Joyce

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Joyce a Trieste, la scuola, i caffé e l’amato bordello A passeggio — il secolo dopo — nei luoghi più amati dallo scrittore irlandese. Qui insegnò alla Berlitz, ebbe due figli, cambiò nove alloggi e scrisse, oltre ad alcuni racconti dei Dublinesi, buona parte dell’Ulisse. Il suo soggiorno durò dieci anni complessivi l Testo di Rosa Matteucci l Foto di Erika Cei

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Trieste, la statua dedicata a Joyce a Ponte Rosso

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“o” pronunciata aperta che più aperta non si potrebbe, della bora e del borino, della bora scura e della bora chiara, dei matti liberati da Basaglia, della grandiosa incapacità di vivere di Umberto Saba consegnata in dote al suo Canzoniere, delle peregrinazioni tossicolose di Rilke sugli avamposti di Duino, che non è proprio Trieste downtown ma poco cambia; Trieste è la città dell’impossibile Miglior Vita che cercava l’esule Tomizza in una patria senza più nome, delle inquietudini onomastiche e coniugali di Italo Svevo, di Roberto Bobi Bazlen milanesizzatosi malgrado le sue sbornie di mare, del gigante Magris e infine – come sanno anche i celenterati – la città per eccellenza del dubliner James Joyce. Pochi hanno letto l’Ulysses, tutti ne hanno discettato nel corso del Novecento almeno per sentito dire. Se lo si cita ognuno annuisce con poderose scrollate di capo e relative nevicate di forfora, Ulisse è un nome popolare che va dritto al cuore, che poi sia il figlio del nonno Omero, il titolo di un programma della dinastia Angela, ovvero dell’irlandese poco cambia. Guidata dal ginn delle femmine curiose ho fatto un sondaggino per strada su e giù per Piazza Unità d’Italia fino a piazza Oberdan: a Trieste la maggioranza dei pedoni molestati ammette con candore di non aver letto la succulenta polpetta letteraria all’aroma di sacrestia esorcizzata a colpi di birra scura, poco sanno della stramba e universale giornata del signor Bloom; a Gorizia invece, altre latitudini altro sentimento altre determinazioni, quasi tutti i passanti lo hanno letto, riletto e assimilato. A Gorizia ti fanno il resumè dell’Ulysses sul marciapiedi, comrieste è la città della vocale

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preso l’incantevole monologo di Molly Bloom, quello che come pochi sanno principia con gli Alameda’s Garden yes, I say yes, I will yes. È proprio l’inno del Sì alla vita, sì all’amore tipo la pubblicità del profumo di Armani con Cate Blanchett dagli occhioni tipo triglia scongelata e ricongelata, anche se in questo caso siamo a Gibilterra e non nello scenario fittizio dello spot.

L’accusa di spionaggio Centotredici anni dall’arrivo di James e Nora Barnacle a Trieste Centrale, dalla medesima piazza antistante la stazione, proprio da una di quelle panchine su cui l’irlandese aveva parcheggiato l’amante mentre andava a cercare un albergo e finì coinvolto in

una rissaccia fra marinai inglesi ubriachi, muovo il primo dei passi che mi porteranno nel labirinto della Trieste di Joyce. La coppia di sciagurati era giunta a Trieste nell’ottobre del 1904, poco dopo essersi conosciuti (come racconta lo scrittore i due si erano incontrati il 16 giugno dello stesso anno) James restò fulminato dall’erotica visione di Nora intenta a rimirare delle salsicce, dei sanguinacci e una coppa in cassetta nella vetrina di un macellaio a Dublino, ove lui era stato chiamato dalla Berlitz School per ricoprire un posto di insegnante. Ma la cattedra non c’era già più, cosicché Joyce venne spedito nella succursale che la scuola aveva aperto a Pola in Istria. Il soggiorno istriano fu brevissimo, nel marzo dell’anno seguente, tutti gli stranieri, compresi Joyce e

Nora, vennero espulsi con l’accusa di controspionaggio. Tornato a Trieste, in preda al risentimento, il nostro fu assunto in loco dalla Berlitz School, da sempre il più celebre dei riferimenti joyciani a Trieste. Da questa scuola cominciano le peregrinazioni abitative che caratterizzano la permanenza decennale della coppia a Trieste: ben nove alloggi diversi, la nascita di due pargoli, la perdita di un figliolino, il tutto consumatosi fra le mura dei palazzi triestini. L’insegnamento alla Berlitz iniziò nel marzo del 1905 e si protrasse con sommo gradimento degli alunni fino al settembre del 1906 quando Joyce si trasferì per qualche mese a Roma. Ritornato a insegnare nel marzo del 1907 il professore irlandese divenne insofferente e capriccioso, l’idillio venne

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Rosa Matteucci

meno e l’attività d’insegnante fu abbandonata senza preavviso per bieche questioni finanziarie – lo stipendio era decisamente troppo misero. Joyce riprenderà l’attività di insegnante dopo sei anni, nell’ottobre del 1913, quando grazie alla raccomandazione di Italo Svevo, ottiene la cattedra di insegnante di inglese presso la Scuola Revoltella in via Carducci 12, che oggi non esiste più. Resta il sobrio palazzo, dalla grigia facciata e, se ci si pone sull’ingresso, il colpo d’occhio è il medesimo di quello che vedeva Joyce quando usciva da scuola: gli alberi, il viale, un palazzo ricco di fregi tagliato come di sbieco, orfano di uno spicchio di muro. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale alunni e insegnanti partono per il fronte, la Scuola Revoltella viene chiusa, rimane di guardia soltanto un bidello zoppo; chi può abbandona la città per riparare in territorio italiano, Joyce e Nora migrano a Zurigo.

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Al loro rientro nell’ottobre del 1919 Joyce riprende ad insegnare al Revoltella fino al 1920 quando lascerà il posto a suo fratello Stanislaus, che lo aveva seguito dai primordi nella sua trasferta triestina, modello consanguineo, piattola o paraninfo, ma al quale spreme spesso del denaro.

In una sorta di comune Joyce e Nora vissero a Trieste complessivamente dieci anni, gustando putizze, preisniz, pinze e palacinke. Nora era quasi sempre incinta, il professore scriveva e sognava. Quando tornano dalla Svizzera nell’ottobre del 1919 per l’ultimo anno di scuola, vanno ad alloggiare nel bel palazzo di via Diaz, civico 2. Tutta la vita triestina dello scrittore si dipana all’interno di un’area ben circoscritta, un quadrilatero che va dalla prima dimora in piazza Ponte Rosso

sul canale – all’epoca vivacissimo approdo di barche che trasportavano merci e generi alimentari – a Largo Barriera Vecchia – ove soggiornano per poco più di un anno (civico 32), sopra una farmacia ancora esistente – via Donato Bramante al civico 4, dove termina Ritratto d’artista e inizia a scrivere l’Ulisse – fino all’ultima dimora di via Diaz. Al secondo piano di via S. Nicolò nacque il primogenito, George. Qui Joyce scrisse alcuni racconti dei “Dublinesi” – tra i quali il capolavoro “The dead” – e Stephen Hero. Nel febbraio del 1906 i peregrinanti concubini – vivono more uxorio, si sposeranno anni dopo – si trasferiscono in Via Boccaccio, in un romitorio distante dal centro cittadino in una sorta di comune frikkettona. In Via Boccaccio vissero Joyce, Nora, il piccolo George, il fratello di lui Stanislaus e la famiglia di un collega della Berlitz tale Alessandro Francini Bruni con sua moglie Clotilde e il figlioletto Daniele, che

era nato di sei chili e cinquecento grammi. Sfugge il movente, se non di pecunia, del perchè la coppia Joyce abbandoni l’alloggio della centralissima Via S. Nicolò – adiacente alla Berlitz – per andare ad infognarsi al secondo piano di via Boccaccio con altre quattro persone, che diventavano cinque quando avevano a cena la fidanzata di Stanislaus. Ritornati da Roma nell’aprile del 1907 i nostri eroi prendono alloggio in via Nuova al civico 45 – oggi la strada è stata ribattezzata via Mazzini e il civico è il medesimo – sempre in zona centralissima, al terzo piano. Qui Nora partorisce la secondogenita Lucia, Joyce fra una poppata e l’altra riscrive Stephen Hero poi cade ammalato e vagheggia di cambiare casa, come effettivamente fa nell’agosto dello stesso anno. Allontanatisi di poco dall’area di Ponte Rosso i Joyce con prole s’impancano in via S. Caterina al primo piano. Durante il soggiorno a questo indirizzo

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Nelle foto a sinistra, in alto, la pasticceria Pirona, dove Joyce acquistava il presnitz e le paste; in basso, la spiaggia del Pedocin. Qui sopra, un particolare del monumento alla principessa Sissi in piazza della Libertà

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Nora perde il terzo dei loro figli, la drammaticità dell’evento – per poco la donna non muore di setticemia – torna nell’Ulysses nella parte ove si narra della morte prematura del pargoletto di Leopold Bloom. Nel 1909 la famiglia è al civico 8 di via Vincenzo Scussa , indirizzo lontanissimo dal centro e dove furono ospitate quelle piattole delle sorelle di Joyce, Eva ed Eileen, che lo avevano accompagnato a Trieste di ritorno da un viaggio in Irlanda. Finalmente nel 1910, ripartite le sorelle, la coppia con i due figli cresciutelli trasloca nell’elegante via della Barriera Vecchia dove vivranno fino al 1912. Di fronte all’abitazione in cui vissero esiste ancora oggi la Pasticce-

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ria Pirona, frequentata dallo scrittore e da Nora. Si narra che andassero pazzi per il tipico dolce putizza a base di frutta secca, ma che non disdegnassero lo strudel di mele.

Lo Stella Polare Ultimo indirizzo triestino di Joyce fu, come detto, via Diaz 2, a pochi metri da Piazza Unità d’ Italia. All’epoca la strada si chiamava Via della Sanità. Joyce e Nora alloggia nell’appartamento della sorella dello scrittore. Eileen, infatti, aveva conosciuto a Trieste e sposato un bancario di origine boema, Frantisek Schaurek. Durante la guerra il povero

Frantisek era stato internato in Austria per quattro anni. Gli Schaurek avevano due bambini, i Joyce anche, qui ad onta del kinderheim casalingo, Joyce scrive il capitolo Nausicaa e inizia a comporre Circe. Nei pressi dell’ultima residenza triestina di Joyce – lì dove s’ammucchiarono ragazzini sorella e cognato, tutti in due stanze – sorgeva infatti, sin dall’antichità, la losca zona dei bordelli cittadini, incastrati fra il ghetto ebraico e l’area della Cavana prossima al porto e assai frequentata sia di giorno che di notte. Fra le quaranta e passa case di tolleranza, stambugi periclitanti, muri sgretolati e panni stesi ad asciugare, lo scrittore ebbe un occhio di riguardo per la casa

di tolleranza “Il metro cubo”, accattivante e modernissimo titolo per un lupanare. Ai tempi della Berlitz Joyce al pari di altri colleghi frequentava il Caffè Stella Polare – via S. Antonio 14 oggi Via Dante Aligheri 14 – dove tra il 1907 e il 1908 lesse al fratello i suoi racconti completati e i capitoli iniziali del “Portrait”. Joyce amò molto i caffè triestini, come tutti gli altri scrittori e intellettuali che qui hanno vissuto. Amava intrattenersi ai tavoli, conversare, suonare la chitarra e, soprattutto, osservare la gente. In una delle sue prime lettere da Roma, Joyce lamenta la sciatteria dei caffè della capitale che non reggono il confronto con quelli triestini. Volete mettere uno spritz al Tommaseo piuttosto che un crodino con accompagno di patatine stantie in Galleria Colonna? Lo sbocco al mare della Cacania, una comunità crogiuolo di lingue, popoli e culture, dall’inafferrabile anima ebraica, la città più letteraria d’Italia, non poteva che diventare la protagonista nascosta dell’opera di uno scrittore che più di ogni altro raccontò, anzi fu il Novecento.

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Nella foto grande, una delle nove case abitate dalla famiglia Joyce. Nelle foto piccole, in alto, la chiesa serboortodossa; in basso, un’osteria di Cavana coi vecchi listini dei bordelli (quello frequentato da Joyce si chiamava il Cubo)

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