questa e una maledetta fanzine anno 2015 n#1
REDAZ Ci siamo.
Il numero uno di Negazioni è qui su i vostri schermi, adesso fatene ciò che volete. Perché Negazioni non è solo la nostra fanzine, ma è di chiunque sia capace di cogliere il messaggio che questo progetto porta al suo interno. Negazioni nasce in un tempo diverso da questo, non adesso, non in questo modo. Negazioni vaga cercando una forma, un’identità. E la trova. Perché ciò che avete sotto gli occhi non è solo il frutto del nostro impegno, ma il risultato di cosa abbiamo deciso di essere, il nostro grido ad un mondo che troppe volte infila lame invisibili nelle orecchie di chi crede di ascoltare, negli occhi di chi crede di vedere. Di chi non prova nemmeno a parlare. In questo numero, si vuole dimostrare che non sempre “cambiamento” è sinonimo di “perdita”. Il cambiamento è un’occasione di crescita, ed azzardando una definizione più decisa, direi quasi di “rinascita”. E di rinascita si parlerà in questo numero, creando un filo conduttore che accomuni la maggior parte dei contenuti, elaborando un tema e delle linee guida che possano portare ad una definizio-
ne ben precisa della faccia rinnovata e sorprendentemente matura di Negazioni. La letteratura, in quanto espressione artistica dell’essere, è vita. E quando le parole fluiscono una dietro l’altra, senza intoppi o censure, senza la preoccupazione di sembrare proprio ciò che si ha voglia di essere, manifestando ciò che non si ha paura di dire. Ecco: è da qui che la letteratura tramuta in visione oggettiva del mondo, dipingendo una rappresentazione nuda e reale della vita. Questo numero uno non è un traguardo, ma una partenza. Da qui nasce un percorso che come lo spirito del Natale di Dickens, ci accompagnerà verso la realtà di tutti i giorni, percorrendo tutte le fasi che ognuno di noi affronterà, o ha già affrontato, nell’arco della propria esistenza. Di cosa stiamo parlando lo capirete meglio sfogliando le pagine di questa fanzine. Aprite gli occhi, digrignate i denti, e affacciatevi al mondo. Che la rinascita abbia inizio.
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vieni , usciamo. tempo e di rifiorire. - Gabriele D’Annunzio - Consolazione
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\\ CITAZIONE DEL MESE
Sopra una montagna di teschi, nel castello delle pene ho regnato su di un tron Cio che era si ripetera, cio che e, non esistera piu . Questa e la stagione del trion
Se non la cogliete, avete un livello di culturale pari ai discorsi in inglese di Renzi. Ma non disperate, potete rimediare gua Ghostbuster II, dove il cattivissimo “Vigo il carpatico� decide di risorgere dal Mondo dei Morti sfruttando un bambino co poreo. Un classicone intramontabile, insieme al primo, che insomma, parla sempre di morti che risorgono. - Matteo Libeccio
no di sangue. nfo del male.
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bio
Poeta, scrittore e pensatore, Enrico Marra è il profeta della decadenza morale. Allucinazioni fobiche e illuminanti versi di una realtà che cade. Un nulla universale che sa digerire tutto. Enrico Marra è l’arte di vivere non vivendo, di guardare non vedendo, di urlare scrivendo. Non scrive per chi non sa leggere, non ama bellezze indotte. Enrico è alla ricerca di una nuova lingua semantica per offendere le incrinazioni più ostiche della psiche umana.
Ecco sono un albero, tonnellate di legno di quercia per fare croci; e questi tarli sono sacrifici pagani: pago un pegno biblico al suicidio ciclico. Perché è umana questa rabbia distruttiva, è un biglietto caro per un treno senza ritorno. E non me ne frega un cazzo dei vostri sogni interrotti, dei troppi vetri rotti, dei bar di periferia, quelle sbornie; o le notti passate nell’incubo di non trovare una vena. E fanculo a quelli che passano, guardano, giudicano; è il prezzo da pagare con queste conseguenze care. Ma l’inconsapevolezza esiste persiste e ti spezza, aggiunge pregiudizi alla sorte e cerca la morte,la tua; è una vita di fango tra dolore e schizzi: una follia degenerante tra le spade e i vizi. È sangue sulla strada, pronti alla parata; una pera dedicata: il Diavolo veste Prada. Cosa vuoi fare; tu devi pagare il prezzo. Il tuo odio è il disprezzo del tuo abisso; i fuochi d’artificio esplodono nel cielo: e il maleficio regala fiori senza stelo. E non sei una persona, cosa strana, la sporca puttana loca senza casa; i virus ti consumano tutto dentro: ti colonizzano tra caso e caos. E si mischiano e riproducono in questa mescolanza idiota: della tua stolta vita vuota.
ale “Sp ssan d ecc hiet ra far to e f Allo lung dola ”
Qui, al centro del petto Avevo una ruota e un criceto. Sinuoso, come un serpente Ti sei fatto strada, Stringendo colle tue spire lievi. Quel che confusi con un abbraccio Mi tenne con le mani in tasca E il tepore de i fiati Mi portò via le scarpe. Nascosto dietro un reticolo Di parole da pazzo mite Tu, l’indiano di campagna, Hai sollevato lo scalpo E poi ne hai perso il gusto. Tu, fiutando altri affari Mi hai spacciata per morta E se mi guardi bene Adesso Lo sono davvero.
Bio
Nel 2013 collabora con altri autori del Nucleo Negazioni alla realizzazione di “Nagasaki Luna Park “, quattordici racconti che provengono da quell’inferno chiamato realtà (Edizioni La Gru) alla raccolta ” Le Negazioni, 36 pezzi” (NullaDie Edizioni), all’e-book ” I ragazzi non vogliono smettere” di Matisklo Edizioni con una sua poesia, e all’antologia di racconti “El Lobo” Carrascosa, Edizioni Caracò. Partecipa alla raccolta “Guadagnare soldi dal Caos” (Edizioni La Gru) un volume di poesia e anarchia compositiva.
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bio
Gervaso Curtis, nato il 20 dicembre 1979 a Salerno. Nel 2012 ha pubblicato “Notti & Deliri” con Arduino Sacco Editore. Nel 2013 alcune sue poesie sono state pubblicate da Nulla Die edizioni e Matisklo edizioni. È stato uno dei gestori della Fanzine “Negazioni”. Nel novembre 2014 ha pubblicato un racconto con David and Matthaus edizioni. A gennaio 2015 ha pubblicato il romanzo “La Lampada del Grilletto” con Opposto edizioni. Combatte l’editoria a pagamento per favorire la cultura.
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Tu non sei il tormento dei miei occhi bassi che osservano pasti freddi su tavole cigolanti come i freni della mia vita Tu non sei l’usura della gioia che ancora ricordo su materassi duri come i pani delle famiglie povere Tu non sei lo sgomento dei derubati che si ritrovano la casa vuota e bruciano su una fiamma di un cero senza paraffina Tu non sei l’intonaco che cade dalle pareti dell’interrato come foglie in autunno ma ora ti sto perdendo e non dimentico mai di portare con me i miei occhi bassi che osservano pasti freddi su tavole cigolanti come i freni della mia vita che avanza in una strada buia
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Avevi la pronuncia esatta del PERCHÉ così chiusa e serrata nel tuo manuale lunare di una realtà stravolta e non importavano i tuoi o i miei capelli cosa decidessero di fare ma vedevo soltanto estranei uscirsene nel buio di qualche umida foglia vomitata e potevo offrirti solo stomaco e sincerità e non pregavo per nessun cielo acceso così grande da contenere il cavallo l’asino e il maiale quello che dovevo fare era contare i passi e sentire la fitta della tua pronuncia sola e triste nella puzza schizofrenica di un’alba da impiegati. Contare i passi con la tua paura che ti strangolassero nel sonno sul tuo tatuato scempio marchiato a fondo anima e le lacrime imprigionate nel tuo coito. Prestare attenzione e lasciar scorrere: anche le pietre hanno karma: individuarne i segni, anche di notte.
Bio
Andrea Labate è nato in un piccolo paese valtellinese, ventisette anni fa. La Beat Generation gli ha fatto toccare un mondo che pensava esistesse solo sotto la polvere accademica, gli ha fatto capire cosa può voler dire sentirsi vivi. Da qui ha iniziato a muovere i primi passi. Numerosi testi sono usciti per fanzine autoprodotte, riviste underground (Le tre piume, DeComporre edizioni, Pentelite, Pastiche Rivista) e per concorsi (uno su tutti per Fara editore). Tiene a mente l’insegnamento prezioso, uno dei tanti, di un amico poeta, Gianni Milano (padre fondatore della poesia underground italiana): “Sempre per strada, commosso d’esserci ma sempre in cammino”.
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la carta n La Cirenaica non è stato soltanto un insediamento etrusco, non è soltanto un rione di Bologna, ma oltre ad essere stata e ad essere, sarà il rione che ospiterà la reinvenzione di uno spazio che non ha mai davvero conosciuto il suo ciclo vitale. Figlio bastardo che allo stesso modo in cui è stato messo al mondo, dopo essere stato utilizzato per un breve periodo, è stato abbandonato, declassato, ignorato, a favore della costruzione di strutture ex novo, anch’esse probabilmente destinate a diventare scheletri, carcasse, senza vita né contenuto vista la tendenza dell’architettura moderna. Dieci artisti che si propongono di riportare alla vita non solo l’edificio, ma anche l’identità e la psiche di tutto ciò che lo circonda, quindi di farlo diventare una metonimia nel cuore di San Silvestro, una parte per descrivere il tutto. L’arte sarà la grande protagonista. Essa diventerà partecipazione, diventerà spirito, diventerà memoria. Materiale pittorico, scultoreo ed elettronico si faranno portavoce della multietnicità del quartiere. Keita Francesco Nakasone, presentatore del progetto, realizzerà ritratti con gli abitanti del quartiere in scala e si farà offrire del materiale di varia natura che utilizzerà per completare opere pittoriche, a dimostrazione di come oggetti apparentemente insignificanti possano diventare vita e testimonianza. Letizia Binda Partensky, proietterà il video di una danza performativa. Nicola Amato, con un’installazione interattiva, ricostruirà
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una parte della mappa di Bologna, mettendo in evidenza i luoghi dismessi e utilizzando materiale raccolto nel luogo reale. Lo spettatore verrà catapultato nella realtà del luogo camminando sulle macerie e ascoltando voci delle testimonianze reali di tutti coloro che hanno visto crescere questo spazio. Ecco come un luogo può rinascere nel frastuono urbano di una città sempre più frenetica. Per un attimo sarà l’arte a rallentare questo processo che ormai ha invaso il mondo inghiottendolo in un vortice di abbandono e degrado.
non basta - a cura di Livio Spanò
foto di: Evandro Pierdomenico
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il menu del mese propone - 11 GENNAIO \\ di Gino Panariello - ORE UNDICIEDICIOTTO \\ di Andrea Borrelli - SPAZZOLINO E DENTIFRICIO \\ di Nicola Cudemo - KLIMT ERA UN FIGLIO DI PUTTANA \\ di Andrea Folco Lasdo - ESTER E I SUOI AMICI \\ di Adalgisa Marrocco - E LUCE FU (FOLLIA D’AMORE) \\ di Alessandra Piccoli - IL RINATO \\ di Andreas Finottis
BUON APPETITO...
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gino panariello 11 Gennaio 1995 Quella giornata di merda era iniziata alle cinque del mattino coi carabinieri che bussavano alla mia porta e finiva con un agente di custodia che mi consegnava il “corredo”. Coperta, posate, un cuscino in spugna e carta igienica. Avevo ventisei anni e secondo le indagini appartenevo ad una “organizzazione criminale dedita al traffico e allo spaccio di cocaina operante a Milano”. Buffo. Ero sempre stato un balordo e una volta salito a Milano deciso a lasciarmi alle spalle le serate nei bar del Medio Volturno, tra sbronze ed eroina, venivo arrestato su due piedi. Tra l’altro per una faccenda grossa (2,8kg di cocaina pura al novantacinque percento) che, anche volendo, non avrei mai avuto la capacità di mettere in piedi. Tuttavia facevo ancora affidamento sulla “competenza degli inquirenti “ trascurando però un piccolo particolare: anche loro sapevano giocare sporco. Assolutamente certo della mia totale estraneità ai fatti, quei signori avevano deciso di far leva sulla paura di chi non c’entrava nulla ma poteva in qualche modo “essere a conoscenza” di determinate cose, pur non avendone preso parte attiva, spingendomi a “testimoniare” o “collaborare” paventando la possibilità di pene severissime in caso contrario. Così eccomi qua, con la mia “dote” tra le braccia e l’agente che mi faceva strada. Quando aprì la porta vidi quattro tizi seduti ad un tavolo che giocavano a carte. «Buonasera» dissi. Sentii la porta richiudersi alle mie spalle e lo scatto della chiave. Uno dei quattro tizi si alzò, mi prese tutto l’armamentario e lo posò sul tavolo, poi disse qualcosa in slavo agli altri che subito si alzarono ed iniziarono a preparare quella che doveva essere la mia branda. Andai in panico, non capivo perché lo facessero ma ringraziai, erano molto gentili ma non ce n’era bisogno, avrei fatto da me. Quello che si era presentato per primo si fermò e mi guardò. «È la prima volta che ti blindano, vero?» Mi spiegò che le cose funzionano così al gabbio, ai nuovi arrivati si prepara la branda. Quella notte non dormii granché, mi svegliò un agente urlando il mio nome attraverso la porta,
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ordinandomi di seguirlo. Quando chiesi di cosa si trattasse bofonchiò qualcosa a proposito di “magistrato” e “interrogatorio” senza neanche voltarsi. L’interrogatorio durò dieci minuti finché il magistrato - una donna che non alzava mai lo sguardo dal fascicolo - fece segno alla guardia di portarmi via, agitando la mano come quando si scaccia una mosca. Dopo due ore ero ancora in “sala d’attesa” e aspettavo di essere riportato nella mia cella. Iniziai a pensare che mi avessero dimenticato lì, avevo freddo, decisi di bussare alla porta blindata. «Cosa cazzo hai da bussare? Cosa cazzo vuoi? Devi stare a cuccia pezzo di merda, da qui esci solo quando lo dico io, chiaro?» L’agente appoggiò la sua faccia contro la mia continuando ad insultarmi. Guardai a terra senza fiatare aspettando da un momento all’altro una testata che non arrivava mai. La sensazione che provi un istante prima di sentire il dolore è insostenibile se dura un po’ più a lungo. Arrivi a desiderarlo quel dolore. Lo vuoi fino a sanguinare. Desideri smettere di tenderti fino allo spasimo mentre il respiro non ti concede l’aria. L’agente aveva gli occhi rossi, delle chiazze di barba mal rasata e l’alito pesante. Poi mi spintonò contro il muro. «Sta a cuccia» disse. Da allora più nessuno ha avvicinato così tanto la sua faccia alla mia senza subirne qualche conseguenza. E poi ricordo tutto quel camminare compulsivo. Si scendeva in un cortile di venti metri per dieci e lo si percorreva avanti indietro infinite volte. Vista dal di fuori una cosa simile appare grottesca, buffa, ma una volta che ci sei dentro comprendi che quella è l’unica via di fuga che ti viene concessa e ne cogli comunque tutto l’assurdo, insano significato. Impari in fretta che in qualsiasi posto tu vada troverai sempre quello che pensa ad imporre il suo stato di potere. Per quanto esso sia limitato da quattro mura e meschinità di ogni genere, ci sarà sempre chi se ne farà affascinare e comincerà a lavorarci, alleandosi con chi teme e azzannando chi ritiene più debole, per l’aspetto o per i modi. Io malgrado tutto, sono sempre stato una persona affabile e quand’ero più giovane, anche un timido.
Evidentemente Gedjo (un detenuto serbo con cui condividevo la cella) scambiò la mia gentilezza e la mia disponibilità per debolezza o per paura. Fatto sta che dopo una settimana, all’arrivo di un suo connazionale si sentì finalmente in maggioranza e una sera iniziò a sbraitarmi contro perché ero davanti al cancello della “ stanza” (aspettavo il carrello del refettorio con la cena) e avrei dovuto togliermi dai coglioni «Italiano di merda, chi cazzo ti credi di essere?» Ci rimasi talmente male che lì per lì non reagii. Fu un grosso errore, me ne resi conto subito. È così naturale se ci rifletti. I cani si annusano il culo per capire chi è il più forte, digrignano i denti, ringhiano. Anche gli uomini adottano la stessa metodologia.Una mattina dovevo presentarmi al colloquio coi parenti, chiamai ad alta voce l’agente. Gedjo cominciò ad insultarmi, allora capii. Capii che non potevo subire ancora. Mi misi a distanza utile in modo da poterlo calciare in faccia se avesse provato a scendere dalla branda. Poi lo chiamai “pezzo di merda”. Decisi di tastare il terreno. Mi fissò confuso, disorientato. Non scese dalla branda. «Ti ammazzo, un qualche giorno ti ammazzo.» rispose a denti stretti. Lo mandai a farsi fottere. Quando tornai dal colloquio, mentre gli altri erano all’aria mi procurai un pezzo di vetro rompendolo da uno specchietto incollato al muro. Ci sono quelli che si succhiano il pollice, quelli che si carezzano il naso. Io per sentirmi al sicuro mettevo la mano nella tasca dei pantaloni e toccavo il mio triangolino di vetro. La faccenda ebbe il suo epilogo una sera in cui tutti e quattro i miei “coinquilini” giocavano a carte, si fece tardi ed io chiesi di spegnere la luce. Ovviamente il serbo rispose come immaginavo. A quel punto scesi dalla branda. Avevo il triangolino di vetro nella tasca della tuta che usavo come pigiama, e la mano in quella tasca. E avevo anche paura, una gran paura. Loro erano quattro. Due serbi e due croati e non sapevo come avrebbero reagito, quale posizione avrebbero preso. Sarebbero rimasti neutrali? Mi piazzai di fronte a lui. «Io adesso vado a pisciare, quando esco di qui la luce deve essere spenta» dissi con calma. «Vaffanculo italiano di merda! Io ti ammazzo!» urlò senza alzarsi dalla branda. Andai a pisciare, ero terrorizzato. Pregai che avessero spento la luce. Uscii. Avevano fatto una sorta di separé attaccando una coperta a mo’ di tenda a soffitto in modo da filtrare la luce elettrica. Quello che mi aveva dato il benvenuto preparandomi la branda mi disse «Ok Gino, lasciaci almeno finire la partita, tanto la luce non dà fastidio ora. Prendi anche qualche sigaretta.» Guardai la mia mensola, c’erano una decina di Alfa senza filtro. Gli altri avevano capito ed avevano trovato un compromesso per tutti. Accettai senza
discutere oltre. I piantoni di guardia quasi sicuramente dormivano e se fosse successo qualcosa mi avrebbero tirato fuori da quel buco troppo tardi. Dopo due giorni riuscii a farmi trasferire in una cella di napoletani che avevo conosciuto al “passeggio”, durante l’ora d’aria. Raccontai a Salvatore com’erano andate le cose - un cinquantenne azzoppato in gioventù da una gambizzazione, con la schiena arata da vecchie cicatrici di coltellate. Lui annuì, senza dir nulla. Da quel giorno Gedjo non scese più al passeggio. Io fui scarcerato tre mesi dopo, assolto per non aver commesso il fatto. Per due anni non sono riuscito a stare in stanze chiuse senza camminare avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro.
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Gino Panariello nasce nel 1968 in Svizzera da migranti italiani. Da allora la sua principale occupazione è cambiare casa e tipologia di guai .Vive a Milano ma sta di nuovo pensando di scappare .
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andrea borrelli Ore Undiciediciotto Ho visto l’orologio appeso al muro e penso che sia ancora presto, ma c’è una spaccatura nello stomaco che si trascina dalla milza al pancreas, penso quasi che non ce la farò neanche a raggiungere la porta. L’entrata è su un piccolo disimpegno coperto di specchi che mi guardano, si fissano sulle occhiaie color rosanero e gli occhi pieni di piccolissime venuzze che sembra stiano per trasbordare. Apro la porticina e mi chiudo dentro. Non ce la faccio più a trattenere e caccio via tutto, mi tengo a debita distanza ma lo centro in pieno, non sembra più sporco di casa mia e quasi mi appoggio. Il risultato è una cascata di tempera rossa, densa, il risultato delle precedenti tre bottiglie di rosso, l’attesa prima di venire qui con Darjan, l’amico della Transilvania. Il colore mi fa pensare a questo. A lui che probabilmente ho lasciato da solo e mi sta aspettando, con gli altri, i ragazzi che lavorano. Almeno oggi le pizzerie sono chiuse, e io e lui non facciamo niente. Tiro velocemente lo scarico. Prendo della carta e pulisco accuratamente i bordi, più di una volta, diventando quasi compulsivo in quel gesto. Ne saranno passati dieci o forse quindici. La prima cosa che faccio allora, è contare, in continuazione, a ripetizione, cercando di fare il più velocemente possibile, mi slaccio i pantaloni e mi siedo. Continuo a contare, quando vedo che tendo ad accelerare un po’ il ritmo poi freno di colpo, rallento troppo ma ricomincio di nuovo. È andata, ho quasi finito, forse sono riuscito anche prima del previsto, cerco di ripulirmi un po’ e di fretta, mi alzo i pantaloni fino sotto lo scroto, guardo giù, sono completamente ubriaco e non capisco niente. Tutte quelle minigonne e tacchi, canotte e seni, capelli lunghi profumati e sorrisi colorati. Mi massaggio e mi rilasso un po’ con la testa all’indietro, non conto più, c’è tempo e farò ancora prima. L’alcol mi ha distrutto prima e dopo ancora peggio, quando mi sono visto circondato da bottiglie di bianco frizzante servite su una cena di pesce, l’inappetenza di qualcosa che non ho mai mangiato mi aveva infastidito e
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avevo scelto di colmare col vino. Ora mi masturbo e penso di volermi fare una canna. Apro gli occhi e vedo la merda, li chiudo di nuovo e continuo. Continuo a massaggiarmi sotto le palle con una mano e sfregare con l’altra. Il ritmo lo conosco, me lo sono scelto io. E posso sognare con una musica di sottofondo, disegnare curve, tunnel, aste lunghe su trampoli d’oro col tacco sottile, scarpe aperte che si possano vedere le dita sottili. Riapro gli occhi mentre sta cadendo, su quel chiasso di palline e liquami marroni, non faccio neanche in tempo e butto giù di nuovo l’acqua. Riprendo a contare e segno altri cinque minuti perché sono buono. Devo farmi una canna, voglio accenderla al momento giusto. Bussano. Rispondo che è occupato e penso che sia passato ancora meno tempo se questo è il primo che è passato. Prendo tutto l’occorrente, ho le mani sudate e mi si appiccica tutto, la cartina è mezza stropicciata nel taschino dentro la grande tasca destra del pantalone e il pezzo nella bustina dentro al pacco di sigarette quasi finito. Cerco di accelerare e fare il prima possibile ma tabacco e poltiglia mi rimangono attaccati alla mano. Sento dei botti, fortissimi, la musica ancora più alta e quando cerco di girarla ormai, mi cade tutta nel cesso. Rimango lì fermo senza crederci. A questo punto non arriverà più nessuno. Tiro giù la tavoletta e il copri water, mi siedo e me ne preparo un’altra con calma mentre fuori è un tripudio di grida, urla e scoppi vari, da qui dietro potrebbe anche sembrare la colonna sonora di un film di guerra. Mi metto ad immaginare il contrario. Guardo Apocalypse Now con le risatine finte che si usano in quei programmi alla televisione. Ormai tempo è passato, non serve a niente contare da ora, dall’inizio. Faccio scattare la serratura da seduto e solo dopo mi alzo. Sento la musica più forte e un appannarsi di mani nell’aria, le vedo dai vetri della porta. Li avevo lasciati tutti seduti a chiacchierare, ridere e bere strusciando i culi scalpitanti sulle loro sedie, passo tra la folla come fossi un fantasma, l’euforia, i baci, gli abbracci, i tuoni e i fulmini sono passati. Ora non conta più niente, io non conto più
niente. Anche quelli che conosco sembrano strizzarmi l’occhiolino, continuare a lavorare facendo finti sorrisi in scarpe scomode per vedersi pagata una tripla. Una paga triplicata per via dell’evento organizzato per le festività. È finito un altro anno. Penso che ho evitato un sacco di bava sulle guance, sudore di mani e magliette. Saluto tutti come se li avessi stretti a me fino a poco prima, con la convinzione che si siano dimenticati di me e la sicurezza data loro dai miei sorrisi, che invece c’ero anch’io. Solo il barman, mi si avvicina e mi fa gli auguri, io non li ho dati a nessuno perché non mi sono fermato un attimo, mi dice. Io alzo le spalle e penso che sono qui proprio per festeggiare con lui, un mio amico. Mi passa un mojito e io dico che l’aspetto fuori quando può staccarsi un minuto mentre Darjan mi si avvicina e mi guarda come se fossi resuscitato, all’orecchio mi chiede se mi sono sparato una sega in bagno e io sorrido per scappare fuori. Voglio accendere e farmi due sorsi. Sono le dodici e diciotto quando vedo l’orologio e io senza volerlo sono riuscito a passare l’anno.
bio Andrea Borrelli nato in un mese caldo di un anno qualunque. Con il collettivo Nucleo Negazioni dal 2013, partecipa a varie raccolte di poesie e racconti. Diplomato al liceo classico lavora nel settore immobiliare. Sogna ogni giorno di poter cominciare a scrivere.
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nicola cudemo Spazzolino e dentifricio Questa mattina ho aperto la confezione di un nuovo spazzolino. Ho asciugato per bene il vecchio, e l’ho messo nel borsone degli usati. Non li butto, anche se sono molto consumati. Gli spazzolini servono. Spazzolini, dentifrici, collutori e scovolini interdentali. Ma soprattutto, spazzolini. Manuali, a motore, a ricarica solare, li possiedo tutti, e li uso sempre. Una carie, sarebbe terribile. Debilitante. Un dente che marcisca in bocca. Le uniche opzioni, una automutilazione dolorosissima e dagli esiti incerti, o un colpo in testa. Solo che il suicidio per mal di denti non è una opzione percorribile. Tanto più che potrei sempre fare razzia di antidolorifici. Aspettiamo qualcosa di più serio. Il tempo è stupendo, temperatura e luce dalle finestre spalancate dell’attico. Le mie stanze allegre, alla luce del sole. Vorrei che ci fosse sempre. Il sole, dico. La notte è deprimente, anche se c’è il mio gregge a tenermi compagnia, ad aggirarsi lamentoso al pianoterra. Ho fatto colazione, cereali e semi, poi ho preso il nuovo spazzolino e mi sono lavato i denti. A lungo. Ho smesso quando hanno cominciato a sanguinarmi le gengive. Devo controllarmi, anche le gengive sono importanti. Esco sul terrazzo e ramazzo tutte le bottiglie di birra della notte prima. Le butto giù dal lato est del palazzo, il lato che da sulla rampa di accesso ai garage sotterranei. La spazzatura non è più una seccatura. Tolgo piatti sporchi dal tavolino. Riporto dentro la tastiera Kentron e l’amplificatore Fender. Non che io sappia suonare, uso le sezioni ritmiche della tastiera, per dare tono alle mie bevute serali. Prima usavo la musica, ma non andava bene. Troppo coinvolgente. Mi seccava, mettermi sempre a piangere, alla quarta birra. Il loop sincopato dell’elettronica va meglio, mentre me ne sto stravaccato sulla poltrona, in terrazzo, a guardare la città buia e a cercare di stordirmi a birra e a contrappunti di bassi. Devo rinnovare le scorte. Cibo e bevande. Faccio scendere il cestello del montacarichi a piano terra. Guardo giù e vedo il mio gregge che comincia a radunarsi lento intorno ad esso. Sanno che quando arriva, dopo un po’ arrivo pure io. Sono sempre più veloci. Migliorano ogni giorno che passa. Mi infilo il Mossberg sulle spalle e mi allaccio la fondina con la 45
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alla coscia. Faccio scendere la passerella che collega il mio terrazzo con quello accanto, sul lato nord. Attraversarla non è un problema, facevo arrampicata libera, le vertigini non sono contemplate. E comunque, me ne frega poco. La passerella l’ho costruita io, in profilato d’alluminio e corda. Ho anche fatto saltare le scale con delle micro cariche trapanate nel cemento armato e liberato gli appartamenti sottostanti dai cadaveri degli inquilini preesistenti. I pochi nella fase terminale li ho spazzati via con il Mossberg. Così, adesso, sono l’unico abitante del mio castello, comprensivo di ponte levatoio del cazzo. Raggiungo la superficie e carico due bidoni di gasolio nel cesto del monta carichi. Il gruppo elettrogeno super-silenziato che ho installato nell’appartamento sotto l’attico è quasi a secco. Il gregge si è avvicinato, nel frattempo. Puzzano come capre stagionate e girano gli occhi alla maniera degli autisti, senza mai guardarti, ma sono contento di vederli arrivare con il loro passo strascicato. Si riuniscono tutti attorno a me ed io li esamino per vedere se sono in buone condizioni. Pare che nessuno si sia mutilato accidentalmente, nel corso della notte. Hanno solo la solita collezione di graffi freschi e sanguinanti. Ormai non succede quasi più che si facciano male seriamente. Stanno migliorando. Un po’ di tempo fa, gli ho tolto di dosso i pochi stracci sbrindellati che pendevano dai corpi emaciati. Poi, aiutato da dosi massicce di sonnifero, gli ho messo addosso giacchetti e pantaloni di cuoio presi da un negozio di abbigliamento di sicurezza. I pantaloni li ho tagliati avanti e dietro, perché altrimenti evacuerebbero dentro, e ho riattaccato i lembi solo sulla parte superiore, così adesso sembrano un gruppetto di scalcinati indiani Iowa. Sono in quattordici, otto femmine e sei maschi. Mentre li sto ancora esaminando, mi sento toccare sul braccio destro. Mi giro e vedo che una delle femmine, la più alta, mi ha messo una mano sul braccio. Le do un ceffone violento a mano aperta sul viso. Mentre indietreggia e cade le urlo dietro «Fottuta zombie del cazzo, non devi toccarmi !Hai capito ? Non devi toccarmi!» Le do un paio di calci e mi incammino infuriato per il viale. Non sopporto che mi tocchino. Li sento che camminano dietro di me. Ormai riescono quasi a stare al mio passo. Li porto al supermercato, dove carico su un carrello scatolame, confezioni di birra e cereali. Poi vado alla mangiatoia, che
è il banco dei formaggi che ho svuotato, e mescolo insieme cous cous precotto e scatole di cibo per cani e gatti. Mentre il gregge mangia, giro per gli scaffali, e mi scelgo qualche spazzolino e un paio di bottiglie di rum. Questo supermercato è quasi andato. Ormai sono rimasti pochi spazzolini. Fra un po’ me ne sceglierò un altro. Torno di là e vedo che il gregge ha quasi finito. Mentre spazzolano via gli ultimi resti di cibo, apro una delle bottiglie di rum e tiro due lunghi sorsi. Di solito, non bevo mai la mattina. Di solito. Solo che adesso mi serve il rum per attutire i ricordi. La mano della femmina sul mio braccio li ha risvegliati. Ricordi di prima, ricordi dei giorni del virus, con le orde dementi che sciamavano per la città, ricordi di me alla postazione di tiro sul terrazzo, che facevo surriscaldare la canna del TikkaT3 Tactical in una frenesia di uccisioni. Alla fine, la radio aveva taciuto, niente più ordini, niente più di niente. Bevo un altro paio di sorsi. Il gregge si è di nuovo radunato intorno a me. Offuscato dal rum, gli dico «Mi dispiace. Mi dispiace. Non sapevamo che la fase maniacale sarebbe passata presto, che saremmo rimasti pochi immuni a guardarvi morire a milioni.» Mi avvio barcollando, prima che a qualcuno di loro venga di nuovo in mente di toccarmi. Spingo il carrello sulla strada del ritorno. Carico tutto sul cesto del montacarichi e prendo la bici dalla rimessa. Ho bevuto troppo a stomaco vuoto, mi verrà un mal di testa feroce, ma devo fare il giro della frutta e verdura. Sono necessarie, prevengono la carie e i problemi di intestino. In giro per la città ci sono orti botanici, alberi da frutta ornamentali che ora hanno un altro valore. Poi c’è il parco, dove posso prendere la verdura spontanea. Quando mi avvio con la bici, il gregge resta fermo a guardarmi. Ormai capiscono quando possono venire insieme e quando no. Pedalare mi fa bene. Mi dedico al semplice piacere fisico sotto il sole mite. Durante il raccolto, passo nei pressi della zona abitativa di un altro immune. Non vedo segni di attività di alcun genere. Non so neanche se sia ancora vivo. Alla fine del mio giro, passo dal piazzale della stazione, dove, in mezzo al parcheggio vuoto degli autobus, trovo una sorpresa. Una stazione di rilevamento dati. Almeno, penso sia quella, la sua funzione. È una specie di scatolone metallico con un anemometro, prese d’aria varie, antenne, scomparti trasparenti con recipienti di coltura. Sono maledettamente sicuro che l’ultima volta che sono passato di lì lo scatolone non c’era. Mi mette addosso una strana euforia. Sa di organizzazione, sa di tentativi e di ripresa. Penso di lasciare un biglietto, poi penso che è meglio non interferire. Me ne torno a casa fischiettando. Passo il pomeriggio a sistemare un po’ di cose che rimandavo da tanto tempo. Quando il sole sta per tramontare, do da mangiare al gregge, e salgo. La sera, mi organizzo una festicciola a base di rum e di tiri di precisione con il Tikka. Alla fine del viale ho posizionato dei palloncini con dietro delle candele accese. Sono delle specie di ceri protetti, a lunga durata. Mi esibisco in una serie di tiri sempre più spericolati,
man mano che diminuisce il rum nella bottiglia. Alla fine tiro senza appoggio, e ridacchio ad ogni bersaglio mancato. Poi, mi addormento sulla poltrona. La mattina dopo, mi lavo i denti più sbrigativamente del solito. Sono ansioso di scendere, e di andare a vedere la stazione di rilevamento. Penso che questa volta lo lascerò, il biglietto. Discreto, lontano, con un segnale per attirare l’attenzione. Sto ancora pensando al biglietto, quando sbuco sul piazzale dove mi sta aspettando il gregge. Mi fermo di botto. Stanno intorno a due figure in tenuta bianca stagna da laboratorio di contenimento, con vistose maschere antigas. I miei cercano di circondarli, e loro indietreggiano nervosi. Imbracciano degli AR 15, ed io corro verso di loro e li chiamo, perché’ non voglio che facciano del male al gregge. Loro si girano di scatto, e uno dei due inciampa e lascia partire una raffica. L’altro perde il controllo e mi tira addosso. Sento l’impatto di un proiettile in una gamba, mentre vedo due maschi e una femmina del gregge che cadono sotto i colpi. I miei automatismi prendono il sopravvento e mi tuffo in scivolata estraendo il Mossberg e tirando due colpi che scaraventano indietro i due in tenuta bianca. Mentre cerco di radunare il gregge per portarlo via, arrivano altri tizi in tenuta stagna. Sono troppo lontani per il Mossberg, così estraggo la 45. Loro abbattono altri quattro dei miei, io tiro e abbatto due di loro, gridando come un ossesso, vuoto il caricatore e lo lascio cadere. Mentre cerco di inserire il nuovo, tre colpi mi raggiungono al torace e cado in ginocchio. Mi guardo intorno, sono in mezzo ai corpi del gregge. Lascio cadere la pistola, sento le lacrime che escono, poi non sento più niente.
bio
Nicola Cudemo nato l’otto ottobre del 1956, diploma di liceo classico, laurea in lingue e letterature straniere, lavora nel campo informatico, vive a Corato (BA).
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andre folco lasdo Klimt era un figlio di puttana Le tre età della donna, quel dipinto di Klimt che simboleggia le tre fasi della donna: infanzia, maternità, vecchiaia. Mi viene in mente ‘sta cosa mentre sto guidando senza una meta, senza un appuntamento, senza il formicolio sottopelle delle ore contate. Succede così. Il cervello si apre come un mazzo di carte e ne pesca una a caso. Allora pesca la carta della musica all’autoradio e quella porzione di materia grigia ascolta una certa sinfonia, smanetta sulle stazioni, canticchia qualcosa. Ne pesca un’altra e sulla carta ci sono delle mani che reggono un volante, che mettono la freccia, scalano le marce, e allora quest’altra fetta di pensiero viaggia in routine, fa sì che la meccanica del corpo compia azioni e gesti abituali. La terza carta è quella di Gustav Klimt, appunto. Poi la macchina si ferma, la chiave stacca il collegamento, il piede s’alza dal pedale della frizione. Mi guardo in giro. Piazzale di cemento, zona mai vista prima, bar di periferia, entro. Dritto davanti a me il bancone. Legno chiaro con lastra di marmo unto. Parcheggio i gomiti sopra e aspetto. Alla mia destra un tavolino. Due giovani seduti, poco meno o poco più di vent’anni, si baciano tre volte ogni due secondi. Alla mia sinistra altro tavolo. Quattro anziani che giocano a carte. Giocano a briscola. Asso, 3, re, cavallo, donna, 7, 6, 5, 4, 2. Arriva una tizia, mi chiede cosa voglio, dico un caffè e quella si dà da fare. Eccomi qua, le tre età di Gustav in chiave osteria di passaggio. Giovinetti, uomo maturo, anziani. Stacco un orecchio alla bustina dello zucchero e comincio a girare il cucchiaino. E mentre il cucchiaino gira, gira pure il ramaiolo del Tempo sul calderone coi nostri resti. Mi metto a curiosare ora da una parte ora dall’altra. Un po’ come se guardassi una partita di tennis, solo che la palla è fatta con la pelle della morte e la rete divisoria sono io. O almeno è così che mi sento. I giovinetti sono belli. Tutto è bello alla mia destra. Bella è la loro faccina fresca, belle le loro bocche rosse che giocano a indiani e cowboy. Belli sono i capelli. Folti e puliti. Belli i vestiti, coi colori sgargianti di Klimt che nell’insieme sono caldi e luminosi come l’oro che usava nelle foglie. Belli i loro occhi agganciati uno sull’altro, come pesci blu che si muovono insieme. Bella la loro voce bisbigliata che si accuccia rasoterra perché è scaltra, dice cose che noi vorremmo sentire ma ha una lingua sola e quella lingua adesso si apre in due e sbatte sui denti appuntiti, s’intreccia a serpente, finisce quasi in gola. Di là, alla mia sinistra, il gioco non regge. Ci sono quattro spu-
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gne luride, imbevute così tanto di vita eppure così rinsecchite da sfasciarsi in brandelli di stoppa. Si leccano le dita con sputo di lumaca e battono il fante. Dita che sono lame rugginite di roncola e hanno occhi duri come i sassi del fiume, che l’acqua passando ha slavato il colore. E le voci? Tu la chiami voce il verso del vento sul tronco annerito dal marcio? È forse voce la rangola ansante della bestia vecchia? Insomma io li guardo e non c’è un cazzo da ridere. E nel mezzo ci sono io. L’età di mezzo. Il soggetto al centro della tela. Fra il desiderio alla mia destra e la mattanza che chiamano senilità, alla mia sinistra. Finisco il caffè, pago il conto, raccolgo gli spicci. Un’ultima occhiata da un lato e realizzo di essere troppo vecchio per sedermi a quel tavolo, e troppo giovane per dare le carte nell’altro. Da una parte parlano di cose che ho già visto, parole che ho già pronunciato, bugie dolci, sguardi che ho toccato mille volte e sono sempre state poche. Il passato è seduto là, così vicino eppure così lontano. E il futuro alle mie spalle che si gioca le ultime mani e vincere o perdere non conta più nulla. Il futuro è una tormentata cagnara di rauchi, una stancante conta dei punti persi. Al futuro io non servo, ha già il suo pasto caldo sulle ginocchia. Nasci uomo e perdi i pezzi. Resterò con la sola U che pare tanto una fossa scavata, o il fondo d’una bara dove ristagnano i liquidi e le puzze cadaveriche. Questa tela non posso squarciarla con un coltello. Qui gli smalti sono fatti col sangue imbrattato sulla carne. Me ne vado e scappo via. Klimt era un figlio di puttana. L’auto viaggia e dal cervello pesco un’altra carta. Esce una canzone alla radio: beneath the stains of time (che vuol dire più o meno “sotto i calci in culo del tempo”) the feelings dissapear (i sentimenti scompaiono, sbiadiscono) you are someone else (tu sei qualcun altro) I am still right here (Sono ancora qui) Sì. Anche Johnny Cash era un figlio di puttana.
bio
Andre Folco Lasdo (pseudonimo) Nato nel Maggio 1975. Vive in Veneto. Lavora nel campo della comunicazione visiva. Dal 2012 collabora con il movimento artistico Nucleo Negazioni. Ha partecipato alla raccolta poetica: “Le Negazioni 36 pezzi” edito da Nulla Die. (2013) All’antologia di racconti: “Nagasaki Luna Park” Edizioni La Gru (2013), è presente in “I ragazzi non vogliono smettere” Matisklo edizioni. “Un niente per due” poesie per un San Valentino cannibale Matisklo edizioni e “Circo Escher” -Racconti di omicidi seriali- pubblicato conIlmiolibro.it (2014) “Il narrare è un portentoso strumento per ricostruire le nostre azioni, analizzare intenzioni e motivazioni, organizzare esperienze, rielaborare il dialogo interno, creare mondi, spalancare porte sul retro. È un sistema di difesa, di attacco, di evasione, di sopravvivenza”.
adalgisa marrocco Ester e i suoi amici C’è una parte di me che non conoscerai. L’unica cosa che non mostrerò mai. In maniera disperata, alla fine ti amerò. In maniera disperata, alla fine ti concederò tutto. Non ti lascerò e non ti farò cadere, semmai si presenterà il momento. Chiaro da capire, difficile da dire. Sogni accarezzati che dormiranno per sempre. In maniera disperata, alla fine ti amerò. In maniera disperata, alla fine ti concederò tutto. Non ti lascerò e non ti farò cadere, semmai si presenterà il momento. In maniera disperata, alla fine ti amerò. In maniera disperata, alla fine ti concederò tutto. Non ti lascerò e non ti farò cadere. Ma quel momento non arriverà mai. Ho iniziato a tradurre canzoni solo per ricordarmi quanto quelle parole sembrino essere state scritte per te. Aggiungo. Elimino. Dipende. Non inserisco mai il tuo nome per non rendermi ridicolo. Plasmo la canzone in base alla consistenza della tua assenza. Certi giorni sei talmente vicina che potrei allungare la mano e sfiorarti, altri la tua crudeltà è così grande che vorrei cancellarti dalla faccia della terra. Oggi sei vestita di celeste e somigli al cielo sopra il nostro palazzo. L’ottavo piano del mio paradiso. L’ottavo piano dei miei inferi. Quando sei arrivata, il mio cuore ha iniziato a battere. Prima di allora non avevo mai vissuto davvero. Amo l’amore che diffondi, amo anche il dolore che mi infliggi. Se un giorno dovessi andare via, perirei di nostalgia e delusione. Non scappare. Rimani ancora qualche minuto, amore mio. Non avere fretta. Questi titoli di coda potrebbero ammazzarmi. Resta qui, mio amore. Ferma col tuo vestito celeste e coi tuoi capelli d’oro. Le persiane della tua casa si abbassano insieme alla mia speranza. Non farlo anche oggi. Non ancora. Piango ogni notte. Sempre la stessa storia. Quando sparisci, casa tua non è più illuminata dallo splendore che hai negli occhi. Piango per questo. Ogni notte. Ogni giorno. Lo giuro. Stanno passando le stagioni e la mia sofferenza si carica di ciclicità. Oggi è il primo giorno d’estate e tu inizierai ad indossare gli abiti di stoffa leggera, color pastello, coi fiorellini
bianchi. È quasi ora del tuo ritorno a casa, tra poco si schiuderanno le persiane e verrò accecato dalla bellezza. Ancora non arrivi. Oggi sei in ritardo. Sono preoccupato. Non posso resistere. Devo capire se sei tornata e stai dormendo, oppure la tua assenza si prolungherà all’infinito. Afferro la scala telescopica riposta nello sgabuzzino e la porto nel salone. Scanso la TV messa davanti la finestra, esco fuori e allungo la scala fino a toccare la ringhiera del tuo balcone. Salgo. Striscio. Sono a metà strada. Ancora poco e scardinerò le finestre di casa tua per vedere se ci sei. Ma non sto bene, d’improvviso. Mi distraggono le urla della gente appostata nel cortile condominiale. È sempre stato un quartiere di pettegoli. Non sto bene. Urlano. Non sto bene. NO! Anche nella nuova fascia oraria delle 19 “Cuori nella tempesta” è riuscito a conquistare una media di oltre 2.6 milioni di spettatori quotidiani: numeri positivi, ma in calo se confrontati con quelli registrati grazie alle puntate trasmesse nel primo pomeriggio. Proprio per questo motivo, il direttore dell’emittente ha destinato una lunga pausa estiva alla soap opera argentina che, non andando in onda dal 21 giugno al 21 settembre, lascerà al pubblico la possibilità di godersi le vacanze senza l’ansia di perdere nemmeno una novità circa gli amori della bella Ester e dei suoi amici. Sogni accarezzati che dormiranno per sempre.
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Adalgisa Marrocco è nata in palude pontina il giorno di San Valentino del 1991. Firma di politica e bioetica per diverse testate giornalistiche on-line, raccontatrice pulp col libro “Supermarket e altri racconti indigesti” (Edizioni La Gru, 2014), anglista e traduttrice. In cantiere, altri scritti poco rassicuranti. Il suo blog personale è https://ladalgisablog.wordpress.com/
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K!
( Henry, il maialino misantropo) in questo numero
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Ha da sempre avuto un'infanzia difficile, essendo nato nel '90 e a Napoli. Ancora neonato però, lo sbattono a Latina. Il suo sogno era diventare collaudatore di supposte, ma i suoi genitori lo costringono a studiare all’artistico, continuando con l’accademia e la scuola romana
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alessandra piccoli E luce fu. (Follia d’amore) Suona la sveglia, sposto le coperte, scendo dal letto, meccanicamente svolgo i riti mattutini prima di recarmi al lavoro. Ho strani pensieri in testa, sbattono tra le pareti del cranio. E luce che ti lusinga un attimo prima della morte. Non lo sai, l’hai sentito raccontare, o l’hai semplicemente visto con altri occhi, o col cuore ma mai accarezzata. Calda, svenevole, e odora di buono, ti chiedi perché opporre resistenza, quando è evidente che qualcuno ha già deciso per te. Condividerai con l’anima tua, tutto questo, la gioia, perché per mano è diverso , meno doloroso ed angosciante da raccontare perché sono due voci unisonanti , due corde che vibrano in perfetta armonia. Già, perché opporre resistenza, perché rifiutare? E non lo farai, abbasserai le difese, ti farai penetrare da quegli occhi . La luce, quella vera, l’ho vista per la prima volta quando ti ho incontrata, ho capito che soltanto guardarti sarebbe stato un viaggio di sola andata. Il velluto che mi ha avvolto come mai nessun tessuto, balsamo che mi ha curato e nutrito, e ho pensato di essere stato inghiottito, anche solo per un attimo, e che mi sarei perso volentieri. Solo tu mi avresti potuto salvare, tirare fuori da quella spirale buia in cui dormivo rassegnato ormai ad una vita incolore ed insapore che non era di certo la mia. Ora lo so. Il lavoro mi teneva a galla, la piaggeria delle persone che gravitavano attorno a me, il costruire continuamente un idolo per poi abbatterlo, un fingere emozioni, cercare la benevolenza e l’amore degli altri. Poi, ad un tratto…incroci occhi come questi. La ghisa rovente, il colpo al capo, violento, non sai se è risveglio o coma per sempre, non sai chi sei, chi sei stato finora ma la certezza di volere Lei, quella è chiara, sai che è tua ,lo è sempre stata ed è ciò che ti manca. La tua meta e metà.
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Lo sai ora che ti ha investito, perché prima aveva sembianze di fame e sete, e non riuscivi a cogliere il bello, non ci riuscivi mai, perché filtravi con lenti tristi le nuvole, la nebbia, la pioggia dirompente ed era tutto così fastidioso. Era un vivere la noia, un coprirsi di esperienze altrui, un vivere altre vite, un parassitare e fagocitare corpi per mantenere il ritmo di un battito stanco. Vorrei che mi dicessi che mi ami. Che mi abbracciassi. Che facessi l’amore con me. Dimmi cosa vedi, mentre guardi il vuoto, che cosa immagini per noi. Nella testa il velluto dei tuoi occhi, mi soffoca le parole. Nero, pece, m’invischia. Ti amo. Urto la tua spalla, l’odore di pane caldo e del caramello mi brucia le narici. Ci tocchiamo per un infinito istante e mi chiedo se esista veramente il caso, perché oggi ho preso l’autobus delle 7.40, in ritardo su tutto, io che ho sempre anticipato ogni cosa, pensiero, azione, che ho vissuto una vita in anticipo, fuori fase. E ora ho sentito il tuo odore, tu profumi di un futuro diverso. La spalla mi duole, in testa l’eco di mille pensieri di carne, le porte che si chiudono, il 56 come un mostro , mi inghiotte. Non so se ne uscirò vivo, cambiato, o cosa, o chi. Ho fissato il tuo viso per dieci eterni minuti, ho desiderato il traffico, i semafori, la pioggia, la nebbia, gli insulti dei frettolosi, qualunque cosa potesse fermare quell’istante e quel luogo in movimento. Devo parlarle, fermarla, toccarla ancora. Il controllore sale, non ho timbrato il biglietto, e tu ridi. Ridi mentre pago, nulla rispetto al debito eterno che mi aspetta. Improvvisamente tutto si ferma, non esiste più nulla, nemmeno i finestrini ,quadri in movimento sulle pareti di una casa che immagino già nostra, ma solo pupille dilatate, più nere di una notte senza luna, l’odore dell’asfalto umido, e le porte che si chiudono. Il mostro si allontana da me, da noi, vomitati fuori. Vorrei fare qualcosa, dovrei, perché adesso o non sarà mai più, non ci sarai più. Ti amo. Come faccio a dirti che ti
amo da sempre, che ti aspettavo, che vorrei rimanessi qui con me, adesso, per sempre? Mi sento morire, muoio. Ora la luce è quel fulmine, il colpo caldo dentro, di un racconto solo immaginato, fa male, mi trafigge, mi inchioda paralizzandomi, e sono di sabbia. Le labbra mute trattengono le parole congelate dentro di me, ti guardo e sospiro cercando di leggere ed interpretare i tuoi pensieri, bramando una bussola immerso nel nero del pozzo che sei, una risposta che mi orienti, un cenno impercettibile, dimmi che sei tu, che io sono io, e che sono ciò che ti manca. Tu non parli, sorridi, i tuoi occhi bellissimi non li avrò mai, lo so, ma non mi sono sbagliato e nemmeno tu, ma non si può, non si deve.E ti dovrò nascondere per sempre nelle mie preghiere. Mi lasci la mano, l’avevo? Non so. Ho le dita intorpidite, umide di te. E fa freddo qui e nebbia e pioggia, tutto torna un fastidio, mentre cerco disperatamente il velluto e angosciato e solo scendo ancor di più in fondo, negli abissi della mia follia e solo schegge di vetri rotti che feriscono i miei polsi, le mie dita intorpidite e ancora umide di te.Il tempo forse si è fermato. Ma tu no. Mi volti le spalle e te ne vai senza nemmeno guardarmi. Forse non mi ha visto mai. Lasci il mio mondo se mai è stato un po’ tuo, si alza un vento e con esso le foglie, mi ero persino scordato dell’autunno, perché tu non hai stagioni amore mio, non hai corpo, non hai nemmeno più occhi di velluto, nè sangue che possa dissetarmi, e un sole cocente esce all’improvviso asciugando la mia sabbia. Mille granelli si disperdono nel vento d’ottobre. E non c’è più niente, bramo affinchè quel vento mi riporti, in pace, al mare. Amore mio infinito. Arriva il 57 e tu sei ormai lontana, l’illusione di tenere ancora la tua mano, ti prego stai qui con me, qui dove non sarai mai, ti immagino come non sei, come non ti voglio più rivedere e ti accarezzo il viso imbrattandolo col mio sangue.I fari ai quali vado incontro, il suono assordante come il nulla che ne seguirà, il mio corpo dilaniato nello schianto, la gente che urla e un passo, io ad un passo da te. E la luce.
bio
Alessandra Piccoli, dicembre 1970. Laureata in Psicologia. Scrive poesie per necessità e racconti per diletto. È redattrice e fondatrice assieme ad Enzo Lomanno e Vera Bonaccini della rivista di arte e letteratura Bibbia d’Asfalto (edita da Matisklo edizioni). Collabora con il collettivo Carrascosaproject.
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andreas finottis Il Rinato Un ragazzino timido, con un cappotto marrone a grossi
quadri gialli, sale sull’autobus che porta gli studenti a scuola. Guarda intimorito gli altri ragazzi, in maggior parte più grandi di lui. Ridono e scherzano, quasi tutti i posti sono occupati, così lui rimane in piedi. Lo notano subito: un ragazzo di quelli più vivaci, seduto negli ultimi sedili grida: «Ehi tu, ma dove hai preso quel cappotto?» Inorgoglito dalla domanda, risponde: «Mmmeee l’ha commpppprato mio papà ai Mammaaagazzini Occccaaaaasione.» «Meglio così, credevo l’avessi rubato nei sacchi dei vestiti per la Caritas.» Risate fragorose di tutto l’autobus all’unisono, persino l’autista ride, anche se non sa per quale motivo. Col viso diventato rosso, il ragazzo fissa il vuoto davanti a sé nel corridoio. Un altro ragazzo dal sedile accanto gli chiede in modo gentile: «Ma come ti chiami? Sei nuovo, da dove vieni?» Riprendendo un po’ di fiducia risponde: «Mmmmmmi cchchcchiamo Eugggegennnnio Cornnnaccchi, mi sonnnno trasffffferito la sssettimannna scccooorrssssa.» «Non ho capito, Gegè Cornacchia ti chiami? O Eugenio Cornuto?» Tutti di nuovo a ridere fragorosamente, anche l’autista, che si stava chiedendo cosa ci fosse da ridere così tanto quella mattina. Il rosso del viso era diventato rosso scuro. Per togliersi dall’imbarazzo Eugenio cerca di trovare un posto a sedere. C’è una ragazza carina che sta leggendo, le chiede: «Pppposssso sedddeeerrmmi?» «No, devo tenere i libri su questo sedile, trovati un altro posto, non voglio nessuno vicino.» Così Eugenio prosegue. Una ragazza robusta siede accanto ad un posto libero. Si avvicina per sedersi al suo fianco, lei lo vede, e rabbiosa dice: «Fila via scemo, non voglio sfigati vicino a me.» Eugenio prova a sedersi ugualmente, ma uno schiaffo potente lo colpisce sulla faccia: «Va’ via pezzo di merda, tu e
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quel cappotto ridicolo. Ti ho detto che mi fai schifo, non ti voglio seduto qui, vaffanculo via o ti spacco la faccia.» Tutti ridono nuovamente, Eugenio si va a mettere in piedi vicino all’autista. Da dietro uno gli urla: «Le cococornacchie vicino non le vuole nessuno!» Tutti a ridere, anche l’autista che stavolta ha sentito e può ridere a proposito. Dal giorno dopo nessuno vede più Eugenio Cornacchi sull’autobus, gira voce che si sia ritirato da scuola. Si comincia a rivederlo qualche anno dopo, mentre parla da solo e cammina per le strade senza meta, col suo cappotto a quadri marroni e gialli. Lo tiene anche quando fa caldo, se lo sfila e lo mette sulle spalle come un mantello. Ogni tanto qualcuno gli urla qualcosa mentre passa davanti al bar, ma poi col tempo smettono tutti di farlo. Anche perché Eugenio ora gira con uno sguardo strano, con occhi persi, fa impressione a molti. Poi improvvisamente sparisce. Si dice che suo padre abbia finalmente trovato un buon lavoro, dicono che abbia messo Eugenio in un istituto, per vedere se riesce a guarirlo. Anni dopo si vede girare per il paese un trentenne muscoloso in jeans e maglietta neri, con lo sguardo feroce. Entra in un bar, ordina una birra. Nessuno degli avventori del bar parla, intimoriti dall’aspetto minaccioso del nerboruto estraneo. Nel silenzio, il tale si avvicina al biliardo, ci sono alcuni perdigiorno e piccoli delinquenti che stanno giocando. L’estraneo si avvicina a Michele, uno di questi. «Ti ricordi di me?» «No, chi sei?» risponde Michele. «Io invece mi ricordo di te, sei quello che mi ha preso in giro da ragazzino, dicevi avevo il cappotto che sembrava rubato nei cassonetti della Caritas.» Silenzio totale, tutti stupiti, Eugenio Cornacchi è tornato. Rinato in nuova forma, incredibilmente lucido, non balbetta e ha un fisico minacciosamente possente. Nessuno osa parlare, Michele prende il coraggio da bulletto che ha sempre avuto. «E che vuoi da me? Sai che me ne frega del tuo cappotto
e di quello che è successo anni fa, lascia perdere che devo giocare a biliardo adesso.» «Ti piace giocare a biliardo, ma le palle vanno usate nella maniera giusta.» Eugenio prende una palla, se la butta da una mano all’altra velocemente, e all’improvviso la lancia con tutta la sua forza sulla fronte di Michele, che cade a terra steso dalla botta. Eugenio si china, prende la stecca di Michele e comincia a menarla sulla faccia degli altri, riuscendo a stenderli tutti prima che possano fuggire. Getta la stecca sul pavimento, tra i corpi stesi, le chiazze di sangue e i pezzi di denti rotti. Esce dal bar e va verso il municipio. Entra tranquillamente e chiede del sindaco. Gli indicano il suo ufficio, il sindaco è Anna Patanghi, bussa alla sua porta e senza aspettare risposta entra. Anna alza gli occhi dai documenti che sta leggendo: «Chi è lei? Come si permette di entrare senza chiedere il permesso. Esca immediatamente dal mio ufficio che ho da fare!» «Ascoltami bene ex grassona, sono Eugenio Cornacchi, quello a cui hai dato uno schiaffo da ragazzino, mi hai causato dei traumi psicologici con cui ho dovuto lottare per anni. E la colpa è tua e di questa mandria di bifolchi imbecilli del paese.» Anna ammutolita non fiata. Eugenio continua: «Ora, sacca di merda, ho le foto e le intercettazioni fatte da un investigatore privato da me incaricato, con le prove delle corna che fai a quel coglionazzo di tuo marito, della cocaina che ti sniffi, delle ruberie di soldi pubblici che fai grazie alla tua carica di sindaco. Adesso farai tutto quello che voglio io, oppure ti rovino. «Scusa, non volevo farti star male, ne parliamo, dimmi come possiamo mettermi d’accordo, non rovinarmi.» «Taci, che mi fai schifo. Hai un alito peggio della merda e si sente da qui. Taci e ascolta quanto ti dico. Se vuoi che io ti dia le prove delle tue mascalzonate da distruggere, devi solo fare una cosa: organizzare una festa con gli ex studenti, nel magazzino comunale sulla collina. Cibo e bevande gratis, metti dei manifesti per far conoscere la serata in modo che vengano tutti.» «Va bene. Dimmi quando devo organizzarla.» «Per il sabato della prossima settimana, leggi qui e copia quanto c’è scritto. Pubblica i manifesti, alla fine della festa ti restituirò le intercettazioni con le foto e i filmati che ti riguardano.» Depone un foglio sulla scrivania, chiude la porta, sparisce. Fino al giorno della festa Eugenio non si vede più in paese. Il sabato della festa, il magazzino comunale in collina è pieno di trentenni, tutti allegri per la rimpatriata e soprattutto per il beveraggio gratis.
Ballano, e si divertono a raccontarsi aneddoti di scuola. D’un tratto si spegne la musica, si abbassano le luci, un proiettore punta sul palco e vi sale Eugenio. «Sono Eugenio Cornacchi, ho fatto riabilitazione psicologica, riabilitazione fisica, ho perso la balbuzie e ogni timidezza. Ma la cosa più importante è che grazie alla ditta di mio padre, che ha indovinato un brevetto, sono diventato ricchissimo. Ora vi propongo un affare: chi si farà tatuare indelebilmente SONO UNA MERDA UMANA sulla faccia avrà un milione di euro. Pensateci entro la fine della serata. Il camper qui fuori è lì per i tatuaggi. Riceverete l’assegno, oppure, se preferite, l’ammontare in lingotti d’oro certificati, che sono nell’enorme furgone portavalori accanto al camper. Scusate l’interruzione, e buon divertimento.» La musica riprende, le luci si accendono, ma nessuno si muove. Da quella sera in poi, il paese divenne famoso in quanto si diffuse una strana religione autoctona, per cui giravano col volto coperto le donne e anche gli uomini.
bio
Andreas Finottis nato nel febbraio 1962, autodidatta. Mente libera che vaga sfondando le barriere imposte, esplorando senza meta le terre di nessuno, assimila i più svariati stimoli massmediatici e sociali, che vengono dimenticati causa sovraffollamento e inseriti in un magma cerebrale, da cui escono in nuove forme sorprendenti per lui stesso. Influenze principali: il rock e la controcultura. Apprezzato come: scribacchino, opinionista, consigliere, facchino, cane da guardia. Membro del Nucleo Negazioni, collabora con la fanzine Negazioni, ed è presente con poesie e racconti in diverse antologie pubblicate.
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argent Cristina Rizzi Guelfi ha fatto un corso di regia e ha lavorato come aiuto regista, per la fotografia è autodidatta. Ha fatto una mostra in Irlanda e concorsi vari. Le sue foto, solitamente, vengono ordinate e comprate. Potete trovare i suoi lavori seguendo questi link: Facebook \\ Cerebrum dyslexic P h o t o g r a p h y
tovivo
Cristina Rizzi Guelfi, in arte Agente Patogeno Emma Peel, non è una fotografa, è una creatrice di sogni e fobie. Non imprime immagini ma dipinge sensazioni, a tratti sublimi, a tratti disturbanti. Guardare le sue foto è altrettanto uguale all’affacciarsi nelle viscere di una strana creatura che non ha tempo, non ha età. Sin dalle prime occhiate la sensazione è eterea, strana, vaneggiante...eppure estremamente affascinante. Desta la nostra curiosità in tutto ciò di strano che abbiamo intorno. In tutto ciò che intorno a noi, solitamente non notiamo. Sono dettagli, angoli, momenti freddati all’istante che lasciano solo un minimo di margine al movimento sensibile che proviene da lei stessa. Non puoi capire chi è Cristina se non guardi la Cristina delle foto. Esistono molti tipi di fotografi al mondo, lei è riuscita ad essere una di quelle che sa raccontare storie. Che sa appassionare e che accompagna fino alla fine chi la sta guardando, senza foto sensazionali o esagerate, ma stuzzicando e tendendo la mano, aspettando che sia tu a chiederle il gran finale. Come pochi artisti riesce ad usare i programmi di manipolazione digitale senza stravolgere la foto ma elevandola a ciò che lei realmente immagina dando allo scatto il giusto imprinting di cui ha bisogno per renderla omogenea alla storia che sta creando. Vivamente consigliata a tutti quelli che hanno voglia di perdersi nei propri sogni e nei sogni di Cristina! - Sara Ceci (Heppi Noise)
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Interv
di inchi Giada Di Lello intervista Aldo Nove, per capire chi c’è dietro uno stile letterario difficile da digerire. bio
Giada Di Lello nasce in provincia di Latina nel 1992. Legge e scrive da che ne ha memoria, seguendo il criterio fondamentale secondo il quale “non esiste l’uno senza l’altro”. Rimane affascinata dall’epoca decadentista, in particolare dal pensiero pirandelliano e dalle forme del suo relativismo psicologico. Ama l’arte in tutte le sue forme. Bibliografia Direttore responsabile di Negazioni, nel 2011 partecipa con cinque poesie al progetto “Lardichella Road Poetry”, da cui nasce l’omonimo libro edito da Edizioni Amande. È tra gli autori del libro “Nagasaki Luna Park” edito da POP, Edizioni La Gru e ha partecipato alla realizzazione dell’e-book ” I ragazzi non vogliono smettere” di Matisklo Edizioni. Nel Gennaio 2014 prende parte della raccolta “Guadagnare soldi dal Caos”, Edizioni La Gru, un volume di poesia e anarchia compositiva. È tra gli autori di “Effetto Munroe” edito da David&Matthaus (Dicembre 2014).
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bio
Aldo Nove è nato nel 1967 a Viggiù, piccolo paese al confine con la Svizzera. Il suo primo libro Woobinda è stato pubblicato nel 1996 da Castelvecchi. Un suo racconto è apparso nell’antologia Gioventù cannibale (Einaudi). Nella collana «Stile libero» di Einaudi, sono apparsi Puerto Plata Market (1997), Superwoobinda (1998), Amore mio infinito (2000), La più grande balena morta della Lombardia (2004), Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese... (2006) e La vita oscena (2010). A seguire “Tutta la luce del mondo” (Bompiani 2014).Il suo ultimo lavoro è intitolato “Un bambino piangeva” (Mondadori Electa). Nella Collezione Poesia di Einaudi sono apparsi le raccolte Nella galassia oggi come oggi. Covers (2001), composta insieme a Raul Montanari e Tiziano Scarpa, Maria (2007) , A schemi di costellazioni (2010) e Addio mio Novecento (2014). Il suo più ampio volume di poesia è Fuoco su Babilonia!(Crocetti 2003).
Scrivere un libro che tratti il proprio trascorso di vita ed i propri dolori più intimi, non è semplice. Cosa l’ha spinta a mettere a nudo il suo passato e a raccontarsi in maniera così diretta ai suoi lettori? È stata una sorta di seduta di autoanalisi in forma letteraria. “Osceno” è l’aggettivo che ha usato per descrivere il suo trascorso e per denominare gli eventi in esso contenuti. Ma “osceno” secondo chi? Nel suo libro si parla di una caduta nell’abisso, perdersi in un’oscurità che è mutata nel sesso estremo, nella perdizione indotta dall’uso incontrollato di cocaina, e in una sorta di rifiuto per la vita. Secondo lei cosa significa davvero “osceno”? È solo una definizione dettata dalla morale e imposta dalla società in cui viviamo? “Osceno” vuole dire “fuori dalla scena”. Credo che l’osceno abbia a che fare con il reale. In scena, appunto in quanto scena, c’è il falso. Nel finale del libro, scrive: “Passarono gli anni. Mi iscrissi a Filosofia. Feci di tutto per dimenticare il mio inferno.” Quanto le è servito, invece, ricordare davvero il suo inferno, assorbirlo e metterlo nero su bianco? Credo a nulla. L’analisi, diceva Freud (ma lo diceva e lo negava assieme), è infinita.
Il suo percorso l’ha portata ad essere ciò che è ora: una persona molto differente dall’Aldo di cui parla il suo libro. La sua esperienza può essere considerata una metafora della rinascita fisica e spirituale? Sicuramente. La vita è una continua morte e rinascita, così già ogni singolo giorno passiamo dalla veglia al sogno, al sonno incosciente.
La sua matrice stilistica è visibilmente cambiata dai tempi di Woobinda. In “La vita oscena “ lei manifesta uno stile maturo, consapevole, degno della forza con cui ha affrontato questo tuffo nel passato. Si sente ancora un po’ il ragazzo incazzato della “Gioventù Cannibale” di cui faceva parte? Non sono mai stato un ragazzino arrabbiato. Ho registrato quello che avevo attorno, prima degli altri. Quello che avevo intorno l’ho descritto. Era l’inizio di un processo di putrefazione di un periodo storico. Ora conclamato.
“Le storie vengono da un luogo lontano dove siamo già stati. Forse non noi. Forse non esattamente noi. Raccontano di prove. Di madri. Di padri. Inizi e morte. E poi di nuovo l’inizio. Come si esce dal fuoco. Come si attraversano le fiamme. Come oltre al fuoco ci sia un’altra luce. Come dietro ogni perdita ci sia una rinascita. Come il mondo continui ad apparirci bello e completamente incomprensibile. Mentre scrivo queste parole. Mentre qualcuno le legge.” Partendo dalla fine. Così inizia “La vita oscena” di Aldo Nove. Una fine annunciata e una morte fulminea: “Mio padre morì all’improvviso, di ictus. Gli sopravvisse mia madre, malata da anni di cancro. […] Sarebbe dovuta morire prima lei. Invece morì lui. Mia madre la prese come un’offesa inimmaginabile.” Partire dalla morte per raggiungere lentamente la vita. Iniziare con il buio, un buio totale, popolato di ombre ed entità che prendendoti per mano, ti fanno strada verso il nulla. Un nulla al sapore di alcool, psicofarmaci, droghe e sesso estremo. Una
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continua ricerca della morte, in tutte le sue sfumature. “Una volta arrivato lì, ebbi delle incertezze” scrive. “Strinsi comunque un’estremità del groviglio di cravatte a una trave e provai a salire su un sasso. Non ero molto abile nello stringere il cappio e mi venivano in mente delle immagini che non mi sarei aspettato. Una su tutte mi ossessionava. Quella di mia zia che mi preparava da mangiare i sofficini. Provai dolore pensando a mia zia che mi avrebbe cucinato da mangiare per nulla, perché io mi sarei ucciso. Decisi di lasciar perdere e camminai verso la stazione della funivia abbandonata.” La dannata ricerca della morte che porta lo scrittore ad architettare una morte analoga a quella di George Trakl, suo poeta preferito di allora, che si suicidò con un’overdose di cocaina. “C’era scritto sui libri quel quantitativo. Decisi che mi sarei suicidato come lui.” E poi ancora “La cocaina esplose, dentro di me immensa. Ma non la morte. Non fu la morte ad aprirmi le sue braccia.” E poi la discesa negli inferi, in basso, sempre più giù. Un susseguirsi di eventi intrisi di divina oscenità, il sesso estremo come unico mezzo di autoannientamento, la ricerca della morte attraverso di esso, un tunnel fatto di eccitazione, di uomini, di donne, di trans, di vite che si incastrano tra loro, saltando di volta in volta l’une nelle esistenze delle altre. “La vita oscena” è un libro vero, crudo e viscerale, scritto con la consapevolezza di chi ha attraversato le fiamme, e con qualche cicatrice, ne è uscito fuori. Descrive il filo sottile che divide “giusto” da “sbagliato”, filo che lentamente, parola dopo
CARTA STRACCIA STRACCIA CARTA
Rubrica di recesione a cura di Giada Di Lello libro del mese \\ la vita oscena -
parola, si scioglie, scacciando via i moralismi e lasciando fluire libera la verità di quello che è stato, tra le pagine. “Passarono gli anni. Mi iscrissi a Filosofia. Feci di tutto per dimenticare il mio inferno. Pure, c’era. Era dentro di me. Era la mia guarigione. […] Ma una storia la dovevo raccontare. Questa. Quella che avrei dovuto, voluto dimenticare. L’avrei dovuta ricordare con la massima chiarezza. Nei dettagli. Perché era stata. Perché era una storia.”
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L'ermetica JESUS IS BACK!
bio
Ma perchè, seriamente, qualcuno legge ancora le biografie? Non racconterò di me, che già uscendo di casa mi si accollano i peggiori rifiuti umani, il 99% dei quali sono intelletualoidi della domenica o giovani signori dal culo rodente.
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Se parlo di resurrezione e rinascita a voi che viene da pensare? Secondo le statistiche elaborate da un centro sito nella mia scatola cranica, il 78% delle persone risponde Gesù, il 12% Fenice, il 5% paganesimo e il restante sono uomini pelati depressi che hanno capito “ricrescita” Allora, i primi in classifica non devono stupire dato che viviamo in un paese laico in cui la chiesa fa il cazzo che gli pare. I secondi saranno per la maggior parte persone aventi Harry Potter come somma lettura. Sono facilmente riconoscibili, dato che non resistono più di 20 minuti in un discorso senza citare un Avada Kedavra o la casa di Hogwarts in cui un Quiz del cazzo li ha collocati. Ascoltate: seriamente apprezzo sia la Rowling che le sue opere, molto. Ma dovete bruciare. Nel 5% troveremo una marea di personaggi dubbi ficcati fino al collo in correnti neopagane new age o robe simili. Ora, non voglio dire che solo gli strambi aderiscono alle correnti new age, ma di sicuro ne attirano parecchi. Persino io ho aderito per un periodo, fatevi due conti. Detto questo, alla fine avete un po’ tutti ragione (inclusi i calvi depressi) e infatti temi come “rinascita” e “risorgere” sono il Vietnam per chi vuole scrivere un articolo breve. Una guerra persa e piena di traumi.
Seriamente, sono temi immensi perché inglobanti i concetti di morte, vita, nascita, eterno ritorno, dolore, purificazione e ancora altri. Ci sono informazioni ovunque. Ovunque! Basti pensare agli innumerevoli culti pagani e contadini in cui l’aspetto maschile del divino (solitamente è lui, almeno) muore con il terminare dell’anno e risorge a nuova vita, aggiungiamoci anche tutte le religioni (non ce n’è una che non abbia almeno un mito a riguardo) e potete immaginare la portata. E questo è solo l’ambito teologico - antropologico, come minimo mancano storia e filosofia. Boom. Detto questo, mi pare ovvio annunciare che non m’imbarcherò in questo massacro, e nella rubrica in questione mi limiterò a cose abbastanza pragmatiche. Anche perché internet e librerie sono pieni di informazioni a riguardo, basta semplicemente informarsi andando a leggere le fonti e allontanandosi un minimo da Wikipedia, nel
caso non fossero vostre abitudini, convertitevi subito alla vera cultura informata o vi faccio pestare a colpi di Mago Otelma.
Come dicevamo prima, una delle cose che viene in mente se si pensa al termine “resurrezione”, è Gesù: il VIP più VIP di tutta la storia dei VIP, figura che ha colpito la strato culturale umano come una
a di libeccio - a cura di Matteo Libeccio
bomba atomica e che quindi permette di raccontare migliaia di aneddoti e storie. Io dunque ho preferito soffermarmi su Alvaro Theiss. Il famoso. Se non sapete cosa c’entri con quello che ho scritto poc’anzi, meglio, vuol dire che vi divertirete leggendo questa biografia: Alvaro Theiss, per gli amici Inri Cristo, è nato in brasile il 22 marzo 1948 ed è, a sua detta, niente popodimeno che la moderna reincarnazione di Cristo. Mica cazzi signori miei. Questo signore già da piccolo sente il vocione di Dio che lo aiuta e lo dirige, finchè un bel giorno gli comunica che deve lasciare casa e andare a vivere autonomamente. A 13 anni. Altro che risvoltino e rayban, questo c’aveva Dio fra i neuroni che l’ha portato a lavorare come un crumiro al fine di acquisire l’indipendenza. Non che sia contrario a questa cosa, anzi… Dio dovrebbe far capolino anche nelle teste di quei tanti braccianti mancati che trovo in giro, sai come schizzerebbe il PIL del paese se la maggior parte delle persone che vedo in giro (sì, adolescenti e fallomarmocchi compresi) invece di scrivere cagate sui social stessero a spalare sterco vero? Comunque, per un periodo il nostro protagonista diventerà persino Ateo, forse il signore gli aveva chiesto una cosa improponibile (1), ma affronterà bene questa crisi spirituale, dato che a 21 anni arriverà ad autoproclamarsi profeta e astrologo sotto il nome di “Iuri de Nostradamus”. Che ve lo dico a fare, da qui in avanti la nostra storia va tutta in discesa. A 28 anni cade in trans spirituale, suppongo che sia in qualche modo entrato in contatto col Signore, e rinvenendo dice di aver maturato una grande scelta: smette di mangiare la carne. Gli ci è vo-
luta una trans per decidere di diventare vegetariano… immagino lontanamente quel che ha dovuto fare al momento di scegliere l’abbonamento al cellulare, 40 giorni nel deserto come minimo. La flagellazione e il sacrificio rituale se li tiene per decisioni ancora più importanti, tipo se cono o coppetta dal gelataio. Dopo di questo, in Brasile scoppia il furore per quest’uomo, che spesso viene visto in mezzo a membri dell’alta società e che vive per un po’ nel Copacabana Hotel a Rio de Janeiro. A 31 anni, nel 1979, Dio ritorna e spiega di avergli fatto uno scherzettone, dato che lui non è “Iuri de Nostradamus” ma Gesù stesso, strano che non se ne fosse accorto però, perché, sempre a detta di Dio, bastava capovolgere la “u” in “Iuri” per ottenere “Inri”(2), a questo punto il danno è fatto, e Alvaro, dopo aver messo una tunica e un paio di ciocie ai piedi, inizia a bazzicare per il continente americano e parte d’Europa, dove viene in alcuni casi cacciato (nello specifico da Inghilterra, Venezuela e Stati Uniti), poi niente, dopo qualche tempo decide di
tornare in brasile, irrompe in una chiesa, lo sbattono in prigione per 15 giorni, decide di stabilire in quella nazione il Quartier Generale della neonata SOUST (Suprema Ordem Universal da Santissima Trindade, il suo Culto) e inizia a farsi vedere in TV , spesso negli stessi programmi in cui appare Gonzale Quevedo, a sua detta la reincarnazione di Torquemada; apprezzato dagli studenti brasiliani, viene spesso accolto nelle università al fine di compiere letture teologiche e ora come ora ha un sito, una grossa tenuta piena di donne, nella quale va in giro col monopattino (a quasi 70 anni), e persino la “Inri Cristo TV”, praticamente è lo Hugh Hefner dei Santoni, anche se alla fin fine sono un po’ tutti così. Dilemma massimo: se uno è cristiano che fa, ci crede o no? Secondo me è un dilemma serio, ma tanto io non son cristiano quindi me ne lavo le mani, per l’appunto. (1) Che ne so, cose come potrebbe essere per noi oggi il leggere un libro di Bruno Vespa, entrare nella metro A di Termini senza avere una vecchia orientale fra le palle, sopravvivere allo stadio durante un derby, riuscire non sentire un qualsiasi riferimento al Trono di Spade o ad un Complotto per un giorno intero … insomma cose del genere, ci siamo capiti. (2) Sigla presente sopra la croce di cristo e stante per “Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum”, letteralmente Gesù nazzareno re dei giudei.
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cicatrici
La fascinazione del male in un ogg « Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza. » (Alan Turing, Macchine calcolatrici ed intelligenza, 1950)
Dylan Dog n.341 Al servizio del caos di Roberto Recchioni (testi) Daniele Bigliardo e Angelo Stano (disegni) data di uscita: 29 gennaio 2015 casa editrice: Sergio Bonelli Editore
Per il mese di gennaio abbiamo potuto leggere una potentissima critica che il curatore della testata, Roberto Recchioni, ha mosso contro l’uso
prezzo: 3 monete e 20 centesimi europei pagine: 98 b/n
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smoda to della tecnologia e dei mass media. Prologo ed epilogo, disegnati da un brillante Angelo Stano: nonché papà grafico dell’agente del caos.
A disegnare in maniera eccelsa il resto dell’albo, il campano Daniele Bigliardo, la cui matita ha percorso le origini del nuovo personaggio e l’incontro che questi ha fatto con l’Indagatore dell’incubo. In casa del nostro si presenta una potenziale bond girl di nome Elisabeth Moon, ella è l’assistente di John Ghost; descritta da lui stesso come “un incrocio tra un’assistente, una guardia del corpo e un meraviglioso oggetto di design.” Tutto questo fuorché una semplice segretaria. Elisabeth è stata incaricata di condurre Dylan dal proprio capo, il quale illustrerà poi il problema che sta scatenando da giorni in tutto il mondo, scie di sangue. Per un oggetto d’alto design, il Ghost 9000 prodotto proprio dalla Ghost Enterprise. Da qui il nostro indagatore preferito dovrà vedersela da oggi in poi con uno strumento che, gli è sempre risultato asettico, incomunicabile con la personalità del personaggio: un sistema operativo di nome Irma. A Dylan è stato consegnato un android, utile per scoprire la formula maledetta che ha generato vittime
i di china - a cura di Simone Tribuzio
getto d’alto design e butterfly effect che un tempo possedevano proprio l’ultimo modello Ghost 9000. Questo albo è un labirinto citazionista, dove alcune vengono spiegate. Altre invece sono state inserite proprio nel character design di alcuni personaggi: in primis nell’inventore del Ghost 9000 che ha le fattezze di Alan Moore. Un lirismo citazionista che seppur vi abbonda non smonta per niente la storia. L’efficacia con cui lo sceneggiatore romano introduce la figura dell’agente del caos John Ghost, è encomiabile. Funziona perché ne detta le origini e ne traccia le sue caratteristiche che subito lo fanno detestare. Le cui fattezze sono state riprese da quelle dell’attore Fassbender. Ad enfatizzare prologo ed epilogo, le matite del sempreverde maestro Angelo Stano. Il finale sancisce l’inizio di quella che sarà la figura carismatica di Ghost, un finale che per climax non si discosta per niente da quelli dei fasti dylaniati. A disegnare il resto dell’albo è la maestosa perizia artistica del campano Daniele Bigliardo, regalando così al
suo pubblico splash page su splash page e situazioni subito da incorniciare per questa Fase Due e per tutto Dylan Dog. “La cinematografia e non solo, viene accompagnata da un altro esempio egregio dell’effetto farfalla.” La mole di lavoro e la critica (e autocritica) che Recchioni muove contro un sistema malato della tecnologia e dei mass media che catalizzano l’attenzione su notizie futili, è da ammirare. Semplicemente. Se le premesse continuano ad essere queste qui, non c’è che da rallegrarsene. W Dylan Dog. E “che Albione prevalga”.
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TRAMA di Ratigher Data di uscita: aprile 2011 Casa editrice: Grrrzetic prezzo cartaceo:18 monete europee online: gratuito pagine: 112 b/n
Il primo ricordo che spontaneamente mi viene da citare, è collegato alla sensazione provata a fine lettura. Rimasi inquietato ed estraniato; come se l’autore avesse avuto l’intenzione di risucchiare la mia sfera emotiva. Manco fosse un dissennatore. Mi sentivo disorientato per la struttura narrativa ricca di flashforward disturbanti, e per gli orrendi quanto realistici personaggi. Sì. Trama parla al cuore e alla mente del lettore col fine di terrorizzarlo, per condurlo a fine lettura con una sensazione che difficilmente si scrollerà di dosso. Scritto e disegnato da Ratigher, membro de “I Fratelli del Cielo”, collettivo artistico composto da: Tuono Pettinato, Dottor Pira, Maicol e Mirco e da Lorenzo “LRNZ” Ceccotti. L’autore è ora sulla bocca di tutti per lo straordinario albo autoprodotto con il sistema PrimaoMai, Le ragazzine stanno perdendo il controllo. La società le teme. La fine è azzurra. Secondo romanzo grafico che ha confermato ancora una volta la verve autoriale di Ratigher. La trama di Trama è la seguente.
bio
Simone Tribuzio nacque a Terracina nel 1991. Grazie al fumetto iniziò a fare incetta di qualsivoglia forma di narrativa che fosse racchiusa in un complesso di fogli. Pare che nel suo olimpo personale vi siano i seguenti nomi: Stephen King, Alan Moore, Brian K. Vaughan, Gipi, Leo Ortolani (che ringrazia per aver eretto una scuola di umorismo altissima), Tiziano Sclavi, Italo Calvino; per il cinema si va avanti con Tarantino, Kubrick, Anderson, Landis, Zemeckis e tanti tanti ancora. Molto spesso Simone soffre della Sindrome di Stendhal. Se capita di svenire davanti ad una forma d’arte qualsiasi, capirete. Fondatore del blog Ju Caffè dove si parla di fumetto, cinema, letteratura e tanto altro. Collaboratore presso Fumettologica.it e per la testata online Roma da Leggere.
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Giulio e Lavinia. Due cugini borghesi, talmente ricchi e viziati da fare schifo. I compagni di classe, frequentatori debosciati di locali che tanto abbiamo odiato (e che odiamo ancora oggi) negli anni delle medie/ liceo. Lungi dall’intavolare discorsi di ampio genere e di aiutare l’escluso del gruppo ad integrarsi; perché praticano da sempre la palestra dell’indifferenza e della vanità assoluta.
Trama parla principalmente di questo: dell’emarginazione sociale commessa da una borghesia priva di qualsivoglia valore. Mentre si accingono per andare ad una festa tutta borghese e chichettosa, ai due sbarra la strada un essere mostruoso; esso brandisce un forcone ed è completamente coperto di fango. Questo personaggio introdotto magistralmente in sole poche tavole, verranno sottoposti i ragazzi presi in ostaggio da Bimbo Fango. Un percorso abitato da essere altrettanto assurdi tra camionisti sinistri e personaggi di ogni risma. Un percorso irto di insicurezze e di pericoli dovranno attraversare i ragazzi per sfuggire dalle grinfie del loro rapitore. Un sentiero lastricato anche di numerosi flashforward che anticiperanno, con un climax degno dei vecchi noir, la sequenza successiva. I cui dialoghi ci vengono proposti mozzati quasi del tutto. Ed è già un must read. A tal punto da ottenere anche una menzione al Premio Micheluzzi del Napoli Comicon 2012. La prosa asciutta e ipnotica di Ratigher, al secolo Francesco d’Erminio, delinea figure e situazioni con uno storytelling estremamente sintetico. Giulio, Lavinia, il carismatico Bimbo Fango e tutti gli altri comprimari, recitano questo drama-horror sulla società borghese. Di fatto i ragazzi sono i veri mostri. Eccome se lo sono! Ad una seconda rilettura sortisce lo stesso effetto. Trama è, e sarà per sempre come una giornata soleggiata tranquilla,
che poi parte con il piede sbagliato all’arrivo di un imprevisto che rimescolerà le carte, e tutti i vostri piani. Il tratto grafico è ancor più sintentico della caratterizzazione dei personaggi; qui assumono delle maschere subito riconoscibili al lettore. L’impianto narrativo e grafico ricalca quello di Daniel Clowes, ma Ratigher ne fa suoi splendidamente. La storia, edita da Grrrzetic, venne confezionata con una cura tutta da ammirare. Una storia contenuta in un lussuoso cartonato che omaggia quelli della Mondadori di una vecchia collana fantascientifica. Nella voce “prezzo”, quando dicevo che è gratis, ero serissimo. E’ stato poi caricato da Ratigher stesso, per far leggere questa storia ad un pubblico più ampio. Con un atto estremo che ancora oggi si fa sentire. Quindi non avete nessuna scusa. Potete leggere legalmente una gemma del fumetto italiano degli ultimi dieci anni. Forse anche di più. Esagero?
Illustrazione di Chiara Chiappani bio
Just another freelancer. Chiara Chiappani nasce a Brescia nel 1991, con la passione per il disegno e per le arti visive in tutte le loro forme. In attesa di trovare un nome d’arte, studia lingue straniere, si occupa di illustrazione e di design come freelancer. Negli ultimi anni si è dedicata in particolare al mondo della moda.
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pellicole Videodrome è un film del 1983, scritto e diretto da David Cronenberg. Come altre opere dell’autore, affronta il tema della mutazione della carne e della fusione fra tecnologia e uomo. Il genere e cyberpunk.
bio
Nata il 22 aprile 1989 a Matera. Diplomata al liceo classico. Laurea in Medicina Veterinaria, imprenditrice. Appassionata da sempre di cinema e teatro, nel 2009 è stata membro della giuria per conto dell’AGISCUOLA referente per il premio David di Donatello. Attualmente frequenta l’associazione CINERGIA collaborando alla selezione dei film per il cineforum nella città di Matera. Sempre a metà tra la realtà e l’irrealtà mescola elementi di vita quotidiana con delirati immagini fantastiche rendendo la propria esistenza necessariamente borderline. Tra pubblicazioni scientifiche ed esperimenti galenici, si occupa di organizzare eventi ed esperimenti sociali.
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“Gloria e vita alla nuova carne “ Omaggio ad un Horror d’autore. Videodrome nasce dal genio visionario di David Cronenberg nel 1983. È un film anomalo, raccapricciante, soggetto alle più disparate interpretazioni e scioccante come un’allucinazione, in cui il regista, mostrando il suo stile unico ed inconfondibile, ben si inserisce nel genere “Body horror” e “Snuff movie”, dove l’elemento psicologico è spesso e volentieri accompagnato da una metamorfosi corporale. In questo macabro scenario di fantascienza biologica, Cronenberg, ossessionato dall’idea di contaminazione e di mutamento del corpo, riprende le linee guida del movimento Cyberpunk ed in modo lucido e razionale fa una fusione dell’organico e dell’elettronico, mostrando una struttura televisiva che diventa materia e un corpo di carne che funziona come videoregistratore. Inoltre, non si risparmia in originalità e presenta quasi tutti i suoi protagonisti attraverso uno schermo televisivo, quasi a sottolineare l’impor-
tanza della realtà virtuale e sicuramente rappresenta un valido modello a cui si ispirerà il Matrix dei fratelli Wachowski. Videodrome è un film caratterizzato da atmosfere sinistre ed immagini forti, potenziate dagli effetti speciali di Rick Baker, anacronistici, avanguardistici e stupefacenti che fanno da cornice ad argomentazioni di notevole spessore, fornite a dimostrazione delle inquietanti ipotesi di Cronenberg. Erede di J.Carpenter e G.A. Romero il regista, rifacendosi rispettivamente ad “Essi Vivono” e “L’alba dei morti viventi”, tratta temi sensibili e degni di nota che rendono questo film un capolavoro ancora attuale. Infatti, la critica al consumismo, il timore per i media, il disprezzo per società di massa sempre più omologata ad una sorta di oblio cerebrale unito alla capacità di esprimere e tradurre visivamente angosce e paure dell’uomo moderno sono i punti cardine di questo cyberpunk. Protagonista del film è Max Renn, interpretato da James Wood, un comproprietario di una piccola rete televisiva: la CIVIC TV. Per sopravvivere, questa rete privata deve dare al pubblico quello che i grandi networks non possono offrire perché legati da vincoli mo-
epercena - a cura di Cristina Maragno
rali e politici: sesso, violenza, sentimentalismo e sociologia spicciola. Proprio ricercando questo tipo di programmi, Max Renn si imbatte in Videodrome, un segnale video pirata che trasmette solo immagini di torture e violenze per poi scomparire dopo pochi secondi. Il protagonista ne rimane subito come ipnotizzato, interdetto, ma anche attratto fino a giungere alla completa dipendenza. In modo sensazionale, Max Renn ben si identifica, trent’anni dopo nell’uomo moderno, nel suo bisogno di evasione, nella mancanza di soddisfazione e nell’apatia sociale dove l’unico elemento in grado di restituire sensazioni e vitalità è rappresentato dal dolore. In tale contesto Cronenberg ricalca le teorie del sociologo canadese Marshall McLuhan secondo cui i media usati per provocare brividi ed eccitazione, causano una situazione emotiva generale che conduce ad una crescente esigenza di empatia e riscatto morale che inevitabilmente sfocia in un bagno di sangue. Videodrome oltre a creare
dipendenza nello spettatore, a lungo andare causa anche allucinazioni nello stesso, fino a convincerlo di come la televisione possa essere più reale addirittura della realtà stessa. Il programma Videodrome si rivelerà poi essere un tentativo, da parte di una grossa multinazionale, di manipolare le masse attraverso la distorsione della percezione della realtà delle persone. L’immagine, infatti, fa presa sul consenso intimo dell’individuo di vedere convalidare su schermo i propri sogni e le proprie ossessioni. La mortificazione del corpo fa da preludio alla sottomissione elettronica della nuova carne. In parallelo alla critica dell’incapacità umana al controllo ed alla verifica delle immagini, Cronenberg attraverso una catarsi, che non è mai totale e scevra di inquietudini, offre all’uomo una possibilità di salvezza che si estrinseca mediante la formazione di una Nuova Carne (Renn deriverebbe appunto da Renaissance) e la ripresa di una visione critica della realtà, mediante la rottura della dipendenza dal virtuale. Il protagonista nel suo percorso evolutivo attraversa tre fasi sociali : nella prima è un soggetto influenzato dai media televisivi, poi diviene uno strumento oggetto di consumo impiegato da Videodrome, che capovolge l’immagine da un individuo inconsapevole ad uno spettatore sottomesso in balia dei media, infine si assiste alla rinascita di Max Renn che comprende il potere del videodrome, acquisisce la consa-
pevolezza di ciò che vede e tenta di ribellarsi verso il sistema mediatico, sfociando in un delirante tentativo di bloccare l’avanzare del progetto Videodrome uccidendo i suoi creatori. Dopo gli omicidi Max fugge in una vecchia nave in disuso. In tale location, si ha il processo di metamorfosi finale dove nasce la nuova carne attraverso la soppressione della vecchia natura, non senza un retrogusto apocalittico che sottolinea come Videodrome in ogni caso è sempre presente ovunque si vada. Il messaggio finale che si esprime attraverso il sacrificio del protagonista è incerto e spinge lo spettatore a riflettere sulla propria condizione esistenziale. L’uomo moderno vive nell’illusione della libertà, costruita a tavolino, mentre nella realtà è soggiogato da nuovi capi del mondo, multinazionali spietate che pensano solo ai loro profitti ed interessi. La provocazione finale è indiscutibile : riuscirà l’uomo moderno a vivere in questo mondo assurdo dove la realtà sembra essere meno della televisione?
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volumea Album: The Fifth Fury Band: Gory Blister Anno: 2014 Genere: Death Metal Etichetta: Sliptrick Records Nazione: Italia Tracklist: 1. Psycho Crave (04:26) 2. Thresholds (03:30) 3. Toxamine (04:15) 4. Devouring Me (04:18) 5. The Fifth Fury (04:47) 6. Prometheous Scars (03:32) 7. (Meet Me) In The Mass Grave (03:52) 8. The Grey Machinery (03:37) 9. Heretic Infected Orchestra (03:34)
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The Fifth Fury, l’ultima malsana creatura targata Gory Blister. I deathsters milanesi, dopo Earth-Sick e dopo l’ennesimo cambio di line-up, hanno dato alla luce un prodotto che si presenta come un mix perfetto di tecnica, melodia e brutalità, classificabile in un Technical Death Metal metà anni ‘90. Nel disco sono tangibili influenze di gruppi quali Death, periodo Individual Thought Patterns, e Carcass. Ciò nonostante la band lombarda riesce a dare quel pizzico di originalità in più inserendo parti di testiere e synth che si vanno ad amalgamare egregiamente con parti di elevato tasso tecnico alle quali questo gruppo ci ha abituati e ritmiche rallentate che inducono facilmente all’headbanging. Questo full-lenght si apre con Psycho Grave, brano in cui un intro evocativo ci porta subito all’interno di questo mix di melodie e riff pesanti resi ottimali dall’ottimo lavoro della sezione ritmica di Emi e Joe. Sin dalla prima traccia si capiscono quali sono le intenzioni di John St. John, che con la sua alternanza di scream e growl, innalza al meglio la struttura del pezzo, che dopo averci sbattuto in faccia un assolo di ottima fattura, ci propone tramite delle tastiere la giusta atmosfera che accompagna il brano alla conclusione. La seconda traccia Thresholds nei suoi scarsi 3 minuti e mezzo, caccia fuori tramite un inizio molto diretto la brutalità dei Gory Blister, che come nella prima traccia, riescono a creare
un frullato ben amalgamato di riff duri e crudi e atmosfere tetre, rese tali dall’ottimo lavoro sullo sfondo dei synth che sono la vera e propria sorpresa di questo disco. Da segnalare inoltre i cambi di velocità ragionati, che trovano il loro più grande sfogo nei rallentamenti accompagnati dai sopracitati synth e dall’ottimo lavoro sulla voce di John. In Toxamine, la terza traccia, i riff della 6 corde di Raff, tramite melodie ben assestate e accenti esasperati in puro stile Spawn of Possession, fanno uscire fuori il lato più tecnico dei milanesi, cosa che il quartetto non ha mai tenuto nascosta. Inoltre, strutturato a puntino il rallentamento atmosferico che con una ritmica serrata accompagna in fade-out il brano. Devouring Me, presenta una intro breve ed essenziale che ti trasporta subito all’interno di un pezzo adrenalinico, in cui le chitarre danno vita a un ottimo incastro tra ritmica e assolo, specie nella chiusura di quest’ultimo.
astecca - Underground Civilization a cura di Jacopo Mangoni e Gabriele Vellucci
Nella title track The Fifth Fury, è presente un grandissimo dialogo tra growl e scream di stampo Schuldineriano, che va a sposarsi alla perfezione con i mid-tempo resi pregevoli dalla sezione ritmica. Prometheus Scars, presenta un inizio violento caratterizzato da blast al fulmicotone, riff pesanti e serrati che rendono la ritmica molto violenta, così come in (Meet Me) In The Mass Grave, in cui si sente particolarmente l’influenza del sound dei Death, in particolare del periodo di The Sound Of Perseverance. L’ottava traccia, The Grey Machinery, presenta parti di chitarra curate a puntino, che danno il loro meglio in un assolo che presenta velocità, ma allo stesso tempo melodie quasi Hard Rock. Come ultima traccia troviamo Heretic Infected Orchestra, bonus track che non ha niente a che vedere con il Death Metal, ma che presenta una piacevole struttura caratterizzata
dall’esecuzione di strumenti classici, che pian piano creano atmosfere sempre più tetre e cupe che accompagnano l’ascoltatore fino alla fine del brano e del disco. Per quanto riguarda la produzione, il disco presenta un’ottima pulizia di suono, caratterizzata maggiormente dalle chitarre sia nelle parti soliste, che in quelle ritmiche, a completare il pacchetto basso e batteria si presentano in maniera impeccabile, senza sbavature. In conclusione, The Fifth Fury è un ottimo disco, pubblicato da un altrettanto ottimo gruppo nostrano, ma di taratura internazionale, che ha saputo farsi valere nel tempo, nonostante i numerosi cambi di line-up, e che sta compiendo un’evoluzione verso un sound originale e ricercato. Che altro dirvi: godetevi la quinta furia dei Gory Blister!
bio
Metal Zone è il frutto del lavoro di Jacopo Mangoni e Gabriele Vellucci. La passione che li accomuna ha permesso loro di supportare gruppi della scena underground italiana ed estera, facendoli entrare in contatto con realtà statunitensi, nord-europee e asiatiche. Con Underground Civilization andranno a recensire dischi di gruppi Metal underground, trattando i diversi generi della scena. Pagina fb: Metal Zone Canale Youtube: UndergroundCvlztn
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“Sto impazzendo, cambia tutto, troppo in fretta, troppo velocemente. Sento che stanotte morirò, ma domani...domani sarò già un’altra cosa, e io saprò come adattarmi. Sopravviverò!”
evoluzione
ci vediamo al prossimo numero... ILLUSTRAZIONE \\ Giacomo Clerici PENSIERO \\ Heppi Noise
ricapitolando Non male come gruppo di pazzi, vero? Vorresti farne parte? Mandaci un tuo pezzo, una tua illustrazione o il tuo progetto fotografico a negazioniredazione@gmail.com e seguici sul web.
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