Auschwitz

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Testo e foto di Matteo Tacconi

Oggi chi vive ad Auschwitz cerca soltanto la normalità

A

tra i fiumi Soła e Vistola, a poche spanne dal confine amministrativo tra le regioni storiche della Małopolska e della Bassa Slesia, nella Polonia meridionale: qui sorge Os´wie¸cim. Quarantamila abitanti in tutto, un’ora di strada da Cracovia. Queste le scene che saltano agli occhi, giù in città. Messa della domenica. Il pastore predica, spezza il pane e beve il vino. Il gregge borbotta preghiere e si affida ai santi. A funzione finita sfila silenzioso davanti a una grossa croce. Accanto c’è una targa di Solidarnosc. Immancabile. Mercatino del fine settimana. Banchetti con verdure e frutta della campagna. Oggetti da cucina, cappotti e scarpe a prezzi accessibili. C’è persino uno spiazzo riservato a salotti e cucine. I commercianti arrivano con dei furgoni, fanno scivolare la merce su delle pedane e la espongono. Il Rynek è la vecchia piazza del mercato medievale. Sul suo perimetro si susseguono palazzine pastello da poco ristrutturate. I pianterreni ospitano filiali di banche, una pasticceria, una drogheria, un ristorante e un locale dove la sera i giovani si rintanano a sorseggiare birra. Si ascolta buona musica. Poco oltre il Rynek c’è il castello. Anch’esso di epoca medievale, anch’esso rimesso in sesto. Dal cucuzzolo su cui s’aggrappa si scorgono le anse della Soła, costeggiate da un percorso pedonale di recente realizzazione. Anziani e bambini allungano pane sbriciolato a dei cigni. Area della stazione. Tanti piccoli capannoni, qualche montagnola di carbone. In questo versante di Polonia si trova una delle vene più grandi d’Europa. Malgrado nel corso degli anni ci siano stati tagli, le cave danno ancora lavoro a tante persone, nutrono l’economia e riscaldano le case. Dai camini escono colonne di fumo nerissimo. lla confluenza

Gli abitanti di Os´wie¸cim, vero nome della città, non nascondono gli orrori del campo di concentramento, ma non vogliono che il passato pesi sulle loro esistenze. Scontri molto duri in passato tra il nazionalismo polacco e le comunità ebraiche internazionali

L’autobus L’autobus dei visitatori del museo statale di AuschwitzBirkenau in arrivo da Cracovia

Tensione tra vecchio e nuovo

Questa rapida indagine visiva direbbe che Os´wie¸cim non è diversa da tante altre città po-

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lacche di medie e piccole dimensioni. C’è una certa tensione tra vecchio e nuovo, ma s’è fatta meno ruvida, avvantaggiando il secondo. Si percepisce una progressione: ormai il miracolo polacco, com’è stata definita la fase espansiva vissuta dopo l’ingresso in Europa (2004), non senza qualche forma di mitizzazione, è giunto anche nella remota provincia. Dal manto stradale arriva un’ulteriore conferma. La posa d’asfalto è recente e qualche cartello ricorda che è stata finanziata con fondi europei, assorbiti egregiamente dai burocrati polacchi. Tutto ordinario, regolare. Se non fosse che ai margini della città sorge il laboratorio di morte più infame del XX secolo: Auschwitz. Così i nazisti ribattezzarono Os´wie¸cim, dopo averla occupata nel 1939, durante l’offensiva lampo che sancì l’inizio della seconda guerra mondiale e diede esecuzione al patto Ribbentrop-Molotov: a Hitler la Polonia occidentale, a Stalin quella orientale. Il complesso di reclusione e sterminio era formato da tre campi principali, a fronte degli oltre quaranta complessivi. Auschwitz I, al cui ingresso compare la sciagurata scritta Arbeit Macht Frei, fu costruito nel 1940. Due anni più tardi fu completato Auschwitz II. È meglio noto con il nome di Birkenau e si trova oltre l’area ferroviaria di Os´wie¸cim. Qui morì il grosso delle

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Le camere a gas Una giovane visitatrice davanti ai resti delle camere a gas di Birkenau

vittime: più di un milione e mezzo, in maggioranza ebrei. Anche il terzo campo, Auschwitz III (Monowitz), divenne operativo nel 1942. Vi trovò posto una grande fabbrica della Ig Farben, l’azienda chimica che produceva il famigerato Zyklon-B, con cui gli internati venivano gasati. A ogni modo a Monowitz, dove Primo Levi fu messo ai lavori forzati, si lavorava la gomma e si trattavano i carburanti. Sul fazzoletto di terra su cui campeggiava la sagoma della Ig Farben, di cui non restano che pallidi ruderi, c’è oggi un’altra fabbrica, sempre chimica. Si chiama Chemoservis-Dwory Sa ed è il principale datore di lavoro di Os´wie¸cim. Come ci si sentirà a lavorare in uno spazio dove una volta prendeva forma il disegno criminale del Terzo Reich? Non è l’unico pensiero disturbante che una visita a Os´wie¸cim porta a formulare. Che effetto fa camminare nei campi, nei boschetti o sul lungofiume, lì dove la terra – così si racconta – è ancora intrisa alle ceneri dei morti? Come fanno gli abitanti a sopportare la presenza ingombrante di Auschwitz? Viene poi da chiedersi se i tre ristoranti e la struttura alberghiera posti di fronte all’ingresso del museo statale di Auschwitz-Birkenau, così come la piccola zona industriale che si sviluppa lì intorno, non siano cosa poco decente. Non sarebbe stato meglio

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che l’area limitrofa al campo restasse intonsa e silenziosa, evitando che le attività dei vivi lambissero il riposo dei morti?

Le manipolazioni del Novecento

È proprio intorno a questo tema, quello della distanza tra le faccende dell’uomo e il campo, che s’è andato definendo nel corso del tempo l’equilibrio tra Os´wie¸cim e Auschwitz. Una ventina d’anni fa un imprenditore del posto, Janusz Marszałek, poi eletto sindaco nel 2002, voleva costruire un supermercato a ridosso di Auschwitz-Birkenau. Molte associazioni ebraiche protestarono rumorosamente. Alla fine non se ne fece nulla. Nel 2000 scoppiò un’altra polemica, se possibile ancora più veemente. Il comune di Os´wie¸cim autorizzò l’apertura di una discoteca, distante circa un chilometro e mezzo dal campo. Fioccarono appelli di condanna e giunse a interessarsi della diatriba anche il governo nazionale, tanta fu l’eco mediatica che ebbe. Da Varsavia arrivò una nota di biasimo. L’anno dopo la discoteca, chiamata System, chiuse. Tenuto conto di questi precedenti è evidente che se negli anni successivi è stato possibile collocare attività alberghiere e di ristorazione a pochi passi dal lager si è verificato un cambio di paradigma. Spiega il direttore del museo

I “labirinti” I “labirinti” del pittore Marian Kolodziej, ex prigioniero di Auschwitz, custoditi nel centro Massimiliano Kolbe

ebraico di Os´wie¸cim, Tomasz Kuncewicz: “Fino a qualche fa c’era la convinzione che il marchio di Auschwitz dovesse inevitabilmente frenare lo sviluppo economico di Os´wie¸cim e rendere pesante vivere in questo posto. Ma dopo i casi del supermercato e della discoteca, emblematici, il quadro è variato. Controversie del genere non hanno più trovato spazio”. Secondo Kuncewicz la transizione tra il prima e il dopo si motiva con la traiettoria politica e culturale seguita dalla Polonia nel secondo Novecento. “Il regime comunista, adeguandosi alla linea sovietica, forzò il senso di Auschwitz. Il campo fu descritto come il simbolo della sofferenza infitta dal nazismo a molti popoli. Cosa indubbiamente vera, dato che non vi morirono solo gli ebrei. Ma così facendo si depotenziò il significato dell’Olocausto amplificando di conseguenza l’umiliazione patita dalla nazione polacca”. L’accento sull’orrore nazista era tra l’altro funzionale a sminuire le violenze inferte dai sovietici, che sottrassero terra alla Polonia, oltre a uccidere molti suoi figli. I ventimila morti del massacro di Katyn, compiuto dai sovietici nel 1940, fanno ancora indignare. Il corto circuito su Auschwitz ha generato scontri molto duri tra il nazionalismo polacco e le comunità ebraiche internazionali. Gli alfieri del primo, coltivato strumentalmente dai comu-

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nisti e non infrequentemente sfociato in forme di antisemitismo, hanno preteso che il martirio della loro nazione fosse equiparato al dramma degli ebrei, che da parte loro hanno interpretato questo approccio come una negazione della Shoah. Questo è stato, volendo semplificare. Prima e anche dopo il 1989. Il progredire costante del processo di democratizzazione ha però a mano a mano smussato gli spigoli. La “competizione” tra sofferenze è in larga misura venuta meno. I polacchi commemorano i loro morti, ma sanno che Auschwitz è soprattutto il luogo dello sterminio degli ebrei. Gli ebrei hanno invece compreso che l’enfasi sulle vittime polacche non è solo un esercizio di nazionalismo. In questo modo è stato possibile superare parzialmente i vecchi blocchi e, tornando al dettaglio, costruire alberghi e ristoranti a fianco del museo di Auschwitz-Birkenau. D’altro canto il flusso di turisti è corposo: 1,5 milioni di biglietti staccati ogni anno. Intercettarlo è un’occasione economica.

“Non può esserci una città”

La curva flette verso la normalità, dunque. Ma la normalità non si fa solo con i processi di reciproca comprensione e le sensazioni restituite dal colpo d’occhio. Bisogna anche lavorare sull’immagine. In questo senso c’è ancora abbastanza strada da fare. I richiami all’epopea quasi millenaria di Os´wie¸cim, cui fanno appello gli amministratori, nel tentativo di separare la storia del centro abitato da quella del campo di sterminio, non bucano lo schermo. Chi non è mai stato in questo posto fatica a immagina-

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Vita quotidiana L’interno di un bar di Os´wie¸cim (ribattezzata Auschwitz durante l’occupazione nazista)

re che Os´wie¸cim sia una città della provincia polacca, con la chiesa, il mercatino della domenica, la fabbrica, le scuole, le aziende, l’odore di carbone, il cinema e i supermercati, la piazza, il castello, le banche, le ricadute positive della crescita economica e le zavorre – è il caso dell’occupazione giovanile – di cui è difficile liberarsi. “Prima di venirci non credevo che qui ci fosse una città. Al massimo pensavo a qualche casa”, racconta Astrid Schwieder, giovane volontaria tedesca dell’International Youth Meeting Center, una delle diverse strutture che a Os´wie¸cim provano a costruire dialogo e comprensione. Il Museo ebraico, che scava soprattutto nella storia pre-bellica cittadina, informata dalla cultura giudaica (gli ebrei erano maggioranza demografica), è parte di questa schiera. Daniel Haim, austriaco, vi sta facendo il servizio civile. Anche lui, prima di metterci piede, riteneva che Os´wie¸cim fosse solo un vasto cimitero: “Avevo in mente le baracche, il campo, la Shoah. Non certo che sarei andato in una città a tutti gli effetti”. Dal rapporto tra come la si pensa da fuori e ciò che Os´wie¸cim è realmente muove il Life Festival, probabilmente l’iniziativa più importante tra quelle orientate a promuovere un’immagine normale di questo posto, scindendo il nesso Auschwitz/Os´wie¸cim o meglio, mettendolo nella giusta luce. Il Life Festival è una manifestazione musicale di un certo richiamo. L’anno scorso l’ospite d’onore è stato Eric Clapton, quest’anno tocca a Goran Bregovic. La kermesse è stata concepita da Dariusz Maciborek. Nato e cresciuto a Os´wie¸cim, Maciborek è

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un popolare conduttore di Rmf, l’emittente privata più ascoltata della Polonia. C’è un preciso momento in cui s’è convinto che il festival fosse urgente, necessario. “Mi trovavo in vacanza in Austria, qualche anno fa. Sciavo. Conobbi un uomo, un ingegnere di Amburgo sulla quarantina. Ci mettemmo a parlare e quando gli spiegai che ero di Os´wie¸cim, disse di non conoscerla. Allora ne pronunciai il nome tedesco, Auschwitz. Al che rimase perplesso. Lì non c’è niente, sentenziò. Ecco, fu in quell’istante che pensai che il Life Festival, allora solo un’idea, dovesse concretizzarsi”.

La nuova generazione

Al Cafe Bergson, che afferisce al Museo ebraico, si radunano ogni pomeriggio i volontari internazionali che prestano servizio nell’indotto della pace e qualche ventenne del posto. Sorseggiano caffè, navigano su Internet, studiano. Sarà banale a dirsi, ma sono proprio loro, i giovani, che più di tutti hanno il compito di contribuire a collocare Os´wie¸cim in una nuova dimensione. I volontari possono farlo raccontando, una volta tornati nei loro paesi, che Auschwitz è una storia e Os´wie¸cim un’altra. La consegna dei ragazzi del posto, invece, è quella di abituare a quest’idea chi si trova qui di passaggio, indipendentemente dal fatto che il periodo sia breve o lungo. “Mostrare come vanno le cose da noi è fondamentale”, dice Karolina Turza, una delle bariste del Bergson. È nata nel 1989 e ci tiene a specificarlo, come per sottolineare che i complessi retaggi del Secolo breve le sono alieni. Karolina è felice della sua vita a Os´wie¸cim.

Il campo nazista Un uomo in bicicletta percorre il perimetro esterno dell’ex campo di concentramento di Birkenau

Lo è pure Ada, che si alterna con lei dietro il bancone del Bergson: “Ci sono le scuole, i locali. Ci sono le cose che si trovano in ogni altra città”, afferma. Anche Mirka, insegnante d’inglese e responsabile logistica in un’azienda di trasporti (i giovani a volte sono costretti al doppio lavoro), si sente a suo agio a Os´wie¸cim. “Questa è una città piccola – dice – non è affollata. Sono libera, sono me stessa. C’è tutto quello che serve e se proprio mi venisse voglia di mangiare sushi, posso pur sempre andare a Cracovia”. Frasi come queste spianano la strada alla leggenda, valida a ogni latitudine e longitudine, del piccolo mondo antico e della vita di provincia dagli orizzonti ristretti, ma dopotutto confortevole. In realtà rappresentano qualcosa di molto più rilevante, almeno a Os´wie¸cim. Simboleggiano una rottura radicale nel modo di rapportarsi al posto in cui si vive. Dopo la guerra molti dei nonni di questi ragazzi non sono riusciti a sentirsi a casa. Chi di loro restò o tornò a risiedervi dopo il 1945 trovò faticoso riabituarsi alla città. Un’altra parte della popolazione giunse dal vecchio Est polacco, incorporato dall’Urss. Non potevano parlare delle loro tragedia e dovevano al tempo stesso sopportare in silenzio la manipolazione di Auschwitz. La nuova generazione, superati i tentennamenti di quella intermedia, rappresentata da padri e madri, sta superando i traumi. Os´wie¸cim ai suoi occhi è normale. Forse, a dire il vero, normale non può ancora esserlo e non potrà mai. Ma non è più automatico il contrario: che l’ombra sinistra del campo di morte sia un’ipoteca inestinguibile sulle loro esistenze.

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