Radio venceremos

Page 1

Tiziana Rinaldi Castro

foto Archivio Mupi

T

La radio nella grotta L’interno della grotta sui monti del Morazan (El Salvador) dalla quale “Santiago” (a destra con la barba) e i suoi compagni trasmettevano i proclami di lotta contro la dittatura sulle onde di Radio Venceremos

Radio Venceremos, voz oficial del frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional, emitiendo su señal guerrillera en El Salvador, Centroamérica, territorio en combate contra la opresión y el imperialismo! Revolución o muerte! Sulle parole pronunciate dalla tonante voce di “Santiago” partiva la sigla: “El pueblo unido” degli Inti Illimani e seguiva il programma radio ascoltato in America Latina, parte degli Stati Uniti e del mondo; per 11 anni, clandestinamente, dai monti del Morazan ogni sera alle sei, a partire dal 15 gennaio dell’81 fino al 16 Febbraio del ‘92. ransmite

11 Giugno 2014 in volo per San Salvador

Il tablet è aperto sui versi di Roque Dalton, rivoluzionario poeta del Salvador, che nel ’60 e nel ’65 scampò alla fucilazione per mano del governo, ma non nel ’75, quando i suoi stessi compagni dell’Erp, l’Ejército revolucionario del pueblo, l’accusarono ingiustamente di tradimento e lo uccisero. “L’uomo dagli occhi pieni d’ira domandò: cos’è la poesia?”.

12 Giugno 2014, San Salvador

“Aquí Radio Venceremos” gli anni della clandestinità 80

numero 20

Carlos Enriques Consalvi, detto Santiago, ricorda dopo oltre un ventennio l’esperienza dell’emittente salvadoregna che trasmetteva contro la dittatura da una grotta sui monti del Morazan. L’esercito gli diede invano la caccia, gli Stati Uniti tentarono di spegnere il segnale

Riconosco la sua voce mentre parla con i suoi assistenti nel piazzale del Museo de la Palabra y la Imagen, e mi volto a cercare Carlos Henriquez Consalvi, “Santiago”. Anche il viso è quello delle iconiche immagini di lui dietro i microfoni di Radio Venceremos nella grotta; la barba, ora bianca, lo sguardo intenso e ridente come nei documentari dove intervista il profugo, il compañero, il prigioniero. Ma di cosa vorrei parlare? La guerra civile, il “cielo per cappello”. Annuisce, iniziamo da Roque Dalton? È abbandonata la casa del più grande poeta del Salvador, rifugio di vagabondi e di un vecchio, guida improvvisata della fatiscente residenza. Precedendoci fra le stanze con un’urgenza che si discosta dall’ironia del poeta, ma non dalla sua tragica sorte, l’uomo ci raffigura una mappa di plausibile domesticità: la camera da letto “dove s’accostava con i figli” e lo studio “dove scriveva”: qui, su una scrivania, una sagoma cartonata della sua macchina da scrivere a misura naturale e la copia di un suo libro inquadrano uno squarcio surreale che, tuttavia, raggiunge solo me: Santiago è a suo agio.

numero 20

81


Tiziana Rinaldi Castro

“Volete farvi una foto con il poeta?”, chiede il vecchio puntando altre sagome cartonate ad altezza naturale: del poeta con in braccio suo figlio, del poeta abbracciato a una donna. È in quest’invito che colgo la cifra dell’audacia della Poesia, la vertigine che in un verso possa rappacificarsi il presente, quando in bilico e quando in equilibrio sulla follia. E in quel momento scoppia un violento temporale dell’inverno salvadoregno. Siamo prigionieri. “Cadrà?” chiedo alzando gli occhi al tetto, cui si accede per una scalinata, “da dove il poeta guardava le stelle”. “Perché no?”, mi fa eco Santiago, fornendomi il primo indizio che il fatale incontro tra la poesia e il reale sia in questo Paese il motore di azioni che avrebbero altrove ben altro carburante. “La faceva da padrona anche in guerra la pioggia?” Sorride. “Ah, non c’era modo di difendercene; come dalla fame o la paura. E la notte, dormire sotto un telo di plastica... inutile! Ma molti di noi la preferivamo alle pulci che ci divoravano nelle case disabitate dove trovavamo riparo”.

82

Il collettivo Foto di gruppo per il collettivo di Radio Venceremos in clandestinità, 1982

Punto al caos della città: i marciapiedi variopinti di fiori, mucchi di caschi di cocco che le venditrici del suo latte si lasciano dietro e bacinelle di plastica dove cresce la maza, l’impasto di mais che le donne formano in pupusas imbottite di formaggio fuso e ciccioli che arrostiranno sul fuoco; il disordine architettonico lungo chilometri di palazzi senza grazia; il soverchio di un’America del Nord che s’impone tracotante, incorniciando su di un fondale di luci fredde centri commerciali, concessionarie d’auto e catene di fast food che scorrono sui corridoi d’asfalto; la sinistra e abituale presenza di guardie con mitra, a difesa di semplici negozi di scarpe o ristoranti. Dall’inquietudine, certo, di una povertà che si sbatte muta in faccia a un benessere misterioso e di cui si chiede ragione se è ancora possibile dormire per dieci dollari a notte, mangiare per tre e attraversare la città in autobus per venti centesimi, mentre il valore di ogni altro prodotto coincide con quello che ha altrove in Occidente. Un benessere non equamente distribuito

numero 20

da un governo che sia a destra che a sinistra ha disatteso per anni le aspettative del popolo; atteso allora dai familiari emigrati negli Stati Uniti, che mandano da lì ogni mese i proventi per la sopravvivenza, finendo per invalidare invece che spronare l’economia domestica; conteso da Las Maras, le gang ereditate anch’esse dall’America del Nord, che mortificano la città con l’abuso della criminalità spicciola. Dimmi perché sei venuto. “Conoscevo la violenza della dittatura da sempre, avendo subito quella di Marco Peréz Jiménez in Venezuela e l’esilio in Messico per via di mio padre, intellettuale dissidente perseguitato dal regime. L’assassinio dell’arcivescovo Romero a San Salvador nel marzo dell’80 fu il catalizzatore per me. E il successo della rivoluzione in Nicaragua l’anno prima mi convinse che anche qui il popolo avrebbe subito vinto”. Ma ci volle tanto più tempo. Santiago annuisce sereno, non si tirò indietro, e durante undici dei dodici anni del conflitto Radio Venceremos informò il mondo sul-

Bandiere rosse Le bandiere rosse con la scritta “Ganamos” (Vinciamo) dei gruppi rivoluzionari salvadoregni

la verità contro la propaganda anticomunista del governo; sostenne il popolo rassicurandolo sulla forza dell’insurrezione dell’Flmn malgrado la repressione del regime e gli aiuti finanziari delle amministrazioni Carter, Reagan e Bush all’esercito, pari a un milione di dollari al giorno. E, naturalmente, si assicurò il sostegno monetario della sinistra internazionale e ispirò tanti volontari a venire a dare il proprio contributo, spesso a costo della vita. Che Radio Venceremos fosse essenziale alla rivoluzione lo riconobbero l’esercito salvadoregno che la braccò attivamente per undici anni, e quello americano che piazzò nel golfo di Fonseca, nei Caraibi, due cacciatorpedinieri per bloccarne il segnale, riuscendoci tuttavia solo in parte. Difesa strenuamente, l’emittente continuò a trasmettere la guerra. Ma non solo. “Anche una radio-novela che scrivemmo per prendere in giro l’America. E poesia, musica!”. Bisognava seguitare a ridere, pensare. E sperare. Undici anni sono lunghi a passare. “Lo sai, abbiamo una foto del poeta con suo figlio su questo terrazzino”, torna d’improvviso al presente Santiago. E realizzo così che l’apparente follia di quest’ora corrisponde all’ironia del nostro amato poeta, per cui tutto passò infine tanto prima della sua morte prematura.“…è finita l’ora della cenere per il mio cuore. Fa freddo senza te… però si vive...”

18 Giugno 2014, Morazan

“Santiago, pensavo di dormire nella grotta benedetta, stanotte”, ho scritto scherzosamente in un’email da El Mozote. Giovanni Diaz Pereira, sindaco di Meanguera, mi accompagnerà alla “cueva del Murcielago”, la grotta del pipistrello, anche chiamata “de las Pasiones”, dove la Radio era nascosta. “In quella grotta abita un romantico pipistrello”, mi avverte Santiago, confortandomi. Sono dinanzi alla tomba di Rufina Amaya, nel giardinetto in cui è eretta la scultura in ferro di una famiglia che si tiene per mano: figlio, padre, madre e figlia. È di una sinistra dolcezza se sul muro dietro sono apposti i nomi delle centinaia di morti sepolti accanto a Rufina, la cui bara è l’unica a contenere con certezza le sue spoglie. I bambini, anch’essi centinaia, sono separati dagli adulti; dormono nel sagrato della chiesa poco distante, là dove sono

numero 20

83


Tiziana Rinaldi Castro

stati trucidati. Rufina fu l’unica superstite del massacro de El Mozote, tra l’11 e il 12 dicembre dell’81, più di 900 persone, tra le quali suo marito e i quattro figli. Il battaglione responsabile dell’eccidio, mille soldati addestrati dall’esercito americano, si chiamava Atlacatl, ironicamente dal nome di un indio indomito che nel 1524 era insorto contro gli oppressori spagnoli. Nonostante Atlacatl rivendicasse la mattanza lasciando scritte boriose sui muri di El Mozote e Santiago e due giornalisti americani giungessero sul luogo pochi giorni dopo il massacro e l’avvisassero al mondo, il governo salvadoregno e gli Stati Uniti riuscirono a insabbiare l’accaduto screditando la notizia come propaganda comunista. Sebbene solo undici anni dopo, fu proprio la dichiarazione di Rufina a far sì che con l’aiuto di un’equipe di antropologi i corpi fossero riesumati, trovassero parziale riconoscimento e una dignitosa sepoltura. Sulla via per la grotta passiamo per Arambala. Al tempo della rivoluzione, era un quartier generale dei guerriglieri, gli abitanti si erano rifugiati in Honduras. Santiago vi fu ferito al collo in un attacco aereo nell’84. Da lì fu trasportato a Cuba dove rimase in convalescenza e compose il memoir “La terquedad del Izote: la historia de Radio Venceremos”. “Avevo messo i piedi al sole – mi racconterà qualche giorno più tardi, al mio ritorno nella capitale – era importante per scongiurare i funghi... mi fumavo una cicca e ascoltavo un nastro di musica italiana... il mio pezzo preferito, ‘Un gelato al limon’. In quei momenti mi scordavo di tutto, sai... se ti dico che fummo attaccati per colpa di mutandine rosse non mi crederai ma è così, le compañere ci tenevano a far colpo su di noi... e quel giorno le avevano stese ad asciugare sulle pietre. I nemici le videro dall’alto e bombardarono”. “Dammi la mano”, offre Giovanni all’imboccatura della grotta e con un ultimo salto siamo nella tana del coraggio. Dovrei godermi

84

il momento, ma ho nelle orecchie il racconto crudo della sua infanzia passata a sognare il Salvador in Honduras, dove vi era arrivato in grembo alla madre che l’allattava. “Anche senza muri il campo era una prigione... noi bambini ci mettevamo in tasca la terra... era rossa, salata... e la succhiavamo durante il giorno... sognavamo di tornare a casa... i vecchi ci raccontavano una terra fatata... i manghi, gli alberi del fuoco, il canto degli uccelli... e se non loro ci pensavano i musicisti... ”. Certo, la band de Los Torogozes de Morazan, guerriglieri che imbracciando fucile e strumento, attraversavano il Salvador sotto le bombe e il campo profughi in Honduras per tenere alto il morale del popolo. Fu proprio Santiago a battezzarli, mi ha raccontato ieri sera Don Felipe, leader della band, davanti a un bel succo di more e una pupusa. Cantavano il Morazan ai bambini, rifletto ora guardandolo di fronte a me! La foresta tropicale, dove le liane si attorcigliano al pino e al mango e nel ruscello sotto la grotta di Radio Venceremos, si abbeverano il cervo, il gufo, l’iguana e il variopinto torogoz dal canto cupo.

numero 20

“Sì, e volevamo tornarvi a tutti i costi, ottenere un fucile e combattere, perché significava farci la ragazza... ma quando finalmente tornammo, dopo giorni di marcia ci accolse una terra bruciata dalla guerra... case rase al suolo... la prima sera fummo salutati da un bombardamento aereo... e quando mio nonno allestì con della plastica un tetto di fortuna venne giù un alluvione... piangemmo attaccati alle sue gambe... ecco il mio ritorno a casa... avevo dieci anni”. Ora Giovanni chiede a me come sto. Rispondo con due versi di Roque Dalton: “Quando la patria rimane intatta dal fiotto di sangue che ci ha partorito [...] quando la patria è quel prisma puro che ci segnala l’unica possibilità d’amare...”. Annuisce. Al Museo de la Revolución di Perquin un titanico temporale scuote il pigro pomeriggio. “Perfetto!”, esclamo e mi tuffo nel piazzale coperto dove giacciono i resti dell’elicottero di Domenico Monterrosa, colonnello del battaglione Atlacatl. Una sinistra soddisfazione mi freme dentro. Monterrosa fu ossessionato da

La voce della rivoluzione Carlos Henrique Consalvi, detto “Santiago”, ai microfoni di Radio Venceremos e, nella foto piccola di Donna De Cesare, oggi, dopo ventidue anni dalla fine di quell’esperienza

Radio Venceremos, la definì “uno scorpione nel culo”. Mentre l’America insisteva con il mondo che il governo aveva sotto controllo l’insurrezione, ogni sera la Radio riportava il contrario: perché non si riusciva a farla tacere? Radio Venceremos approfittò della pressione cui Monterrosa era sottoposto e il 23 ottobre dell’84, partì l’Operación Caballo de Troia. Un trasmettitore, dei nastri registrati e taccuini imbrattati di sangue di gallina venne fatto trovare ai militari, i quali avvertirono subito il colonnello. “Radio Venceremos è stata catturata”, annunciò Voa, “Voice of America”, la radio internazionale americana. Gongolante, Monterrosa andò personalmente a ritirare le prove della “cattura” e montò sull’elicottero con l’apparecchiatura. Non prima di averci posato vanitosamente su il piede, “come un cacciatore sulla carcassa di un leone”, nelle parole di una venditrice di ciccioli che lo vide. All’altezza di 300 metri il piccolo ordigno a orologeria posto nell’apparecchiatura esplose. “L’elicottero cadde a Joatique, non lontano da El Mozote”, mi ricorda qualche giorno più tardi Lucio Vásquez, detto “Chiyo”, promotore culturale al Museo de La Palabra y La Imagen e autore di “Siete Goriones”, un memoir della guerra. Giustizia poetica, dunque. Chiyo era un bambino in quei giorni e le memorie delle continue stragi lo lasciano ancora attonito: “Ammazzarono mia madre e mia sorella Teodora, incinta di sei mesi, nel febbraio dell’80. Due fratelli mi erano stati già uccisi dalla polizia militare nell’ottobre del ‘79, José Ilario e José Santos. Con mio padre e i fratelli rimasti ci unimmo ad altri in fuga verso l’Honduras, senza scarpe, con poco cibo, i fiumi in crescita per gli alluvioni. Lungo il cammino subivamo gli attacchi dei militari e sparivano le madri... decisi allora che non sarei andato in Honduras... mi sarei unito ai guerriglieri nella foresta... che mi misero in una scuola per bambini orfani. A dodici anni entrai nell’unità guerrigliera di Radio Venceremos come radio operatore; vi rimasi per tre anni e mezzo. Persi altri fratelli ma in combattimento: Hubert nell’offensiva del Moscarron, nell’82; Romeíto nell’85; e l’ultimo, Juan, in un’imboscata a Santa Emilia, nell’86. È stata una guerra diseguale, il potere militare di chi ci attaccava era tremendo, ma noi abbiamo risposto. Avevamo solo due opzioni: morire uccisi con la mani le-

numero 20

85


Tiziana Rinaldi Castro

gate o combattendo. Ci siamo giocati la pelle, ma anche chi è caduto ce l’ha fatta perché è morto per tutti noi”. L’emozione l’arresta. “Se non per dare il cuore, la vita, non venire, nella tua venuta è già la tua partenza”, sussurra poi. “Scrisse così la poetessa Lil Milagro che è sottoterra con i miei fratelli” e sembra voler consolare me quando il suo volto si spiana in un sorriso struggente. La poesia si accompagna al sangue nobile di chi cerca il bene, la poesia sposa la morte se il bene tarda a presentarsi; è sorprendente che Socrate non abbia scritto un solo verso, sebbene forse le sue frasi per flauto lo fossero. Chiyo mi ha detto che gli piacerebbe morire cantando. In questa bellissima terra che è l’America latina, la poesia ha sanguinato a lungo. Nel Salvador, la sua più piccola perla, infine ha vinto? Chiyo risponde allargando le braccia nella sala del museo che Santiago ha fondato per non dimenticare: “Ciò che ami lo proteggi. Se lo conservi lo proteggi due volte. Io ero semi-analfabeta quando fuggii sui monti, ma la rivoluzione vi pose rimedio e infine ho scrit-

86

La vittoria Per le vie di san Salvador dopo la vittoria sulla dittatura con il “Frente Farabundo Martì para la Liberaciòn nacional”

to ‘Siete Goriones’ per ricordare i miei sette passeri che diedero la vita perché io e te oggi possiamo sedere qui a biasimare questa incipiente democrazia”. Alle sei del 16 febbraio del ‘92, nella piazza centrale di San Salvador liberata migliaia di persone si preparavano ad ascoltare da Radio Venceremos le notizie relative agli accordi di pace che si firmavano quel giorno a Città del Messico. Quando si sentì la voce di Santiago dire: “Transmite Radio Venceremes dal cuore di San Salvador, dalla cattedrale...”, la folla levò gli occhi in alto. Era lui, Santiago, quella sagoma nella finestra del campanile? Dopo undici anni la Voce aveva un volto? Scoppiò un fragoroso applauso. “Guardai la città sull’orlo del suo futuro di libertà dopo sessant’anni di dittatura militare – racconta – e di un’insurrezione iniziata nel ‘32 con l’eroico Farabundo Martí. Ricordai Roque Dalton: ‘Patria non esisti, sei solo la mia malombra’... e dissi sottovoce: il tuo paese finalmente esiste, poeta... poi scesi fra la folla... avevamo vinto”.

numero 20


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.