Amianto

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Alberto Prunetti

Anche il nipote di Liedholm in campo contro l’Eternit

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assolutamente diversi. Da una parte un Prunetti, l’autore di queste righe, estrazione operaia decaduta nel lavoro intellettuale e un passato da raccattapalle nel calcio amatoriale; dall’altra un Liedholm, con l’albero genealogico che si radica nell’aristocrazia calcistica di uno dei più grandi campioni di tutti i tempi, il “Barone” Nils. Due tipi completamente diversi, nell’aspetto fisico, nelle memorie familiari, nel vissuto. Eppure le loro storie, negli ultimi quarant’anni, potrebbero essersi sfiorate e intrecciate almeno tre volte. rendete due tipi

foto Corbis

I destini incrociati di due famiglie segnate dalla morte per amianto: Alberto Prunetti racconta di quando suo padre incontrò l’ex allenatore della Roma, allora proprietario di un’azienda agricola nel Monferrato. Il dramma della nuora Gabriella, pallavolista

Il “barone” e il bambino Niels Liedholm mentre gioca a calcio nel cortile della casa monferrina con il nipote Paolo, figlio di Carlo e Gabriella, morta anche lei per l’inalazione delle polveri di amianto (foto di proprietà della famiglia Liedholm)

Dalla Toscana al Monferrato, 1972-73

Tra il settembre del 1972 e i primi mesi del 1973 Renato Prunetti, mio padre, viene inviato per conto di una ditta di Novara a lavorare come saldatore e tubista in una raffineria a pochi minuti da Casale Monferrato. Lo raggiunge in Piemonte anche la giovane moglie, Francesca. I due, freschi di nozze, lasciano la Toscana e si sistemano dapprima in una pensione, poi in un appartamento. Dopo alcuni mesi Francesca scopre di essere incinta del primo figlio, il sottoscritto, per cui preferisce tornare in Maremma. Renato per un periodo scenderà in Toscana ogni venerdì, per poi ripresentarsi in raffineria il lunedì mattina dopo aver viaggiato su un treno notturno. Intanto in quello stesso periodo una leggenda del calcio mondiale, lo svedese Nils Liedholm, sta esplorando il Monferrato alla ricerca di una casa di campagna. Viaggia anche lui tra la Toscana (in quegli anni allena la Fiorentina) e il Piemonte, la regione della moglie. Nel 1973 acquisterà un’azienda agricola nei pressi di Cuccaro Monferrato, non molto lontano da Casale, in una zona a forte vocazione vinicola. Renato Prunetti in quel periodo non era troppo distante da Liedholm, ma non lo sapeva. Nils era uno dei suoi miti. Renato era nato nel ’45 ed era cresciuto col mito del Gre-no-li, il

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tridente svedese che perforava le difese italiane del dopoguerra. Considerava Liedholm un grande calciatore e un allenatore eccezionale. Aveva esultato per i suoi gol, per gli scudetti conquistati, per la forza nordica che si esprimeva al meglio accanto a Nordahl, un bomber che in Svezia, dove non c’era il professionismo, faceva il pompiere. Liedholm sarà un innovatore del calcio italiano, troppo legato al catenaccio e alla ferrea marcatu-

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ra a uomo: come allenatore darà spazio alla zona e alla proiezione in avanti dei reparti difensivi. Per entrambi, Renato e Nils, il Monferrato segnerà un momento di rottura e di sconvolgimento dei loro destini familiari.

Follonica, 1984

Del secondo incontro Liedholm-Prunetti sono stato protagonista e testimone. Nei primi anni

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Ottanta il Milan di Liedholm veniva in ritiro, per la preparazione atletica pre-campionato, a Follonica, la cittadina dove sono cresciuto. La ragione di questa scelta si spiega facilmente: il presidente Farina era proprietario di una azienda agro-venatoria tra Follonica e Massa Marittima. Quando Farina fece fallimento, cedette il testimone a Silvio Berlusconi, che come prima mossa si sbarazzò di Liedholm, un gentiluomo signorile, taciturno e

La sentenza I parenti delle vittime ascoltano la sentenza al processo in appello a Torino contro l’Eternit (foto Alessandro Di Marco/Epa)

pensoso, privo di arroganza. Insomma, uno che non rientrava nei suoi piani. Nel 1984 io ero uno stopper esordiente, ossia facevo parte del vivaio giovanile della Polisportiva Follonica e avevo pertanto accesso alle strutture sportive. La domenica facevo da raccattapalle nelle partite della prima squadra, che militava tra la Promozione e la Prima Categoria, e avevo imparato a perdere tempo se stavamo vincendo o a guadagnare metri se serviva un gol in zona Cesarini. Con gli impianti occupati dai campioni rossoneri, sostenuto da mio padre mi intrufolavo tra una sessione di stiramenti e le corsette per fare il fiato e mi facevo firmare gli autografi su una foto ufficiale della squadra. Renato era un tifoso milanista “sfegatato” e mia madre si era resa conto che nel suo pendolarismo da trasfertista non era mai a casa quando il Milan giocava il derby a San Siro. Non è difficile immaginare dove andasse. Ricordo che nel 1984, dopo aver fatto firmare Tassotti, Maldini e Baresi, alla fine chiesi l’autografo a un signore attempato. Mio padre mi aveva detto: “Mi raccomando l’allenatore, è il più anziano”. Sbagliai: avevo fatto firmare il custode, quello che si occupava di raccogliere le magliette e i calzoncini e farli lavare. Me ne resi conto subito perché tutti ridevano, sia i calciatori che l’autore dell’autografo, che firmò di gusto. Quando il giorno dopo finalmente mi trovai di fronte al vero Liedholm, lo trovai troppo autorevole e mi imbarazzai. Mio padre si trovava sulla tribuna metallica che scricchiolava a ogni passo nella sua intelaiatura leggera. Scese, bordeggiò la rete metallica a rombi del campo, poi si avvicinò al cancellino verde vicino agli spogliatoi. Mi disse di aprire. Lo feci entrare e, quando apparve Liedholm con alcuni calciatori, ci avvicinammo assieme. Siccome quel giorno non avevamo né carta né penna, ci limitammo a una stretta di mano. Liedholm strinse prima quella di Renato e poi la mia. Quella volta, per un istante, il destino di un Prunetti e di un Liedholm si erano incrociati. Perché succedesse di nuovo, ci sarebbero voluti tanti anni, quando i due protagonisti di quella stretta di mano serano ormai entrambi scomparsi.

Tribunale di Torino, giugno 2013

Un viaggio che in certo modo è un ritorno. Perché a Casale mancavo da quarant’anni: vi ero stato da feto, vi ero stato concepito, a Casale Monferrato. E da Casale mi ritrovo in viaggio verso Torino, per la lettura della sentenza d’appello del proces-

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so Eternit, in un pulman dell’Afeva, l’associazione dei familiari delle vittime dell’amianto di Casale. In attesa della sentenza che doveva condannare Stephan Schmidheiny, il proprietario svizzero della multinazionale Eternit, a un certo punto la mia attenzione viene colpita da un ragazzo giovane dall’aria distinta, quasi signorile. Chiedo a Luca, che fa parte dell’associazione Voci della memoria, chi sia quel ragazzo. Ha l’aria di un avvocato, ma sta tra le parti civili. Indubbiamente non ha un’aria operaia. Immagino sia parente di qualche vittima. Luca mi risponde “È Paolo Liedholm” e sembra aver detto tutto. Io invece capisco anche meno. “Come Liedholm?”, replico. “Liedholm” mi dice, guardandomi stupito visto che io e lui abbiamo passato la notte a bere Barbera e a parlare di calcio degli anni Ottanta, del Toro e della Roma di Pruzzo, degli assist di Bruno Conti e dei calci di rigore di Di Bartolomei. “Liedholm lui… il Barone?” Sì. E allora, abituato a pensare che la storia dell’amianto sia solo una storia ope-

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La busta intestata L’indirizzo dello stabilimento Eternit di Casale Monferrato. L’ultimo proprietario, lo svizzero Stephan Schmidheiny, è stato condannato in appello a 18 anni di reclusione (foto Eloise Nania/Corbis)

raia, gli chiedo: “E che c’entra?”. “C’entra, c’entra”, dice. E mi racconta un’altra storia del Monferrato, una storia casalese, di sport e amianto. È alla fine di questa storia che un Prunetti e un Liedholm torneranno a stringersi la mano.

Il modulo di gioco dell’amianto

Che cosa lega questi tre episodi? Perché il figlio di un operaio che ha lavorato per qualche mese in una raffineria a pochi minuti da Casale e il nipote di un calciatore dal palmares aureo finiscono per incontrarsi in un tribunale, in quello che – nella cronaca di quei giorni - è stato definito il processo del secolo? Cosa c’entra il cognome Liedholm con il processo Eternit? È una storia che comincia tanti anni fa e il pallone è sempre di mezzo. Nils in Italia ha messo radici. Aveva detto al padre che sarebbe rimasto solo un anno, invece non è più andato via. Si è sposato, nel 1973 ha comprato un’azienda agricola nel Monferrato. Nel 1982, l’anno dei Mondiali

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di Spagna, un figlio di Nils, Carlo, lavora come dirigente sportivo del Casale Calcio, squadra locale che allora militava ancora nelle divisioni professionistiche. Proprio nella sede del Casale Calcio Carlo conosce una ragazza di Casale, bionda e con gli occhi azzurri, Gabriella, all’epoca impiegata presso una società del gruppo del presidente. Dopo un fidanzamento di cinque anni, i due si sposano nel 1987. Un anno dopo nasce Paolo e nel 1993 viene alla luce il secondo nipote di Nils, Andrea. Un’esistenza tranquilla fino al gennaio 2007, quando accadono due eventi infausti. Un giorno muore il vecchio Nils. Un altro giorno, di prima mattina, a Gabriella capita una cosa che per molti casalesi rappresenta un vero incubo: si sveglia con dei forti dolori alla schiena. Un segnale che scatena il panico, perché da quelle parti le fitte ai reni vogliono dire una cosa ben precisa. La malattia dell’Eternit. Il mesotelioma. Le analisi confermato i peggiori timori: Ga-

Interno ospedale La sala d’attesa dell’ospedale Santo Spirito di Casale Monferrato, dove si curano ancora oggi i malati di asbestosi della Eternit (foto Eloise Nania/Corbis)

briella ha un mesotelioma pleurico peritoneale. Si cercano le cure migliori, la operano a Boston, in un centro di eccellenza mondiale per la chirurgia toracica, ma purtroppo contro questo male non c’è nulla da fare. Gabriella, come si dice a Casale con un diffuso eufemismo, “è mancata” nel giugno 2008, a nemmeno 50 anni, lasciando un marito e due figli. La sua cartella clinica si trova adesso, assieme a quelle di qualche migliaio di cittadini casalesi, nel grande archivio di piazza Castello, nella sede dell’Afeva. Una storia, un modulo di gioco assassino che si è ripetuto tante, troppe volte, a Casale. Per questo Paolo Liedholm, figlio di Carlo e Gabriella, quel giorno stava tra i banchi dei familiari delle vittime dell’Amianto, anzi, tra le parti civili. E io mi trovavo lì perché proprio dieci giorni prima avevo portato in una libreria di Casale Monferrato il mio libro sull’amianto, che racconta la storia di mio padre, i suoi lavori a contatto con la fibra assassina e la sua malattia ai polmoni.

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Ero anche andato a una delle ultime udienze e i compagni di Voci della Memoria, il gruppo “giovanile” dei familiari delle vittime dell’amianto, mi avevano portato a vedere la raffineria Maura, dove mio padre aveva lavorato nei primi anni Settanta, non troppo lontano dalla casa dei Liedholm.

Il catenaccio dell’Afeva

Quando chiedo a Paolo in quale momento pensa che sua madre abbia respirato amianto, dato che non ha mai lavorato all’Eternit, lui sostiene che è ancora lo sport a segnare il destino della sua famiglia. Infatti, quando gli capita di parlare a nome dell’Afeva, esordisce con queste parole: “Se sono qui, oggi, è perché mia madre, molti anni fa, ha commesso un errore imperdonabile. Ha pensato di poter giocare a pallavolo a Casale Monferrato”. Alcuni impianti sportivi di Casale, molto frequentati dagli adolescenti, erano proprio stretti tra il fiume Po e gli stabilimenti Eternit. Anzi, la multinazionale arrivava al punto di regalare il polverino, il materiale di risulta della lavorazione del cemento-amianto, per livellare i campi sportivi e renderli più morbidi. Non lontano da quegli impianti il Po formava un’ansa e la corrente aveva raccolto sulla riva una sorta di sabbia bianca, dove gli adolescenti andavano a fare il bagno. Era una cosa comune portarci la fidanzata, negli anni Sessanta e Settanta. Paolo Liedholm racconta la propria storia con lucidità invidiabile: “La nostra è la storia di uomini e donne maturi che scoprono, a un certo punto della loro vita, che il loro destino è già stato scritto venti, trenta, quarant’anni prima. Da una fibra invisibile a occhio nudo, assunta con un gesto semplice come un respiro, che produce i suoi effetti milioni di respiri dopo, quando cioè quella persona è nel frattempo diventata adulta, ha studiato, si è innamorata, ha trovato un lavoro, lo ha perso, ha avuto dei figli, ha viaggiato, si è sposata... insomma, è diventata se stessa”. Quel che trovo in Paolo, e in tanti altri casalesi, è una forza simile a quella di chi ha conosciuto altri genocidi. Mi è capitato spesso di fare paragoni tra i familiari dei desaparecidos argentini e i familiari delle vittime dell’amianto, avendo frequentato entrambe queste realtà. Hanno un’energia e una lucidità che non ti aspetti, perché sono riusciti a socializzare il proprio dolore e a rielaborare il lutto nella mobilitazione. Spesso,

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pur avendo subito delle tragedie familiari, hanno esteso il loro nucleo familiare, il loro concetto di maternità, o di paternità, o di fratellanza, in senso comunitario, collettivo. Paolo mi ha scritto in una lettera: “Ritengo che solo la socializzazione delle singole storie possa dare un senso alla tragedia, cercando di evitare che altre persone vivano esperienze così devastanti. Oggi Casale è il simbolo mondiale della rinascita dalle polveri d’amianto, un punto di riferimento per i Paesi in via di sviluppo che stanno vivendo in questi giorni le tensioni tra salute e lavoro che noi abbiamo vissuto trent’anni fa. Questa magnifica reazione è passata prima da una minuscola Camera del lavoro e poi da un’associazione di volontariato di familiari. In vent’anni, ‘Davide’ ha fatto chiudere la fonte inquinante, ha partecipato all’approvazione di leggi nazionali in materia, ha sommerso l’Inail di richieste di invalidità di ex lavoratori, ha riunito e coordinato la costituzione di parte civile di migliaia di vittime, ha premuto per una bonifica completa di Casale, ha sostenuto la ricerca, è diventato interlocutore riconosciuto delle istituzioni ed è considerato un’eccellenza celebrata in Francia, Brasile, Belgio, Svizzera. Non possiamo cambiare ciò che è stato. Ma se, con il nostro operato, riusciremo a salvare anche una sola persona, daremo un senso alle nostre vittime”.

Dalla parte giusta

Mi piace pensare che il vecchio “Barone” Liedholm, che per decisione di Gabriella è morto ignorando la malattia della nuora, avrebbe in un momento d’ira scatenato la forza di Odino e il martello di Thor, la potenza esplosiva del calcio di rigore di Agostino Di Bartolomei e quella del trio Gre-no-li, le radici dei vitigni del Monferrato e la determinazione della signora Romana, la presidente dell’Afeva di Casale. Tutto contro l’Eternit. Ma questo è un sogno da bambini, perché per queste cose, più che la magia di un mago nordico come Gandalf o di un nonno campione come Liedholm, serve forse il vecchio catenaccio dell’impegno e della perseveranza dei comitati di lotta delle vittime dell’amianto. Non sarà lo schema più moderno, ma è quello che ha messo alla sbarra Schmidheiny. Tra i marcatori stretti del multimilionario svizzero c’era anche un giovane Liedholm. E un Prunetti che, dal bordo campo, da buon raccattapalle all’italiana, butta, barando un poco, la palla in gioco. Ma dalla parte giusta.

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