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Ottocento. Da Canova al Quarto Stato I dipinti presentati e, a sottolineare i passaggi decisivi, poche, scelte sculture, scandiscono il percorso di questa mostra pensata come una sfida capace di restituire al pubblico odierno non solo la complessità ma anche l’identità di un secolo oggetto recentemente (dopo un lungo e singolare ostracismo da parte della critica novecentesca), di un approfondito recupero storiografico. All’inizio, opere di grandi dimensioni e forte impatto formale come i Pugilatori di Antonio Canova (1795-1806), il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo (eseguito a cavallo tra l’Otto e il Novecento) e la Maternità di Gaetano Previati (1891), collocate in un dialogo immediato ed emozionante, segnano in una dimensione eroica, quella dell’arte come impegno di fronte alla società e alla storia, l’inizio e il termine di un Ottocento che non ha smarrito, pur attraverso dolorose e radicali trasformazioni, il senso della grande tradizione italiana. Inizia così un “viaggio” nel nostro passato attraverso opere selezionate e messe a confronto non più per scuole regionali o per categorie formali, ma accostando in date significative le esperienze concrete degli artisti. A rappresentare gli slanci e le contraddizioni di un’epoca di grandi attese (quella delle lotte risorgimentali e della nascita dell’unità nazionale) sono stati scelti quei protagonisti che hanno saputo affrontare con coraggio e originalità la dialettica serrata tra tradizione e innovazione, scegliendo la via della “modernità”. Le opere presentate, a partire dalla grande stagione neoclassica e napoleonica, attraversando la vibrante stagione romantica, le ricerche “macchiaiole” e l’impegno naturalista, per arrivare alle inquietudini “scapigliate” e simboliste di 1
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fine secolo, seguono la trasformazione dei generi. Cambia anche il modo di vedere e rappresentare la realtà, elaborata (ormai fuori delle Accademie messe continuamente in discussione) negli studi degli artisti e nelle sale espositive in cui il pubblico popolare e la nuova critica partecipano, o si contrappongono, alle sperimentazioni in corso. Durante il percorso espositivo, accostamenti insoliti di opere e artisti rispecchiano la circolarità di idee ed esperienze tipica dell’Ottocento, ricomponendo l’affascinante mappa di una lunga e varia sperimentazione formale e visiva. Scale Ad apertura, e insieme a chiusura monumentale della rassegna, ritroviamo le grandi dimensioni di un’opera simbolo, la Maternità di Gaetano Previati, un capolavoro, come tanti nel corso di quei cent’anni, scomodo e allora di difficile decifrazione, ma significativo nell’anticipare la disgregazione del linguaggio pittorico che sarà realizzata dal Futurismo nel secondo decennio del Novecento. Qui non è il tema, il messaggio a contare, quanto il confronto, la sfida ingaggiata dal suo autore con i meccanismi della visione. In alto, salendo le scale, i lavoratori in marcia del Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo (dalle sembianze fiere e nobili e raggruppati come i filosofi greci della Scuola di Atene di Raffaello), ci vengono incontro in un immenso e celebre quadro, manifesto delle speranze in un mondo nuovo con cui si chiudeva il XIX secolo.
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Fino al 1815, inizio della Restaurazione, l’Italia - quasi riunificata - è sotto il governo diretto e indiretto di Napoleone. Milano è capitale del Regno Italico, Napoli del Regno di Gioacchino Murat, marito di Carolina Bonaparte, la Toscana, Regno d’Etruria, è affidata all’altra sorella, Elisa Baciocchi, mentre Roma è governata da funzionari dell’Imperatore: in questi anni Antonio Canova diventa un simbolo di identità nazionale, il genio che con le sue sculture di incomparabile fattura ha raggiunto la perfezione della scultura greca. I due pugilatori, Creugante e Damosseno, iniziati nel 1795, terminati tra il 1801 e il 1806, e ispirati ai due colossi della piazza del Quirinale, prendono così il posto nei Musei Vaticani dei marmi antichi trasferiti a Parigi. primo piano Dall’età napoleonica all’Unità d’Italia 1 Mentre la scultura riconquista con Canova il suo primato, la pittura cerca di percorrere strade nuove alla ricerca di una bellezza diversa, originale rispetto a quella convenzionale elaborata dalle Accademie, sempre però ispirata all’eccellenza nel disegno, confermato come il fondamento della grande tradizione classicista. Gli esempi di eroismo e di virtù tratti dalla storia antica vengono privilegiati in nome di un’arte impegnata a migliorare l’individuo e la società. Se il romano Vincenzo Camuccini si rifà con grande rigore grafico e compositivo ai modelli del pittore francese Jacques-Louis David e allo spirito di Vittorio Alfieri,
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come dimostra La morte di Cesare (1804-1805), il lombardo Giuseppe Bossi si cimenta con uno stile più sperimentale, ispirato a Leonardo e al Manierismo. Ma il vero interprete delle grandi speranze e delle inquietudini dell’età napoleonica è Andrea Appiani che, come Canova in scultura, Vincenzo Monti e Ugo Foscolo in poesia, sa ridare attualità alla mitologia, animando le antiche divinità con le moderne seduzioni della luce, del colore, dello sfumato. Anche i suoi ritratti appartengono, in un certo senso, alla sfera del mito e proiettano nella leggenda gli affascinanti eroi di anni irripetibili, come lo stesso Bonaparte o Il Generale Desaix (1800), dal profilo fiero ed elegante. Di quest’epoca densa di eventi e di eroi, artisti visionari rendono con soluzioni iconografiche e tecniche estrose i risvolti più eccentrici, come il miniaturista Giambattista Gigola o il decoratore Vincenzo Bonomini, autore nel 1802 c. di una singolare serie di Macabri, sarcastico Memento mori ma anche, attraverso una figura di grande attualità politica come quella del Tamburino della Guardia Nazionale (sono gli anni della Repubblica Cisalpina), spietata allegoria del principio rivoluzionario dell’uguaglianza. 2 Negli anni della Restaurazione e del ritorno degli antichi sovrani, l’Italia perde con la morte di Canova, nel 1822, un simbolo, ma non il primato nel campo della scultura, affidato ad artisti che, come il giovane Pietro Tenerani (nella commovente e tenerissima Psiche abbandonata), sono in sintonia con Giacomo Leopardi nel preservare gli incanti della mitologia, cui conferire un significato esistenziale. La pittura trova nel clima europeo della Milano
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romantica, di Stendhal e di Manzoni, della rivista “Il Conciliatore” e dei primi moti risorgimentali, la forza di cambiare. Abbandonati gli dei e i miti, il veneziano Francesco Hayez e i suoi seguaci ricostruiscono, rappresentando le vicende dell’Italia moderna (La congiura dei Lampugnani, 1826-1829, che ricorda la congiura ordita da Andrea Lampugnani, Girolamo Olgiati e Carlo Visconti guidati dall’umanista Carlo Montano, contro il tiranno Galeazzo Maria Sforza, avvenuta a Milano nella chiesa di Santo Stefano nel dicembre 1476), una storia nazionale in cui proiettare le speranze di un futuro riscatto. I ritratti, che non celebrano più la potenza del casato ma rappresentano le “affinità elettive” nel seno della famiglia, diventano lo specchio inquieto di una società che sta cambiando rapidamente: ne è una prova tra gli altri il Gruppo della famiglia Belgiojoso di Giuseppe Molteni (1831), dalle dimensioni monumentali come un quadro storico, con la contessa Amalia fulcro emotivo della scena, madre affettuosa di tre giovani e raffinati aristocratici, rappresentanti ideali della colta Milano della Restaurazione. Sia i dipinti storici che i ritratti riescono in questi anni a coinvolgere il nuovo pubblico creato dalle esposizioni milanesi, allestite nelle sale di Brera, con le suggestioni di un linguaggio pittorico che, basato sulla luce e sul colore, riesce a rinnovarsi continuamente, nel segno della creatività individuale. 2a Con il Romanticismo si afferma un nuovo sentimento della natura che supera le convenzioni del paesaggio ideale nobilitato dai riferimenti alla mitologia o alla storia. Alle vedute con rovine antiche tipiche del Grand 5
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Tour settecentesco, si sostituiscono le immagini delle campagne e delle città dove si svolge la vita di tutti i giorni, luoghi reali di cui gli artisti fermano i particolari effetti atmosferici, gli scorci, la luce “locale”. Questa “luce rapida” che “piove di cosa in cosa, / e i colori vari suscita / dovunque si riposa” (Manzoni) abbaglia (o rabbuia) i cieli e le acque del mare nei piccoli dipinti della napoletana Scuola di Posillipo, di Teodoro Duclère, Anton Sminck Pitloo, Gonsalvo Carelli, Giacinto Gigante, del quale sono esposti due rare opere a cavallo tra gli anni trenta e quaranta, Amalfi e Sorrento e la costiera. Oppure identifica i connotati dell’operoso territorio lombardo in Marco Gozzi, Giovanni Migliara, Giuseppe Canella, o conferisce una profonda dimensione lirica al cielo notturno rischiarato dal “verecondo raggio” (Leopardi) nel Notturno con effetto di luna del piemontese Giuseppe Pietro Bagetti. Al rigoroso cannocchiale ottico del vedutismo settecentesco subentra nelle vedute urbane di Angelo Inganni e di Canella a Milano, di Ippolito Caffi a Venezia e a Roma (suggestiva la ripresa del Colosseo visto dall’alto, del 1855), l’effetto a sorpresa di una prospettiva a zig-zag che esplora gli angoli più inconsueti e prima mai rappresentati delle città. 3 Nel corso degli anni trenta torna ad essere protagonista il nudo, dove i riferimenti mitologici (la Venere sotto cui non riescono a celarsi le procaci forme della ballerina Carlotta Chabert nel sontuoso dipinto di Hayez), biblici (Betsabea, sempre di Hayez) o letterari (l’Aminta di Piccio tratta da Torquato Tasso) diventano solo dei pretesti per dispiegare le seduzioni di una bellezza contingente e moderna. Ne sono
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interpreti a Milano Hayez, con splendidi nudi femminili ispirati alla grande tradizione veneta e emiliana e, nell’ambito della colta provincia lombarda, tra Bergamo e Cremona, il Piccio. Un artista eccentrico allora non del tutto compreso e di cui nel Novecento si apprezzerà la inconsueta libertà “impressionistica” del tocco pittorico: un pittore che non riuscì a diventare realmente alternativo, restando sul piano di sperimentazioni straordinarie ma occasionali, soprattutto se confrontato con Hayez, destinato a dominare incontrastato con lo splendore naturalistico e cromatico dei suoi nudi femminili. 4 Verso la fine degli anni trenta esplodono le polemiche contro le Accademie, tradizionale centro di formazione degli artisti, e cominciano ad essere criticate le convenzioni della pittura storica. Il genere, verso cui il primo Risorgimento aveva coltivato tante speranze nella convinzione che attraverso gli esempi del suo passato l’Italia potesse rigenerarsi e creare le basi dell’unità nazionale, entra in crisi sia nei contenuti che nella forma. I protagonisti della scuola romantica, Giuseppe Molteni, Francesco Hayez, il più giovane Eliseo Sala o lo scultore Vincenzo Vela (La preghiera del mattino, 1846), elaborano così nuove iconografie con l’intento di dare espressione allo spirito tormentato dei tempi; nascono figure emblematiche come la Malinconia di Hayez (nota anche come Un pensiero malinconico, 1842), simbolo delle inquietudini dell’uomo contemporaneo, mentre i pittori e gli scultori cominciano a confrontarsi con la realtà. Piccio, erede del naturalismo lombardo, riesce a dare alla bruttezza del reale una straordinaria, quasi manzoniana, dignità 7
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(Ritratto di Anastasia Spini, 1840 c.). In scultura, Lorenzo Bartolini (Bacco pigiatore, 1842), che nel 1841 aveva proposto un gobbo come modello agli allievi dell’Accademia di Firenze, e il giovane Giovanni Dupré sostituiscono alla perfezione del bello ideale i turbamenti di nudità adolescenti (Bacchino della Crittogama, 1859, dove il riferimento alla malattia della vite è allusivo alla fragilità e caducità dell’esistenza). Tra gli anni quaranta e cinquanta la pittura storica ritrova slancio nel confronto col vero: Hayez e Piccio sperimentano nel repertorio biblico, che il melodramma verdiano (Nabucco) ha reso di grande attualità, una modulazione, quasi musicale, di atmosfere e sentimenti, restituiti attraverso una raffinata scala tonale e cromatica che recupera Tiepolo e il Settecento. Su versanti opposti il toscano Luigi Mussini e il napoletano Domenico Morelli cercano di dare nuovo slancio al linguaggio accademico: di fronte alle decantate soluzioni puriste di Mussini, moderno interprete dell’arte sacra e di un nuovo spirito religioso (Eudoro e Cimodoce, del 1855, ispirato al Livre des Martyrs di Chateubriand, in cui si narra un episodio della triste storia d’amore tra la sacerdotessa greca Cimodoce e il cristiano Eudoro), il laico Morelli propone un rinnovato impegno a interpretare i grandi conflitti della storia come, ad esempio, quello tra le arti e il potere, attraverso una pittura che faccia apparire reali i fatti immaginati (Gli Iconoclasti, 1855, relativo ad un episodio di ribellione nei confronti dei provvedimenti presi dall’imperatore bizantino Leone III contro il culto delle immagini, con il monaco Lazzaro che, sorpreso a dipingere una figura sacra, è condannato al taglio della mano).
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5 Il Bacio di Hayez, presentato all’esposizione di Brera del 1859 che festeggiava l’ingresso a Milano di Vittorio Emanuele II e Napoleone III, deve la sua immediata popolarità e la successiva fortuna a un senso di mistero prima legato al suo significato politico, l’atto d’amore da cui stava allora nascendo la nuova nazione, poi allo straordinario coinvolgimento con cui quell’atto è rappresentato. La magia irreale della sua luce e la trasparente lucentezza dei suoi colori ispireranno ancora nel 1954 il regista Luchino Visconti in Senso, indimenticabile e struggente film sul nostro Risorgimento. Suggestivo e prezioso è, dello stesso autore Le veneziane, o Consiglio della Vendetta (1851, con la giovane tradita che per vendicarsi denuncia con una lettera l’amante), soggetto legato al mito di Venezia come luogo di bellezza, intrighi e decadenza. Questo periodo della storia d’Italia, nei primi anni dell’Unità trova i suoi migliori interpreti in pittori di genere come i lombardi Domenico e Gerolamo Induno, o i Macchiaioli toscani. Nei loro dipinti, dove la realtà popolare è resa con un nuovo linguaggio basato sulla variazione dei rapporti tonali o sui colori saturi di luce, si ritrova quello spirito di partecipazione che fece del Risorgimento un fenomeno autenticamente popolare e condiviso da tutte le classi. Così, nell’Imbarco di Garibaldi a Quarto (1860), Gerolamo Induno riporta ad una dimensione quotidiana un evento decisivo e presto proiettato nel mito, la partenza per la spedizione dei Mille: lì l’eroe dei due mondi dava inizio a un’avventura unica, paragonabile, in un certo senso, a quella dell’esploratore Costantino Beltrami in America, nel dipinto di Enrico Scuri del 1861, ricordato mentre risale le acque alla scoperta delle misteriose sorgenti del 9
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Mississipi. Nel breve volgere di pochi anni, però, più che celebrare con un ottimismo che i fatti sembrano smentire l’affermazione di una società migliore, i pittori si fanno interpreti di una delusione sempre più diffusa. Il tradimento di Villafranca, l’“orribile pace” come venne definita, con il quale il Veneto rimaneva all’Austria, o l’arresto di Garibaldi, fermato ad Aspromonte mentre marcia per liberare Roma, vengono fissati nella coscienza collettiva dal quadro corale di Domenico Induno sull’indignazione e il dolore dei milanesi (Il bollettino del giorno 14 luglio..., 1862), o da quello in cui il macchiaiolo Odoardo Borrani, nell’atmosfera rarefatta di un decoroso interno domestico, dove lo spazio appare scandito dai volumi delle figure come in una predella del Quattrocento, unisce il ritratto dell’eroe oltraggiato e una veduta di Venezia non ancora liberata (Le cucitrici di camicie rosse, 1863). Allusivo alle difficoltà e alle speranze della contemporaneità è anche La barca della vita (1859) di Domenico Morelli, densa allegoria sulla storia passata, sulla decadenza presente e sulla fiducia “positivista” nel futuro. SECONDO PIANO Dopo l’Unità d’Italia 6 Il ventennio che vede realizzarsi l’Unità d’Italia riconosce la propria fisionomia artistica nelle poetiche del vero le quali, in diverse ma analoghe declinazioni, riflettono la cultura democratica prevalente in quegli anni. La scelta progressista di studiare la realtà in tutti i suoi aspetti coincide, infatti, con la generale inclinazione dello spirito dei tempi verso l’indagine “positiva”. Le scuole artistiche, sorte in Italia in
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antitesi alle Accademie, diventano così espressione di un momento unitario il cui risultato è il temporaneo superamento delle diversità regionali a favore del dibattito comune sul principio di verità e sulla funzione sociale dell’artista. Dopo le ardite sperimentazioni formali e cromatiche dei primi anni, i Macchiaioli ritrovano interesse verso il rigore del disegno, affrontando in modo nuovo anche scene di vita quotidiana e domestica, spesso risolte in grande formato e con una solennità sospesa e rarefatta, da antica pala d’altare (Silvestro Lega, Il canto di uno stornello, 1867, o Giovanni Fattori, Le macchiaiole, 1865 c., con tre semplici contadine a occupare inusualmente - lo spazio di un dipinto severo e pacato di grande formato). La pittura di storia, oltre che meditazione vissuta sui drammatici fatti contemporanei, affronta il tema dei “vinti”, come in Ozio e lavoro, del napoletano Michele Cammarano (1863 c.) o ne L’alzaia di Telemaco Signorini (1864 c.), dove in un paesaggio terso ed esatto due eleganti figurine sullo sfondo assistono, anche qui su grande formato, alla fatica degli uomini che trascinano una barca contro la corrente dell’Arno. Al pittore “moderno”, capace di uno sguardo esatto e obiettivo, è in qualche misura “concesso” indagare anche nei risvolti più privati e segreti dell’esperienza umana, come fanno i meridionali Domenico Morelli (Il bagno pompeiano, 1861) e Gioacchino Toma (La messa in casa).
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6a Nel rinnovamento dei generi e in special modo del paesaggio, all’avanguardia sono sin dalla metà degli anni cinquanta i Macchiaioli, che condividono con gli artisti delle scuole di Resina (in Campania) e di Rivara (in Piemonte, nel cuore del Canavese) le ricerca sullo spazio all’aperto e sulla luce, in dipinti tersi, luminosi, inusuali per taglio - con la predilezione per il formato basso e orizzontale - e per l’ampio punto di vista (Odoardo Borrani, Raffello Sernesi o Vincenzo Abbati, Veduta di Castiglioncello, 1867). Mentre in Italia meridionale il tema del vero continua ad affascinare pittori e scultori come Vincenzo Gemito, spesso cimentatosi con figure popolari, vivissime e colte nell’istante dell’azione come Il pescatore (1877), il ritratto conquista, soprattutto in Toscana, con Giovanni Fattori, Antonio Puccinelli (Ritratto di Nerina Badioli, 1866 c., insieme composto e brioso) o con Giovanni Boldini, la moderna funzione di rivelare i caratteri attraverso l’oggettiva definizione dei contesti sociali. Ne sono testimonianza, tra gli altri, proprio i ritratti di Boldini, dalle pennellate rapide e guizzanti, come l’informale Ritratto di Diego Martelli (1865 c.) la cui posa sottolinea la non convenzionalità del personaggio, o il ritratto del collega e amico Giuseppe Abbati (1865), l’occhio ferito a ricordare i trascorsi di garibaldino, le mani spavaldamente in tasca, ai piedi uno degli amati cani, per il morso del quale morirà di idrofobia, ancora giovane.
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7 Mentre le indagini sul vero danno risultati importanti e tra loro anche assai diversi (si confrontino le limpide vedute toscane con i suggestivi e addirittura introspettivi scorci paesistici dell’emiliano-piemontese Antonio Fontanesi, Solitudine, 1875, o ancora con le frizzanti, raffinate e fotografiche “istantanee” parigine di Giuseppe De Nittis, Ritorno dal Bois de Boulogne, 1878, o di Federico Zandomeneghi), attraverso il sistema delle esposizioni nazionali organizzate periodicamente a Roma, Napoli, Milano, Torino, critici e artisti hanno la possibilità di confrontare la situazione italiana con quanto avviene nel resto d’Europa. Emerge così il grande peso conquistato dalle tematiche del verismo sociale e delle sue singolari metamorfosi che vanno dalla denuncia diretta e cruda della guerra, anche nei suoi eventi apparentemente marginali (Giovanni Fattori, In vedetta, 1872), alla registrazione di momenti solenni della storia contemporanea (Silvestro Lega, nel commovente, insieme rispettoso e partecipe Gli ultimi momenti di Mazzini morente, del 1873), alla narrazione di eventi storici del passato analizzati con moderna e inquieta introspezione (Domenico Morelli, Torquato Tasso legge la Gerusalemme Liberata a Eleonora d’Este, 1865), o alla rievocazione di figure e luoghi lontani ed esotici, cui avvicinarsi con rispetto e desiderio di conoscenza (dello stesso autore, Improvvisatore arabo, 1878). Il rischio dell’indagine oggettiva poteva portare, però, ad un realismo giudicato “eccessivo” dalla critica e del quale furono rappresentanti, con un intento polemico che ne causò in parte la marginalità, gli artisti della cosiddetta Scapigliatura lombarda, intellettuali e pittori dall’atteggiamento ribelle ed anarcoide, convinti 13
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dell’organica unità di pittura, scultura, poesia e musica. Nelle loro opere, tra lo stupore della critica contemporanea, si arriva così a privilegiare la percezione soggettiva rispetto ai canoni tradizionali o addirittura rispetto alla registrazione del dato, per cui l’opera diviene sintesi di una passione umana, traslato simbolico di affetti sottintesi e pregnanti (Federico Faruffini, La lettrice, 1865). 7a In Italia meridionale, nell’ultimo ventennio del secolo, l’opera di pittori come Antonino Leto (La pesca del tonno, 1887) e Francesco Lojacono (Il ritorno del coscritto o L’arrivo inatteso, 1882) testimonia un inesausto interesse per la rappresentazione dell’uomo, della natura o delle problematiche sociali, interesse risolto, senza nulla perdere del valore dei contenuti o della forza di denuncia, in una forte tensione formale. In tutta Italia si conferma del resto, pur nella varietà delle ricerche, la presenza di grandi individualità, concentrate di volta in volta nella denuncia di ipocrisie e drammi borghesi (Angelo Morbelli, con il sorprendente Asfissia!, 1884, dipinto che venne dallo stesso autore diviso in due parti qui riunite, opprimente e fosca cronaca del suicidio di due amanti), nella luminosa narrazione di un momento di pace domestica (Giuseppe De Nittis, Colazione in giardino, 1883), o nel cimento in temi letterari e passionali tipici della grande tradizione romantica (Gaetano Previati, Paolo e Francesca, 1881).
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8 Verso il finire del secolo, mentre Boldini, De Nittis, Federico Zandomeneghi si trasferiscono a Parigi diventando i pittori della vita moderna, artisti come Morbelli, Plinio Nomellini, Pellizza da Volpedo, Emilio Longoni, Previati, Giovanni Segantini, Medardo Rosso, transitano da una dimensione naturalistica alle rive inquiete del Simbolismo, rimettendo di volta in volta in gioco il proprio modo di vedere e di interpretare la realtà, addentrandosi nei territori oscuri dell’inconscio individuale o collettivo. Preceduta da interventi polemici e da discussioni molto accese, è la prima Triennale di Brera del 1891 a segnare un mutamento radicale nello svolgimento dell’arte di fine secolo. Convergono, infatti, in essa gli esiti della corrente verista e dell’estetismo di matrice dannunziana ma, soprattutto, vi si mostrano in tutta la loro forza innovativa i risultati delle teorie divisioniste, basate cioè sulle moderne leggi della visione ottica che scompone e analizza il fenomeno luminoso e il colore nelle sue componenti pure (si vanno accentuando così le competenze tecniche e scientifiche del lavoro dell’artista), come appare evidente nella Maternità di Previati (1891, collocata all’ingresso, di fronte alla scalinata), vero e proprio motivo di scandalo dell’esposizione. La compresenza di tante molteplici espressioni è del resto il sintomo dell’intricato panorama che contraddistingue l’arte allo scadere del XIX secolo, un crogiuolo in cui la resa della realtà indagata senza preconcetti (Antonio Mancini, Il Saltimbanco, 1877), anzi denunciata con impegno da parte degli artisti (Plinio Nomellini, Piazza Caricamento, 1891, o Emilio Longoni, Riflessioni di un affamato, 1894), si alterna alla poetica degli stati d’animo collegati alla rappresentazione della natura (dello 15
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stesso Longoni il maestoso Ghiacciaio). La scelta di collocare l’arte in una dimensione atemporale, sulla scorta del Simbolismo europeo, avrebbe comunque fatto prevalere nell’Italia umbertina le mitologie estetizzanti di Giulio Aristide Sartorio (La Sirena, 1893), mentre la sensibilità sperimentale dimostrata dai divisionisti (Giovanni Segantini, La dea dell’amore, 1894-97) e dalla scultura di Medardo Rosso (Ritratto di Yvette Guilbert, primo modello 1895) doveva attendere gli anni del Futurismo per trovare pieno riconoscimento.
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