Scacchi

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Quando un paese della piccola Islanda conquistò il mondo con gli scacchi Era il 1972. Selfoss, a 50 chilometri da Reykjavík, ospitò la finale tra lo statunitense Bobby Fischer e il russo Spassky, emblema della guerra fredda. La lunga avventura del vincitore americano, che poi ricevette asilo politico e che è sepolto nel cimitero di una chiesa

l Testo e foto di Graziano Graziani

L’

Islanda è un paese dove l’immaginario e la realtà rischiano di collassare l’una dentro l’altra. Chi si spinge quassù è in cerca di una natura arcaica oppure, spesso, insegue delle storie. A Selfoss, una cittadina anonima che dista una cinquantina di chilometri da Reykjavík, c’è poco da vedere, ma molto da scoprire. L’“Atlante leggendario delle strade d’Islanda” – una guida letteraria molto suggestiva, che offre un percorso alternativo del paese a caccia di mostri, stregoni e folletti – racconta che qui nacque Jóra, una contadina che si trasformò in una crudele trollessa, e che la sua uccisione

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fu l’espediente con cui gli islandesi individuarono il luogo dove far sorgere quello che è considerato uno dei primi parlamenti d’Europa tutt’ora in attività, l’Althing. Alla periferia di questo borgo di seimila anime – non poche, considerando la densità abitativa dell’Islanda – c’è un insediamento chiamato Laugardælir, dove sorge una piccola chiesa luterana interamente bianca e dove qualche sparuto viaggiatore appassionato di scacchi compie il suo speciale pellegrinaggio. Il giardino della chiesa ospita delle tombe, sotto la prima lapide sulla sinistra giacciono i resti mortali di Robert James Fischer, nato il 9 marzo 1943 e morto il 17 gennaio 2008. Bobby Fischer, com’è meglio conosciuto dal grande pubblico, è stato uno dei più grandi campioni di scacchi di tutti

i tempi e certamente il più atipico. Il suo destino è legato a doppio filo a questa piccola nazione a partire dal 1972, quando l’americano vinse il campionato del mondo contro il sovietico Boris Spassky in quello che è stato definito “il match del secolo”, fino ai suoi ultimi anni di vita. L’Islanda lo ha ripagato trasformando la sua storia in una sorta di mitologia nazionale che, sia pure in modo discreto, com’è nell’indole degli islandesi e ancor più della nicchia degli amanti degli scacchi, viene puntualmente raccontata.

Manifesti, foto, libri È opinione diffusa che sia stata proprio la sfida Spassky-Fischer del ’72 a dare rilevanza internazionale a un piccolo Paese come l’Islanda e a renderlo famoso:

to put it on the map, come si dice con un’efficace espressione inglese. Il risultato è che oggi uno dei fantasmi di cui si può andare a caccia tra i ghiacci è proprio quello di uno dei più grandi scacchisti di tutti i tempi. A Selfoss, dal 2013, è stato fondato il Bobby Fischer Chess Center, un centro che intende preservare la memoria del “match” e diffondere il gioco degli scacchi. Le sue attività sono condotte da volontari, come Aldís Sigfúsdóttir, un’ingegnera civile che mi riceve su appuntamento e mi accompagna in una visita del centro, ricco ovviamente di mirabilia del grande match, manifesti, foto, libri, scacchiere e ritagli di giornale. Ma anche alcuni reperti che rimandano subito al clima della guerra fredda che ha fatto da sfondo all’evento: ad esempio

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Una veduta panoramica del villaggio di Selfoss

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i tabulati – molto simili a dei “sismogrammi” – con cui i sovietici analizzarono l’ambiente, per verificare che gli Stati Uniti non stessero utilizzando qualche dispositivo radioattivo per disturbare la concentrazione di Spassky e farlo perdere. Oggi può sembrare una paranoia assurda, ma lo scontro tra Usa e Urss ha fatto realmente da sfondo a questo campionato. Era la prima volta che gli americani insidiavano il primato sovietico in una disciplina in cui i russi avevano sempre dominato e che Mosca considerava parte integrante del sistema comunista. E, a conti fatti, fu la prima e ultima volta che un americano si

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laureò campione del mondo di scacchi. La pressione politica era fortissima e probabilmente è stato anche grazie ad essa che il gioco degli scacchi ha avuto una ribalta internazionale di questo livello. O magari ha pesato anche il fascino di una figura eccentrica e fuori dagli schemi come quella del campione americano. Fatto sta che prima di Bobby Fischer gli scacchi erano una disciplina seguita solo da appassionati, i tornei mettevano in palio premi modesti e nessun professionista poteva sperare di campare solo giocando e approfondendo le proprie strategie. Dopo Fischer, tutto questo viene ribaltato. La presenza fuori stagione di due uomini che si uniscono alla visita – un prete americano che vive in Islanda e un suo amico che è venuto a trovarlo, entrambi appassionati di scacchi – dimostra quanto il centro di Selfoss e la sua wunderkammern fischeriana stia diventando una meta per gli appassionati. Al centro della sala spicca una replica del tavolo su cui Spassky e Fischer si contesero il titolo mondiale. “L’originale si trova nel Museo Nazionale a Reykjavík – mi spiega Aldís – ma non si può vedere: la tengono in uno scantinato! Il motivo è che il tavolo è stato firmato sia da Fischer che da Spassky e temono che le scritte possano cancellarsi. Ma è un’assurdità. Sicuramente c’è un modo per preservarle, magari

mettendo una copertura. Che senso ha tenere questi oggetti nascosti? Il centro ha fatto espressa richiesta affinché tavolo e scacchiera vengano esposti qui, assieme agli altri cimeli, ma non abbiamo ancora avuto risposta”. Insomma qui Bobby Fischer, il giocatore eccentrico e inventore di mosse geniali, l’uomo controverso che in tarda età si lanciò in invettive antisemite (lui, che era di madre ebrea), il campione scomparso e poi riapparso, è oggetto di un vero e proprio culto. Tra gli altri cimeli spiccano gli ultimi libri che aveva ordinato e non aveva fatto in tempo a ritirare e la sedia dove era solito sedersi a leggere da Bòkin, la libreria dell’usato che si trova in centro a Reykjavík, non lontano da dove il Maestro aveva preso casa negli ultimi anni di vita. In un corridoio ricavato tra un poderoso scaffale e una delle vetrine, Fischer passava buona parte del suo tempo immerso nei libri. La sua passione per la lettura è nota, così come le critiche ai suoi connazionali che passavano ore davanti alla tv invece di leggere. Sono andato a curiosare tra gli scaffali di Bòkin, nella downtown di Reykjavík: sembra di varcare uno confine spaziotemporale. I libri sono accatastati in pile e stipati in vecchi scaffali che formano un piccolo dedalo, così come succedeva abitualmente nelle librerie prima dell’invasione delle grandi catene. Un po’ dapper-

tutto si rincorrono foto di scrittori, musicisti, attori dell’epoca d’oro del cinema attaccate alle pareti, e c’è spazio perfino per una serie di immagini di Stalin da giovane e per un grande ritratto di Karl Marx. In fondo alla sala, sulla destra, c’è il corridoio di Fischer. In suo omaggio è stata posizionata una scacchiera accanto alla poltrona di lettura, che si trova proprio dove si sedeva lui a leggere. Ma la sedia non è la stessa: quella di Fischer si trova a Selfoss, nel museo.

Alcuni cimeli conservati dal Bobby Fischer chess center di Selfoss

Il gioco delle diplomazie Proseguo il mio pellegrinaggio andando a trovare Guðmundur Thorarinsson, un ingegnere civile in pensione e ex parlamentare, che nel 1972 ricopriva la carica di presidente della federazione islandese degli scacchi. Fu lui a organizzare il “match del secolo” e a fronteggiare l’incredibile pressione politica che si scatenò attorno a questo evento sportivo. Vive in una grande casa di legno, dove mi accoglie con un tè e tanti ricordi. Da come la racconta lui, l’intervento delle diplomazie sul match fu a sua volta un gioco di scacchi. “Gli avvocati di Fischer ponevano una serie incredibile di richieste e dovemmo far pressione sul governo affinché si sbloccasse la situazione: fu Kissinger a chiamare Bobby Fischer e a convincerlo

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a venire qui. Dall’altro lato c’era la questione russa: Spassky voleva assolutamente giocare, ma la federazione sovietica era irritata perché Fischer non si presentava e voleva ritirare il suo campione, oppure assegnare una sconfitta a tavolino al campione americano. Insomma, un vero rompicapo! Alla fine riuscimmo a far partire l’incontro. A dire il vero barammo un po’: quando abbiamo aperto i giochi non avevamo ancora trovato un accordo né con l’una né con l’altra parte”. Fu sempre grazie a Thorarinsson e ad alcuni suoi amici che Fischer, trentatré anni più tardi, trovò asilo in Islanda quando era braccato dal suo paese d’origine che voleva arrestarlo a tutti i costi. Aldís Sigfúsdóttir, nel centro di Selfoss, mi aveva mostrato una foto dell’epoca che ritraeva cinque signori, tra

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i quali c’era anche Thorarinsson, oltre a uno dei migliori amici islandesi di Fischer, Garðar Sverrisson. È grazie a loro che la fuga di Bobby Fischer ebbe un esito felice. Già, ma perché Fischer era in fuga dal Paese che aveva contribuito a onorare vincendo il campionato del mondo di scacchi niente meno che contro i sovietici? Il fatto è che l’eccentricità di Fischer si accentuò col tempo. Dopo il match del ’72, Fischer vagò da solo e senza amici per l’Europa. Nel 1975 si era rifiutato di difendere il titolo, che passò a tavolino a Karpov. Riemerse nel 1992 per la rivincita del grande match, che si giocò a vent’anni di distanza in quello che restava della Jugoslavia, la nazione che avrebbe dovuto ospitare la finale del 1972 assieme all’Islanda ma che si era ritirata a causa dell’instabilità di Fischer e delle troppe richieste dei suoi avvocati. In quell’occasione il governo statunitense, che già non vedeva di buon occhio lo scacchista americano, gli intimò di non giocare in un paese sotto embargo: lui, per tutta risposta, sputò sul telegramma davanti ai giornalisti. Ancora una volta si impose sul vecchio amico e avversario Boris Spassky. Ma dopo quell’episodio fu un uomo braccato, con un mandato di cattura pendente su di lui per violazione dell’embargo e per altre faccende di natura fiscale probabilmente pretestuose. Non poté assistere ai funerali della madre e della sorella. Si inabissò, per poi ricomparire nel 2001, all’indomani dell’attentato alle torri gemelle, quando intervenne in una radio delle Filippine dicendosi felice per quanto accaduto.

L’arresto a Tokyo Il conto gli arrivò nel 2004, quando fu arrestato all’aeroporto di Tokyo a causa di presunte irregolarità nel passaporto. Gli Usa volevano la sua estradizione e Fischer passò in carcere quasi otto mesi. La situazione si sbloccò solo grazie all’Islanda, che gli concesse la cittadinanza. Una copia dell’atto con cui il Parlamento approvò il provvedimento, datata 22 marzo 2005, è appesa nel piccolo museo di Selfoss. Fu la prima e, al momento, ultima volta che l’Islanda ha concesso la cittadinanza in questo modo. E dietro ci fu il lavoro del gruppo di amici di Fischer ritratti nella foto. Secondo Aldís il suo Paese si è mosso per una questione umanitaria: “E ne ha pagato le conseguenze. C’è chi dice che alcune ripicche americane nei confronti dell’Islanda, come la chiusura della base statunitense attiva dal dopoguerra, siano i segnali di una ritorsione. Forse si esagera, perché le strategie militari hanno logiche pragmatiche, ma lo scrittore Einar Kárason afferma che la mancata erogazione di un prestito all’indomani della crisi economica islandese del 2008 derivi da questo rapporto incrinato. Tutti gli altri Paesi scandinavi hanno ricevuto prestiti dagli Usa e dal Fmi, e certamente noi eravamo il meno oneroso. Una fonte di Kárason che lavora al ministero degli Esteri ha detto che un suo omologo americano, al quale aveva chiesto spiegazioni al riguardo, gli avrebbe risposto: non avreste dovuto intromettervi nei nostri affari interni”. Fatto sta che Fischer, una volta raggiunto il suo-

lo islandese, non ebbe più modo di lasciarlo: in tutti gli aeroporti del pianeta lo aspettava un mandato di cattura. Nei suoi ultimi mesi, stando a Thorarinsson, faceva lunghe passeggiate per sentieri deserti e leggeva molto. Morì il 17 gennaio del 2008 a causa di un’insufficienza renale. Aveva 64 anni. Anche attorno alla sua morte c’è un piccolo giallo: si dice che sia stato seppellito in fretta e furia, dopo la celebrazione di un funerale cattolico da lui voluto a cui parteciparono appena cinque persone, per evitare che il suo corpo fosse cremato e portato via, magari in Giappone, paese d’origine della moglie Miyoko Watai, o negli States nel caso ne avesse fatto richiesta il marito della defunta sorella. Fu Sverrisson a proporre di seppellirlo a Selfoss, perché lì risiedevano i suoi suoceri e aveva avuto modo di trovare un lotto di terra disponibile. Ma ci sarebbe anche un altro motivo. Lo stesso Fischer aveva dichiarato di preferire una tomba in un luogo più remoto di Reykjavík, dove i curiosi di mezzo mondo sarebbero andati a disturbarlo. Un piccolo paese sarebbe andato bene, una tomba a terra, un posto tranquillo. Così è stato. E nel guardare a quel pezzo di terra e alla piccola chiesa bianca, così austera e solitaria come tanti altri luoghi di questo paese, non posso fare a meno di pensare a un foto che Guðmundur Thorarinsson mi ha mostrato prima di salutarmi, dove si vede Bobby Fischer vecchio, di spalle, che si avvia da solo lungo un sentiero allo stesso tempo affascinante e inquietante, come è spesso qui la natura. Da solo; come, in fondo, è sempre stato.

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In alto a sinistra, l’interno della libreria Bokin di Reykjavic, frequentatissima da Fischer; in basso, i biglietti della sfida del secolo; qui soprala tomba di Bobby Fischer nel cimitero di una chiesa di Selfoss

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