Fabrizio Lorusso
La prima casa di riposo per prostitute anziane
foto di Giorgio de Camillis
Città del Messico, Calle Torres Quintero. Questo l’indirizzo dell’insolito ospizio, che conta una trentina di posti letto e si sostiene grazie a finanziamenti pubblici e donazioni. Le storie di Elia, Berta, Patricia, Carmelita, donne con una vita familiare durissima alle spalle
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lia Guadalupe ha un sorriso inconfondibile da nonnina complice. Porta sempre un cappellino da baseball la cui visiera nasconde il suo sguardo vissuto e malinconico. Fino a pochi mesi fa la sua dimora era una panchina del parco della Soledad, un giardinetto del centro di Città del Messico dove si dedicava alla prostituzione. Ora siede sul suo letto in una stanzona di Casa Xochiquetzal, nella calle Torres Quintero. Per gli aztechi Xochiquetzal era la dea della fertilità, dei fiori, della bellezza, della gravidanza e del piacere amoroso, mentre oggi, nell’ombelico d’America, a quella divinità precolombiana è intitolata la prima casa di riposo al mondo per prostitute della Terza età. La casa-rifugio è costituita da un edificio dell’epoca coloniale, incastonato tra vicoli rumorosi e mercatini affollatissimi, come solo se ne vedono nel cuore della metropoli più grande del mondo, la capitale del Messico coi suoi 25 milioni di abitanti. Ma all’interno della struttura, nel patio centrale e nei lunghi ballatoi, regnano, surreali e indisturbate, la pace e la tranquillità. Accanto a Elia c’è Berta, una delle sue compagne di stanza, sessantenne della regione di Hidalgo, che è appena uscita dall’ospedale e lentamente recupera le forze dopo un’operazione chirurgica che le ha salvato la vita. Avvicino discretamente la mia seggiolina e ascolto, osservo, registro. “Qui ho la casa e il calore che non ho mai avuto, trovo affetto, comprensione e un senso d’unione”, racconta Elia che, insieme a Berta è una delle nuove arrivate e aggiunge che la sua amica se l’è vista veramente brutta: “Era moribonda, stava per terra, è stata portata in ospedale da alcune assistenti sociali e poi l’hanno accettata qui”. Quattro letti individuali occupano gli angoli della stanzona in cui dormono Elia e Berta. Il calore delle pareti color ambra, i soffitti altissimi e le ampie finestre esaltano la luce del sole tropicale che entra insieme al fievole vocìo
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dei commercianti delle bancarelle. Elia ha iniziato a fare la prostituta a tredici anni e ha smesso poco tempo fa, compiuti i sessantacinque. “Dopo i vent’anni ho partorito sei volte, tutti maschi, e il fatto è che nella prostituzione una perde le cautele, resta incinta e poi ai miei tempi bevevo molto, non sapevo mai di chi era il bebè…”, racconta. Non ha avuto infanzia né adolescenza e ha iniziato a prostituirsi perché era l’unica possibilità che le era rimasta. “La mia famiglia non esisteva, non c’era affetto, mancava la comprensione del padre e della madre e
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Vite difficili In queste pagine i fotoritratti, nell’ordine, di Raquel, Marbella, Arcadia, Berta, quattro ospiti della prma casa di riposo per prostitute anziane a Città del Messico
c’erano solo problemi e violenza, per questo me ne sono andata così”, narra con tono rassegnato. Berta, invece, ha tre figli che ormai non vede più perché si vergognano di lei. “Sono stata trabajadora sexual [“lavoratrice del sesso” in spagnolo] quasi tutta la vita tra le vie Guatemala e Santísima e mi pare proprio di avervi passare di là a voi due!”, esclama mentre scoppia a ridere e con l’indice punta dritto verso di me e Giorgio, il fotografo. Nel deserto urbano, in cui lo Stato è assente ingiustificato, gli abitanti delle zone più pove-
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re del centro cittadino vivono alla giornata, tra lavoro nero ed espedienti. Quest’oasi chiamata Xochiquetzal è un rifugio sicuro e necessario per le venticinque donne, indigenti e senza tetto, che vi sono accudite. Durante buona parte della vita tutte loro sono state sexo-servidoras, altro termine usato in Messico per indicare la prostituzione. Alcune lavorano ancora, sporadicamente, e mantengono i contatti con qualche vecchio cliente. La strada è stata la loro casa per decenni. Vengono dai ghetti della Merced, di Tepito, Loreto, la Lagunilla e Granaditas. Sono nomi che
non dicono nulla ai frequentatori occasionali di Mexico City, ma che evocano storie d’emarginazione e insicurezza in chi conosce la topografia economico-sociale di questa megalopoli che sa essere contraddittoria ed escludente, ma anche amichevole e solidale.
Una vera comunità
La Casa, infatti, si mantiene grazie al sostegno del comune e dell’Istituto nazionale delle Donne, ma il grosso dei finanziamenti arriva da donazioni, dalla partecipazione a concorsi e dalla
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vendita d’oggetti d’artigianato di cui si occupano la direttrice, Jessica Vargas, le associazioni Mujeres de Xochiquetzal e Semillas, e i volontari che collaborano al mantenimento e alle attività della Casa. Patricia, un’altra compagna di camerata che si fa chiamare Pato, ha allestito accanto al letto un altare della Santa Muerte, ricco di offerte per quest’icona popolare messicana. “Sono sua devota da vari anni, fai pure una foto alla Patrona”, mi dice con la sua voce roca e grave riferendosi alla statua della Santa. Gli scaffali sulle pareti ospitano peluche, radio, effetti personali, alcune riviste e qualche vasetto di crema. Pochi oggetti e scarsi capi d’abbigliamento sono tutto ciò che le inquiline posseggono. Ma i beni materiali non sono tutto nella vita. “Qui condividiamo tante altre cose, allegrie, tristezze, pianto, e comunque ci aiutiamo l’una con l’altra, com’è successo per esempio con la compagna malata che tutte siamo venute a trovare e grazie a Dio la stiamo curando”, spiega Élia alzando inavvertitamente la voce. “Negli ultimi anni i soldi non bastavano più – spiega – perché la prostituzione adesso non è più come una volta: i clienti pagano poco o niente e non ci basta nemmeno ad affittare una stanza per dormire”. Dopo aver passato 53 anni in strada, tra marciapiedi e camere d’hotel, un anno e mezzo fa Élia ha trovato famiglia, comunità e protezione. Qui la discrezione e il rispetto delle inquiline sono d’obbligo. Non ci sono targhe all’esterno del palazzo, né citofoni o cassette delle lettere. L’enorme portone di legno dell’entrata è l’unico elemento distintivo, un varco che fa sparire magicamente i rumori e ferma il tempo. L’oasi è fatta per introdurvici lentamente, per calpestarla in silenzio senza troppi scatti fotografici o parole al vento. “Già verso il 2001 nasce l’idea di creare una casa di riposo di questo tipo ed è Carmen Múñoz, leader delle sexo-servidoras della zona, a lanciare la proposta con alcune militanti femministe e con la scrittrice Elena Poniatowska”, spiega Jessica. “L’amministrazione comunale inaugurò il progetto nel 2006, il piano prevedeva di ospitare fino a 65 donne, purché avessero più di 55 anni e fossero prive di reti familiari e fissa dimora, ma è stato problematico trovare tutte le risorse e mettere d’accordo tante inquiline così diverse tra loro, così abituate a diffidare delle altre o a competere”, continua la direttrice. Per ora, dun-
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que, l’obiettivo è recuperare le risorse sufficienti per prestare servizio a 35 donne, “ma non è facile perché a volte la lotta è per non chiudere piuttosto che per crescere ancora”. È ben consapevole dei potenziali conflitti e dei problemi di adattamento alla vita comunitaria nella Casa, per cui “si fanno riunioni, iniziative collettive, laboratori psicologici e pure corsi sull’igiene, l’alimentazione, la cura personale, la non violenza, le questioni di genere e di equità e l’autostima”, specifica. Di fronte alla solitudine e alla paura della vita di strada è possibile comunque creare comunità. “Avevo tante compagne con cui si condividevano le notti, il parco e i luoghi dove restavamo e al freddo s’aggiungeva il terrore che ci prendessero in giro, che ci picchiassero o che gli sbirri ci portassero in prigione dato che anche loro se la prendevano con quelle della zona”, ricorda Elia. “Il timore principale di tante anziane che si fermano da noi è di finire in una fossa comune, di essere cremate nei forni della polizia senza che
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nessuno mai le venga a cercare o gli dia una degna sepoltura – precisa Jessica – mentre qui i loro familiari possono venire a trovarle o almeno sapere dove sono seppellite”.
Rifiutate dai figli
Tutte le donne della Casa hanno alle spalle storie familiari difficili e, in generale, vengono rifiutate da figli, partner e genitori per via della loro professione, per vergogna e ignoranza. Confida Elia: “Un figlio se lo portò via il padre, altri restarono con me ma non per strada, da mia madre, che faceva le pulizie nelle case e ogni venti giorni ci vedevamo”. Solo il più giovane di loro vive a Città del Messico e mantiene i contatti con lei, mentre gli altri sono spariti dalla circolazione: “José Miguel è molto contento perché ha provato a lungo a cercarmi finché un giorno ha saputo che ero qui nella mia nuova casa e ci siamo visti”. Prima di dire adiós, Jessica mi mostra la foto di una donna anziana dallo sguardo intenso
e profondo. La parete del suo ufficio è tappezzata di ritratti delle mujeres de Casa Xochiquetzal, quelle che ci abitano ancora e quelle che non ci sono più. Carmelita, la donna della foto, è mancata due anni fa, all’età di 76 anni. Aveva cresciuto i suoi due figli grazie al lavoro da prostituta, ma da qualche tempo vendeva dolci per la strada. Poi, un giorno, mentre lavorava, è stata investita da una macchina che le ha fratturato il bacino. Il primogenito l’ha curata per sei mesi, ma quando è stato il turno del figlio minore, questi si è tirato indietro, addossando la colpa alla moglie che, a suo dire, aveva minacciato di lasciarlo. Ha abbandonato la madre a una fermata della metro, come se fosse un cane, e non si è più fatto vedere. Dopo essere sopravvissuta tra stenti e carità per qualche settimana in una stazione degli autobus, Carmelita fu accolta nella Casa Xochiquetzal, solo per un po’, prima di morire lontana dalla famiglia, ma attorniata dall’affetto delle compagne.
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