Di paolo

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l l’intervista a Paolo Di Paolo l di Francesco Maria Orsolini

Vi racconto che cos’era il Mondo di Pannunzio dove diventai fotografo Paolo Di Paolo ricorda gli anni della mitica rivista italiana alla quale collaboravano tra gli altri scrittori come Moravia, Flaiano, Landolfi, Alvaro e che pubblicava le foto di Henry Cartier Bresson. A 26 anni era stato caporedattore del lussuoso bimestrale delle Ferrovie dello Stato

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Mondo” cessa le pubblicazioni nel 1966 e nello stesso anno Paolo Di Paolo appende al chiodo la sua fotocamera, come il liuto sacrificato all’amore coniugale nel Ritratto di giovane gentiluomo di Lorenzo Lotto. Si è trattato anche nel suo caso di una rinuncia? Non si trattò, al momento, di una rinuncia, ma proprio di una scelta. Avendo svolto per quindici anni l’attività di fotografo, mi si era posto il problema se diventare un professionista o sentirmi ancora un dilettante e continuare come tale. Avevo conseguito una discreta affermazione nel campo della fotografia giornalistica, proprio grazie alla spirito dilettantistico con cui mi ci ero avventurato. Ho avuto la fortuna di incrociare il mio itinerario con quello di Mario Pannunzio, un direttore che non chiedeva altro ai suoi collaboratori che di essere creativi. Non proponeva schemi di alcun genere e credo che egli stesso non fosse in grado di enunciare la formula che gli rendeva gradita un’immagine fotografica oppure di rifiutarla. Inconsciamente, però, le sue scelte erano condizionate dalla sua formazione crociana e dalla teoria estetica del filosofo. E la sua scelta qual è stata? Quella di continuare con lo spirito del dilettante. La differenza sta in questo: il dilettante segue soltanto il suo istinto, è una persona libera; il professionista, invece, opera su commissione, deve eseguire ciò che gli viene richiesto, e bene.

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Soprattutto non può rifiutarsi. Com’è riuscito a farsi conoscere da Mario Pannunzio, aveva già avuto esperienze nel giornalismo o nella fotografia? Sono nato a Larino, ma ho fatto il liceo a Roma. Essendomi poi iscritto alla facoltà di Filosofia, avevo cominciato ad acquistare “Il Mondo”, come facevano in tanti, più per posare da intellettuale che per leggerlo. Ma lo sfogliavo e ne ammiravo le fotografie. Sì, avevo avuto esperienze nel giornalismo, ero stato redattore volontario a “l’Unità”, ai tempi di Ingrao direttore; mi occupavo delle pagine pro-

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vinciali, come tutti i principianti, e fu un apprendistato indimenticabile. Imparai il mestiere avendo come maestri dei personaggi di una generazione in via di estinzione, pazienti e colmi di esperienza. Devo a quel periodo se, subito dopo, a soli 26 anni, divenni capo redattore di una lussuosa rivista bimestrale edita dalle Ferrovie dello Stato. E l’incontro con Pannunzio come avvenne? Mi ero dimesso da quella rivista per colpa di una Leica III C, esposta in una vetrina del centro. Era l’autunno del 1953. Con la liquidazione acquistai

quella mitica macchina fotografica e cominciai a scattare immagini, che la sera mostravo agli amici della trattoria Menghi, quasi tutti pittori famosi. Fu una pittrice, Gilberte Ossola, a incoraggiarmi a proporre le mie foto a “II Mondo”. Non conoscevo né Pannunzio, né alcuno della sua redazione. Ero consapevole della presunzione immensa che avrei mostrato presentandomi alla redazione del più prestigioso settimanale italiano, sul quale firmavano Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Thomas Mann, Corrado Alvaro. Un sera mi feci coraggio e salii col cuore in gola la rampa di scale che

portava al primo piano di Via Campo Marzio 24, sede della rivista. Mi ricevette una ragazzona dai modi sbrigativi e dal tono poco incoraggiante. “Ha portato delle fotografie?”, mi chiese vedendomi con una busta in mano. “Vediamo”, aggiunse, squadrandomi severamente. Sfogliò frettolosamente il mucchietto di foto, poi disse di attendere, e mi lasciò nella saletta d’attesa. Tornò dopo cinque minuti e disse semplicemente: “Tre”. Intuendo dalla mia espressione frastornata che non avevo capito nulla, aggiunse: “Ne ha prese tre”. È cominciata così la mia avventura con “Il Mondo”.

Nella foto a colori, Paolo Di Paolo fotografato nella sua casa romana. Qui sopra un suo scatto che riprende una giovanissima Oriana Fallaci che si diverte in spiaggia. Nella doppia successiva, Pier Paolo Pasolini con un ragazzo sul Monte dei cocci nel quartiere Testaccio

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A destra un’altra celebre foto di Di Paolo, che ritrae Sofia Loren; a sinistra, un dettaglio del Conservatorio di Napoli

Sono circa seicento le foto di Paolo Di Paolo che Mario Pannunzio ha pubblicato, dal 1954 al 1966. Cosa piaceva così tanto del suo stile fotografico al direttore de “Il Mondo”? Cercò di spiegarmelo dopo qualche anno Alfredo Mezio, un redattore della rivista, del quale intanto ero diventato amico: “Pannunzio non prescinde mai dal contenuto narrativo di una fotografia, ma non basta. Una foto deve avere la presunzione di essere unica, superiore a ogni altra, equilibrata, colta, compositivamente perfetta, direi aristocratica, insomma un po’ come lui”. Pannunzio in realtà era così, se non addirittura snob. Aveva ragione Montanelli quando diceva che Pannunzio avrebbe dato del lei anche a se stesso. Bene, dopo alcuni anni di collaborazione avevo capito esattamente le esigenze in fatto di fotografie del direttore, tanto da non essere più ricevuto dalla ragazzona della prima sera, ma da essere ammesso, cosa eccezionale per un fotografo, alla presenza di Pannunzio in persona. Era a lui che, dal 1957 in poi, presentavo le mie immagini e lui era visibilmente lieto di intrattenersi con me e ascoltare il racconto delle circostanze in cui avevo fatto quegli scatti. Al punto che, quando il governo greco invitò una rappresentanza altamente qualificata della cultura italiana facente capo a “Il Mondo”, volle che vi partecipassi. Perché Pannunzio, che veniva da impegnative esperienze editoriali come “Omnibus”, sotto la guida di Leo Longanesi, “Risorgimento liberale”, diretto da lui stesso, si rivolgeva preferibilmente ai fotoamatori, come lo stesso Henry Cartier Bresson, all’epoca, piuttosto che ai vari fotografi professionisti, già allora disponibili nel nostro Paese? Il gruppo di fotografi che più assiduamente collaborava a “Il Mondo” era formato da non più di dieci persone, nessuna delle quali proveniva dal fotogiornalismo professionale: c’era un me-

dico, un notaio, un editore, alcuni professori; io stesso avrei dovuto insegnare filosofia se alla vigilia della tesi di laurea non avessi incontrato quella Leica III C. I fotografi professionisti, negli anni ‘50, avevano una formazione soprattutto artigianale, certamente di alto livello, ma inadeguata a raccogliere l’insegnamento di Leo Longanesi, di cui Pannunzio era stato allievo con Arrigo Benedetti. L’immagine fotografica è stata per “Il Mondo” un operatore potente di informazione e di conoscenza della realtà, senza però che venisse mai a mancare il registro allusivo, icastico, nonché compositivo della rappresentazione visiva. Ma allora, riguardo a “Il Mondo”, si può parlare, effettivamente, di fotogiornalismo? Io sostengo che occorrerebbe parlare di giornalismo in senso pieno. Nella seconda metà del secolo scorso, vuoi per lo sviluppo delle tecniche editoriali, vuoi per l’avvento dell’era televisiva, l’informazione si è arricchita di nuovi e più incisivi strumenti. È innegabile che il giornalismo parlato, cioè la radio, così come quello cinematico, ossia la

televisione, hanno pari diritto di essere ritenute forme di giornalismo. Non da meno la fotografia. Anzi questa, svantaggiata quanto a possibilità narrative a causa della sua unicità strumentale, assume un valore addirittura superiore per l’essenzialità del suo contenuto. È esattamente ciò che dalla fotografia pretendeva Mario Pannunzio. Nel recente volume “La realtà e lo sguardo. Storia del fotogiornalismo in Italia”, di Uliano Lucas e Tatiana Agliani, non mancano osservazioni dei curatori e alcune testimonianze, come quelle di Piergiorgio Branzi, Giancarlo Scalfati e altri, piuttosto critiche sul taglio della fotografia “da Mondo”, tendente all’illustrazione piuttosto che all’informazione, all’alleggerimento del testo, piuttosto che all’indagine sociale, troppo d’élite e a distanza, invece che in presa diretta rispetto alla realtà. Lei che ne pensa? Una redattrice de “Il Mondo”, Giulia Massari, scomparsa recentemente, sosteneva che il successo del suo giornale era dovuto proprio alle fotografie, la cui

Mi ricevette una ragazzona dai modi sbrigativi e dal tono poco incoraggiante: “Ha portato delle fotografie?”, mi chiese. “Vediamo”, aggiunse, squadrandomi severamente numero 30

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funzione informativa era assolutamente estranea ai testi e aliena dal valore aggiunto delle didascalie, che non arrecavano alcun contributo al messaggio dell’immagine. Il gradimento del pubblico per tale utilizzazione del mezzo fotografico non dà ragione agli autori del saggio citato. Uno dei personaggi più singolari della redazione e del gruppo di collaboratori di Pannunzio, è stato Ennio Flaiano. Lo conobbe? Quando io comparvi negli “stanzoni” de Il Mondo, Flaiano ne era già uscito, per dedicarsi interamente al cinema. Ma non disdegnava di farvi delle apparizioni saltuarie, sopratutto per dissacrare, in tandem con Mino Maccari, l’austerità di quell’ambiente con delle risate irrive-

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Quattro contadine di Orgoloso e, a destra, Anna Magnani sulla spiaggia del Circeo nel 1959

renti per un gruppo di intellettuali che solitamente sostava silenzioso, sprofondato nell’unico divano consunto della redazione. Negli stanzoni de “Il Mondo” era rimasto, incancellabile, il suo fugace passaggio, il ricordo delle sue battute, degli aforismi improvvisati, della sua inesauribile eruzione di idee. Occorrerebbe leggere le pagine che Giovanni Russo, allora esordiente sulla rivista di

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Pannunzio, ha scritto su di lui (“Con Flaiano e Fellini a Via Veneto” e ”Flaianite”). Purtroppo non vi si trova, nemmeno accennata, la ragione del divorzio tra Flaiano e Pannunzio, ognuno magistralmente delineato. La si può intuire, però. Erano complementari l’uno all’altro, entrambi discendenti professionalmente dalla scoppiettante creatività di Leo Longanesi: compassato e sobrio Pannunzio, irrequieto e incontenibile Flaiano. Se provavi a chiedere a qualcuno dei pochi redattori della rivista le ragioni di quel divorzio, ne avresti avuto in risposta un sorriso e nient’altro. O forse la citazione di un aforisma dello stesso Flaiano: “Ho poche idee, ma confuse”. Quali altri scrittori erano entrati nell’orbita di questo giornale riser-

vato ai cittadini italiani più colti, liberi nel pensiero, aperti all’innovazione sociale e all’internazionalizzazione? L’elenco sarebbe lungo. Sarebbe più facile elencare gli esclusi. Comunque non si possono non ricordare Vittorio De Caprariis, Luigi Einaudi, Ernesto Rossi, Carlo Sforza, Ivanoe Bonomi, Thomas Mann, Wilhelm Roepke, Stephen Spender, Angelo Tasca, Evelyn Waugh, Gaetano Salvemini, Piero Calamandrei, Riccardo Bacchelli, Vitaliano Brancati, Corrado Alvaro, Tommaso Landolfi, Alberto Moravia, Truman Capote, Arturo Carlo Jemolo, Luigi Barzini Junior e moltissimi altri scrittori, studiosi, politici, letterati. Titolari di rubriche furono Antonio Cederna, Nicola Chiaromonte,

Aldo Garosci, Guido Calogero, Giorgio Vigolo, Carlo Falconi, Marco Cesarini Sforza, Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini, Vittorio Gorresio. È interessante notare che tra i nomi figura quello di Marco Cesarini Sforza, notoriamente di area marxista, il che dimostra che Pannunzio non aveva preclusione alcuna nella scelta dei suoi collaboratori, pur essendo altrettanto notorio l’obiettivo che il giornale cercava di realizzare, quello di una terza forza liberale, democratica e laica. Non va poi trascurata l’attenzione di Pannunzio per le nuove generazioni di giornalisti e saggisti. Un esempio per tutti: una giovane, minuta ragazza calabrese a metà degli anni 50 era piombata a Roma determinata a fare la giornalista. “Mi recavo furtivamente

nelle redazioni dei giornali - mi raccontava - per annusare l’odore dell’inchiostro tipografico”. Si chiamava Adele Cambria. Quando vidi la sua firma su “Il Mondo” non me ne sorpresi. Pannunzio era anche un talent-scout. Mario Pannunzio chiude l’editoriale dell’ultimo numero de “Il Mondo”, pubblicato l’8 marzo del 1966, con un atto di accusa contro la concentrazione del potere economico, politico e sindacale, con un atto di fiducia verso i propri lettori e amici, con una difesa a oltranza della “dissidenza”. Ma “Il Mondo” era davvero libero da quei poteri, soprattutto economici, che denunciava? Ne era talmente libero, da poterne fare a meno. A costo della sopravvivenza.

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