Congo

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Daniele Bellocchio

Kivu, la guerra infinita tra gli hutu e i tutsi

foto di Marco Gualazzini

Nuova ondata di scontri, nella regione del Congo orientale, tra le truppe governative di Kinshasa e i ribelli dell’M23. Su per i tornanti del Parco del Virunga per incontrare il loro capo, il generale Makenga. Nell’inferno di Goma, mercato nero, coprifuoco e continue vendette…

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Violenza etnica Stella Sekanabo è stata assassinata nella notte del 9 ottobre 2012 da sconosciuti. Il giorno dei funerali i parenti hanno attribuito l’assassinio a un gruppo di tutsi ribelli dell’M23

ccola la guerra. Non è cinematografica e nemmeno affascinante. È brutale. Non ci sono mitragliatori, non ci sono divise e neppure proclami patriottici. Solo le urla e le vittime di abusi sessuali e di torture. La si ritrova chiara, senza filtri, nell’Ospedale psichiatrico Tulizo Letu di Goma, un centro di accoglienza e di recupero, nei cui padiglioni si susseguono i volti di trenta vittime della violenza, trenta storie del conflitto che sta insanguinando il Congo da oltre vent’anni. Nei manuali i grandi numeri e le vicende collettive sono un fiume in piena che tutto travolge e tutto accomuna, dove le vicende dei singoli sono assorbite dalla generalizzazione del dramma, ma nella realtà quotidiana, quello che emerge sono i nomi e i cognomi, le vite individuali, la distruzione, l’orrore. Ha diciott’anni Saleh Harerimana. Seduto, in una stanza del nosocomio, compone rosari, ricercando nella provvidenza un’ancora di salvataggio a una vita andata alla deriva, per un volere carnefice lontano dal proprio scibile. Lavorava al mercato insieme a cinque suoi amici, nella regione del Masisi. Poi a giugno, durante uno scontro a fuoco, tre pallottole lo hanno raggiunto: una alla coscia, una al braccio e un’altra alla spalla sinistra. Allora è scappato, è svenuto, ha vagato in uno stato confusionale, è stato ritrovato giorni dopo da alcuni operatori umanitari e condotto al Tulizo Letu. Tra una perlina e un’ altra, oggi recita, con gli occhi intrappolati nel vuoto, alla ricerca di una risposta interiore, delle preghiere individuali, domandando a chiunque: “Dove sono i miei amici?”. Saleh è un ragazzo e la sua è una delle innumerevoli storie che compongono quel mosaico del terrore che è il Nord Kivu, la regione orientale della Repubblica Democratica del Congo dove, ad aprile 2012, è scoppiata una guerra piuttosto complicata. Sul terreno si affrontano i ribelli

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dell’M23 e le truppe governative di Kinshasa, ma le radici degli scontri vanno ricercate nella composizione etnica del territorio, nella ricchezza del sottosuolo e negli interessi dei Grandi dell’economia globale. Già nel nome della formazione ribelle affiorano i legami con un passato che continua a riproporsi, alternando periodi di miseria, desolazione e violenza. La sigla ricorda la data del 23 marzo 2009, giorno degli accordi di pace tra il Cndp, un gruppo di insorti composto prevalentemente da tutsi, guidato dal generale Laurent Nkunda, e il governo di Joseph Kabila. Quegli accordi prevedevano che i rivoluzionari avrebbero sciolto le proprie formazioni confluendo nelle Fardc, le truppe del governo congolese. La pace però è un concetto delicato e lontano in un Paese cresciuto con l’armonia delle armi da fuoco e così, quattro anni dopo è nato un nuovo movimento, che ha dato origine a un nuovo focolaio di guerriglia. Colonnelli e soldati si sono ammutinati, ritornando ad aprile sui monti del Parco

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Goma Pattugliamento delle strade il 16 ottobre 2012

del Virunga nel territorio di Rushuru, confinante con il Ruanda, con l’Uganda e a meno di cento chilometri da Goma. A guidarli è il generale Sultani Makenga. François Rucogoza è, invece, il segretario esecutivo degli M23. Una strada punteggiata da militari e avvolta in una vegetazione impenetrabile è la porta d’accesso al qaurtier generale degli insorti, a Bunagana. Posti di blocco e truppe in marcia verso il fronte meridionale si alternano sui sentieri delle montagne congolesi poi, su una collina, ecco la villa di Rucogoza, circondata da guardie armate. “Noi lottiamo contro il governo di Kinshasa – spiega lo stesso Rucogoza, seduto dietro alla sua scrivania dove si accumulano libri e documenti – questo è un paese di corrotti, di banditi e vogliamo liberalo dalle piaghe della corruzione e del nepotismo. La nostra è una lotta per difendere la minoranza tutsi dalla discriminazione etnica a cui è stata sottoposta negli apparati statali. Molti soldati tutsi sono stati uccisi dagli stessi commilitoni hutu e noi vogliamo mettere fine a questo stato di cose”.

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Ma non solo motivazioni razziali alla base del conflitto che sta insanguinando la terra congolese: gli scontri rientrebbero, sostengono gli esperti internazionali, di “una guerra per procura”, le cui ragioni andrebbero ricercate in logiche economiche ben più grandi. Il Nord Kivu è una delle aree del mondo maggiormente ricca di risorse: oro, diamanti, cassiterite e coltan, un “forziere” che aveva già attirato nel 2008 gli interessi della Cina. All’epoca il governo cinese firmò una serie di accordi con il governo del Congo che prevedevano investimenti di oltre sei miliardi di dollari in infrastrutture, in cambio di quantità considerevoli di materie prime. A quel punto, preoccupati dal predominio cinese nella zona, gli Stati Uniti appoggiarono economicamente sia il Ruanda, primo sostenitore con uomini e armi degli M23, sia i ribelli direttamente. Sul campo, a uccidersi, di nuovo hutu contro tutsi; alle loro spalle, a gestire le regole del gioco, le due potenze mondiali.

Paesaggio urbano il centro della città di Goma

La quiete del terrore

Una strada sterrata attraversa il territorio controllato dagli M23, ovunque uomini armati e villaggi di capanne, che si susseguono con monotona ripetitività. I soldati pattugliano imbracciando pistole e fucili mitragliatori, i civili invece lavorano impugnando zappe e badili. Non c’è il caos che contraddistingue i territori africani, piuttosto una quiete dettata dal terrore. Racconta dei ribelli George Bandu, il titolare di una piccola pensione: “Dicono che il popolo li ama, che è dalla loro parte. Menzogne! La gente è terrorizzata. Hanno imposto il proprio governo con le armi e la violenza. Hanno obbligato le famiglie a pagare una tassa mensile e hanno costretto uomini e donne a lavorare nei campi”. Poi ci porta nelle stanze del suo piccolo albergo e ci mostra i vetri rotti e i letti distrutti. Spiega: “Hanno trasformato il mio hotel in una caserma. Si sono sistemati qua dentro per diversi mesi, non hanno pagato nulla, hanno danneggiato tutto e l’unica cosa che ho potuto fare è stato pregare che an-

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Movimento M23 Rutshuru, il generale Sultani Makenga nel campo militre di Rumangabo

dassero via il prima possibile. La loro politica è la discriminazione della popolazione hutu, uccidere, violentare. Se la gente non parla è perché ha paura e non credo la si possa biasimare”. Le parole d’ordine e gli slogan del generale Makenga disegnano un quadro completamente diverso. I villaggi e le strade sono costellate di manifesti di propaganda e ogni ribelle inneggia alla liberazione del Congo dalle piaghe del governo di

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Kabila, esaltando il leader come un “libertador”, per le sue doti militaresche, la giustizia, la disciplina. Bisogna arrampicarsi sui tornanti delle montagne del Parco del Virunga, sotto lo sguardo indagatore di pattuglie di insorti che seguono con gli occhi e coi mitra ogni movimento dei visitatori, prima di arrivare nella caserma di Rumangabo e incontrare il generale Makenga.

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Protetto dalla sua scorta e affiancato dal suo braccio destro, il colonnello Vianey Kazarama, il generale racconta: «Quando io ho conquistato Rutshuru e sono entrato in città, la gente festeggiava per le strade. Noi siamo qua per difendere e proteggere il popolo congolese e non vogliamo la guerra. Se Kabila è disposto a fare dei negoziati allora deponiamo le armi, ma se quello che vuole è il fuoco dei nostri fucili... – e qui inter-

rompe con una pausa il suo discorso – …allora conquisteremo Goma e poi Bukavu e, se sarà il caso, non fermeremo la nostra marcia e ci spingeremo sino a Kinshasa”. Attraversando tutti i territori dei ribelli e superando la linea del fronte si arriva a Goma. Obiettivo degli insorti e ultimo baluardo lealista contro l’avanzata degli M23. Le postazioni delle truppe delle Fardc indicano l’ingresso nel territorio governativo. Un esercito affamato e impreparato pattuglia sulla prima linea. Mancano armi, munizioni, molti sono i soldati che disertano e, intanto, colonne di profughi in fuga da Rutshuru continuano ad attraversare quella stesso fronte, sperando di trovare nella capitale un rifugio sicuro. Non sanno che cosa li aspetta: isteria, banditismo e rappresaglie sono la nuova quotidianità che incontrano in città, paura e violenza sono le leggi di Goma, dove vigono il mercato nero, il coprifuoco e si assiste a continue vendette etniche anche contro chi dovrebbe preservare l’ordine e la sicurezza. Numerosi sono i furti e gli omicidi che vengono imputati alle forze di polizia e all’esercito che possono proteggersi dalle accuse grazie all’immunità.

Un funerale dopo l’altro

Come nel caso della morte di Innocence Rugomoga. Il suo corpo è disteso sul pavimento di casa, gli occhi aperti e la camicia intrisa di sangue. I segni dei colpi che lo hanno ucciso sono ancora visibili. Intorno a lui uomini e donne piangono lacrime di dolore e di rabbia. È il fratello a spiegare: “Stava rincasando quando gli hanno sparato tre colpi. Nessuno ha potuto soccorrerlo per via del coprifuoco. Chiunque si fosse

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azzardato ad uscire dalle proprie case sarebbe stato ammazzato dai soldati”. Poi, indicando una pattuglia di militari presente alla funzione funebre, esclama: “Ci sono testimoni che dicono di aver visto chi ha ucciso mio fratello. Sembra che sia stata una pattuglia di militari e che l’abbiano fatto per rubargli il computer e il cellulare. Non c’è più legge, non c’è nessuno che può proteggerci”. I funerali si susseguono ripetutamente, uno dopo l’altro, per le strade di pietra lavica della città. Su un camion è disteso il feretro di Stella Sekanabo, una donna impegnata in un’associazione umanitaria che cercava di aiutare le famiglie del quartiere periferico di Ndosho. I parenti della vittima si disperano, ma insieme allo strazio aumenta anche il rancore. Stella è stata uccisa nella notte da un commando di ribelli e in modo meccanico il dolore per l’uccisione della donna genera un odio più esteso nei confronti della comunità tutsi. La notte si sente soltanto l’eco dei colpi di

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Campo profughi Kanyaruchinya Oltre 60mila persone sono rifugiate in questo campo, tutti di etnia diversa dai tutsi

mortaio e di mitragliatrice che provengono dalla prima linea. Si combatte ai piedi del vulcano Nyragongo e il colonnello delle Fardc, Olivier Amouli, assicura: “Makenga è un bambino viziato che fa i capricci contro suo padre. Sconfiggeremo presto lui e i suoi uomini, li prenderemo a schiaffi come fa ogni genitore verso un figlio irriverente e maleducato”. A novembre, però, i ribelli sono alle porte della città. I lealisti si danno alla fuga, Makenga entra a Goma e la occupa senza dover nemmeno combattere, un’impresa che non era riuscita nemmeno a Nkunda, che nel 2008 ­– alla guida del Cndp – si era fermato in periferia. “Siamo intervenuti in modo tempestivo perché temevamo che potessero perpetrarsi rappresaglie e massacri nei confronti della popolazione tutsi”, ha spiegato il leader ribelle che poi, dopo aver fatto il suo ingresso trionfale nella città, scortato dalla sua guardia personale, ha aggiunto: “Abbiamo conquistato Goma e adesso, se il governo non ci vorrà ascoltare, non arresteremo la nostra marcia sul resto del Paese”.

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Strade deserte, nessuno per le vie del capoluogo. I profughi abbandonano i campi in cui erano stati accolti dall’inizio del conflitto, i negozi sono chiusi, le scuole anche. Le case sono prive di elettricità e acqua corrente e in alcune vie e nei campi che circondano Goma giacciono ancora i corpi senza vita di chi è caduto nei limitati scontri a fuoco che hanno preceduto l’ingresso degli M23. Ma non c’è più l’anarchia che regnava nei giorni precedenti alla capitolazione della più importante città del Nord Kivu scompare, i conquistatori hanno introdotto vengono pene e punizioni corporali per chiunque tenti di sovvertire l’ordine stabilito dai ribelli e per tutti i criminali comuni. Gli sciacalli e i ladri vengono fucilati sul posto. L’obiettivo: dimostrare fermezza assoluta verso ogni forma di crimine e evidenziare la totale dicotomia con il governo Kabila. “Abbiamo paura, nessuno esce di casa. Vediamo solo pattuglie a piedi o a bordo di pick-up che controllano palmo a palmo i quartieri della città”, dice Gervaise Muhigi giovane studente congolese.

Il governo rivoluzionario dura solo nove giorni, poi i ribelli si ritirano, non prima però di aver costretto il presidente della Repubblica, Kabila, ad intavolare dei negoziati con gli insorti. La situazione pare tornare alla normalità, ma così non è. Le armi non vengono deposte e il rischio che le cose possano di nuovo precipitare rimane sempre vivo. La pace corre sul filo della precarietà e infatti, a tre mesi di distanza, venti di guerra e di morte ritornano a soffiare nel “cuore di tenebra”. I colloqui tra governo e una delegazione degli M23 a Kampala sembrano infatti arenati in un ginepraio di richieste e di mancati consensi. L’incubo di una ripresa delle ostilità si fa ogni mese sempre più vivido e con questo anche l’angosciosa visione che quel mosaico di vite umane, come un tributo di sangue richiesto dalla guerra, possa continuare a comporsi, facendo intravedere solo un costante orizzonte, indirizzato verso un terrore ormai assurdamente convenzionale.

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