quelli che consumano per cinque, per dieci o per cento, siano consapevoli di quello che prendono e se non sono in grado di rinunciarvi e di dividerlo con chi non ne ha, siano almeno contenti per cinque, per dieci o per cento. Solo così questo spreco diventerebbe un sacrificio accettabile. È per questo che lei vi chiede di andare a combattere le oscure forze che incatenano l’uomo alla sofferenza. Catene che lo rendono cieco di fronte a chi ha meno e gli spalancano gli occhi, stringendolo nell’invidia, ai piedi di chi ha di più. Ma non preoccupatevi, io vi starò sempre vicino e vi aiuterò a trovare dentro di voi le armi indispensabili a combattere i mille nemici che tenteranno di sbarrarvi la strada. Per oggi penso che abbiate già abbastanza cose su cui meditare e non voglio stancarvi oltre. Domani comincerà per tutti una nuova vita e voi dovete riposare. Scenderò subito in paese, così avrò la possibilità di organizzare alcune cose fondamentali. Ci rincontreremo domani all’alba alla stazione. Sei in grado di trovarla Io?


– - Certamente, c’è scritto. – Mi scappò detto. Non avevo minimamente intenzione di scimmiottare le parole della nostra guida ma il giorno prima ero sceso a valle e poco prima di entrare in paese avevo letto il cartello che indicava la stazione. Tra l’altro, proprio lì, vicino avevo barattato il nostro latte con due bottiglie di vino ed una di grappa. Carolina era stata molto orgogliosa di me per questo. Il vecchio, forse pensando che lo prendevo in giro, mi guardò ancora una volta come se volesse rileggere gli eventi per decifrare una soluzione che non mi comprendesse ma, prima di andarsene, regalò anche a me il suo sorriso rasserenante. Eravamo ancora noi i prescelti. Non so a quanti sia capitata l’occasione di essere chiamati a dovere salvare le sorti del mondo, comunque posso garantire che ti provoca delle sensazioni veramente forti. Carolina era preoccupata. Io me la tiravo già. - Non credi che sia pericoloso lasciarsi avvolgere così da questa storia? – - Amore, noi siamo gli eroi di questa storia ed è proprio per questo che ci buttiamo a capofitto in essa, senza pensarci su neanche un secondo. Se no che eroi saremmo, gli eroi dei codardi? – - Si, va bene ma questo vecchio lo conosciamo appena e non so se possiamo fidarci. Oltretutto hai sentito che ha detto che starà sempre insieme a noi, insomma non è che dopo non avremo più spazio per la nostra intimità? – Disse arrossendo leggermente. Assunsi allora l’espressione più seriosa che possedevo e con un tono di voce altezzoso dissi: - Ogni qualvolta avremo bisogno di stare soli, ci


rivolgeremo al buon vecchio dicendogli che Madre Natura ha chiamato i suoi prescelti ad una adunata molto privata. – Anche Carolina assunse un aspetto sopra le righe e cominciammo a camminare in cerchio, con passo regale, finché non scoppiammo a ridere ed iniziammo a danzare cantando: “siamo i prescelti, siamo i preferiti, siamo i prescelti…”. Non c’era occasione migliore per brindare e così, gli eroi furono battezzati. Era già pomeriggio inoltrato quando ci imponemmo di dormire per arrivare all’appuntamento freschi e pronti all’azione. All’inizio sembrava di essere alla prima notte di gita scolastica: appena uno riusciva ad appisolarsi, una risata lontana era uno squarcio nel buio del sonno, che ti riportava alla luce e ti coinvolgeva. Pian piano i silenzi si fecero più intensi e più lunghi, non abbastanza però da accompagnarci fino all’alba. La sera non era scesa da molto quando Carolina ed io ci ritrovammo abbracciati a guardare le stelle. Non era più l’euforia a tenerci svegli, era il turno ora di una certa apprensione nei confronti degli impegni che avevamo deciso di assumerci. Il vino era finito ma fortunatamente la grappa accettò di buon grado l’invito al nostro falò. Ricambiò la nostra ospitalità con racconti di mirabolanti imprese, dove i due soliti impavidi, erano gli artefici del lieto fine. Poi, quando le parve giusto, ci rimboccò le palpebre. Avanti, indietro di lato o forse giù giù. Gira sempre più veloce. Ehi ricordati di respirare! Ma noi sappiamo. Cosa sappiamo? Volare. Non è che stiamo cadendo? No, questo è volare, sarebbe cadere se ci fosse un pavimento. Ma non c’è. E quando c’è? Boh. Basta svegliarsi un secondo prima.


E’ così che si vola. Certo. Per sempre? Sempre. - Ciao Little Carol come stai? – - Oh cara Margie, tu già conosci Io? – - Si, ne parlano tutte. – - Siamo tornati noi due a salvarvi. – - Ancora con questa storia di salvare. – - Adesso possiamo, ce l’hanno detto. – - Non puoi più salvarci. – - Perché no? – - Perché siamo morte! Ah! Ah! Ah! – Dissolvenza. Arrivano le pecore. - Viva gli eroi! Viva gli eroi! – - Oh, amiche pecore. – - Voi che tutto potete, a noi che tutti ci dicono stupide, trasformateci in uomini. – - Va bene, così sia. – - Grazie, siamo uomini, siamo uomini. Ma che freddo fa essere così nudi. Ehi che schifo fa l’erba in questa nuova bocca. Cosa mangiamo adesso? – - Andate a lavorare, vi guadagnerete cibo e vestiti. – - Ci hanno fregato, ci hanno fregato, linciamoli! – Sassi rotolano sulle teste. Sassi rotolano sulle pance. Forse vedo una luce, corriamo. Oh no, i nemici ci hanno slegato le ossa. Nessuno esegue più gli ordini. Dobbiamo correre, c’è il sole. Ci aspettano. Ah vili, perché ci avete incollato le palpebre e usate i nostri stomaci per riscaldare la trippa? Aprii gli occhi per farmeli richiudere da un sole grosso come il nostro ritardo. Avevo la bocca impastata e la testa mi girava. Credevo di essere una betoniera. Carolina barcollava poco più in là e con un rutto depetalizzò una


margherita. Dovevamo muoverci. Come primo giorno da paladini del mondo eravamo messi proprio male ma in cuor nostro eravamo sicuri che ci saremmo rifatti, bastava solo indovinare i sentieri giusti. Ogni tanto il viottolo mi si spostava da sotto i piedi e ruzzolavo per terra. Carolina forte delle sue quattro zampe motrici non aveva di questi problemi. Non ricordo bene come, ma alla fine giungemmo alla stazione. Un preistorico treno merci se ne stava dimenticato sui binari. Un ragazzo ci scorse da lontano e si incamminò verso di noi. Sarebbe stato più prudente allontanarsi ma le nostre batterie erano completamente esaurite e così lo aspettammo pensando che magari era un amico del vecchio. - Stai cercando un signore con la barba e i capelli bianchi lunghi? – Chiese una volta giunto a portata di udito. - Sì, sai dov’è? – - Se ne è andato. Mi ha detto di consegnarvi questo. – Il ragazzo mi porse un biglietto e poi se ne tornò da dove era venuto. Aspettai che si allontanasse, poi lessi ad alta voce: “Siete arrivati tardi. Non preoccupatevi anche questo era già scritto. Buona fortuna.”. Eravamo arrivati in ritardo all’appuntamento con la storia, la fama e la gloria. Avevamo sonno, le teste pesavano e gli stomaci facevano le capriole. - Chi non conosce i propri limiti fa l’ultimo brindisi col water. – Profetizzai e così fu anche se non c’erano i water. Le complicazioni fisiche si affievolirono con lo scaldarsi del giorno, lasciando varchi facilmente accessibili ai predoni della depressione. Tutte le favole che ci eravamo raccontati


cambiavano finale. Ci scusiamo con la gentile umanità ma i nostri eroi sono momentaneamente impegnati a smaltire una sbronza. Carolina reagì per prima. - Ti ricordi di quando ti ho raccontato che con Tommaso ho cercato di salvare le mie compagne della fattoria?- Sì, certo. - (il sogno?) - Andare con quel vecchio, credevo che per me sarebbe stato come avere altre occasioni per riuscire a convincere le mie amiche a seguirmi. Ora però non sono più tanto sicura di cosa sarebbe stato meglio. E’ molto difficile vedere le proprie catene e se qualcuno riesce a mostrartele non ti toglie i dolori, te li cambia solamente. A volte addirittura aumentano, perché magari non sei fatto per questo livello di sofferenza. Ognuno si deve salvare da sé perché per essere salvi bisogna essere degli eroi, non dei parassiti. – Aveva gli occhi arrossati e lucidi. Aveva gli occhi più belli del mondo. Il tono della voce era perfettamente complementare al significato delle parole ed insieme mi pervasero colmandomi. - Sai Carol, nella nostra relazione avevo sempre creduto che ci fosse qualche cosa di strano, qualche cosa al di fuori della norma. Ieri, sospettavo che questa anomalia era dovuta ad una forzatura della natura, che aveva bisogno di questa unione. Ora sono sicuro che non c’è nessuna forzatura, niente di strano o di anomalo. Di nostra spontanea volontà ci siamo incatenati l’uno all’altra, come gli alpinisti che si legano in cordata per valicare queste montagne, come esseri viventi che in cordata decidono di scalare ogni giorno che gli si presenta davanti, fino ad arrivare al culmine e poi sedersi


e scivolare sul sedere, sull’età, per mano, abbandonandosi a quello che la discesa porterà. E saremo egoisti, egoisti ed ancora egoisti. Non andremo ad urlare a nessuno di aprire gli occhi, anche se lo crediamo giusto, ma a tutta questa gente faremo un unico piccolo regalo, non dovranno mai preoccuparsi per noi perché a noi ci pensiamo già noi. – Eravamo di nuovo felici e soprattutto in grado di terminare le poche sorsate di grappa che erano avanzate. Aggrappati saldamente alle nostre catene, eravamo di nuovo liberi di proseguire per la nostra strada. Madre Natura forse avrebbe capito.

Il treno. Tutti gli allevatori del paese avevano già portato le loro mucche nei pascoli alti, per permettere alle bestie di mangiare l’erba più fresca e succulenta. Non era poi così difficile, per noi, vendere il nostro oro bianco a quelle persone ormai troppo viziate dal corposo sapore del latte appena munto. Decidemmo, quindi, che prima di riprendere i nostri sentieri appartati, avremmo sfruttato quella discesa a valle almeno per concludere qualche affare. Le mie mani erano ormai estremamente abili nel pigiare le mammelle di Carolina che non mancava mai di ripagare la mia delicatezza. Certo, i suoi seni non stavano in una coppa di champagne ma col loro nettare erano in grado di riempire almeno una cassa di bottiglioni da due litri.


Lasciata Carol al suo meritato riposo, all’ombra di un bel pino, iniziai a fare il giro del paese in cerca di clienti. Fui accolto con calore, nel giro di pochi minuti quasi tutti gli abitanti del villaggio si erano bevuti almeno una tazza di latte ancora caldo da quanto era fresco. In cambio c’era chi mi dava del pane, chi del formaggio, chi un po’ di soldi. Tutti sembravano particolarmente felici, soprattutto chi aveva chiesto ed ottenuto il bis. C’era gente che cantava e si abbracciava. Onestamente a me sembrava tutto un po’ esagerato e proprio in quell’istante mi colse un atroce sospetto. Assaggiai il latte e, accipicchia, Carolina dopo una giornata di intensi festeggiamenti aveva distillato il latte brulè più alcolico nella storia della zootecnica. Stavo scoppiando a ridere quando delle urla isteriche invasero la ridanciana piazzetta. Era il sindaco del paesino che aveva rifiutato la mia offerta a causa di un’allergia ai latticini. Il suo intervento fu così acido che irrancidì il contenuto degli stomaci di quei simpatici montanari. In un baleno fu chiaro a tutti che c’era qualcosa che non quadrava. Prima che divenne lampante che ero io la causa dello scompiglio, me la diedi a gambe per raggiungere Carolina. Ridendo e facendo ridere raccontai la storia a Carolina, non avevamo però il tempo di godercela a fondo, dovevamo filare. Evidentemente allenati da secoli di caccia agli untori, gli abitanti del paese avevano ottenuto un alto grado di efficienza. La strada che portava alle cime, era presidiata da un drappello di bravi armati di forcone, che non aspettavano altro che incontrarmi. I sentieri nei campi erano troppo esposti per sperare di passare inosservati. I nostri occhi si persero a guardare quei monti, dove più che in ogni altro posto, avremmo voluto essere. La scenografia del nostro


amore richiamava i suoi attori distraendoli dal pericolo con il suo canto delle sirene. Eravamo così rapiti che non ci accorgemmo del sopraggiungere, alle nostre spalle, del ragazzo che ci aveva consegnato il biglietto del vecchio. - Ehi, se mi dai tutto il latte che ti è avanzato aiuto te e la tua mucca a scappare da questo cavolo di paese. – Senza pensarci neanche, gli diedi il contenitore con tutto quello che mi era rimasto, tanto in quella situazione mi era solo d’impiccio. Il giovane portò subito il secchio alla bocca e dopo una bella sorsata ci ordinò di seguirlo. Quatti, quatti, riuscimmo ad arrivare ad una baracca abbandonata appena oltre i binari. Una volta entrati ci spiegò il suo piano. - Vedi quel vecchio treno lì? – - Sì. – - Quello stanotte parte. Per il momento noi ce ne restiamo qui tranquilli, poi, quando farà buio, saliremo su una carrozza vuota e domani mattina ci troveremo in un altro cavolo di paesino, anche lui con le sue belle montagne, ma senza i pazzi che vivono qui. – - Sei sicuro che funziona quello? – - Certo, “quello”, come dici tu, non è un semplice treno, è un mito. Adesso dormi tranquillo che hai la faccia da sconvolto. Non ti preoccupare di nulla, farò io la guardia e intanto mi finisco la pozione magica. – Mi appoggiai a Carolina, le sussurrai un saluto e sentendo che il battito del suo cuore era sereno mi tranquillizzai. Forse per la troppa stanchezza decidemmo entrambi che potevamo fidarci di quel ragazzo e così ci addormentammo. Il sole tramontò. Tre ombre furtive si avvicinarono al treno. Con l’aiuto di qualche asse anche l’ombra più grossa non fece troppa fatica a salire. Ci acquattammo sulla paglia che


rendeva morbido il fondo del vagone. Ogni tanto qualche fascio di luce penetrava tra le fessure della carrozza merci. Erano le pile dei ferrovieri. Nella nostra estrema incoscienza, anziché preoccuparci di essere scoperti, ci sentivamo ancora più al sicuro, come se quegli uomini fossero stati lì apposta per proteggerci. Tutto a un tratto uno sbuffo violento destò la nostra attenzione. I freni, dopo aver tenuto fermo i vagoni per parecchie ore, potevano ora tirare un po’ il fiato e quello sbuffo era il loro sfogo di giubilo. Il treno, di nuovo libero, si lasciò andare un po’ all’indietro e quando credette di aver preso abbastanza rincorsa, fece un grosso respiro e cominciò il suo viaggio. Le ruote d’acciaio iniziarono a girare per il verso giusto, prima piano piano poi sempre più velocemente. Al contrario di schiavi vogatori, non dovevano sottomettersi al suono di un tamburo, erano loro a decidere il tempo col loro passaggio sui traversini. Una ritmica perfetta al punto che non ci stupimmo più di tanto quando sentimmo provenire dall’angolo opposto del nostro vagone una voce che scandiva: - Eh one, eh two, eh one two three. – Un sibilo di fischietto, direi magico seguì quelle parole. Un suono denso, che ti sembrava quasi di vederlo, mentre si attorcigliava al ritmo della rotaia al punto di amalgamarsi con esso completamente. Correva avanti a controllare il percorso e tornava indietro facendoti ondeggiare, addolcendo così una curva un po’ troppo brusca. I lunghi rettilinei non correvano il rischio di diventare noiosi perché erano resi interessanti da variazioni sul tema. Ad ogni tot di battute si aggiungeva sempre qualche nuovo strumento, come nel bolero di Ravel. Prima il rumore dei cavi elettrici,


poi lo spiffero del vento tra le travi, poi uno sportello che sbatte, un freno che urla e così via. Tutti suoni che sembravano eseguire alla perfezione ogni volere di quel suonatore di fischietto. Grazie alla luce di qualche lampione eravamo riusciti ad intravedere quel meraviglioso direttore d’orchestra che, nonostante fosse ricco della sola nota del suo fischietto, aveva la forza per farti immaginare miliardi di scale. Durò fin quasi all’alba questa magia, finché piano piano, uno alla volta i suonatori scemarono il loro soffio fino a renderlo impercettibile, come per augurare un buon riposo al loro maestro che esausto, per ultimo, si era addormentato. Solo una nenia era rimasta, come una ninna nanna dei campi di cotone, il canto della rotaia che ancora ci cullava. Era stato il concerto più lungo che ci fosse mai capitato di ascoltare. Si congedò lasciandoci colmi della sua semplicità e riposati come al risveglio da un sonno profondo e ristoratore. - E così adesso anche tu puoi dire di avere conosciuto A il suonatore di fischietto. – Con queste parole il ragazzo che ci aveva portato in salvo ci destò dal piacevole torpore che avvolgeva le nostre fantasie. Lui aveva viaggiato altre volte su quel treno e ogni volta aveva avuto la fortuna di ascoltare quella musica. - Come hai detto che si chiama? – Parlavamo a bassa voce per non disturbare il sonno del maestro. - Semplicemente A. Tutti quelli che lo incontrano, rimangono a bocca aperta che sembrano dire aaaa. Fin dalla prima volta che è stato trovato avvolto dalla paglia di questo vagone, i ferrovieri lo battezzarono così. La


leggenda dice che in quel tempo, di tuoni e lampi artificiali, un gruppo di profughi avevano riposto tutto il suo futuro in un viaggio clandestino verso la salvezza. Tra di essi, c’era una donna che aveva coltivato, oltre che nella testa, anche nella pancia una speranza. Una notte di scossoni e dolori, la natura decise che era giunto il momento che quella speranza nascesse. Alla dogana, ad un passo dalla meta, i sequestratori di sogni, fiutando la paura, scoprirono quella gente. Li obbligarono a scendere e a guardare quel treno uscire dalle porte dell’inferno senza di loro. Solo una donna conservava tra le lacrime una piccola speranza nascosta sotto il fieno. Quando si accorsero di lui, gli uomini della ferrovia decisero di proteggerlo e di farlo crescere. Si trasformarono in tanti cordoni ombelicali, che portavano cibo a quella creatura, che si sviluppava in quello strano ventre, che era il vagone ferroviario. A, negli anni, aveva imparato a suonare il fischietto e passava dunque le notti suonando per rendere più piacevole il lavoro di quelle persone che lo avevano allevato. Tutti i vagabondi conoscono la storia di A e addirittura molti musicisti attraversano mezzo mondo pur di ascoltarlo. Hanno anche composto un pezzo famoso dedicato a lui. Forse lo conoscete si chiama “Take the “A” train.” . – Il giorno era ormai nella sua pubertà, quando arrivammo a destinazione. Il nostro compagno non aveva intenzione di scendere. Era molto amico di A e avrebbe condiviso con lui dell’altro tempo a chiacchierare e a suonare. Avevo provato ad invitarli a passare qualche giorno con me e Carolina ma A, aggrappandosi istintivamente alla parete della carrozza, disse che non era ancora pronto. Lì per lì non capii cosa


intendesse, comunque non volevo certo forzarlo. Prima di salutarci regalammo una parte del nuovo latte di Carol ai due. A volle ricambiare regalandoci un cartoncino su cui credo abbia scritto una poesia. “NI cht hinauslsesen ...... “. Ringraziai di cuore e intanto pensavo che era tutto molto strano perché fino a qualche minuto prima mi sentivo molto Baricco ed invece adesso molto Kerouak. Una volta scesi, avevamo di fronte ancora le nostre amiche montagne e la strada per raggiungerle era priva di ostacoli. La voglia di tornare nel nostro ambiente naturale era grande ma rimanemmo ancora a valle, finché il treno non divenne un puntino in lontananza, quasi per onorare l’emozioni che ci aveva regalato. Camminavamo per tornare alla nostra enorme casa, quando Carolina mi chiese di leggerle cosa era scritto sul foglietto. Io mi dimenticavo sempre che Carolina, da quando aveva ricevuto il funghetto santo, parlava indistintamente tutte le lingue dell'uomo però non sapeva ancora leggere. Io mi ripromettevo sempre di insegnarle ma poi mi dimenticavo. - Credo che sia scritto in tedesco. – Provai a leggerglielo improvvisando un pochino sulla pronuncia, io il tedesco non lo sapevo mica. - Dovrebbe voler dire “Non gettate alcun oggetto dal finestrino. – - E’ un po’ strana come preghiera e anche come poesia. Una volta avevo un amico che scriveva poesie e ce le faceva leggere ma a me e agli altri non dicevano niente. Smise di proporcele, dicendo che non erano le poesie a non essere belle ma era lui che non aveva ancora abbastanza fascino. Beh, un giorno questo mio amico è


diventato famoso per un libro che gli hanno pubblicato e io, per curiosità, sono andato a rileggere dei pezzi che mi aveva regalato. Lessi più volte quei brani, sicuro che in quell’apparente banalità, si annidava per forza qualche cosa. Forse mi sono lasciato influenzare dal suo successo però ancora oggi, quelle sono le mie poesie preferite. – Io sospettavo di aver sbagliato a leggere il biglietto e Carolina pensava di aver sbagliato la traduzione, comunque continuammo a camminare con la testa alla ricerca di un significato che non mortificasse la nostra ammirazione per A. Ad un tratto Carolina trovò qualcosa. - Tu hai detto che è scritto in tedesco, vero? – - Sì! – - Molto probabilmente allora A non chiede di non buttare qualche cosa giù dal finestrino, chiede che lui non venga fatto scendere dal treno, perché solo così lui non è un oggetto. – - E lo ha scritto in quella lingua perché i tedeschi hanno obbligato sua madre a scendere, togliendole la libertà.- Quel vagone è ancora il grembo di sua madre e lui in un certo senso si rifiuta di nascere per paura di affrontare la vita. Credo, però, che arriverà anche per lui il giorno che, di sua spontanea volontà, vorrà ascoltare la sua musica veramente libera ed iniziare il suo concerto da solista. Gli auguro solo, col tempo, di riuscire a trovare sulla sua strada, strumentisti in grado di accompagnarlo. – Decidemmo che quella era l’interpretazione esatta, scartando completamente l’idea che A avesse trovato quel cartoncino per terra ed essendo l’unica cosa di cui disponeva, aveva voluto regalarcela come ricordo. Volevo concludere in bellezza.


- Dicono in molti che ci si impiega nove mesi per uscire e tutta una vita per rientrare, però se stai sempre dentro godi poco. – Carolina mi diede uno scappellotto con la coda.

Progresso. - Sai Carolina, una volta un signore mi ha detto che è solo una serie di cose fortuite che ti portano a scegliere un compagno o una compagna, l’amore viene fuori solo dopo, nelle cose che riescono a fare e a costruire insieme. – - E’ interessante. Adesso dov’è questa persona? – - Ha divorziato perché ha fatto delle cose con una che non era sua moglie. – - Bel tipo. Bè noi stiamo facendo un grande viaggio, o no? – - Sì certo. Però io vorrei che la nostra unione sia cementata ancora di più. Dobbiamo pensare sempre più in grande. Ad esempio: noi siamo un minuscolo stato che dispone di certe materie prime. Come possiamo fare per tenere il passo con le grandi potenze che ci circondano? – Carolina mi guardava preoccupata. - E’ facile se ci pensi. Anziché limitarci a produrle, dobbiamo organizzarci anche per trasformare queste materie in prodotto finito, aumentando così il valore dei nostri beni. – - Cavolo amore, mi stavo preoccupando seriamente delle


-

tue intenzioni. Poi per fortuna ho capito che vuoi semplicemente imparare a fare il formaggio. – Dici che ho esagerato con i preamboli? – No, mi piace quando ti esalti così, mi dai energia. – Allora domani quando scendo in paese inizio ad informarmi. – Va bene. Sogni d’oro amore. – Sogni. –

A Carolina non piaceva scendere nei paesi, preferiva stare nei prati. Non per pigrizia ma perché accettava malvolentieri di avere a che fare con persone per le quali, il suo istinto non aveva avuto tempo di vagliare il grado di affidabilità. Io apprezzavo questo suo aspetto molto englisharistocratico e, comunque, concordavo col fatto che era meno rischioso così. Avevamo così qualche ora dove ognuno poteva più liberamente pensare ai fatti propri, che poi erano gli stessi ma era bello pensare che fossero i propri. Il cartello di benvenuto del paese era sottolineato da un posto di blocco. Il primo istinto fu quello di una rapida inversione di marcia ma era ormai troppo tardi. Il campo visivo dei vigili tutori dell’ordine mi ospitava. Strappai la coda di paglia e per non creare sospetti, assunsi l’espressione visiva più innocente del mio limitato repertorio e mi diressi con passo deciso verso il loro amichevole abbraccio. Ero confortato dalla certezza di non aver fatto nulla di male. Certezza che, ad una persona ben vestita, lavata e pettinata sarebbe bastata ad evitargli univoci scambi di indirizzo e provocanti allusioni. Nonostante la mia espressione “fischietto” il poliziotto mi fissa. Io educatamente lo saluto. Lui risponde e rilancia.


- Favorisca un documento. – Bluff saltato. Favorii. - Dove sta andando? – - In paese. – - Che cosa c’è in quella tanica? – - Latte. – - Eh come mai lei va in giro con del latte? – - Non sapevo fosse vietato. – - Non faccia lo spiritoso, risponda solo alle domande. – C’è gente al mondo che crede che se si dà del lei non si deve più preoccupare di quel che dice, basta e avanza quella forma a mostrare il rispetto dovuto. Oltre che odioso l’agente era molto curioso. Dovevo essergli proprio antipatico. - Me l’ha dato Peter dell’alpeggio su a Rougier. Mi ha chiesto se glielo portavo giù in paese. – - Tu lavori su da lui? – - Si, per qualche giorno. – Il giorno precedente avevo incontrato il pastore della balla. Era molto simpatico, mi aveva anche offerto da bere. Avevo preferito mentire per non correre rischi e lasciar fuori da questa storia Carolina. Il poliziotto, però, non sembrava per nulla appagato, anziché calmarsi diventava sempre più sospettoso. Continuò a farmi domande, finché, per radio, non li avvisarono che potevano rientrare perché il farabutto era stato beccato. Praticamente era successo che quella notte avevano rubato una mucca di grande valore: Titta. Lei era la grande favorita della finale della battaglia delle Reine che si sarebbe dovuta svolgere l’indomani. Con un vasto spiegamento di forze, il colpevole era stato acciuffato e siccome si trattava di un bambino, quest’ultimo se l’era


cavata con una dura lavata di capo e qualche sonoro sculaccione. Solo origliando i loro discorsi riuscii a venire a conoscenza di quanto era accaduto. Mi voltai allora verso il poliziotto che mi aveva interrogato e gli donai un solare sorriso che sottintendeva “Ho capito il perché di tanto astio, non ti preoccupare capita a tutti di sospettare qualcuno per sbaglio, lo so che lavorate per il bene di tutti e allora ogni tanto vi sentite in diritto di essere arroganti, capita anche questo, dai per stavolta ti perdono.”. Il sottinteso era troppo sottinteso o troppo lungo per essere recepito. - Lei fa uso di sostanze stupefacenti? – Questa domanda mi ha sempre lasciato perplesso. Mi sembra un po’ come chiedere ad alcune categorie se pagano le tasse. E’ ovvio che dicano di no come è ovvio che nessuno gli crede. La sfiducia generale le ha trasformate in domande retoriche. Siamo ancora tenuti a rispondere a questi quesiti? Come fanno a vietare una cosa e poi chiamarla “stupefacente”? - No. – - Dove tiene le cartine? – - Fumo solo MS. – Non poteva lasciarmi andare senza prima ricordarmi: - Non creda di essere più furbo di noi. – Non lo penso, ne sono certo. Ho lasciato tutto a Carolina. Il paese era agghindato a festa per l’imminente sagra che teneva banco anche nei discorsi dei montanari. Finalmente c’era qualcosa su cui discutere che andava oltre le previsioni del tempo. Tutti erano influenzati dal clima di gran baldoria. Anche io ne venni contagiato ma non dimenticai di avere una missione. Nel paese erano ben organizzati. Avevano istituito anche un consorzio del latte dove tutti i pastori della


zona portavano il loro prodotto. Un piccolo caseificio comune che, prevedendo una grossa affluenza di turisti per il giorno successivo, non si fece troppe menate ad accettare anche il mio latte. Più per pietà, che per mia abilità commerciale, mi diedero del vino, del pane e anche qualche salamino. Approfittai della loro gentilezza anche per ottenere informazioni utili al nostro processo evolutivo. I mie occhi si incagliarono in pentoloni non facili da trasportare, in celle frigorifere per i prodotti freschi e in ampi spazi per la stagionatura. Problemi insormontabili per un piccolo popolo nomade ma capaci, una volta superati, di ripagarti bene dal punto di vista economico. Uno alla volta, vedevo passare gli sbattiti che ci saremmo dovuti sobbarcare per portare avanti questa iniziativa. Vedevo anche però le migliaia di cose belle che avrei potuto regalare a Carolina e che ora non posso permettermi. Certo, lei non le desiderava ma forse solo perché non le conosceva. Ripresi con questi pensieri il sentiero che mi portava da Carolina e per rispetto nei suoi confronti, mi mangiai tutti i salamini. Essere sensibili a volte è molto appagante. Raggiunto il prato dove ci eravamo lasciati, vidi che in compagnia di Carolina c’è un bamboccio, con una faccia di quelle che se anche qualcuno trovasse il coraggio di mollargli un ceffone, nessuno avrebbe il coraggio di dargli le duecento lire per chiamare il telefono azzurro. Era la prima volta che la vedevo parlare con un estraneo non in mia presenza. Ero un po’ geloso. Il sorriso caldo di bentornato di Carolina era ogni volta come riaprire la porta di casa e questo riapparecchiava il mio stato d’animo per una romantica cenetta. Riuscii così a salutare l’intruso senza fargli capire che era tale. Non mi occupai però di lui e maleducatamente


iniziai subito a fare un resoconto a Carolina della mia gita didattica. Volevo subito rendere evidente che io e lei eravamo una coppia saldamente unita e con dei progetti. Carolina, come se sapesse leggermi dentro, si era accorta subito che il mio atteggiamento era dettato dalla gelosia. Non volle però giocarci su e riportò tutto nei giusti binari. Interpretò quella mia insicurezza come un’ulteriore dichiarazione d’amore ma non fece nulla per amplificarla, evitandomi così ulteriori figure da pirla. - E così il fastidio del trasporto del materiale, il lavoro in sé e la conservazione del prodotto non sono compatibili col nostro modo di vivere. – - Allora vuoi che per unirci ancora di più, dovremo cambiare il nostro stile di vita? – Mi aveva ascoltato con così grande attenzione da rimpicciolire i miei capricci di gelosia. Anche se mi ero comportato da stupido, lei era disposta a mettere nuovamente nelle mani, proprio di quello stesso stupido, la cosa a cui lei teneva maggiormente. Si fidava e quindi non mi era più concesso comportarmi da stupido. - No assolutamente. Il nostro viaggio è la cosa più grande che abbiamo e se c’è qualche cosa che vuole unirsi ad esso ben venga. Tutto il resto non ci darà mai abbastanza e rinunciare a queste cose ed ai loro benefici dopo averli conosciuti, è progresso lo stesso perché ci aiuta a capire il vero valore del nostro viaggio. – - Vuoi dire che anche se non abbiamo fatto niente le nostre materie prime hanno guadagnato valore? – - Certo! – Penso che in quel momento il nostro amore si potesse tastare. Anche il marmocchio volle dire la sua.


- Ehi amico, mi piaci, ti nomino capo del sindacato dei pigri, ma tu davvero ti scopi una mucca? – - Ma tu chi cavolo sei? –

Pidocchio. Mi chiamo Pidocchio e sono un marmocchio, ma in tutta modestia sono anche un punkabbestia. Se incontro la fatina, la porto giù in cantina e vedrai che alla lunga non è il naso che si allunga. Agli occhi di Geppetto io sono un reietto col gatto e la volpe ho diviso le colpe. Preferisco una bugia a tanta ipocrisia che taglia le corde al burattino che morde, togliendolo alla storia


che gli dava un po’ di gloria, condannandolo bambino come qualsiasi cretino. E tutto io spacco e dormo dentro un sacco per tornare come ero quando ero vero. Aveva otto anni, si chiamava Pidocchio, sembrava un punk in miniatura. Non aveva anfibi ma scarpette di zuppa e pan bagnato. Era un bambino con l’età di una fiaba letta da un anziano, era un bambino che voleva tornare burattino. Nato dalla solitudine di un uomo, per questo venne prima condannato ad essere diverso poi obbligato, per non bruciare a sua volta nella solitudine, a diventare normale. Adesso aveva però scelto il fuoco all’ipocrisia. La vita era la sua fiaba e alla fine della storia doveva morire il protagonista non una comparsa. Del burattino tutti sanno, del bambino niente. Il bambino è una comparsa della vita. E vissero felici e contenti. Quale vita è solo felice e contenta? Mi ero proprio sbagliato a non fidarmi dell’istinto di Carolina nel riconoscere le belle persone. Quel moccioso era avvolto da un fascino sproporzionato per la sua età. Era divertente chiacchierare con lui. All’inizio erano solo rigagnoli ma si notava che convergevano verso lo stesso fiume di parole che si tuffava nel mare agitato della comprensione. La sera accendemmo un bel fuoco. A me sembrava che tutto filasse liscio. - Cosa c’è che ti preoccupa? – Nulla si può nascondere all’occhio sensibile di Carolina. Io,


che non mi ero reso conto di nessun segno di tensione rimasi a bocca aperta nello scoprire che Pidocchio doveva dare una forte somma di denaro ad una persona per nulla raccomandabile. Non possedendo quei soldi, aveva tentato il tutto per tutto, puntando gli spiccioli che aveva raggranellato su Cora, la sfidante della grande Titta nella battaglia delle mucche. Cora non aveva nessuna possibilità di vincere l’incontro. Il mascalzoncello aveva pensato di rapire Titta, non per tenersela, solo per sfiancarla ben benino e restituirla prima dell’incontro. Purtroppo però l’avevano beccato subito. Durante quella confessione Pidocchio aveva tolto tutte le barriere di protezione, mostrando apertamente l’età che aveva. Poi, si asciugò le lacrime e si accese una sigaretta. - Non essere triste piccolo, domani prima dell’incontro proverò a parlare con Titta. Le mucche hanno un gran cuore e vedrai che sarà disposta a perdere per una giusta causa. Sei d’accordo amore? – Io pensavo alla faccia dei poliziotti del mattino e di quanti altri rischi avremmo corso esponendoci così tanto ma non potevo certo far vedere a Carolina che il mio egoismo era più forte delle lacrime di un bambino. Così approvai con decisione quel piano. Dentro di me iniziava però a sorgere un dubbio atroce. - Come si chiama il tizio a cui devi i soldi? – Pregavo in silenzio che Pidocchio ci salvasse dalla farsa, qualsiasi nome ma non quello. - E’ il padrone di Titta, è il signor Mangiafuoco. – Lo sapevo. La musica della banda varcava gli spazi ristretti del paese, andando ad accogliere i visitatori e predisponendo i loro


stati d’animo nel migliore dei modi. Tutte le genti delle montagne nel raggio di cento chilometri sembravano essere confluiti lì. C’erano anche molti turisti, che nell’impossibilità di non apparire tali sorridevano a tutti, quasi a scusarsi del fatto che loro vivevano in un altro millennio. In concomitanza alla gara era stato organizzato un mercato del bestiame. Dagli alpeggi erano scesi pastori orgogliosi di poter mostrare a tutti i loro migliori capi. I vestiti della festa dei paesani erano resi ancora meno aggressivi dal profumo di stalla e dall’odore dei cotechini, che si promuovevano da soli, con il loro semplice friggere sulle griglie. Alle undici del mattino penso che si sarebbero potute contare sulle dita di una mano le persone che non avevano la punta del naso e le gote arrossate da abbondanti degustazioni di vino. Era il caos ideale per chi, come noi, voleva passare inosservato. Anche Carolina tirò un sospiro di sollievo alla vista di quel bailamme. Per integrarci maggiormente Pidocchio ed io andammo a fare una colazione etilica al bar più vicino. La bevanda più gettonata era Campari col bianco ma Pidocchio prima di ordinare mi chiese: - Oggi noi abbiamo un compito particolare. Tutta questa gente ci è potenzialmente nemica ed è dalle piccole cose che noi dobbiamo iniziare a prendere le distanze da questa massa. Non credi? – - Certo. – Risposi senza però capire dove volesse andare a parare. - Due bianchi col rosso. – Ordinò al barista che evidentemente l’aveva già servito perché senza battere ciglio versò nei nostri bicchieri Martini bianco e vino rosso. Forse un po’ meno coraggiosi ma


decisamente più incoscienti, ci dirigemmo verso il campo di gara. Mancavano solo dieci minuti all’inizio dell’incontro clou. Due carabinieri erano piazzati nella strada che conduceva al prato dove già molti spettatori si accalcavano. Per la bravata del giorno prima, Pidocchio aveva ricevuto l’ordine tassativo di non mettere piede in paese, almeno fino alla fine della manifestazione. Dovevamo dividerci. Decidemmo in un lampo un punto dove rincontrarci, poi il teppistello, per essere sicuro che noi riuscissimo ad arrivare alla meta senza intoppi, passò davanti ai due uomini in divisa, invitandoli ad un allegro inseguimento. La gente, incuriosita da quel fuori programma, creò il giusto varco per permetterci di raggiungere il nostro obbiettivo. Titta era controllata a vista dal suo padrone, un omone che per stabilire se fosse più brutto o più grosso sarebbe occorso il fotofinish. Ci dirigemmo verso di lui, dovevamo sbrigarci. Ora toccava a me. - Dicono in giro che lei sia il più grande allevatore della valle. – - Puoi giurarci ed oggi ne avrai un’ulteriore conferma. – Dall’alito si sarebbe detto che aveva già iniziato a festeggiare la vittoria da parecchie ore. - Ora però gira a largo ragazzo che tra poco si combatte. – - Eh sì, Titta è una gran regina però mi sembra che sia un po’ invecchiata. – Si girò di botto come per fulminarmi ma il suo sguardo colpì per prima Carolina, così bella, forte e giovane. La lampadina dell’affare illuminò quel volto scuro. - Ah sei venuto qui a scocciare per vendermi quella bestia eh? Torna dopo l’incontro che ne parliamo. – - Non posso, non ho tempo. Faccia la sua offerta, ora o


mai più. – Sparò una cifra. Presi il coraggio a due mani, poi con un’altra, presi l’omone sotto il braccio e con fare professionale lo voltai e lo scostai di qualche passo da Titta. Mentre continuavo a trattare il prezzo a cui avrei dovuto vendere il mio amore, lei, Carolina, era riuscita ad avvicinare la campionessa. Non ci volle molto a Mangiafuoco per capire che l’affare con quello sconosciuto si sarebbe risolto con un nulla di fatto. Decise allora di pagarmi per il tempo che gli avevo fatto perdere riempiendomi le tasche, le bisacce e i padiglioni auricolari con una sfilza di minacce e bestemmie. Per fortuna la campanella che annunciava un minuto alla gara lo calmò e permise a me e Carolina di andare a raggiungere il nostro amico nel punto prestabilito. Camminavamo un po’ mesti e senza parlare. Appena Pidocchio ci vide chiese: - Allora, com’è andata? – - Titta è boriosa e stronza come il suo padrone, è proprio una vacca. – Stava ancora parlando quando il suono del gong d’inizio gara ci zittì pretendendo la nostra massima attenzione. Cora entrò per prima nel campo di battaglia. Non certo di sua spontanea volontà. Un leggero tremito alle gambe lasciava supporre cosa si aspettava da quell’incontro. Titta fece il suo ingresso trionfale acclamata dalla folla. Manteneva il suo consueto passo regale ma il suo sguardo, non era il solito. Era come distratta. Anziché puntare i suoi occhi pesanti di sfida sulla sua avversaria, sembrava preferire le nuvole che pascolavano tranquille nel cielo sovrastante. Gli spettatori, troppo presi ad incitarla, non si accorsero di nulla ma Cora avvertì qualche cosa. Le si


avvicinò tentennante e non scorgendo nessun segno di reazione nella sua rivale, iniziò a colpirla, prima timidamente poi sempre più decisa, vendicandosi finalmente di tutte le umiliazioni che quella bestia di Titta le aveva fatto subire. L’incontro nello sgomento di quasi tutti durò solo pochi minuti. Contemporaneamente Pidocchio ed io chiedemmo: - Come hai fatto? – - Funghetti ragazzi! – Scoppiammo in una risata così fragorosa che in quell’ammutolimento generale richiamò su di noi l’attenzione dei carabinieri, che credevano ormai di aver perso ogni speranza di acchiappare la piccola peste. Dovevamo dividerci di nuovo. Pidocchio scappò in direzione della casa della persona con cui aveva fatto la scommessa e così avrebbe potuto ritirare i soldi. Carolina ed io saremmo andati ad aspettarlo dove avevamo passato la notte, un posto dove certamente nessuno ci avrebbe più obbligato a scappare. Questa volta i carabinieri, forse riconoscendo i propri limiti, decisero di cambiare obbiettivo, non più un marmocchio ma un ragazzo con una mucca. Anche noi eravamo però troppo veloci per loro, Carolina era un ottima apripista. Solo una crisi isterica rischiò di compromettere la nostra fuga. Ci colse quando vedemmo la faccia di Mangiafuoco mentre cercava di rialzare Titta che strafatta gli diceva: - Cazzo che botta! – Eravamo così felici che nessuno sarebbe riuscito a raggiungerci. Una volta al sicuro potevo finalmente permettermi di guardare negli occhi Carol.


- Sei meravigliosa. Pensare che Mangiafuoco con la sua offerta mi aveva quasi convinto. – - Vigliacooo! – Dovetti di nuovo scappare, inseguito questa volta dal mio amore. Adesso sì che mi dovevo preoccupare. Per salvarmi dalle incornate cercai di distrarla: - Pidocchio, i carabinieri, Mangiafuoco mi sa che sto impazzendo, ma noi chi siamo? – - Il gatto e la volpe. – Dopo qualche ora arrivò anche Pidocchio tutto contento. - Ti hanno dato i soldi? – - Sì, sì proprio tutti. – - E hai dato a Mangiafuoco quello che gli dovevi? – - No, credo che non se li meriti. – - Ma è pericoloso. Se ti prende quel mostro vedi cosa ti succede! – - Impossibile, ho incontrato degli amici che stanno partendo e ho intenzione di chiedergli se posso andare con loro. – - Ah sì, e dove andreste? – - In India! – Io e Carolina ci guardiamo e poi in coro: - Ecchemminchia siamo in tre ad andare in India! – Carolina fissava negli occhi Pidocchio e le sorridevano le pupille. Vedevo in lei la luce del senso materno amplificato milioni di volte. D'altronde una madre ti allatta per un anno, una mucca per tutta la vita. Col passare dei giorni, mentre noi eravamo impegnati a risolvere problemi di sopravvivenza, i nostri sentimenti, come in un libro giapponese dove sembra che nulla accade ma in realtà tutto


succede, prendevano sempre più forma. Sotto quell’immenso ombrello di pacatezza che era Carolina c’era posto sia per Pidocchio che per me, con ruoli ben distinti. Io mi cibavo della serenità di Carolina come un fidanzato, lui come un figlio. Fortunatamente io ero completamente sprovvisto di senso paterno e questo mi ha permesso di instaurare un rapporto di vera amicizia col bocia. Lui, dal canto suo, ha fatto di tutto per movimentarci la vita al punto che, se non ci fosse stata sempre Carolina a difenderlo, l’avrei ammazzato volentieri con le mie mani più di una volta.

Estate. L’estate era ormai diventata una certezza. Si era unita a noi col suo calore e ogni giorno ci portava in regalo qualche minuto di luce in più. Non eravamo i soli ad approfittare di tanta generosità. Molte più persone osavano sfidare i nostri stessi sentieri. Spesso incontravamo gruppi di scout, oratori, semplici famiglie in vacanza e non mancavano certo scalatori bardati di tutto punto. Non ci dispiaceva quella spensierata invasione. Tra l’altro con quel via vai non dovevamo neanche scendere in paese. I previdenti escursionisti portavano viveri a sufficienza, anche per evitarci le gran scarpinate che il commercio di latte richiedeva. Nonostante avessimo più tempo da dedicare al nostro grande viaggio, lui si accontentava sempre delle poche centinaia di metri che gli offrivamo giornalmente. Pidocchio si era subito adeguato al nostro passo, il passo


più scostante nella storia delle alpi. Camminando ogni scusa era buona per distrarci e quindi fare una pausa. Ogni tanto non eravamo d’accordo sulla direzione da prendere. Carolina, per paura di scendere troppo a valle, prediligeva i sentieri più a nord. Pidocchio quelli più a sud, dove era possibile incontrare più gente e quindi aumentavano le possibilità di fregare o scroccare qualcosa. Io, non avendo preferenze, mi ero preso l’incarico un po’ odioso di mediatore, proponendo sentieri che potevano accontentare tutti. In fondo la scelta non era una cosa che ci importava poi molto, era solo un’altra scusa per fermarsi. Solo ogni tanto Pidocchio, accorgendosi che io favorivo un po’ di più le scelte di Carolina, mi diceva: - Cosa vuoi che capisca uno che si scopa una mucca. – E questo me lo diceva per qualsiasi cosa io non ero d’accordo con lui. A me faceva ridere. Altre volte facevamo delle scommesse. Chiedevamo a quelli che passavano da che parte era l’India. Molti non ci rispondevano, altri invece, più simpatici, ci indicavano un sentiero a caso. Chi di noi tre aveva precedentemente indicato quella direzione diventava il capo guida del giorno, con libertà assoluta di scelta sul percorso da seguire. Poiché ci volevamo tutti bene, nessuno estremizzava mai le sue scelte e così rimanevamo più o meno alla stessa quota. Passavamo anche buona parte del giorno a dormire perché la sera ci piaceva stare svegli fino a tardi a chiacchierare intorno al fuoco. Ci piaceva assorbire l’odore della legna bruciata per poi ostentarlo il giorno dopo come il più prezioso dei profumi. Ci sembrava che quelle fiamme dessero vita ad una luce estremamente intima, così riparata da quelle pareti di buio fitto. Ci piaceva guardare il fuoco perché non aveva


pubblicità. Carolina, qualche volta, cercava di convincere Pidocchio che era troppo piccolo per bere e fumare così tanto. Io non ci provavo nemmeno, tanto la risposta era sempre la stessa. Con lei almeno si preoccupava di trovarsi qualche giustificazione. Sosteneva che al mondo c’erano tanti idioti solo perché da bambini non gli avevano dato la possibilità di sfogare tutta la loro carica di stupidità. Le favole che ti raccontavano da piccolo erano i peggiori esempi. C’era sempre un lieto fine solo per chi osava entro certi limiti. I buoni erano solo buoni e i cattivi solo cattivi. Le storie per bambini erano per lui la causa delle più gravi disgrazie dell’umanità. Aveva però intenzione di fare qualche cosa affinché tutto ciò smettesse, aveva preparato lui delle favole per non umiliare più i pieriniporcospini di tutto il mondo. Così ogni tanto la sera ci allietava con i suoi racconti. - Il natale cadeva sui tetti e sulle strade, imbiancando ed attutendo il suono della zampogna. Nella case riscaldate dalla festa, i bambini erano già nei loro letti, indecisi se impegnarsi ad addormentarsi per accorciare l’attesa o sfidare le tenebre nella speranza di udire almeno il rumore dei passi sul tetto. Solo quando tutti si assopirono, la magia dei doni sotto l’albero si realizzò. Il gallo, non sapendo che giorno fosse, stava ancora sonnecchiando quando i bambini, ancora in pigiama, corsero in salotto tuffandosi sui regali che il buon vecchio gli aveva portato. Solo Teo rimase sotto le coperte. Si svegliò alla solita ora e del tutto indifferente scese le scale. Diede un occhiata sotto l’albero e scorse subito il suo sacco. Ancora una volta carbone. Senza


batter ciglio, se lo caricò in spalla ed andò a rovesciarlo nel suo stanzino. Aveva solo sette anni ma ne aveva già accumulato una bella montagna. Ridiscese le scale e senza provare neanche tanta gioia, ma solo un profondo senso di giustizia, distrusse i balocchi dei suoi fratelli. Per punizione rimase chiuso tutto il giorno nel suo stanzino. Calde lacrime inondarono la montagna di carbone. La neve cadde molte volte ed ogni volta aveva un significato diverso. Non rappresentava più solo il Natale e i pupazzi per Teo che adesso di anni ne aveva ottanta. Piano, piano, attento a non scivolare, non gli fu difficile ritrovare la vecchia casa. Nessuno, dopo il loro trasferimento, l’aveva più abitata ed ora era veramente in condizioni pietose. Come era stato triste il giorno della partenza, quando il padre l’avvertì che nella nuova casa non ci sarebbe stato posto per il suo carbone. Ora era tornato e pareva lui Babbo Natale. Il portone d’ingresso era più acciaccato di lui e non oppose alcuna resistenza. Lanciò solo uno scricchiolio acuto che sembrò far rivivere ancora una volta i pianti dei suoi fratelli, vittime dei suoi dispetti. Era rimasto solo lui vivo a ricordare quei momenti e la solitudine lo indusse a pensare: “E’ proprio vero, l’erba cattiva non muore mai.”. Il sommarsi di ricordi d’infanzia lo fece come ringiovanire, corse su per le scale fino al suo stanzino. La sua montagna di carbone era ancora lì ad aspettarlo. Inginocchiatosi iniziò ad accarezzarla poi, non appagato, ci si tuffò dentro. Aveva più di metà del corpo sommersa e agitava le braccia come se stesse nuotando. Ad un tratto in quel mare nero vide brillare qualcosa. Sotto


sotto il carbone si stava trasformando in diamanti. Ancora lacrime bagnarono la montagna ma questa volta erano calde di gioia. Sdraiato nel suo mare, Teo chiuse gli occhi e fece capire a tutti che non poteva essere lui l’erba cattiva. – Carolina era visibilmente commossa. Io ancora non potevo credere che in quell’animale randagio di Pidocchio potesse annidarsi tanta sensibilità. - Se volete posso recitarvi anche una mia poesia. – - Scrivi anche le poesie? – Era veramente troppo. - Questa poesia si intitola Heidi. Caro nonno mio amato, qui in montagna mi hai portato. Tu mi hai sempre coccolato. Se in paese sei andato ogni volta che sei tornato, un gelato mi hai regalato. E mi hai sempre perdonato se ogni volta ho domandato: perché sul pene l’hai spalmato? Era riuscito a rovinare tutto un’altra volta. Carolina si era rimangiata le lacrime e adesso, per sfogare la sua rabbia, mandava pesanti maledizioni a tutti coloro che osavano offendere la fanciullezza. Io volevo chiedere a Pidocchio perché ci tenesse così tanto a non far credere a Carolina che lui fosse un bambino normale anziché uno psicopatico, ma lui sicuramente mi avrebbe risposto che l’aveva fatto perché non sopportava vederla piangere. In quell’estate, comunque, molti dicono che piovve molto.


Strano, per quel che ci ricordiamo noi c’è sempre stato il sole.

Si balla. Quell’anno le alpi sembravano il Yellowstone Park. Tutti gli escursionisti che frequentavano le nostre zone venivano consigliati dalla gente dei paesini sottostanti a fare molta attenzione al sacco delle provviste. Un orso Yoghi si aggirava per quei monti, goloso di cestini della merenda. Nessuna però delle sue vittime veniva abbandonata a sé stessa senza cibo o bevande. Prontamente un ragazzo e la sua latteria ambulante accorrevano a placare i lamenti dei loro stomaci. Una scodella di latte fresco e panini, sovrappiù di altre scorrerie, non erano negati a nessuno. Ci tenevamo particolarmente al fatto che nessuno perdesse fiducia nella solidarietà della gente di montagna, infatti i prezzi erano veramente modesti e alla fine i turisti erano quasi più contenti che se avessero mangiato le loro cose. La nostra piccola associazione a delinquere teneva le sue riunioni tutte le sere e non si preoccupava mai se il suo fuoco poteva essere avvistato a molti chilometri di distanza. L’orso Yoghi nostrano, viste le dimensioni, veniva ribattezzato al nostro bivacco col nome in codice di Bubu. Non se la prendeva molto, era troppo fissato con le sue favole che avrebbero cambiato il mondo. Non mi annoiavo ad ascoltarlo, avevo solo paura delle poesie. - Erano allegre e colorate le figure del libro di seconda


elementare. Nulla però potevano fare per distrarlo dalla Primavera, che fuggendo dal pentagramma era andata a sbocciare in ogni fiore. La maestra l’aveva richiamato più volte ma quel bambino proprio non ce la faceva a distogliere lo sguardo da quel quadro vivente che era la finestra. L’inchiostro della penna dell’insegnante dovette ancora una volta sgridare il diario dell’alunno e le tende vennero chiuse. Il bimbo imparò a scrivere. Scrisse solo e sempre ciò che vedeva dalla finestra e divenne grande. Il sole le faceva brillare come un aureola quei capelli bianchi quando il bidello entrò con un libro e glielo posò sulla cattedra. Poesie era il titolo. Incuriosita aprì il libro. “Alla natura che mi ha insegnato a sognare alla mia maestra che me l’ha fatta sognare.” Senza riuscire a fermarsi lesse tutto d’un fiato. I bambini non capivano cosa stava accadendo. - Maestra perché piange? – − Niente, non è niente. Adesso chiudete il libro e guardiamo tutti fuori dalla finestra. –. Carolina si era lasciata coinvolgere abbastanza anche da questa storia, io ero più preoccupato per quello che ci aspettava. Ad un tratto sento giungere da non molto lontano dei suoni, dei tonfi ritmati che fanno ballare perfino i rami degli alberi. Anche i miei compari se ne erano accorti e conoscendo quanto erano curiosi, tirai un sospiro di sollievo. Per quella sera ci eravamo scampati la poesia. Automaticamente ci dirigemmo verso la fonte di quella musica. Arrivammo ad un prato enorme, dove una folla di personaggi anomali sembravano festeggiare la chiusura dei manicomi. Un Tuareg stava scrivendo su una tavola di legno “Spaziate le tende, avvicinate i cuori.” Eravamo ad un rave-


party. Vedendoci un po’ spaesati, dei simpatici folletti ci portarono la pozione-spiegazione. Ci dissero che era come quando vai ad un’opera lirica e ti danno il libretto per capire meglio cosa succede. Noi bevemmo e, accipicchia, aveva proprio un buon sapore. Da delle enormi casse usciva una musica con tanta violenza che sarebbe riuscita a far deragliare un treno e a far ingoiare i fischietti a tutti i musicisti che trasportava. Tunz, tunz, tu tu tunz. Senza chiedere il permesso ti entrava dalle orecchie e ti utilizzava come una scatola di risonanza, sconquassandoti tutto il corpo. Una mitragliata di battiti ti accoltellavano, corrompendo quelli del tuo cuore. Il tutto mi riempiva di angoscia e rabbia. Iniziai a muovermi per cercare di evitare quei proiettili, che arrivavano da tutte le parti ed erano migliaia. Aumentai il ritmo dei miei movimenti con scatti solo apparentemente irrazionali ma in realtà protesi a raggiungere ed ammaestrare la logica di chi aveva ordinato quei battiti. La battaglia era dura e rabbia e angoscia stavano prendendo il sopravvento. Tunz no panic, tu tu tu, tunz no panic, tu tu tu. Quando proprio pensavo di aver raggiunto il limite di sopportazione, finalmente un sudore denso e scuro iniziò a sgorgare dai miei pori, liberandomi delle tossine che i battiti, colpendomi, scaricavano nel mio subconscio ora conscio. Carolina muggiva ed io non l’avevo mai sentita muggire. Intorno a noi migliaia di ragazzi avevano il volto solcato da rigagnoli limacciosi, carichi anch’essi di rabbia e angoscia. Battiti, battiti, battiti, sudore, sudore, sudore. Il sudore ci stava salvando, dovevamo sudare ma per quanto avremmo resistito? Ad un certo punto sotto le raffiche vidi, cioè sentii, no è meglio vidi, come uno spiraglio. Sotto sotto, ben nascosta, c’era una melodia


soffice quanto flebile. Ci si doveva concentrare su di lei, ne ero certo. Lo dissi anche una ragazza che mi ballava vicino ma lei mi guardò con una faccia strana, come se non capisse la mia lingua. Forse se la tirava. Quella via di fuga suggeriva di usare la testa come una campana. Il cervello era il batacchio, che picchiando sulla scatola cranica al ritmo di quella sottile melodia, avrebbe creato uno scudo di onde sonore impenetrabile a qualsiasi proiettile. Cominciai a dondolare. Il sudore non smetteva di sgorgare continuando a lavare l’anima. Dall’esterno non entrava più niente ma dai pori continuava ad uscire tutto il nero accumulato negli anni. Tutto il brutto fuoriusciva illudendoti di lasciarti per sempre: tradimenti, paure, litigi, le ingiustizie subite fino ad arrivare al primo distacco dalla madre. Era una sensazione di purificazione così intensa che mai mi sarei fermato. Solo la vista del mio sudore di nuovo limpido mi diede la serenità sufficiente per sedermi. Un folletto mi guardava e sorrideva. - Anche tu hai visto quello che ho visto io? – Chiesi ancora un po’ sballottato. - Questa è una multisala, ognuno ha il suo film. – Poi scomparve nel sottobosco. Io mi addormentai. Quando mi risvegliai non c’era più nessuno oltre a Carolina che brucava poco distante da me e Pidocchio che dormiva svaccato in mezzo al prato. Nulla lasciava supporre che quella notte ci fosse stata una gran festa, per terra neanche una carta di cioccolatino. Carolina mi venne a dare il bacio del buon giorno. Non ci siamo mai raccontati che film avevamo visto ma, da alcuni indizi, ho la certezza che io e lei abbiamo visto l’identica proiezione. Evidentemente eravamo capitati nella stessa sala. Pidocchio no. Si svegliò di cattivo umore e non voleva saperne di stare a sentire le


nostre chiacchiere. Ci disse solo che sarebbe andato in paese a chiedere all’Informagiovani dove poteva comprare del fumo.

Alice. Non credo che Pidocchio arrivò fin giù in paese perché dopo appena una mezz’oretta era già di ritorno, agitatissimo e felice anche più del solito. Il temporale estivo era già finito. - Presto, dovete venire con me. Una fatina si è fatta male ad una caviglia e non riesce più a camminare! – - Pidocchio le fatine non inciampano e non si fanno male alle caviglie. – - Se non ci credete venite a vedere. – Lo seguimmo giù per il bosco per una decina di minuti. Sdraiata in un fosso con una caviglia grossa come un melone e due enormi lucciconi che le rigavano le gote, una bellissima ragazzina implorava il nostro aiuto con il suo sommerso singhiozzare. - Cosa vi avevo detto? – - Ok. Aiutiamo questa fatina. – Carolina conosceva tutti i segreti delle erbe e così andò a cercare quelle più utili per guarire una distorsione. Io mi adoperai per tranquillizzare la fanciulla e bloccare Pidocchio che voleva dare fuoco alla foresta, per attirare l’attenzione di qualche elicottero che avrebbe potuto trasportare l’infortunata in un ospedale. Non l’avevo mai visto così eccitato, il marmocchio si era preso una cotta.


Fortunatamente Carolina non ci mise molto tempo a trovare le erbe giuste. Si dovevano pestare ben bene, fino a ricavarne una poltiglia da applicare sulla contusione. Aveva anche portato delle foglie sufficientemente grandi da poter essere utilizzate come bende. Una fasciatura stretta era quello che ci voleva. La natura dimostrò ancora una volta di conoscerci meglio di quello che crediamo, perché nel giro di un quarto d’ora, la caviglia, si era sgonfiata e la giovinetta poteva già reggersi in piedi da sola. Pian pianino ci dirigemmo al nostro bivacco dove ogni comfort ci attendeva. L’erba più morbida per i sederi più viziati, l’acqua più fresca con ancora intatto il sapore di roccia, il sole meno timido e più esibizionista e perfino un angolo cottura riparato dal vento, era tutto pronto per una più dolce convalescenza. Per fare sentire a suo agio la riservata ragazzina le raccontammo un po’ di noi e delle cose che ci erano capitate. Pidocchio farcì tutti i suoi racconti con delle balle assurde che ci divertirono per tutto il pomeriggio. In confronto a lui Superman era l’ape Maya. La fanciulla lo guardava ammirata, lui se ne rendeva conto ma anziché sentirsi appagato si gasava ancora di più, aumentando il livello di panzane delle sue avventure. Erano proprio belli. Carolina, per evitare che superasse ogni limite, cercò di arginare quel fiume in piena. - Pidocchio hai parlato così tanto e non hai chiesto ancora alla tua amica come si chiama. – - Ah è vero. Come ti chiami? – - Alice. – - E cosa ci fai tutta sola da queste parti? – - Ero venuta alla festa con un ragazzo. Mi aveva fatto scappare da casa ma poi si è stufato di me ed è scappato


con la sua amica eroina. – - Come può essere eroina una ragazza che fa abbandonare una bambina. – Obbiettò Carolina. - No, eroina è una droga non è una ragazza. – Precisai io. Pidocchio era veramente incontenibile e così aggiunse con aria vissuta: - Sì, devi sapere che i ragazzi degli anni settanta facevano un gran casino e la polizia non sapeva più che pesci prendere. Allora hanno telefonato ai loro amici della CIA per sapere se avevano avanzato qualche cosa dalle loro varie stragi di capelloni e quelli sono stati più che contenti di aiutarli. Così molti ragazzi impotenti e impazienti hanno iniziato a rivoluzionare se stessi, cominciando dalle vene. E così sono nati i meravigliosi anni ottanta. – Carolina era rimasta un po’ scioccata, si voltò verso di me e chiese: - Ma è vero? – - Non credo, penso sia solo una ipotesi. – Lo dissi a bassa voce perché avevo paura a contraddirlo di fronte a tutti ora che attraversava quel particolare stato emozionale, infatti cambiò subito argomento. - Ma perché sei scappata con quel pirla? – - Io non ho mai avuto amici, lui era il primo ragazzo che conoscevo e per lui è stato facile farmi sognare. Dovete sapere che mio padre è un uomo molto ricco. Era il proprietario di quasi tutte le filande della regione. Quando sono nata, ha dato una grande festa ma tra i tanti inviti spediti si erano dimenticati di mandare la partecipazione ad una vecchia zia acida e rancorosa.


Questa si era risentita a dismisura e da vecchia strega quale era, avvertì mio padre che mi aveva fatto il malocchio, una specie di sortilegio per il quale appena sarei diventata un po’ più grande un “fuso” mi avrebbe avvelenato e portato via dal suo affetto. Mio padre in principio non sembrava particolarmente preoccupato per la maledizione ma, alla morte della mia povera mamma, il solo pensiero di perdere anche me lo fece impazzire. Vendette tutte le filande dove pensava potesse esserci l’oggetto avvelenato e coi soldi ricavati costruì un castello prigione per me e per lui. Dichiarò guerra anche agli spigoli. Tutto doveva diventare tondo dai tavoli alle cornici dei quadri. Alcune tubature dell’acqua avevano degli angoli retti, dovevano quindi essere sostituiti. Venne chiamato l’idraulico di fiducia. Nessuno poteva entrare al castello se non era più che fidato. L’idraulico aveva un figlio che gli dava una mano nei lavori. Proprio il figlio incontrai quel giorno e decidemmo di scappare insieme. Ve lo giuro quel ragazzo era proprio fuso e sono contenta che mi abbia abbandonata. – - E adesso cosa vuoi fare? – - Voglio tornare da mio padre, voglio fargli capire che non c’è più pericolo, che si può ritornare a vivere sereni. Devo però dirgli di smetterla di smussare le punte dell’esistenza, perché solo se si ha una visione più reale degli ostacoli non finisci col bucarti col primo che incontri. Ho un po’ paura a tornare a casa da sola ma domattina, se la caviglia me lo permetterà, dovrò partire. Spero solo di non rincontrare quel mostro per la strada. – Pidocchio non aspettava altro. - Non ti devi preoccupare. Ti accompagnerò io. –


Lo disse come solo Jhon Wayne l’avrebbe saputo dire. Alice ne fu più che contenta, sarebbero partiti tutti e due l’indomani mattina e noi avremmo aspettato lì il ritorno del nostro eroe. Avevamo ancora una sera da passare insieme e Carolina ebbe la geniale idea di chiedere a Pidocchio di raccontarci una delle sue favole, come se non ce ne aveva già raccontate a sufficienza durante il giorno. - Chi se ne fregava di non avere i soldi della piscina quando c’erano a disposizione quelle meravigliose pozzanghere. Non era più bello, non vedendo niente, immaginarsi l’infinito sotto di noi, piuttosto che vedere il fondo piatto in quell’acqua così limpida, che ti sentivi in colpa anche solo a fare la pipì. E come era bello giocare alla parrucchiera utilizzando la resina delle piante, che veramente ti permetteva di plasmare i capelli come volevi. Queste cose pensava Melissa ogni volta che tornava a casa, per farsi coraggio ed affrontare la mamma che dopo qualche sculaccione, l’avrebbe infilata direttamente in lavatrice. Quella mattina indossava il vestitino nuovo ed era proprio bella, nessuno l’avrebbe scambiata per un maschiaccio, come quando si arrampicava sugli alberi. C’era stata una settimana di brutto tempo ed era stata costretta a restare in casa per tutto quel lungo periodo. Ora, però, il sole splendeva e illuminava la strada in mezzo ai prati che doveva percorrere per andare a scuola. Doveva resistere ad ogni tentazione. Melissa camminava, cercando di ripetere la lezione che aveva studiato il giorno precedente, ma il verde appena innaffiato dell’erba che la circondava, era troppo intenso per lasciare che quelle noiose nozioni, riuscissero a


distoglierla dalle cose che più amava. Una piccolissima capriola non avrebbe fatto proprio male a nessuno. Avrebbe prestato la massima attenzione ed il vestito non ne avrebbe risentito minimamente. E oplà una meravigliosa capriola, attutita così dolcemente da quella tenera erbetta che Melissa non riuscì ad accorgersi che era finita e allora ne iniziò un’altra e poi un’altra ancora. Arrivò fino a scuola così. Il vestitino era molto più colorato adesso e se solo fosse stato un po’ più a tinta unita, piuttosto che a chiazze come era diventato, forse anche la maestra l’avrebbe apprezzato e non avrebbe cacciato via Melissa dalla classe. Non poteva tornare a casa, quello era l’ultimo vestito che aveva e la mamma le aveva già detto che non gliene avrebbe comprati più. Meglio così, finché stava in giro nessuno l’avrebbe obbligata a lavarsi, togliendole di dosso quello che lei considerava dei gioielli. Come potevano i grandi dire di amare la natura se poi si vergognavano di indossarla? Le pozzanghere l’aspettavano, i fiori la chiamavano e gli alberi l’invitavano ad abbracciarli, non poteva perdere tempo a cercare di capire gli adulti. Aveva tutto il giorno per giocare come più le piaceva, per i problemi c’era sempre tempo. Il tempo volò via sulle ali di una farfalla ed in cima alla collina la sera arrivò in compagnia del fresco. Melissa iniziò a sentire un po’ freddo ma non voleva assolutamente tornare a casa. Il fango che le si era accumulato addosso, sentendola tremare, si asciugò di botto e irrigidendosi per meglio proteggerla si trasformò in una sorta di corteccia. Prima che alla bimba venisse fame, dal sottosuolo miliardi di animaletti le avevano infilato come delle piccolissime cannucce nei pori dei


piedi, attraverso questi tubicini avevano iniziato a sfamarla con dell’ottima spremuta di terra. Dalla gioia Melissa iniziò ad agitare le braccia e le mani ma visto che non erano sufficienti per dimostrare tutta la sua contentezza, Madre Natura le regalò tante altre braccia, che come rami carichi di foglie si agitavano al chiarore della luna. In quel paese quando un bambino non si vuole lavare le mamme gli raccontano la storia di Melissa e allora loro scappano sulla collina a guardare quella pianta, che arrivò lì da un giorno all’altro senza che nessuno l’avesse piantata. Molte volte si spaventano alla sua vista e pensano che non sarebbe bello diventare una pianta e non potersi più muovere, ma lei lascia sempre volare via una sua foglie che, con una miriade di capriole, va dove vuole senza che nessuno la sgridi. E’ per questo che in quel paese ci sono sempre meno bambini e più piante sulla collina. – Tutto procedeva per il meglio, poi volle dire anche una poesia. Io con uno stratagemma portai in disparte Pidocchio, nella speranza di convincerlo a rinunciare, ma lui mi disse che le ragazze vanno pazze per i poeti. Cercai di dirgli che forse le sue poesie non erano proprio le più indicate per intenerire una ragazza e lui mi rammentò che solo se avesse avuto bisogno di rimorchiare una mucca mi avrebbe chiesto aiuto. - Per questa poesia non ho ancora pensato ad un titolo, comunque: Giovani fanciulle Vagano nell’oscurità Della loro ingenuità


Sfidando la notte Vestite da mignotte Cercando un sussurro Di un principe azzurro Senza vedere poco più in là La bava del mostro che le violenterà. Se avessi avuto i capelli almeno avrei saputo dove mettere le mani. Non poteva fare certo colpo una poesia del genere ma in quell’istante capii che non c’erano più i ragazzini di una volta. Alice sembrava entusiasta di quella cosa. Come per ringraziare il suo vate e per eliminarmi qualsiasi dubbio sulle nuove generazioni, volle a tutti i costi cantarci una canzone che aveva da poco imparato. Si intitolava “Cristina la gallina che si faceva eroina.” Cristina bianche piume getti i sogni dentro a un fiume che ti porta alla deriva e dimentichi la riva. Ma chi te l’ha fatto fare di smettere di covare d’imparare a volare se come un falco vuoi planare qui giù in basso a domandare mi scusi buon signore perdo il treno tra due ore ha moneta per favore


Un pilota molto virtuoso ha scritto un libro assai famoso la tua vita vi ha descritto ma tu ne hai perso ogni diritto. Per quell’opera in vetrina sei un’indegna eroina molto meglio che la pietà un vero simbolo di libertà non guardò molto lontano per pensare ad un gabbiano magari anche del Gabon ma di nome Jonathan Livingstone. E così finisce al suolo chi non può provare il volo non sarà mai eroina una semplice gallina La persona che io avevo cercato di salvare dalle poesie di Pidocchio, aveva appena finito di cantare una canzone da cui desumevo che il gabbiano Jonathan, in realtà fosse una gallina drogata. Chiesi conferma alla ex tenera ragazzina. - Non lo so bene neanche io perché non ho capito se a Cristina piace fare l’eroina o piace farsi d’eroina. – Il dilemma ci accompagnò per tutta la sera. Il sonno fu l’unica risposta soddisfacente.


Il piccolo viaggio. Mano nella mano, come diligenti scolaretti, i ragazzi partirono di buon’ora. Il posto dove ci trovavamo era particolarmente bello e non ci dispiaceva passare lì un paio di giorni in più ad attendere il ritorno di Pidocchio. Ci sembrava di essere tornati indietro nel tempo, fino a quando ci eravamo appena conosciuti. Approfittammo di quella sosta forzata per fare il tagliando alla nostra relazione. Avevamo ancora un sacco di cose da dirci, ancora ci stupivamo di fronte alla stupidità di certe battute che ci facevano sbellicare e ancora ci cercavamo in continuazione sia fisicamente che intellettualmente. Furono due giorni nei quali sole e luna sgocciolavano miele. Il terzo giorno nulla era cambiato tra di noi ma il mondo esterno ci stava richiamando. Pidocchio non era ancora tornato. Non avevamo bisogno di dircelo per capire che quel ritardo era la causa del nostro crescente nervosismo. Sembrava quasi che non volessimo più parlare, per non coprire con le nostre voci quell’agognato rumore in lontananza che ci avrebbe rasserenato, annunciandoci l’arrivo del nostro amico. Per un altro giorno, quel silenzio artificiale non venne occupato se non dai suoni del bosco, che, pacato come sempre, continuava il suo discorso. Stavamo quasi per prendere una decisione sul da farsi, quando dei rumori estranei bussarono alla nostra attenzione. Non era Pidocchio, un ragazzo robusto si avvicinava a noi e notando certamente il mio volto deluso disse: - Scusi se la disturbo signor pastore. –


- Vieni pure, non ti preoccupare. Ti avevo scambiato per un mio amico. – - Non è che per caso ha visto una ragazzina qui attorno? Aveva circa la mia età e mi dava del lei. Aveva circa la mia età e stava cercando Alice. Avevo la mia età e avrei scommesso tutti i miei anni che di quel ragazzo non ci si doveva fidare. - Chi hai detto di star cercando? – - La mia sorellina, si deve essere persa e devo ritrovarla per riportarla al più presto a casa dalla nonna che è in pena per lei. – - Dimmi dove abita tua nonna così, se per caso la incontro, la posso riaccompagnare io direttamente. – - Vedi quel sentiero laggiù? Devi seguirlo per circa tre chilometri, al bivio giri sulla destra e la prima casa che incontri è la nostra. Però stai attento, perché mia sorella Alice vive un po’ nel suo mondo e si inventa un sacco di favole. Tu fai finta di niente. – Carolina era stata in disparte tutto il tempo ma ora si era avvicinata a quel ragazzo e brucava l’erba vicinissimo alla sua gamba. Voleva sicuramente farmi notare qualche cosa. Dai risvolti dei pantaloni del bellimbusto sembravano uscire come ciuffi di capelli biondi. Ad un tratto ebbi una illuminazione. - Ma tu che lavoro fai? – - Mmh. Diciamo che faccio il boscaiolo. – Il fisico per fare quel lavoro l’aveva ma dall’indizio che Carolina mi aveva suggerito, capii che si trattava di una balla. Quel ragazzo o era il parrucchiere di Amedeo Minghi o i mazzetti di fili gialli che pendevano dai suo calzoni erano stoppa, il materiale che usano gli idraulici per evitare


le perdite dei tubi. Ripassai nella testa il quadro generale: molto probabilmente la nonna era la zia acida e rancorosa e aveva mandato lei il fuso a rapire Alice. Quel fuso era qui davanti a noi e voleva ancora prendere Alice. Cosa potevo fare io adesso? Guardai Carolina e i suoi grandi occhi. Aveva uno sguardo così espressivo che sembrava collegato direttamente a pagina 777 di televideo. I sottotitoli per non udenti mi dissero: “Vai con lui, alla vecchia ci penso io.”. - Ehi amico, io non ho niente da fare, se vuoi posso venire con te e darti una mano nella ricerca. – - Ti ringrazio, ma temo che con quella mucca rischieremmo di sprecare del tempo prezioso. – - Non ti preoccupare lei resta qui. E’ capace di badare a se stessa. – - Bene, allora partiamo subito, non c’è tempo da perdere. – Camminavamo rapidi giù per i sentieri. Ero certo che quel ragazzo mi avrebbe portato da Pidocchio. Dopo pochi chilometri io ero già stanco ma non potevo rallentare la corsa se non volevo rischiare di essere abbandonato lì. - Hai qualche idea su dove possa essere andata? – - Purtroppo sì. Ho paura che sia tornata al castello. – - Castello? – - Sì, è il castello di mio padre. Qualche anno fa si è risposato e quella strega della sua seconda moglie era così gelosa, di me e di mia sorella, che l’ha fatto come impazzire con le sue polverine magiche per mettercelo contro. Anche Alice doveva subire quei malefici e per questo ho deciso di scappare portandola in salvo. Se è tornata laggiù corre un serio pericolo. Fortunatamente conosco un passaggio segreto attraverso il quale sono certo di riuscire a penetrare nel castello. –


Tipico dei tossici farti credere che sono tutti gli altri ad essere drogati, sono così convincenti perché, per sopportare la loro situazione, devono prima convincere sé stessi che le cose sono veramente così. Controllavo la sua massa muscolare per calcolare le mie possibilità di vittoria in un corpo a corpo. Gli allibratori avrebbero dato le stesse quote dell’incontro tra Mike Tyson contro gatto Silvestro. Certo avrei sempre potuto mordergli un orecchio ma intanto lui mi avrebbe graffiato via i connotati. - Per stasera possiamo fermarci qui a dormire. Se ripartiamo domani all’alba, credo che per mezzogiorno saremo al castello. – Stanco morto svenni sotto un pero. Prima di addormentarmi utilizzai le mie ultime forze per infilare nello zaino, che mi ero portato dietro, una pietra. In caso di necessità avrei potuto utilizzarla come arma. Il giorno dopo, di buon’ora, mi svegliò e quasi di corsa partimmo. Il sasso, nello zaino quasi vuoto, pesava e sballottolava indeciso se fosse meglio colpirmi sulle costole o sulla spina dorsale. Mille volte avrei voluto buttarlo, ma non potevo fare passi falsi e rischiare di perdere la mia copertura. Finalmente arrivammo al castello. Sfinito, mi appoggiai ad una pigna di sassi grande come la mia stupidità. - Se non te la senti posso entrare anche da solo, sei già stato abbastanza gentile ad accompagnarmi fino a qui.- Non ti preoccupare, sono con te. – - Va bene, allora dammi una mano a sollevare questo tombino. – Il sentiero tortuoso si era aperto in un piccolo spiazzo pianeggiante che ospitava una misera casetta. Carolina si era


ben preparata e con un pomo rosso sangue si avvicinò alla casetta con fare guardingo. Una vecchia vestita di stracci sul retro della costruzione aveva acceso un grosso fuoco sotto ad un pentolone ed ora era intenta a mescolare il suo oscuro contenuto. Tutto lasciava immaginare brodo di code di rospo e ali di pipistrello. Alzò lo sguardo e vide Carolina avanzare verso di lei. Le foglie degli alberi si fermarono impietrite. Gli uccellini smisero di cinguettare e gli insetti di ronzare. - Che ci fai tu qui? – Chiese una voce antica come i sassi. - Scusi se la disturbo, ma ho fatto tanta strada per cercarla. Io ero una principessa ma una strega cattiva mi ha fatto un incantesimo e mi ha trasformata in una mucca. Mi hanno detto che lei conosce i segreti della magia. Se lei mi aiuta, io posso regalarle questa mela, che dona l’eterna giovinezza. Venga, la prenda pure. – Rispose Carolina tutto d’un fiato. Alla vecchia sbalordita brillavano gli occhi. Il ragazzo diceva fossero dei vecchi cunicoli, a me sembravano delle fognature. Avanzai, sprezzante del pericolo, dietro quell’infida guida. Procedevamo a carponi con la viva speranza che a nessuno del castello capitasse un attacco di dissenteria. Finalmente il cunicolo diventò abbastanza grande da poter essere percorso in piedi. Da entrambi i lati del passaggio si aprivano dei varchi che portavano in stanzette scavate nella roccia. Eravamo penetrati nelle segrete. Quelle celle erano così buie e maleodoranti che le catene appese alle pareti parevano tenere ancora ben saldi fantasmi medioevali. Scricchiolii


sinistri e squittii di topi ci facevano compagnia. Il tunnel finiva in uno stanzone dove, dietro alcune colonne, partivano delle scale. Una voce di bambina ci fece trasecolare. Il ragazzo corse in quella direzione e quando aprì le braccia per acchiappare Alice, che lo guardava piangendo, io mi stavo già avventando su di lui con la mia pietra impropria. Gli avrei spaccato la testa se un braccio uscito dall’oscurità non avesse colpito la mia mano così violentemente da disarmarmi. Il fantasma di uno schiavo, con capelli sporchi e lunghi e dalla barba incolta, non contento della botta che mi aveva rifilato, stava ora cercando di strangolarmi indifferente di fronte ai miei rantolii di compassione. Stavo per svenire quando il ragazzo che mi aveva portato fino a lì disse: - Fermati papà, è un amico. – L’uomo allentò la presa ma non era ancora del tutto convinto. Anche Alice intervenne. - Sì papà, è anche mio amico. – Solo allora distolse lo sguardo da me e andò ad abbracciare i suoi figli. Piangevano e si stringevano fortissimamente. Io non capivo niente. Dopo un po’ si ricordarono che c’ero anche io. - Credo che ti dobbiamo una spiegazione. – - Ve ne sarei grato. – Risposi respirando ancora a fatica. - Vorrei raccontarla io questa storia in modo che io possa riconoscere davanti a voi, figli miei, quanto sono stato vile e stupido. – - Va bene papà. – - Quando la vostra mamma morì, io ero disperato. Senza di lei non volevo più vivere. Se non potevo essere marito


non volevo più neanche essere padre e neanche uomo. Mi buttai così, come facile preda, tra le braccia di quella donna e della sua droga. Nulla aveva più importanza per me, ne la vita ne la morte. Anche se vi vedevo non concepivo più che eravate miei figli. La mia mente era completamente offuscata dal dolore e dalla vigliaccheria. Non mi resi conto neanche che quella strega stava cercando di invitare nel nostro incubo la piccola Alice. Solo quando sei intervenuto tu, Flavio, portando via tua sorella da questa pazzia, si è come aperto in me uno squarcio di coscienza. La realtà, molto lentamente, stava per riprendere le sue forme. Ero pronto a pagare per tutto quello che vi avevo fatto. Vi giuro che è solo per amore vostro che ho iniziato a rifiutare le cose che quella strega incessantemente mi offriva. Stavo raggiungendo il livello di forza per cacciarla via definitivamente dalla nostra vita, quando lei si accorse che non avevo più bisogno di lei. Per otto lunghi mesi mi ha tenuto prigioniero qua dentro ma poi sono arrivati Alice e quello strano bambino a liberarmi.- Ma chi è questa donna così malvagia? – - Molti la chiamano Principessa Progesterona ed ora ha catturato Pidocchio. – Rispose Alice. Mi appoggiai al muro e giuro che se non fossi dovuto andare a salvare Pidocchio sarei morto volentieri lì. - Flavio tu resta qui con tuo padre e Alice. Se qualche cosa va storto ci penserai tu a proteggerli. Io penso a Pidocchio. – - Stai molto attento, sembra un angelo ma è una strega. – - Lo so. –


Sicuramente, in un'altra vita, dovevo essere già stato in quel castello. Mi sembrava di conoscere esattamente la strada che dovevo percorrere per raggiungere il mio obiettivo. Quella familiarità con l’ambiente mi infondeva addirittura coraggio, come se stessi compiendo qualche cosa che prima o poi andava fatto ed oggi era il giorno ideale per farlo. Non l’avevo più rivista da allora. Ognuno per la sua sporca strada, ad inventarsi una vita. Ad ogni passo sentivo crescere in me la convinzione che avrei saputo affrontarla, per quasi un anno in fondo mi aveva amato, non poteva avermi cancellato così. Sì ero convinto di poterla vincere, poi, aprii la porta della sua stanza. Era più bella di qualsiasi pessimistica previsione. Bordate di ricordi mi colpivano da tutte le parti, non mi accorsi neanche di Pidocchio che legato ad un lettino era incatenato ad un sonno agitatissimo. - Guarda guarda chi si rivede. – I suoi occhi meravigliosi erano puntati contro di me. Trattenendomi dall’alzare le braccia al cielo in segno di resa, cercai di dire qualche cosa ma solo un mesto balbettio varcò le mie labbra. - Sei venuto a riprendermi? Sei tornato il Cavaliere di una volta o sei ancora uno stupido schiavo petulante? – - Non piango più. – Risposi forse un po’ troppo a bassa voce. Lei mi si stava avvicinando. Io indietreggiai di qualche passo. Non volevo che sentisse quanto mi batteva il cuore, mi sarei sentito nudo. Mi fissava. Ero certo che quella inquadratura l’avesse studiata. Non poteva essere casuale che lei si trovasse al centro della stanza, con la luce del finestrone che guardava


solo lei, enfatizzando la sua bellezza e che degli spifferi, passando sotto la porta, la colpissero in modo che i veli della sua camicia da notte, fatta di veli semi trasparenti, svolazzassero al ritmo delle danze più erotiche. - Perché ti comporti così? – Riuscii a dire solo immaginando di essere il ventriloquo di me stesso. - Così come, che voglio riabbracciare un vecchio amico o che faccio un po’ la cattivella con quel bastardo del castello e con i suoi mocciosi? – - Che cosa ti ha fatto diventare così? – - Senti senti, l’uomo dei sogni adesso ha il coraggio anche di giudicarmi. Ti ricordo che in fondo io e te siamo uguali. Sono anni che non ti vedo ma sono certa che nulla è cambiato. O vuoi forse dirmi che hai messo su una famiglia come si deve e hai un bel lavoro. Paghi le tasse? Non ti fondi più? Non parli più con i folletti? Vedi come ti conosco ancora bene. Sai cosa c’è di diverso tra noi eh, lo vuoi sapere? Tu credi ancora in quegli stupidi sogni. Tutte le volte che incontro uno che mi piace saltano fuori queste cazzate di sogni. Allora io cosa ci posso fare se non eliminarli tutti? Nessuno che mi ringrazia però quando vi salvo dallo sconforto, vi risolvo i problemi e vi salvo dalle delusioni, eh? Io sono cattiva e allora tu cosa sei che mi hai abbandonata per delle cose che non esistevano nemmeno. Eravamo uguali io e te, senza tante menate non saremmo mai riusciti a combinare niente ma sarebbe andata bene così. Cosa credi, quel vizio di rovinare tutto quel che si è costruito in una sola cazzata è difficile da abbandonare sai, poi tu eri il migliore. Eri il migliore anche in altre cose molto


difficili da dimenticare per una donna. – Per le ultime frasi aveva usato il suo tono di voce più conturbante e adesso si avvicinava a me ulteriormente. Si slacciò la camicia da notte e la lasciò cadere in terra. Ero completamente disarmato, non le fu così difficile rubarmi tutti i vestiti. - Adesso ometto, cerca di darti da fare a farti riconoscere. – Ero in trance quando salimmo sugli autoscontri. I nostri bacini si scontravano con ritmo crescente. Non ci preoccupavamo di quanta violenza ci mettessimo, nessuno avrebbe fermato la giostra costringendoci a scendere. Era una gara a chi faceva più male all’altro. Più aumentavamo e più Pidocchio si agitava nel suo lettino finché ad un punto urlò come un ossesso: “Carolinaaaa!”. Mi risvegliai dal coma, una forza incredibile pervase il mio corpo facendo partire il colpo più potente nella storia del sesso. Era il colpo dell’amore vero, dell’amore nuovo, dell’amore puro. Un colpo che permise di consumare a Principessa Progesterona il suo ultimo orgasmo, proprio mentre sfondava la vetrata. Un colpo che deve averle fatto sussurrare alla terra che per ultima e per sempre l’aveva abbracciata: “Cazzo che uomo.”. Lentamente Pidocchio si riprese. Lo aggiornai brevemente su quello che era accaduto e il suo volto si incupì. - Pidocchio, amico mio non ti preoccupare è tutto finito. – - Appunto, aveva detto che la dava anche a me! – Arrivarono anche Alice e gli altri e Pidocchio dovette quindi assumere un comportamento più controllato. Ci abbracciammo tutti felici di esserci lasciati alle spalle un brutto sogno. Mancava solo Carolina. Cavolo Carolina!


Subito mi passarono per la testa le sue parole di condanna a morte per tutte quelle persone che avessero fatto del male ai bambini. Decisi di non informare nessuno della famiglia di Alice del perché io e Pidocchio dovevamo correre immediatamente da Carolina. D'altronde se avesse già compiuto la sua vendetta era meglio che nessuno sapesse la verità. Corremmo come pazzi. Carolina portò una mela ad una vecchia strega chiedendo in cambio un favore. Una dolce vecchina, piangendo le rispose che non poteva aiutarla, ne voleva il suo dono, aveva già vissuto a sufficienza. Il suo unico desiderio era di poter riabbracciare i suoi nipoti, Flavio che aveva dovuto interrompere il suo tentativo di riparare il lavandino per andare a cercare la piccola Alice, che a causa di una brutta malattia era scappata di casa. Per ingannare l’attesa aveva fatto bollire dell’acqua e buttato dentro un po’ di detersivo e gli indumenti dei ragazzi. Quando sarebbero tornati avrebbero trovato dei vestiti puliti e profumati. Carolina sotterrò la mela avvelenata e insieme alla nonnina attese con ansia l’arrivo di qualche bella notizia. Tutto era a posto veramente ora. Alice col padre e il fratello ci raggiunsero il giorno dopo, erano arrivati in macchina, la sera stessa avrebbero portato al castello anche la nonna. Pidocchio ci comunicò che voleva restare almeno per un po’ ancora con Alice. Eravamo un po’ dispiaciuti di dover rinunciare alla sua compagnia però ci bastava vederlo così felice per rincuorarci. In quella famiglia magari sarebbe diventato un bambino normale. Io confessai tutto quello che avevo fatto a Carolina. - Sei arrabbiata con me per quello che ho fatto? – Aveva gli occhi un po’ bagnati.


- Non sono arrabbiata con te, un po’ con la situazione. Vedi, sarei troppo stupida se fossi gelosa di lei. Lei è un essere umano, io sono un animale. Due cose troppo diverse per essere in competizione. E se non ci può essere competizione, non ci può essere gelosia. Forse invidia, ma io non potrò mai essere lei e lei non potrà mai essere come me. – - Nessuno può essere come te! – Dissi un po’ da leccaculi. - Ah, comunque guarda che se succede un’altra volta, quello che finisce giù dalla finestra sarai tu! – E ridendo, mi soffocò di baci.

Meno uno? I sentieri parevano autostrade da quanto eravamo vicini io e Carolina. La notte sentivamo i viottoli bisbigliare per mettersi d’accordo su quali erano i paesaggi più spettacolari che avremmo dovuto assolutamente vedere. Solo una notte qualcuno ebbe qualcosa da ridire. - Non credo sia giusto viziarli così tanto. Rischiamo di non fargli capire l’insegnamento delle montagne: “Chi investe in salite guadagna in discese.”. – Disse il sentiero più ripido ma un antico sasso gli rispose: - Salita o discesa sei sempre tu, a cambiare è solo un punto di vista. Se vuoi portare qualcuno dalla tua parte la prima cosa da fare è andare incontro al suo punto di vista. – E così, anche il giorno seguente ci sembrò di trovare solo sentieri pianeggianti sul nostro percorso.


Se il sole non perdeva un colpo la luna non era da meno. Non si accontentava più di riflettere luce altrui. Come un Buddha, che stufo di meditare sulle verità altrui, inizia a dare lui delle risposte, così lei iniziò a splendere di suo. Una luce così intensa che, se stavi a guardarla a lungo, gli occhi ti si gonfiavano e l’unico rimedio era di piangere di gioia. Scendevamo un po’ più spesso nei paesi. Non ci preoccupavamo più tanto della gente. Lo facevamo per Pidocchio. Se per caso si fosse stufato della sua nuova vita e avesse voluto raggiungerci gli sarebbe bastato chiedere in giro se qualcuno ci aveva visti. Non passavamo certo inosservati noi. Correvamo dei grossi rischi ad esporci così tanto ma era bello mettere in gioco la nostra sicurezza per un’amicizia. La teneva sempre viva. Molto probabilmente la vita che aveva intrapreso era meglio di quella che gli si sarebbe prospettata in nostra compagnia. Senza interferire attivamente nelle sue decisioni, non ci sentivamo però in colpa di sperare che alla nostra scodella di fragole si aggiungesse una guarnizione di panna montata. Anche la nostra ingordigia venne soddisfatta. Io stavo ancora sonnecchiando quando sentii Carolina alzarsi di scatto e sussurrare: - Pidocchio. – Aprii gli occhi di scatto ma nessuno occupava il mio orizzonte. Passò qualche secondo prima che una voce squarciò la nostra immobilità. - Ehi voi due, è questa la strada per l’India? – Corremmo come pazzi. Ci scontrammo e rotolammo nell’erba per almeno mezz’ora. Carolina rischiò di fare una strage. - Allora fidanzatini, dove credevate di andare senza di me?


– - Scommetto che ti hanno cacciato perché ti mettevi le dita nel naso. – - Alice come sta? – Volle subito sapere Carol. - Alice sta benissimo e anche tutti gli altri. Sono proprio una famiglia normale oramai. Io ce l’avevo quasi fatta ad integrarmi completamente, poi una mattina apro le finestre e sento uno stridio di freni. Mi affaccio dal balcone e vedo molto distante un trenino, fermo appena oltre il bosco ,che sbuffa come se stesse aspettando qualcuno. Lontano, ma nitido, inizio a sentire come un suono di fischietto molto particolare. Non fui il solo a rimanere colpito, perché d’un tratto tutti gli uccellini nel raggio di qualche chilometro si misero a cantare all’unisono, come ipnotizzati da quel sibilo meraviglioso. Milioni di insetti volavano ed atterravano funzionalmente al ritmo di quella musica. Alberi, cespugli, fiori ed erba sembravano collaborare anch’essi nella riuscita di quello strano spettacolo, se il vento non gli dava abbastanza fiato per unirsi al coro, loro, diligentemente, si occupavano delle coreografie. Dolcemente la musica scemò, il treno lanciò il suo arrivederci in una nuvola di fumo e riprese la sua strada. Lo fissai a lungo, finché non divenne un minuscolo pallino in lontananza. Socchiusi gli occhi per aumentare la pressione della mia vista, allungandone la gittata, ma anziché raggiungere quel treno vidi venirmi incontro la frase “E vissero felici e contenti.”. Era veramente troppo. Anche Alice aveva sentito quella musica, ma a lei aveva detto di restare e così sono venuto via da solo ed ora


eccomi qua. – Un amico era tornato tra noi ed un altro aveva iniziato ad affrontare la vita. Non poteva andare meglio di così. Pidocchio fraintese i nostri volti sorridenti. - Ehi, lo so che credete che mi sia inventato la storia del treno ma vi giuro che è proprio andata così. – - Certo che ti crediamo. – Dissi io. - Sì, sì tu mi dai la ragione che dai ai matti. Sono qui da cinque minuti e già mi stai sulle palle. – Tutto era tornato come prima. Di nuovo tutto il mondo che ci interessava era lì, attorno a quel fuoco. Eravamo pronti a giurare che nessuno più ci avrebbe diviso. Io ero forse il più convinto. Sì, proprio io. Stavamo lasciando che il tintinnio dei brindisi della sera precedente terminassero il boato che avevano causato nelle nostre menti. Il caffè era sul fuoco e da un momento all’altro ci avrebbe avvisato che era pronto. Pidocchio era sceso al fiume a lavarsi e già questo doveva lasciar presagire qualche cosa di insolito. - Amore? – - Si? – - Sono incinta. –

Uno in più? Non ero certo di aver capito bene. Avevo sempre pensato che quando la tua compagna ti confida di aspettare un


bambino, è uno di quei pochi momenti della vita che non devi stare a valutare le circostanze, devi semplicemente essere felice, abbracciare quella persona e far sentire al nascituro che ci sei anche tu. Ero sicuro che mi sarei comportato così. Purtroppo la prima volta che veramente mi trovai di fronte quella situazione, mi lasciai fregare dalla particolarità del caso. Un brivido gelido mi attraversò la schiena. La mia pelle d’oca aveva la pelle d’oca e quello strano piumino iniziò a farmi sudare. Riuscii solo a balbettare: - Co… come scusa? – - Era già un po’ di giorni che sentivo qualcosa dentro di me, adesso ne sono certa, sono incinta. – - Ma come è… cioè io posso… chi? – - Avrei voluto più di qualsiasi altra cosa al mondo aver concepito questo figlio con te. Purtroppo la natura non è sempre una favola. Non ti ho mai tradito se questo può renderti un po’ più sereno. Qualche giorno prima della mia cacciata dall’allevamento, arrivarono degli uomini con delle grosse siringhe. Non avevano aghi, perché non avevano bisogno di bucarci, per metterci dentro quella sostanza che solo da poco ho capito cosa fosse. Nemmeno io so chi sia il padre di mio figlio, so solo che vorrei che tu accettassi di esserlo. Non credere che non immagini quanto per te possa essere difficile accettare questa cosa, però ti prego, pensaci su con calma, io capirò. – Volevo dire qualcosa, per non rendere evidente subito quanto ero vigliacco, ma in quel momento arrivò Pidocchio. - Guardate che casino avete combinato. Avete fatto uscire tutto il caffè e che facce tristi che avete, è morto


qualcuno? – - No anzi, deve nascere qualcuno. Sono incinta. – Pidocchio iniziò a saltellarci intorno, ad abbracciarci e quasi ululava di gioia. Praticamente fece tutto quello che avrei dovuto fare io, poi guardandomi disse: - Ehi qui c’è qualcosa che non mi quadra, il tuo sguardo mi dà la conferma che l’unica cosa che avete in comune tu e il vero papà del piccolo sono le corna. – Avrei voluto soffocare le risate di quel moccioso con le mie mani. Quando si accorse che per lui si stava mettendo male disse: - Dai permaloso, stavo scherzando. Come lo chiamerete? - Epafo. – Risposi e me ne andai. Chi è costui che si intromette nella mia vita e pretende che gli si dia un nome. Prima ancora di nascere, mi ha già fatto fare una figuraccia con Carolina. Avrei una serie di nomi da dargli, presi da un calendario vietato ai minori di diciotto anni. Certo che anche lei poteva dirmelo con un po’ più di tatto, anziché mettermi di fronte al fatto compiuto e poi dirmi che adesso che le nasceva un figlio potevo decidere se stare con loro o potevo benissimo andarmene. Non era quell’intruso quello che rischiava di essere eliminato. Ero io in discussione. Avevo già perso una postazione nella scala degli affetti di Carolina. Certo non avrei mai voluto essere l’autore di “Lettera ad un bovino mai nato”, ma neanche specchiarmi solo nella parte alta della fronte di mio figlio. “Che bel piccino, ha tutta la testa di suo padre.”. Non sono geloso della siringa o di chi ha fornito la materia prima, che a quest’ora sarà già stato infilzato in qualche arena. Non


sono più geloso di Pidocchio e penso che non sarei più geloso di nessun altro uomo, ma questo botolo si è infilato proprio dentro a Carolina. Onestamente mi pare che gli stia un po’ troppo vicino, sta prendendo delle confidenze con la mia signora che io neanche sono in grado di immaginare. Sono certo che è stato lui a suggerirle di mettermi al corrente della faccenda così bruscamente. Anzi inizio a sospettare che non si è arrabbiata poi tanto di quel che ho fatto con Principessa perché sapeva già del premio di consolazione che l’aspettava. Questi pensieri e mille altre cattiverie continuavano a turbinarmi nella mente. Passavano i giorni, vedevo Carolina poco distante da me e non riuscivo a parlarle. Sentivo che anche lei soffriva ma vedevo che si aggrappava alla nuova forza che cresceva dentro di sé. Nella mia stupidità ero arrabbiato anche per questo, io ero da solo, lei anche da sola erano in due. Pidocchio si comportava benissimo. In quell’aria agitata cercava di riportare un minimo di serenità. - Guarda che meraviglia, un occhio poco sensibile potrebbe trovare qualcosa di negativo in tutto questo, ma se prestasse più attenzione, capirebbe che non c’è nulla di innaturale in essa. Tutto ciò che la compone non viene certo da Marte, viene da questa terra che noi amiamo al punto da chiamare madre. Ogni processo che l’ha generata risponde a precise leggi della natura né più né meno come la fotosintesi clorofilliana. I suoi colori non sono forse uguali a quelli di alcuni fiori? Perché l’ipocrisia di qualcuno non vuole vederti di nuovo nel mondo che ha permesso di generarti, confinandoti in oscuri ghetti? –


- Pidocchio smettila di fare lo scemo e butta quella lattina nel sacchetto della spazzatura. – Altre volte io provavo a comunicare a Pidocchio la situazione di sconforto che stavo vivendo. - Non ti sembra che siamo animali di uno zoo che di botto vengono buttati nella giungla, cioè non credi che chi ci ha dato il gioco della vita non abbia letto che era un gioco sconsigliato per quelli della nostra età? Tu prendi la macchina, salti uno stop per distrazione e ammazzi qualcuno. Fai l’amore e prendi l’Aids. Vedi un handicappato felice e non hai più il diritto di essere triste. Non credi che sia troppo? – Lui mi mise una mano sulla spalla, mi guardò dritto negli occhi e con un sorriso coinvolgente disse: - Non ci crederai, ma io non ho mai saputo se voglio più bene a Carolina o a te. Mi dispiace averti insultato così spesso, perché forse questo può far perdere di intensità a quello che voglio dirti. Smettila di comportarti come un coglione e di dire stronzate. – Al momento non capii quel messaggio nel pieno della sua profondità, ma molto dopo, ripensandoci, capii quanto aveva ragione. Tutti dovrebbero avere un vero amico che ti manda a quel paese quando ti comporti in maniera sbagliata. Il colpo finale me lo tirò Carolina. Mi si avvicinò silenziosa che quasi non me ne accorsi. - Ho imparato molto stando con te. Soprattutto ho scoperto quanto amore posso provare per una persona. Ho scoperto anche che degli dei un po’ sadici, o forse troppo ottimisti hanno seminato delle piante i cui rami sono carichi di doni. Questi doni sono confezionati a forma di frutti proibiti, grossi, belli e sicuramente sugosi. Questi


frutti non sono proibiti per volere divino, tutti possono prenderli, ma è la pochezza di noi esseri viventi a non permetterci di coglierne il vero sapore, facendoli diventare addirittura velenosi. Su queste piante può nascere la religione, che colmandoti di risposte non ti da più il coraggio del dubbio. Ci puoi trovare le ideologie, che magari proprio per quanto sono giuste sono inadatte ad un popolo di semplici esseri umani. Ci puoi trovare qualsiasi tipo di droga, che riesce a farti scoprire nuovi mondi ma che ti fa dimenticare quello in cui vivi. Adesso, purtroppo, noi ci stiamo appendendo anche l’Amore. – E se ne andò. Iniziai a camminare lottando contro il serpente che attanagliava il mio cuore. Ero certo di aver bisogno di essere migliore per poter superare questa prova, per poter trovare il luogo che cancella la frase “Nulla potrà essere come prima.”. Avevo bisogno di qualcuno che fosse rimasto sempre puro, puro nei suoi difetti, nei suoi limiti, ma che nessuno avrebbe potuto mai accusare di niente, perché lui era così e non aveva certo scelto di esserlo. Solo lui sapeva le risposte che non avrei mai potuto rimpiangere, perché lui era l’origine, l’essenza senza compromessi, perché sempre aveva vissuto in un mondo asettico, che gli aveva permesso di rimanere quello che era. Aveva avuto il coraggio, seppur in ritardo, di lasciar andare suo fratello nel gioco della vita e grazie a lui, aveva scoperto le sue incoerenze. Era giunto il momento che anche lui facesse qualcosa per quella costoletta. Avevo bisogno del mio io più profondo e lui rispose all’appello. Incontrai sulla mia strada Francesco, che


mi disse di lasciare tutto quello che avevo e di seguirlo, io rispose che il mondo non aveva bisogno di nuovi poveri. Rincontrai il vecchio e mi disse di urlare a tutti libertà, io rispose che bisogna prima essere liberi prima di parlare di libertà. Mi venne incontro Paperon de Paperoni e mi propose dei dobloni, io disse che sarebbe stato stupido lavorare se non sapevo godere neanche delle cose gratuite. In vicolo stretto trovai un fiasco di vino ma io non lo bevve. Su quell’autostrada era vietato fare l’autostop. Nulla doveva essere amplificato, tutto doveva già essere enorme di per sé. Arrivai finalmente nel punto esatto che non sapevo di stare cercando. Di fronte a me c’era la grande pianta. Tra i mille frutti solo uno mi chiamava. Tentai in tutti i modi di raggiungerlo, ma per quanto saltassi o cercassi di arrampicarmi, proprio non mi riusciva di raggiungerlo. Evidentemente ancora qualcosa mi mancava. Mi voltai per andare a cercare la cosa più importante per il perdono, l’unica cosa che poteva rendere vana ogni mia acrobazia. Feci solo pochi passi per accorgermi che lei era già lì e mi guardava. Volevo abbracciarla e baciarla ma come uno sposo sull’altare dovevo attendere, incanalando tutte quelle emozioni, per rendere sacro il rito che si stava celebrando. Tolsi le scarpe e le salii in groppa. Ancora una volta doveva sopportare il peso più grosso, quello di saper perdonare, ma l’amore le dava la forza necessaria per accettarlo. A me l’amore portava un senso di colpa che mi schiacciava come un masso. Carolina mi diede la spinta indispensabile per raggiungere quel frutto. Lo colsi e tornai finalmente a galla. Avevamo la nostra mela del peccato dell’amore, quella meravigliosa forma di egoismo a due, capace di diventare così grande da poter abbracciare tutto il mondo.


Carolina schiacciò il serpente che impediva al mio cuore di pulsare ed io scacciai via un tafano. E così, diventai padre.

Futuro. Le pioggie iniziarono ad infittirsi, le giornate si accorciavano. L’estate ci stava salutando così. Dovevamo fare i conti con un nuovo personaggio: il futuro. Non era facile, non gli avevamo mai dato troppa importanza ne dedicato mai qualche riflessione. Adesso si presentava a noi con sempre maggiore insistenza. A volte era un amico, che ci raccontava possibili storie su nostro figlio, ma molto più spesso si presentava a noi con dei problemi. Non era come la “Settimana enigmistica” che se non riesci a risolvere qualche cosa puoi prima girare pagina e poi aspettare una settimana e ti danno le soluzioni. Sì anche a noi il tempo portava consiglio, però solo consigli, non soluzioni. Quelle dovevamo trovarle noi. Io ero un padre in attesa molto apprensivo. Mi preoccupavo sempre di più dello stato di salute di Carolina. Pidocchio mi prendeva in giro dicendomi: - Quasi quasi rimpiango il periodo in cui non parlavi con nessuno. – Però intanto quando pioveva e dovevamo ripararci in una malga, evitava di sua spontanea volontà di fumare vicino a Carolina. Alle volte non fumava proprio, finché non si rasserenava e poteva uscire all’aperto. Anche lui non si


tirava indietro quando c’era da discutere delle decisioni che impellevano. Lo situazione era questa: Carolina era incinta e da lì a poco non avrebbe più potuto sostenere il ritmo di vita che tenevamo. Il piccolo che attendevamo, almeno per i suoi primi mesi di vita, aveva bisogno di un riparo comodo e caldo. L’inverno in montagna non sarebbe stato clemente neanche per me e Pidocchio. Certo, noi ci saremmo sempre potuti muovere per procurarci del cibo, ma la neo mamma e il neo cucciolo non appena avesse iniziato a nevicare avrebbero avuto seri problemi. Era giunto il momento di ripagare Carolina per tutto il ben di Dio che ci aveva regalato. Non ci rimaneva altro tempo da perdere, dovevamo procurarci più fieno possibile. Non c’era altra soluzione, dovevamo fermarci. La parola fermarci non piaceva a nessuno di noi, ma adesso avevamo delle responsabilità e la nostra incoscienza non era abbastanza spavalda da far correre rischi inutili a chi non se li era ancora cercati. Ancora una volta la fortuna ci venne in aiuto. Ci mancava ancora un po’ il coraggio di mettere in pratica i saggi propositi che ci eravamo ripromessi quando proprio per caso capitammo di fronte ad una baita abbandonata. Era così bella nella sua semplicità che ci rese meno difficile concordare una pausa invernale col nostro grande viaggio. C’era un’unica stanza, occupata per metà da una lettiera con mangiatoia, nell’altra metà c’era un tavolino traballante e un camino così grande che ci si poteva entrare. Proprio quest’ultimo fu l’elemento che maggiormente ci fece apprezzare quella nostra prima casa. Era così bello che scaldava anche da spento. Quasi tutto il piano era sormontato da una specie di soppalco che una volta rinforzato sarebbe stato in grado di contenere tutte le scorte


di fieno che ci servivano. Tutt’intorno il paesaggio era così fantastico che non ti saresti stupito se fosse sbucata fuori all’improvviso Heidi, non in carne ed ossa, ma ancora cartone animato. Il paese non era troppo lontano ed in caso di necessità anche questo poteva tornare utile. Ci dividemmo i compiti: Carolina e Pidocchio si sarebbero occupati della casa e di iniziare ad accumulare legna, io avrei pensato al fieno. I lavori di pulizia, riassetto e decoro della casa procedevano celermente, io avevo qualche problema in più. Ero riuscito a recuperare una vecchia ranza, un po’ arrugginita, ma ancora col filo buono e avevo già tagliato tutta l’erba dei prati nel raggio di mezzo chilometro intorno alla nostra dimora. L’erba, nonostante la stagione avanzata, era ancora abbastanza buona, però le continue piogge non le davano il tempo di seccare e rischiava di marcire tutta. Io iniziavo a preoccuparmi. Confessai i miei timori a Carolina che mi disse: - Non ti preoccupare vedrai che troverai una soluzione. Lì per lì mi rincuorò, ma il mattino dopo ero ancora più angosciato. Decisi di scendere a valle per vedere se, per caso, qualcuno poteva vendermi quello che cercavo. Sarei stato disposto anche a lavorare per ottenerlo. Il destino però non volle controllare fino a che punto arrivava la mia determinazione e così fece in modo che sul bordo del sentiero, che conduceva in paese, trovai il corpo insanguinato di un uomo. Aveva perso conoscenza ma ancora respirava. Cercai di rianimarlo come meglio potei. Quando riaprì gli occhi lo tranquillizzai dicendogli che l’avrei trasportato in paese per farlo curare. Anziché calmarsi si agitò ancora di più. Tremava come una foglia, in paese c’era evidentemente qualcosa che lo spaventava. Me


lo caricai in spalla e decisi di portarlo a casa, su da noi. Carolina avrebbe saputo cosa fare. Era albanese. Gli avevano dato tredici coltellate. Noi gliene curammo dodici, per la tredicesima, quella dell’odio non ci potevamo fare niente. Ci impegnammo molto per rimettere in sesto quell’uomo, tralasciando anche cose di cui, il tempo tiranno, ci avrebbe chiesto il conto. Alla fine però ci potevamo considerare soddisfatti, avevamo trasformato un moribondo in un amico. Una sera infatti si accorse che ero teso e allora mi chiese: - Cosa ti preoccupa? – - Niente ho dei problemi con l’erba per l’inverno. – - Quanta erba ti serve? – - Eh almeno qualche quintale. – - Cavolo, se ti prendono chissà quante coltellate ti tirano. – - No, non ti preoccupare mi vogliono bene e anche se li deludessi mi perdonerebbero. – - Senti io ho ancora qualche amico giù in città. Oramai sto abbastanza bene e posso muovermi per cercare di vedere cosa posso fare per aiutarti. – - No dai, non ti preoccupare, davvero, in qualche modo farò. – Il giorno dopo Dritan era sparito. Un po’ eravamo dispiaciuti perché non ci aveva nemmeno salutati. Non ce la saremmo mai aspettata da lui una cosa del genere, ma ancora meno ci saremmo aspettati che sarebbe tornato, il giorno dopo, con cinque chili di erba albanese. - Mi dispiace che non è tutta quella che ti serviva però è molto buona, no ammoniaca. – Lo ringraziammo infinitamente. Poi si congedò da noi per tornare a curare la tredicesima ferita.


Come il più grande dei profeti dei bovini, trasformai cinque chili d’erba in cinquanta tonnellate di fieno. Quell’inverno nella valle pareva di essere in Giamaica. Dai camini di ogni casa usciva fumo denso con riflessi rossi gialli e neri. Avevamo molti amici ora e ogni tanto quando il tempo lo permetteva venivano a trovarci. Una sera Carolina mi disse: - E’ praticamente finita la stagione dei funghetti. Col freddo anche loro se ne stanno a fare la nanna. Forse è meglio così, perché non so se il fegato di nostro figlio li gradiva. Noi viviamo in una favola e quindi, qualche trucco per parlarci potremo sempre inventarcelo. – Poi fissandomi negli occhi in assoluto silenzio mi disse: - Ti amo. – Anche se nessuna onda si mosse quel messaggio mi raggiunse con la forza di un maremoto. - Per stasera posso ancora sentirti parlare?. – - Certo. – Urlò così forte, Carolina, che arrivò anche Pidocchio a vedere cosa succedeva. Chiacchierammo tantissimo. Volevo memorizzare il più possibile quella voce. Dovevamo decidere anche il nome del nascituro. Per accontentare tutti il verdetto fu: Tommaso se maschio, Alice se femmina. Prima di addormentarci Carolina fece delle raccomandazioni a Pidocchio, che stranamente le incassò senza commenti. Le ultime parole che mi disse furono: - Non ti preoccupare di niente. Se stiamo insieme la cosa peggiore che ci può capitare non succede. Anche tutti i giorni che seguirono, ogni volta che la guardavo, ero certo di sentire qulla frase ed ogni volta, mi dicevo che era vero.


Natale. Aveva nevicato in abbondanza. Tutto era bianco, tutto era puro. Il cielo notturno si era agghindato a festa e miliardi di stelle facevano a gara nel farsi notare. Per anni e anni, il loro semplice brillare era stato sufficiente per farsi ammirare, ma da qualche giorno una nuova star aveva invaso il loro palcoscenico. La cometa Hale-Bop era sulle nostre teste e il suo splendore rapiva tutti gli sguardi. Dal paese erano saliti molti pastori ed avevano portato i loro strumenti musicali. I bambini giocavano a palle di neve nel bianco spiazzo davanti alla nostra casa. Io ero uscito fuori a fumare una sigaretta ed ora mi gustavo quel quadretto dall’alto di una collinetta. In realtà era già il secondo pacchetto che mi fumavo e mi avevano cacciato fuori da casa perché, con la mia ansia, stavo facendo innervosire anche Carol. Era in buone mani, tutto era sotto controllo. Dei fantasmi di fumo uscivano dal camino ed una leggera brezza li portava verso di me. Io annusavo quell’aria e cercavo di interpretare dal profumo che sentivo, cosa stava succedendo dentro. Avevo tutti i canali che conducevano emozioni e sensazioni occupati, anche se fossi stato nudo non avrei potuto sentire freddo. Finalmente Pidocchio spalancò la porta ed uscì di corsa urlando il mio nome. I pastori iniziarono a suonare le loro zampogne, io per un attimo mi persi ad osservarli, poi guardai la cometa, poi la stalla ed infine pensai che anche io avevo accettato quella gravidanza solo per amore e con l’umiltà di chi si piega con gioia al volere del destino. Non mi sentivo più un caso unico, qualcuno ci era già passato.


Mandai un saluto al buon Santo, poi corsi come un pazzo per raggiungere Pidocchio e insieme rientrammo. Carolina era sdraiata comodamente sulla paglia, aveva il volto stanco ma sereno. A meno di un metro da lei, un torello caparbio, si cimentava con le prime difficoltà della vita, cercando di reggersi in piedi. Era ancora bagnato come un pulcino. Appena mi vide, come se sapesse già tutto, diresse i suoi incerti passi nella mia direzione. C’era altra gente lì presente, ma lui volle dedicare il suo primo viaggio proprio a me. Io e Tommaso, padre e figlio. Presi un asciugamano ed iniziai a pulirlo per bene, lui come per ringraziarmi mi leccava sbausciandomi completamente. Anche Pidocchio ricevette la sua dose di coccole. Ci addormentammo tutti uno sopra all’altro. Il nostro mondo aveva scoperto un nuovo continente. Tommaso aveva fretta di crescere. Ad appena due mesi pesava più di me. A tre mesi era già diventato un delinquente, d’altronde con un maestro come Pidocchio non ci si poteva aspettare altro. Passavano la maggior parte del tempo a giocare o ad andare in giro a combinare guai. Erano proprio amici e talvolta l’allievo sembrava superare il maestro. Un giorno, ricordo che mentre Pidocchio era entrato nella bottega a comprare un po’ di pane, Tommaso si mangiò tutta la frutta e la verdura della bancarella che era rimasta incustodita all’esterno dell’alimentari. Il negoziante lì per lì non se ne accorse ma dopo qualche ora ce lo trovammo fuori dalla nostra casa con un diavolo per capello. Nessuno in paese aveva dei dubbi su chi incolpare quando qualcosa di anomalo si verificava. Fortunatamente ci volevano tutti bene e allora anche le situazioni più complicate si appianavano con una bella bevuta.


La sera, ogni tanto, Pidocchio ci raccontava ancora qualche storia. - I sapienti del tempio si erano riuniti. La loro cultura era così grande che dovettero aprire le finestre. Tutto era pronto per poter discutere dei massimi misteri della vita con un fanciullo trasportato nella grande città dalla leggenda. L’unico bimbo al mondo allattato e cullato dalla saggezza. Prima ordinatamente, poi sempre più concitatamente, presero parola tutti i sapienti. Le loro frasi erano di piombo per il piccolo. Quelle parole erano così pesanti che cadevano a terra e alle sue minuscole orecchie giungevano solo dei tonfi. Gli anziani si accorsero che il bimbo non capiva nulla di quello che dicevano e cominciarono ad indisporsi. Un silenzio di tomba calò nella sala e tutti iniziarono a fissarlo con un certo disprezzo. Lui fece a tutti un grosso sorriso e poi volò via. – Un giorno me ne stavo beato a fumare una sigaretta in mezzo al prato quando Tommaso mi si avvicinò. Aveva uno sguardo strano e per la prima volta mi sentii dire: - Ciao papà! – La primavera era tornata. Spesso Carolina ed io ci trovammo a guardare Pidocchio e Tommaso che si rincorrevano, litigavano o semplicemente architettavano qualche nuova marachella. Dai loro corpi trasudava energia ed amore per il rischio. Spiandoli non potevamo fare a meno di sentirci un po’ più vecchi e per legittima difesa più innamorati. Era forse da questi sintomi che iniziavamo a sospettare che il nostro grande viaggio avrebbe preso un’altra forma di movimento.


Presente. Oggi abbiamo camminato tantissimo. Per la prima volta nella nostra vita abbiamo raggiunto una vetta. Dopo il primo anno passato in quella valle, Pidocchio e Tommaso fremevano perché riprendessimo il grande viaggio. Fino a poco tempo prima saremmo stati Carolina ed io i primi a smaniare per riprendere quello che avevamo interrotto. Molto probabilmente il fascino discreto della borghesia ci aveva adescato, ma era indiscutibile che anche quello stare fermi ci aveva insegnato parecchio. In più eravamo forse stufi di correre dietro a tutti i giorni che ci piovevano addosso, facendo quadrare il tutto in maniera che scomparissero. Come in un enorme tetris, quei cubi di tempo si accumulavano dentro di noi. Nei veloci progressi di Tommaso e nel lieve cambiamento di voce di Pidocchio, avevamo iniziato a capire che era vero che il tempo passava. Carolina, dopo il parto, assumeva sempre di più l’aspetto di una di quelle mamme che, anche se parlano poco, gli bastava un occhiata per leggerti dentro. Avevi la certezza che nei suoi silenzi c’erano tutte le risposte. Io oramai reggevo al massimo due sbronze alla settimana. La nostra pigrizia non era più quella scanzonata di una volta, era più fisiologica. Anche i nostri discorsi erano diversi. - Sai Carol, prima di incontrarti ci sono stati dei periodi in cui ho dovuto fare diversi lavori. Ad ogni assunzione, cambiavano i problemi che dovevi affrontare. All’inizio ero il più lento ed imbranato di tutti, perché avevo paura


di fare brutta figura ed allora prestavo attenzione a tutti i particolari, poi pian piano ho iniziato a capire quali cose erano meno importanti e quelle di cui addirittura potevo fregarmene completamente. Una volta creata una sorta di scala di valori, il lavoro diventava più semplice ed efficace. La vita deve essere più o meno così. Se mi guardo indietro, la cosa che mi infastidisce di più è tutto il tempo, l’ansia, l’angoscia e la rabbia che ho sprecato per delle cose che credevo delle cose fondamentali ed invece erano solo scemate. Già all’asilo, uno inizia a crearsi delle problematiche che sono pressanti e soffocanti più della fame nel mondo. Guarda solo che storie mi sono tirato quando tu mi hai detto di essere incinta. Sembra quasi che per vivere abbiamo bisogno di crearci delle menate, come quelle casalinghe che piangono perché sta male il protagonista di una telenovela. Forse dobbiamo tenere occupata la mente per non pensare alle cose veramente terribili. Ma possibile che uno proprio non riesca a vivere senza problemi? Credo che ripartire è un po’ come cambiare lavoro. Ci verrebbero sottoposti nuovi stimoli, belli o brutti che siano, per distrarci da chissà che cosa e per aggiornare ed ampliare la nostra scala di valori. – - Quando ancora non sapevo parlare, volevo vedere cosa c’era dietro quell’orizzonte che tappezzava la mia limitata esistenza. Fortuna volle che potessi scegliere se convivere con la paura di essere uccisa o di andare a soddisfare le mie curiosità. Camminai e poi ancora camminai, per scoprire che dietro un orizzonte c’è sempre un altro orizzonte carico di significati. Ho viaggiato come una assetata di nuovi panorami, ma poco


alla volta mi sono accorta di quanto era bello guardare quello spettacolo con qualcun altro. Gli occhi di chi ti sta a fianco sono fari che illuminano ancora di più quello che hai di fronte. In due la paura di non essere vivi scema, lasciando spazio alla paura di perdere quella luce che ti ha coinvolto a guardare in modo nuovo. Scopri la gioia delle certezze e non hai timore di affezionarti ad un orizzonte particolare soprattutto se ti rendi conto che non potrai raggiungerli tutti. Forse è solo pigrizia, ma a volte, per avere la serenità necessaria per fermarsi, basta sapere che camminando un po’ c’è sempre un nuovo orizzonte che ti aspetta. – - Vuoi dire che la nostra scala ha già alla sua base, per quello che siamo noi, sufficienti valori ed è il caso di alzarla qui in questo posto? Vuoi che smettiamo di cambiare lavoro ed iniziamo a fare carriera in questa vita? – - La nostra meta incarnava il nostro ideale di benessere. Siamo d’accordo tutti e due sul fatto che qui ci troviamo bene, quindi questa è la nostra India. Quando non sarà più così, ci sposteremo finché non troveremo un’altra India. – Questo, però, è un campo dove le esperienze dei genitori possono servire solo per far sentire meno soli i figli, quando forse anch’essi, percorrendo altre strade, arriveranno a questo punto della vita. Il giorno che partirono eravamo un po’ tristi, ma anche orgogliosi, di quella parte di noi che andava a portare a termine il grande viaggio. Promisero solennemente di farci avere loro notizie e infatti almeno una volta al mese ricevevamo una lettera.


Sono passati più di due anni da quel giorno. Questa mattina per la prima volta abbiamo ricevuto una lettera con un francobollo indiano. Per sentirci in qualche modo più vicini a loro, abbiamo deciso di andare a leggerla in un punto dove la vista ha tutto il tempo di sfuocarsi da sola prima di incontrare qualcosa che la limiti. “Cari mamma e papà, finalmente siamo arrivati in India. Per tutto il viaggio abbiamo incontrato gente strana, ma credo che qui davvero si superi ogni limite. Sono soli pochi giorni che siamo qui e dunque non posso ancora raccontarvi granché, ma sento nell’aria che c’è qualcosa di speciale in questa enorme nazione. Ah mamma, le mucche di qui saranno anche delle dee ma sono così magre che tu in confronto sei Buddha. Ieri Pidocchio ed io abbiamo combinato uno dei nostri soliti scherzi. Siamo riusciti a farci ricevere da un santone famoso. Pidocchio ha conquistato la sua fiducia facendo finta di andare in trance e poi ha iniziato a parlare con me. Dovevate vedere che faccia ha fatto il tipo quando ho risposto! Gli abbiamo raccontato un sacco di scemate. Pensate che poi a Pidocchio è venuto in mente di dirgli che le forze della natura volevano che cambiasse nome. Adesso tutti quelli che lo cercano non devono più chiedere di Sai Baba, ma di Mapo Capo! Appena ci ambientiamo un attimino vi riscriviamo e vi raccontiamo tutto più dettagliatamente. Per il momento dovrete accontentarvi di questa poesia che Pidocchio in piena crisi mistica vi ha dedicato, infatti si intitola. “Ciao vecchi.”.


Se ti stoni fino a perdere la testa e tutti te ne fanno una colpa, se non hai fiducia in te stesso e dubiti nella fiducia che gli altri hanno in se stessi, se ti girano le balle e ti inventi delle storie, se ti odiano e tu li odi ma riesci ad apparire più buono di loro, se ogni volta che hai un sogno fai un sacco di scemate per realizzarlo, se affronti il trionfo e consideri impostora la disfatta, se dici la verità per farne trappole per gli sciocchi, se tutto ciò che hai fatto lo perdi sempre giocando a testa e testa perché tu punti sempre su croce e perdendo bestemmi e mandi tutto e tutti al diavolo, se sai trovare un modo per non costringere il cuore e i nervi a lavorare, se sai parlare alle folle o ai Re in modo che né i nemici o i cari amici possano più ferirti, se nessuno conta per te e qualcuno troppo, se riesci a stare a far niente senza lamentarti


non avrai la Terra, solo qualcosa ma ciò che conta di più tu sei un Uomo e anche mio amico. P. S. Vi vogliamo bene e brindiamo con voi per l’ottima riuscita del grande viaggio. Anche questa volta sembra che tutto vada per il verso giusto. A me e Carolina rimane sempre un po’ il dubbio che non ci dicano proprio tutto, per evitare che ci preoccupiamo. Rileggiamo sempre le lettere anche venti volte, per cercare di scoprire tra le righe qualche indizio, che ci rassicuri o che ci dica di prendere le nostre cose e partire per l’India perché i nostri ragazzi hanno bisogno di noi. Questa volta ci illudiamo di intuire semplicemente che anche Pidocchio, dietro quel suo solito modo di descrivere le cose, stia iniziando a capire che siamo solo uomini e dobbiamo riconoscere ed accettare i nostri limiti. Un volta capito questo, possiamo solo migliorare, magari accettando che anche tutti gli altri sono solo uomini, Carolina compresa. Tutti con una vita che è un po’ come la nostra storia, all’inizio carica di energia e voglia di spaccare il mondo, poi piano piano stufi di aggiungere legna al fuoco, iniziamo a sfruttarlo magari per cucinare e intanto guardiamo dove vanno a bruciare i lapilli che da esso scaturiscono. E se è stato un gran fuoco, potremo più a lungo riposarci al caldo perché ha sotto tanta brace. Brace che basta un soffio per


farla riaccendere o brace che ti dà il calore per addormentarti, chiudendo la porta su cui c’è scritto: e vissero felici, contenti, arrabbiati, ancora illusi, cinici, nervosi, sereni, annoiati, innamorati... Come tutti insomma.

Se passate da queste parti non mancate di venirci a trovare. Non è difficile riconoscerci, siamo quelli che brindano al grande viaggio. Non è difficile trovarci basta seguire il suono dei bicchieri. Se vi perdete chiedete semplicemente dov’è l’India. O poi o molto poi ci raggiungerete.

Ho incontrato io in lunghe passeggiate per boschi e per monti. In lunghi silenzi mi ha raccontato questa storia.


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