Libia e migranti, cronaca di un totale fallimento

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Francesca Mannocchi

Libia e migranti, cronaca di un totale fallimento

Guardia costiera senza mezzi, centri di detenzione sovraffollati, l’impotenza di un Paese dove tutti e a tutti i livelli sono coinvolti nel traffico di uomini: “A Gheddafi faceva comodo che i barconi arrivassero in Italia, oggi – una volta intascati i soldi – i trafficanti se ne infischiano”

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Garabulli Alcuni migranti, catturati mentre cercavano di raggiungere l’Italia in gommone, mangiano da una pentola in un cortile del centro di detenzione di Alguaiha a Garabulli

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foto di Alessio Romenzi

ino all’anno scorso avevamo un gommone per uscire in mare e provare a fermare le barche che partivano. Oggi questo ammasso di rottami è tutto quello che resta. Il gommone si è rotto e dalla Guardia costiera di Tripoli non hanno mandato nessun mezzo a sostituirlo. Non abbiamo più mezzi per controllare le coste. Sulle coste libiche succede di tutto”. A parlare è Isaa, il responsabile della Guardia costiera di Garabulli, una cittadina situata sessanta chilometri a est di Tripoli. Ha più o meno quarant’anni. Indossa i pantaloni di una divisa militare e una maglietta dimessa. Quando lo incontriamo è seduto su una panca di legno, da solo, con un radiotrasmettitore accanto. Osserva il mare. La sede della Guardia costiera, che dovrebbe presidiare questa parte di costa desolata, è una casetta di cemento affacciata su un piccolo porticciolo. Spoglia, priva di qualunque mezzo. Ai lati, due piccoli golfi. “Vedi laggiù - dice Isaa indicando gli alberi dietro l’ansa - quello è il lato più comodo per far partire i gommoni, le coste sono circondate di boschi dove i trafficanti raccolgono i migranti di sera prima di farli partire. Come guardia costiera non mi è rimasto più nulla ma ho la barca della mia famiglia, quella con cui andiamo a pesca. Quando mi capita di intercettare un gommone che parte, esco da solo e provo a salvarli. Ma sono più le volte che raccolgo morti”. Poco tempo fa Isaa intercettò un barcone in partenza, chiamò i responsabili alla Guardia Costiera di Tripoli, che tuttavia decisero di non far uscire l’unico rimorchiatore a disposizione. Camminiamo sul porticciolo e Isaa, scrutandosi intorno con il timore di essere osservato, ci mostra dei video dal suo telefonino. Sono i cadaveri che ha filmato l’ultima volta che, con la barca di famiglia, ha provato a salvare dei migranti

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in mare. In uno di essi Isaa, con una corda, lega il corpo di una donna, morta, per avvicinarla al bordo della barca e riportarla a riva. Quando recupera i vivi si sentono le urla disperate di chi si sta attaccando alla sua corda come all’ultima possibilità di vivere.

Minacce e corruzione

“Non è più come quando c’era Gheddafi. Anche allora – spiega – tutti, in cittadine come questa, erano coinvolti nel traffico di uomini, ma con una differenza sostanziale: a Gheddafi faceva comodo che i barconi arrivassero in Italia, perché erano uno strumento di pressione sull’Europa, oggi ai trafficanti serve solo che i migranti partano. Che paghino il prezzo del biglietto e partano, poi se muoiono dopo venti miglia, pazienza”. Nelle

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Tripoli Un profugo africano nella sua cella visto attraverso una piccola apertura in una porta di ferro nel carcere di Abu Salim, riservato alla migrazione illegale

città sulle coste si sente ripetere continuamente la stessa cosa: tutti sono coinvolti nel traffico di uomini, a tutti i livelli. Isaa è stato minacciato dalle bande di trafficanti della zona. Gli hanno offerto dei soldi per chiudere gli occhi e far finta di non vedere i barconi in partenza. Ha rifiutato ed è stato minacciato di morte, di notte, da due ragazzini armati. “La situazione è ormai fuori controllo – conclude Isaa – qui non regna scheconfusione e a mano a mano che questa guerra civile impoverirà la gente e finiranno i soldi la situazione non potrà che peggiorare. Perché non sono più solo le bande di trafficanti a fare affari sui migranti, ma anche le milizie, che si finanziano la guerra in corso”. A tre anni dalla fine della rivoluzione che ha deposto il colonnello Gheddafi, la Libia vive da

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mesi una guerra civile che ha, di fatto, diviso a metà il paese. Dopo la sconfitta alle elezioni parlamentari, nel giugno dello scorso anno, del partito Giustizia e Libertà dei Fratelli Musulmani, lo scontro tra le milizie islamiche di Misurata e il blocco nazionalista delle milizie di Zintan ha trascinato il Paese in uno stallo che ha portato alla costituzione di due governi: da un lato il governo eletto di Abdullah al-Thinni insediato a Tobruk e sostenuto dal generale ex gheddafiano Khalifa Haftar, dall’altro quello islamista, che controlla di fatto la Tripolitania, che fa capo a Khalifa al-Ghweil. Nel mezzo circa centoquaranta tribù, duecentotrenta milizie armate e la minaccia dei gruppi radicali. Primo tra tutti Ansar al Sharia, e poi l’Isis, prima a Derna, poi e Sirte e Bengasi.

In cella Un migrante africano nella sua cella nel centro di detenzione di Abu Salim

In questo mosaico di poteri sovrapposti e contrapposti, il traffico di uomini è un affare che dà da vivere a interi villaggi e in più sta diventando la fonte di finanziamento per le bande che si combattono e un’arma di ricatto che il governo di Tripoli può esercitare verso l’Europa. Nel frattempo la produzione petrolifera è crollata, il governatore della Banca centrale si dice preoccupato per i prossimi pagamenti degli stipendi e in molte zone del Paese cominciano a mancare medicine, cibo ed elettricità. La Tripolitania è una delle zone privilegiate delle rotte dei barconi. I punti di partenza sulle coste a ovest di Tripoli sono Zuara, Sabratha, Sourman e Zanzur. Più vicino a Tripoli ci sono Tagiura e, appunto, Garabulli. Qui incontriamo anche Ibrahim (lo chiameremo così), un uomo

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che ha circa trent’anni ed è padre di tre figli. È uno degli anelli della catena del traffico di uomini. Una catena in cui ognuno ha un ruolo e l’insieme di questi ruoli diventa un crimine.

“Lo scafista non esiste”

“È qui che facciamo lo stoccaggio delle merci”, dice. Stoccaggio delle merci? “Sì, che raggruppiamo i clandestini. In case come queste. Quando iniziano i giorni di mare buono li facciamo venire qui con una parola d’ordine e aspettiamo che faccia notte, prepariamo i gommoni e via. Mettiamo una bussola puntata a nord in mano a uno di loro e li mandiamo dritti a Lampedusa”. Stai parlando dello scafista? Ibrahim ride, mi guarda con sarcasmo. “Lo scafista non esiste, voi europei avete un’idea distorta di quello che succede qui. Lo scafista non è uno di noi, nessuno di noi salirebbe mai su un gommone come quelli che facciamo partire adesso. Lo scafista è uno dei clandestini che viene istruito prima e magari non paga i

Miraggio Italia Nella pagina a sinistra, un detenuto del carcere di Abu Salim per migranti mostra la foto del suo bambino; qui sopra, alcuni migranti catturati in mare mentre cercavano di raggiungere l’Italia, detenuti nel centro di Alguaiha

1.500 dollari come gli altri”. Gli chiediamo di raccontarci com’è organizzato il lavoro, chi lo dirige. “Questo è un business – dice – fatto di vari livelli. E ognuno si occupa della propria mansione: c’è chi deve trovare un capannone dove farli aspettare, chi deve portare loro un po’ di cibo, chi li deve controllare, chi ha il compito di procurare i motori per i gommoni. Chi prova a comprare le barche dai pescatori. E chi deve raccogliere i soldi. Ma per noi, credimi, ne restano ben pochi. Qui i grandi trafficanti non li vedi. È come la vostra mafia. Tutti sono coinvolti. Anche le brigate islamiche che dovrebbero controllare la zona. I clan che organizzano la tratta di uomini pagano le milizie, circa il 10 per cento. E con questi soldi le milizie pagano le armi e la loro guerra. Il giro di soldi è enorme. Mano a mano che peggiora la situazione e ci sono meno soldi, i trafficanti diventano i veri padroni e tutti sono al loro servizio”. È il sistema di potere di un Paese in cui oggi l’unica economia che resiste è quella che si fonda sul sogno degli uomini e delle donne che

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vogliono attraversare il Mediterraneo. Le stesse brigate che governano il territorio e che cercano di mostrare all’Europa che possono controllare l’immigrazione clandestina sono strettamente connesse al business dei trafficanti. Ne sono vittime e, nello stesso tempo, ne sono dominus. Quando arriviamo nella Base navale di Tripoli, la città è in blackout, sempre più frequente negli ultimi mesi. La base è silenziosa e ferma. Quasi in un altro tempo. Come se fosse rimasta congelata dal 2011 a oggi. “Quelle navi erano la nostra flotta, la Nato le ha bombardate nel 2011 – dice il colonnello Aiub Qussim, portavoce della Marina libica – da allora siamo senza mezzi. I governi europei ci hanno aiutato a liberarci dal regime ma non ci hanno mai sostenuto nella costruzione di uno Stato nuovo. Questi sono i risultati. Una guerra civile e 1.800 chilometri di costa senza mezzi per

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Zawiya Alcuni migranti in una cella sovraffollata del centro di detenzione di Zawiya

controllarla. Nel 2013 l’Unione europea ci aveva promesso 26 milioni di euro l’anno per garantire i mezzi alla guardia costiera ma con la guerra civile la situazione è deteriorata e non abbiamo visto né soldi, né - naturalmente - mezzi. La Guardia costiera oggi è formata da ex soldati spesso aiutati dai pescatori che escono in mare a titolo personale”.

Sul gommone della Marina

I sei soldati della marina libica sono seduti di fronte al mare. Uno di loro, Mohammed, ci invita ad aspettare notte per uscire in gommone con lui e i suoi uomini. Vuole mostrarci cosa significa una notte di pattugliamento delle coste senza mezzi adeguati. A mezzanotte, dal porticciolo antistante la Marina, usciamo in mare con lui, in un gommone da dodici posti. Senza luci, né visori notturni, né radar. Uno dei suoi

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uomini indossa un passamontagna e imbraccia un fucile. “Dobbiamo uscire per forza armati – spiega Mohammed – perché rischiamo di essere minacciati dagli scafisti. È legittima difesa. L’unica cosa che possiamo fare con questi mezzi è fermarci di fronte ai tratti di costa da cui è più facile che partano i gommoni, per cercare di intercettarli. E non avendo mezzi possiamo fidarci solo dei nostri sensi: la vista, l’udito. Cerchiamo di raccogliere gli indizi che ci dà il mare”. Quando il gommone si ferma in mare, per ore, Mohammed siede sul bordo e prova ad ascoltare se ci sono mezzi in movimento. Racconta: “I trafficanti di solito fanno partire i gommoni uno dopo l’altro, uno ogni ora, dopo le due del mattino. Quando li intercettiamo e vedono le armi si arrendono subito. Abbiamo bisogno di mostrare le armi per evitare che

La guardia Una guardia carceraria libica controlla alcuni migranti prigionieri nel centro di detenzione di Zawiya

avvertano i trafficanti a riva con i telefoni satellitari. Perché se riuscissero a comunicare con la riva, gli altri gommoni verrebbero bloccati e non potremmo salvare vite umane. La verità è che non sappiamo dove metterli. Una volta ho intercettato un gommone, i migranti a bordo ci hanno segnalato che subito dietro ce n’era uno carico di donne e bambini e che erano in pericolo. E io ho dovuto fare una scelta. Ho dovuto lasciare andare quelli che ancora potevano galleggiare e cercare l’altro gommone. Quando l’ho trovato stava colando a picco. Si stava sgonfiando. Era pieno d’acqua e i bambini e le donne strillavano disperati”. All’alba il gommone della Guardia costiera sembra sempre più un punto nel mare. E tutta la buona volontà di quegli uomini assume sempre più i tratti della rassegnazione. I destini delle vite umane salvate da uomini come

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Mohammed, si scontrano però con il caos della guerra civile. I migranti recuperati in mare vengono smistati nei centri di detenzione, che sono quindici in tutto il territorio libico. L’ufficio del Foreign Media, una delle istituzioni che il governo delle milizie islamiche ha messo in piedi dallo scorso anno, vuole mostrarci che è in grado di controllare l’immigrazione clandestica. La loro forma di controllo si chiama, appunto, Centro di detenzione. Le condizioni in cui vivono i migranti sono disumane. Scortati dalle milizie, ne visitiamo due: uno a Qasr Garabulli, che contiene circa 400 persone, e uno a Zawhuia, a circa 40 chilometri da Tripoli, che di persone ne contiene 821. Il direttore del centro di Zawhia ci aspetta, fumando nervosamente. Per prima cosa ci mostra un foglio. È la lista di migranti divisi per etnie: 300 nigeriani, 197 eritrei, 106 somali. Legge e sospira, impotente. Ha in mano un mazzo di grandi chiavi. Apre due porte chiuse con un lucchetto pesante. Di fronte a noi, un lungo corridoio. Sulla sinistra cinque porte, anch’esse chiuse da lucchetti. Quando la pri-

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Misurata Lavoratori illegali accusati di essere dei clandestini sdraiati sui materassi di una cella sovraffollata del centro di detenzione di Al Karanem, distretto di Misurata

ma porta si apre, di fronte ai nostri occhi compaiono duecento uomini, seduti a terra. Non c’è spazio per camminare, solo una fila di materassi lerci. La luce filtra da una piccola finestra in cima alla parete. Non c’è acqua per tutti. Il cibo, pochissimo.

Nessun aiuto da Tripoli

Amir è eritreo di 22 anni e si trova nel centro di Zawhia da quattro mesi. Nel suo paese studiava ingegneria, parla un inglese perfetto e ci spiega che molti, lì dentro, sono malati di scabbia, malaria e lesmaniosi. Ma i dottori non arrivano, e neppure le medicine. Perché la Libia è in guerra e nessuno si assume più il rischio di percorrere le strade che portano in questo centro periferico e isolato. “Non ho commesso alcun crimine – racconta Amir – ho solo diritto a una vita migliore, come tutti. Ho percorso migliaia di chilometri. Ho visto morire compagni nel deserto. Solo per cercare di costruirmi un futuro che nel mio Paese non potrò mai avere. Sono arrivato in Libia pagando due trafficanti e uno ha tenuto me e

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altre decine di miei connazionali che vedi qui per tre mesi in una grotta, nascosti, in attesa del momento giusto per partire. Poi una notte ci siamo imbarcati, ma il nostro gommone si è rotto a poche miglia dalla costa. E da allora ci tengono qui. Siamo controllati dai soldati libici che ci picchiano con bastoni di metallo. Entrano e ci picchiano, spesso e senza motivo”. Gli chiediamo se sanno quanto devono restare nel centro di detenzione. “Nessuno di noi fa domande – risponde – i soldati ci chiedono soldi per liberarci. Anche duemila dollari per farci uscire di qui. Ci fanno vivere come bestie e provano, anche loro, a guadagnare sulla nostra pelle”. Ma il viaggio nel Mediterraneo è un viaggio molto rischioso. “Perché, vivere qui non lo è? Se devo morire almeno voglio scegliere come. Meglio morire annegato che malato di malaria qui dentro”. Il direttore del centro di Zawhia ci accompagna all’uscita. Il suo passo è rassegnato, come di chi non può fare nulla. Nella voce, il risentimento verso un governo, quello di Tripoli, che non

In cortile Alcuni migranti nel cortile del centro di detenzione di Alguaiha a Garabulli

interviene: “Il governo di Tripoli non ci manda più un soldo nemmeno per comprare da mangiare a questa gente. Questi centri dovrebbero essere controllati dal ministero dell’Interno di Tripoli - dice il direttore mentre la sua voce si fa più sussurrata, per non farsi ascoltare dai soldati intorno – ma alla fine sono le bande armate che decidono tutto. È una guerra tribale ormai, questa. Noi non abbiamo altri mezzi per tenere questi clandestini e abbiamo paura”. Perché? “Abbiamo paura perché di notte i trafficanti vengono qui fuori, sono armati e chiedono indietro la loro merce, i clandestini. E io so che alcuni soldati di guardia sono loro complici. Vengono qui, li portano a lavorare come schiavi nei campi e nelle fabbriche di mattoni. Oppure li usano come ostaggi per ricattare le loro famiglie nei paesi di origine e farsi pagare un altro viaggio. Così guadagnano i soldi. Con la connivenza di alcune brigate islamiche che hanno bisogno di denaro”. Questa è la Libia che si affaccia sull’Europa. Uno Stato fallito. Uno Stato che non esiste più.

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