immagini a cura di MANUELA FUGENZI
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© 2017, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione ottobre 2017 Edizione 1 2 3
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Anno 2017 2018 2019 2020 2021 2022 Progetto grafico di Raffaella Ottaviani
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2917-3
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INDICE 3 Vittorio Vidotto 1860-1918 55 Emilio Gentile 1919-1945 107 Simona Colarizi 1946-1979 159
Giovanni De Luna 1980-2017 211
Manuela Fugenzi Lo sguardo testimone: storia e storie della fotografia italiana 226
Referenze fotografiche 228
Gli autori 229
Indice di nomi
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1860-1918
di Vittorio Vidotto
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La fotografia non ha solo il potere di riprodurre la realtà, seppure ritagliata dallo sguardo del fotografo, ma ha anche quello di reinventarla fornendo l’illusione del vero. Come quando si colloca in sintonia con lo sguardo che sull’Italia gettano gli europei dei paesi al di là delle Alpi, i protagonisti del Grand Tour, nel loro cercare e ritrovare un’Italia, quella meridionale soprattutto, che si immagina ancora sprofondata nei legami con l’antico passato greco e romano. Un passato mitico di un’arcadia felice e di liberi comportamenti sessuali che è possibile suggerire e rappresentare con la fotografia. Alla fine dell’Ottocento il tedesco Wilhelm von Gloeden (1856-1931), trasferitosi in Italia, aveva dato inizio a un genere fotografico, quello del nudo maschile, destinato ad un mercato ristretto di estimatori e di collezionisti. Su una terrazza mediterranea fanciulli e giovani sono accuratamente disposti tra serti e corone di fronte al panorama della costa di Taormina (lo scatto è databile verso il 1900). È forse una delle più caste fotografie di von Gloeden che prediligeva i nudi frontali di giovani adolescenti spesso in pose di fauni, con i capelli arricciati, intenti a suonare flauti o siringhe. Le ambientazioni erano attentamente costruite e i modelli venivano spalmati con un unguento per rendere uniforme il diverso colore della pelle che la nudità avrebbe rivelato. Era un tentativo di evocare l’antica Grecia e i suoi amori omosessuali trasferiti in un’Italia meridionale ancora immersa nella natura, libera, agli occhi di molti stranieri, da pregiudizi moderni e aperta invece a una grande spontaneità di rapporti, contrapposta alla rigidità, al conformismo e alle ipocrisie dei paesi nordici. Si trattava di un cliché, di uno stereotipo profondamente radicato nel senso comune con diffusi ascendenti letterari e figurativi. Il fascismo avrebbe poi fatto distruggere lastre e negativi dell’archivio di von Gloeden, ma moltissime fotografie sono ancora oggi presenti nelle collezioni e riprodotte online.
Wilhelm von Gloeden Terrazza di Taormina 1900 circa
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Questa fotografia della campagna romana ritrae il paesaggio consueto che molti avevano occasione di incontrare uscendo da Roma in direzione dei Castelli. Siamo in un pomeriggio di tarda primavera come ci suggeriscono la tosatura recente delle pecore e le ombre sul terreno. La forza dell’immagine, scattata da Domenico Anderson nel 1890 circa, sta soprattutto nel taglio della composizione dominata dal contrasto tra la regolarità monumentale dell’acquedotto, che spinge lo sguardo fino ai Colli Albani, e la dispersione casuale delle pecore al pascolo. L’inquadratura accentua la contrapposizione tra la grandiosità delle memorie del passato e la quotidianità di una scena arcadica e pastorale. I ruderi degli acquedotti antichi erano da tempo tra i soggetti tipici della pittura di paesaggio della campagna romana, ma dalla metà dell’Ottocento – e con un’accelerazione negli ultimi decenni del secolo – la fotografia riprende e innova la tradizione pittorica e tende a sostituirsi ad essa. Inoltre l’immagine fotografica aggiunge un valore documentario che quei dipinti di maniera possedevano solo in piccola parte, testimoniando, in questo caso, l’aspetto di una campagna caratterizzata da grandi proprietà coltivate estensivamente a grano o lasciate alternativamente a pascolo. Alla fine dell’Ottocento dei 200.000 ettari della campagna romana la metà era suddivisa tra solo otto grandi proprietari, tra cui primeggiava il principe Torlonia al quale apparteneva anche la tenuta Roma Vecchia attraversata dall’acquedotto Claudio. Dopo la presa di Porta Pia del 20 settembre 1870, la nuova capitale aveva iniziato la sua espansione verso sud-est, ma bisognerà arrivare alla fine del secolo per raggiungere e superare il recinto della mura aureliane che cingevano la città. E solo nel corso del Novecento lo sviluppo cittadino avrebbe assorbito prima le vigne e gli orti suburbani, poi le piccole proprietà agricole, invadendo in seguito quelle più ampie, via via trasformate in terreni edificabili con solo una parziale salvaguardia delle zone caratterizzate dalla presenza dei grandi reperti dell’antichità.
Domenico Anderson Rovine dell’acquedotto Claudio nella campagna romana 1890 circa
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L’Italia era un paese agricolo: nel 1861 il 70% della popolazione era attiva in agricoltura ed era ancora il 59% nel 1911. Inoltre, nello stesso periodo, il lavoro nei campi continuò a fornire la parte più consistente del prodotto interno lordo pur scendendo in cinquant’anni dal 59 al 45% circa. La conformazione fisica della penisola, che si estende dalle Alpi al centro del Mediterraneo alternando montagne, colline e pianure, unita alla diversità dei contratti agrari e degli assetti proprietari, aveva determinato nei secoli lo stratificarsi di una molteplicità di tipologie colturali. Piccole e medie proprietà a coltivazione mista nelle zone collinari del Nord e del Centro, ampie estensioni irrigue nella pianura padana, latifondi dalla Maremma al Lazio alla Puglia fino alla Sicilia, colture specializzate dell’olivo e della vite diffuse in gran parte del paese avevano contribuito a costruire la varietà del paesaggio agrario e insieme a definire le varie figure sociali legate alle attività rurali. L’aspetto più evidente di questa fotografia, che ritrae un gruppo di contadini siciliani sotto il sole abbagliante nelle campagne di Randazzo a nord dell’Etna, è la diversità gerarchica dei ruoli tra uomini e donne. Il campiere a dorso d’asino, le donne appiedate e scalze, le più giovani con grandi ceste sulla testa: sullo sfondo le pendici desolate delle colline con qualche sparso albero. Si tratta di un’inequivocabile rappresentazione dell’arretratezza del mondo agricolo sia nelle colture che nei rapporti di genere. In realtà, oltre le figure umane, si notano interventi recenti sul territorio, come le massicciate delle strade e un canale di scolo per le acque. Inoltre, gli eucalipti potati di netto, in secondo piano, non erano certamente alberi spontanei ma cominciavano a venir piantati alla fine dell’Ottocento come difesa contro la malaria. Agli inizi del nuovo secolo, rispetto ai primi decenni dopo l’Unità, si avvertivano un po’ ovunque segnali di modernità, non tali da impedire tuttavia un diffuso malessere sociale nel mondo rurale e che, quindi, le campagne, soprattutto meridionali, fornissero ancora un rilevante contributo all’emigrazione.
Edizioni Brogi Gruppo di popolani nelle campagne di Randazzo (Catania) 1900 circa
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1919-1945
di Emilio Gentile
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Hanno volti seri. Alcuni severi. Qualcuno malinconico. Qualcuno sereno. Qualcuno accenna persino un sorriso. E tutti appaiono fieri: i soldati fotografati nell’ospedale militare di Vicenza l’11 novembre 1916, esattamente due anni prima della fine della grande guerra. Tutti quelli che hanno la decorazione hanno una gamba mutilata: è il marchio indelebile che la guerra ha lasciato sui corpi di oltre mezzo milione di invalidi, che, insieme a quasi seicentomila soldati morti, furono il prezzo pagato dall’Italia nella prima guerra mondiale. Fu il primo conflitto che la nazione tutta intera, soldati e civili, affrontò cinquantaquattro anni dopo la sua unificazione in uno Stato indipendente e sovrano. E la guerra fu vinta, con lo sforzo collettivo dei soldati al fronte e della popolazione nel paese. Alla conferenza della pace, i rappresentanti italiani sedevano accanto ai rappresentanti delle tre maggiori potenze vittoriose, che decisero il destino dell’Europa e del mondo. L’Italia ottenne gran parte dei territori dell’ex impero austro-ungarico, rivendicati come terre irredente perché abitate da popolazione in maggioranza italiana, o come territori necessari al completamento dei suoi confini naturali, benché abitate da popolazioni non italiane. Tuttavia, i contrasti fra i governanti italiani e i governanti delle altre tre potenze vincitrici, e la mancata assegnazione all’Italia della città di Fiume, dove la maggioranza della popolazione era italiana, diedero ai nazionalisti, che reclamavano più vasti compensi territoriali, il pretesto per diffondere la leggenda che la vittoria italiana era stata mutilata al tavolo della pace per l’inettitudine dei governanti italiani e per l’ingratitudine dei governanti delle potenze alleate. Per tutti coloro che erano stati contrari all’intervento italiano, la leggenda della «vittoria mutilata» fu motivo per ribadire che la guerra era stata una «inutile strage». Uscita vittoriosa dal primo conflitto mondiale, fra il 1918 e il 1920 l’Italia apparve come una nazione che aveva subito invece una sconfitta. La fierezza, che si vedeva nel volto dei soldati mutilati fotografati nel 1916, dopo il 1918 per molti reduci si tramutò in delusione. E la loro delusione, contribuì ad aggravare la crisi economica, sociale e politica, che investì tutta l’Italia dopo la vittoria in guerra.
Reduci di guerra posano dopo essere stati decorati al valore all’ospedale militare di Vicenza 11 novembre 1916
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Giovani e anziani, divise militari e abiti civili, operai e borghesi, scamiciati e incravattati, volti aggressivi e atteggiamenti minacciosi, molti armati con pistole, fucili o mitragliatrici. Al centro della fotografia come un’icona sacra, spiccano falce e martello, il simbolo della rivoluzione bolscevica di Lenin, che aveva conquistato il potere in Russia nel novembre del 1917 e instaurato la dittatura del proletariato, col proposito di provocare una guerra civile mondiale contro la borghesia, unificando nell’Internazionale comunista l’azione dei partiti marxisti che aderivano alla concezione leninista della dittatura proletaria. Il mito di Lenin si impossessò delle masse del Partito socialista, che aderì all’Internazionale comunista adottando, nell’ottobre 1919, un programma di conquista violenta del potere. Divenuto il primo partito nel parlamento italiano con le elezioni del novembre 1919, nei due anni successivi – il «biennio rosso» – il Psi agì da partito rivoluzionario, insultando i reduci, incitando le masse alla lotta di classe, imponendo il suo predominio nelle fabbriche, nelle campagne, nelle città e nelle province dove aveva la maggioranza, come preparazione all’imminente conquista del potere e alla eliminazione della borghesia. Nella tumultuosa crisi del dopoguerra, con vaste agitazioni sociali, proteste per il carovita, scioperi e conflitti di classe quotidiani, la lotta politica fu spesso violenta. Il 4 maggio 1920, Anna Kuliscioff, compagna di Filippo Turati, uno dei fondatori del Partito socialista e principale esponente della corrente riformista antibolscevica, scriveva: «Sono dopo la lettura dei giornali di stamattina, come sotto un incubo rosso dal delinearsi della guerra civile in tutta Italia. Socialisti ammazzano cattolici, in Romagna pugilati fra socialisti e repubblicani, in Liguria tafferugli tra socialisti e anarchici, e dappertutto morti e feriti in conflitti sanguinosi con guardie regie e carabinieri. [...] La realtà è che si va a un cataclisma a passi da gigante». Il gruppo armato della foto è probabilmente una formazione di «guardie rosse», che parteciparono alla occupazione delle fabbriche nell’autunno del 1920. Fu il culmine del «biennio rosso». E l’inizio della disfatta per il Partito socialista.
Guardie rosse durante l’occupazione delle fabbriche 1920
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Uomini armati, con elmetti militari, in uniformi di strana foggia, camicie nere e camicie chiare, nell’atto di bruciare giornali e stampe come un rogo purificatore nelle vie di una città italiana nell’ottobre 1922. Quelli in camicia nera sono i fascisti, quelli in camicia chiara (azzurra) sono i nazionalisti. Sono organizzati in squadre paramilitari, per combattere con la violenza i partiti avversari, i socialisti e i comunisti prima di tutti, considerati i «nemici interni» della nazione. Fondato nel marzo 1919, il movimento dei Fasci di combattimento manifestò nella stessa denominazione la vocazione alla violenza. La prima azione dei fascisti fu distruggere la sede dell’«Avanti!» a Milano, nell’aprile 1919. Tuttavia, durante il «biennio rosso», il fascismo rimase un movimento rumoroso, ma esiguo: alla fine del 1919 aveva appena 800 iscritti in tutta Italia. Due anni dopo, il fascismo aveva soppiantato il Partito socialista come il più forte partito in Italia: pur avendo solo trenta deputati, aveva oltre trecentomila iscritti, organizzati militarmente nelle squadre armate, che erano state il fattore principale dello sviluppo del fascismo in movimento di massa. Infatti, dalla fine del 1920 alla fine del 1921, i fascisti diedero l’assalto alle organizzazioni politiche e sindacali del Partito socialista e le distrussero in gran parte. Poi assaltarono il Partito popolare fondato nel gennaio 1919 da don Luigi Sturzo, che era il secondo maggior partito in parlamento. Lo squadrismo non era solo l’apparato armato del movimento politico, ma coincideva col Partito nazionale fascista, come fu costituito nel novembre 1921, con la sua cultura, la sua ideologia, il suo stile e metodo di lotta. Formato in gran parte da reduci e giovani, che pretendevano di essere la «nuova Italia» generata dalla grande guerra, il fascismo era un partito milizia, che si considerava in stato di guerra contro tutti i partiti avversari, arrogandosi il monopolio del patriottismo. Dopo avere sbaragliato i partiti avversari con la violenza, nel 1922 il fascismo lanciò la sfida contro lo Stato liberale, che dalla fine della guerra era governato da ministeri precari, incapaci a prevenire e reprimere la guerriglia civile del «biennio rosso» e del «biennio nero».
Squadristi fascisti in azione durante la marcia su Roma ottobre 1922
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Gli uomini in ginocchio sono deputati antifascisti: rendono omaggio alla memoria del deputato socialista Giacomo Matteotti sul lungotevere Arnaldo da Brescia dove il 10 giugno 1924 era stato rapito da sicari fascisti, che lo assassinarono, nascondendo il cadavere in un bosco alla periferia di Roma. Poche settimane prima dell’assassinio, Matteotti aveva denunciato alla Camera le violenze dei fascisti durante le elezioni dell’aprile 1924, che assicurarono al Partito fascista, con una apposita legge elettorale, la maggioranza assoluta in parlamento. Per protesta, i partiti antifascisti abbandonarono la Camera, e rimasero in attesa di un intervento del sovrano che restaurasse le garanzie dello Stato parlamentare. Ma il re non intervenne perché il governo Mussolini continuò ad avere la fiducia del parlamento. Il delitto Matteotti fu conseguenza del sistema di dominio arbitrario, che il Partito fascista impose nel paese dopo la «marcia su Roma», per rendere la vita impossibile ai suoi avversari, fuori e dentro il parlamento. Gli antifascisti coniarono nel 1923 l’aggettivo «totalitario», e successivamente il sostantivo «totalitarismo», per definire il dominio imposto dal fascismo in tutto il paese, perseguitando gli antifascisti con la violenza squadrista e l’azione poliziesca. La politica totalitaria di Mussolini fu evidente fin dalle sue prime iniziative miranti a rendere irrevocabile la sua ascesa al potere. All’inizio del 1923, lo squadrismo fu legalizzato con la sua trasformazione in Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, posta agli ordini del capo del governo, col compito di proteggere «gli inevitabili ed inesorabili sviluppi della rivoluzione fascista». L’istituzione della Mvsn fu decisa dal Gran Consiglio del fascismo, il nuovo organo dirigente del Pnf, voluto da Mussolini alla fine del 1922. Fu questo organo di partito, presieduto dal duce, che preparò le leggi costituzionali che, fra il 1925 e il 1926, abolirono il regime liberale e costruirono il regime a partito unico, dove tutto il potere era concentrato nella persona di Mussolini come capo del Governo e duce del Partito fascista. Alla fine del 1926, i deputati antifascisti furono dichiarati decaduti e tutti i partiti e i sindacati non fascisti furono vietati. Qualsiasi opposizione al fascismo fu considerata azione criminale contro la nazione e lo Stato italiani.
Deputati antifascisti depongono una corona sul lungotevere Arnaldo da Brescia a Roma, dove è stato rapito Giacomo Matteotti Roma, giugno 1924
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Al centro della fotografia (scattata a Roma il 31 ottobre 1922 da Adolfo Porry-Pastorel, il padre del fotogiornalismo italiano), campeggia un uomo, col volto truce di un domatore: è Mussolini, il duce del fascismo. Da un giorno è nella capitale, dopo aver ricevuto dal re d’Italia l’incarico di formare il nuovo governo. Maestro elementare, giornalista e agitatore politico di professione, fino al 1914 era stato socialista rivoluzionario e direttore dell’«Avanti!»; convertito all’interventismo e al nazionalismo rivoluzionario, fino all’estate del 1922 si era proclamato repubblicano. Era stato eletto deputato per la prima volta nel 1921. Non aveva mai avuto un incarico, neppure locale, nel governo della cosa pubblica. A trentanove anni, era il più giovane presidente del Consiglio nella storia del Regno d’Italia. La sua straordinaria ascesa al governo della quarta potenza mondiale era dovuta unicamente alla sua posizione di duce del partito milizia. Al suo fianco, abbigliati con la camicia nera, vi sono i «quadrumviri della marcia su Roma». Il secondo alla destra di Mussolini è Michele Bianchi, il segretario del Partito nazionale fascista, il promotore della mobilitazione armata dello squadrismo, che la notte del 28 ottobre aveva occupato molte città dell’Italia settentrionale e centrale per costringere il re a nominare Mussolini presidente del Consiglio. Era questa l’origine, lo svolgimento e l’obiettivo della «marcia su Roma», come fu battezzata dai fascisti adusi alla auto-rappresentazione epica. La fotografia fu scattata nel momento in cui il duce e i quadrumviri si accingevano a sfilare con corteo di cinquantamila camicie nere per il centro di Roma, come novelli conquistatori della capitale. Al giovane presidente del Consiglio il parlamento diede la fiducia a larga maggioranza. Tutto sembrava procedere secondo la costituzione dello Stato parlamentare. Ma non era mai accaduto, nella storia degli Stati parlamentari, che la guida del governo fosse affidata al capo di un partito armato, che si considerava l’unico «partito della nazione». Un anno prima, un giornalista democratico aveva scritto: il fascismo «tende con tutti i mezzi a impadronirsi dello Stato e di tutta la vita nazionale per stabilire la sua dittatura assoluta e unica». Non era un profeta, ma un osservatore della realtà: aveva capito che un partito milizia al potere avrebbe provocato la fine del regime democratico. E così avvenne. Adolfo Porry-Pastorel Benito Mussolini in piazza del Popolo con i quadrumviri della marcia su Roma Roma, 31 ottobre 1922
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1946-1979
di Simona Colarizi
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L’Italia in macerie: si deve partire da questa dura, disperante realtà per raccontare gli italiani in patria che per cinque anni hanno sofferto sotto i bombardamenti. Ed è il suo studio di Milano distrutta che si trova davanti il grande artista Lucio Fontana in questa fotografia del 1946. Lo stesso desolante spettacolo di rovine, di strade impercorribili, di officine danneggiate e di campi infertili accoglie i soldati italiani tornati dai fronti di guerra con ancora impresse sul corpo e nella mente le ferite e i patimenti subiti in Africa e in Russia. E poi ci sono le macerie morali, i lutti, le violenze, le atrocità di un conflitto trasformato anche in una guerra civile che ha contrapposto italiani a italiani, che ha diviso persino famiglie e affetti, lasciando una scia di sangue nei mesi dopo la liberazione. Odi profondi e desideri di vendetta sono il risultato di vent’anni di dittatura fascista culminata nelle leggi razziali e nell’alleanza con Hitler, ma non possono certo oscurare il coraggio e la volontà di riscatto di chi ha preso le armi per combattere i fascisti e i nazisti. Tante vite sono state spezzate tra il 1943 e il 1945, sommando dolore a dolore: uno strazio visibile nei volti delle donne vestite di nero, degli orfani abbandonati per le strade, dei vecchi oppressi da un senso di impotenza paralizzante. Nell’esistenza quotidiana degli italiani è difficile chiudere le ferite dell’anima, ma sembra anche impossibile sopravvivere quando non c’è più neppure un tetto per ripararsi dal sole, dalla pioggia e dalla neve, quando non ci sono vestiti per coprirsi e coperte per scaldarsi, quando mancano il carbone e la legna per accendere un fuoco e persino l’acqua potabile è diventata un lusso col risultato di epidemie dilaganti. Gli aiuti americani non bastano a coprire neppure i bisogni vitali degli italiani che soprattutto soffrono la fame, come del resto tutti popoli dell’intera Europa distrutta che agli Stati Uniti chiedono soccorso.
Lucio Fontana, rientrato in Italia dall’Argentina, visita quel che resta del suo studio ridotto in macerie dai bombardamenti Milano, 1946
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Fame. La descrive questa fotografia scattata a Milano, sempre nel 1946, da Federico Patellani, il padre spirituale del fotogiornalismo italiano del dopoguerra. Una coda di donne che passano ore e ore davanti ai negozi alimentari per ottenere razioni sempre più scarse. Le botteghe sono vuote; solo il mercato nero offre pane, latte, burro, zucchero, persino carne, ma tutto costa troppo. Allora non resta che dare l’assalto ai forni, come avviene nell’estate del 1947, l’anno più duro anche rispetto a quelli della guerra. Eppure sono passati già ventiquattro mesi dalla fine del conflitto, ma la guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica è ormai dichiarata e gli americani centellinano gli aiuti per l’Italia, dove è forte il Partito comunista legato al nemico Stalin. Si rompono i governi di unità antifascista che riunivano tutti i partiti, sinistra e destra, che alla resistenza avevano aderito, ma la situazione politica rimane fluida così come resta incerta la vita degli italiani. Sembra impossibile risorgere, guardare avanti, lasciarsi alle spalle tanta disperazione per costruire un futuro ai figli appena nati o che devono ancora vedere la luce. Perché il segnale di un’irrinunciabile speranza di vita viene proprio dai tanti bambini concepiti già durante la guerra, magari tra un abbraccio e l’altro prima che il marito in licenza raggiunga di nuovo il fronte. Poi, quando finalmente arriva la pace, per chi torna in questa Italia sconvolta formare una nuova famiglia è il primo mattone da cui ripartire. Una famiglia però significa responsabilità: la prima quella di nutrire i propri figli, di assicurare loro un presente e soprattutto un futuro. Ma sono tanti i padri disoccupati: industrie danneggiate e campi calpestati dagli eserciti alleati e tedeschi hanno ristretto il mercato del lavoro, da sempre troppo esangue in una Italia dove l’agricoltura è ancora il settore economico dominante e i processi di industrializzazione assai inferiori a quelli dei maggiori Stati europei.
Federico Patellani Dal fruttivendolo vendita a prezzi calmierati Milano, 1946
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Alle elezioni del 1948 la Dc guadagna una vittoria piena contro il cartello delle sinistre (socialisti e comunisti). Nella vita politica italiana è una svolta storica che consegna alla Democrazia cristiana l’egemonia sul sistema partitico per quasi mezzo secolo. La sconfitta del Pci rassicura gli americani adesso assai più disponibili ad aiutare l’Italia, nostro importante alleato nello scenario mediterraneo della guerra fredda. Ai cattolici spetta dunque avviare il paese sul percorso della democrazia garantita dalla nuova Costituzione repubblicana e antifascista. Il governo a guida democristiana si muove però con estrema cautela, senza strappi vistosi con il passato dittatoriale, le cui basi di massa la Dc ha in gran parte assorbito. Del resto appare difficile il compito di governare la ricostruzione in un paese profondamente spaccato tra destra e sinistra, tra le tentazioni dei tanti nostalgici di tornare al passato autoritario e le pulsioni rivoluzionarie serpeggianti nel Pci; tanto più che la polarizzazione politica riflette la contrapposizione mondiale tra Usa e Urss, ma acquista anche il pericoloso significato di uno scontro sociale tra borghesia e proletariato ancora negli schemi ideologici del primo Novecento – come hanno dimostrato i toni esasperati della campagna elettorale. Per quanto il partito cattolico abbia conquistato la maggioranza assoluta dei voti, appare ancora in affanno nel Mezzogiorno, dove sono forti i monarchici e i neofascisti. Conquistare il consenso del Sud diventa dunque una priorità e, non a caso, gli esecutivi iniziano ad affrontare la questione meridionale rimasta da sempre irrisolta con una serie di interventi che puntano a ridisegnare una società contadina di piccole proprietà agricole a conduzione familiare, secondo il modello preferito dai cattolici.
Giancolombo Comizio di Alcide De Gasperi in piazza Duomo per le elezioni politiche Milano, 1948
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La riforma agraria del 1950 promette la rinascita delle aree depresse e del Sud, la fine dei latifondi e di un sistema sociale per tanti aspetti fermo all’era feudale. Qui il tempo sembra essersi fermato (o, come ha scritto Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli) e la guerra ha solo portato ulteriore desolazione nella miserevole vita dei contadini ai quali ora si concede un pezzo di terra da coltivare. Questo scatto è di un grande maestro della fotografia americana: Paul Strand. Nel 1953 Strand è in Italia su invito di Cesare Zavattini per fotografare il paese natale, Luzzara. Sarà un’occasione per arricchire il suo affresco sulla civiltà contadina europea. Qui il suo obiettivo coglie la dignità di questo gruppo familiare orgoglioso della propria identità. Sono sentimenti finalmente condivisi da altri agricoltori che hanno conquistato la proprietà di un piccolo podere dopo tanti anni di lotte. Perché «la terra ai contadini» era uno slogan già risuonato forte in Italia al tempo della prima guerra mondiale. E come allora, anche nel secondo dopoguerra sono iniziate le occupazioni delle terre e i lavori abusivi; un movimento che non a caso ha il suo epicentro nelle regioni meridionali dove fin dal 1943 sono dilagate vere e proprie rivolte guidate dai partiti della sinistra. Adesso però le terre incolte dei grandi proprietari latifondisti vengono distribuite ai contadini, anche se è ancora lunga la strada perché il sogno diventi realtà. La Cassa per il Mezzogiorno inizia solo nei primi anni Cinquanta a erogare i finanziamenti per le infrastrutture indispensabili, strade, ponti, acquedotti. Ma se i vecchi sono disposti ad aspettare, non così i loro figli che, a migliaia e migliaia, lasciano il Sud per cercare lavoro al Nord. L’intera Europa in macerie ha bisogno di braccia per la ricostruzione ma anche in Italia è iniziata la febbre edilizia che offre occupazione a bassi salari e quasi sempre «in nero» a chi non vuole lasciare il proprio paese.
Paul Strand The family Luzzara, 1953
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La fame di case ha trasformato in immensi cantieri le grandi città del Nord, ma anche del Centro e del Sud: Roma, Bari, Napoli, Palermo. Il piano per l’edilizia popolare di Amintore Fanfani offre incentivi ai costruttori che, numerosi, si gettano in questo fiorente mercato in cui dilaga però l’illegalità. Scarsi i controlli sulle imprese, sugli appalti, sull’impiego di manodopera, come racconta un famoso film di Francesco Rosi Le mani sulla città del 1963. Del 1960 è invece questa fotografia di Federico Garolla, scattata alla periferia di Roma, che ritrae una delle borgate degradate dopo dieci anni di edilizia selvaggia. Siamo a Centocelle, dove sono stati ambientati Ragazzi di vita e Accattone di Pier Paolo Pasolini, che vediamo mentre gioca a pallone; sullo sfondo, una fila di case e di palazzoni anonimi, simili alle tante costruzioni edificate ovunque in Italia senza un piano urbanistico, senza rispetto per le opere d’arte abbattute, per le bellezze della natura invase e violate, senza cura all’estetica dei nuovi palazzi. Ma gli italiani hanno bisogno di case e non solo per sostituire quelle distrutte dai bombardamenti. Il fenomeno dell’urbanizzazione si sviluppa ormai a un ritmo impressionante pari a quello della fuga dalle campagne. Nella Democrazia cristiana la corrente dei cattolici di sinistra preme sul governo perché si diano risposte ai bisogni sociali più urgenti; e De Gasperi è attento a bilanciare tra destra e sinistra le iniziative del governo che cerca di conquistarsi nel sistema una posizione di centro, l’unica in grado di rendere meno esplosiva la pericolosa polarizzazione politica e sociale del paese. Le proteste dell’associazione «Italia Nostra» contro le colate di cemento che tutto distruggono cadono nel vuoto. Bisognerà aspettare gli anni Settanta perché si cominci a diffondere una coscienza ambientalista tra gli italiani.
Federico Garolla Pier Paolo Pasolini a Centocelle, nella periferia di Roma 1960
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di Giovanni De Luna
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Il 14 ottobre 1980 circa 40 mila dipendenti della Fiat sfilarono per Torino. Il loro obiettivo era di poter rientrare in fabbrica ponendo fine al lungo sciopero che aveva bloccato l’azienda per 35 giorni. Fu una manifestazione che subito assunse un forte valore simbolico, lasciando emergere nitidamente quello che era finito negli anni Settanta e quello che stava per cominciare negli anni Ottanta. Il corteo si svolse in un silenzio irreale. I partecipanti erano in gran parte piemontesi, sottolineando una frattura nei confronti degli operai, in prevalenza meridionali, che erano stati gli assoluti protagonisti dello sciopero. Affiorava così una variabile culturale di tipo territoriale che negli anni seguenti avrebbe fatto la fortuna della Lega di Bossi. Poi, il 16 ottobre, i 35 giorni finirono con la clamorosa vittoria della Fiat che ebbe mano libera sulla mobilità, disponendo 36 mesi di cassa integrazione per 24 mila lavoratori. Fu l’inizio di un lento e inesorabile ridimensionamento della presenza operaia nella grande fabbrica fordista. Dei 102.508 dipendenti che ancora nel 1979 costituivano l’organico della Fiat Auto in Piemonte, nel 1984 ne sarebbero restati 55.398: il 35% se ne erano andati. In Italia, tra il 1981 e il 1989 la percentuale della popolazione attiva addetta all’industria sarebbe passata dal 36,3% al 32,2%, mentre quella degli addetti ai servizi avrebbe fatto registrare un incremento dal 50,9% al 58,6% (in agricoltura ci fu una diminuzione dal 12,8% al 9,3%). Il terziario avanzato (servizi, istruzione, informazione, ricerca scientifica e tecnologica, consulenza) si sarebbe imposto come il settore più dinamico della nostra economia, terra di conquista per una nuova, vivace industria computerizzata, per giovani manager, nuove dinastie imprenditoriali. L’incremento vertiginoso della dimensione quantitativa delle classi medie (dal 38,5% della popolazione attiva del 1971 al 46,4% nel 1983) fu il risvolto sociale di questo scenario economico. Soprattutto al Nord, le classi medie urbane sarebbero diventate di colpo il settore nevralgico della società italiana cancellando un intero decennio di «centralità operaia».
Enrico Martino La «marcia dei 40.000» Torino, 14 ottobre 1980
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Lo storico guarda allo sport come a un mondo in grado di restituirci un’immagine veritiera dei mutamenti profondi che si agitano nel cuore della società contemporanea. Questa possibilità deriva dalla dimensione straripante assunta dagli eventi agonistici: il loro carattere universale, la loro capacità di tenere inchiodati ai teleschermi platee immense di spettatori, li rende come uno specchio in cui si riflettono i gusti e la mentalità degli uomini e delle donne di oggi, tutto quanto confluisce in quello che definiamo lo «spirito del tempo». È così anche per la grande festa italiana dell’11 luglio 1982. Quel giorno, a Madrid, l’Italia di Enzo Bearzot vinse i campionati mondiali di calcio. Le piazze si riempirono di bandiere tricolori e ci si ritrovò tutti insieme a gridare, seguendo la voce del telecronista Nando Martellini, «campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo». L’icona di quella vittoria resta ancora oggi l’urlo guerriero di Marco Tardelli che rimbalzava nei nostri teleschermi. Un urlo di esultanza, ripetuto più volte, ossessivamente, che gridava la voglia di lasciarci alle spalle gli anni Settanta, il terrorismo, le stragi, i misteri irrisolti, l’opacità che avevano avvolto il funzionamento della nostra democrazia e delle nostre istituzioni. E fu particolarmente significativo il fatto che quell’entusiasmo avesse come riferimento la figura di Sandro Pertini, ripreso con la squadra in questa foto. Mentre cresceva il distacco tra i partiti e la società civile (che alla fine di quel decennio avrebbe portato al crollo della prima Repubblica) fu Pertini, il «presidente partigiano», «il più amato dagli italiani», a proporsi come un «simbolo», indicando nel Quirinale (e non più nel sistema dei partiti e del parlamento) il «luogo» in cui gli italiani potevano riconoscersi in una nuova religione civile, costruita recintando uno spazio ideale in cui sviluppare la lealtà alla Repubblica. Un tentativo che allora fu percepito quasi come una nota di folklore politico e che invece sottolineava l’esigenza di trovare nuovi valori di riferimento per reagire allo spaesamento e allo sradicamento innescati dalla caduta delle speranze collettive degli anni Settanta. Un vuoto stava per aprirsi e non erano ancora disponibili i materiali con cui colmarlo.
Angelo Palma La nazionale italiana di calcio al Quirinale con il presidente della Repubblica Sandro Pertini Roma, 12 luglio 1982
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Drive in è il fortunato programma di varietà che, a partire dal 1983, andò in onda su Italia 1 fino al 1988. Nel 1979 Rai 2 aveva trasmesso Processo per stupro, un documentario che aveva raccontato la violenza subita dal corpo delle donne. Con Drive in quello stesso corpo veniva ora imbellettato e messo in mostra. In solo quattro anni qualcosa era cambiato nel costume della società italiana. Gli investimenti pubblicitari indirizzati verso la televisione presero a galoppare a ritmo vertiginoso, passando da poco più di 450 miliardi di lire correnti nel 1982 a una torta complessiva di oltre 5 mila miliardi nel 1992. Pubbliche o private, tutte le reti televisive si affollarono di programmi che vendevano emozioni per provocare emozioni e vendevano contemporaneamente, attraverso la merce-emozioni, il proprio prodotto, mettendo in mostra indifferentemente gioia e dolore, felicità e lutto, amore e morte, in una macchina scenica tanto potente quanto sostanzialmente indifferente ai suoi contenuti. Era scoccata l’ora delle reti private che diedero nuova linfa al processo di diffusione della «tv-minestrone», affollandolo con una miriade di emittenti locali e con palinsesti che presentavano la commistione tra generi come un mucchio indistinto in cui precipitavano quiz, show, varietà più o meno osé, mercatini, rubriche di cuori solitari, gare di liscio, sagre paesane, competizioni canore ecc. L’ingresso del sistema televisivo italiano in un regime di concorrenza pubblico-privato introdusse anche una nuova variabile; soprattutto l’agguerrita contesa tra Rai e Fininvest si dislocò intorno all’obiettivo primario che era quello di vendere spazi agli investitori pubblicitari: questi spazi erano essi stessi segmenti di palinsesto, ne scandivano l’organizzazione, presiedevano alle varie fasce di ascolto in cui veniva suddiviso, puntando alla costruzione non tanto di programmi quanto di «telespettatori-consumatori» richiesti dal mercato pubblicitario (in Italia si trasmettevano allora 1.500 spot televisivi in più rispetto al resto d’Europa).
Serena Grandi e Enrico Beruschi nella trasmissione di Italia 1 Drive in 1983-1988
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Nel 1985 il Pci andò allo scontro con il segretario del Psi, Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, scegliendo come terreno il referendum contro il taglio della scala mobile, il meccanismo che agganciava l’andamento dei salari a quello del costo della vita e che era stato un utile strumento di difesa delle condizioni di vita dei lavoratori. Il Pci e la Cgil furono clamorosamente sconfitti: 45,7% contro il 54,3%. Cominciò così il declino irreversibile della forma-partito novecentesca. Le gigantografie di Longo, Togliatti e Berlinguer appaiono in questa immagine come residuali frammenti di una stagione politica ormai all’epilogo. Lo stesso segretario del Pci, Enrico Berlinguer, nel 1981, in una sua famosa intervista a Eugenio Scalfari sulla «questione morale», aveva pronunciato un giudizio dagli aspetti profetici: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela... gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi... hanno occupato lo Stato... gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università...». Per tutti gli anni Ottanta, i partiti, rinunciando di fatto a «determinare la politica nazionale» (come recita il testo della Costituzione), si specializzarono progressivamente nella funzione di «determinare i politici», ossia di scegliere le persone da distribuire negli infiniti incarichi pubblici (governativi, assessorili, sanitari, parastatali, pararegionali, bancari ecc.) che lo sviluppo dello stato sociale aveva creato. Di fatto, la funzione dei partiti si ridusse alla promozione di un ceto politico poco differenziato sul piano dei «valori» di riferimento e molto intraprendente sul piano delle carriere individuali: il modello classico del partito novecentesco, in cui l’organizzazione era il fine e gli uomini i mezzi, sembrava essersi totalmente rovesciato.
Gianni Berengo Gardin Festa dell’Unità Lombardia, 1985
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In questa fotografia di Pais, del 1983, Enrico Berlinguer, leader indiscusso del Pci, viene preso in braccio da Roberto Benigni. Pochi anni prima, nel 1977, Maurizio Costanzo, conduttore di Bontà loro, aveva aperto un’epoca presentando ai telespettatori «l’ospite» Giulio Andreotti, rassicurando i telespettatori: «si tratta di Andreotti vero, non di Noschese». Fino ad allora la presenza dei politici nell’intrattenimento televisivo infatti era stata confinata nelle imitazioni del comico Alighiero Noschese. Ora lo scenario cambiava radicalmente: i luoghi dello spettacolo presero a diventare anche i luoghi della politica. Nella stagione 1982-1983, su Rete 4, Enzo Tortora fu il conduttore di un «rotocalco rosa», Cipria; il programma prevedeva una rubrica fissa, «Le tonsille del palazzo», con i leader politici del tempo che si esibivano in imbarazzanti prove canore: memorabile fu l’apparizione di Pietro Longo, allora segretario del Psdi, che si produsse in una desolante interpretazione di Les feuilles mortes. Da quel momento in poi, la televisione progressivamente prese ad espandersi dal suo alveo originario, invadendo massicciamente il territorio della politica. Non più la politica come prolungamento della vita della gente comune, ma la rappresentazione della politica come spettacolo e come teatro, con un effetto «sostitutivo» nei confronti della politica agita in prima persona. Cominciò quello che poi fu definito «il teatrino della politica». Fu la riscoperta del significato etimologico della democrazia parlamentare. Il parlamento come organo di «rappresentanza» popolare si affermò, nell’Inghilterra del XVI e XVII secolo, insieme alle «rappresentazioni» del teatro elisabettiano: Shakespeare e Cromwell furono il frutto di una identica temperie culturale. Il gioco delle parti, l’alternarsi delle posizioni tra maggioranza e minoranza, il fondamento della dialettica parlamentare e democratica si sviluppò in un percorso da regia teatrale. Fu il modo per esorcizzare e regolare il conflitto di tutti contro tutti. Trasportato negli studi televisivi quel conflitto assunse però le vesti di un confronto inquietante e rissoso che sollecitava solo il protagonismo dei vari leader politici.
Rodrigo Pais Enrico Berlinguer e Roberto Benigni sul palco durante una manifestazione per la pace Roma, 17 giugno 1983
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Lo sguardo testimone: storia e storie della fotografia italiana di Manuela Fugenzi
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Cento fotografie, e solo cento, rappresentano una bella sfida per costruire un affresco della storia del nostro paese in cui occasioni pubbliche e private intrecciano e riflettono avvenimenti, emergenze, questioni di portata nazionale. Dal Risorgimento in poi la fotografia, nata nel 1839, ha avuto un ruolo di primo piano nella costruzione dell’identità italiana, e un immenso patrimonio ci permette oggi di ripercorrere la storia d’Italia nei modi di indagine e di documentazione propri della fotografia e della sua potente tecnica, in continua evoluzione: dagli album di vedute e di ritratti dei primi ateliers alla propaganda del regime, dalla produzione delle agenzie fotografiche per i rotocalchi al lavoro artistico di grandi maestri, sino a quello digitale delle ultime generazioni. La sfida sul numero 100 comporta quindi necessariamente una selezione drastica e rigorosa, sia nei temi e negli avvenimenti privilegiati, sia nella proposta, che non si pretende certo esaustiva, delle immagini più rappresentative o evocative del periodo. Ma a ben vedere la sfida riguarda ancor più la relazione non scontata tra due discipline, la storia e la fotografia, che in questo progetto hanno sperimentato limiti e possibilità di dialogo. Negli ultimi 150 anni la fotografia è intervenuta significativamente nel modo in cui la storia contemporanea è stata documentata e rielaborata, diventando a sua volta una fonte imprescindibile della ricerca e della divulgazione storica: è documento, testimonianza, icona. E niente come la fotografia documentaria, e fotogiornalistica in particolare, assume il ruolo privilegiato di testimone della storia e della società civile e ci coinvolge per le sue potenzialità narrative. La sua forza e il suo limite risiedono nell’essere considerata dal sentire comune un mezzo di comunicazione universale, che tutti siamo in grado di comprendere, non uno strumento di rappresentazione visiva influenzata dalle tendenze estetiche, dal mercato e dalle politiche del momento e altresì impregnata di significati che cambiano nel tempo e che per essere compresi richiedono conoscenza di codici e di contesti.
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La fotografia è un prodotto culturale, perché selezioniamo solo ciò che siamo in grado di riconoscere. Per questo motivo gli stilemi propri della pittura sono stati ereditati dalla fotografia sin dalla sua nascita e solo in seguito, sperimentando la propria specificità, essa ha elaborato le peculiarità del proprio linguaggio. E difatti una fotografia viene a tutt’oggi maggiormente apprezzata quando il fotografo ha riconosciuto nella sua composizione della realtà una relazione con altre immagini universalmente note e condivise. Nel caso specifico della fotografia di guerra, ad esempio, il riferimento all’iconografia religiosa è una costante utilizzata per restituire quel sentimento di compassione verso i sofferenti nel quale, sin dalla seconda metà del Novecento, si è spesso identificato il fotogiornalismo più impegnato. La fotografia è di per sé un mezzo ambiguo, e per questo affascinante, dove riconoscere realtà e verità può essere molto complesso. La nostra sensibilità contemporanea, nel guardare un’immagine del passato ad esempio, prossimo o remoto che sia, interviene sulla memoria attivando un processo creativo e insieme interpretativo. Un processo che è plausibile nella misura in cui tiene presente la natura manipolatoria occultata dietro il sempre discusso paradigma di oggettività meccanica del documento fotografico. Lo specchio della realtà è piuttosto uno strumento d’interpretazione sin dal semplice gesto di inquadrare e scattare, ossia nello scegliere una porzione di spazio e di tempo di una realtà in movimento. Anche leggere e proporre una fotografia è a sua volta interpretazione. Abbiamo a che fare con un mezzo dalla natura polisemica, con diversi piani di lettura e significati, al punto che di una stessa fotografia sarebbe possibile con facilità scrivere più didascalie. Inoltre, nel guardare fotografie prodotte in altri contesti e in altre epoche, la nostra lettura contemporanea influenza inevitabilmente il loro valore documentario e comunicativo. Si tratta quindi di una fonte visiva pericolosa perché fortemente manipolabile, come gli storici ma anche i politici sanno bene. Lo sguardo dello storico può rivelarsi vivace, in certi casi sorprendente e non banale, quando genera una sorta di cortocircuito virtuoso, dove la fotografia diventa un luogo ricco di suggestioni e possibili letture. Uno scambio reciproco non può in effetti che arricchire due discipline che nel corso del Novecento hanno invece sovente instaurato un rapporto a dir poco svantaggioso per il documento fotografico, ricercato e proposto esclusivamente quale conferma visiva o prova inconfutabile di una tesi sovente precostituita. Stesso approccio ha dominato il sistema dell’informazione e il giornalismo, in particolare quello italiano, che vedeva la fotografia prevalentemente come riempitivo e supporto illustrato della 214
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ben più autorevole notizia scritta. Per fortuna all’utilizzo didascalico dell’immagine fotografica si va sostituendo una collaborazione meno conflittuale e diffidente tra storia e fotografia (lo stesso studio della fotografia, come storia e linguaggio, si è strutturato legittimandosi nel mondo accademico) ed è sempre più evidente quanto la conoscenza dei reciproci contesti giovi contemporaneamente alla valorizzazione del patrimonio fotografico e all’indagine storica. Nel contesto di questo libro leggere la storia attraverso l’immagine fotografica vuole essere anche un omaggio alla storia della fotografia nel nostro paese e ai suoi protagonisti, sia attraverso alcune icone condivise delle nostre vicende nazionali sia attraverso scatti inediti, significativi proprio in quanto tali. Così come è significativa la presenza di generi diversi: dal paesaggio al ritratto, ai grandi esempi del fotogiornalismo italiano, alla fotografia contemporanea più concettuale. Questa panoramica restituisce anche i cambiamenti operati dall’evoluzione tecnologica sulla pratica fotografica, sia nel nostro quotidiano che nel sistema dell’informazione. La data d’inizio prescelta è il 1860, a circa vent’anni dalla divulgazione del brevetto fotografico, quando la fotografia è una tecnica lenta, esercitata da professionisti e facoltosi fotoamatori, fatta di macchine di grande formato e di scatti singoli su lastre di vetro che impongono l’uso di cavalletti e pose lunghe. Il racconto affronta quindi il Novecento, quando la produzione di massa e l’immagine istantanea alimenteranno gli album di famiglia e i giornali, per arrivare a oggi, dove la competizione di mercato degli smartphones si gioca proprio sulla resa fotografica in pixels, rendendoci tutti fotoreporters se non altro delle nostre esistenze. Ragione per cui le ultime frontiere dell’informazione vedono i protagonisti o le vittime stesse degli eventi del nostro presente fornire di prima mano immagini e notizie che saltano il filtro del professionismo, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso. Imponendo di conseguenza la ricerca di nuove metodiche di lettura e d’interpretazione di un materiale utilizzato quasi esclusivamente nel web. Siamo comunque sicuramente lontani dal 1839, quando il nuovo procedimento si impose, in assoluta sintonia con una nuova classe sociale di cui seguì l’ascesa esprimendone l’identità borghese, attraverso la propria capacità di rappresentazione e di presenza sul mercato. Il valore documentario della fotografia venne subito percepito come superiore rispetto alle altre forme di rappresentazione: il mondo in movimento dell’esplorazione, della colonizzazione e dell’emigrazione, così come il rapido sviluppo della scienza e della tecnologia, offrirono alle prime generazioni di fotografi grandi 215
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opportunità con le quali misurarsi. Allo stesso tempo si riconvertirono produzioni commerciali precedentemente realizzate in incisione, come le vedute, le serie sui mestieri di strada, le immagini del longevo mercato della pornografia. L’esito fu quantitativamente impressionante: basti pensare che sopravvive a tutt’oggi un numero enorme di fotografie scattate tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Il ritratto e la veduta sono i primi generi fotografici ad affermarsi in Italia, sostenuti dalla cultura visiva delle arti figurative e dal fiorente mercato delle riproduzioni d’arte, delle vedute di monumenti e paesaggi, ben sollecitato sin dal Settecento dalla domanda dell’élite turistica del Grand Tour. Si entrava negli studi di posa perché lo scambio del proprio ritratto, la carte de visite, era diventato un vezzoso status symbol, oppure all’opposto perché costituiva l’unico modo, seppur costoso, di comunicare tra famiglie di analfabeti separati dall’emigrazione. Ateliers fotografici di successo, come i «Fratelli Alinari» di Firenze, diventarono un riferimento imprescindibile di questo settore, in grado di codificare pose e maniere in una produzione reputata d’eccellenza a livello internazionale. Alla fine dell’Ottocento l’Italia tutta offriva il suo patrimonio artistico e paesaggistico attraverso l’immagine fotografica, spesso ad opera di fotografi stranieri che riuscirono a trasformare la passione per la nuova tecnica in redditizie imprese familiari. Il caso del barone tedesco Wilhelm von Gloeden, celebre per le sue fotografie di nudo maschile per le quali posavano i ragazzi di Taormina dove si era stabilito e con il quale abbiamo voluto iniziare questo viaggio fotografico, è ancor più singolare. Consapevole che si tratti di una proposta inconsueta, Vittorio Vidotto ha voluto in questo modo prendere di petto e leggere con gli strumenti dello storico l’immaginario e l’illusione della realtà protagonisti della produzione di von Gloeden. I fotografi stranieri furono in prima linea nel rappresentare l’Italia contadina così come le grandi città d’arte: Giorgio Sommer, tedesco di Francoforte, ad esempio, trasferì la sua attività di fotografo nel nostro paese, specializzandosi in soggetti archeologici e vedute di genere. Si stabilì pertanto a Napoli, a seguito dell’incarico da parte del governo di realizzare una campagna fotografica a Pompei, divenendo così un pioniere della fotografia di documentazione. Il suo lavoro venne ricompensato da Vittorio Emanuele II con una medaglia d’oro e gli valse una grande notorietà, tanto che alla fine degli anni Settanta era considerato uno dei fotografi più famosi d’Italia. Se da un lato attraverso questo genere abbiamo l’opportunità di leggere l’evolversi del paesaggio naturale e urbano, fu proprio la fotografia d’impresa, un settore 216
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importante della produzione fotografica dell’epoca e oggi patrimonio d’indagine socio-economica e storica di grande interesse, a permettere d’altro canto la lettura dell’industrializzazione italiana. Si vedano a questo proposito le foto dell’interno della fabbrica di cannoni dell’Ansaldo e – a conferma della natura polisemica dell’immagine fotografica – quella che ritrae donne al lavoro in una filatura di seta nell’Italia austroungarica del 1918. La comunicazione d’impresa mira a rafforzare l’impressione di una produzione impeccabile: le operaie svolgono il lavoro con efficienza sotto l’occhio vigile del caporeparto. Ma a proporre altre narrazioni sono i loro occhi, che ci fanno interrogare sulla loro storia, fatta di uomini in guerra come di lavoro femminile. Mentre la visione storica può ulteriormente allargare lo scenario, leggendone l’elemento di emancipazione femminile determinato dall’occasione bellica. In questo periodo attraverso la tecnica di ripresa della veduta vediamo documentati calamità naturali (come l’eruzione del Vesuvio del 1872 o il terremoto di Messina del 1908), la vita cittadina borghese e il primo esempio italiano di «reportage giornalistico» di un evento politico: i moti popolari di Milano nel 1898, duramente repressi dal generale Bava Beccaris. A documentarli fu Luca Comerio, allora appena ventenne, straordinario fotografo e cineasta dallo sfortunato destino: le sue immagini vennero pubblicate nel maggio di quell’anno per due settimane consecutive (nei numeri del 15 e del 21 maggio) nella rivista «L’Illustrazione Italiana» (già dal 1880 infatti le fotografie venivano riprodotte in meccanografica). Altre sue importanti documentazioni riguardarono il traforo del Sempione, l’arrivo del primo Giro d’Italia all’Arena di Milano nel 1909, l’eruzione dell’Etna del 1911, il varo dell’Andrea Doria nel 1913. Divenne tra l’altro il fotografo ufficiale di Casa Savoia (qui vediamo una sua celebre fotografia di re Vittorio Emanuele III con la regina Elena e Giovanni Giolitti, scattata a Roma nel 1904 e sicuramente manipolata con un fotomontaggio che rende il sovrano «sciaboletta» alto quanto l’imponente Giolitti) e sorprendente cineoperatore di guerra delle vittorie e delle sconfitte italiane sulle Alpi. Con la pace tornò al mestiere di fotografo, per morire in povertà in un ospedale psichiatrico a 62 anni nel 1940, poco dopo l’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale. Con la grande guerra la fotografia aveva assunto prepotentemente il ruolo di testimonianza del presente e il numero delle immagini prodotte fu superiore a quelle di tutti i precedenti conflitti messi assieme: solo l’esercito inglese ne scattò più di 30.000. Gli operatori fotografi facevano parte integrante delle truppe, oppure provenivano dagli studi fotografici per fornire una documentazione sempre più richiesta dai giornali. In 217
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questa occasione, dunque, la fotografia italiana sperimentò la sua vocazione documentaria, complice una maggiore praticabilità del procedimento fotografico che la rendeva più vivace e partecipata (i soldati stessi raccontarono per immagini la vita di trincea), per finire però di lì a poco bruscamente repressa dalle politiche di controllo dell’informazione praticate nel ventennio fascista. Il LUCE (L’Unione Cinematografica Educativa), istituito nel 1924 per «diffondere la cultura popolare e l’istruzione generale» e dal 1929 «l’unico organo fotografico dello Stato per la documentazione ufficiale degli avvenimenti nazionali», trasformò di fatto la fotografia in strumento di propaganda impoverendone drasticamente il linguaggio, come si può evincere anche dal confronto con la produzione sovietica o tedesca coeva. I suoi fotografi erano rigidamente controllati e indirizzati persino sul taglio delle riprese al fine di ottenere una visione omologata della realtà. Tuttavia ciò che questo sistema non riuscì a impedire è la possibilità che oggi abbiamo di leggere in questa produzione (nelle composizioni, nelle pose, nondimeno nel linguaggio retorico delle didascalie) le vocazioni e le contraddizioni del regime. La possibilità di ricostruire invece un’altra Italia, quella non contemplata dalla sua immagine ufficiale, è oggi affidata agli archivi di alcuni fotografi che, durante il ventennio, operarono su base territoriale e di cui possiamo apprezzare la qualità antropologica e sociale: è il caso di Luca Comaschi (cronista de «il Resto del Carlino» di Bologna), di Luigi Leoni (Roma) e di Guglielmo Troncone (titolare dell’omonimo studio a Napoli), dei quali presentiamo qui alcuni scatti. Nella capitale un personaggio singolare da ricordare, vero incubo dei suoi colleghi del LUCE a causa della sua intraprendenza e ingovernabilità, fu Adolfo Porry-Pastorel, ritenuto il padre del fotogiornalismo italiano in senso moderno. Fondatore dell’agenzia «VEDO» (Visioni Editoriali Diffuse Ovunque, attiva fin dal 1908) e conteso dalle più importanti testate dell’epoca, si distinse per il suo approccio diretto e mai formale degli eventi e dei suoi protagonisti tanto quanto del dietro le quinte, come l’arrivo dei quadrumviri con Mussolini a piazza del Popolo il 31 ottobre 1922 o il celebre reportage del 1924 sulle indagini e il ritrovamento del corpo di Giacomo Matteotti, commissionatogli direttamente dalla moglie del deputato socialista. Come sappiamo, il grande spartiacque per le sorti del nostro paese fu l’arrivo degli alleati nel 1943 e, in un certo senso, anche per la fotografia italiana. Finiva infatti un racconto univoco del paese: sugli sguardi del governo della Repubblica di Salò (sempre attraverso il LUCE) e dell’esercito tedesco, prevalse quello degli alleati angloamericani (tra cui le unità Us Combat Film) e dei fotoreporters professionisti al loro 218
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seguito, diffuso principalmente dalle riviste illustrate d’oltreoceano. L’avanzata venne documentata anche a colori con la nuova pellicola Kodachrome, utilizzata però con parsimonia dall’esercito americano soltanto per immortalare occasioni funzionali alla propria immagine pubblica. Se da noi il racconto dell’Italia liberata e del dopoguerra sarà ancora prevalentemente in bianconero, l’editoria italiana, rinvigorita dalla libertà d’informazione e dal desiderio del suo pubblico di conoscere e di vedere il mondo, veicolerà i migliori esempi del fotogiornalismo internazionale, soprattutto americano e francese, che finiranno per influenzare positivamente la produzione nostrana. In particolare il settimanale «Epoca», proponendo una formula editoriale e grafica ispirata alla celebre rivista statunitense «Life» – di cui ospitava servizi fotografici completi –, ebbe contatti diretti con fotografi e agenzie straniere (nel 1950 viene documentata da Werner Bischof una riunione tra Alberto Mondadori e la redazione di «Magnum Photos» a Parigi), e divenne non a caso la prima redazione italiana ad avere un servizio fotografico interno, coordinato dal fotografo Mario De Biasi. Testate di prestigio, settimanali (tra gli altri «Il Politecnico» di Elio Vittorini, «L’Europeo» e «L’Espresso» di Arrigo Benedetti, «Il Mondo» di Mario Pannunzio) e rotocalchi popolari portarono alla ribalta sia le agenzie fotogiornalistiche (come «Foto Farabola» e «Publifoto»), che un esercito di paparazzi delle notizie di cronaca e della mondanità scandalistica, accanto a una nuova generazione di impegnati testimoni del tempo che videro in Federico Patellani il loro grande maestro. Autore di uno straordinario archivio di 600.000 unità tra stampe, provini e negativi di grande valore socio-antropologico (conservato oggi presso il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo), fu capace di creare immagini iconiche ancora oggi molto riprodotte, come il volto sorridente della ragazza che sbuca dalla prima pagina del «Corriere della Sera» utilizzata in copertina del settimanale «Tempo» in occasione del referendum del 1946, e del quale proponiamo qui uno scatto dello stesso anno, meno noto ma molto eloquente, sulle condizioni di vita nelle città italiane dell’immediato dopoguerra. Patellani nel 1943, prima ancora della liberazione, pubblicò per il Gruppo Editoriale Domus Il giornalista di nuova formula, un saggio di straordinaria lucidità e consapevolezza sull’uso della fotografia in editoria, destinato a divenire una sorta di manifesto sui princìpi della professione del giornalista fotografo e sulle caratteristiche del reportage moderno (chiarezza, comunicatività, rapidità, movimento, gusto nell’inquadratura, esclusione dei luoghi comuni), che così si concludeva: «Bisogna insomma, per il servizio e per sé, saper cogliere l’atteg219
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giamento momentaneo, il movimento, il sensazionale, l’essenziale di ogni cosa. Certamente è difficile il fondere in una sola fotografia i valori documento-bellezza. Sta qui la classe del fotografo». Come possiamo oggi apprezzare, l’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta vide esprimersi numerosi fotografi di classe autoriale e alcuni godettero di vetrine internazionali di grande prestigio, come Federico Garolla ad esempio, o Giancolombo, le cui immagini di Alcide De Gasperi nel 1947 fecero il giro del mondo dandogli così l’opportunità di diventare il responsabile del servizio fotogiornalistico per il Nord Italia dell’agenzia statunitense «Upi» (United Press International). Nel nostro percorso l’immagine a cui affidiamo la grande questione della riforma agraria e il passaggio dall’economia agricola a quella industriale – che insieme suggella definitivamente il legame tra la cultura neorealista italiana e la tradizione progressista della fotografia sociale americana – è un’icona della storia della fotografia mondiale, scattata dal grande maestro statunitense Paul Strand. L’artefice di questo incontro è Cesare Zavattini, intellettuale, sceneggiatore di oltre ottanta film (tra cui Sciuscià, Ladri di biciclette, Umberto D, Miracolo a Milano, La ciociara, Bellissima) e giornalista (cura per il «Cinema Nuovo» di Guido Aristarco veri e propri fotodocumentari sociali). Strand aveva lasciato l’America maccartista per dissidi politici stabilendosi in Francia, un luogo secondo lui adatto per ricercare l’essenza della civiltà contadina europea quale archetipo della dignità e giustizia umana. Quando lo conobbe, Zavattini stava lavorando con l’editore Einaudi al progetto di una collana dal titolo Italia mia, dove sperimentare un inedito dialogo tra letteratura e fotografia attraverso luoghi di un’«Italia minore da molti a torto trascurata». Lo invitò quindi a fotografare Luzzara, suo villaggio natale in Emilia: il volume fotografico realizzato (Un paese, 1955) diventerà una vera e propria pietra miliare per generazioni di fotografi a venire. In seguito l’editoria fotografica italiana ha prodotto altre letture significative del nostro paese. Per cambiare registro con un altro esempio è necessario compiere un salto di quasi quindici anni per avvicinarsi a due libri fotografici, pubblicati entrambi nel 1969, che videro l’incontro determinante di grandi personalità che favorirono un approccio culturale pioneristico condiviso e di grande impatto. In tal senso, sia Morire di classe, curato da Franco Basaglia con fotografie di Carla Cerati e di Gianni Berengo Gardin, che Gli esclusi, del fotografo Luciano D’Alessandro, introdotto dallo psichiatra Sergio Piro, mostravano la spaventosa e scomoda realtà dei manicomi italiani, divenendo così parte attiva di quel movimento d’opinione sulla malattia mentale che porterà, nel 1978, all’approvazione della legge 180, avviandone la loro definitiva chiusura. 220
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Sin dagli anni Cinquanta il fotogiornalismo italiano impegnato trovò spazio, mercato e visibilità essenzialmente nelle riviste di opposizione al governo, quelle orientate a sinistra e quelle sindacali. Ciò sollecitò e sostenne la testimonianza visiva su realtà che l’informazione ufficiale non era interessata a mostrare, seppur alimentando talvolta una certa retorica visiva nella rappresentazione, secondo codici suggeriti dalla stessa cinematografia neorealista. I fotografi che vi collaboravano (come Rodrigo Pais per «l’Unità» e «Paese Sera») realizzarono indagini di denuncia sociale rivolgendo la propria attenzione all’altra faccia del boom, che presentava squilibri sociali e territoriali, emigrazione e precarietà. Tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta una nuova generazione di fotografi (tra gli altri Carla Cerati, Fausto Giaccone, Paola Agosti, Tano D’Amico qui presenti) ha voluto osservare ancora più da vicino il mondo del lavoro e delle lotte in fabbrica, la contestazione, il femminismo militante, l’emarginazione e la cultura italiana, mentre la celebre fotografia sul taglio della tela di Lucio Fontana scattata da Ugo Mulas (fotografo concettuale lontano dal reportage sociale) diventa nel nostro percorso il paradigma di uno strappo generazionale inequivocabile. Negli stessi anni continuavano la loro personale lettura dell’Italia due fotografi di area milanese: Uliano Lucas, caposcuola della militanza fotografica esercitata in particolare nel mondo del lavoro, e Gianni Berengo Gardin, che da oltre cinquant’anni indaga ambienti e abitudini degli italiani con uno sguardo libero e ironico (qui apprezzabile nella lettura dello spazio vuoto alla fine di una Festa dell’Unità in Lombardia nel 1985) e in grado ancora oggi di suscitare riflessioni e prese di posizione, basti pensare che nel 2015 la sua mostra Venezia e le grandi navi finì per essere fortemente osteggiata dal neoeletto sindaco Luigi Brugnaro. Non è un caso che l’ultima sezione del volume sia composta in minima parte di fotografia sociale e privilegi invece l’immagine di personaggi pubblici, legati principalmente al mondo della politica, accanto a visioni più distaccate e concettuali che ben riflettono i temi rilevanti del nuovo millennio: la fine della prima Repubblica, i nuovi consumi, la disoccupazione giovanile, l’impegno della giustizia contro la mafia, la crisi della democrazia, la globalizzazione, l’immigrazione. Il mondo della fotografia dagli anni Ottanta al nuovo millennio subisce una profonda trasformazione, non paragonabile ai periodi precedenti. Perché se è pur vero che l’evoluzione tecnica è insita nella sua natura, contesti più ampi contribuiscono alla sua mutazione. Negli anni Ottanta si assistette, ad esempio, a un passaggio cruciale, in cui il mondo 221
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della comunicazione e quello dell’informazione si fecero più contigui fino a proporsi quale genere di consumo: la frammentazione dell’offerta televisiva delle tv private come l’iperspecializzazione delle testate giornalistiche ne sono l’esemplificazione. Anche il mondo fotografico reagì settorializzandosi ulteriormente e mai come in quegli anni la fotografia di moda, pubblicitaria e industriale conobbe un vero e proprio boom, complice un mercato rinvigorito, ipertrofico e facoltoso. La stessa editoria periodica accantonò di proposito l’indagine sociale a favore della proposta di un’immagine patinata dei personaggi più popolari dei media, in una sorta di omologazione visiva tra il mondo della politica e quello dello spettacolo; e significativi spazi vennero offerti al fotogiornalismo internazionale, con particolare attenzione ai suoi grandi protagonisti, evidenziandone gli aspetti più glamour. Questa politica dell’immagine fotografica ebbe senza dubbio il merito di creare un interesse diffuso verso la fotografia e di sollecitarne la pratica, contribuendo a favorire la sua proposta in contesti museali, alla nascita dei festival dedicati, allo sviluppo dell’editoria fotografica da edicola e del mercato degli apparecchi e degli accessori fotografici, all’affermazione professionale degli addetti del settore. Infine, non si deve sottovalutare lo stimolo alla sperimentazione provocato da questo successo: la ricerca della provocazione mediatica giocò un ruolo fondamentale nel rompere le barriere dei generi, così da innestare, ad esempio, lo sguardo documentaristico nella moda, di cui rimangono esemplari il percorso della comunicazione Benetton proposta da Oliviero Toscani e l’immagine di Moschino o di Dolce e Gabbana nello sguardo di Ferdinando Scianna. Un ulteriore e decisivo spartiacque caratterizzò il decennio degli anni Novanta: la rivoluzione informatica e la tecnologia digitale. Il web accelera in modo inverosimile le pratiche e le relazioni dell’informazione imponendo alla fotografia un cambiamento sostanziale in termini di produzione e distribuzione. Questa, abbandonata la sua identità meccanica e chimica, si smaterializza, riversando le sue procedure nell’ambiente informatico. Con la nuova pratica della postproduzione e della manipolazione dei file digitali il legame con il reale verrà messo ancora più a dura prova, mentre necessariamente si avvierà l’opera di riversamento e traduzione del patrimonio fotografico da analogico a digitale, per permetterne un accesso e un utilizzo semplificato e diffuso. In questo periodo di transizione l’innovazione, sostenuta dalle grandi agenzie fotografiche e di stampa attraverso forti investimenti, determinerà inevitabilmente anche la chiusura o la cessione a strutture più competitive di tante piccole e medie agenzie. E di fronte a un’editoria cartacea in profonda crisi e tesa a comprendere nel con222
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tempo i nuovi scenari del mercato, solo i fotografi indipendenti più tenaci, in grado di accogliere le nuove sfide o i cui riferimenti su base territoriale sono ancora saldi, sopravvivranno, seppur per poco. A loro ci siamo rivolti per rintracciare uno sguardo autonomo e consapevole sull’immagine della politica e dei suoi codici di rappresentazione, come Carlo Cerchioli, Angelo Palma, Gin Angri, Dino Fracchia. Più recentemente, ed è storia dell’ultimo decennio, l’ultima generazione del fotogiornalismo italiano, più consapevole e intraprendente rispetto alle opportunità dei nuovi media e della globalizzazione, ottiene importanti riconoscimenti internazionali, lavorando nelle zone di conflitto più accese del pianeta. È il caso di Alessio Romenzi, vincitore di due World Press Photo per i suoi reportage dalla Siria (2013) e dalla Libia (2017), al quale abbiamo affidato la testimonianza sul terremoto dell’Aquila nel 2009, a solo un’ora di strada da dove è cresciuto: uno sguardo e un’anima allenati a sostenere l’intensità della tragedia e dell’emergenza, in grado di restituire sia gli elementi di un contesto che l’esperienza dell’incontro diretto. Ma anche le nostre emergenze nazionali guadagnano le vetrine internazionali, quando gli aspetti etici e deontologici della professione diventano spunto per nuove narrazioni, come nel reportage A Disquieting Intimacy di Paolo Patrizi (con il quale ha vinto anch’egli un World Press Photo nel 2013) sulle vittime nigeriane della prostituzione praticata alla periferia di Roma, fotografate di spalle nei loro sordidi luoghi di lavoro. Nel nuovo millennio la fotografia italiana esprime altresì interessanti sperimentazioni di linguaggio e di contaminazione tra quelli che una volta venivano definiti «generi fotografici». Si recupera, ad esempio, la straordinaria esperienza della visione del paesaggio italiano degli anni Ottanta illuminata dalla sensibilità di Luigi Ghirri (scomparso nel 1992 e riconosciuto a livello internazionale come caposcuola del genere) per raccontare il nostro paese attraverso letture del suo territorio che sono spia e metafora del nostro contemporaneo. È il caso dello sguardo di Massimo Siragusa o del progetto di Tommaso Bonaventura e Alessandro Imbriaco Corpi di Reato, che compiono un’esplorazione dei luoghi della mafia, seguendone in modo mirato le tracce nel paesaggio, nel patrimonio culturale, nel tessuto urbano, finanche negli oggetti. Oppure ancora la tradizione della fotografia documentaria, capace di leggere nel quotidiano i cambiamenti sociali, viene rielaborata in una dimensione progettuale collettiva. Si tratta di lavori che procedono per capitoli e che permettono di cogliere il senso di tematiche di largo respiro attraverso una fotografia volutamente sobria e distaccata, generalmente a colori, che trova i suoi riferimenti visivi più nell’ambito 223
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scientifico e socio-antropologico che nel reportage. È il caso del collettivo «Terra Project», di cui proponiamo uno scatto dal lavoro di Simone Donati sul parlamento italiano e uno da Workforce di Michele Borzoni, che declina invece alcuni aspetti cruciali del mondo del lavoro in Italia: dalle specializzazioni degli immigrati alle proteste sindacali, ai paradossali scenari dei concorsi pubblici da lui seguiti in varie zone del paese nel capitolo Open Competitive Examinations, corredato da didascalie eloquenti dove il numero dei partecipanti viene confrontato con l’effettivo numero dei posti di lavoro messi a concorso. La fotografia contemporanea rivela quindi un’inedita capacità di liberare sensi più estesi e di riflettere sul mezzo. E di accompagnare, come nel caso dell’immagine di Giorgio Barrera, gli scenari della politica virtuale qui indagati dallo storico Giovanni De Luna. È una questione di intenzionalità, dichiara Barrera nel suo libro La battaglia delle immagini. Piccolo manuale di resistenza fotografica (Postcart, Roma 2016). Nel lavoro Attraverso la finestra utilizza l’escamotage di servirsi di un quadro all’interno del quadro, la cui messa in scena è «una scelta intellettuale che deve tendere a rivelare gli aspetti nascosti della quotidianità e mostrare momenti psico-sociali che possano togliere i veli dell’immaginario precostituito. Infatti, grazie alla sua stretta aderenza con la realtà, con la fotografia possiamo riconoscere esattamente, all’interno della scena, il nostro modo di stare al mondo». Negli anni Duemila i nuovi media sono responsabili di un vero e proprio cambiamento di status della fotografia, in cui viene infranto l’assioma dell’immagine fissa a favore di una sua declinazione multimediale in dialogo con il suono e il movimento, come d’altronde conferma la presenza di sofisticati dispositivi di ripresa video nelle fotocamere professionali quanto in quelle amatoriali. E proprio la sconfinata produzione fotografica amatoriale rappresenta la novità assoluta del nuovo millennio. Sollecitata dall’impiego del digitale domestico e contenuta, riorganizzata e resa fruibile in rete, l’offerta abnorme d’immagini fotografiche genera circuiti e cortocircuiti. Fenomeni che, da un lato, alterano la percezione del reale e, dall’altro, favoriscono un rapporto più disinvolto con la comunicazione sofisticata dei media. In termini di educazione visiva, invece, non sono trascurabili la preoccupazione per la tendenza a utilizzare in modo acritico la rete come ambiente principale di formazione, come pure la difficoltà a mantenere alta la soglia di attenzione nella lettura delle immagini digitali, a cui è attribuibile una corresponsabilità nella trasformazione dei codici di rappresentazione, sempre più semplificati dalla tirannia della velocità 224
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e dell’immediatezza della fruizione online. Da questo bacino provengono le immagini dell’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, gli abusi ad Abu Ghraib nel 2003, lo tsunami del 2004 in Thailandia, le proteste a piazza Tahrir nel 2011 durante la Primavera araba, già entrate tra le icone della storia contemporanea più recente. È questo scenario a rappresentare l’ultima frontiera di una lunga sfida che vede la fotografia e la storia tentare, con i propri strumenti, un dialogo sulle domande che il nostro presente ci pone.
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