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Beppe Sebaste

Casa Ghirri, un reportage dalle ombre silenziose

Dopo la morte di Luigi e della moglie Paola, il rurale di Roncocesi appare come un vertiginoso “museo” di segni e impronte del passato. Parole e immagini non svelano il mistero del visibile, lo preservano. Frammenti della storia di una memoria condivisa

C’

Il progetto

L’importanza dell’infinito

era già freddo,

la sera, seduti nella piazza a Reggio Emilia, la penultima volta, quando dissi agli amici che mai come ora dovevamo prendere sul serio l’esclamazione famosa di Cézanne – “bisogna fare presto, perché tutto sta per scomparire”. Dovevamo anche fare come ci aveva insegnato Gianni nel suo magnifico Poi: guardare l’interno come se contenesse ogni mondo esterno, guardarlo per l’ultima volta, come se fosse la nostra casa e non fosse mai più la nostra casa. Farsi guardare da lei. Riportarne l’unico archivio possibile. Se Gianni aveva esplorato il tempo immobile, senza testimoni, qui si trattava di fermare la pluralità delle nostre memorie e testimonianze prima dell’oblio. L’ennesimo (per me) lavoro di fantasmi, coi fantasmi. Reportage dalle ombre interne ed esterne, dai resti di un racconto frantumato, portato via, dissolto – poiché anche abitare è sinonimo di raccontare storie. Pensai a quei fenomeni di erosione della memoria e del linguaggio descritti da Roman Jakobson nei libri che si leggevano all’Università per spiegare la poesia con l’afasia (e viceversa): qualcosa che scompare, si buca, crepa, si perde, si metaforizza (o, narrativamente, si metonimizza). Ma non è già tutta la vita erosione, usura, metafora progressiva della metafora fino alla trasparenza (come un pezzo di tessuto così logoro che ci si vede attraverso), al quasi invisibile? Quello che resta, che resiste all’usura, forse per caso, e acquista una mitica luccicanza. Umano romanticismo del frammento, scaturigine di sensi, epifanie, illuminazioni. Sopravvivenza, cioè testimonianza. Finché l’ultima volta, l’ultimo funerale alle spalle, il cerchio apparentemente chiuso o ancora tutto da tracciare, eccoci nella stessa piazza invernale, dove è impossibile ormai

Nell’autunno dello scorso anno alcuni amici di Luigi e Paola Ghirri tra cui i fotografi Daniele De Lonti, Vittore Fossati, Gianni Leone e lo scrittore Beppe Sebaste si riunirono nella casa provvisoria di Paola, gravemente ammalata, per immaginare insieme un’iniziativa che ricordasse il grande fotografo nel ventennale della sua scomparsa, avvenuta il 14 febbraio 1992. Si parlò di un archivio nel sottotetto della casa ricostruita di Roncocesi, dove Paola sperava di tornare presto, appena terminato il restauro dopo l’incendio che l’aveva resa inagibile. Paola scomparve solo un mese dopo quell’incontro, l’8 novembre 2011. La ricordanza e gli incontri successivi furono dedicati anche a lei. Dopo il tributo a Luigi e Paola Ghirri con “Fin dove può arrivare l’infinito” (Skira, 2012) è stato avviato dalle quattro persone nominate sopra un progetto su Casa Ghirri, di cui le immagini e il testo che pubblichiamo in anteprima in questo servizio sono i “frammenti” iniziali. Scrisse Ghirri: “Vedere un paesaggio come se fosse la prima e l’ultima volta determina un sentimento di appartenenza ad ogni paesaggio del mondo”.

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foto di Daniele De Lonti, Vittore Fossati e Gianni Leone

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sedersi all’aperto nonostante la mia claustrofobia. Volevo confidare agli amici fotografi il mio smarrimento: per la prima volta, pessimo segno, durante il viaggio avevo fatto degli autoscatti col telefonino, il mio riflesso sulla finestra del treno nel paesaggio buio. Dissi che il lavoro che avevamo intrapreso aveva questo di speciale, o di insensato: l’assenza di confini, non sapere dove inizia né dove finisce. Diciamo “casa Ghirri”, diciamo Roncocesi, o Reggio, diciamo Luigi, diciamo Paola, diciamo “la casa e le stagioni” (era il nome che Luigi voleva dare a un fienile di fronte alla casa, poi scomparso, che diventasse uno spazio d’amici), diciamo necessariamente anche Giorgio, Giorgio Mes-

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Gianni Leone Le foto di queste pagine e della precedente sono di Gianni Leone

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sori, verso il quale il mio senso di mancanza è ancora più acuto e bruciante (che cosa direbbe e vedrebbe, che cosa scriverebbe lui in questa visitazione?) – non ci sono limiti alle associazioni di mente e cuore, questo lavoro nasce ruscello ma diventa fiume in piena, diventa oceano, e sembra perdere naturalmente la propria identità. Come direbbe un antico libro che mi è caro, “non si può trattenere a lungo la luce del tramonto”. Volevo dire tutto questo, poi già prima di cena, sulla tovaglia a quadri rossi e bianchi del tavolo apparecchiato, sfogliando le loro prime foto – quelle di Daniele, quelle di Vittore ­– capii che non avevo nulla da aggiungere, né nulla da vergognarmi quanto alla mia luttuosa tristezza. Guardo le immagini della casa intaccata dall’ombra. La libreria a destra del corridoio d’entrata che incornicia la porta dello studiosalotto, le ripetute epifanie nelle foto di Vittore – l’immagine dell’eclisse di un 8, i regali reciproci di Paola e Luigi, l’8 rovesciato, l’infinito, e “Infinito” fu la loro attività comune; ancora la casualità di un 8 formato da un nastrino che lista a lutto la scatola di foto del set del film (“La strada provinciale dell’anima”, credo), al-

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Daniele De Lonti Le foto di queste pagine e della successiva sono di Daniele De Lonti

tri 8, altri otto – che cosa lega l’8 all’ottica? ❡❡❡❡ Il mattino dopo quasi ci perdiamo nelle strade che conosciamo a memoria, e con pretesti sempre diversi ci fermiamo quasi ogni trecento metri. Siamo a Roncocesi. La casa è ancora avvolta dalle impalcature. Il tetto è finito. Camminiamo nella penombra delle stanze vuote. Io sono sommerso dai ricordi di altri resti, archivi, traslochi, sparizioni. Dove andranno le cose di tutti, impregnate d’anima e lavoro, dei fantasmi che chiamiamo idee, arte, poesia, filosofia? Dove andranno tutti i segni che abbiamo tracciato sulla carta, le nostre impronte? Che cosa potrà sopravvivere? Tutte le cose senza le persone… Vale per le cose quello che si può dire dei luoghi senza le persone, che tanto hanno commosso Luigi: non esistono finché non se ne dà testimonianza. Non esiste una geografia fuori dall’umano, dal suo sguardo, dal suo abitare, fosse anche solo l’attraversamento di un istante, un colpo d’occhio o un sorvolare. Che lo si voglia o no, e nonostante la retorica della natura incontaminata, lo spazio del paesaggio è inseparabile dall’umano. Lo spazio è l’esperien-

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za dello spazio. Come le cose. Alla fine, lo sai, carne, polvere e infinito sono la stessa cosa. ❡❡❡❡ Le parole non svelano il mistero del visibile, lo preservano. Non squarciano buio né veli, né tantomeno le plastiche che coprono le cose un tempo abitate (e abitabili per l’a-venire). Modello di relazione agli antipodi dell’afferrare, del conoscere: scorrere senza possedere né sapere – accarezzare. La storia che raccontano è misteriosa e fragile, esposta all’inconsistenza – e quindi a sua volta all’insensatezza – in modo non troppo dissimile dalla presunta banalità indossata con umile, ironico stoicismo dal lungo lavoro di Luigi Ghirri, “fotografo della domenica” per tanti sazi osservatori. Una brillante, lucida opacità, umana senza bisogno di comparse. Le parole, come le immagini, non dissiperanno alcuna nebbia, al contrario la richiamano e accolgono per far vedere meglio “le cose vicine”, ma senza abolire le cose lontane. Le fanno anzi coincidere, mettendo insieme il così vicino e il così lontano. Non imbrogliano, perché come

le foto dicono quello che c’è e che non c’è. Mi viene in mente invece una delle ultime volte in cui ero qui, forse era proprio l’ultima, quando la vita scorreva come un fiume gonfio, la cucina era piena di cose e di biscotti, la teiera era sul fuoco e Paola mi affidò la cura dell’ultimo scatto di Luigi, quello che chiamai “Fino all’inizio del mondo”. Desiderio, oggi, di andare a cercare, qui intorno, quel canale, quella nebbia, quel bianco, quell’impermanenza. ❡❡❡❡ Tramortito dai pensieri e dai ricordi, fuori, di fronte alla porta a vetri, ascolto voci di parenti che parlano della ristrutturazione della casa e del suo avvenire – dopo l’incendio, dopo la morte di Paola, per la vita e il futuro di Adele. A volte le cose si ripetono, dice la voce, ma si risolvono – e fa un parallelo tra i debiti e le incertezze lasciate da Luigi a Paola (ricordo il pagamento dell’Iva su lavori fatti da Luigi e non ancora retribuiti), ma anche un immenso patrimonio di lavoro; e quello che ha lasciato Paola alla figlia, lavori di ristrutturazione della casa da pagare, ma la certezza di averla, e prospettive per il futuro, considerando l’altissimo riconoscimento anche

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economico che hanno ora le foto di Luigi. Mentre ero lì attonito a guardare la casa dal di fuori, ma troppo vicino per guardarla davvero, e mi arrivavano frammenti di quella conversazione, assistevo a un conflitto dentro di me tra il passato concreto e il futuro astratto, tra la memoria e l’avvenire (l’avvenire è ciò che non mi riguarda, è il mondo “senza di me”), confessandomi che è il passato a interessarmi e motivare le mie azioni e le mie percezioni, e che tutte le frasi sul futuro mi sembrano vuota retorica. Dietro di me un amico scattava fotografie e in quel momento si affacciò dalla porta semiaperta la donna moldava delle pulizie, forte e sorridente, che spazzava con energia la polvere nel corridoio d’ingresso. La polvere del passato: come dire agli amici che a me interessa solo quella?

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Quando l’amico mi mostrò la fotografia digitale dall’apparecchio mi resi conto della coincidenza: la parte sinistra della foto inquadrava il mio riflesso sul vetro della porta mentre rimuginavo sul passato, quella di destra la porta semiaperta che incornicia la scopa che spazza (per l’avvenire?) la polvere presente. La rappresentazione è luttuosa, questo l’ho argomentato anche troppe volte. È la manifestazione che conta, spesso sinonimo di gioia pura. La manifestazione di ciò che appare e scompare, come nei giochi dei bimbi. E allora, questo lavoro che cosa è? Tratteniamo qualcosa per farlo rivivere, o solo riapparire? E quello della donna moldava? Il paradosso è anche che, mentre restavo lì fermo a scrivere questi appunti, Vittore sta-

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va ri-fotografando la stessa inquadratura con tempo lungo di esposizione, costringendomi per qualche interminabile secondo, poiché ero nel suo campo visibile, a una diversa e cosciente immobilità, una finzione di tempo presente. Anche questo, credo, dovrebbe suggerirmi qualcosa, forse illuminarmi. Dalle cose senza le persone alle persone senza le cose. Cambio tempo verbale, uso il pre-

Vittore Fossati Le foto di questa pagina e della successiva sono di Vittore Fossati

sente storico. Camminiamo e parliamo a ruota libera sull’asfalto silenzioso di Roncocesi, tra i larghi parcheggi per auto e camion e le strade deserte. Caseggiati bassi ospitano scuole, bocciofile e altri contenitori di tempo libero per anziani e bambini. Camminiamo e parliamo come sballati, mentre il cielo un po’ si apre e si illumina, verso l’ora di pranzo, e noi cerchiamo un posto dove andare a tavola. Di cosa parliamo?

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Del tempo, è ovvio. Mi trovo di fianco a Vittore, e gli dico il mio turbamento di prima. Nel presente, mi dice lui al ritmo lento dei nostri passi, i nostri utensili – linguaggio, immagini, associazioni, idee e visioni – ci vengono dal passato, non dal futuro; sono tracce che seguiamo, e di cui a volte siamo prigionieri, fosse anche soltanto uno scontrino del metrò di qualche anno fa. Aprire un cassetto di oggetti, rivedere un francobollo, è come affacciarsi su un pozzo che ti rapisce e trascina, ipnotico, come se sprofondassi... Anche all’altro lato del gruppo si parla del tempo. L’istantanea, mi arriva la voce di Daniele, è un centesimo di secondo (subito io penso alla frase di Godard sul cinema: 24 verità al secondo. E poi mi chiedo: ma che cosa è vero? Le istantanee del passato sono senza tempo o sono il presente di chi le guarda?). Ma c’è un motivo se Daniele ne sta parlando, ed è, guarda caso, un ricordo. Risale a quando il nostro amico Claude Nori pubblicò con la sua “Contrejour” un libro di foto di Robert Doisneau, Tre secondi d’eternità. Il senso era questo: trecento fotografie, calcolando per ciascuna un centoventicinquesimo di secondo, faceva dire a Doisneau che la sua vita di fotografo fosse racchiusa in tre secondi circa di lavoro. “Tre secondi di eternità”. La battuta finale passa a Vittore, che ricorda il commento che fece allora Luigi: “Sì, e la vita di Mennea (il grande campione dei 200 metri) è racchiusa in due minuti”. ❡❡❡❡ Diversi giorni dopo quella giornata, ricevo da Gianni Leone questo messaggio: “Carissimo Beppe, ne ho avuto quasi conferma, o meglio, mi è parso ancora una volta di cogliere un indizio dell’evidenza illusoria della fotografia, almeno di quelle che io scatto e poi stampo. Era già successo qualche anno fa con PoI, quando le foto di interni di una casa da me vissuta si ostinavano a porsi come un invito, una sfida perché ritrovassi la mia ‘familiarità’. Dalla difficoltà di leggere quelle foto come appunto ‘fotografie’ (lo si dice sempre come prova dell’inconfutabile) ho ricostruito una familiarità nuova, più ricca e rivelatrice di quello che pure c’è sempre stato e sempre mi è sfuggito, non visto. Anche la casa di Luigi e Paola Ghirri, a Roncocesi, mi era familiare,

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per esserci stato negli anni tante volte. Ne conoscevo, credevo, ogni cosa, sentivo persino odori e sapori... Con questa certezza mi muovevo nei giorni scorsi a Roncocesi con la mia Pentax. “Dopo l’incendio e con i lavori in corso di ristrutturazione tutto mi è parso lontano e a tratti estraneo. Paola non c’era più, le stanze dove lei era vissuta vuote, sporche di polvere e calcinacci. Eppure c’era tanto da fotografare, tante tracce che mi riconducevano a un passato

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non lontano. Con te, Daniele e Vittore abbiamo voluto portar via e conservare quelle tracce. È stato il tuo prezioso consiglio, Beppe, a volerlo, a impegnarci in questa dolorosa e gioiosa piccola avventura. Ricordi la passeggiata alla ricerca del canale il pomeriggio di quel sabato 10 dicembre? Ho visto poi le stampe delle foto di quei giorni e anche questa volta, non mi stancherò di ripeterlo, mi sono trovato di fronte a una riconoscibilità imprendibile (ossimoro ma-

gico?), insomma a una familiarità altra, diversa da quella che credevo di aver colto, dove però non ho esitato a rinchiudermi, come una lumaca nella casa guscio. Bene: posso pensare che almeno per me la fotografia resti uno dei pochi percorsi possibili di quello che sempre ci sfugge, che rischiamo di perdere? Casa Ghirri a Roncocesi continua ancora a essere un po’ mia e poco m’importa che una società di ristrutturazione la stia facendo sua, con altri intenti...”.

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