Fotoreportage greene

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foto di Stanley Greene

Siria, due anni di guerra cinque milioni di profughi

il fotoreportage

Gli sfollati non hanno niente, neppure l’acqua, ma non vogliono andare via per paura dei saccheggi. Un’auto per arrivare alla frontiera costa 300 dollari, il doppio di uno stipendio medio. E gli aiuti Onu raggiungono soltanto le aree controllate da Damasco

Ricordi Lavoratori, poliziotti, medici, laureati, famiglie intere che ricordano le loro case, l’eleganza di Damasco o Aleppo

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solo attraverso le immagini rimaste nei loro telefoni cellulari

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foto di Stanley Greene Vita da accampati

Stalle, grotte e cimiteri qualunque rifugio è buono n di Francesca Borri

Sanaa Questo giovane, 22 anni, tossisce in continuazione, ha la tubercolosi. Anche il fratellino Omar tossisce, è ammalato. Ha solo un anno e sette mesi

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I rifugiati della guerra di Siria, che dura da oltre due anni, sono più di un milione. Ma le statistiche dell’Onu si riferiscono ai profughi dei campi allestiti in Giordania, in Libano in Turchia, in Iraq. Non registrano gli sfollati rimasti nel Paese e che si stima siano quattro milioni e non hanno niente, neppure l’acqua. Le Ong internazionali sono ancora in “rodaggio”, quelle locali spesso non sono che sigle improvvisate di siriani tornati qui a rastrellare denaro dopo anni all’estero. Le Nazioni Unite, per statuto, operano attraverso il governo di Damasco, cosicché gli aiuti vengono distribuiti soltanto nelle zone sotto il controllo del regime. “Raggiungere la Turchia costa”, spiega Mariam al-Mohamad, 57 anni. “Da una parte non vogliamo andare via perché questo è il nostro paese. E perché temiamo i saccheggi. Dall’altra, c’è il problema che un’auto fino alla frontiera costa 300 dollari: due volte uno stipendio. E per una famiglia media, sono necessarie tre auto. Anche diventare rifugiati, qui, è un lusso che non possiamo permetterci”. È una Spoon River al rovescio, questa, in cui i vivi, da queste tombe, parlano ai morti, che guardano e non sentono. Amen al-Yassin ha 37 anni e, insieme alla moglie, la madre e undici figli, abita in una stalla, tra capre e galline, su un ripiano barattoli sudici di olive e spezie, un sacco di patate, pane marcio, il bucato steso a una catena per cani, stracci che non sapresti dire se sono una camicia, una maglia, e di che colore. La loro casa, a Kafr Kouma, è in macerie, ma non hanno trovato altro. Per questa stalla, che può essere centrata da un missile in qualsiasi momento come la loro vecchia casa, pagano ogni mese 5mila lire siriane, contro un affitto di 4mila che pagavano prima – ma per una vera casa. Perché la guerra, la povertà, è solidarietà solo nei romanzi: è speculazione, nella realtà, sono frontiere popolate di trafficanti e faccendieri, si paga per tutto, qui, per un’auto fino in Turchia, per una bottiglia di latte. Per dormire in un pollaio. E si paga tre volte il normale. Perfino una tomba vera e propria: “Ne sto cercando una. Ma sono tutte occupate, ormai. E quelle rimaste, in terreni privati, sono ancora più care”. Ci sono operai, un fruttivendolo, un imbianchino, un poliziotto, ma anche laureati, biologi, ingegneri precipitati qui con un dottorato. Bisogna avere visto almeno una volta la bellezza di Damasco, di Aleppo, l’eleganza di una casa siriana, i tappeti, le lampade in ferro battuto, i cortili di rampicanti e piastrelle pennellate pastello, bisogna avere visto tutto quello di cui non rimane che qualche fotografia nei cellulari per capire lo sgomento, adesso, il sovvertimento, la disperazione di questa regressione all’età della pietra, scaldarsi intorno a un fuoco da campo, sfatti, avvolti come barboni in tutto quello che si è recuperato, tuo figlio che trema lercio con i capelli come stoppie, per pannolino un sacchetto della spazzatura, lo sguardo scavato, la fame e neppure un gabinetto, il senso di umiliazione che suscita accucciarsi in un prato come bestie al pascolo. Ti parlano con mozziconi di parole, gli occhi bassi, come Shadi Ziady, mentre a mani nude trasforma in stufa rudimentale un bidoncino di vernice, e si taglia, il sangue che si fa strada a stento tra le dita di fango: “Scrivi solo che mi vergogno”.

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foto di Stanley Greene

Neonati Foto in alto: neonati sopravvissuti nell’antico cimitero di Jabal al-Zawiya A destra, Suad ha solo 15 giorni e i suoi occhi sono giĂ rossi e rugosi. Ăˆ nata in una tomba sotto una pioggia di razzi

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Le tombe Foto in alto: Una donna prepara cena su un altare di una tomba. A decine vivono giorno dopo giorno in mezzo alle tombe. A destra, magri, a piedi nudi, esausti, hanno trovato rifugio in questo cimitero e qui attendono la fine della guerra

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foto di Stanley Greene Un errore... Bombardare la scuola “è stato un errore”. Non ci sono errori in guerra. I bambini che vivono tra la spazzatura e le rovine sono sfuggiti dalla guerra ma non dalla realtà; vivono tra le tombe, sopravvivono alla morte, ma di notte scivolano via per combattere con i rivoltosi e la mattina i padri vanno al fronte a riprenderli

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