Tesi

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Ministero dell’Università e della Ricerca a.f.a.m.

ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI PALERMO DIPLOMA ACCADEMICO DI PRIMO LIVELLO IN PROGETTISTA DI MODA A.A. 2011/2012

Il Corsetto di Moda Nel Fashion Design Contemporaneo MetaLPunK CorsetS di

Rossella Maria Campo Relatore Prof. Vittorio Ugo Vicari

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INDICE GENERALE Introduzione

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Capitolo I BREVE SEMIOTICA DEL CORPO DEFORMATO I.1. Le mutilazioni genitali femminili p. 13 I.1.1. Modificazioni/alterazioni a carattere temporaneo e a carattere definitivo p. 15 I.2. MGF: origine, età relativa alle pratiche e conseguenze psicologiche I.3. Il corpo delle Donne I.3.1. L’uso del corpo femminile oggi I.4. Il Corpo contemporaneo: l’uso del corpo come linguaggio ed espressione artistica I.4.1. Orlan e Franko B. I.4.2. Stelarc I.4.3. Jana Sterbak I.4.4. Matthew Barney I.4.5. La storia della performance I.5. Body Marking/Modification: pratiche di decorazione corporea permanente I.5.1. Modern Primitives: Fakir Musafar I.6. Alterazione busto/toracico: Il Tight-Lacing I.6.1. Il Tight-Lacing Oggi: Cathie Jung e Mr. Pearl Capitolo II BREVE STORIA DEL CORSETTO NELLA CULTURA DI MODA IN EUROPA E NEL MEDITERRANEO II.1. Origine e Evoluzione del busto/corsetto di moda femminile nei secoli II.1.1. Il Seicento II.1.2. Il Settecento II.1.3. L’Ottocento II.2. Moda Vittoriana (1837-1901) e Eleganza Edoardiana (1901-1918) II.2.1. Paul Poiret (1879-1944) II.2.2. Elsa Schiaparelli (1890-1973) II.2.3. Christian Dior (1905-1957)

p. 21 p. 26 p. 29 p. 32 p. 39 p. 43 p. 45 p. 49 p. 53 p. 56 p. 62 p. 64 p. 70

p. 93 p. 97 p. 101 p. 104 p. 108 p. 114 p. 117 p. 119

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II.3. Evoluzione dell’Intimo Femminile: la Lingerie II.3.1. Il Bustier II.3.2. Dolce & Gabbana II.3.3. Jean Paul Gaultier (1952) II.4. La Lingerie Oggi: Victoria’s Secret

p. 124 p. 130 p. 131 p. 134 p. 140

Capitolo III LO STILISMO NEL NOVECENTO, TRA FETISH, BODY ART E MODA III.1. Il Feticismo p. 147 III.1.1. Feticismo nella Moda: lo stile Punk p. 151 III.1.2. Vivienne Westwood (1941) p. 158 III.1.3. Thierry Mugler (1948) p. 162 III.2. Il Fascino erotico della Lingerie femminile-maschile e materiali-costumi Fetish nella moda p. 166 III.2.1. Il Latex Oggi: Atsuko Kudo p. 173 III.3. Il Burlesque e lo Strip p. 174 III.4. Il New Burlesque p. 181 III.4.1. Costumi-accessori e Coreografie-scenografie p. 184 III.4.2. Dita Von Teese (1972) p. 186 III.5. Moda e New Burlesque p. 188 Capitolo IV ULTIME TENDENZE DELLO STILISMO DI MODA

p. 201

Capitolo V IL PROGETTO V.1. Steampunk p. 265 V.1.1. Moda Steampunk p. 268 V.2. Steampunk Inspiration: Bibian Blue, Maya Hansen e Skin.Graft Designs p. 269 V.3. Descrizione Progetto: MetaLPunk Corsets p. 279 V.3.1. Look-Book Progettuale p. 280 V.3.2. Look-Book Fotografico p. 285

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Apparati Indice delle illustrazioni p. 351 Bibliografia p. 367 Sitografia p. 371

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Introduzione La tesi qui presentata approfondisce la moda e l’evoluzione del Busto/ Corsetto - indumento affascinante del vestiario intimo femminile, simbolo di seduzione, femminilità e bellezza, che, da vero e proprio strumento di costrizione e mutilazione diviene accessorio-capo d’abbigliamento super-glamour creato per essere portato in vista. Il corsetto o bustier, adattato al moderno stile di vita con Christian Dior, Jean Paul Gaultier, Alexander McQueen, Vivienne Westwood, ecc., dimostra come il suo potere seduttivo sia rimasto immutato. Il primo scopo che si propone il presente studio è di esaminare il corpo della donna alterato/modificato tramite l’uso del busto/corsetto, principalmente nell’era Vittoriana, pratica feticista definita TightLacing, ovvero allacciatura stretta, la cui deformazione permanente altera la silhouette della donna in modo irreversibile, portando così “l’arte del corsetto all’estremo”. Il secondo scopo è di continuare ad approfondire e sviluppare questa passione dal punto di vista storico-progettuale, improntando la mia futura professione alla progettazione e confezione di questo splendido capo, con l’apertura di una boutique/atelier specializzata nella creazione e vendita su misura di corsetteria e accessori in pelle/ similpelle e tessuti originali (latex, PVC). Il mio obiettivo primario è far riemergere un antico e singolare mestiere, quello di “bustaia”, e presentare un capo d’epoca in una versione totalmente nuova, personale e moderna. La ricerca è stata svolta attraverso documentazioni bibliografiche, fotografiche, biografiche-aziendali, filmografiche e soprattutto attraverso informazioni/comunicazioni orali dirette e indirette. Una in particolare con l’olandese Jeroen van der Klis, sarto/corsettiere personale di Cathie Jung - tight-lacer che detiene il primato (da vivente) del girovita più sottile al mondo. Il suo incontro è diventato così suggerimento per la progettazione di corsetti di moda nel fashion design contemporaneo, principalmente ispirati alla moda Steampunk, aiutandomi a meglio comprendere le tecniche esecutive per giungere alla tipica silhouette a clessidra, con vita sottile (vitino da vespa), fianchi arrotondati, e meglio assimilare la conoscenza di metalli, cuoio, catene e bulloni. Inoltre, s’è avuto modo di frequentare e consultare la Biblioteca della Moda (Milano); le ditte Buttura Mario S.r.l. - specializzata nella vendita di componenti e accessori metallici (Milano); Candi 7


S.r.l. - specializzata nella vendita di materiali/tessuti, come plastica, scamosciati, finte pelli (Milano); e Lo.da. S.r.l. - specializzata nella produzione e commercio di pelli e pellami (Milano). Il Busto/Corsetto - indumento del vestiario intimo femminile studiato per proteggere, sorreggere, correggere. È presente sin dal tardo medioevo, concepito per modellare il corpo femminile e adattarlo ai canoni della moda dell’epoca: stringere la vita, sostenere ed evidenziare il seno (al contrario anche per ridurne la dimensione appiattendolo), modellare e talvolta evidenziare i fianchi. Rimase costante nel corso dei secoli, salvo rari periodi, in versioni più o meno costrittive, di minore o maggiore volume, in un crescendo di veemenza sulle forme naturali. Toccherà il suo massimo grado nel primo trentennio dell’Ottocento: con la necessità di mostrare vitini di vespa e scollature mozzafiato, la moda del busto/corsetto in questo periodo conosce una vera esplosione. Il fatto poi che il corpo della donna, avvolto da corsetti e crinoline, nascosto da strati di balze, gonne e sottogonne, apparisse del tutto innaturale, lo rendeva ancora più seducente e desiderabile. Il corsetto quindi è molto più di un semplice capo di biancheria, da sempre considerato il più seduttivo tra gli indumenti. Qualsiasi donna stretta in bustini steccati fatti di stringhe e lacci, si trasforma in seducente femme fatale. Malgrado il corsetto sia stato in molti casi una vera prigione in grado di provocare gravi danni alla salute, per secoli la donna non ha saputo rinunciarvi. Persino nel nuovo millennio il bustier - come viene chiamato oggi - conosce un revival e diventa protagonista dell’underwear. Iper-femminile e sexy per la sera, più sportivo e casual durante il giorno, il corsetto in versione post-moderna continua a nutrire le più segrete fantasie femminili. La storia della lingerie scorre parallela a quella della liberazione femminile: la donna, imprigionata in busti rinforzati da stecche di balena, mutande con i lacci, scomodissime giarrettiere, ora si avvolge in indumenti leggeri che sfiorano la pelle accarezzandola. Una galleria immaginaria di camice, crinoline, corsetti, guaine, calze di seta, mutandine di ogni forma e colore rivela il passaggio dagli anni del castigo a quello della seduzione, manifestando il lungo cammino della donna dalla morigerata dimensione casalinga all’immaginario più sfacciatamente erotico: compare il babydoll che seduce, il reggiseno che abbraccia e sostiene e la sottoveste che, invece di nascondere, rivela. Ad ogni epoca corrisponde una diversa concezione di vestiario intimo: per essere alla moda, la donna doveva mostrarsi virtuosa alla fine del Rinascimento, libertina nel XVIII 8


secolo e oggi libera di scegliere naturalmente il proprio “guscio”, ma senza mai rinunciare a sognare e far sognare. Il presente lavoro in primo luogo esamina il corpo che nel corso dei secoli, e soprattutto in determinate culture, è stato soggetto a interventi esterni rivolti all’alterazione dei suoi aspetti originali, per renderlo più bello e allettante. Alterazione e costrizione del corpo, volontaria o meno, il cui effetto è visibile solo in tempi lunghissimi, come la deformazione craniale e del collo, la compressione della cassa toracica, la fasciatura del piede. Oppure, in modo opposto: rapidità di azione e tempestivo raggiungimento della forma desiderata, con interventi chirurgici veri e propri: chirurgia plastica, ricostruttiva o estetica o mossa da finalità artistiche/professionali. Il corpo quindi come luogo di sperimentazione, come luogo estremo della mutazione. Il primo capitolo comprende ed analizza tutto ciò, partendo da una delle pratiche più cruente fra quelle conosciute in campo antropologico: le iscrizioni, i marchi, i segni corporali, le cosiddette: “mutilazioni genitali femminili (MGF)”. Pratiche che comportano modificazioni permanenti sul corpo e che includono una vasta gamma di operazioni secondo regole determinate e stabilite dal gruppo sociale di riferimento. Pratiche che causano numerosi rischi per la salute e la sopravvivenza stessa delle vittime, privandole, oltre che dell’integrità fisica, anche del loro “essere donne” e di una normale ed equilibrata vita sessuale. Rituali che non coinvolgono solamente molti paesi africani, ma anche l’Estremo Oriente e l’Australia e, recentemente, l’Europa e gli Stati Uniti a seguito dei consistenti flussi migratori internazionali. Successivamente è descritto l’uso del corpo come mezzo d’espressione e linguaggio, a cui ricorrono sempre più pittori e scultori contemporanei di diverse estrazioni. L’utilizzo del corpo come espressione artistica, nato nelle sperimentazioni della Body art negli anni Sessanta e sviluppatosi negli anni Settanta, è cambiato in questo fine secolo verso l’esperienza tecno-mutativa. Sono delineate a tal fine le biografie artistiche di alcuni tra i nomi più luminosi dell’arte performativa contemporanea, nomi che hanno caratterizzato la scena degli ultimi decenni: Orlan, Franko B, Stelarc, Jana Sterbak, Matthew Barney. Si passa poi alle pratiche di decorazione corporea permanente - definite Body Marking/Modification, riferite a: tatuaggi, scarificazione, branding, implants, body corset/piercing - pratiche 9


carnali che marcano in modo indelebile la corpo-realtà. Infine è analizzato uno degli argomenti a me più cari: l’alterazione busto/toracico, il cosiddetto, Tight-Lacing - che letteralmente significa “allacciatura stretta”. È una pratica feticista che consiste nel cercare di ottenere il “vitino di vespa” più sottile possibile tramite l’applicazione di corsetti inverosimilmente stretti fino a deformare il giro vita, portando così l’arte del corsetto all’estremo. Tight-lacer esemplare è Ethel Granger (1905-1982) - donna dal vitino di vespa più sottile di tutti i tempi, che negli anni ridusse la misura della sua vita da 59 centimetri a 33 centimetri. Il capitolo si conclude con la descrizione di due tra i più interessanti e attuali tight-lacers: Cathie Jung (1973) e Mr. Pearl (1962). Il secondo capitolo descrive l’origine e l’evoluzione del busto/ corsetto di moda femminile nei secoli, con un paragrafo dedicato alla moda Vittoriana - quando, da oggetto di costrizione, il busto diviene strumento di seduzione e capo d’abbigliamento, il cosiddetto bustier - versione moderna dell’antico bustino, creato per essere portato in vista; capo must e ricorrente soprattutto nelle collezioni di Jean Paul Gaultier e Dolce & Gabbana. Il paragrafo seguente descrive l’intimo femminile e la sua evoluzione, che è contemporanea a quella della emancipazione femminile. Qui si segna il passaggio dalla condizione sociale di costrizione del busto/ corsetto, dei mutandoni (braghesse) lunghi fino al ginocchio, delle giarrettiere, di nastri, ganci e bottoni - tutti elementi questi che sottolineavano la schiavitù, l’impaccio e la difficoltà di movimento a quella della libertà. Le donne si liberano quindi del busto, grazie ad accessori più comodi ma continuamente aderenti e sempre più sexy. Il Novecento, in tal senso, è stato un secolo rivoluzionario, un secolo di liberazione che ha visto molteplici stravolgimenti nel mondo dell’intimo femminile, dovuti soprattutto all’industrializzazione e alla scoperta di nuovi materiali e nel quale, in modo particolare, si assiste alla nascita del reggiseno. Per meglio precisare tale processo di cambiamento, si sceglie di presentare una tra le più attuali lingerie firmata Victoria’s Secret, prestigioso marchio americano a livello mondiale. Il terzo capitolo descrive la connessione tra moda e feticismo, con particolare riferimento al corsetto. Esso è stato uno dei primi articoli d’abbigliamento trattato come feticcio, e resta ancora oggi uno dei più importanti capi della moda fetish. 10


Successivamente è approfondito uno tra gli stili più controversi nella moda, il cosiddetto stile punk, con un paragrafo dedicato a Vivienne Westwood, vera e propria “musa del punk”. Altro paragrafo è dedicato a Thierry Mugler, fashion designer francese molto curioso e singolare, con un stile molto personale. Il suo lavoro è attraversato da una visione anatomica della linea: i corpi scolpiti da abiti che disegnano spalle esagerate e strizzano il punto vita, un look anatomico e classico, dinamico e affusolato allo stesso tempo. Quindi è analizzato il fascino erotico della lingerie femminile e maschile, con un approfondimento sui costumi e materiali fetish nella moda: gomma, cuoio, pvc, latex. Infatti essi esprimono un potente fascino erotico in virtù delle loro caratteristiche tattili, olfattive e visive e per le loro associazioni simboliche. Oggi, il latexwear più sofisticato, malizioso e sensuale è firmato Atsuko Kudo, designer giapponese che riesce a conciliare il tocco aggressivo di un materiale provocante per eccellenza con linee raffinate da sofisticata lady degli anni ’40. Il capitolo si conclude con la presentazione di uno spettacolo parodistico molto particolare: il Burlesque - nato nella seconda metà dell’Ottocento nell’Inghilterra Vittoriana ed importato successivamente negli Stati Uniti - e del New Burlesque - nato negli anni Novanta sull’onda della moda legata alla cultura vintage, con uno specifico approfondimento sui costumi e sugli accessori indossati dalle Burlesque-girls. Dita Von Teese, fashion icon per il suo stile vintage e sofisticato, ha fatto sì che il suo personaggio divenisse il massimo rappresentante del genere. Il quarto capitolo delinea le ultime tendenze dello stilismo di moda. Vi sono mostrate le schede biografico-aziendali di stilisti e designer di moda che - da Giorgio Armani a Christian Dior, Jean Paul Gaultier, Alexander McQueen, ecc. - hanno creato e presentato il corsettobustier nelle loro collezioni e passerelle utilizzando svariati tessuti, proponendolo in diverse versioni: elegante (abito-bustier), lungo, in satin, seta, velluto, pizzo; o moderno e originale, in metallo, legno, carta, plastica, gomma, pvc. Riaffiora quindi uno dei miti dell’immaginario maschile, rivisitato, perfezionato e riattualizzato, trasformato da strumento di tortura ad accessorio-capo super glamour.

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Il quinto ed ultimo capitolo raccoglie i materiali del progetto di tesi: elaborati, nuove tecniche progettuali e visual inspirations, ispirati alla moda “Steampunk”: abbigliamento d’epoca in versione moderna - retro-futurista, con particolare e specifico riferimento alle collezioni moda create e presentate dai designer Bibian Blue, Maya Hansen e Skin.Graft Designs. L’esito finale è caratterizzato dalla realizzazione personale di tre corsetti, creati principalmente con l’utilizzo di pelle/ similpelle, latex e applicazione metalliche, quali: anelli, catene, fibbie, ganci e con l’aggiunta di accessori propri dello stile Steampunk come l’orologio da taschino con cassa color bronzo. Il tutto correlato da una serie di fotografie in versione stampata e digitale e un video che mostrano i corsetti indossati dalle rispettive modelle.

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Capitolo I

Breve Semiotica del Corpo Deformato I.1. Le mutilazioni genitali femminili Non c’è parte del corpo che nel corso dei secoli e in diverse culture sia rimasta esente da interventi esterni finalizzati all’alterazione dei suoi aspetti originali, per conformarsi a un ideale di bellezza continuamente soggetto a mutamento. I sistemi culturali riconoscono, a secondo di variabili che diremo, un’importanza diversa alle parti del corpo. In buona sostanza s’intende dire che ciò che una certa cultura giudica attraente può suscitare repulsione ed essere considerato alla stregua di pura barbarie da un’altra. È questo il caso, ad esempio, della bellezza e del suo giudizio: si altera il proprio corpo per renderlo bello e desiderabile perché sia conforme all’ideale prevalente nel sistema culturale di appartenenza o, per converso, anche ad esso difforme. Da tali considerazioni preliminari discendono, forse - ed è ciò che in questa sede, per diversi avvisi, s’intende mostrare - le “sculture di carne”. Per sculture della carne s’intendono due diversi tipi di trasformazione del corpo: da una parte le alterazioni indotte attraverso la costrizione fisica il cui effetto è riconoscibile solo in tempi lunghi e che prevedono una ferrea, lenta, disciplinatissima coercizione del corpo. A questa categoria ascriviamo i casi in cui il soggetto si dispone a farsi alterare il fisico volontariamente o meno - come la deformazione craniale, pratica antichissima diffusa in diverse parti del mondo, la compressione della cassa toracica indotta dal corsetto vittoriano, la fasciatura del piede per le cortigiane cinesi, la deformazione ad arco del piede provocata dai tacchi a spillo. Dall’altra gli interventi chirurgici veri e propri, che funzionano nel modo opposto: rapidità di azione e immediato raggiungimento della forma desiderata, che la si chiami chirurgia plastica, ricostruttiva o estetica, ovvero mossa da finalità artistiche, professionali, estetico/estatiche, necessitate/ anti. 13


Anche le cosiddette “mutilazioni genitali femminili” (MGF) rientrano fra le pratiche conosciute in campo antropologico come iscrizioni/marchi/segni corporali, che comprendono una vasta gamma di operazioni tendenti a modificare lo stato naturale del corpo umano secondo regole determinate stabilite dal gruppo sociale di riferimento. Le modificazioni dei genitali femminili, come anche quelle maschili, rientrano in una complessa grammatica culturale; in tal senso si può affermare che il corpo della donna è sempre stato considerato, sin dai tempi più antichi, come una tavoletta di cera, una superficie su cui scrivere, leggere, interpretare e decodificare segni o simboli. La ricaduta globale di tali attitudini è tuttavia, oramai “estesa”. Si pone il caso a noi più prossimo nel contemporaneo, in Italia come in altre nazioni d’Europa, società “civili” che vengono periodicamente a confrontarsi con la questione delle cosiddette “mutilazioni genitali femminili”, pratiche che comportano modificazioni permanenti sul corpo della donna. Un fenomeno di portata ampia che non riguarda più solamente i Paesi un tempo in via di sviluppo (PVS) ma anche diverse realtà del Nord del mondo interessate da flussi migratori. Così l’Africa non è più l’unico continente interessato al fenomeno, né le operazioni che modificano in maniera permanente e a scopo non terapeutico i genitali femminili, trovano le loro motivazioni nella religione islamica, come a torto viene fatto intendere, poiché esse vengono eseguite in contesti che spesso non hanno alcun rapporto o fondamento con le religioni rivelate. Le donne che hanno subìto un’alterazione degli organi genitali con finalità non terapeutiche, in realtà non hanno piena consapevolezza del tipo di operazione eseguita su di loro. Talvolta capita che, addirittura sulla soglia dei trent’anni e più in là, le visite dal ginecologo siano pressoché inesistenti o vengano ridotte allo stretto indispensabile, limitate al periodo della gravidanza o in caso di disturbi piuttosto evidenti. Questo tipo di atteggiamento pone innumerevoli interrogativi che hanno a che fare tanto con l’aspetto soggettivo di colei che ha 14


subìto l’operazione, quanto con l’incontro e il confronto con il bagaglio di conoscenze di cui dispone il personale medicosanitario nel suo insieme. Molti medici ginecologi, ma anche il personale infermieristico e ostetrico, non vengono ancora oggi adeguatamente formati a una sensibilità socioculturale, sicché non sempre sono in grado di riconoscere il tipo di pratica posto in essere né tanto meno riescono ad intervenire o a gestire queste problematiche in maniera efficace. I.1.1. Modificazioni/alterazioni a carattere temporaneo e a carattere definitivo Una prima e opportuna distinzione riguarda le modificazioni/ alterazioni a carattere temporaneo, ovviamente diverse dalle modificazioni/alterazioni a carattere definitivo. Quelle a carattere temporaneo si contraddistinguono per la loro reversibilità ed esteriorità. Rientrano in questa tipologia, per esempio, le operazioni legate all’abbigliamento o alla cosmetica come l’acconciatura, il trucco o l’abbronzatura; esse hanno primariamente a che vedere con una dimensione sociale di gestione del corpo, che varia tanto nel tempo quanto nello spazio. Quest’ultima non è universale, poiché non coinvolge allo stesso modo tutti gli individui che appartengono alle diverse società; inoltre, essa assume e ha assunto, nel corso del tempo, significati molto diversi, talvolta opposti. Un esempio è quello dell’abbronzatura. Anche solo un secolo fa essere abbronzato significava l’esatto contrario di ciò che significa oggi: non sinonimo di bellezza e di benessere psicofisico ma piuttosto simbolo di appartenenza a uno status sociale determinato, come quello di bracciante agricolo, del pescatore o simili. Inoltre, benché si abbia a che fare essenzialmente con attività esteriori, esse spesso hanno conseguenze di medio e lungo periodo che possono rivelarsi non solo irreversibili ma anche molto dannose per la salute degli individui. Il riferimento è all’esposizione del corpo ai raggi solari e al continuo aumento in termini percentuali del tumore della pelle, ma può essere esteso a conseguenze peggiori, spesso 15


irreversibili, di quel processo molto in voga fra i giovani di alcuni paesi del continente africano che va sotto il nome di “depigmentazione” dell’epidermide. Il tratto distintivo delle modificazioni o alterazioni a carattere definitivo, invece, è la loro irreversibilità; tra esse consideriamo quelle a carico degli organi genitali, e specificamente quelle poste in essere senza una finalità terapeutica. Queste modificazioni irreversibili vengono classificate in tre grandi categorie descrittive: A carattere riduttivo: sono tutte le operazioni a carico degli organi sia genitali sia extragenitali, che hanno lo scopo di modificare in maniera riduttiva un organo del corpo femminile. Sui genitali le più note e citate attualmente sono l’escissione e l’infibulazione, mentre meno ricordate sono tutte quelle pratiche a carico degli organi interni, come la castrazione o la sterilizzazione. La castrazione della donna mediante asportazione delle ovaie ha origini remote. Le prime testimonianze risalirebbero al 1500, mentre la sterilizzazione femminile viene considerata come pratica anticoncezionale della medicina occidentale e l’origine risale alla fine del secolo scorso; essa viene ancora oggi ottenuta attraverso quella che comunemente viene chiamata “legatura delle tube”. La castrazione e la sterilizzazione rientrano a pieno titolo nella pratica criminale della medicina nazista e riguardavano donne appartenenti a determinate categorie come le malattie mentali o le donne nomadi. Accanto a questi interventi sugli organi genitali esterni e/o interni ne esistono altri di natura extragenitale che si traducono in vere e proprie deformazioni di una parte del corpo, per esempio le ben note deformazioni dei piedi delle donne cinesi - Loto/Gigli d’oro, pratiche duramente condannate e definitivamente abolite nel 1909. Il restringimento del piede veniva ottenuto attraverso una prolungata compressione per fasciatura molto stretta del piede stesso, che veniva ad assumere una forma considerata sinonimo di bellezza e molto apprezzata dagli uomini perché erogena. Un ulteriore caso di 16


modificazioni a carattere riduttivo a scopo non terapeutico era costituito dalle ablazioni o asportazioni del seno, poste in essere a fini rituali con l’impiego della strumentazione più varia, come l’amputazione mediante utensili di ferro o la cauterizzazione con il fuoco. Negli ultimi anni, molte giovani donne si praticano o si fanno praticare l’asportazione di superfici di pelle più o meno estese a cui viene dato il nome, mutuato dall’inglese, di peeling. Le operazioni vengono così schematizzate: Interventi a carico degli organi genitali Escissione (clitoride, labbra); Restringimenti vaginali, infibulazione (perineo); Castrazione, sterilizzazione (utero). Interventi extragenitali Deformazioni (piedi); Ablazioni (mammarie); Peeling. A carattere espansivo: sono quelle operazioni che tendono a modificare artificialmente in senso espansivo tanto gli organi genitali quanto altri organi. Per quanto riguarda l’apparato genitale, gli allungamenti clitorido-labiali consistono nella manipolazione labiale e clitoridea attraverso massaggi digitali e l’applicazione di alcuni preparati a base di sostanze vegetali. Tipi di alterazioni che comportano una ipertrofia degli organi genitali esterni sono registrati nel Dahomey, in Uganda, in Tanzania e nel Benin, dove si pratica l’allungamento della clitoride attraverso l’applicazione di succo d’arancia amara e di una serie di massaggi, con lo scopo di accrescerne la dimensione, simbolo dell’attività sessuale a fini procreativi. Tra le operazioni extragenitali, senza dubbio le più conosciute, e anche maggiormente praticate, sono le deformazioni a carico degli apparati bucco-labiale e otorino; si ricorda l’inserimento progressivo di piattini labiali nel labbro inferiore di alcuni giovani appartenenti a gruppi che vivono in Amazzonia o 17


altrove, e i diversi monili applicati sul lobo dell’orecchio con lo scopo di ottenere un allungamento progressivo che sancisce determinati periodi della vita dell’individuo. Coinvolge anche moltissimi giovani che vivono in Occidente, che vi fanno ricorso per sentirsi parte di un gruppo, nell’ambito di quelle che i sociologi hanno definito più correttamente come sottoculture, le cosiddette tribù metropolitane. Anche in questi casi i giovani impiegano un termine inglese: stretching. Oggi molto in voga sono quelli che vengono definiti impianti sottocutanei per cui, attraverso l’inserimento sottopelle di determinati elementi metallici, per esempio biglie, si tende a provocare una espansione e un corrispondente innalzamento del derma, che viene in tal modo ad assumere un aspetto/ disegno particolare. Un caso a parte riguarda poi l’ipermastia, o accrescimento delle mammelle, che assume significati diversi a seconda del contesto in cui viene praticata. Oggi l’operazione più in voga in questo senso è quella della chirurgia estetica, che sta diventando sempre più richiesta nei paesi occidentali. Anche nei contesti tradizionali l’allungamento dei seni e delle mammelle veniva eseguito essenzialmente per motivazioni legate all’estetica. In alcune comunità del Sahara le donne valutavano la loro bellezza in base alla lunghezza dei seni, sicché, a partire dall’età puberale, per allungarli il più possibile erano solite legarli servendosi di corde. Meno nota è l’operazione che prevede un ingrassamento del corpo ottenuto attraverso la somministrazione forzata di alcuni alimenti per un determinato periodo di tempo. E’ il caso noto in Mauritania come gavage, per cui le bambine mauri in età prepuberale vengono sottoposte a un particolare rituale che ne prevede l’ingrassamento mediante la somministrazione quotidiana di una determinata quantità di alimenti, fra cui svariati litri di latte di cammella. Le operazioni vengono così schematizzate: Interventi a carico degli organi genitali Allungamenti (clitoride, labbra); Dilatazioni vaginali.

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Interventi extragenitali Deformazioni stretching (bocca, orecchie); Distensioni mammarie; Ingrassamento artificiale; Impianti sottocutanei. Altre modificazioni o alterazioni: sono quelle operazioni che non si caratterizzano per il restringimento o l’allargamento di un organo ma che a pieno titolo alterano o modificano in maniera permanente l’organo o gli organi coinvolti. Fra queste, quelle a carico degli organi genitali consistono nella “deflorazione rituale”, conosciuta in contesti molto diversi, ma anche nell’introcisione e in tutta una serie di pratiche abortive. L’introcisione, eseguita presso alcuni gruppi di aborigeni del deserto centrale dell’Australia, è stata descritta con l’espressione atna araltakama, che letteralmente significa taglio della vulva. Essa consiste in una dilatazione brutale dell’orifizio vaginale, con deflorazione e lacerazione della commisura vulvaria posteriore. Questo tipo di pratica, eseguita come preludio al matrimonio, era effettuata da un operatore rituale il quale, prima di consegnare la giovane al futuro marito, doveva avere con lei un rapporto sessuale. Dal punto di vista delle conseguenze, si possono considerare in questa categoria anche quelle pratiche abortive che, essendo eseguite con strumenti non adatti allo scopo e in circostanze o in strutture altrettanto inadeguate, comportano alterazioni definitive e permanenti degli organi genitali. Nelle alterazioni definitive non a carico degli organi genitali vanno fatte rientrare tutte le modificazioni tegumentarie: quelle del collo, del tronco-torace nonché le scarificazioni-incisioni dell’epidermide mediante uno strumento affilato che, una volta cicatrizzate, lasciano sull’epidermide stessa un cheloide, e i tatuaggi-disegni e grafismi, che vengono disegnati sul corpo attraverso la picchiettatura ripetuta sulla pelle con uno strumento appuntito, immerso in una sostanza colorata che permane indelebilmente sulla pelle. Le deformazioni del collo sono praticate generalmente sulle giovani donne attraverso 19


l’applicazione progressiva di anelli, collari che modificano irreversibilmente la struttura ossea del collo stesso. L’esempio più conosciuto è quello delle donne giraffa Padaung della Birmania, che di fatto si avvicina molto alle tremende costrizioni toraco-addominali dei corsetti, che fecero la loro comparsa in Occidente inizialmente sotto forma di fasciature molto strette, per diventare nei secoli successivi un accessorio intimo molto diffuso. La fasciatura riguarda anche la testa e le modificazioni/deformazioni a carico del cranio, come nel caso di alcuni gruppi di pigmei dell’Africa subsahariana. Diffusa in varie società africane era anche la limatura rituale dei denti. Alcune pratiche oggi vengono riattualizzate in una forma e in un linguaggio moderni, e spesso attraverso questi nuovi usi vengono invertiti gli antichi valori negativi che erano loro associati. Si potrebbero leggere in questo senso i segni lasciati sulla pelle: dal cutting, ovvero l’iscrizione di figure geometriche o di disegni all’inchiostro sotto forma di cicatrici, realizzate grazie all’utilizzazione di uno scalpello o di altri strumenti taglienti; dal branding, che consiste in una cicatrice in rilievo disegnata sulla pelle attraverso l’applicazione di un ferro rovente o con il laser; dal burning, cioè l’impressione sulla pelle di una bruciatura provocata deliberatamente e colorata con inchiostro o pigmenti. Le operazioni vengono così schematizzate: Interventi a carico degli organi genitali Deflorazione rituale; Introcisione; Pratiche abortive. Interventi extragenitali Deformazioni (tronco-torace, collo, denti, cranio); Scarificazioni; Tatuaggi; Cutting; Branding; Burning. 20


I.2. MGF: origine, età relativa alle pratiche e conseguenze psicologiche La mutilazione genitale, nella molteplicità delle sue modalità di esecuzione, è una pratica diffusa soprattutto in Africa, ma è ampiamente in uso anche in alcuni paesi dell’Oriente e dell’America Latina, nonostante la diffusione al di fuori del continente africano non sia casisticamente documentata. E’ una pratica cruenta che si inserisce in contesti culturali particolari, assumendo le caratteristiche di espressione simbolica di un complesso sistema economico-sociale di strategie matrimoniali, diffuso in maniera capillare soprattutto nell’Africa subsahariana. La ricostruzione dell’origine delle MGF non è di certo semplice, data la varietà delle forme e la vastità delle zone in cui vengono praticate. E’ certamente una tradizione molto antica, situata cronologicamente e geograficamente in un’area dai contorni indefiniti comprendente il Vicino Oriente antico e l’Egitto faraonico. Le pratiche di mutilazione sarebbero presenti fra gli Egiziani e gli Etiopi, mentre i Siriani e coloro che abitavano la Palestina ne avrebbero appreso l’usanza successivamente e proprio dagli Egizi. L’escissione era dunque conosciuta in Egitto prima della nascita di Cristo e si sarebbe mantenuta anche dopo la conversione di quelle popolazioni al Cristianesimo o all’Islam. I dati in possesso in realtà sono pochi e disorganici; gli accenni in autori greci e latini testimoniano solo dell’esistenza antica di notizie che però non sono in grado di fornire ulteriori elementi sulle pratiche stesse. L’unica cosa certa e generalmente accettata è che non è stato l’Islam ad introdurle in Africa. Si tratterebbe dunque di rituali indigeni profondamente radicati nelle società locali e preesistenti alla penetrazione dell’Islam nella Africa subsahariana o centro orientale, iniziata nel 1050 dopo essersi assestata nei secoli precedenti nell’Africa mediterranea. Per quanto riguarda l’età, essa varia ampiamente a seconda della tipologia di mutilazione genitale eseguita, dall’ambiente di vita e dall’etnia. La letteratura etnografica ha posto in evidenza quanto sia complesso stabilire un nesso univoco tra 21


età ed intervento, sottolineando quanto sia difficile stabilire una età precisa anche in riferimento a una medesima area geografica, se non addirittura in relazione a uno stesso gruppo etnico. Il caso dei Lobi1 dell’attuale Burkina Faso risulta a questo proposito esemplare. Si distinguono ben tre tipi di escissione per i differenti sottogruppi che li componevano: presso i Dan2 l’escissione, le scarificazioni facciali e ventrali, la rasatura delle teste della madre e della figlia venivano eseguite il quarto giorno dopo la nascita, che corrispondeva circa alla fine del periodo di reclusione post parto; tra i Birifor3 e Téguessié4, l’escissione avveniva al diciassettesimo anno di età, senza particolari cerimonie, al domicilio o in luogo appartato nei pressi del mercato; mentre fra i Dorossié5 e i Gan6, l’operazione era prevista nei giorni che precedevano il matrimonio. Un caso analogo a questo era quello dei Gourmantché7 della regione di Diapaga, Alto Volta, oggi Burkina Faso, dove non tutti i gruppi praticavano l’escissione; là dove questa veniva praticata era di due tipi e riguardava soggetti assolutamente differenti. La ti dzoo’ bwan-di - escissione nera, veniva praticata sulle bambine in tenera età; mentre la ti dzoo’ pian-di - escissione bianca, coinvolgeva al contrario le giovani donne nubili qualche giorno prima del matrimonio, e comunque prima che avessero raggiunto la casa del marito. In Siria le giovani dovevano avere circa quattordici anni, mentre in Basso Egitto un’età compresa fra i nove e i dodici. L’escissione Malinké8 chiamata bolokoli aveva luogo ogni due anni in ogni villaggio e riguardava le ragazze di età compresa tra i tredici e i quindici anni; questo dato sarebbe invece cambiato in epoche piuttosto recenti: i Malinké attualmente eseguirebbero l’operazione sulle bambine in età inferiore, cioè poco prima della pubertà. Altre volte non è nemmeno stabilito un periodo più o meno preciso, come nel caso della società Coniagui9 della Guinea, dove l’escissione veniva praticata individualmente su ragazze le cui età variavano di volta in volta, secondo il grado di maturità in vista dell’assunzione di un futuro ruolo di moglie. 22


L’operazione infatti viene eseguita in un momento ritenuto propedeutico al matrimonio. Risulta confermato che le pratiche escissorie avrebbero progressivamente perso il loro carattere collettivo per divenire oggi, soprattutto in contesto migratorio, una pratica individuale posta in essere sempre di più in privato, se non in segreto e in età sempre più bassa. In relazione all’età è altrettanto importante sottolineare che a differenza del contesto di provenienza, in ambito migratorio non è detto che si riescano a rispettare date e scadenze, poiché non è detto che si riescano a reperire operatrici rituali disposte ad agire in clandestinità con il rischio (presente in Francia o in Gran Bretagna) di venire condannate anche a molti anni di reclusione. L’età varia quindi a seconda della funzione e del significato simbolico che un determinato gruppo sociale attribuisce loro, dell’area e del contesto in cui vengono praticate. Che si tratti di ragazzi o di ragazze, la persona che esegue materialmente l’operazione non può essere un individuo qualunque: in un caso come nell’altro si tratta comunque di iniziati, cioè di individui a cui la società tutta ha riconosciuto un ruolo determinato: quello di intervenire su un corpo al fine di apportare quelle correzioni culturali che trasformano un corpo biologico in uno culturale. Gli strumenti utilizzati variano da coltelli rituali costruiti ad arte oppure attrezzi rudimentali, come pezzi di vetro, di coccio o lamette da rasoio che comunque entrano a far parte integrante dell’apparato rituale. In generale la persona che compie materialmente l’operazione sul corpo della donna è quasi sempre una donna iniziata, spesso anziana, il cui sapere viene tramandato nel corso del tempo e generalmente di madre in figlia, ma priva di conoscenze chirurgiche. In Somalia, è la gedda, letteralmente la nonna, intesa non tanto dal punto di vista parentale quanto come anziana del villaggio. Nel Mukanda10, il rituale di circoncisione dei ragazzi ndembu dello Zambia, emerge con chiarezza: il ruolo del circoncisore spetta al più abile nell’uso del coltello e al più esperto 23


nelle pratiche magiche e mediche connesse all’operazione. Nyaluhana11, che era stato il circoncisore anziano in non meno di tre occasioni, per diventare tale era stato sottoposto negli anni a lungo apprendistato e tutta la comunità gli aveva riconosciuto quel ruolo. Presso i Malinké l’iniziazione dei ragazzi veniva affidata a quattro figure ben determinate: il fabbro circoncisore; un horon - vecchio notabile incaricato di esorcizzare l’allontanamento dei nuovi circoncisori; due sema - sorveglianti di cui uno incaricato di lenire le piaghe e di insegnare le regole dell’igiene; infine un damko che si occupava della formazione dei neofiti. Per quanto riguarda l’escissione femminile, invece, l’operazione avveniva alla presenza di una semamoso - anziana incaricata di sorvegliare la giovane inizianda. Molteplici sono i fattori che possono aggravare il danno provocato dall’operazione, come l’impiego di strumenti rudimentali che amplificano la portata e la gravità delle lesioni, le pessime condizioni igieniche in cui gli interventi vengono praticati, il luoghi angusti scarsamente illuminati, gli attrezzi utilizzati per più interventi e mai sterilizzati, che il più delle volte si trasformano in veicoli di trasmissione di importanti e gravi patologie. Le madri e le nonne in taluni contesti preparano nel corso della vita le loro figlie e nipoti al momento in cui verranno sottoposte a una delle operazioni. Si tratta di una vera pedagogia, di una lunga fase propedeutica all’evento, per cui, nel corso degli anni, anche attraverso racconti mitici, le donne più anziane insegnano a quelle più giovani come cambierà la loro vita. L’operazione non viene realmente descritta nei particolari, quanto piuttosto nei suoi significati e nelle sue motivazioni. Ciò che conta per queste figure materne è soprattutto trasmettere alle figlie quale tipo di condotta dovranno tenere da adulte, come dovranno comportarsi una volta diventate a loro volta mogli e madri. Ci sono casi in cui invece le madri ma anche le nonne non raccontano nulla alle più giovani, lasciando così che esse scoprano da sole, attraverso l’esperienza del dolore, l’istituzione del loro ruolo. La figura delle operatrici rituali, 24


insieme con le altre figure femminili coinvolte di madri, nonne e suocere, nel corso del tempo ha progressivamente cambiato di senso. Già da molti anni infatti le exciseuses sono nell’occhio del mirino per quella che viene ritenuta una vera e propria professione e sempre più, una volta accertata la loro responsabilità, vengono coinvolte in processi penali. La sofferenza e il dolore dell’operazione subìta risultano essere elementi fondamentali delle pratiche rituali. L’esperienza del dolore ha sempre avuto una valenza formativa legata alle prove cui vengono sottoposti gli iniziati. Imprimere sofferenze è uno dei modi di infondere coraggio ai ragazzi; questi trattamenti li trasformeranno in uomini capaci. Poiché il dolore ha sempre rappresentato l’elemento comune, ma anche il presupposto dei segni corporali - dai tatuaggi alle scarificazioni sino alle operazioni eseguite sui genitali e in quanto tale non può essere esternato bensì deve sempre essere dissimulato - esso non va mai manifestato in alcun modo, che si tratti di un ragazzo o di una ragazza. Mentre per gli uomini il dolore, in quanto prova di forza, rientra in un apprendistato costante legato alla costruzione del loro genere in una dimensione di conflitto ed aggressività, per le donne la sopportazione del dolore diventerebbe un mezzo per rivaleggiare con gli uomini del gruppo, dimostrare loro come esse saranno capaci per tutta la durata della loro vita di sopportare prove difficili, quanto se non più di quelle che sopporteranno gli uomini. Il silenzio e la sopportazione da parte delle donne di quel particolare dolore assume anche un valore aggiuntivo, primariamente legato a una identificazione con la figura materna e con le sue funzioni di responsabilità nella casa, ma anche con i poteri che questa sembra detenere agli occhi della figlia e sugli uomini, primo fra tutti il padre. Tutte le pratiche di MGF comportano la rimozione di una parte o dell’intero clitoride, che è il principale organo sessuale femminile, e possono lasciare un segno indelebile nella vita e nella psiche delle giovani donne. Le complicazioni psicologiche possono radicarsi profondamente nella loro mente, nel loro subconscio, per esplodere infine in disturbi 25


comportamentali. Dal punto di vista psicologico, le donne vittime delle pratiche mutilatorie possono soffrire di ansietà e depressioni, di sensazione di incompletezza, di irritabilità croniche, di frigidità, di disturbi del comportamento e di malattie psicosomatiche: insonnia, psicosi, disturbi dell’alimentazione e dell’apprendimento. In età adulta si osservano frequentemente sentimenti di insicurezza, ansia, fobie, attacchi di panico. Traumatizzate dalla mutilazione subìta, molte donne si chiudono in se stesse, non esprimono i loro sentimenti e non esternano le loro paure, soffrendo così in silenzio per tutta la vita. I.3. Il corpo delle Donne Che il corpo femminile rivesta un ruolo significativo, anzi centrale, nella nostra cultura e storia della cultura, non costituisce più una novità. Il corpo femminile è altro se commisurato al corpo maschile come norma. Il corpo della donna si trasforma nel corso della vita, sia ciclicamente, durante il ciclo mestruale, sia irreversibilmente, nel processo di invecchiamento. I corpi femminili, come anche quelli maschili, si assomigliano per molti aspetti, ma non per tutti: ad esempio, forma, bellezza, colore della pelle danno luogo a considerevoli differenze socio-culturali tra donne. Diversa è tra uomini e donne, ma anche tra donna e donna, l’esperienza e percezione della corporeità stessa, l’esperienza di avere un corpo, di essere un corpo, corpo negato, corpo affermato, corpo come prigione o come vitalità, come sofferenza o come risorsa. Le donne hanno una storia in quanto donne, ed essa è diversa da quella degli uomini. Nondimeno essa non è la stessa per tutte: anche la sua molteplicità è legata alla complessa storia dell’intero sesso femminile. La questione del corpo femminile e la sua storiografia ha origine e consegue alla più ampia questione femminista nel Novecento, psicoanalitica più in generale; cioè quando venne a problematizzarsi il rapporto delle donne con il loro corpo, il rapporto fra corpo e anima femminili, quello fra corpo e anima 26


maschili, il rapporto del corpo femminile con il suo contesto sociale, con gli altri corpi o entità non corporee, così come con le opinioni dominanti, per lo più maschili. Tali rapporti oggi non ci appaiono più come dati o come ovvi, e l’indagine sulla storia del corpo femminile non è più riconducibile alla questione “oggetto”, ma a rapporti umani, a rapporti complessi tra donne e uomini, tra donne e donne, tra uomini e uomini. Corpi femminili e maschili, corporeità femminile e maschile non sono pre-supposti, pre-esistenti, fatti naturali adamici, antico testamentari, ma in massimo grado improntati culturalmente e storicamente. La loro storicità si spinge fin dentro la dimensione più materiale. Basti pensare al ben noto spostamento, verificatosi negli ultimi due secoli, dell’età media in cui sopraggiunge il menarca e la menopausa, o ai diversi aumenti dell’aspettativa di vita media di uomini e donne e all’ampiezza delle relative conseguenze culturali per l’esperienza e per la percezione di malattia e salute, giovinezza e vecchiaia, vita e morte. Il corpo femminile, la sua sessualità e i suoi organi, la procreazione o la maternità, non è dunque un oggetto della biologia ma della storia delle donne e del genere, nella stessa misura in cui donna, uomo, sesso, genere non sono categorie biologiche, bensì categorie socioculturali. La biologia stessa non denota, come cerca di suggerire a priori, qualcosa di non sociale, di pre-sociale o perfino di scientifico, ma è una categoria antropologica che solo da poche generazioni impronta di sé la percezione dei sessi e il rapporto tra di loro. Il concetto di biologia invalso nel XX secolo ha dunque tre significati: in primo luogo è una scienza; in secondo luogo è una dottrina sociale; in terzo luogo è una prospettiva di mutamento attraverso interventi biologici. Già nel pensiero dalle origini ci si riferiva non soltanto al corpo delle donne, ma anche ad altri fenomeni che sarebbero stati poi esclusi nel campo del sociale e della cultura, come è il caso dei “pazzi” e degli “imbecilli”. Per essi, la biologia in quanto scienza naturale, dottrina sociale e dei valori, indicava una prospettiva di mutamento sociale attraverso interventi biologici; in 27


questo senso va letta l’eugenetica, diffusa soprattutto nei paesi di lingua tedesca, inglese e nei paesi scandinavi, che mirava a rigenerare la “stirpe” attraverso la proibizione della nascita di inferiori, malformati o altro. All’estremo di questo discorso, ovvero nel Nazionalsocialismo, tale sforzo condusse alla politica biologicamente fondata della sterilizzazione obbligatoria di centinaia di migliaia di donne e di uomini e infine allo sterminio di massa. Ma la questione andò oltre l’orrore di quegli anni. Ancora negli USA dei ‘50 e ‘60 Dyane Arbus12 intercetta e fotografa le anomalie della società americana (travestitismi, nanismi, gigantismi, ermafroditismi, nudismi, ritardati mentali, omosessualità, prostituzione, ecc.). Nei suoi bassifondi, nelle zone di “confine” culturale, nella segregazione delle pareti domestiche, nei manicomi, a dimostrazione del fatto che quella biologia “culturale e sociale” è ancora strettamente intessuta con il pensiero positivista che genera la biologia come scienza. Bisognerà attendere l’esperienza di Franco Basaglia13 in Italia, ad esempio, e siamo alla fine degli anni ‘70 (1978) 14, perché la anomalia biologica torni ad avere la dignità sociale e la trasparenza che gli era un tempo assegnata, per altri versi e con diverso accento, nel mondo medievale e moderno prepositivista. E oggi la tecnologia biologica, specialmente genetica è così sviluppata da concepire la procreazione umana facendo a meno della biologia, o meglio, del corpo e della corporeità delle donne. La scoperta del corpo, della sua realtà e positività, ha dunque una sua storia “autonoma”, che solo in parte si lega alla medicina ma non si esaurisce in essa, trovando piuttosto la sua collocazione più corretta nell’ambito di una storia della cultura globalmente intesa. Al suo interno, l’evoluzione dell’immagine del corpo femminile ha un ruolo proprio, correlato alla scoperta della corporeità umana globale ma carico di significati simbolici specifici che hanno influenzato fortemente il tipo di interventi curativi praticati sulle donne.

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I.3.1. L’uso del corpo femminile oggi Il corpo è dunque un oggetto sociale. Questa osservazione, tanto ovvia per i sociologi, può stupire o sollevare critiche. E’ infatti difficile pensare al corpo, sede ed espressione della soggettività, come un oggetto, un qualcosa che può essere creato, modificato, trasformato. Altrettanto controintuitivo è affermare che il corpo, contenitore dell’individualità, sia un “oggetto sociale” il cui significato si definisce solo in relazione agli altri corpi ed elementi che animano la società. I corpi quindi sono innanzitutto una costruzione: partendo dalla differenza biologica anatomica maschile e femminile, ogni società ha fabbricato una diversa immagine dell’uomo e della donna; immagine che cambia nel tempo e nello spazio, ma che sempre esprime una precisa visione di cosa competa a ciascuno dei due generi. Queste rappresentazioni recano una divisione sessuale del lavoro e dei ruoli, definiscono i compiti socialmente accettabili per l’uomo o per la donna, gli spazi pubblici o privati che essi possono occupare e, non ultimo, il repertorio di comportamenti e atteggiamenti coerenti con l’ordine costituito. La società quindi produce i corpi, costruisce la loro immagine, ne determina gli usi; divide più o meno rigidamente una sfera pubblica occupata dagli uomini e un focolare domestico governato dalle mogli; stabilisce che in alcune regioni a stretta osservanza coranica le donne debbano indossare il burqa, mentre altrove invita il genere femminile a scoprirsi e a praticare il culto dell’immagine. E’ soprattutto nell’adesione ai canoni estetici che il corpo mostra la sua capacità di essere un segnale sociale, e ciò è particolarmente visibile soprattutto nella “moda”. La moda in quanto forma visibile dell’identità, serve a vestirla, mediata dalla materialità del corpo. Non è certo l’unica pratica che permette di trasformarlo; in questo è affiancata da: diete, pratiche sportive, interventi chirurgici, piercing e tatuaggi. La moda presenta un particolare interesse perché, rispetto alle pratiche appena citate, offre la possibilità di un intervento invertibile sul corpo: l’applicazione di una “seconda pelle” 29


che però può essere rimossa e cambiata ogni giorno e in ogni occasione sociale. Se il corpo è un oggetto sociale, il corpo vestito lo è ancora di più. L’abbigliamento è il biglietto da visita che viene presentato in prima istanza agli interlocutori, nonché un formidabile strumento comunicativo che parla di ognuno sia implicitamente che esplicitamente: implicitamente perché, anche senza volerlo il modo di vestire è rivelatore di una cultura di gusto che si è formata nel tempo nell’ambiente familiare, educativo e lavorativo nel quale si è vissuti: esprime dunque la propria posizione nella società; ma è anche strumento di comunicazione consapevole ed esplicito, cui il consumatore contemporaneo presta sempre più attenzione. Il quadro attuale dei consumi vede degli individui sempre più capaci di cogliere i significati culturali e simbolici della moda. L’immagine è un modo per portare fuori ciò che si ha dentro e l’abbigliamento rispecchia il modo di pensare esprimendo una parte di sé che fatica a venir fuori attraverso la verbalizzazione. I semplici vestiti sono macchine per comunicare la legge del sociale, i suoi ordini, il suo rapporto con il cosmo, le sue gerarchie; la moda è un loro plusvalore fatto di giochi di immagini e di identità molteplici. I vestiti allora finiscono per teatralizzare il corpo, sono giochi dell’apparenza iscritti nel simbolico, la loro atmosfera comunicativa, la modulazione. Il corpo teatralizzato è causa ed effetto di comunicazione. I rituali, i vestiti e la decorazione dei corpi, gli ornamenti, fanno la società e regolano i rapporti con l’altro. Il sistema della moda è essenzialmente un sistema comunicativo con sé e con gli altri: la comunicazione gli è quindi essenziale15. La moda è stata vista per molto tempo come un tema o un problema solo femminile, in quanto le donne sono maggiormente soggette ai suoi dettami per una serie di condizioni e condizionamenti. Oggi i termini della questione sono evidentemente modificati; le dimensioni dell’industria della moda maschile sono sotto gli occhi di tutti, così come l’aumento dell’attenzione da parte degli stessi per l’aspetto estetico: dall’abbigliamento alla cosmesi. E’ evidente che la moda del femminile ha imposto al corpo alcune ferite 30


che non sono ancora oggi completamente sanate, riferite non solo a quelle forme di abbigliamento che deformano il corpo, nell’esempio più comune del corsetto (tight-lacing) ma soprattutto, alle conseguenze sulla sua rappresentazione che emerge nelle immagini di moda diffuse dai mass media. La femminilità che si comunica nelle fotografie di modelle su riviste, giornali e magazine, incorpora l’idea maschile di come in realtà debba essere il corpo femminile, mettendone in evidenza attributi fisici e sessualità. Immagini dove non si parla di abbigliamento ma, attraverso caratteristiche pose che sottovalutano il corpo femminile, del suo semiotico più “ovvio”: sesso e violenza, sensualità provocatoria, amori multilaterali. Ulteriore fonte di critiche è l’aver promosso l’immagine di un corpo femminile non sano, eccessivamente magro, scheletrico, con evidenti i segni di un disagio che può spingersi fino al decesso per l’eccessiva magrezza (40 chilogrammi per 1,74 centimetri di altezza o 23 chilogrammi per 1,70 centimetri). Preoccupa quindi che l’immaginario sociale proponga come orizzonte della perfezione un corpo che, da un punto di vista strettamente clinico, normale non è. Oggi la magrezza esprime le contraddizioni dello statuto della donna nella nostra società almeno sotto quattro diversi punti di vista: il “corpo snello” come liberazione dalla femminilità domestica ed ingresso in un mondo caratterizzato da rigore e controllo, anche del sé; il “corpo magro” come controllo della fame e dei desideri: fattore significativo nelle situazioni di transizione in relazione ai rapporti tra i sessi; il “corpo magro” come simbolizzazione del posto ristretto occupato dalla donna nel mondo; il “corpo magro” come richiamo all’imperativo funzionale di un sé regolato e controllato all’interno della cultura consumista. E’ nel 2007, ancora più di recente nel 2008, che si assiste ad iniziative volte ad invertire la rotta: Il 23 Gennaio, in Spagna, è stato firmato un accordo di collaborazione tra il Ministero della Salute e del Consumo, l’Associazione dei creatori di moda di 31


Spagna, l’Associazione spagnola della maglieria, la Federazione spagnola di imprese della confezione e le principali catene di abbigliamento nazionali - da Inditex a El Corte Inglés, da Mango a Cortefiel a Zara. Scopo dell’accordo, fortemente voluto dal Ministro della Salute Elena Salgado, è quello di promuovere una bellezza salutare, stabilendo come taglia minima per le indossatrici (nonché per i manichini che riproducono fisionomie femminili) la 38 e cessando di considerare la 46 una “taglia forte”. Inoltre, il Governo spagnolo ha avviato uno studio antropometrico su un campione di 8.500 donne di età compresa tra i 12 e i 70 anni, con lo scopo di conoscerne le misure corporali, per mettere a punto misure e taglie corrispondenti alle reali caratteristiche fisiche delle donne spagnole.16 I.4. Il Corpo contemporaneo: l’uso del corpo come linguaggio ed espressione artistica All’uso del corpo come linguaggio ricorrono sempre di più pittori e scultori contemporanei di differenti estrazioni e di differenti tendenze e tecniche. Tuttavia, sono riscontrabili alcuni caratteri che fanno da comune denominatore a questa modo di far arte, come: la perdita dell’identità, il rifiuto del prevalente senso della realtà sulla sfera emozionale, la romantica ribellione alla dipendenza di qualcosa e da qualcuno, le tenerezza come meta mancata e quindi frustante, l’assenza e l’angoscia che ne deriva di una forma adulta, altruistica, d’amore. Alla base di uno dei più controversi movimenti artistici la cosiddetta Body Art c’è: la necessità inappagata di un amore che si estenda illimitatamente nel tempo; il bisogno d’essere amati comunque per quello che si è e per quello che si vorrebbe essere con diritti illimitati, quel che si chiama “amore primario”. L’aggressività che contraddistingue tutte queste azioni: eventi, montaggi di sequenze fotografiche, performance, nasce proprio da tale amore non corrisposto. Si 32


tratta al novanta percento di individui apprensivi ma anche di osservatori estremamente acuti, interessati a un nuovo modo cognitivo con grande intensità d’attenzione e vigilanza. Vogliono provare tutte le possibilità che ci sono date di conoscersi per mezzo del corpo e della sua perlustrazione. La messa a nudo diventa l’estremo tentativo di conquistare il diritto di metterci al mondo di nuovo. Le esperienze sono il più delle volte autentiche e quindi dolorose e crudeli. “Coloro che sentono dolore hanno bisogno di aver ragione”17. Registratori, cineprese, macchine fotografiche, misurazioni e tracciati topografici sono i mezzi cui si ricorre per fermare una quantità di piccoli episodi privati. L’artista diventa, dunque, il suo oggetto. Dunque, tutto (le cose che sono fuori di noi e il nostro corpo, ciò che succede in noi e ciò che succede di noi), si fa predominante. Gli oggetti devono essere la prova che i nostri simili non sono entità isolate rispetto a noi; gli oggetti devono dimostrare che le persone sono o non sono insieme con noi. L’essere insieme o no ci viene rimandato dalla fisionomia delle cose, il rapporto fra l’artista e l’altro ha luogo nell’essere vicini o lontani dagli oggetti. Assistiamo al recupero dell’oggetto amato che poi finisce con l’essere sempre l’elaborazione dell’immagine materna originariamente perduta, al ripristino di questa immagine nel mondo esterno, quale compensazione alle nostre cariche di energia affettiva delusa. Le testimonianze di sé, della propria vita, l’intera sfera del privato vengono impiegate come materiale di repertorio. Tutto diventa recuperabile: una qualunque azione di un qualsiasi momento di una qualsiasi giornata, le proprie foto, le radiografie e le scopìe, la propria voce, tutti i possibili rapporti con gli escrementi e con i genitali, ricostruzione di fatti del proprio passato o messe in scena di sogni, l’inventario degli incidenti di famiglia, la ginnastica, la mimica e le acrobazie, le percosse e le ferite. In ciascuna percezione il corpo è là, esso è il passato immediato in quanto affiora ancora nel presente che lo fugge. Alcuni mettono in atto uno spostamento, un’inversione, una censura attraverso citazioni antropologiche o invenzioni a carattere onirico, 33


altri si fanno, invece, portatori di affabulazioni paradossali e terrifiche, altri ancora, più mitomani, si soffermano sugli choc dell’infanzia e sui transfert dell’adolescenza. Lo spettatore è costretto a ripetere esperienze psichiche per le quali è già passato, a riattivare vecchi conflitti, e la proiezione che istintivamente non può non operare lo rende vittima ed esecutore, al tempo stesso, di quanto gli sta innanzi. Alcuni autori, trattano il proprio corpo come oggetto d’amore, vi attribuiscono funzioni egocentriche ed egoiste, ne esibiscono il culto in ogni quotidiano accidente, ripropongono le situazioni archetipiche della condizione psicologica collettiva, amore-odio, aggressività-riparazione, infierire sull’oggetto d’amore e contemporaneamente, preservarlo o conservarne le tracce. Attraverso il racconto reificato e antropomorfizzato, essi sconfessano la propria aggressività e la rimproverano su qualcosa d’altro, sull’oggetto d’affezione, sul corpo. Il bisogno di cercare situazioni penose o umilianti, il mimare, il far giustizia di se stessi, la coazione dell’autopunizione che può giungere fino al suicidio, l’automutilazione dell’alienato non è che l’esempio più assurdo e terrifico, questo gettare qualcosa di se stessi fuori da sé fino alle forme più orrende di sacrificio resta il principio di un meccanismo che non può avere altro termine che la morte. Mostrare fino in fondo le proprie debolezze fisiche e psichiche è l’unica strada che può permettere a molti di intervenire sulla loro vita. Gina Pane, ad esempio, presenta sempre situazioni legate ad antecedenti, i ricordi, che vengono tradotti nella pièce. Attraverso questa, l’autrice si libera da cariche di affetto bloccato in maniera tanto intensa da rasentare il patogeno. Il grado di eccitazione arriva fino al limite del trauma. Si hanno scariche emozionali mediante le quali ci si chiede se l’autrice si libera del peso dell’evento traumatico o lo sistematizza per tesaurizzarle. Il tema è spesso quello di riempire un vuoto insostenibile, un vuoto-lutto, la perdita dell’oggetto amato. Per la Pane si tratta di amore inteso non più come soluzione compensativa dell’esistere quanto invece come urto, lacerazione e superamento, amore come rapporto 34


interpersonale e intersessuale, selettivo ed elettivo, come desiderio di vincere la morte, come unità e ricongiungimento tra l’Io e l’altro. Il corpo, nelle azioni della Pane soprattutto, è causa della sensazione, non è solo strumento d’azione ma contribuisce alla vita della coscienza e della memoria in un parallelismo psicofisico di processi che prendono significato e rilievo solo nella loro connessione. Anche la rappresentazione del tema della bisessualità e quindi della presenza simultanea di tendenze, atteggiamenti, mire affettive, impulsi contrastanti, è spesso un tentativo di tenere a bada le esperienze traumatiche che, rimosse, continuano a far sentire la loro presenza nella nostra vita. Tenerle a bada, esorcizzarle addirittura grazie al piacere di riprodurle, con alcune varianti, è l’esperienza della vittoria su di esse. Tutto ciò diventa un mezzo per narrare di noi a noi stessi e agli altri che, per entrare in contatto con noi, devono partecipare della medesima esperienza. Un certo quoziente di ermafroditismo anatomico, come è noto, si trova in ogni individuo, in alcuni, il sesso dominante ha rimosso la rappresentazione psichica del sesso vinto. Il travestito è colui o colei che utilizza le toilette che non sono tradizionalmente destinate al suo sesso; non è il camuffamento di un maschio o di una femmina ma piuttosto un essere umano che trascende i limiti del proprio corpo e che diviene ciò che desidera essere e non ciò che la società gli impone di essere. Il travestimento non è il malinteso; nella nostra società è il divieto e forzare questa barriera è importante. Infranto il muro del silenzio e della circospezione, alcuni autori, come Urs Luthi, puntano sul fronteggiarsi e il confondersi dell’uomo e della donna, del maschile e del femminile, invertendo i caratteri somatici, grottescamente accentuando le apparenze bisessuali, inventandosi personalità fittizie ai fini di mettere in crisi la cristallizzazione delle funzioni. Mettere in crisi i ruoli: Luthi, per esempio, si rivela straordinario nel tirar fuori le più riposte vibrazioni dell’inconscio altrui. Si consegna a noi sempre in fogge molto seduttive e anche grazie a una corrente telepatica riesce a scatenare un contagio emotivo 35


nei riguardi dello spettatore che volente o nolente diventa un partner che collabora, in grado di procurare un reciproco appagamento nella stessa scambievole percezione. Nessuno come Luthi sa far uso della malia androgina, desessualizzando e sessualizzando sé e il prossimo alla stessa maniera attraverso un’auscultazione intenta che rapina quasi i dubbi e i desideri sottratti alla coscienza. Il consenso dello spettatore è essenziale per confermare l’artista nella sua pièce. La pièce è lui e l’investimento narcisistico non è più spostato sull’opera ma esplode nel suo stesso fisico. L’artista ha bisogno di sentire gli altri ricettivi nei propri confronti, che stiano al gioco della sua provocazione e che gli restituiscono le sue proiezioni. Gli è indispensabile che il pubblico cooperi alla necessità di essere confermato nella sua identità. Il comportamento dello spettatore è una gratificazione per l’artista e viceversa. Quando il pubblico risponde all’uso, l’artista trova un altro da sé, atto a rassicurarlo nell’ambito fantastico o utopizzante che egli cerca di rendere vivibile, e l’esperimento è reversibile. Ciò è dovuto anche al fatto che lo spettatore è masochista, desideroso d’essere punito, la punizione vorrebbe risolvere la colpa e l’angoscia corrispondente per far spazio, in un momento successivo, alla possibilità del piacere. Si costeggia, allora, una specie di terrorismo estetico postulato, s’intende, dalla recisa opposizione al fenomeno dell’arte d’élite e dell’arte di consumo. Negli anni Novanta si diffonde nel cinema, nella letteratura, a teatro, nella moda, nel costume, il fenomeno delle identità mutanti, delle contaminazioni tecnologiche, degli ibridismi. Il corpo, con frammenti post-umani, brani interfacciati, carni martoriate o esaltate, protesi d’ogni tipo, sempre più orfano di vincoli sessuali o razziali, a quasi trent’anni di distanza dall’allora scandola Body art, ritorna come multi-identitario. L’uso del corpo come linguaggio è dunque resuscitato sotto spoglie differenti sulla scena del mondo e viene proposto con declinazioni altre: trionfante, sacrificato, diffuso, propagato, drammatico, tragico, corpo politico, sociale, estremo. Corpo come il più antico strumento di comunicazione per dire “hic 36


et nunc” attraverso il tatuaggio, il piercing, le citazioni tribali, le manipolazioni degli organi, per dire ciò che si comunica senza la parola, il suono, il disegno. E’ ancora un modo per dichiarare la propria opposizione alla cultura dominante ed è anche la modalità di conformismi disperati. Il corpo contemporaneo è ormai la mappa su cui convergono diverse sinestesie e sensibilità pulsionali, è la mappa su cui ibridazioni inorganiche possono innestarsi, è un corpo fluttuante che muta come sospinto dalla forza indomabile del desiderio. In questa Wunderkammer (camera delle meraviglie) del portento e dell’alchimia ci sono corpi mostruosi e meravigliosi, angeli e cyborgs, corpi tatuati, perforati, sospesi, scarificati, corpi in cui i segni visibili incarnano il marchio di una trasformazione che con la carne va alterando le coordinate del visibile e del sensibile. Il corpo è il luogo dove avvengono i ricombinamenti, i trapianti e gli incroci, è il luogo di concatenamenti macchinici dove l’estensione dell’inconscio si congiunge alla contaminazione tecnologica. La nascita dell’ingegneria genetica ha coinciso con la scoperta delle “biotecnologie”, ossia con un salto quantico nella capacità umana di utilizzare gli organismi biologici anche a scopi pratici. Lo sviluppo delle biotecnologie ha permesso di costruire molecole di DNA ricombinante, derivate dall’unione di materiale genetico proveniente da specie diverse e di introdurle in cellule di altri organismi per ottenere una sorta di replicanti. A queste forme alterate di irradiamento corporeo, a questo incrocio tra carne e tecnologia, si connette tutta una fenomenologia estetica che, partendo dalle estensioni del corpo post-organico, si estremizza fino alla performance immateriale. L’utilizzo del corpo come espressione artistica nato nelle sperimentazioni della Body art negli anni Sessanta e sviluppatosi negli anni Settanta è dirottato in questo fine secolo verso l’esperienza tecno-mutativa. E’ qui che la performance, pratica limite della body art, assume un importanza fondamentale nel rinnovamento della sensibilità estetica. La performance degli anni Novanta si afferma come dislocamento 37


di corporeità, lasciando la dimensione ritualistica e intimistica dell’inconscio molecolare degli anni Settanta e tessendo una dimensione inorganica, una smaterializzazione della carne che nel fantasmatico processo di sintesi diviene manipolazione, alterazione, trasformazione del sé. Il corpo performatico degli anni Novanta offre uno sconfinamento estetico che diviene connessione satellitaria. Questo corpo programmato, clonato, replicato, manipolato, de-naturato è divenuto semiosi cibernetica, organismo integrato multicellulare. Il corpo simbiotico contemporaneo invera una nuova carne sintetica e prostetica, una materialità artificiale, una biocompatibilità tra natura meccanica e tecnica chirurgica. L’interesse dei performer è orientato verso l’impiego di mezzi per la sintesi delle fratture, come chiodi e placche e verso l’impianto di protesi nei tessuti viventi. Essi inaugurano un’attenzione inedita nei confronti di un corpo sempre più resistente e potenziato mediante l’uso di valvole cardiache, arterie, vene, denti, giunture ossee, lenti oculari, spostano la tensione verso nuove materialità: come leghe metalliche, polimeri, vetri, acciaio 316L, cromo. La chirurgia plastica a cui ricorre Orlan, l’innesto tecnologico di Stelarc, il corpo telecomandato di Jana Sterback, gli artefatti in teflon di Matthew Barney e le pratiche di resistenza fisica di Franko B deviano l’attenzione verso un corpo che si manifesta nella sua estensione planetaria, nella certezza della mutazione storica, nel processo economico di differenziazione sistematica. Le azioni radicali prodotte da questi artisti forniscono informazioni di trasformazione sociale, trasferiscono sul piano esistenziale lo scavalcamento economico e politico nel passaggio da moderno al post-organico.

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I.4.1. Orlan e Franko B. Orlan e Franko B pongono l’attenzione sul lato chirurgico del corpo: sui cambiamenti e sui miglioramenti che possono derivare da una sua trasformazione artificiale. Un lavoro straordinariamente radicale che si oppone al superficiale, al banale, al prevedibile quello di Orlan18, artista francese che attraverso nove interventi chirurgici definiti da lei come momenti di Art charnel, ha creato la possibilità di realizzare attraverso il suo corpo un linguaggio, una lingua in evoluzione, un’identità scelta e non più subìta. Lei si concentra sulle esperienze epidermiche. Ha infatti intrapreso una serie di interventi chirurgici facciali che seguono un piano di modifica del proprio volto. Il ricorso alla chirurgia plastica facciale è per Orlan una ricostruzione del sé, un processo di ibridazione tra naturale e artificiale che attraversa pieghe della carne e chip di silicio. Quella di Orlan è una operazione che riesce a superare i corpi riprodotti e imposti dalla società dello spettacolo. Un lavoro che indica l’arte come luogo della mutazione, possibilità di cambiamento, presagio di futuro, un’arte capace di inglobare tutte le trasformazioni possibili e di rendere reale la potenza dell’immaginario fuori dalle banalità del corpo in serie. Corpo, sangue, carne, muscoli, attraverso essi Orlan crea un modello di corpo in divenire inedito. Il suo progetto globale è quello di innestarsi in un processo metamorfico identitario. Il concetto della sua performance: La reincarnation de Saint Orlan o Images/Nouvelles Images (Newcastle, England, 1990), è nato dalla lettura di un testo di una psicanalista lacaniana, Eugénie Lemoine-Luccioni19, La Robe20, che ne è all’origine. Un capitolo intero di questo libro parla del suo precedente lavoro sulle madonne, la vergine, il barocco italiano. La Robe è il testo che legge come motto durante tutti i suoi interventi ed è all’origine delle sue performance. L’elaborazione e l’organizzazione di ognuno degli interventi è lunga e difficile, minuziosa e terribilmente precisa. La sala operatoria è il suo laboratorio d’artista e la durata dell’intervento è un momento 39


molto intenso: non è addormentata, legge questi testi, fa disegni con il suo sangue ed è veramente consapevole del fatto che sta girando dei film, dei video che bisognerà poi rilavorare e tutto deve essere coerente. Durante tutto l’intervento dà indicazioni necessarie alle squadre e a volte anche al chirurgo. La preparazione della performance è davvero lunga sia dal punto di vista pratico ed economico sia dal punto di vista mentale. Per molti critici il suo corpo è il suo capolavoro ultimo, però per lei non è esattamente così. Non le interessa il risultato finale né il risultato quotidiano del suo lavoro e del suo corpo, ma il rituale di passaggio e in seguito le discussioni con il pubblico; lì si trova la sua arte: l’art charnel. La sua apparenza fisica non ha un ruolo finale, è il cambiamento e la scommessa artistica che contano. Nella sua vita i rapporti con gli altri non dipendono dal corpo ma dal contesto e dalle storie da esso prodotte. Orlan è molto fiera di portare la sua opera su di sé. Crede di fare qualcosa di giusto rispetto al nostro tempo e che nessuno ancora ha tentato di fare. E’ la prima artista che lavora con la chirurgia e tutto ciò le dà nutrimenti e nuove forze. La performance inventata da Orlan si pone in relazione con: la biopolitica del corpo postmoderno, con la ricostituzione del sé, con la complessità delle differenze, con il cyberfemminismo, con la rifigurazione del corpo post-umano, con la schizofrenia del potere mediatico esercitato sulla pelle femminile, con le strategie biotecnologiche di ricostruzione corporea. La volontà di ricorrere alla chirurgia plastica in questo specifico caso è la volontà di colmare l’abisso tra apparenza ed esistenza. Il corpo nuovo, mutante, che Orlan formula è un corpo anticonformista: anti-bello e anti-estetico rispetto alle eccezioni categoriche tradizionali. La sua attività iniziata negli anni della Body art, l’ha vista sempre in una posizione di outsider, di autoemarginazione del sistema artistico. Nel 1974 Orlan crea a Parigi “l’Association Comportement, Environment, Performance”, ma vive questo suo coinvolgimento corporeo in maniera distaccata dalla corrente “bodista”21. Le sue performance erano legate 40


soprattutto al ruolo della donna con la sua sessualità e la sua soggettività. L’operazione metamorfica di Orlan passa sotto i ferri della chirurgia plastica poiché le sue ultime performance ruotano intorno a un unico concetto perturbativo della carne. Una carne che è: neuroni e membrane, sangue e tensioni, ectopie e molecole al tempo stesso. Orlan focalizza il suo processo metamorfico sul volto, su cui indirizza i vari interventi. L’intervento Omniprèsence (New York, 1993), era basato sul principio dell’onnipresenza. Trasmesso in tempo reale, via satellite, era visibile contemporaneamente alla galleria Sandra Gering di New York, al Centre Pompidou di Parigi, al centro McLuhan di Toronto e in altri dieci siti connessi con la sala operatoria newyorkese. Il collegamento via satellite rendeva possibile l’interazione con gli spettatori che potevano seguire direttamente l’operazione e fare domande in tempo reale. In questo modo Orlan ha trasformato un’azione privata in evento pubblico. Il progetto chirurgico di tale operazione prevedeva l’innesto sul viso di due protesi destinate al rialzo degli zigomi, poste per sua volontà sui lati della fronte. Due protuberanze che azzerano ogni stereotipo di bellezza desiderabile e assumono sembianze inquietanti. Due corna nascenti che inverano una inedita categoria libidinale, un nuovo e vivo essere al mondo e inaugurano una de-estetizzante e maniacale ridentificazione. Molte voci la circondano, perché si è parlato e scritto molto sulle sue opere dal 1990 e, se non fa il punto spiegando anche le sue intenzioni la gente immagina qualsiasi cosa. Il suo scopo non è fare interventi per tutta la vita, potrebbe anche fermarsi adesso; il suo viso è cambiato, esprime quello che intende dire e il suo corpo è diventato luogo di un dibattito pubblico: è quello che voleva. Crede che sia per lei un dovere confermare la dimostrazione, farà quindi altri interventi, però in altri paesi. Vuole anche vedere reagire le differenti mentalità e seminare altrove, le piace l’idea del vasto mondo. Franko B22, il più radicale performer inglese, è noto come l’artista del sangue: il liquido corporale è uno dei materiali con cui l’artista realizza performance estremamente poetiche e 41


scioccanti. Ciò che fa è rendere sopportabile l’insopportabile. Nelle sue performance si sente libero: è un processo profondamente emotivo perché alla fine sente di essersi lasciato andare completamente, di essersi dato totalmente all’atto che ha compiuto. Considera molto importante la presenza del pubblico testimone delle sue azioni. Anni fa pensava riguardasse solo e soltanto lui, come una sorta di terapia, ora ha superato questa posizione e desidera che diventi pubblico, che sia visibile, vuole che il suo lavoro diventi visibile. Considera il corpo come luogo della rappresentazione e vi lavora da un punto di vista clinico. Lo strumento con cui si esprime è il sangue, realizza un gran numero di quadri dipinti proprio con il suo sangue, materiale che deve usare con moderazione e attenzione per evitare il dissanguamento. Il suo corpo è la sua casa, è tutto ciò che ha. Il suo sangue è il suo corpo. Quando lo sente dà un senso di libertà, soprattutto per il fatto che è il suo sangue, dato che non lavora col sangue di animali e col sangue di altre persone, perché non potrebbe averci un rapporto. Una cosa a cui Franko B tiene molto è l’umana veridicità del sangue, critica infatti coloro che utilizzano sangue animale per dipingere perché a suo parere è importante la sensazione legata al fluire del liquido. Ciò che vuole ottenere è un’immagine che si può non solo vedere, ma anche annusare e persino toccare. In una delle sue più importanti performance (I Miss You, Tate Modern Gallery, Londra, 2003/2007) si fa aprire chirurgicamente le vene mentre giace disteso su di un lettino ospedaliero nel bel mezzo di una passerella analoga a quelle utilizzate per le sfilate di moda. Successivamente cammina avanti e indietro per tutta la lunghezza della pedana, facendo colare il sangue che gli sgorga dai polsi sul suolo dipinto di bianco e anche il suo corpo nudo è interamente ricoperto di bianco, in modo che le gocce di sangue spicchino anche sulla pelle: in questo modo mentre si esibisce realizza un’opera pittorica. “Il sangue è pittura”, afferma. Se in una performance qualcuno lo taglia e lo fa sanguinare, non vuole che si pensi che il succo dell’opera è farsi un taglio, si tratta piuttosto della sua mancanza di vergogna, perché questo è il suo corpo, 42


che lui apre e vuole lasciar uscire. Il taglio quindi diventa la metafora. Quando si fa incidere delle frasi sulla schiena, non lo fa in scena, non perché non riuscirebbe a farlo, ma perché questo creerebbe un’impressione totalmente diversa. Il suo tema è più il significato del taglio che il processo di farlo in scena. La responsabilità del suo spettacolo è interamente sua e non vuole che ci siano fraintendimenti, confusioni con altri show dove il performer si taglia. Durante lo spettacolo si dipinge di bianco perché non vuole che la gente lo veda come l’ennesimo Primitivo moderno, quindi copre i suoi tatuaggi per poter comunicare il significato giusto. Il corpo è una tela e vuole che le persone siano in grado di leggerlo, non che vengano a vedere Franko B per i suoi tatuaggi. I.4.2. Stelarc Nel campo della sperimentazione artistica l’esperienza più estrema riguardo alla tematica corporea legata alla tecnologia è sicuramente quella di Stelarc23. Performer australiano di origine greca. E’ una delle punte avanzate di quel panorama artistico e concettuale che è noto come “post-umano”24. Ha iniziato la sua attività artistica legata ad una ricerca espressiva e cognitiva di sperimentazione corporea negli anni Settanta e ha agganciato il suo lavoro alle dimensioni dell’estremo slabbrarsi del corpo tentandone una riedificazione. Nelle sue prime esplorazioni corporee Stelarc usa il video come strumento di indagine, realizzando una serie di viaggi all’interno del corpo: un video all’interno dello stomaco, uno all’interno del colon e uno nei polmoni. Questa traiettoria iniziale sembra delineare la globalità della sua ricerca; sondare il corpo nella sua totalità, perimetrarlo e scavalcare i suoi limiti biologici. Delinea una sorta di viaggio nell’immaterialità nella zona limite di essa, là dove si espande l’interiorità inquietante del fisico. Secondo Stelarc la cosa interessante a proposito del corpo non è tanto la dimensione materiale, quanto il fatto che esso è una struttura, un oggetto evolutivo. Per Stelarc 43


la tecnologia è sempre stata connessa con il corpo umano, è sempre stata una sua appendice. La tecnologia è tutto quel che definiamo umanità, non una cosa da alieni. La tecnologia non significa pezzi di silicone: è un linguaggio, è cultura, la tecnologia è contemporaneamente soft e hard. Le performance di Stelarc non sono mai state costruite semplicemente per il pubblico. The Body Suspensions (19761988), per esempio, sono una serie di performance in cui l’artista porta all’esasperazione sensoriale il proprio corpo, spesso in gallerie private o in posti remoti. In queste si faceva sospendere con ganci conficcati nella pelle. Erano le prime esperienze di privazione sensoriale alternate a situazioni di stress fisico realizzate e vissute quasi sempre come processo cognitivo. Infatti delle circa ventisette sospensioni realizzate, solo cinque o sei sono state pubblicate. Questo lavoro, che ha caratterizzato Stelarc dall’inizio, ha fatto sì che, nonostante la corrente bodista fosse molto forte negli anni Settanta, egli rimanesse quasi completamente sconosciuto nell’ambito artistico e che anzi non esista una sua collocazione nel panorama storico-artistico di quegli anni. Questa esperienza di tipo primitivo, ossia di ricognizione e di deconfinamento dai limiti considerati normali, trasferisce l’azione in un panorama in cui il corpo è già slittato oltre. Farsi sospendere ai ganci era non solo una sfida alla sofferenza fisica, una pratica di dolore, ma soprattutto un tentativo di analizzare e sfalsare le leggi di gravità. Verso la fine degli anni Ottanta, le azioni coreografiche hanno portato Stelarc a concepire una struttura, un vestito elettronico che gli permette di lavorare sull’amplificazione come processo estensivo corporeo: Amplified Body, Laser Eyes and Third Hand, (1981-1994). Nelle sue performance i processi del corpo che vengono amplificati includono: le onde cerebrali - con l’elettroencefalogramma; i movimenti muscolari - con l’elettromiogramma; le pulsazioni - con il pletismogramma; il battito cardiaco - con l’elettrocardiogramma; la circolazione sanguigna - con il tachimetro di Doppler a emissione continua. Altri trasduttori e sensori rivelano il movimento degli arti e 44


indicano la postura del corpo. Il corpo sonoro è costituito da ronzii, trilli, schiocchi e bip; segnali che possono essere regolati o casuali, ripetitivi e ritmici. The Third Hand (1981-1994) è una mano artificiale fissata al braccio destro come elemento aggiuntivo e non come sostituzione prostetica. Dotata di un meccanismo per aprire e chiudere le dita, ha la possibilità di ruotare il polso di 290° nei due sensi e un sistema di feedback tattile per un rudimentale senso del tatto. Il corpo si muove all’interno di un’installazione luminosa interattiva che brilla e risplende, reagendo alle scariche elettriche del corpo, talvolta in maniera sincronizzata, talvolta di contrappunto. La performance è una sorta di coreografia di movimenti che oscillano tra il controllo e la spontaneità gestuale. Le performance di Stelarc sono vere vertigini di biotecnologiche, abissi mutanti, invasioni transumane; esse tendono alla enfatizzazione, allo straniamento del corpo. Stelarc viola una natura corporea già stremata, estenuandola, sfinendola con l’invadenza/invasione di un corpo altro. La cosa forse più bizzarra proposta da Stelarc è quella di installare un terzo orecchio (Extra Ear, 1999) vicino ad uno degli originali o in qualunque altra parte del corpo (Ear on Arm, Orecchio nel braccio, 2003/2006) non per rimpiazzarne parti mancanti o componenti, ma per amplificarne le funzioni. I.4.3. Jana Sterbak La passione scismatica per il corpo inverata da Jana Sterbak25 pone questa artista in una zona di confine, in una zona liminale, in una sorta di deterritorializzazione conflittuale tra la natura fisica e l’artificio umano. Tutto il suo lavoro, infatti, è permeato da questa costante ideativa, poiché tutta la sua produzione di immaginario nasce da tale consapevolezza che crea le due opposizioni. E, nello stesso tempo, questa grande idiosincrasia è attraversata dalla costante metamorfica che sta alla base dell’ideazione dei suoi lavori e delle sue performance. La metamorfosi che governa il divenire dell’essere umano è il 45


centro ideativo dei suoi lavori, probabilmente della sua vita. Le tematiche toccate nelle sue opere: scienza, tecnologia, rappresentazione del sé, arte, sono i veicoli necessari al nostro divenire, i mezzi tramite i quali noi distinguiamo il flusso caotico della natura e possono essere considerati come strategie creative che tendono a sottrarsi, ad alienare la realtà della natura che porta irrevocabilmente alla morte. Da qui, nasce probabilmente tutta la sua pulsione vitale, la sua sperimentazione sull’artificio come patologia liberatoria dall’ordine naturale. Vuole sezionare il corpo e attraverso la scomposizione caricarlo di suggestioni ed emozioni derivate dall’Io. Realizza a questo scopo una struttura in filo elettrico molto simile ad un vestito, collegato ad una presa a muro. Questo strano vestito non ha nessun corpo al suo interno, tanto che diventa un contenitore d’un immateriale in realtà solo immaginato. Quando lo spettatore si avvicina, un occhio elettronico attiva il lavoro riscaldando i fili. Sinestetico e caldo, il vestito è un simulacro corporeo, un artificio sensitivo. Il corpo vestito è il corpo del soggetto umano poiché l’abbigliamento è il mezzo attraverso il quale piroettiamo nello spazio pubblico la nostra identità, la nostra classe sociale, il sesso o la nostra sessualità. Nello shoccante Vanitas: Flesh Dress for an Albino Anorectic del 1987 (Walker Art Center, Minneapolis, Stati Uniti, Centre Pompidou, Parigi) l’attrazione del corpo diventa intensamente fantasmatica. Flesh Dress diventa una sorta di seconda pelle, di sua duplicazione, ed è soprattutto momento di riflessione inquietante sulla sua degenerazione temporale. Il vestito è anche un feticcio metamorfico nella sua struttura, mutevole nella sua assenza. L’opera parte dal tema della vanitas rappresentata nel Settecento in pittura e in scultura, dove il corpo veniva sempre associato al nostro stato di disfacimento e nello stesso tempo legato alla tragicità, richiamando il degrado di tutte le cose animate e la transitorietà dei piaceri terreni. La pittura del Settecento assemblava oggetti semplici con nature morte che erano allegorie della condizione umana. L’intenzione era quella di indurre alla contemplazione del mondo eterno, spirituale. 46


Flesh Dress è raccapricciante poiché è realizzato con trenta chili di bistecche di manzo cucite tra di loro; un vestito mutante composto da: grasso, carne, fili di ferro e fibre muscolari. La consistenza è viscida e grassa, il peso consistente, tanto che la sensazione evocata è nettamente simile a quella che ci provoca un cadavere. E’ un’immagine che accenna alla morte, che colpisce e sgomenta la sensibilità umana. Come in altri lavori della Sterbak, il materiale emette segni di alterazione e di conflittualità percettiva, oscillante tra repulsione e attrazione. Il vestito è quasi surreale nella sua irritante concretezza, permette di attraversare tutti gli stati d’animo possibili, dal nauseante all’onirico. La realizzazione del vestito di carne è per la Sterbak ancora una soglia che precede il contatto vero con il corpo, poiché l’ispezione si svolge attorno ad esso in uno stadio in cui esso viene immaginato; mentra, nella performance Tèlècommande (Museu d’Art Contemporani, Barcellona, Spagna, 1989) la carne oramai ha ceduto alla macchina, ne è stata cannibalizzata. Il corpo telecomandato di Jana Sterbak è la rappresentazione esemplare dell’inorganico, è il farsi veste estranea, l’inveramento dell’essere nel suo eccesso potenziale. Tèlècommande è una sorta di robemachine visionaria e sospesa nel tempo: una crinolina di foggia ottocentesca realizzata in alluminio, una sorta di gabbia all’interno della quale il corpo femminile viene sospeso. La struttura metallica è montata su due motorini telecomandati a distanza. Il corpo femminile che porta questo oscuro oggetto del desiderio, ne viene incastrato, imprigionato: impossibile toccare il suolo e impossibile controllare i propri movimenti tranne con l’aiuto del telecomando; ma se il telecomando viene azionato dall’esterno la donna perde tutto il suo potere di autocontrollo. Il corpo è prigioniero di se stesso, la robemachine si metamorfizza e diviene luogo di confinamento, misura di separazione con l’altro. Non è solo per metafora che la Sterbak ha collocato all’interno della crinolina metallica un corpo femminile; le sue motivazioni sono profondamente politiche, poiché attraverso il corpo-macchina tenta di riallacciare un discorso sul potere di controllo sistemico. 47


I vestiti della Sterbak sono una sorta di contestazione degli stereotipi femminili che il sistema impone, un’accusa ai canoni indotti dal consumismo. I suoi vestiti sono una sorta di: deturpamento, di aggressione inconscia, di sfalsamento e di rovesciamento dell’abbigliamento femminile. Se è vero che l’abbigliamento tende a costruire apparenza, la Sterbak utilizza lo stesso sistema segnico per decostruirlo. L’indumento dunque serve alla Sterbak come passaggio del corpo dal sensibile al significante. Attraversando tutta la sfera ontologica a livello sociale, questi vestiti, simboli libidinali, scandiscono l’estensione del corpo intimo in corpo sociale. La performance Dame aux chiens (Défense) (Fundació Suñol, Contemporary Art, Barcellona, Spagna, 1995) affronta il discorso dell’assoggettamento del corpo o meglio del limite in cui esso si districa. Inizia con la visione di una donna che, in collant e slip nero, sta al centro di una struttura circolare in metallo sospesa al soffitto, la quale ospita un grande tessuto bianco che poi si rivelerà essere il vestito della donna. Quando la struttura viene depositata sul pavimento, il tessuto si alza e la donna rimane dentro la struttura stessa, oramai circondata da una barriera metallica all’altezza delle ginocchia. Questo spazio circolare limitato diventa una sorta di salone di prova dove la donna è vestita in tenuta da sera molto sofisticata; su di lei gli aiutanti poggiano una crinolina e sopra ancora una gonna in velluto bianco. Il corsetto è anch’esso in velluto bianco. La donna indossa scarpe dalla suola altissima, dando un’impressione di dominio dall’alto rispetto al pubblico. L’effetto finale è quello di un artificio assurdo, a metà tra la scultura, il teatro e la prigione. Nella seconda parte della performance l’atmosfera di assurdità diviene più intensa: quando la donna termina di vestirsi, un numeroso branco di pastori tedeschi attraversa la scena e accerchia la donna. I cani la isolano e la proteggono dagli spettatori rafforzando l’idea del suo confino. Il contrasto che scaturisce da questa performance nasce dall’ambivalenza tra la grande autonomia che traspare dall’artefatta capacità di movimento della donna e l’imprigionamento a cui essa è 48


sottoposta e che nell’azione è rappresentato dal suo stesso vestito, parte della struttura/barriera metallica che ne ostacola la libertà. Tutta la performance verte sul tema del limite, della prigione a cui la performer si sottopone. Il discorso del limite, dell’assoggettamento si estende per la Sterbak poiché il ricorso all’abbigliamento ottocentesco, nella fattispecie la crinolina, rappresenta una sorta di gabbia antica a cui il corpo della donna veniva sottomesso. Il tema del vestito come forma di imprigionamento dell’identità femminile e il tema della limitazione come forma di difficoltà del comunicare a lei così cari si rincorrono e si intrecciano nel loro farsi azione performatica. I.4.4. Matthew Barney Oltre il maschile e il femminile, oltre gli schemi omologanti della sessualità politicamente corretta, oltre la piatta divisione binaria e oltre il corpo catalogato, assemblato e incasellato del gender, quello inventato da Matthew Barney26 ha deviato negli abissi della differenziazione sessuale, ha giocato sullo scarto ruolizzante, ha incarnato altre identità molteplici semplicemente attraverso la materia plastica: propilene, poliestere, silicone, vetro acrilico, nylon, gel, liquido refrigerante, plastica lubrificata costituiscono il suo universo sintetico. Barney ha evidenziato il lato più glamour e desiderante che potesse inglobare le trasformazioni del corpo. Le sue video-azioni raccontano sfide della natura fisica e narrazioni di disidentità. I suoi personaggi sono miti, i suoi corpi sono icone di una leggenda reinventata e di una stridente esteticità che tenta di sedurre e irritare al tempo stesso, per il suo perfezionismo formale. Nei suoi video Barney offre il suo corpo costruito, coltivato, ammaliato da se stesso e dall’idea della sua estensione atletica o della sua caratteriale camaleonticità. I suoi corpi non hanno età né genere, sono dislocazioni della carne e della prostetica, perdite della forma. Il processo mutativo nel lavoro di Barney sembra confidare nelle estremizzazioni atletiche, nello sforzo fisico come progetto di mutazione del 49


soggetto. Le sue azioni atletiche e i suoi travestimenti girano intorno alla fisicità contemporanea che viene ricostruita nella sua interiorità e attrezzata alle metamorfosi ultra-umane. I suoi personaggi sono idoli del football, maghi, drag queen, body builder, satiri, ibridi dell’oltreumano, identità che abitano e saccheggiano le apparenze. In ogni caso sono corpi che si staccano dal reale e sprofondano nella smodatezza visionaria. I suoi satiri fantasiosi, simulacri ibridanti, si seducono nelle sequenze oscene di Drawing Restraint 7 (Restraint, Biennale del Whitney Museum of American Art, New York; Aperto ’93, 45° Biennale di Venezia, 1993) fino a tutto il Cremaster Cycle, iniziato nel 1994 e terminato nel 2002. Quando Barney concepisce il video-kolossal punta su tre idee che mantiene nel tempo: il titolo Cremaster, le cinque partizioni video, le differenti e diverse location. I video numerati secondo un continuo mentale e non cronologico non avrebbero seguito uno snodo diegetico sensato e avrebbero alternato personaggi differenti. Ogni partizione video avrebbe seguito le imprese atletiche dei personaggi come riti di trasformazione attraverso cui i generi sessuali vengono assegnati. Il Cremaster Cycle, la saga epica del “muscolo testicolare” (questa è la nota traduzione del termine) è suddiviso in cinque episodi che Barney ha voluto però non rispettassero l’uscita della loro progressione numerica, ma seguissero invece il seguente ordine: Cremaster 4 (1994), Cremaster 1 (1995), Cremaster 5 (1997), Cremaster 2 (1999), Cremaster 3 (2002). Certo non casualmente, la sequenza numerica 4-1-5-2-3 contiene una specifica simmetria costruita intorno al numero cinque in posizione centrale che risulta anche dalla somma delle coppie numeriche alla sua destra e alla sua sinistra, oltre al rimando del numero cinque alla classica penta-partizione in atti delle antiche commedie greche. Cremaster 4, girato nel 1994, è il primo episodio della serie; Cremaster 1, il più corto del ciclo girato nel 1995 a Boise (Idaho, USA) sua città natale, è un musical-cromosomatico emesso dall’infinita estetizzazione del concetto di ambiguità sessuale su cui Barney ha bruciato i suoi neuroni per costruire 50


una macchina morbida di rimandi, evocazioni, prestiti, furti, derive. Nonostante Cremaster 1 sia in ordine di tempo effettivamente il terzo video girato, nella sua computazione finale diventa il primo, quindi quello introduttivo a tutto il prolegomeno genitale di Barney. La gonade, in qualche modo, è la forma-simbolo che si metamorfizza continuamente attraverso gli oggetti e le ambientazioni che Barney rappresenta il tutto il ciclo. E’ quasi il filo di nylon che lega l’intera saga. Cremaster 5, girato nel 1997 approda in una romantica Budapest della fine del XVIII secolo e dentro la fastosità delle terme di Gellert e del Teatro dell’Opera traccia la chiusura del ciclo. Questa partizione video descrive il processo di discendenza ed è formalmente e narrativamente la più insostenibile. Ciò è dato essenzialmente dall’atmosfera severa della prima parte e da quella trionfal-barocca della seconda. Budapest, luogo di origine di tutta la vicenda, diede i natali a Harry Houdini, idolo assoluto di Matthew Barney, il cui spirito aleggia fortemente il tutto il ciclo. L’ispirazione al famoso mago ungherese è sempre stata presente nei suoi lavori; Cremaster 2 viene presentato nel 1999 ed è a tutti gli effetti una caotica rete di connessioni impossibili; il più intenso e ricco di tensione visiva. Tutti i suoi video denotano eccesso: dalla varietà visiva alla lentezza del flusso narrativo, dalla criticità dei riporti simbolici aggrovigliati su se stessi fino al peccato di iper-esteticismo. Le visioni parnassiane o infernali che Barney sembra emettere continuamente sullo spettatore, spesso, eludono la vera questione della corporeità. Ciò di cui Barney è assolutamente padrone è il suo corpo. Possiede una prestanza fisica e attoriale che gli consente di interpretare qualsiasi personaggio, tanto più si cala in trasformazioni visionarie tanto più il suo corpo diventa catalizzatore. Barney, che proviene dall’iper-fisicizzato mondo del fashion, ha trascinato la sua allure seduttiva nell’art-system, circuito che generalmente preclude e castra qualsiasi esterizzazione corporea se non è finalizzata al campo della performance. L’artista americano ha scavalcato questo pregiudizio 51


reazionario rimandando la sua immagine metamorfica, avvenente e distrofica come una sorta di auto-concessione narcisista. In Cremaster 2 c’è una sottilizzazione della simbologia delle api che, tralasciando le fonti iconologiche, trascina, molto metaforicamente, all’idea del “vitino di vespa”. Tutti i personaggi indossano corsetti in stile fine secolo e si siedono su sedie con schienali a forma di anfora che alludono alla costrizione ottenuta con bustier che plasmano il famigerato vitino di vespa. Per Barney il costante ricorso all’uso del corsetto deriva da un processo feticista che promette piacere attraverso la persistenza del dolore. Ed è al tempo stesso un oggetto che tende al controllo estremo di tutta la famiglia imprigionata nelle stecche di balena dei vari bustier. In Cremaster 2 i corpi dei personaggi quasi deformati dai corsetti diventano simili a quelli di alieni che vivono in un tempo à rèbours. Cremaster 3 realizzata nel 2002 è quella che occupando nella penta-logistica barneyana la posizione centrale del ciclo, riassorbe gli episodi precedenti e insinua quelli seguenti. Ciò che Barney stabilisce con Cremaster 3 è che, nella sua colossale metafora genitale si è arrivati alla fase di assestamento ossia a metà strada nel viaggio verso la differenziazione dei generi. Secondo l’intenzione dell’artista è la partizione più critica dal punto di vista socio-politico e ciò viene scandito dal contesto in cui il video si sviluppa: è la New York nell’epoca rooseveltiana della Grande Depressione in una fanta-storia che assembla crimine organizzato e gli Irish labor unions. Il riferimento all’Irlanda è costante attraverso i colori della sua bandiera: arancio (tradizione legata a Guglielmo d’Orange), verde (tradizione celtico-normannocattolica) e bianco (pace che dovrebbe unire i due colori). Barney riusa i colori continuamente decontestualizzandoli dal loro emblema nazionale. La narrazione è quasi tripartita, con fughe e ritorni continui di personaggi, set, geografie, tempi e musiche irlandesi.

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In un continuo slittamento di luoghi si finisce tra i gran maestri massonici riuniti al 66° piano del Building in un club bar che però incanala l’atmosfera di un Irish pub e dove devono decidere della sorte dell’ Entered Apprentice. Questi cerca di fuggire ma viene intercettato e portato in uno studio odontoiatrico. Viene mutilato dei denti e rimane con la bocca sanguinante per il resto del video. Compare un nuovo personaggio ed è l’architetto che disegna l’edificio in costruzione e fa vivere la figura di Hugh Ferriss ma al tempo stesso, nei soliti voli pindarici barneysiani, viene associato a Hiram Abiff - capo architetto del Tempio di Salomone. Scenario di questi riti espiatori è il museo Guggenheim trasformato in studio televisivo o forse in surreale stadio olimpico dove tra ballerine e cheerleaders, The Entered Apprentice compirà il singolare pentathlon (è ancora 5 il numero ricorrente, come 5 erano le discipline olimpiche nei giochi ateniesi) che nella cosmogonia gonadica di Barney corrisponde alla graduale discesa testicolare verso lo stadio finale di maturità sessuale. A ben vedere, tutto il Cremaster Cycle è un terreno di coltivazione narcisista, e trattandosi di Barney, non può che essere la creazione di un lussuoso spazio di egotismo gonadotropo. I.4.5. La storia della performance La storia della performance attraversa tutta la cultura degli ultimi cinquant’anni, incrociandosi con la ricerca delle pulsioni inconsce che abitano nell’animo umano. Esplosa nel periodo della Body art come attenzione estrema nei confronti del corpo, ha comunque principio nei precedenti decenni. Avanguardie come Futurismo e Dadaismo hanno un’importanza fondamentale nella storia dell’arte e oltre, perché rinnovano il senso e la dimensione dell’evento artistico. Tappe fondamentali verso l’affermazione della performance come linguaggio artistico autonomo sono negli anni Cinquanta gli happening della corrente Fluxus27. Il concerto di John Cage28 al Black Mountain College del 1951, l’happening 53


di Allan Kaprow29 del 1958 e le Anthropomètrie, impronte corporee di Yves Klein30 del 1960 fino al suo emblematico e simbolico Saut dans le vide (1960), vanno inseriti nel contesto corporeo. Eventi come i Festum Fluxorum Fluxus31, realizzati alla Kunstakademie di Düsseldorf e altri si ripetono spesso in quegli anni, aprendo l’esperienza artistica alle contaminazioni tra musica elettronica, danza, cinema, poesia, musica concreta e teatro di strada. Il concetto di happening si va sempre più affermando e i concerti Fluxus sono lunghissime maratone in cui le varie forme d’arte s’intersecano tra loro. Durante gli anni Sessanta si va intensificando l’interesse per la corporeità; tutte le tendenze culturali vengono contaminate da questo tipo di indagine. La Body art sviluppatasi negli Settanta, infatti, si presenta come un paradosso linguistico dell’artista ossessionato dalle potenzialità fisiche. La body, nella sua inclinazione fredda, assume il corpo come espressione rappresentativa servendosi di mezzi di riproduzione meccanica (fotografia, video e film) nell’intento duplice di documentazione e di una indagine penetrante. L’azione si risolve in una serie di esercizi che presuppongono una lunga preparazione e un’attenta analisi. A questa dimensione fredda si oppone un versante comportamentale più duro in cui il corpo è vissuto come il luogo di azioni sadomaso e come l’oggetto di azioni violente e aggressive, tali sono le esplorazioni ad esempio di: Gina Pane32, Vito Acconci33, Chris Burden34, Carolee Schneemann35. Spesso la violenza si inserisce in azioni rituali realizzate da tribù di performer, come si verifica nelle declinazioni di Hermann Nitsch36, Günter Brus37, Rudolf Schwarzkogler38. Negli anni Settanta, nel contesto culturale internazionale si impone la sensibilità punk fatta di aggressive spinte liberatorie, di trasgressioni ed eventi provocatori. Nato a Londra, il fenomeno punk dilaga pericolosamente in tutto il mondo. Personalità carismatica è Genesis P.-Orridge39, nato a Manchester nel 1950, che insieme a Cosey Fanni Tutti40, ex attrice porno, forma il gruppo Coum Transmission (19691979). Coum (che significa venire) ha realizzato e messo in pratica come gruppo performatico più di centocinquanta 54


azioni sia in gallerie che in spazi alternativi. La radicalità delle loro azioni ha dei legami con la cultura estrema della scena londinese di quegli anni. I Coum Transmission, come altri artisti, tendono a lavorare sulla trasgressione delle regole sociali e sulla contestazione nei confronti del puritanesimo stratificato con atti di guerriglia psicologica. Le loro azioni sono raccapriccianti rituali corporali che tendono allo shock dello spettatore e sono caratterizzati da una forte componente autolesionistica propria dell’estetica punk. I temi delle performance dei Coum Transmission orbitano attorno alla: tortura, la guerra, le tecniche psicologiche di persuasione, la venereologia e la vita dei campi di concentramento nazista. Con l’arrivo nel gruppo del fotografo Peter Sleazy Christopherson, i Coum divengono un trio arrabbiato della scena londinese. Nel 1976 la mostra Prostitution all’Ica di Londra culmina nelle polemiche. L’alto tasso erotico delle foto bandisce i Coum da tutti gli spazi ufficiali del Regno Unito; da gang comportamentale cambiano pelle e diventano gang sonora con il nome di Throbbing Gristle. Il gruppo inventa la “industrial music”. In quella Inghilterra degli anni Settanta, fortemente sterzata a destra, colpita dalla recessione economica e con un tasso altissimo di disoccupazione giovanile e di un cinismo esorbitante, i Throbbing Gristle, fondarono l’etichetta discografica indipendente Industrial Records, che di fatto inaugurò un nuovo genere musicale che intendeva rappresentare l’ambiente urbano, i rumori, i segnali sonori del quotidiano. Producevano suoni che provocavano una distrofia percettiva usando stratagemmi come: il cut-up, il pastiche, l’eclettismo stilistico. L’industrial, fu in fondo, più che un genere musicale anche una sorta di movimento artistico costituito da artisti post-punk in cui la radicalità era orientata verso l’autonomia organizzativa, schivando i canali commerciali tradizionali per promuovere, attraverso la controinformazione, l’uso del sintetizzatore e dell’antimusica, elementi extra-musicali, come l’utilizzo di videotape e diapositive.

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I.5. Body Marking/Modification: pratiche di decorazione corporea permanente La pelle, grazie alle sue potenziali diramazioni metaforiche e metonimiche, esercita un’attrazione indiscutibile, un fascino semiotico cui è difficile resistere per l’enorme duttilità con cui si presta a discussioni sui concetti di limite, margine, corpo e soggettività. Come è noto, la pelle è il più esteso degli organi del corpo umano e da un punto di vista strettamente fisico è una struttura elastica molto resistente composta da due strati integrati: l’epidermide, che è lo strato esterno e il più sottile, e il derma, lo strato interno, formato da tessuto connettivo e fibre elastiche fluttuanti in una sostanza semifluida. Sotto svariate forme, la pelle forma la parte esterna di quasi tutti gli esseri viventi ed è per questa sua strategica posizione che viene vista come la prima linea di confine tra corpo e mondo, una barriera che è anche involucro e contenitore e che soprattutto funziona come il principale sistema di comunicazione con l’esterno. Schermo su cui la vita proietta esperienze, la pelle ne trattiene impresse le tracce visibili: rughe, calli, tatuaggi, perforazioni, iscrizioni, cicatrici, curve e increspature che incarnano i residui del passaggio del mondo attraverso il corpo. La pelle marcata di segni che portano il germe del desiderare e del divenire, diventa luogo di una moltiplicazione di aperture al mondo e di ulteriori incarnazione del desiderio dell’altro. Se usata con cautela l’azione di marcare il corpo può diventare una potente macchina di trasformazione identitaria. Pratiche di “body marking” sembrano infatti straordinariamente appropriate per illustrare e radicare nella pratica idee di soggettività sperimentali come specifiche modalità di azione sul corpo in grado di incarnare l’iscrizione del proprio desiderio. Attraverso l’intervento sulla pelle, come succede nel caso di perforazioni e tatuaggi, si danno nuove e inaspettate possibilità di negoziazione che fanno della pelle la superficie di incontro di opposti. Sono infatti tagli, perforazioni e scritture che aprono la superficie e mescolano interno ed esterno e in tal modo agiscono attraverso la materia sulla costruzione del 56


soggetto. Pelle marcata è pelle istoriata, rivestimento su cui scrivere una delle possibili storie della soggettività, dove essa si incarna, acquista memoria e circola libera dalla trappola di una specularità riduttiva e tutta binaria. L’espressione “pratiche di decorazione permanente” si riferisce a: tatuaggi, scarificazione, branding, implants e, in una certa misura, al body piercing, pratiche carnali che marcano in modo indelebile la corpo-realtà. Non a caso definite marchi di civilizzazione e più recentemente fleshworks, queste pratiche, in virtù della loro collocazione sul corpo, funzionano da tempo immemorabile come agenti di comunicazione tra mondi, passaggio tra categorie e ridefinizione dell’individuo. Il tatuaggio è stato fatto proprio e valutato nella storia secondo interpretazioni diversissime, oscillanti in linea di massima tra un’idea di tatuaggio come segno di distinzione, onore e appartenenza e un’altra come marchio di infamia e disonore. Da una prospettiva storica, un punto rilevante per contestualizzare il tatuaggio occidentale è la critica del ruolo accordato tradizionalmente all’incontro tra l’Europa e le civiltà dell’area del Pacifico durante le esplorazioni del XVIII secolo. A questo incontro tra culture si attribuisce generalmente la diffusione del tatuaggio in Occidente, ed è quindi ad esso che si fanno risalire i precedenti di quello che diventerà il tatuaggio occidentale moderno. Seppure sia indubbio che tali eventi diedero all’Europa non solo la parola stessa tatuaggio, ma anche un notevole impatto alla sua diffusione, è tuttavia provato che già dai secoli precedenti circolavano in Occidente pratiche di marcatura permanente del corpo. E’ a partire dai primi viaggi di esplorazione che il tatuaggio si diffonde tra la gente di mare con una tradizione iconografica autonoma fatta di: iniziali, stemmi, bandiere, emblemi patriottici, cuori e crocifissi ben diversa dalle linee fluide e dai motivi astratti dei tatuaggi non europei incontrati durante i viaggi nel Nuovo Continente e nel Pacifico. Nonostante il fatto che a partire dalla fine del XVIII secolo il tatuaggio avesse acquistato una sempre maggiore visibilità in Europa, questo processo coincise con sua progressiva marginalizzazione che di fatto 57


né screditò le nobili origini di arcaica forma di espressione artistica. I corpi tatuati, esotici trofei da esibizione portati dal Pacifico in Europa, ebbero il ruolo fortemente simbolico di incarnare l’alterità e di costituire la prova vivente della superiorità europea. Dall’esibizione iniziale di alcuni nativi a self-made freaks professionisti, che lavoravano regolarmente in Freak Shows itineranti, il passo fu relativamente breve. Cruciali nella costruzione di un’alterità primitiva alla fine dell’Ottocento furono anche le Esibizioni Universali come la Centennial Exhibition tenutasi a Filadelfia nel 1876 e poi nel 1893 a Chicago, durante le quali vennero esibiti per la prima volta gruppi di nativi tatuati dall’Alaska, dalle Hawaii e da Samoa. I nativi tatuati esibiti in tale contesto venivano considerati alla stregua di selvaggi subumani e la loro cultura del tatuaggio era reputata indice della loro primitività. Altro esemplare strumento di costruzione di alterità è senz’altro quello costituito dal Freak Show. Sebbene già dai secoli XVII e XVIII fosse normale trovare tra le attrazioni di fiere e circhi nativi dei mari del Sud marinai e avventurieri diffusamente tatuati, è nell’Ottocento che questi side-shows si diffondono in America portando alla nascita di celebri spettacoli come il Welch Circus, il Bartlett’s Broadway Circus, il Lion Circus, e naturalmente il più famoso di tutti, il P.T. Barnum’s American Circus. Il processo di freakizzazione dei corpi tatuati raggiunge il suo apice durante l’età d’oro del Freak Show americano tra il 1835 e il 1940, quando il corpo extra-ordinario, tale per nascita o per scelta, venne sistematicamente spettacolarizzato sulla base della sua varietà materiale. Nella storia del Freak Shows, un ruolo di primaria importanza ha la figura del “self-made freak”: l’uomo o la donna tatuati, la cui esibizione costituiva di fatto una messa in scena funzionale a risolvere sia pure temporaneamente l’ansia identitaria di un intero continente ancora alla ricerca di una sua stabile configurazione di sé. Gli uomini e le donne che si esibivano nei Freak Shows in giro per l’America diventarono sempre più numerosi quando nel 1891 venne costruita e brevettata la prima macchinetta elettrica per tatuaggi, inventata da Samuel O’Reilly a New 58


York. Essa segna un altro momento estremamente importante nella storia del tatuaggio contemporaneo. Tatuarsi diventa facilissimo e ciò determina un’impennata nel numero di coloro che desideravano lavorare in un Freak Shows, tanto che la professione rapidamente declinò per eccesso di offerta. Il fatto che il tatuaggio abbia seguito questo percorso e sia passato per Freak Shows, carnival shows e per le zone del sistema considerate più malfamate, ha ovviamente lasciato una robusta eredità nei modi in cui tuttora viene percepito e giudicato e si consolida come pratica quasi esclusivamente adottata da mercenari e prostitute, acrobati e spogliarelliste, galeotti e pirati, pellegrini e soldati, popolazioni di marginali attratti dalla promessa di fedeltà indelebile del tatuaggio e dal suo essere segno di coraggio e dichiarazione di lealtà, marchio di rango e appartenenza a un gruppo. L’inizio della storia contemporanea del tatuaggio occidentale viene fatto risalire alla metà degli anni sessanta, quando comincia un periodo di intensa rivalutazione ed espansione dei suoi confini tradizionali. Definito come “Renaissance” del tatuaggio, questo periodo ha segnato l’inizio di un graduale cambiamento nella percezione pubblica e nella collocazione artistico-culturale del tatuaggio che ha cominciato a scalfirne le connotazioni ancora largamente negative. Da più parti si è quindi parlato di Tattoo Renaissance, per indicare l’enorme aumento di popolarità e diffusione di tatuaggi negli ultimi vent’anni. Diversi fattori hanno contribuito all’aprirsi di questa Renaissance, che ha di fatto spostato l’asse interpretativo del tatuaggio riconoscendolo come una produzione artistica di valore, cui oggi viene dedicato un numero sempre crescente di riviste specializzate, mostre, conferenze. Di questi fattori, il primo è stato sicuramente la presenza di una nuova generazione di tatuatori con alle spalle una formazione artistica diversa rispetto ai tatuatori della vecchia scuola che spesso, e con poche eccezioni, non sapevano nemmeno disegnare, ma solo riprodurre i flash, un’attitudine aperta alla sperimentazione stilistica, che ha portato questa avanguardia di tatuatori a cercare ispirazione tra materiali provenienti da tradizioni non 59


occidentali, innovazioni tecniche come l’impiego di più colori e macchinette elettriche più precise e affidabili, in grado di consentire un lavoro più dettagliato e sfumato; un netto miglioramento delle condizioni igieniche e di sterilizzazione, che spesso in passato lasciavano molto a desiderare e infine una diversa relazione tra cliente e artista nell’ambito della quale si riserva uno spazio sempre maggiore all’iniziative del cliente e a lavori individuali creati ed eseguiti su misura e non più in serie segnando una svolta dalla cultura della riproducibilità seriale dei flash a quella dei pezzi unici, radicalmente distintivi di chi li indossa e costitutivi di una sorta di libro illustrato del loro immaginario, delle loro ossessioni e dei loro desideri, piuttosto che funzionare da codici di appartenenza a una certa tipologia sociale. La trasformazione è stata relativamente rapida. Nel corso di alcuni decenni il tatuaggio insieme ad altre pratiche di decorazione corporea come il body piercing, è uscito allo scoperto e conta oggi migliaia di appassionati. Il body piercing rappresenta il ritorno al mistero di un corpo che sceglie di provare sensazioni: significa fare del corpo materia prima di un’arte che usa la carne per scolpire, così come il tatuaggio usa la pelle per disegnare. Quando l’ago penetra nella carne il corpo si tende, ogni muscolo si contrae, il respiro s’arresta per un istante e tutte le cellule si concentrano furiosamente in un’attesa che sembra senza fine; la tensione è al massimo, l’adrenalina scorre a fiumi, e improvvisamente ecco che si sente. La mente e il corpo diventano una cosa sola, totalmente focalizzata nel qui e ora dell’esperienza. Il corpo si offre al metallo che lo penetra con una tensione e un desiderio mai provati, la mente sa della propria scelta e gioca con questo potere liberamente esercitato; e poi lo sguardo scorre sul corpo e sullo specchio a osservare la bellezza di una decorazione radicale, come radicale è stata la sensazione per ottenerla. Una bellezza squisitamente personale e unica, così come unici sono i corpi che la scelgono.

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Un esempio di ciò vale anche per il corset piercing, moda che spopola sempre di più tra i giovani. Nato alla fine del ‘900, questo particolare piercing era considerato di stampo erotico, e tutt’oggi fa riferimento all’estetica fetish. Consiste in una serie di piercing, con buchi temporanei o definitivi, che sono posizionati su due linee parallele dritte o ricurve; in ogni buco è collocato un cerchietto attraverso il quale viene fatto passare un nastrino, solitamente di seta; in questo modo si rievoca il corsetto e/o busti femminili delle mode antiche. La scarificazione - un ulteriore pratica di decorazione permanente del corpo che a prima vista può apparire come la più brutale, consiste nell’incidere la pelle al fine di procurare cicatrici ornamentali; le cicatrici decorative possono variare notevolmente per dimensione e grado di rilievo, da cheloidi grossi come una nocciola fino a intricati motivi formati da incisioni sottilissime, che danno vita ad un’arte della carne, della pelle e del sangue dalle specialissime qualità xilografiche. Poiché particolarmente dolorosa, costituisce una formidabile prova di resistenza, superata la quale, si sarà definitivamente dimostrata la propria forza e il proprio coraggio. Tra le particolari procedure di scarificazione una consiste nel performare semplici tagli, seguendo un tracciato decorativo, mentre l’altra nel sollevare la pelle con un uncino per poi inciderla con una lama, in questo modo si provocano cicatrici che saranno tanto più estese e in rilievo quanto più la pelle sarà sollevata. Sostanze irritanti vengono poi spalmate sulle ferite al fine di accentuare la cicatrizzazione nel senso voluto. Nelle tribù dove la scarificazione è, o era, parte integrante della cultura, se ne esaltano le particolari proprietà curative, incisioni in prossimità di organi del corpo disturbati o malati ne agevolano la guarigione. Tagli sul corpo controbilanciano l’influenza di energie negative stagnanti nel corpo aprendo loro, letteralmente, una via d’uscita. In Nigeria, la scarificazione veniva praticata soprattutto per motivi ornamentali, al fine cioè di incrementare il grado di attrazione del corpo, considerando il dolore fisico che si deve sopportare per raggiungere questo ideale come un passo necessario per diventare più belli, 61


desiderabili; dalle ferite sanguinanti emerge un nuovo corpo, un corpo che il sangue ha purificato, un corpo di una bellezza definita luminosa, poiché un corpo che risplende è un corpo considerato attraente. I.5.1. Modern Primitives: Fakir Musafar L’idea di “Modern Primitives” è senza dubbio essenziale per la comprensione delle pratiche di decorazione corporea. Nome preso da un vero fachiro indiano vissuto nel XIX secolo che si racconta: vagò per diciotto anni portandosi spade e lance infilzate nella pelle e cercando di trasmettere i misteri del corpo e della psiche. Espressione ormai classica all’interno della storiografia del tatuaggio che venne introdotta da Fakir Musafar - uno dei pionieri riconosciuti nel territorio delle esplorazioni corporee, il “body-play”. Musafar ha dedicato l’intera esistenza alla sperimentazione e divulgazione del verbo body-play, avendo cominciato a praticare su di sé svariate forme di manipolazione da quando, adolescente, esattamente all’età di dodici anni, diede inizio all’esplorazione sistematica delle varie deformazioni e mutilazioni corporali e dei riti iniziatici praticati dall’uomo sin dai tempi antichi. Prendendo spunto da una fotografia di un guerriero della Nuova Guinea, la cui attaccatura del busto stretta giorno e notte da una rudimentale cintura era stata deformata per sempre dopo anni di atroci sofferenze, il giovane Musafar decise di indossare una stretta fascia alternata ad un corsetto speciale da lui costruito. L’esperimento è durato per più di trent’anni e ancora oggi, a cinquantacinque anni, il suo giro vita vanta misure da record, portando la misura del suo giro vita da 73 a 48 centimetri già negli anni Cinquanta. Si è sottoposto alle pratiche più estreme della body art: dal restringimento del giro-vita all’allungamento del pene, dal letto di chiodi al restare appeso per ore ed ore a degli uncini infilati nel petto. Secondo la sua filosofia l’uomo non possiede realmente il suo corpo, poiché esso è della natura, è come una casa che abitiamo ma di cui non siamo proprietari, per viverci meglio siamo liberi di modificarla, abbellirla e 62


decorarla. Si tratta di un concetto in cui alcuni popoli, come gli aborigeni australiani hanno sempre creduto ma che è invece estraneo a noi occidentali: «alle culture moderne sembra mancare un’intera parte di vita. Dilaga l’alienazione e la gente ha perso il contatto con le cose e con se stessa. Serve un rimedio e il principio base può essere sintetizzato così: gioca con il tuo corpo e fanne ciò che vuoi. A mio avviso la gente ha un disperato bisogno di questi riti, ecco perché rinascono il piercing e il tatuaggio. In un modo o nell’altro, c’è bisogno di una cultura tribale. Un Modern Primitive è una persona che reagisce a impulsi primari intervenendo in qualche modo sul proprio corpo»41. E’ anche colui che, alla fine degli anni Settanta coniò l’espressione “Modern Primitives” per designare l’allora ristretto e decisamente underground gruppo di sperimentatori che si riunivano a Los Angeles sotto la tutela di un eccentrico miliardario appassionato di piercing erotico. Quando Fakir Musafar prese a esibire pubblicamente i suoi piercing e tatuaggi in Tattoo Conventions, il suo gesto rappresentò una sorta di segnale di arrembaggio in un momento in cui, va ricordato, ancora non esisteva l’esteso network di pratiche e culture di body modifications che esiste oggi. Fu quindi uno tra i molti segnali della progressiva comparsa e della sempre maggiore visibilità di corpi decorati e interessati alla sperimentazione corporea radicale. Un altro momento nella storia delle pratiche contemporanee di decorazione corporea fu la pubblicazione del volume Modern Primitives interamente dedicato a questo argomento, nonché ai rituali e alle attitudini ad esso collegati, pubblicato nel 1983 dalla casa editrice Re/Search di San Francisco su suggerimento dello stesso Musafar. Questo volume ha avuto un forte impatto sull’eterogeneo mondo delle sottoculture, non solo per aver radunato materiale informativo e fotografico fino ad allora pressoché inedito, ma anche per aver collegato una svariata molteplicità di interventi corporei all’interno dell’idea Modern Primitives. Inoltre contribuì a portare allo scoperto pratiche fino ad allora considerate bizzarre o associate a realtà del tutto marginali, e quindi a dare forma a quello 63


che nel giro di pochi anni è diventato un insieme di pratiche conosciute, visibili e ampiamente discusse. Proprio intorno a questa urgenza di marcare il corpo e al desiderio di mettere in discussione nozioni dominanti di corpo-realtà, si è sviluppata quella fluida affiliazione di individualità e differenze che è stata definita impropriamente come il movimento Modern Primitives, ma che più precisamente individua una fluidissima e trasversale affiliazione di soggetti di diversa provenienza ed estrazione, accomunati da simili esperienze e dal desiderio di agire sul proprio corpo. I.6. Alterazione busto/toracico: Il Tight-Lacing Il corpo è stato soggetto a vari tipi di potere disciplinare: le relazioni di potere lo investono, lo segnano, lo istruiscono, lo torturano, lo forzano al fine di emettere segni. Molti studiosi femministi hanno sostenuto che specialmente il corpo della donna è stato soggetto a regimi disciplinari, come le diete e alcuni vestiti che erano pensati per renderla docile e femminile. Specialmente il “corsetto” è stato interpretato come strumento d’oppressione fisica e mercificazione sessuale. Ma esso è stato anche glorificato per il suo fascino erotico tanto che, secondo lo storico dell’arte David Kunzle, lontano dall’essere oppresse dai corsetti, le tight-lacer del XIX secolo erano feticiste sessualmente liberate che provavano piacere fisico nella stretta di quel capo. Il corsetto fu uno dei primi articoli d’abbigliamento ad essere trattato come feticcio e resta ancora uno dei più importanti capi della moda fetish. Ma è cruciale distinguere tra l’ordinaria corsetteria alla moda, praticata dalla maggior parte delle donne del XIX secolo e la pratica minoritaria del “tight-lacing”, che a volte coincide con il sadomasochismo e il travestitismo. Il termine inglese tight-lacing - che letteralmente significa “allacciatura stretta”, è una pratica feticista che consiste nel cercare di ottenere il “vitino di vespa” più sottile possibile tramite l’applicazione di corsetti inverosimilmente stretti fino a deformare il giro vita, portando così l’arte del corsetto all’estremo. 64


In epoca vittoriana avere un vitino di vespa era considerato un pregio, ma non tutte le donne nascevano con questa “dote” naturale, così l’unico espediente era quello di utilizzare delle strutture meccaniche per alterare le forme naturali del corpo sin da bambine. Strumenti di potere seduttivo, che col tempo però scoprirono i problemi fisici che conseguivano naturalmente a questa pratica: deformazioni della cassa toracica, malformazioni ossee, spostamento degli organi interni (l’intestino che si muove verso il basso ventre), compressione dei polmoni con conseguenti difficoltà respiratorie, tubercolosi, dipendenza dal corsetto con l’instaurarsi di insufficienza muscolare, senza contare che le stecche di balena, con cui erano fabbricati per gonfiare il corpo dove serviva e snellirlo altrove, potevano rompersi e lacerare le carni e a volte gli organi interni. Il corsetto ha sollevato più controversie di ogni altro capo d’abbigliamento. Ci sono due ragioni di base: una medica, l’altra testuale e sessuale. La maggior parte dei reclami sui disturbi causati dal corsetto è completamente priva di validità o fortemente esagerata. Non ci sono neanche prove a favore dell’idea popolare che le donne vittoriane si facessero togliere alcune costole. Anche l’uso delle fonti popolari può essere estremamente semplicista. La giornalista Susan Faludi, per esempio, scrive: «Ad ogni ribellione da parte delle donne, l’industria della moda ha prodotto abiti punitivamente restrittivi e le riviste di moda hanno chiesto alle donne di indossarli. “Se vuoi che una ragazza cresca gentile e femminile nei suoi modi e sentimenti, stringi i lacci del suo corsetto”, affermava uno dei molti uomini sostenitori del corsetto sulla stampa del periodico tardo vittoriano»42. Il famoso avvertimento “stringere i lacci del suo corsetto” è stato spesso considerato una prova che le ragazze e le donne vittoriane erano forzate a subire dolorose stecche schiacciate e allacciate strettamente come parte di un sistema premeditato d’oppressione femminile. La questione deriva da una delle fonti più sospette: le malfamate “corrispondenze sul corsetto” pubblicate nell’ «English woman’s Domestic Magazine». Tra il 1867 e il 1874 «EDM» stampò centinaia di lettere sulla corsetteria e il tight-lacing, 65


spesso usando forti toni sadomasochisti. Molti storici hanno accettato acriticamente i bizzarri resoconti sul tight-lacing in «EDM» come fossero prova della diffusione di corsetti torturanti durante l’era vittoriana. Le lettere di «EDM» e dei loro successori raramente difesero tale pratica. Presentate fuori dal contesto, le lettere collegano solo apparentemente la corsetteria all’oppressione delle donne. Certamente, i corrispondenti della rivista avevano priorità differenti da quelle della donna media vittoriana. Le loro ossessioni sono riassumibili in tre categorie: estreme modificazioni del corpo dovute al fatto di indossare stretti corsetti di giorno e di notte; un piacere sadomasochista nel dolore e un’enfasi su scenari erotici concernenti dominanza e sottomissione; la corsetteria come elemento di cross-dressing. Le lettere sul tight-lacing non erano comunque necessariamente vere. Quando il tight-lacer Pearl43 andò al Costume Institute del Metropolitan Museum of Art, rimase deluso nel trovare che pochi dei corsetti che vide erano piccoli come i suoi busti da 48 centimetri. I corsetti esposti in genere vanno dal 45 ai 76 centimetri ma erano ampiamente presenti anche corsetti più grandi, dai 78 ai 90 centimetri, fino a taglie da 94 centimetri e oltre. Delle centinaia di corsetti esaminati, meno di una mezza dozzina erano taglie inferiori ai 45 centimetri. Una pubblicità per corsetti dalla vita molto stretta li raffigurava dai 38 ai 65 centimetri e poteva essere indirizzata a una clientela tight-lacing. Collezioni di corsetti in altri musei indicano che la misura media era dai 50 ai 65 centimetri quando venivano completamente allacciati, ma molte donne lasciavano aperti 5 o 6 centimetri nella parte posteriore. Le vite sottili menzionate da fonti come «EDM» non erano affatto tipiche delle donne vittoriane. Dati gli estremismi del comportamento umano non si può dire che non sia mai esistita una vita da 40 centimetri. Invece, fonti contemporanee dimostrano che una vita più sottile di questa può ed è esistita. Ma prove storiche dimostrano che in passato, come oggi, vite di tali dimensioni erano rare. Perciò è tempo di abbandonare il mito di una vita di 40 centimetri come pietra miliare per pensare alla donna del XIX secolo. L’idolo 66


di Pearl, Fakir Musafar - una figura chiave nel mondo delle modificazioni corporali, ha identificato tre tipi fondamentali di persone che oggigiorno indossano corsetti: i nonconformisti coloro che vogliono cambiare la forma del corpo e realizzare qualche sorta di ideale estetico. Presumibilmente, lui stesso si posizionerebbe in questa categoria; gli identificazionisti - coloro che associano i corsetti con la femminilità e con la biancheria femminile. Non sono necessariamente molto interessati nello scolpire il corpo/tight-lacing, ma indossando il corsetto sembra che abbiano una sorta di trasformazione del genere sessuale. Non lo dice esplicitamente ma molti travestiti possono essere collocati in questa categoria; i masochisti - coloro che stringono i lacci del corsetto per creare una scomodità erotica. Tra queste categorie esistono considerevoli sovrapposizioni e alcuni tipi non possono essere classificati esattamente in esse. Ovviamente vanno considerati, oggi meno che nel XIX secolo, anche i seguaci della moda. Molte delle lettere di «EDM» contengono riferimenti a: disciplina, restrizione, costrizione, sofferenza, dolore, tortura, agonia, sottomissione e a vittime. Ma una vita di piccola taglia non era abbastanza per alcuni corrispondenti, i quali sostenevano che metà dell’attrazione per una vita sottile non è dovuta al fatto in sé, bensì dall’essere costretta in uno stile tight-laced. In altri termini più è serrata meglio è. Una restrizione ben fatta è di per sé attraente. Ciò è estremamente inusuale nella cultura vittoriana convenzionale dove una vita naturalmente sottile era di gran lunga preferita alla simulazione che di essa offriva il corsetto. Ma per gli scrittori di lettere a «EDM» era altrettanto comune immaginare uomini e ragazzi forzati al tight-lacing per mano di donne dominanti. Altri erano ispirati dal torturare e vittimizzare se stessi. Richard von Krafft-Ebing44 descrisse un uomo che godeva del dolore del tight-lacing, provato su se stesso o indotto alle donne. Dolore e compressione sono frequentemente accostati nelle lettere di «EDM» con riferimento a termini come: affascinante, incantevole, deliziosa, superba, squisita, piacevole, che 67


presumibilmente si riferiscono alla sensazione prodotta dal tight-lacing. Dolore e piacere, comunque, non erano il solo scopo, in quanto anche dominanza e sottomissione erano di notevole importanza. Da qui derivano molte storie che raccontano dell’induzione al tight-lacing. Perché Vienna e Parigi furono scelte come luoghi immaginati del tight-lacing?. In parte, probabilmente, solo perché sono paesi stranieri e in posti lontani possono accadere cose strane dove, d’altronde, la maggior parte dei lettori non era mai stata. L’entusiasmo per Vienna ha una storia meno complessa e più evidentemente feticistica, che è riconducibile direttamente alla famigerata vita sottile dell’imperatrice Elisabetta d’Austria (1837-98). Secondo una moderna biografia, l’imperatrice aveva il punto vita di 50 centimetri, era alta 170 centimetri e pesava solo 50 chilogrammi. Ovviamente osservava una dieta, praticava esercizi e anche il tight-lacing. Elisabetta d’Austria riveste attualmente un ruolo di prestigio tra gli entusiasti del corsetto. Altro tema molto importante della letteratura feticista fu la pratica del tight-lacing da parte degli uomini. E’ importante inoltre ricordare che la maggior parte degli uomini nel XIX secolo non indossava corsetti. Comunque esistevano corsetti e cinture da uomo. Nel 1820, in particolare, i dandy a volte indossavano corsetti con le stecche e allacciati sul dietro, allo scopo di ottenere un’elegante forma a clessidra e per avere una figura raffinata e sottile. Le caricature dei dandy prodotte tra il 1815-1820 designano la maggior parte degli uomini alla moda che indossano corsetti e busti; un esempio è quella realizzata da George Cruickshank, Laceing a Dandy, 1819, (illustrazione): essa riproduce il protagonista che viene allacciato dai suoi servitori. Il «Workwoman’s Guide» del 1838 sostiene che i busti per uomini erano usati dall’esercito per la caccia e per esercitazioni tenaci. Questi corsetti spesso erano semplicemente una cintura o una fascia di stoffa così da non competere con le curvature di quelle femminili. L’idea di uomini con il corsetto inorridiva molti corrispondenti, perfino uomini devoti come La Genie, 68


che approvava o imponeva il tight-lacing per le ragazze, ma insisteva che lui stesso non avrebbe mai indossato un corsetto, considerandola un’idea alquanto disgustosa. A volte i corsetti per uomini erano giustificati, ma limitatamente a motivi di salute e per malattie alla schiena. Più dubbie sono le storie su mogli che forzano i propri mariti alla pratica del tight-lacing e del cross-dressing. Comunque, studi contemporanei sui travestiti e sulle loro mogli mettono in evidenza che sono gli uomini a scegliere il cross-dressing. Alcuni uomini, comunque, facevano e fanno indossare i corsetti. Il più antico annuncio per corsetti da uomo è datato 1899 ed illustra parecchi modelli che spaziavano dalle cinture da notte e da caccia sino a corsetti lunghi e pesanti fatti di stecche con nomi militari come The Mariborough e The Carlton. Ci sono davvero pochi corsetti da uomo nei musei, sostiene Valerie Steele, anche se al Kyoto Costume Institute la studiosa esaminò un corsetto inglese “Apollo brand”, fatto con una stoffa rigida beige e acciaio spartano della fine del XIX secolo. La più famosa tight-lacer è senza dubbio Ethel Granger (19051982), di Peterborough, in Inghilterra, che negli anni ridusse la misura della sua vita da 59 centimetri a 33 centimetri. Una piccola donna di un metro e sessanta centimetri che pesava solo 45 chilogrammi. Cominciò ad indossare corsetti nel 1928, sotto l’influenza del marito Will Granger, malizioso feticista che scrisse e pubblicò privatamente una biografia della sua vita. Will Granger era ossessionato dalle modificazioni corporali fin dalla giovane età, nonostante sperimentasse solo per breve tempo il corsetto su se stesso. Figura chiaramente dominante nel suo matrimonio, non solo costrinse la moglie al tight-lacing, ma le applicò anche tredici piercing sul corpo. Il motivo per cui lei accettò tutto questo è oscuro, anche se gente che la conosceva sostiene che lei perfino ne godesse. L’ossessione del marito per il tight-lacing era tale che fu seccato quando l’ostetrica di Ethel insistette per sospendere il lacing durante la gravidanza. Lei stessa perse interesse al tight-lacing durante gli anni della guerra, ma Will la indusse a 69


continuare nel 1946. Alla fine degli anni Cinquanta riconquistò i suoi 33 centimetri. Sebbene i giochi fisici dei Granger erano inizialmente riservati, alla fine divennero di culto. La stampa parlò di Ethel nel 1957 e nel 1959 e ancora nel 1968 quando l’Associated Press pubblicò fotografie della sua vita di 33 centimetri. Alla fine entrò nel Guinness dei Primati per avere la “Vita più sottile del mondo” e tale particolarità fu fatta scrivere dal marito persino sul passaporto. La pubblicità del corpo scolpito di Ethel Granger effettivamente valorizzò tale pratica per molte persone. Ethel morì nel 1982, pochi anni dopo suo marito, rimanendo tight-laced quasi fino alla fine. Ethel Granger non è l’unica ad aver ecceduto nell’uso del busto; anche l’attrice francese degli anni ‘30, Emilie-Marie Bouchard (1874-1939), possedeva un giro vita estremamente sottile arrivando allo stesso record della Granger, ben 33 centimetri. I.6.1. Il Tight-Lacing Oggi: Cathie Jung e Mr. Pearl Cathie Jung - la regina del corsetto (1937), di Manteo, nel North Carolina, casalinga di 75 anni, attualmente detiene il primato (da vivente) del girovita più sottile al mondo sottoponendosi ad anni di costrizioni nel corsetto, la cui deformazione permanente ha alterato la sua silhouette in modo irreversibile. In un’intervista di Valerie Steele, Cathie Jung definisce così il corsetto: «E’ un concentrato di femminilità e serve a mantenere un fisico sinuoso anche in tarda età»45. Cathie Jung riesce a stringere i lacci fino a 38 centimetri. Questa misura è una stima della sua vita al di sotto del corsetto, considerando che esso aggiunge altri 5 centimetri, dando una misura esterna di circa 43 centimetri. Mediamente, la misura della sua vita è di 45 o 48 centimetri nella parte esterna del corsetto. E’ alta un metro e sessantasette centimetri e pesa circa 59 chilogrammi. Per ottenere una vita così sottile, pratica dal 1983 il cosiddetto “corset-training” - indossando cioè il corsetto ventiquattro ore al giorno, togliendolo solo per fare la doccia, e questo ha permanentemente modificato il suo corpo. I raggi X del suo 70


torace mostrano un’evidente modificazione delle sue costole inferiori e forse un allungamento dello spazio tra le vertebre. Al fianco di Cathie, fiero sostenitore delle sue scelte è il marito Bob Jung, chirurgo ortopedico, che rassicura: «La colonna vertebrale di Cathie è stabile, in quasi trent’anni non ha mai avuto problemi di alcun genere, solo le ultime due costole con il passare degli anni si sono leggermente modificate»46. Lei è fiduciosa comunque nel fatto che lui non la incoraggerebbe mai a fare una cosa clinicamente pericolosa. Il marito ha dedicato tutta la vita ai corsetti. Quando erano fidanzati, trent’anni fa, lui la incoraggiava a portare il corsetto nelle occasioni speciali. Per il giorno del loro matrimonio lui aveva un corsetto fatto su misura. L’interesse del marito verso i corsetti non dà alcun problema a Cathie: «era solo una cosa che amava»47. Lei indossava corsetti occasionalmente, per lo più nelle serate. Poi, circa dieci anni dopo conobbero alcuni entusiasti del corsetto in Inghilterra e in Germania e divennero così maggiormente coinvolti nel tight-lacing. Will Granger usava occasionalmente allacciare davanti ad estranei il corsetto di Ethel così strettamente e così velocemente che lei perdeva coscienza. Cathie non ama sentirsi stordita in questo modo e preferisce rimanere allacciata di continuo. In genere allaccia il suo corsetto usando un gancio alla maniglia di una porta per tenere i lacci in tensione. Ma è anche il marito che spesso aiuta Cathie nell’operazione: per stringere il corsetto. Cathie afferra un barra sopra la testa, perché tirando rischierebbe di perdere l’equilibrio, serve quindi una posizione che permette di frapporre il ginocchio e spingere nel contempo che si fanno i nodi; in questo modo le costole vengono spinte verso l’alto e la vita si allunga facilitando così l’allacciatura. Per assicurare una perfetta vestibilità, applica inoltre una benda gessata e crea un calco del suo corpo, in questo modo i corsetti vengono realizzati su misura. Un’operazione che dura circa quattro ore, dove Cathie si fa aiutare da due volontari. Il calco quindi fa da negativo, riempito poi da una schiuma isolante, molto leggera, diventa così un vestito perfetto, la riproduzione esatta quindi del suo corpo. Una volta imbottito 71


il busto verrà spedito al sarto/corsettiere Jeroen van der Klis48 che realizzerà vestito e corsetto. Vive ad Amsterdam e senza la presenza di Cathie è in grado di realizzare fedelmente la sua taglia. Usando un manichino, può cucire un corsetto della misura esatta e una volta terminato spedisce tutto. E’ laureato in Ingegneria e le sue conoscenze gli hanno permesso di analizzare in modo attento il design e la struttura dei corsetti, sostituendo le ossa di balena e le stecche di acciaio con sostegni rigidi che ridispongono il girovita e gli organi vitali come in gravidanza: «Gli organi si fanno da parte per lasciare spazio al bambino, allo stesso modo anche quando si allaccia il corsetto si dispongono in modo da adattarsi alla vita»49. Il marito di Cathie gioisce alla vista della corsetteria, soprattutto per il modo in cui valorizza le forme. Ha sempre amato tutto ciò. La vista di una donna in corsetto per lui è stimolante da un punto di vista sessuale, come anche per Stuart Trench Brown50, corsettiere che produce e indossa corsetti, il quale sostiene in un intervista: «La resurrezione del corsetto libera l’espressione sessuale»51. Il principale interesse di Cathie Jung è quello di soddisfare il marito (considerando che il 99% delle volte le donne indossano il corsetto per i loro mariti o per altri uomini che reputano importanti nella loro vita). Di solito il corsetto è un fenomeno di coppia; nelle coppie eterosessuali dove l’uomo non è un cross-dresser e dove nessuno dei partner è coinvolto nel sadomasochismo, il marito è colui che nutre interesse per i corsetti. Se Cathie Jung, si fosse sposata con qualcun altro uomo che non era interessato al corsetto, sicuramente non avrebbe mai provato una simile esperienza. Se il marito morisse, probabilmente, continuerebbe ad indossare il corsetto, dopo che lo si è portato per un periodo così lungo, il corpo si abitua ad esso. Inoltre, tutti i suoi vestiti sono fatti su misura per adattarsi alle linee del corsetto e se smettesse d’indossarlo non avrebbe nulla da mettersi.

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Cathie conosce alcune donne single che indossano i corsetti semplicemente perché così si piacciono. E’ popolare come una moda. Queste giovani donne tendono ad indossare il corsetto sopra i vestiti, a volte insieme ad articoli di stile fetish come pelle e lattice. Un esempio è Lauren, una donna di ventisei anni che indossa un corsetto di 48 centimetri: «Mi piace come mi fa sentire, come se qualcuno mi tenesse. E amo l’aspetto che mi dà»52. Diversamente da Cathie, che pratica il tightlacing per piacere a suo marito, Lauren insiste: «indosso il corsetto per me stessa, non per il mio compagno»53. Cathie paragona il tight-lacing al balletto: il balletto è culturalmente accettato, il corsetto no, ma in entrambi i casi devi istruire il tuo corpo. Il balletto è duro per i piedi, ma il risultato è accettato e apprezzato. Il tight-lacing come il balletto, esprime forza e grazia, è femminile ma molto forte. Le piace dissipare i miti sui corsetti. Non ha problemi di salute: basta farlo in modo regolare e permettere al corpo di adattarsi. Gli unici problemi insorgono quando non ci si esercita o ci si sente deboli. Quando il corsetto divenne di moda, Cathie notò un significativo cambiamento nelle feste da ballo alle quali partecipava, dedicate agli amanti di questo oggetto. Alla prima festa, in Inghilterra, parteciparono circa venti coppie eterosessuali: gli uomini in smoking, le donne in elegante abito da sera con sopra il corsetto. Le feste recenti, come quella del 1994 a Vienna, hanno attirato un pubblico vasto ed eterogeneo, compresi uomini cross-dresser e donne che indossavano il corsetto come outerwear. Cathie Jung detiene dal 1999 il Guinness World Record per “Il girovita più stretto del mondo”. Mr. Pearl - il mago dei corsetti, pseudonimo di Mark Pullin, nato in Sud Africa nel 1962, è un tight-lacer con un girovita di 46 centimetri: «Indossare un corsetto è un’esperienza sensuale ma non riguarda il mio interesse per una pratica sessuale»54. Come molti entusiasti, Pearl maturò in una famiglia molto religiosa e il suo interesse per i corsetti risale alla prima infanzia. All’età di due anni viveva con la nonna. Lei indossava il corsetto ogni 73


giorno perché si era slogata la spina dorsale da giovane, Pearl quindi l’aiutava ad allacciarlo; era bellissimo, tutto rosa, quel bel raso rosa pesco. A soli tre anni quindi iniziò a fantasticare sui corsetti: «Non faccio questo per tentare di somigliare ad una donna»55, afferma Pearl. Il tight-lacing per lui è controllo di se stesso. Gli abiti devono essere più disciplinari. Anche se trova il corsetto confortevole, ciò che ama è la sensazione di restrizione e l’idea che l’abito comporti certe regole, non ti permetta di fare alcune cose, ad esempio non puoi piegare la schiena. Se non indossa un corsetto non si sente a posto. Non gli piace camminare scalzo; ama le sue scarpe di pelle. Dorme con il suo corsetto o con una cintura: perché è meglio essere sempre sotto controllo, lo fa sentire meglio. Basati su un rigoroso studio dell’anatomia e della storia del costume, i corsetti raffinati e scenografici di Mr. Pearl sono vere e proprie opere d’arte per busti scheletrici. «Cerco di catturare un sogno»56 dichiara. «Creare un tipo di bellezza così forte da sembrare incredibile. I miei corsetti non riguardano la moda. Sono molto oltre la moda»57. Il designer che ama indossare i suoi stessi corsetti, ha lavorato negli ultimi anni per Jean Paul Gaultier, John Galliano, Christian Lacroix, Alexander McQueen, Thierry Mugler, Vivienne Westwood. Praticando il waist-training, si sente più vicino ai clienti: «Non sono sadico. Indossare io stesso il corsetto crea un legame di empatia con il mio cliente. E fare un corsetto diventa un’esperienza condivisa anziché essere l’imposizione di uno stilista troppo esigente»58. Confeziona i costumi di scena delle dive del burlesque come Dita Von Teese59 - la perfetta indossatrice di corsetti, è la sua cliente più celebre che, dal canto suo, lo ritiene “l’uomo più elegante che abbia mai visto”60, e delle popstar internazionali; Kylie Minogue, per il Showgirl Tour (2005) ha indossato un fantastico corsetto blu creato da Mr. Pearl per la collezione Autunno-Inverno 1997 by John Galliano, ricamato con più di 500.000 cristalli Swarovski e perline. Il massimo della celebrità pop la raggiunge nel 1999 con la preparazione del busto per l’abito con cui la ex Spice, Victoria Adams sposa il calciatore David Beckham. 74


Per Jean Paul Gaultier ha creato il celebre corset-dress, abito lungo di colore rosa indossato in passerella da Sophie Dahl per la collezione Haute Couture Primavera/Estate 2001, e la sorprendente guêpière color carne con dettagli neri indossata da Dita Von Teese per la sfilata Haute Couture Autunno/ Inverno 2010 a Parigi, che ha un ricamo a forma di colonna vertebrale sulla schiena: ricorda le ossa di uno scheletro e ridisegna il suo corpo a clessidra. Con Thierry Mugler61 collabora dai primi anni Novanta. Ha realizzato i corsetti della collezione “Les Insectes” Primavera/ Estate 1997 e il celebre “Bike Corset” di metallo della collezione estiva del 1993, indossato anche da Beyoncè per promuovere l’album “I’m… Sasha Fierce” (2008). Mr. Pearl crea solo su commissione ed è insensibile alle nuove tecnologie; accetta solo ordini scritti a mano e trasmessi via fax. Non ama però definirsi un corsettiere: «Non ho quella conoscenza specialistica, sperando però un giorno di possedere quell’arte. Nel frattempo mi specializzo in capi con lacci e stecche»62. Ha acquisito una conoscenza unica nel come creare oggi un corsetto del XIX secolo: il suo girovita e la linea del suo corpo creata dal corsetto è esattamente come nel XIX secolo. «Senza l’Alta Moda, il corsetto e il mestiere di fare corsetti non sarebbe mai avvenuto»63.

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Note Popolazione dell’Africa occidentale, concentrata nella parte sud-orientale del Burkina Faso, ma presente anche nel nord del Ghana, della Costa d’Avorio, del Togo e del Benin. Originari delle rive del Volta Nero, nel nordovest del Ghana, i Lobi sono emigrati in ondate successive nel loro territorio attuale del Burkina Faso, a partire dalla fine del secolo diciottesimo. Sono una popolazione di circa 180.000 persone organizzata su base clanica e senza autorità centralizzata; coltivano cereali e allevano bestiame che viene scambiato in occasione dei matrimoni o immolato nei sacrifici. Hanno fama di feroci guerrieri e hanno saputo resistere sia alla penetrazione dell’Islam che a quella del Cristianesimo. La denominazione Lobi si riferisce sia ad una designazione territoriale e amministrativa in uso durante l’epoca coloniale, sia ad una designazione plurietnica che raggruppa le popolazioni vicine quali: i Dagari, i Birifor, i Dian, i Gan, i Dorossié, i Téguéssié con cui i Lobi condividono alcuni tratti delle loro istituzioni e della loro cultura. Bargna, Ivan, I Dizionari delle Civiltà. Africa nera, Mondadori Electa ed., Milano 2007, p. 20-21. 1

Gruppo etnico che vive nelle zone forestali. Popolazione di lingua mande (termine che designa un’ampia famiglia linguistica che ha il suo centro nella regione di Bamako e che si estende in direzione del Burkina Faso, del Senegal, Gambia, Guinea, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio e Ghana) che vive di agricoltura (miglio, riso, sorgo, mais, ecc.), mentre il bestiame svolge soprattutto un ruolo di prestigio ed è utilizzato nel pagamento del “prezzo della sposa” e nei sacrifici. Centrale è la distinzione fra agricoltori, artigiani e schiavi. La gerarchia delle “caste”, non esclude una limitata mobilità sociale, al punto che gli schiavi possono talora assumere posizioni di potere. Centrale è anche la distinzione fra gli Honrow - parte della popolazione legata alla terra e all’agricoltura, di cui fanno parte nobili, guerrieri e contadini e gli Nyamakalaw - gruppo che ha il controllo sulle forze vitali della natura (nyama), che, in quanto si guardino reciprocamente con diffidenza, dipendono strettamente gli uni dagli altri: mentre i primi forniscono il cibo, i secondi producono gli attrezzi e gli oggetti rituali, in ferro, legno e cuoio indispensabili per la vita quotidiana e le attività rituali. Ibidem, p. 15. 2

Popolazione sudanese, appartengono culturalmente al gruppo delle società Lobi, ma nella struttura sociale (discendenza matrilineare), nelle tecniche e nella mitologia rivelano influssi neosudanesi. Ibidem, p. 20. 3

Popolazione del Burkina Faso, anch’essi appartengono al gruppo delle società Lobi. Ibidem. 4

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Ibidem.

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Ibidem.

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Popolazione dell’Alto Volta (Burkina Faso), rappresentano soltanto il 5%

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della popolazione e vivono nella parte orientale del Paese. Ibidem, p. 20. Uno dei più importanti gruppi etnici Mandingo stanziati nelle savane che costituisce la maggioranza della popolazione del Mali e sono stanziati in un’ampia area dell’Africa occidentale (Guinea, Mali, Senegal). Popolazione che vive di agricoltura (miglio, sorgo, riso, mais, ecc.); attribuiscono al possesso di bestiame un alto valore connesso al prestigio. Ibidem, p. 15. 8

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Gruppo etnico della Guinea e del Senegal. Ibidem, p. 10.

Il Mukanda è una delle principali espressioni simboliche della cultura Lunda e lo si ritrova in molti gruppi insediati nella parte meridionale della Repubblica Democratica del Congo e nello Zambia occidentale. Tratto da La storia del rito mukanda, Allovio, Stefano, Culture in transito. Trasformazioni, performance e migrazioni nell’Africa sub-sahariana, Franco Angeli ed., Milano 2002, p. 103. 10

L’impianto descrittivo e le esperienze riportate in questo capitolo, sono tratte da Fusaschi, Michela, I Segni sul corpo. Per un’antropologia delle modificazioni dei genitali femminili, Bollati Boringhieri ed., Torino 2003. 11

Diane Arbus (1923-1971), fotografa statunitense che, col suo allontanarsi da ogni schema prestabilito, ha rappresentato un momento di profondo cambiamento tanto nei codici linguistici della fotografia, quanto nella percezione comune della realtà. Preparata, grazie al lungo tirocinio di fotografa di moda accanto al marito, al rigore formale ed alla perfezione tecnica, Diane Arbus è ben lieta di rinunciarvi quando comincia la sua ricerca personale alla fine degli anni ’50. Ella reagisce a questa pratica, che sente come una sistematica falsificazione cosmetica del reale, andando a “scoprire” ciò che non ha mai fotografato e di cui ha paura. Nel 1957 Diane inizia a scattare fotografie in giro per la città. Fotografa colta e raffinata, procede negli anni verso una semplificazione formale a partire da immagini sgranate e fortemente contrastate a causa di esposizioni approssimative. I suoi temi sono allora quelli che la renderanno celebre: del “sub-mondo” dei freaks. Si dedica allora ad una sua ricerca muovendosi attraverso luoghi (fisici e mentali) che da sempre per la società americana del suo tempo e per lei stessa erano stati oggetto di divieti, mutuati dalla rigida educazione ricevuta. Esplora: i sobborghi poveri, circhi, bordelli, ospedali psichiatrici, campi nudisti; scopre povertà e miserie morali, ma trova soprattutto il centro del proprio interesse nell’ “orripilante” freaks. Il suo stile, illusoriamente semplice e classico, conferisce un’incongruente solennità agli individui particolari che per lei posano guardando al suo obiettivo senza inibizioni, siano essi ermafroditi, nudisti, nani, giganti, travestiti, omosessuali, prostitute, emarginati, ritardati mentali, gemelli, strane coppie borghesi, insoliti bambini o giovani manifestanti pro o contro la guerra del Vietnam. Fotografia come valorosa affermazione del proprio essere “deforme”: del proprio esistere in quanto individuo/entità autonoma, al di là di ogni forma prestabilita e imposta. Proprio la categoria del “deforme”, 12

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infatti (nel suo significato etimologicamente neutro, e quindi sgombra da qualsiasi intento di giudizio), fu il campo prescelto dalla fotografa per cercarsi e riconoscersi nel mondo che la circondava. Dai più classici “fenomeni da baraccone”, agli individui affetti da deformità fisiche o psichiche, o più semplicemente considerati dalla società dispregiativamente “diversi” per certi loro comportamenti e attitudini; casistica che viene solitamente riassunta dal termine “freaks”, con cui ci si riferisce a persone che siano fisicamente abnormi o, più in generale, a individui considerati negativamente inusuali a causa del loro modo di agire. In queste foto il senso di inquietudine si fa forte, proprio quando la sensibilità della Arbus penetra in questo stretto spazio incontrollabile, svelando deformazioni segrete in volti e corpi all’apparenza perfettamente normali, e propongono, essenzialmente, modi diversi e “altri” di stare al mondo. Non tanto però, o non solo, per fare della fotografia sociale; quanto nella speranza che, all’interno di questa sconfinata varietà, anche il suo modo possa trovare spazio. Fotografare il proibito per restituirlo, nella cruda verità di un primo piano, agli occhi della mente: questo il canone che Diane Arbus elegge a principio assoluto del proprio lavoro, alla ricerca di un passaggio che lasci intravedere, al di sotto della maschera, il volto autentico della realtà. Diane Arbus bussa rispettosamente alle precarie porte delle esistenze che immortala, chiede di essere accolta e soprattutto di essere accettata: quasi chiedesse un’elemosina di coraggio a quegli individui così “strani”, ma nonostante tutto perfettamente in grado di esistere (facoltà, questa, che cesserà di assisterla nel 1971, conducendola al suicidio dopo un lungo periodo di depressione). Ogni sua foto è coltivata attraverso un rapporto diretto con il soggetto, in cerca di una reciproca fiducia, di una comprensione; i soggetti sono quasi sempre in posa frontale - consapevoli nel loro essere investiti dalla spietata carica indagatrice dell’onnipresente flash; focalizza costantemente l’attenzione: sulle espressioni e sugli sguardi, mimetizzando al massimo ogni accessorio, sia esso il vestiario del soggetto o l’ambiente che lo accoglie. L’anno seguente la sua morte, il Museum of Modern Art di New York) le dedica un’ampia esposizione; ed è inoltre, la prima tra i fotografi americani ad essere ospitata dalla Biennale di Venezia - riconoscimenti postumi questi che amplificheranno la sua fama, tuttora, purtroppo, infelicemente collegata all’appellativo di “fotografa dei mostri”. Nell’Ottobre 2006, esce al cinema il film: Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus - ispirato al romanzo della giornalista americana Patricia Bosworth (Diane Arbus. Vita e morte di un Genio della Fotografia, Rizzoli ed., Milano 2006), che racconta la vita di Diane Arbus interpretata dall’attrice australiana Nicole Kidman. Vergani, Guido, Dizionario della Moda, Baldini Castoldi Dalai ed., Milano 2010, p. 51. Franco Basaglia (1924-1980), psichiatra italiano, rappresentante della psichiatria italiana del Novecento; si impegnò nel compito di riformare l’organizzazione dell’assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale, proponendo un superamento del sistema manicomiale. Nel 1949 si laurea in Medicina e Chirurgia e inizia a frequentare la Clinica di malattie nervose e mentali di Padova, dove lavora come assistente fino al 1961. Durante questo 13

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periodo, e anche oltre, produce un ampia opera intellettuale con un gran susseguirsi di scritti, di pubblicazioni scientifiche, di relazioni congressuali sulle più diverse condizioni di malattia incontrate nella sua pratica clinica: la schizofrenia, gli stati ossessivi, l’ipocondria, la depressione, l’anoressia, i disturbi correlati all’abuso di alcool e altro ancora. Nel 1952 consegue la specializzazione in Malattie nervose e mentali; nel 1958 ottiene la libera docenza in Psichiatria e, nel 1961 vince il concorso per la direzione dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia. Drammatico è l’impatto con la durezza della “realtà manicomiale”. Basaglia comprende subito che bisogna reagire a questo orrore, impegnandosi in un lavoro di radicale trasformazione istituzionale: si applicano nuove regole di organizzazione e di comunicazione all’interno dell’ospedale, si rifiutano decisamente le contenzioni fisiche e le terapie di shock, si presta attenzione alle condizioni di vita degli internati e ai loro bisogni, si organizzano le assemblee di reparto e le assemblee generali; la vita comunitaria dell’ospedale si arricchisce di feste, gite, laboratori artistici, si aprono spazi di aggregazione sociale, cade la separazione forzata fra uomini e donne infermi e, si aprono inoltre le porte dei padiglioni e i cancelli dell’ospedale. Nel 1969 lascia Gorizia e, dopo due anni va a Parma dove dirige l’Ospedale psichiatrico di Colorno; nell’Agosto del 1971 diviene direttore dell’Ospedale psichiatrico di Trieste: accetta subito perché gli viene garantita la possibilità di fare tutte le scelte che ritiene più opportune, e dunque istituisce subito, all’interno dell’ospedale, laboratori di pittura e di teatro. Ormai si è accorto che l’esperimento della comunità terapeutica non basta: sente il bisogno di andare oltre il cambiamento della vita all’interno dell’ospedale psichiatrico: il manicomio per Basaglia deve essere chiuso ed è necessario, al suo posto, costruire una rete di servizi esterni per provvedere all’assistenza delle persone affette da disturbi mentali. Nel 1973, Trieste viene indicata “zona pilota” per l’Italia nella ricerca dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sui servizi di salute mentale in Europa. Nello stesso anno Basaglia fonda il movimento “Psichiatria Democratica”, movimento nel quale si confrontano molte esperienze di psichiatria alternativa che stanno sorgendo in Italia. Nel Gennaio 1977 viene annunciata la chiusura entro l’anno dell’Ospedale psichiatrico “San Giovanni” di Trieste. L’anno successivo, il 13 Maggio 1978, viene approvata in Parlamento la “Legge n. 180” di riforma psichiatrica - che si ispira alle esperienze di superamento dell’ospedale psichiatrico sviluppatosi in Italia a partire dagli anni Sessanta. L’introduzione in Italia della “Legge 180/78” - dal suo nome chiamata anche “Legge Basaglia”: introdusse una importante revisione ordinamentale sui manicomi e promosse notevoli trasformazioni nei trattamenti psichiatrici sul territorio. E’ la prima ed unica legge quadro che impose: la chiusura dei manicomi e disciplinò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. Nella primavera del 1980 si manifestano i primi sintomi di un tumore cerebrale che in pochi mesi lo porterà alla morte, avvenuta il 29 Agosto nella sua casa di Venezia. A distanza di 30 anni, nonostante sia stata più volte oggetto di discussione e di tentativi di revisione, la Legge 180 è ancora la legge quadro che regola l’assistenza psichiatrica in Italia. Fino al 1978 la Legislazione italiana in tema di “psichiatria” è stata una delle più arretrate d’Europa, ove il

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principio fondante è rimasto quello della sanzione giuridica: colui che viene definito “pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo” continua a essere soggetto a un ricovero obbligatorio, ordinato dal pretore ed effettuato dalle forze di pubblica sicurezza e, ad essere affidato in “cura” e in “custodia” all’istituzione manicomiale. La Legge del 1978, già nella sua denominazione: “Norme per gli accertamenti ed i trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, indica un radicale mutamento, perché sposta l’attenzione della malattia alla risposta istituzionale messa in atto, cioè al servizio, alle sue risorse, al modo con cui identifica la malattia. L’oggetto non è più, come nelle vecchie normative, la determinazione dei confini della malattia e l’identificazione delle sue categorie, ma è il trattamento della malattia, ed è sulle forme e le ragioni di questo trattamento che interviene la legge. La Legge n. 180, il 23 Dicembre del 1978, viene assorbita nella più generale Legge n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, agli artt. 33, 34, 35 e 64, con alcune variazioni. Cfr. http://www.triestesalutementale.it/allegati/legge180.htm. La procedura del trattamento sanitario obbligatorio mostra chiaramente i tre punti su cui punta la Legge: il 1° riguarda la malattia, o meglio l’attenzione alla malattia, e il dovere del medico di agire in senso terapeutico, facendosi carico della salute psichica della persona invece che della difesa della società. Le malattie mentali sono una questione medica, nel senso che le persone affette da disturbo mentale hanno pieno diritto di cittadinanza e pieno diritto a un trattamento sanitario e non a una coercizione del loro comportamento. Tutta la responsabilità è nelle mani del medico che deve proporre un trattamento sanitario obbligatorio, del secondo medico della struttura sanitaria pubblica che deve convalidare tale richiesta, e del sindaco, in qualità di massima autorità sanitaria municipale, che deve ordinare il ricovero. Si tratta quindi di una decisione che riguarda un dovere etico di cura e un dovere politico di tutela della salute del cittadino, non più un dovere legale di difesa della società. Il 2° punto riguarda il consenso: ossia il dovere del medico di farsi carico della libertà della persona, adottando tutte le iniziative opportune volte ad assicurare il suo consenso nel caso di un trattamento sanitario obbligatorio. In altri termini, la Legge del 1978 s’interroga su quel punto centrale e delicato che concerne il rapporto tra malattia mentale e libertà. Il compito che la legge indica al medico è di porsi al centro di questi dilemmi etici: gli impone di farsi carico della libertà del malato, nel senso di cercare di ottenere il suo consenso alle cure con pazienza e tenacia, e dove ciò non accada, di farsi carico del rifiuto, con una scelta responsabile che garantisca i diritti della persona, primo fra tutti quello di essere curato. Il medico deve adoperarsi perché sia riconosciuta alla persona sofferente piena voce all’interno di un dispositivo terapeutico, che resta in equilibrio precario tra la tentazione di controllo per motivi sanitari e il pericolo contrapposto di deriva sociale per il rifiuto delle cure. E’ proprio in questa inesausta contrattazione lo spirito innovativo della legge, che interroga il tecnico intorno alla propria responsabilità politica di mediatore tra la sofferenza dell’individuo e la dimensione sociale e istituzionale in cui questa si esprime. Il 3° punto riguarda 14

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la risposta del servizio psichiatrico: non c’è solo la persona con il suo disagio, ma anche il servizio psichiatrico con la sua risposta, la quale sarà il ricovero quando non si è saputa o potuta organizzarne una differente. In altri termini, è dovere del tecnico, con la chiusura di qualsiasi presidio manicomiale, agire in senso largamente e strettamente politico, affinché sia garantita la strutturazione sul territorio di una risposta sanitaria adeguata ai bisogni della persona e organizzata una misura terapeutica efficace che eviti il ricorso ad un trattamento obbligatorio in regime di degenza ospedaliera. Basaglia riconosce il notevole risultato legislativo raggiunto, è soddisfatto soprattutto, che la legge sancisca la chiusura degli ospedali psichiatrici, primo, insostituibile obiettivo della sua lotta. Colucci, Mario, Di Vittorio, Pierangelo, Franco Basaglia, Bruno Mondadori ed., Milano 2001, p. 299-306. Fiorani, Eleonora, Abitare il corpo. Il corpo di stoffa e la moda, Lupetti ed., Milano 2010. 15

Rep. Spagnola, Ministero della Sanità e del Consumo, et alii, Acuerdo de Colaboración entre el Ministerio de Sanidad Y Consumo, la Asociación de Creadores de Moda de España, la Agrupación Española del Género de Punto, la Federación Española de Empresas de la Confección, el Corte Inglés, Cortefiel, Inditex Y Mango, Madrid, 23 Gennaio, 2007. Cfr. http:// www.msc.es/gabinetePrensa/notaPrensa/pdf/TextoAcuerdo.pdf. 16

Vergine, Lea, Body Art e storie simili. Il corpo come linguaggio, Skira ed., Milano 2000, p. 8. 17

Pseudonimo di Mireille Suzanne Francette Porte. Artista e performer francese, nata a Saint-Étienne (Francia) il 30 Maggio 1946. Sta attuando su se stessa una metamorfosi fisica e di identità tra le più radicali e controverse nel panorama artistico contemporaneo. Ha sempre scelto come materiale per le sue performance il suo stesso corpo, se stessa e la sua identità di donna fin dal 1964 quando si fece trascinare per terra misurando spazi cittadini trasformandosi in una entità di misura umana. Figura inscindibile della Body art e rappresentante della art-charnel (arte carnale), indaga sulla sua pelle l’esigenza di rimettersi al mondo di nuovo, interpretando il corpo in termini chirurgici, come materia da plasmare e rifigurare, per verificarne le potenzialità metamorfiche. Nove operazioni-performance di chirurgia plastica, in cinque anni, ispirate da un progetto di ridefinizione facciale archetipica, hanno progressivamente trasformato il suo volto in quello di una creatura simile ad importanti modelli iconografici della storia dell’arte, come il naso di Diana dalla scuola di Fontainebleau, la bocca di Europa di Gustave Moreau, il mento della Venere di Botticelli, gli occhi di Psiche di Gérard e la fronte di Monna Lisa di Leonardo. La sua prima performance chirurgica risale al 1978, un’operazione d’urgenza costantemente filmata in video. Modificarsi in identità diverse dal genere di appartenenza ha permesso all’artista di analizzare un territorio dove il vero e il verosimile, il reale e l’apparente convivono in un mistero trinitario. Rimangono il corpo dell’artista o il materiale in esubero 18

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dei suoi interventi chirurgici, disseminato sulle sue opere, a certificare che un frammento di realtà si è inserito in un vortice irrequieto e surreale, dando vita ad una nuova esistenza. Infine, donerà il suo corpo a un museo per la mummificazione. Cappa, Gelli, Piero, Dizionario dello Spettacolo del ‘900, Baldini & Castoldi ed., Milano 1998, p. 789. Eugénie Lemoine-Luccioni, una delle figure storiche della psicoanalisi, allieva di Jacques Lacan (1901-1981) psichiatra francese, filosofo e uno dei maggiori psicoanalisti, è analista membro dell’École de la Cause Freudienne e membro della Scuola lacaniana di Psicoanalisi. In Italia collabora con la rivista “La Psicoanalisi”, (rivista semestrale che dal 1977 pubblica testi di teoria e di tecnica saldamente ancorati all’esperienza della clinica psicoanalitica). Lemoine-Luccioni, Eugénie, Psicoanalisi della moda, Bruno Mondadori ed., Milano 2002. 19

La Robe, saggio sulla moda della psicanalista Eugénie Lemoine-Luccioni, dice all’incirca questo: la pelle è deludente, nella vita si ha solo la propria pelle, ma c’è equivoco nei rapporti umani perché non si è mai quello che si ha: uno ha la pelle di coccodrillo ed è un cagnolino, una pelle di angelo ed è uno sciacallo, una pelle di donna ed è un uomo, una pelle di nero, ma sono un bianco. Il testo dice che non c’è eccezione alla regola. E’ un passaggio questo che Orlan ha l’abitudine di leggere durante le proprie performance. Quando Orlan capì il senso delle parole ebbe subito molta paura, poi capì che forse era capace di affrontare e di realizzare l’esperienza senza problemi fisici o psicologici. Mise il massimo di transenne organizzando, strutturando tutto quanto con calma e in seguito ognuno degli interventi si appoggiò ad un testo poetico, filosofico, psicoanalitico, che ne determinava lo stile. Alfano Miglietti, Francesca, Virus art. Viste e Interviste dalla rivista Virus Mutations, Orlan, Skira ed., Milano 2003, p. 36. 20

Forma di creazione artistica correlata al corpo umano. L’artista sceglie il proprio corpo come medium o strumento di un processo di performance dove regnano il caso e la desacralizzazione dell’opera d’arte in quanto fine ultimo e incarnazione dei valori assoluti. Il corpo nella Body art diventa materia plasmabile e teatralizzata su cui si focalizza lo sguardo dello spettatore-fruitore (del quale il body-artist non può fare a meno). Questi artisti non sceneggiano la storia di un personaggio, ma diventano essi stessi la storia e il personaggio. Le testimonianze di sé, della propria vita, gli stimoli che riguardano la sfera del privato vengono impiegati come materiale da repertorio. Tutto diventa elaborabile: una qualunque azione di un qualsiasi momento, di una qualsiasi giornata; le proprie foto; le radiografie del cranio o del torace; la propria voce; tutti i possibili rapporti dell’uomo con gli escrementi e con i genitali; il proprio travestimento; riti, cerimoniali e affabulazioni psicopatologiche; ricostruzioni del proprio passato o messe in scena di un ipotetico futuro; la mimica; la ginnastica, le acrobazie; le percosse e le ferite. Molti fra quelli che lavorano col e sul corpo ripropongono le situazioni archetipiche della condizione psicologica collettiva: amore-odio, aggressività-riparazione 21

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(l’infierire sull’oggetto e, contemporaneamente, preservarlo o conservarne le tracce). Attraverso l’espediente della rappresentazione e della proiezione essi confessano la propria aggressività e la rimproverano su qualcosa d’altro, sull’oggetto d’affezione, sul corpo. Alcuni praticano un camuffamento, uno spostamento, una censura mediante citazioni culturali o deformazioni a carattere onirico; altri si fanno spudoratamente portatori di traumi paradossali e crudeli nell’esibizione sadomasochista di relazioni erotiche ed escatologiche; altri ancora, più mitomani, protestano gratificandosi con lo scatenamento di libido narcisistiche. Tutte queste opere sono vissute nella condizione emotiva dell’ansia. Il bisogno inappagato, la continua tensione dell’esistere stesso, l’assillo della nostra dipendenza portano inevitabilmente all’angoscia dell’essere nel mondo, al dolore per l’impossibilità di mettersi in reale rapporto con esso. Vergine, Lea, Dall’informale alla Body Art. Dieci voci dell’arte contemporanea: 1960/1970, Cooperativa Editoriale Studio Forma ed., Torino 1976, p. 110-114. Performer nato a Milano nel 1960 e trasferitosi a Londra nel 1979. Si diploma al Chelsea College of Art an Design e inizia a produrre le proprie opere fin dai primi anni Novanta, spaziando, dal video alla fotografia, dalle performance, alla pittura fino alla scultura. Artista coraggioso ed eclettico, da anni protagonista della scena live internazionale, che ha espresso nell’arte il tormento dell’esistenza con intensità e genialità inventiva senza eguali, rendendo nelle sue performance sopportabile l’insopportabile. Nelle sue azioni spettacolari, Franko B incontra il pubblico usando il proprio corpo come strumento, supporto e ipertesto. Oggetto del desiderio, usato come una tela, malato o senza difese, tagliato, bucato, steso o ripiegato dalla sofferenza, violato, umiliato o a sua volta minaccioso, denudato o coperto, il “corpo” dell’artista diventa corpo sociale che azzera ogni separazione tra opera e artista, soggetto e oggetto, arte e vita. Alfano Miglietti 2003, p. 426. 22

Stelios Arkadiou, in arte Stelarc. Performer nato a Limassol, Cipro nel 1946, vive e lavora in Australia. Nel 1995 ha ricevuto una borsa di studio triennale dalla Commissione australiana per le arti visive. Nel 1997 è stato nominato professore onorario di arte e robotica presso la rinomata università americana Carnegie Mellon University. Attualmente è consulente alla ricerca per la Nottigham/Trent University. Ha iniziato la sua carriera artistica negli anni Sessanta con la serie di performance basate sulla sospensione, The Body Suspensions, dove ha esposto il suo corpo nudo agganciato a dei supporti con decine di uncini conficcati nella propria pelle in spazi urbani e in gallerie d’arte per ventisette volte tra il 1976 e il 1988. Fermamente convinto dell’obsolescenza del corpo nell’era post-industriale, attua una tra le più originali esperienze estetiche alternative di ibridazione uomo-macchina, organico-inorganico, biologico-artificiale, interfacciando il proprio corpo con protesi robotizzate e il computer. Eadem, p. 1038-39. 23

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E’ un termine che non si riferisce solo alle arti visive, ma ad una vera e propria filosofia. La denominazione Post-Human per quanto riguarda l’arte, è stata coniata per una mostra, ideata dal gallerista-critico americano Jeffrey Deitch e presentata nel 1993, dedicata alla trasformazione naturale ed artificiale del nuovo corpo nella cultura dell’arte contemporanea. A distanza di tanti anni da questa storica mostra, oggi, esiste una generazione di artistiperformer che realizzano mondi estetici in cui, realtà e finzione, artificiale e reale, sono separati da un confine sempre più sottile, fino a confondersi in una totale perdita di identità in cui è sempre più difficile distinguere l’organico dal post-organico, l’originale dal clonato. Per il performer posthuman, l’opera si identifica in una procedura ricostruttiva del corpo, alterato nella sua identità biologica in un processo di bio-diversificazione tra arte, scienza e tecnologia, che ha come fine una mutazione genetica, un nuovo corpo, una nuova personalità, una nuova psicologia, talvolta attraverso autoaggressive trasformazioni somatiche, a metà tra performance, Body art e chirurgia plastica: il corpo naturale, anacronisticamente superato ed inadatto al mondo tecnologico in cui si colloca, si adegua artificializzandosi in una esasperata ricerca di identificazione con una realtà nuova. Si passa così da una concezione del corpo come limite che fissa l’identità fisica e psichica, al corpo come supporto di una identità mobile. La caratteristica di questi performer è quella di creare forme di arte intorno a se stessi, quando non sono assorbiti nelle stesse loro creazioni. Macrì, Teresa, Il Corpo postorganico, Costa & Nolan ed., Milano 2006, p. 49-54. 24

Performer nata a Praga nel 1955, vive e lavora a Montréal, Canada. Il suo lavoro, realizzato dalla fine degli anni Settanta, è caratterizzato da un particolare rapporto tra performance/proiezione/fotografia. Alla base delle sue performance ci sono degli oggetti-sculture che sono il fulcro attorno al quale si sviluppano le immagini successive. Nelle sue opere appare inoltre, sia la critica tagliente e ironica dell’influenza del capitalismo sulla percezione e sulla cognizione umana, sia i condizionamenti profondi delle vicende personali. Non situa le sue performance in un contesto teatrale, ma in una dialettica concettuale che tiene in equilibrio il movimento, la narrazione e la individuazione stessa dell’immagine. Eadem, p. 154-161. 25

Performer nato a San Francisco, California, nel 1967. Vive a New York. Dall’inizio degli anni Novanta lavora con la galleria Barbara Galdstone di New York. Laureatosi nel 1989 alla Yale University di New Haven, nel Connecticut in Arti Visive con il saggio Field Dressing (orifill): installazione scultorea di due schermi video che mostrano l’artista impegnato in performance solitarie fisicamente impegnative, compiute all’interno del Payne Whitney Gymnasium di Yale. Sul concetto di resistenza come veicolo di sviluppo e creatività Barney lavora, infatti, sin dal 1987, dando vita tra il 1988 e il 1993 al ciclo Drawing Restraint, che esplora l’attuabilità della pratica del disegno in situazioni di costrizione fisica. E’ un post-modern, ma è anche un post-human, che auspica le trasformazioni corporee e una sorta di progresso biotecnologico della condizione umana. Realizza le sue opere come se partecipasse ad una competizione di sport estremi; un’arte senza limiti, che può lasciare qualche perplessità ma che ha un grande riscontro internazionale. La sua figura si è 26

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fusa completamente con il mito che ha creato attorno a se stesso, come corpo e faccia, ancora prima che come mente, prestati ai molteplici personaggi interpretati nelle sue opere-video. Cappa, Gelli 1998, p. 79. Il termine Fluxus che significa “flusso” e contiene un concetto di “movimento verso”, sta a indicare una corrente di pensiero che si dà come fine un risultato soprattutto etico, raggruppando artisti di varia tendenza accomunati dalla volontà di giungere ad una espressione artistica liberata da ogni convenzionalismo e suddivisione di categoria. Riemerge il concetto di un’arte totale, che sintetizzi tutte le arti (arti visive, musica, teatro, letteratura, design e arti minori ecc.) in modo complementare, rispettando di ciascuna la struttura linguistica e la specificità del mezzo espressivo adottato. Fluxus non propone quindi teorie proprie, agendo con la sua azione innovatrice, e non sulle modalità dei singoli linguaggi, ma sulle loro possibilità di interazione, in una sorta di catena globale in cui la parola d’ordine è “interdisciplinarità”. Nato nel 1961, ma già operante sul finire degli anni 1950, durante una serata musicale organizzata da George Maciunas (19311978, fondatore del movimento e della rivista CCV tre) negli USA, in una società non gerarchizzata e burocratizzata, giovane e priva di ingombranti retaggi culturali, questo movimento ha le sue radici in manifestazioni d’avanguardia, come l’happening e nelle sperimentazioni musicali di John Cage e propone l’idea di un’arte ibrida ed in un certo senso indeterminata, alla ricerca di strumenti nuovi che la relazionino con la vita e ne permettano una più ampia comprensione, attraverso la simbiosi prima, tra le varie forme espressive, e poi tra realtà e creazione artistica. Fluxus è quindi, non una dottrina, ma un atteggiamento verso la vita ed anche verso l’arte, che perde la sua aureola di sacralità e diviene ironia, invenzione, gioco a-simbolistico, anti-espressionistico, non informale ma libero nella forma, un’arte semplice, aperta alla casualità ed all’improvvisazione, non intenzionale, flessibile anche nella struttura organizzativa, entro la quale non emerge una vera e propria figura carismatica. Posizionandosi in un periodo di vero e proprio salto evolutivo per ciò che concerne la comunicazione e la percezione della realtà a seguito dell’avvento dei mezzi televisivi, Fluxus esprime la progressiva dematerializzazione dell’immagine e quindi dell’arte, che trova la sua essenza non più nell’essere, ma nell’accadere e nel divenire e si trasforma da oggetto in evento; per questo motivo gli artisti di Fluxus si esprimono con happening, performances, filmati, concerti e festival, eventi occasionali senza apparente pianificazione, oltre che con assemblaggi che ricombinano oggetti quotidiani secondo modalità casuali, differenziandosi in ciò dal Dadaismo, nel quale è presente una intenzionalità verso un risultato estetico dell’oggetto manipolato nel suo significato attraverso la decontestualizzazione. Fluxus si sviluppa al di fuori di scuole, accademie, gruppi coordinati, in un percorso fluttuante che contamina come una irrinunciabile costante il processo di genesi di tutta l’arte; è un polo di attrazione per moltissimi artisti in tutto il mondo, è una corrente di energia di valenza mentale ed universale che non conosce confini, tanto che molti artisti, pur senza alcun legame reale con Fluxus possono essere considerati espressivi dello spirito di questo movimento, inquadrabile 27

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più nella psicologia dell’arte che nella sua storia. Chilvers, Ian, Dizionario dell’Arte, Baldini Castoldi Dalai ed., Milano 2008, p. 348. John Cage (1912-1992) è stato un compositore, filosofo, poeta, teorico della musica e artista. Un pioniere, la cui opera è centrale non solo nella musica, ma nell’arte e nel pensiero contemporaneo. L’influenza di John Cage è stata determinante nella misura in cui le sue lezioni di composizione tenute a New York attorno al 1956 non erano frequentate solo da compositori, ma anche da pittori, poeti, danzatori, tutti alla ricerca di nuove soluzioni artistiche. In questo senso possiamo fare accenno all’happening, forma d’arte della “comunicazione” in senso lato, che vede in John Cage il maggior promotore. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, proprio partendo dalle esperienze maturate da John Cage al Black Mountain College, artisti di diversa estrazione cominciarono a realizzare esperienze sul linguaggio gestuale, visivo, uditivo, grafico e così via, dando corpo ad esperimenti chiamati, appunto, happening. In sintesi, dai tentativi di superare la notazione musicale tradizionale al teatro gestuale fino ad arrivare alle esperienze di musica aleatoria, la personalità di John Cage costituisce nel complesso un percorso parallelo, sia pur con risvolti estremamente articolati, che ha invertito la tradizionale circolazione delle influenze musicali dall’Europa agli Stati Uniti, e che ha portato Cage stesso ad essere considerato “il primo compositore americano ad aver influenzato a vasto raggio l’area europea”. V. http://johncage.org/. 28

Allan Kaprow (1927-2006). Nel 1959, l’artista americano usa per la prima volta il termine happening (letteralmente qualcosa che accade in modo inaspettato), in un articolo apparso sulla rivista «The Antologist», proponendo una particolare forma di creazione artistica che presuppone la partecipazione del pubblico ed una determinata interazione. Successivamente, nell’Ottobre dello stesso anno, la parola compare nel titolo di un’opera dello stesso Kaprow, 18 Happenings in 6 Parts, presentata alla Reuben Gallery di New York (opera nella quale l’artista ha riversato la sua formazione all’ action painting e lo studio delle performance di John Cage). Il termine entra così nel linguaggio comune a indicare non una forma d’arte chiaramente individuata, bensì alcune esperienze caratterizzate da una pluralità di mezzi d’espressione artistici. Cappa, Gelli 1998, p. 521. 29

Yves Klein (1928-1962). Pittore francese, s’interessa da subito alla filosofia orientale, all’esoterismo e alla teosofia - studiati alla scuola di lingue orientali di Nizza, che sistematizza in termini teorici nella conferenza Evolution de l’art et de l’architecture vers l’immaterial del 1959 (Parigi, Sorbona). Dipinge per la mostra “International Klein Blue” i Monocromi - pannelli con una stesura uniforme di colore puro, intesi dall’artista come veicolo di assoluto. Sono del 1960 le Antropometrie - performance con nudi di modelle ricoperte di colore che lasciano impronte sulla carta (Parigi, Galerie International d’Art). Divenne famoso col nome di “Yves - le Monochrome”. La monocromia - principio stilistico fondamentale dell’arte di Klein, fu l’inizio di una ricerca universale; la ricerca di un punto al di fuori degli eventi terreni e quotidiani, il tentativo di raggiungere i confini dell’infinito, l’idea 30

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del vuoto, dell’immateriale, dell’indefinibile. Questi temi attraversano la sua arte, costituendo idealmente il prolungamento della sua breve vita. Klein morì nel 1962, all’età di trentaquattro anni, ma realizzò in soli sette anni, oltre mille dipinti. Klein fece un ulteriore passo verso l’arte monocroma: cessò di dedicarsi alle sfumature e alle gradazioni per concentrarsi solo su un unico colore primario: il “blu”. Verso la fine del 1956, Klein aveva trovato quello che cercava - un blu oltremare intenso, luminoso e avvolgente che definì “l’espressione più perfetta del blu”. Il pigmento, risultato di un anno di esperimenti, gli consentì di dare espressione artistica al proprio personale senso della vita, in cui distanza infinita e presenza immediata si congiungevano in un mondo senza dimensioni. Questo puro pigmento blu, che Klein battezzò e brevettò col nome di IKB - International Klein Blue: elevava l’importanza del colore nell’arte ad un livello assoluto. Le grandi tele imbevute del Blue Klein sembravano trasformare la materialità del supporto del dipinto in un elemento incorporeo. L’osservatore, in una posizione di estrema libertà, poteva provare e percepire di fronte all’opera qualsiasi sensazione. L’occhio non era assorbito da nessun punto fisso che attirasse il suo interesse; nessuna figura o riferimenti tradizionali erano impressi sul quadro, così da indurre chi guardava ad abbandonarsi nella sensibilità e profondità di un blu ipnotico. Il blu: la verità, la saggezza, la pace, la contemplazione, l’unificazione di cielo e mare - il colore dello spazio infinito, che essendo vasto, può contenere tutto. Il blu è l’invisibile che diventa visibile. Weitemeier, Hannah, Yves Klein, 19281962: International Klein Blue, Taschen ed., Germania 1994, p. 7-15. Nel 1962 Joseph Beuys (1921-1986), artista tedesco, uno dei portavoce più rappresentativi delle correnti concettuali nell’arte della seconda metà del Novecento, entra in rapporto con George Maciunas, con il quale prende parte ai primi eventi legati al gruppo Fluxus a Copenaghen, Londra e Wiesbaden, un gruppo di artisti europei e americani uniti dal desiderio di ricreare il senso dell’arte in rapporto alla sua fruizione sociale. Nel 1963 è tra i principali organizzatori di Festum Fluxorum Fluxus, tenutosi presso la Kunstakademie di Düsseldorf (dove dal 1961 ottenne l’incarico di insegnante di scultura monumentale), partecipano circa una trentina di artisti tra americani, europei e giapponesi. Joseph Beuys, pur diventando uno dei più importanti esponenti di Fluxus, le sue performance hanno sempre un carattere assolutamente personale, tra idealismo, naturalismo e impegno sociale. L’artista come opera, il corpo come segno tangibile dell’esistenza, l’abito come seconda pelle, riflesso preciso d’identità, connotano l’area delle sue sperimentazioni negli anni ’70. Beuys ha usato spesso nelle sue azioni stoffe, panni, feltri, lana come riferimenti a precise condizioni esistenziali. Del ’70 è Filzanzung, un abito da uomo, giacca e pantaloni di feltro. Vergani 2010, p. 125-26. 31

Gina Pane (Biarritz, 1939 - Parigi, 1990). Artista francese, protagonista di performance cruenti e poetiche, non ha mai temuto le scelte estreme, gli esercizi masochistici, la vita a rischio, la dedizione al corpo come oggetto di rappresentazione. Un corpo esplorato, scorticato, lacerato, ustionato, straziato, per indagare la resistenza al dolore fisico, ma anche per comunicare desiderio e vitalità, con-divisione e speranza. Un corpo proiettato fuori dal corpo, che 32

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mostra la sua perdita di identità, il suo divenire simbolo tra gli altri simboli. Il corpo, è al tempo stesso progetto/materiale/esecutore di una pratica artistica e trova il suo supporto logico nella fotografia, in sequenza di immagini. E’ stata una di quegli artefici per i quali il corpo è diventato soprattutto, dal 1970, una tramite alla vita della coscienza e della memoria, quindi non solo uno strumento di azione, ma una possibilità di rendere evidenti quei processi psicofisici che acquistano significato in quanto esprimono, secondo un cerimoniale crudelmente freddo e cristallino, esperienze dolorose e traumatiche. Vergine 1976, p. 115-16. Vito Acconci (New York, 1940). E’ una delle colonne portanti della performance negli USA. Il rischio, è l’effetto perturbante che scaturisce dalla ricerca dell’americano, poeta, innanzitutto, che man mano si è fatto coinvolgere completamente dalle azioni comportamentali. I suoi atti sono tesi a definire il corpo come campo su cui l’artista può intervenire per ritrovare e riattivare sensibilità estreme. Il corpo come luogo dove pulsioni spaventose e istintuali cortocircuitano, introspezione su di sé in rapporto alle convenzioni e ai tabù della società e della cultura dominanti. Macrì 2006, p. 29. 33

Chris Burden (Boston, 1946). Le performance dell’americano, nonostante un forte minimalismo formale, implicano una ritualità compiaciuta del rischio e del pericolo intesi come tematiche dell’oltraggio. I suoi lavori costituiscono il prototipo di una sorta di anti-arte lontana dall’art-system. La sua preoccupazione è quella di inserirsi, attraverso una serie di azioni ad alto rischio fisico, sia nei meccanismi psichici sia in quelli economici, sociali e tecnologici. Le sue performance attraversano il filo del terrore psicologico, la paura e la sfida al tempo stesso. Attraverso una corporeità oltraggiata, Chris Burden innesta una strategia esistenziale significante, in cui il vivere quotidiano trova senso solo nello scontro diretto, nella provocante sfida. Eadem, p. 26. 34

Carolee Schneemann (New York, 1939). Performer, film-maker, scrittrice, ha impostato tutte le sue azioni sulle tematiche riguardanti la sessualità e l’erotismo in una prospettiva femminista. Partendo dalle dimensioni dell’inconscio, attraversando totem e tabù della cultura occidentale, ha prodotto centinaia di azioni multimediali. Le coreografie realizzate la indirizzano verso un percorso in cui il corpo diviene una specie di macchina che sfida i rischi della fisicità. Il suo lavoro offre un corpo compatto e di impatto aggressivo nell’intento provocatorio, ossessionato da una carnalità in sforzo e sofferente, che, però si perde nella sua stessa esaltazione. Paradossalmente, la fisicità ellittica dell’artista sembra aver bisogno del dolore per poter ritrovare il piacere. Le sue azioni vertono sulla creazione di un corpo nuovo, ossia sull’apertura di esso al mondo e sul sacrificio necessario per riconquistarlo. Non c’è scissione, ma un viaggio di riconquista dell’io attraverso pratiche legate al dolore. Eadem, p. 39-40. 35

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Hermann Nitsch (Vienna, 1938). Dalla pittura, alle azioni individuali e poi a

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quelle collettive, Hermann Nitsch tenta di ricreare una tensione inquietante, in cui situazioni orgiastiche portate all’eccesso e situazioni di contemplazione si contrappongono e tentano uno stato di equilibrio. Il suo teatro delle orge e dei misteri, del 1957, nasce come forma d’arte totale: Gesamtkunstwerk. Sostiene che alcune situazioni caratterizzate da eccessi di sensualità e di eccitazione, hanno lo scopo di condurre a un più intenso ribollimento vitale, a una abreazione liberatoria. I sensi, dunque, devono essere coinvolti direttamente e senza alcuna mediazione. Introduce nel suo teatro sostanze reali. Le sue indicazioni di regia promuovono la diffusione di odori e l’uso di sostanze organiche che conducono a un’esperienza totale dei sensi. Le sue azioni, divengono, man mano più corpose, più brutali. Le azioni meno truculente rimandano ad atmosfere in cui il sangue costituisce il simbolo iniziatico che introduce ai misteri della vita e della morte: dal sangue mestruale a quello del parto. Nel rapporto simbolico tra vittima e carnefice che queste ritualità mettono in azione, la carne e il sangue diventano gli elementi di una terapia di abreazione in cui gli istinti primari sono liberati e recuperati. Eadem, p. 38-39. Günter Brus (Ardning, Austria, 1938). Le sue performance si muovono in un nichilismo più profondo che lo portano alla maledizione del crimine solitario, del fuorilegge isolato. Lo shock delle sue azioni è l’emblema della carica eversiva del suo porsi rispetto all’esistenza. Se Hermann Nitsch aggredisce la realtà per redimerla, Günter Brus violenta se stesso, si annulla, si mortifica, si stupra metodicamente per anestetizzare le brutalità esterne. Tutte le sue manipolazioni fisiche recano i segni del suo stritolamento, di un macellamento perpetrato dall’esterno. Brus rappresenta il momento più estremo, più politico, più liberatorio e più fantasmatico della performance degli anni Settanta: le sue azioni mirano al cuore della società bigotta e conformista, tentano di scatenare e riportate a galla le pulsioni desideranti più depravate, le oscenità più catartiche. Eadem, p. 35-37. 37

Rudolf Schwarzkogler (Vienna, 1940-1969). L’oltraggio al corpo al fine di una sua liberazione percorre le azioni dell’artista-performer austriaco. Gli inquinanti set fotografici creati dall’artista, morto suicida nel 1969, sono basati sull’io, tentano una salvezza, invocano una via d’uscita, sferrando un colpo allo stomaco alle comuni convenzioni estetiche. Eadem, p. 39. 38

Genesis P. Orridge (all’anagrafe Neil Andrew Megson - Manchester, 1950). Musicista inglese, inizia le sue controverse esibizioni ad Hull, in Inghiterra, nel 1969. Nello stesso anno conosce Cosey Fanni Tutti con cui realizza le proprie performance focalizzate sul sesso, sui tabù e sul paranormale. Dall’incontro con Cosey Fanni Tutti, nascono i perversi Coum Transmission: è più un movimento che un gruppo, mira a rivitalizzare nella gente la fiducia nella propria creatività; cerca di esporre il potenziale e l’azione quali catalizzatori per stimolare qualsiasi persona disposta ad ascoltare, a riflettere su quanto avvenuto finora e su ciò che potrebbe avvenire. Eadem, p. 43. 39

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Christine Carol Newby (Hull, Inghilterra, 1951), ribattezzata da Genesis P. Orridge, inizialmente Cosmosis, e, in seguito, Cosey Fanni Tutti, chitarrista, dalla bellezza oscura e statuaria, segnata da un’introspezione in-umana, capace di leggere tra le righe di un destino collettivo inebriato e imbambolato dalla sua stessa civiltà. Eadem. 40

Marenko, Betti, Segni indelebili. Materia e desiderio del corpo tatuato, Feltrinelli ed., Milano 2002, p. 43. 41

Steele, Valerie, Fetish. Moda, Sesso e Potere, Meltemi ed., Roma 2005, p. 89. 42

Mr. Pearl, pseudonimo di Mark Pullin, stilista nato in Sud Africa nel 1962. Nei primi anni ’80 si trasferisce a Londra, nell’Est End, per lavorare alla Royal Opera House come costumista, dove il suo interesse per l’arte della corsetteria fu ulteriormente stimolato: è l’uomo che ha reso il corsetto un articolo di moda. Considerato da Vivienne Westwood il miglior creatore di corsetti del mondo. La sua bisnonna era stata una famosa sarta durante la Belle époque, ed egli venne ispirato dalle foto dei suoi vestiti. Pearl ha lavorato per le collezioni di Thierry Mugler, stilista famoso per aver perfezionato le silhouette a clessidra. Il suo lavoro è inoltre apparso sulle passerelle di Dior, Lacroix, Galliano, McQueen. AA. VV., Il mondo della moda, Phaidon ed., New York 2008, p. 359. 43

Richard von Krafft-Ebing (Mannheim, 1840 - Graz, 1902). Psichiatra e sessuologo tedesco, studiò medicina a Heidelberg (Germania) e insegnò psichiatria a Strasburgo e a Graz (dove fondò e diresse una clinica psichiatrica) prima di essere chiamato, nel 1889 a insegnare a Vienna. A lui si deve l’invenzione di concetti fondamentali della psichiatria moderna, come quello di rappresentazione ossessiva, di masochismo e di sadismo. Nel 1886 pubblicò la Psychopathia sexualis, nella cui prefazione si sottolineava la “potente influenza della vita sessuale sull’esistenza individuale e sociale, nei campi del sentimento, del pensiero e dell’azione”. Il capitolo successivo era dedicato alla fisiologia della libido sexualis; mentre la parte principale del libro era una descrizione della “patologia sessuale generale”, per la quale l’autore seguiva la classificazione neurologica usata da altri autori francesi, distinguendo le nevrosi sessuali a seconda della loro origine “periferica”, “spinale” o “cerebrale”. Distinse due gruppi fondamentali di aberrazioni dell’impulso sessuale: quello comprendente le aberrazioni relative allo scopo della sessualità (nel quale incluse sadismo, masochismo, feticismo ed esibizionismo) e quello comprendente le aberrazioni relative all’oggetto (omosessualità, pedofilia, zoofilia, gerontofilia e autoerotismo). Il libro si chiudeva con la presentazione di diversi casi clinici, che tra l’altro riguardavano anche storie di crimini sessuali. Von Krafft-Ebing, Richard, Psychopathia Sexualis: The Classic Study of Deviant Sex, Arcade Publishing ed., New York 2011. 44

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Dall’ intervista tra Valerie Steele (storica americana della moda) e Cathie Jung, dedicata a La storia del Corsetto, mandata in onda su Italia 1 dalla trasmissione Mistero il 21/01/2011. 45

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Ivi.

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Steele 2005, p. 123.

Jeroen van der Klis (Amsterdam, 1956). Sarto e corsettiere presso l’azienda personale Bizzarre Design (Amsterdam - sito aziendale: http://www. bizarredesign.nl/). Laureato in Ingegneria meccanica presso l’Hoge Technishce School (HTS) di Amsterdam nel 1981. E’ un autodidatta (per quanto riguarda l’argomento del corsetto). Ha iniziato a realizzare corsetti perché lavorava a contatto con i travestiti. Ha sviluppato un suo personale sistema di stile. In quei tempi i corsetti erano tagliati male e non aderivano bene al corpo, quindi pensò di migliorare questo indumento, premettendo che non esisteva internet, quindi veniva abbastanza difficile trovare materiale; libri, musei, teatro e atelier erano i migliori posti per trovare informazioni sul corsetto. Ma era comunque difficile perché il corsetto era ancora un tabù per la società a parte per qualche piccolo gruppo fetish. Così iniziò, usando la sua personale istruzione, un modo appunto per come gli stili dovevano essere tagliati e sviluppati in tutte le misure tenendo a mente sempre le linee artistiche che gli piacevano. Ha perfino inventato una costruzione e un modello di allacciatura del tutto personale che non sono utilizzati nella costruzione industriale. Disegna dai 3 ai 4 modelli al giorno e realizza un corsetto standard in un giorno, ma quando il corsetto è più complicato occorre più tempo. Fabbrica circa 100 corsetti all’anno, variano da corsetti a fascia ad interi abiti-corsetto. Inoltre, realizza corsetti per tutti (uomini e donne) e per qualsiasi occasione. Cathie Jung è una sua cliente da tempo; ha avuto modo di conoscere lei e il marito ad un galà tedesco del corsetto, un galà per i veri amanti del corsetto. Informazione orale di Jeroen van der Klis dell’01/04/2011. 48

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Dall’intervista della puntata Mistero, cit., del 21/01/2011.

Stuart e Constance Trench Brown, corsettieri presso l’azienda personale C&S Constructions (Bath, Regno Unito - sito aziendale: http://www. candsconstructions.com/indexf.htm). La C&S Constructions realizza corsetti dal 1988 offrendo un’esclusiva corsetteria su misura. Ciò che rende speciale il corsetto C&S è grazie soprattutto all’attenta preparazione di Stuart e Costance Trench Brown nel creare un corsetto che modelli il corpo in modo efficace e confortevole. V. http://www.staylace.com/retail/cands/c&s.htm. 50

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Dall’intervista della puntata Mistero, cit. del 21/01/2011.

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Steele 2005, p. 125.

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Ivi.

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Eadem, p. 121.

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Eadem.

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Vergani 2010, p. 839.

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Ibidem.

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Ibidem.

Pseudonimo di Heather Renèè Sweet (Rochester, Michigan, 1972). Famosa per lo striptease nel gigante Martini-Glass e il suo look da Pin-up dalla pelle d’avorio, è considerata un’icona-fashion per lo stile vintage e sofisticato che è capace di esprimere. E’ un’artista-performer del genere teatrale Burlesque che si definisce come “the ultimate retro pin-up girl”, nonché erede assoluta di Betty Page. E’ molto famosa nella scena fetish e la sua presenza è molto richiesta sui palcoscenici e nei fetish-party di tutto il mondo. Fruci, Lorenza, Burlesque: Quando lo spettacolo diventa seduzione. Storie, dive e leggende di ieri e di oggi, Alberto Castelvecchi ed., Roma 2011, p. 111. 60 Dall’intervista-documentario su «Vogue Italia» (racconta come Mr. Pearl ha iniziato la sua carriera nella creazione dei corsetti; il video include un’intervista con Dita Von Teese). V. www.vogue.it/talents/vogue-videolab/2010/12/mr-pearl. 59

Thierry Mugler (Strasburgo, 1948). Stilista francese, arrivato alla moda nel 1967 dalla danza. Creò il suo primo completo per un’amica all’età di quattordici anni. Nel 1970 si trasferisce a Parigi e disegna la prima collezione con il nome Cafè de Paris. Nel 1973 lanciò il suo marchio. La sua visione della moda è stata costante. Ognuna delle sue giacche è tagliata e imbottita per creare il suo ideale quasi fumettistico, un tema quello del super eroe, che ricorre anche nella linea da uomo. Mugler ridà forma al corpo con cuciture e tessuti, in una concezione rigorosa e totale. Dal ’90 crea anche profumi e nel 2000 decide di abbandonare l’attività di stilista e di dedicarsi esclusivamente alla creazione di profumi, tra cui il famoso Angel, creato nel 1992 in collaborazione con Clarins, che contende il primo posto delle vendite al mitico Chanel N°5. AA. VV. 2008, p. 337. 61

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Vergani 2010, p. 839.

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Mr. Pearl, citato in, Ibidem.

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Capitolo II

Breve Storia del Corsetto nella Cultura di Moda in Europa e nel Mediterraneo II.1. Origine e Evoluzione del busto/corsetto di moda femminile nei secoli Il busto/corsetto - elemento essenziale dell’abito alla moda dal Rinascimento al XX secolo, è probabilmente il più discusso indumento dell’intera storia della moda, visto non solo come oggetto di erotismo ma anche come strumento di tortura: principale causa di malattie per la salute, morte e sottomissione. Gli storici sostengono che, specialmente durante l’era Vittoriana (1837-1901), il corsetto serviva per controllare le donne e mantenere sotto controllo la loro sessualità. Molte di loro hanno subito il corsetto come una tortura, ma esso non ebbe solo connotazioni negative, altrimenti non sarebbe stato portato per più di quattrocento anni. Infatti, non solo, indicava uno status sociale, ma aveva anche molti aspetti positivi: autodisciplina, rispettabilità, bellezza, giovinezza e fascino erotico. Lontano dall’essere solo una moda borghese Vittoriana, il corsetto, nato secoli prima nella cultura aristocratica di corte, si diffuse gradualmente in tutta la società: tra le donne della classe operaia, così come della classe dominante. Famosa è la scena in Gone with the Wind (Via col vento, regia di Victor Fleming, George Cukor, Sam Wood, David O.Selznick per Selznick International Pictures, USA, 1939) quando Rossella O’Hara (nell’originale letterario Scarlett) viene allacciata dentro il corsetto per avere una vita più sottile, recitava: «51 centimetri!… Questo è il risultato per aver avuto un bambino! Stringi fino a 47, altrimenti non entrerò in nessuno dei miei vestiti!». Questa scena conferma lo stereotipo della donna del XVIII secolo, quando le caricature riproducevano la vanità femminile proprio in questa forma: la stampa di John Collet Tight Lacing or Fashion Before Ease (1770-75) è uno dei primi e più influenti esempi ad esaltarne l’immagine. 93


La parola “corsetto” compare in Francia nel 1829, come diminutivo dell’antico termine francese cors - corpo. Si tratta di un bustino di tessuto resistente con un’armatura di fanoni di balena, usato per comprimere la pancia e le anche. Il mito dell’origine del corsetto, che quasi sempre incorpora vari temi chiave, la si può indicare in tempi molto più lontani dall’epoca Vittoriana. I primi capi “indicativi” della moda dello stringere la vita si possono trovare già nel mondo antico: Creta è sempre più indicata come l’origine del corsetto; qui le donne avevano l’abitudine di stringere la vita sotto le vesti in strati di cotone per accentuare il seno e spostarlo verso l’alto. E’ vero che nel III millennio a.C. pitture murali e statue raffigurano la figura femminile che indossa corpetti stretti che espongono i seni; la famosa Dea dei Serpenti (1600 a.C.) indossa un corpetto molto aderente che espone il petto, un’alta cintura, un grembiule (anteriore e posteriore) e una gonna a balze. La sottana cretese è ampia, tonda, paffuta - la svasatura è ottenuta mediante cerchi di giunco o di metallo, sui quali si sovrappone la gonna a volants colorati; questi cerchi costituiscono il primo caso di biancheria riservato alle sole donne e, anticipando tournure, guardinfanti, crinoline, panier, tutti quegli espedienti che caratterizzano la storia della biancheria femminile per periodi brevi ma frequenti, come se a intervalli regolari la donna, stanca d’essere racchiusa in un cilindro, volesse sfuggire alla natura e costruirsi fianchi enormi prolungandoli con delle specie di alettoni. Ogni volta che si verifica questo aumento della metà inferiore del corpo, la donna, per sottolinearla ulteriormente, tende ad assottigliare il busto, a strizzare la vita e ricorre quindi al corsetto, questo, tanto nella seconda metà dell’Ottocento, quanto in epoca rinascimentale e a Creta. Il corsetto cretese era allacciato sul davanti, generosamente scoperto, tanto che lasciava i seni nudi, sostenuti solo alla base, in modo da ingrandirli, elevarli, renderli importanti. Mosaici e pitture a muro mostrano che anche le donne dell’antica Roma e Pompei avvolgevano un panno attorno ai loro seni, poiché i petti abbondanti erano a quel tempo poco graditi, specie se non abbastanza sodi. Per ridurlo si usava il mamillare 94


(fascia mamillare) - crudele schiaccia-petto in rigido cuoio; lo strophium - specie di sciarpa che avvolgeva i seni senza comprimerli (come l’odierno reggiseno). S’incontrano diverse versioni dello strophium, come l’ephod - corsetto sostenuto da bretelle indossato dalle donne ebree; e il cestus - che con i suoi ricami avvolge il corpo dal seno fino all’inguine - guaina che stringeva la vita (antenato dello stringi-vita). La massima ambizione della donna europea fu avere la vita sottile, ottenuta stringendo il torace con fasce nascoste sotto al corpetto. I primi busti - ossia i primi indumenti che dovevano sostituire le cosiddette fasce, comparvero nel XVI secolo ed erano all’inizio gabbie di ferro sagomate che terminavano con una lunga punta sul davanti, serrate sulla schiena con una molla o una chiave; una di queste gabbie, definita appunto “strumento di tortura” è conservato al Musèe National du Moyen Age di Parigi. Nasce quindi quello che diventerà il cosiddetto corsetto: un capo di abbigliamento rigido che stringe la vita sostenendo i seni e delineando i fianchi; esercita la sua azione mediante stecche - in origine costituite da fanoni di balena - poi sostituite da altre di metallo o materie plastiche, oppure mediante appositi sostegni di legno e metallo. Oltre a stringere la vita, il corsetto permette, tramite imbottiture o armature, di accrescere il volume di altre parti del corpo, in particolare dei seni e dei fianchi. Il corsetto resterà in voga sino alla vigilia della Grande Guerra - simbolo di un’epoca in cui era indispensabile che una donna di stile si mostrasse in pubblico con una “silhouette strizzata” in vita: si riteneva infatti che una bella donna fosse tale se aveva una vita che un uomo poteva cingere con due mani. E’ sufficiente ciò per capire esattamente quale fosse l’ideale di bellezza e quali, invece, le torture che le ragazze cominciavano a sopportare sia da piccole fino alla vecchiaia. L’uso del busto/corsetto irrigidito non era soltanto legato alla moda: la sua forma rendeva le donne che lo indossavano estremamente consce dei propri movimenti, che dovevano essere gestiti e misurati, rendendo il busto un efficace strumento di controllo sul comportamento femminile; donna onesta e virtuosa infatti era 95


colei che manteneva un atteggiamento composto senza mai perdere il controllo, né delle proprie emozioni né tantomeno del proprio corpo, considerato fonte di peccato e i cui impulsi dovevano essere dominati - il busto quindi come correttore (co-reggere) delle donne. In età moderna e in Europa in particolare comincia il gusto per la biancheria in sé, e si annuncia quello che verrà poi detto “feticismo”. Oggetto dell’amore non è una parte del corpo femminile, ma la sua rappresentazione da parte di un articolo vestimentario. Particolare valore erotico assumerà dunque la giarrettiera e lo conserverà, almeno in ambito rurale, fino agli inizi del nostro secolo. Nei musei esistono collezioni di alcuni busti in ferro datate 1580-1600 - Metal Corset, The Museum at the Fashion Institute of Technology, New York (1600); ma non si sa con certezza se fossero davvero i primi corsetti alla moda. Moderni studiosi che li hanno esaminati credono che questi busti di metallo avevano uno scopo ortopedico, progettati principalmente per correggere le deformità della colonna vertebrale, ma non ci sono prove che dimostrano ciò. È nel XVII secolo che compaiono due tipi di corsetti: Corsetti alla Moda - creati da sarti, che a volte incorporavano il metallo e anche ossa di balena.; Corsetti Ortopedici - costruiti da lamiere di metallo perforato unite ai lati, usati da chirurghi. Ambroise Parè (1510-90), chirurgo nell’esercito francese, divenuto famoso per la modernizzazione della pratica della chirurgia, descrisse questi corsetti metallici nel suo lavoro, affermando che venivano usati per modificare la deformazione e lo sbilanciamento del corpo. Per correggere e nascondere tale difetto, il corsetto di ferro che verrà indossato sarà pieno di buchi, così non sarà pesante, e imbottito per non far male, e soprattutto verrà cambiato spesso in base alla crescita del paziente. Parè riteneva che alcune donne diventavano curve e deformate a causa dei loro corpi legati strettamente, lamentandosi anche che le madri costringevano le figlie ad indossare abiti stretti “per mantenere i loro fianchi più piccoli”. Nonostante Parè criticasse la corsetteria alla moda in 96


quanto, credeva aumentasse il rischio di deformazioni perché legati troppo stretti intorno alla vita, egli era un sostenitore del corsetto ortopedico. Nel XVIII secolo i corsetti di metallo erano ancora usati per correggere i problemi della schiena e la corsetteria ortopedica continua ancora oggi ad essere utilizzata dai medici come parte del trattamento della scoliosi. II.1.1. Il Seicento Un antenato del corsetto fu la basquina o baschina: di tela rigida, strizzava la vita, saliva verso le spalle allargandosi ad imbuto e schiacciava i seni, creando un volume delimitato da piani inclinati sui quali aderiva la veste, cancellando tutto il rotondo e il morbido del busto femminile. Nata in Spagna agli inizi del XVI secolo, si diffuse rapidamente in Italia e in Francia. Tessuti pregiati come il broccato di seta e il velluto sostituirono la lana nell’élite alla moda, e i sarti iniziarono a concentrarsi sulla costruzione del corpetto separato dalla gonna, piuttosto che un abito in un unico pezzo. I veri e propri corsetti risalgono alla prima metà del XVI secolo, quando le donne aristocratiche iniziarono ad indossare i corpetti con ossi di balena; le gabbie in ferro furono presto sostituite da stecche di balena, di metallo e di legno, infilate direttamente nel corsetto della veste. Lo stile sembra aver avuto origine in Spagna e/o in Italia fino al resto d’Europa; Caterina de’ Medici (1519-1589) contribuì a introdurre tale moda dall’Italia anche in Francia dove i corps a la baleine divennero un vero e proprio capo di moda del tempo. L’uso più ampio ed estremo del corsetto si è verificato durante i regni di Caterina de’ Medici in Francia (regina consorte di Francia dal 1547 al 1559 come sposa di Enrico II di Francia) e la regina Elisabetta I in Inghilterra (età elisabettiana, dal 1558 al 1603). Caterina de’ Medici, fu infatti la prima a portare una vera e propria gabbia per poter stringere la vita ed esaltare il seno. Tale gabbia era completamente di metallo, naturalmente bucato, si fermava all’altezza della vita, comprimendo anche la cassa toracica in una forma conica, e si chiudeva ai lati con ganci che impedivano la semplice 97


regolazione. La regina era quindi obbligata ad avere sempre e costantemente la stessa riduzione e posizione. Si dice che fosse arrivata ad avere 33 centimetri di girovita, stabilendo uno standard di moda del tempo; uno superiore veniva considerato abominevole. Le forme del busto si fanno quindi sempre più rigide e costrittive; per tutto il Cinquecento (e parte del Seicento) il seno viene schiacciato e scompare alla vista, mentre la vita si fa sempre più sottile fino a giungere a veri e propri eccessi, creando una figura femminile rigida e ieratica. Le nuove forme della donna, che si muovono verso la linea “a clessidra”, non hanno tanto uno scopo pratico quanto piuttosto uno simbolico: la donna è corretta dall’uso del busto, che ne indirizza i movimenti e il comportamento sociale. La moda spagnola del XVI secolo caratterizzata da un abbigliamento irrigidito, scomodo e funereo diventò un aspetto caratteristico dell’epoca: all’alto colletto (gorgiera), che impediva ogni movimento naturale della testa, costringendola a rimanere orgogliosamente eretta, corrispondevano le guarnizioni della camicia e delle maniche, con pizzi e altri ornamenti; queste gorgiere dette legugillas in Spagna, in Italia si chiamavano lattughe, e fraises in Francia. L’abbigliamento femminile è composto da corpetto e bustino rigido, dalla vita allungata; le maniche erano generalmente strette e spesso portavano imbottiture sferiche alle spalle; la gonna lunga fino a terra e dai fianchi in giù si apriva una seconda gonna ugualmente lunga che si allargava in fondo, sostenuta da un’altra sottogonna in lino rigido e a forma di cono (antenata della crinolina). La caratteristica più significativa della moda spagnola cinquecentesca fu quella di imporre una sovrastruttura basata su forme geometriche, assimilando il corpo della donna ad una coppia di coni opposti in cui il punto più sottile era la vita, come una sorta di X. La figura, tramite queste soluzioni vestimentarie opprimenti, assunse così una forte caratteristica grave e solenne: dal corpo artificialmente irrigidito emergono soltanto il capo e le mani, circondati dal candore della gorgiera e dei polsini, posti in netto contrasto col colore, solitamente scuro, dell’abito. 98


In Spagna, verso la metà del XVI secolo, si verifica una delle innovazioni tra le più importanti, che avrà grandi risultati fino al XIX secolo: la comparsa del verdugados (vertugadin) l’anticipatore di tutte le forme strutturate dell’abbigliamento femminile moderno. In Italia detto faldiglia o faldia, inizialmente fu costituito da una struttura basata su imbottiture di stoppa poste sull’orlo dell’abito, in moda da aumentarne l’ampiezza nel fondo. In seguito, tale imbottitura fu sostituita da cerchi di ferro o stecche di balena, cuciti all’interno dell’abito, i quali dalla cintura, allargandosi gradatamente fino all’orlo, facevano assumere alla gonna la caratteristica forma a campana, sulla quale andava indossato l’abito. La silhouette vede per un breve periodo risalire il punto vita verso il seno, specialmente nelle regioni del centro-nord europeo, ma è una tendenza che si contrappone a quella, di più lunga durata, del punto vita molto basso, quasi inguinale, tipico dell’abbigliamento spagnolo. Nella seconda metà del Cinquecento, in Francia, questa moda fu interpretata in maniera originale: il verdugados spagnolo si modificò, la sua forma divenne a cilindro o a tamburo, perciò detta verdugadin à tambour: essa aumentava la larghezza sui fianchi; il corsetto, scollato e ornato da un collaretto con grandi increspature in pizzo rialzato dietro la nuca a forma di ventaglio (alla Medici), mantiene ancora la caratteristica punta estremamente lunga. Le maniche delle vesti femminili assunsero la caratteristica forma “a prosciutto”, maniche strette al polso che vanno poi gradatamente allargandosi fino a raggiungere misure considerevoli all’attaccatura col corpino, (dette anche a gigot). Con la regina Elisabetta, il costume inglese assunse caratteristiche di grande eccentricità. La foggia a tamburo del verdugale francese venne ulteriormente accresciuta in senso orizzontale, il corpetto a cono rovesciato prolungò ulteriormente la lunghezza della punta, che giunse molto sotto la linea vita e fu dotato di una falda tondeggiante, il colletto a ventaglio fu portato a più strati sovrapposti. Con la moda elisabettiana, il corpo femminile raggiunse l’apice della mistificazione delle linee e delle proporzioni naturali. 99


Il Seicento vede lo sviluppo del busto/corsetto: guaina che avvolge il corpo della donna da sotto il seno fino al ventre. Il busto, finito da una corta falda tagliata a piccole sezioni gallonate, che si allunga sotto la vita con una punta arrotondata ai lati, è caratteristico dei primi decenni del XVII secolo, come la fascia di nove lavorini o spighettoni: una delle principali guarnizioni delle vesti femminili. I merletti sono l’ornamento più artistico dell’abbigliamento secentesco e i galani - ossia i nastri, sono un ornamento apprezzatissimo, quasi sempre in forma di slanciati nodi o di graziose rose o ventaglietti di diversi colori. Nel corso del Seicento nell’abito femminile il corpetto rimase molto attillato, mentre il verdugale a campana fu sostituito dal guardinfante: un sostegno da indossare sotto la gonna, confezionato inizialmente con vimini, poi con ossa di balena. La particolarità del guardinfante, consisteva nell’ampliare enormemente i fianchi, raggiungendo dimensioni massime intorno al 1650-55. Una particolarità dell’abito di corte del secolo è il davantino del corsetto, il corsage, che si poteva staccare e cambiare. Esso veniva acquistato già pronto, in tessuti e colori diversi, con ricami e applicazioni varie che consentivano ad uno stesso abito di avere più varianti. I tessuti principalmente usati erano i rasi, i damaschi, i broccati e velluti. Nonostante la moda francese cominciasse ad esercitare la propria influenza anche nei Paesi Bassi, intorno al 1620 cominciò a delinearsi uno stile vestimentario particolare, caratterizzato da una linea morbida, che amplificava i volumi del corpo, chiamata “a botte”: i volumi erano valorizzati dal punto vita posto piuttosto in alto, dalle gonfie maniche e dalle imbottiture applicate vicino l’attaccatura delle maniche. In pieno Seicento il busto è ormai quasi uno strumento di tortura, usato anche per le bambine; non è raro trovare medici che ne sconsigliano l’uso e altri che ne constatano le potenziali, terribili conseguenze. Nel 1665 è registrato il caso della piccola Elisabeth Evelyn, morta a due anni, secondo il medico perché il corsetto steccato le aveva premuto sterno e costole all’interno fino a spezzargliele.

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E’importante, tra l’altro, ricordare che i sarti che confezionavano capi tanto elaborati erano uomini e la produzione dei corsetti si era trasformata in una vera e propria specializzazione intorno al 1660, quando alcuni sarti in Francia iniziarono a specializzarsi nella costruzione di corsetti per donne e bambini. I corsettieri quindi erano uomini. I corsetti, al tempo, erano costruiti da sei parti di: canvas (tela di cotone molto rigido), più le parti per le spalline; il numero delle stecche e la loro posizione variavano rispetto alla necessità di creare un capo completamente steccato o semi-morbido, mentre la direzione delle stecche e il taglio del tessuto aiutavano a formare la figura secondo la moda del momento. II.1.2. Il Settecento La maggiore libertà di cui nel Settecento godette la donna, la portò a prediligere maliziosi abiti molto scollati: il busto non sottolinea la vita come quelli cinque-seicenteschi, al contrario ha il compito di sostenere, alzare e mettere in evidenza il seno. E’ un lungo corsetto, allacciato sul dietro, sostenuto alle spalle da sottili bretelle e con una conformazione particolare sul seno. Non esisteva ancora infatti il taglio orizzontale sulla coppa come si usa oggi e il seno era alloggiato in una slargatura del tessuto, che aveva però la funzione di schiacciarlo per sollevarlo, dandogli la caratteristica forma alta e tonda, tipica delle scollature di questo periodo. Fanno la comparsa anche le prime stecche d’acciaio spiraliformi, maggiormente flessibili e robuste di quelle a listarella, queste ultime però continueranno ad essere usate ancora per molto tempo, assieme alle ancor più tradizionali stecche di balena. Il Settecento, nel costume europeo, stabilì la definitiva supremazia della moda francese sia nell’abbigliamento di corte che in quello corrente. Durante l’epoca della Reggenza (1715-1730), nell’abbigliamento femminile vennero adottate sempre più le vesti conosciute sin dalla fine del XVII secolo come négligés o déshabillés. Tra queste rientrava l’andrienne, l’abito che più di ogni altro rappresentò la moda femminile francese per quasi tutto l’arco 101


del secolo: era una veste con busto piuttosto aderente, dotato di ampia scollatura e di una larga falda a pieghe fluttuanti posta sul dietro, che si allarga progressivamente dalle spalle all’orlo senza aderire in vita, terminando in uno strascico. L’ampiezza della parte inferiore dell’abito, inizialmente data da una sottogonna gommata e inamidata chiamata criarde, in seguito verso il 1715, fu ottenuta con il panier - paniere, deriva probabilmente dalla cosiddetta “rumorosa”: sottogonna di tela gommata e scricchiolante. La forma iniziale del panier era a campana (come l’antico vertugadin), ma verso la metà del secolo le gonne diventarono più ampie e la struttura rigida della sottogonna venne confezionata in due parti, una sinistra e una destra per adattarsi meglio alle nuove dimensioni (à coudes - piatta sul davanti dalla forma ovoidale): formato da due semi cupole costruite con verghe di vinco o stecche di balena tenute insieme da fettucce e nastri, si allargava sui fianchi al punto da potervi comodamente appoggiare i gomiti. Nel corso del XVIII secolo il panier continuò a subire numerose variazioni; tra le varie tipologie si ricordano quelle: à guéridon (ad imbuto) e à coupole (a cupola). Il corsetto era sagomato a cono, irrigidito mediante stecche di balena cucite all’interno, tra il tessuto e la fodera, finiva con una punta al punto di vita e aveva un’ampia scollatura quadrata. Una caratteristica fondamentale è la posizione precisa di decorazioni complesse e fantasiose poste sul davanti della pettorina (stomacher/piece d’estomac - rigida pettorina a triangolo), come la tipica èchelle de ruban: scala di nastri, che vedeva fiocchi di grandi dimensioni coprirla dal petto alla vita. Per essere indossato, questo tipo di abito richiedeva lunghe operazioni perché la pettorina doveva essere inserita a parte nella sopravveste; il grand habit - abito di corte con lo strascico usato nel cerimoniale principesco, presentava anch’esso tale decorazione. Irrigidito da corsetti steccati, manteneva o perfino esasperava l’ampio panier monumentale, arricchito con sontuose decorazioni che limitavano i movimenti femminili, al punto che la dama si doveva adattare ad entrare di lato dalle porte o sedersi da sola in carrozza. Tale foggia dopo il 1780 102


raggiunse la massima esagerazione di ampiezza nei cerchi e nel volume nelle acconciature. In tale abbigliamento di gala, l’esagerata gonfiezza della pettinatura trovava riscontro nell’ampiezza della veste e raggiungeva con la vita sottile e il busto snello un effetto di reazione bizzarramente armonioso, anche per la delicatezza dei colori, il valore decorativo delle guarnizioni e la grazia di certi particolari: come il minuscolo manicotto. Il grand habit, escluso di fatto dall’evoluzione della moda borghese, dalla fine del secolo divenne un indumento di rappresentanza più legato a schemi simbolici tradizionali che alla moda. Presto il panier diventa mobile, con l’uso di lamelle d’acciaio al posto del vinco o delle stecche di balena e di cerniere sui fianchi che consentono di rialzarlo, permettendo alla gonna di stringersi momentaneamente, all’occorrenza. Soltanto nella seconda metà del penultimo decennio, alla mole dei cerchi si sostituiranno i cuscinelli - assai più modesti, che arrotondano la linea dei fianchi; in Sicilia chiamati cianchetti (fianchetti). E’ evidente il carattere aristocratico del panier, tanto quanto il busto: una caratteristica quindi delle donne aristocratiche; mentre le donne delle classi sociali che lavoravano non potevano permetterselo, perché limitava i movimenti e soprattutto era un indumento costoso. Osservatori borghesi come John Byng disapprovavano l’utilizzo del corsetto per la donna meno abbiente; le donne popolari secondo il suo parere non avevano bisogno di vantare questo tipo di bellezza, la bellezza erotica era associata solamente alla donna aristocratica. E’ esattamente nel XVIII secolo che l’idea dell’aristocrazia divenne di dominio pubblico, aumentando così l’idea del concetto di “corpo aristocratico” modellato dal corsetto. Alla fine di due secoli di costrizione, l’Illuminismo cominciò ad affermare la necessità di un corpo più libero, agile e naturale. Grazie alla Rivoluzione Francese (1789-1799), che associava busto e sottovesti all’aristocrazia, furono aboliti tutti gli abiti di lusso e stabilita definitivamente l’eguaglianza vestiaria di ogni cittadino: se, prima della Rivoluzione, l’abito esprimeva i privilegi di classe e le differenze tra i gruppi sociali, dopo 103


di essa, l’abito comunica le opinioni personali dell’individuo come elemento nuovo della società e del costume. Nell’ultimo decennio del XVIII si afferma in tutta Europa una nuova forma del vestire, soprattutto femminile: non più la vita sottile e i grandi panier sui fianchi, ma vesti leggere in candida mussolina trattenute da un nastro sottile sotto al seno. L’habit chemise, chiamato così per la sua somiglianza con la chemise - sottoveste, si impose con decisone al gusto del momento. La sua semplicità era in pieno contrasto con gli abiti stile Rococò dell’epoca appena trascorsa. L’habit chemise, caratterizzato dalla vita molto alta e da corpetto e gonna tagliati in un unico pezzo, era estremamente semplice e di linea diritta. In un ritratto di Maria Antonietta dipinto da Marie-ElisabethLouise Vigèe Lebrun (1783) la regina indossa un antenato di questo abito: il cosiddetto chemise à la Reine - abito chiaro, in seta o cotone, che scende dritto sui fianchi senza panier, in vita un’alta sciarpa multicolore; uniche guarnizioni sono la ricca abbondanza di tessuto e svariati volant sulla gonna e alle maniche. Il tessuto indica che questi abiti non dovevano modellare il corpo ma drappeggiarlo, simboleggiando la nascita di una nuova consapevolezza estetica e dei nuovi valori della Francia neo-classica. II.1.3. L’Ottocento Sotto l’Impero (1804-1815), il busto, eliminato con le libere vesti del Direttorio1, compare nuovamente, ma la forma è diversa da quelle precedenti: non sottolinea più il punto vita ma tende a slanciare e snellire la figura e ad innalzare il seno. Stesso scopo ha il corsetto - termina in vita mediante le stecche e sostiene il petto. Nel 1811 compare il divorce-corset, che separa i seni quasi come un reggiseno moderno ma è ancora lungo fino al punto vita naturale. Il corsetto aderente al petto e alla vita sottile è una caratteristica basilare della moda durante il periodo romantico-aristocratico (1822-1835); come sempre, quando una parte del vestiario prende importanza, se ne creano svariati modelli caratterizzati 104


da nomi diversi: esempio ne è un corsetto allacciato posteriormente, con pieghe che sottolineano la scollatura orizzontale e si riuniscono al centro del petto, dove si appunta un gioiello; esso è detto alla Sévigné, ma senza la punta in vita, che è passata di moda nel 1828 e riappare soltanto timidamente in qualche abito datato 1833. Nel 1822 l’abito en blouse si distingue particolarmente per la ricchezza di stoffa del corsetto. Nello stesso anno si ricordano i modelli Cleopatra - tagliati in quadro; nel 1823 quelli alla Niobe - con maniche cortissime e rigonfie, alle quali si adattano maniche larghe di mussolina trasparente con minutissime e fitte pieghe. Un po’ mossi intorno alla modesta scollatura rotonda sono il corsetto à l’enfant e quello à la Vierge: il primo con un cordoncino interno che si tira per arricciare il tessuto, il secondo con pieghe fitte; quest’ultima foggia è ancora di moda nel 1829. Un rinnovamento sensibile nella linea del corsetto e nella maniera di confezionarlo appare intorno al 1828: si allacciano per di dietro con delle agrafe - ovvero ganci, e figurano nel davanti come allacciati in alto solo per metà. Altri modelli rievocano immagini medievali, rinascimentali, secentesche, più o meno curiosamente mescolate: il corsetto à l’édith, à la sévigné, tutte variazioni del corsetto steccato, con vita a punta, arricchito da pieghe. Dopo il 1828, per tre anni, la cintura rotonda riacquista il predominio assoluto nella moda e, solo nel 1833 riappare la punta, alternandosi con la linea rotonda. Un modello molto aggraziato è il corsetto a cuore: con pieghe verticali incrociate e scollatura dolcemente avvallata al centro. E’ attorno al 1830 che si assiste nuovamente alla ricomparsa del clamoroso busto per durare tutto il secolo e parte del Novecento: la fluidità e la sfrontatezza del Direttorio fu definitivamente cancellata da una serie di forme rigide che tendevano a trasformare la silhouette femminile. Non è facile convincere le donne a farsi imprigionare in quell’aggeggio che può considerarsi, sia nel Settecento che nell’Ottocento, un ingegnoso strumento di tortura, imposto soltanto dall’inguaribile vanità femminile di avere il vitino sottile.

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Verso la fine del periodo aristocratico, il busto/corsetto si è ormai imposto: è la pietra fondamentale su cui la moda innalza il suo edificio brillante di gusto e di grazia. Si continuò quindi a pensare che la donna fosse fragile e debole rispetto all’uomo, ritenendo che il busto fosse necessario per sorreggerne la colonna vertebrale, che altrimenti si sarebbe distorta. La tortura iniziava in tenera età, quando le madri cominciavano a stringere gradualmente nella costrizione di questo indumento le loro figliolette. Il busto diventò uno strumento di mutilazione al fine di ridurre la vitalità del soggetto, causando difficoltà respiratorie e digestive e comprimendo tutti gli organi interni. L’uso del corsetto era doloroso, ma, le donne insistevano nell’indossarlo perché convinte che avere un vitino di vespa desse loro una splendida bellezza - l’alterazione dei loro corpi non era altro che l’esaltazione della loro bellezza. Nella confezione della corsetteria la moda introdusse ora tessuti di prestigio e caratteristiche particolari come il busk (chiusura). Quello odierno si riconosce per i ganci sulla sua parte anteriore - introdotti in epoca Vittoriana e destinati all’agevolazione nella vestibilità; inizialmente si trattava di barre di legno, ferro o altri materiali, che venivano poste sul davanti del corsetto al fine di spingere ulteriormente il bacino ed evitare posizioni scorrette o inadeguate per l’epoca. Divenuto presto elemento fondamentale della moda del tempo, fu d’uso comune regalare all’amata speciali busk con incise frasi d’amore, il proprio nomi, ecc., in modo che la donna potesse tenere accanto al petto il ricordo del suo spasimante. Il busto torna a segnare il punto vita naturale e ad esaltare fianchi e seno, talvolta anche con l’aiuto di posticci - se ne inventano modelli che consentono di essere allacciati anche senza aiuto, con un sistema a cerniera o con l’uso di materiali elastici come il caucciù. Anche sui giornali di moda ci si dà un gran da fare, quando se ne parla le prime volte, per metterne in evidenza: la flessibilità, l’aderenza, la leggerezza, e si loda l’ingegnosità dei sistemi per chiuderlo e aprirlo, che ne rendono facile l’uso; vengono pubblicati alcuni esempi che permettono di penetrare nei segreti dell’ingegnoso 106


meccanismo: fu inventata l’allacciatura “alla pigra”: una serie di lacci variamente incrociati che la donna poteva manovrare da sola. Si ricorda inoltre che alcuni uomini (soprattutto militari) indossano anch’essi il busto per rendere più snella la propria figura, nella prima metà del secolo. Le confezioni maschili del tempo erano più che altro in tessuto o, soprattutto, pelle; essi sagomavano il corpo senza l’uso di stecche. Questa moda si espanse tra il 1820 e il 1830, quando anche la vita dell’uomo doveva stringersi come quella femminile in un singolare processo osmotico ben visibile nelle iconografie del tempo. Da quel momento le pubblicità dei corsetti non furono dedicate solo alle donne, ma apparivano anche pubblicazioni su stringi-vita e cinture per uomini. Dopo il 1850 gli uomini indossavano abitualmente il corsetto, anche se rimaneva comunque maggiore l’uso da parte delle donne. Le forme e le costruzioni del capo cambiarono grazie alle grandi innovazioni tecniche di quegli anni, molti corsetti infatti avevano una stabile apertura sul davanti: busk e lacci dietro per stringere a piacere. Il primo busk (inventato nel 1829 dalla bustaia francese Jean-Julien Josselin) permise a una donna di indossare da sola il proprio corsetto, ma, prese piede nell’industria delle confezioni solo trent’anni dopo. Molte donne fino a quel momento cucivano per se stesse i corsetti; ogni “signorina” che si rispettasse doveva essere in grado di cucire il proprio guardaroba e anche la corsetteria, per quanto questa potesse essere complessa. Ma con l’industrializzazione molte di loro trovarono più conveniente comprare direttamente i propri capi nelle sartorie specializzate. Nasceva infatti in quel periodo la professione di “bustaia”; ogni negozio ne proponeva con caratteristiche diverse, ma i corsetti dovevano essere cuciti soprattutto con competenza, dando supporto dove fosse opportuno e senza infastidire. Inoltre, nuove invenzioni aiutarono la creatività delle sarte, come l’avvento nel 1820 dell’ “elastico” e l’introduzione nel 1828 degli “occhielli di ferro” - che andavano a sostituire le asole impunturate dei vecchi capi. A Parigi (intorno al 1855) vi erano circa diecimila sarte specializzate nella creazione dei corsetti; mentre in Inghilterra, 107


crescevano i corsetti industriali, creati in varie taglie e varie forme. In Francia, si affermava la specializzazione del “su misura” - creando capi unici e in materiali prestigiosi; a quel punto, il corsetto divenne occasione di fantastiche storielle umoristiche ed erotiche, percepito come surrogato del corpo, dove lo slacciare e allacciare del corsetto era inteso come forte simbolo sessuale. II.2. Moda Vittoriana (1837-1901) e Eleganza Edoardiana (1901-1918) Intorno al 1830 il punto vita, che nella moda Impero era salito sin sotto il seno, torna nella sua posizione naturale e nel guardaroba femminile ritorna il corsetto; a differenza di quello settecentesco, che creava una forma conica che dalle spalle coincideva verso la vita, il corsetto vittoriano crea un effetto “clessidra” che abbraccia i fianchi e insiste sulla vita, stingendola al massimo e contrapponendola a spalle rese più larghe dalle maniche ampie e sfarzose; i corsetti quindi sempre più stretti modellano i cosiddetti “vitini di vespa”. Tra il 1840-1850 l’effetto costrittivo dei corsetti si accentua e vengono creati per l’abbigliamento di tutti i giorni veri e propri corsetti posturali che si prolungavano ben sotto la vita costituiti da un fitto reticolo di stecche d’acciaio piegate in modo da seguire le curve naturali del corpo femminile. Rispetto al passato, il corsetto vittoriano non presenta un’unica allacciatura incrociata sul retro, ma, può essere dotato di una serie di ganci anche sul davanti, per facilitarne l’apertura (busk). I puntali quindi torneranno ad essere di moda nella seconda metà del secolo, quando il busto enfatizzerà la linea del corpo femminile e la sua punta steccata poggerà oltre il cinturino della gonna, in contrasto con la sua larghezza, ulteriormente ampliata con l’invenzione della crinolina. Brevettata nel 1855-56, essa inizialmente fu vietata alle dame della corte inglese dalla regina Vittoria, che la giudicava troppo osé per la facilità con la quale si rischiava di mostrare la caviglia nell’ondeggiare dei cerchi. Inizialmente in crine 108


di cavallo, era sostanzialmente una sottogonna parzialmente irrigidita, che presto si trasformerà in una vera gabbia con cerchi in osso di balena o in metallo uniti da robusti nastri di tessuto. Tra gli anni ‘40 e ‘50 la crinolina si compone di più di una sottogonna: una prima tessuta con crine di cavallo, una seconda parzialmente infustita dal ginocchio in giù, una terza in cotone o lino con balze applicate e inamidate, una quarta in mussola semplice, ed infine la gonna vera e propria. Attorno alla metà degli anni ‘50 diviene gabbia (molto simile nella struttura agli antichi verdugados spagnoli della seconda metà del quattrocento). L’ampiezza della gonna, per contrasto, porta una riduzione ai minimi termini del corsetto; questo, tenuto ben teso, modella la figura per mezzo di ossicini di balena che rinforzano le cuciture: quattro per parte davanti e cinque dietro, tredici in tutto. Abbracciare una donna così vestita doveva essere un’impresa difficile, doveva dare l’impressione di stringere tra le braccia una statua. La moda della crinolina e del busto aveva i suoi lati negativi: nel 1850 «The Lancet» - il più famoso giornale scientifico di ambito medico della Gran Bretagna, fondato nel 1823, riferì della tragedia di una giovane signora che, invidiatissima dalle sue rivali per la vita particolarmente sottile, era morta due giorni dopo un ballo. «La famiglia ha voluto sapere che cosa abbia causato questa morta improvvisa in un’età tanto giovane; ed è stata eseguita un’autopsia. Il risultato è impressionante: il fegato trapassato da tre costole. Così, dunque, si muore a vent’anni, non di tifo, non di parto, ma per il busto». Il corsetto non era quindi né un aiuto né un sostegno per la figura femminile, modificava infatti la struttura del corpo, riducendo le costole inferiori, dando loro una forma innaturale e inoltre soffocava la capacità polmonare, provocando abbastanza spesso malori e svenimenti; il significato culturale dello “svenimento” è interessante: dietro il mancamento causato dal corsetto si rafforzava l’idea di una donna debole, dall’aspetto fragile e poco sopportante, facile dunque al deliquio - un’icona tipica dell’epoca Vittoriana che è stata tramandata fino ad oggi e ben si avvicinava all’idea di “angelo” delicato che era tanto cara 109


al pensiero dell’epoca. I danni provocati dal busto/corsetto non si limitavano soltanto a questo, era infatti estremamente pericoloso soprattutto durante la gravidanza perché schiacciava l’utero e il feto, deformandoli entrambi. Malgrado ciò, la maggior parte delle donne indossavano il corsetto durante la gravidanza, e l’unico permesso era quello di un’allacciatura più lenta e morbida; mostrare il corpo eccessivamente gonfio per lo stato interessante della donna era oggetto d’imbarazzo e vergogna; causando così aborti e gravi difficoltà nel parto. Senza dubbio, c’è un contesto d’ordine sessuale dietro il fenomeno dello svenimento: una donna stretta nel suo corsetto vittoriano, che sveniva, dava l’idea di una sua presunta “morte” attirando l’uomo sempre più a sé. Il corsetto “esteticopedagogico”, potremmo dire così, causava deformazioni alle costole soprattutto in coloro che iniziavano ad indossarlo fin da piccoli, quando ancora appunto le ossa sono molto deboli e facilmente malleabili. Diversi studi provano invece che in un adulto le costole si spostavano minimamente (come nel caso della citata Cathie Jung): i raggi X del suo torace mostrano un’evidente modificazione delle costole inferiori e forse un allungamento dello spazio tra le vertebre. Si credeva inoltre che le donne ultra feshioniste dell’era vittoriana si fecero togliere le costole inferiori per poter allacciare meglio i loro corsetti. Dopo il 1860, la gabbia diviene più maneggevole, con articolazioni che ne consentivano un uso meno limitante di quelle rigide precedenti. Nel 1862 la forma diviene meno a cupola e leggermente spostata sul dietro della figura. Dopo pochi anni la gabbia vera e propria scompare, per restare solo nella parte alta della sottogonna, mentre la linea si fa più affusolata e triangolare. Si tratta di una nuova sottostruttura in tessuto inamidato, piatta sul davanti e abbastanza aderente sui fianchi, con una gabbia modesta sul dietro, poi evoluta nella tournure posteriore. Sarà detta: Cul-de-Paris, sellino o cage Règente che sposta tutta la ricchezza del tessuto e l’attenzione sul posteriore. La gonna molto ricca, così drappeggiata, viene detta “alla Camargo”. 110


Nonostante si consideri Charles Frederick Worth (1825-1895) l’inventore dell’abito ampio e delle crinoline - a cui si fa risalire oltretutto l’origine della Haute Couture francese, ossia della figura del sarto libero, indipendente, creativo - in realtà egli si opponeva a questa moda giudicandola non appropriata al buon gusto del quotidiano. Le sue gonne ingigantite dalla crinolina erano adatte solo al lusso sfrenato delle feste di corte. Ritenne quindi che fosse giunto il momento d’operare la propria riforma: ridurre l’ampiezza delle gonne sul davanti. Nel 1867 propose lo spostamento della ricchezza del tessuto sul dietro, che assunse la forma di un breve strascico, introducendo nel 1869 la tournure - sellino di crine rigido ispirato alle mode di Francia del XVII secolo, che sosteneva solo la parte alta del dietro della gonna in modo da creare un effetto di ricaduta verso il basso. Il suo risultato fondamentale fu quello di modificare la silhouette femminile: il davanti cominciava ad aderire al corpo e il dietro si avviava ad assumere e sostenere forme decorative sempre più complesse. Negli anni ’70 Worth propose anche un tipo di abito totalmente nuovo, in cui poteva mettere pienamente in luce la qualità del suo taglio: il modello chiamato Princesse: realizzato in un solo pezzo, dando modo di seguire le forme del corpo nel busto e di allargare l’ampiezza nella gonna. Dalla struttura della princesse, probabilmente derivò una nuova moda che s’impose intorno al 1874, quella della corazza: un busto/corsetto steccato e modellato che arrivava ai fianchi e si allungava sia davanti sia dietro. La sua comparsa modificò anche la forma della sopragonna, che venne completamente aperta al centro in modo che i due lembi potessero essere ripresi sul dietro per formare uno strascico. Lentamente anche la tournure diventò un ingombro inutile e fu eliminata in modo da favorire una linea sottile e aderente. La silhouette era cambiata ancora una volta nel giro di un decennio: dalla forma rigonfia e abbondante si passava ad una struttura slanciata dall’aspetto corazzato - la figura della donna elegante si assottigliò quasi d’improvviso in uno slanciato schema tubolare, le vesti fasciano strettamente la persona senza accentuare le curve e soltanto per le serata di 111


gala si allungano con un piccolo strascico. Nel 1881 si propongono abiti ispirati a criteri di igiene e salute fondati soprattutto sul taglio princesse che, non stringendo eccessivamente la vita e partendo dalle spalle, consentiva di limitare l’uso del busto - ormai ritenuto responsabile di ogni sorta di problema fisico e di compromettere la gravidanza. In un articolo pubblicato nel 1898, gli obiettivi della riforma venivano precisati con molta chiarezza: «La lotta principale si rivolge naturalmente contro il busto, contro l’armatura che minaccia la salute della donna, che strangola il petto e il corpo coinvolgendo nella sofferenza polmoni, fegato e cuore». Gli “indumenti riformati” furono accolti favorevolmente dalla società borghese, perché l’avviso che la medicina ufficiale rivolgeva all’uso sconsiderato del busto sui rischi d’aborto, rendeva consapevoli di quanto quest’ultimo potesse mettere in pericolo il ruolo primario della donna: quello materno. Viene proposta una nuova linea, più morbida e meno forzata da sottostrutture come il sellino e il busto, che iniziarono a svanire o modificarsi. Pur conservando ancora il bustier steccato, l’abito si alleggerì e si semplificò - la silhouette femminile acquista una linea a clessidra, con una vita sottile, il busto messo bene in evidenza e la gonna a campana o a corolla: più svasata verso il fondo. Il busto conferisce una linea affusolata e il vitino sottile di vespa viene guarnito da pizzi allo scollo e in basso, mentre la stessa disposizione delle stecche, a raggiera, ne incrementa il design elegante. Anche quando il busto viene abbandonato, sorgerà nuovamente con nuovi modelli più igienici e meno rigidi; questi nuovi modelli regalano una figura a “S” considerata il canone estetico per eccellenza: spingeva il seno verso l’alto, snelliva la vita e stringeva i fianchi - chiamati anche “sans ventre” con una scollatura più ampia: l’antenato cioè dell’odierno reggiseno, e, rimarrà inoltre, anche la pratica d’infustire il corpetto degli abiti con le stecche leggere. Alla moda Vittoriana abbondante e castigata caratterizzata dalle maniche “a pagoda” (formata da un’apertura al polso molto larga di taglio curvilineo) e dall’estrema essenzialità 112


di ornamenti e guarnizioni, si contrapponeva quella detta “Edoardiana”, sfoggiata da donne coraggiose e riformatrici all’inizio attrici, ballerine e suffragette, ma, poi ampiamente diffusa verso la fine del secolo in tutta la società. Questa nuova tendenza prende il nome da Edoardo VII (1841-1910), figlio della regina Vittoria, che contrariamente alla madre, ama la vita mondana e i viaggi, fu il leader di un élite alla moda, di uno stile influenzato dall’arte e dalle mode europee e nel 1901, salendo al trono, inaugurerà per l’Inghilterra un periodo di splendore e di apertura al resto del continente e al mondo. Quella edoardiana fu un’epoca di grandi cambiamenti sociali, in cui i valori tradizionali dell’era vittoriana furono rivoluzionati dalle donne che chiedevano di partecipare sempre più attivamente alla vita sociale (a Londra e a New York le suffragette scendevano in piazza per ottenere gli stessi diritti degli uomini, prendendo d’assalto le roccaforti del patriarcato e sollevando con grande clamore le questioni riguardanti l’asservimento domestico della donna); mentre a Parigi, Paul Poiret rivoluzionava il mondo aristocratico dell’Alta moda, lanciando per primo una nuova linea di abiti che non richiedeva l’uso del corsetto: l’abbigliamento femminile conobbe così una sostanziale evoluzione verso il contemporaneo. La sua passerella di figure femminili includeva: ninfe neoclassiche adornate in tuniche stile impero, femme fatale orientali avvolte in kimono arancio acceso o argento vibrante e vamp seduttrici in turbanti indiani (ispirati ai Balletti russi di Sergej Pavlovič Djagilev), che turbavano la Parigi del 1908. Gli abiti di Paul Poiret erano sconvolgenti non sembravano né avere una struttura formale e né avevano di sotto corsetti rigorosamente allacciati che tenessero a bada la carne fremente; anche le sue gonne erano più dritte e corte di prima - perfette per rivelare una caviglia ben fatta, invece della timida punta appena visibile di un piede vittoriano (le scarpe assunsero un ruolo fondamentale nella moda come non era mai accaduto prima).

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Malgrado la sua storia controversa, ancora oggi il busto/ corsetto continua a suscitare l’interesse d’artisti di ogni genere, incarnando il fascino del corpo per eccellenza: quello femminile. Per illustrare una mostra tenutasi al Metropolitan Museum di New York, il disegnatore Ronald Searle, dalle pagine del «New Yorker» (marzo 2000), in The Corsetfashioning the body, p. 146, prende in giro l’uso del corsetto ottocentesco e del modo di indossarlo strappandoci un sorriso. Eppure ancora oggi il busto colpisce il nostro immaginario e riesce a suscitare reazioni esaltanti, basti pensare al corsetto in pelle dorata di Jean Paul Gaultier per Madonna, come anche alla forma del flacone busto-corsetto, sempre per i profumi Gaultier. II.2.1. Paul Poiret (1879-1944) Figlio di un commerciante di tessuti, Poiret aveva manifestato fin da piccolo una forte tendenza per il disegno e per le arti figurative. L’inizio della sua carriera fu diverso da quello di Worth, perché ormai l’Haute Couture esisteva, era perfettamente strutturata ed era quindi possibile trovare impiego e formare le proprie conoscenze in una maison. Iniziò il suo apprendistato presso grandi case di moda: tra le quali anche Worth e Jacques Doucet (1853-1929). E’ nel 1898 che Doucet gli propose di lavorare in esclusiva per lui; qui imparò il mestiere del couturier di lusso e soprattutto una conoscenza che gli poteva venire solo dalla partica di atelier: l’arte del dettaglio. Imparò che un abito può diventare perfetto solo attraverso quello che veniva definito il “tocco finale”: aggiunto anche all’ultimo minuto, esso serviva per completare il suo effetto sulla persona che doveva indossarlo. Nel 1903 Poiret aprì la sua prima maison al 5 di Rue Auber, dietro all’Opéra: due piccoli saloni e una vetrina sulla strada, per creare esposizioni spettacolari che presto furono talmente note da diventare uno dei luoghi canonici delle passeggiate parigine. La sua moda nacque sotto il segno della semplificazione e dell’innovazione delle linee, proponendo 114


sia capi che seguivano le fogge di moda, con versioni prive di decorazioni e ornamenti, sia le linee morbide. Nel 1905 realizzò un mantello-kimono dal taglio diritto e dalle forme ampie, di tessuto bordeaux, foderato di chiaro e decorato con ricami a motivi cinesi. Pubblicato sulle riviste di moda con il nome di “Rèvèrend”, egli lo ritenne fondamentale per il suo percorso professionale: doveva diventare il prototipo iniziale di tutta una serie di creazioni. Chiamato da lui stesso “Confucius”, nel corso degli anni tale taglio dominò e ispirò la moda: era l’inizio dell’influenza orientale di cui lui stesso si fece promotore. Si volse verso l’Oriente, immaginario e magnifico: con turbanti, linee morbide e applicazioni esotiche, proponendo una trasformazione radicale: in definitiva un capo occidentalizzato e usato come soprabito. Nel 1906 che Poiret mise a punto la sua prima vera sfida alla moda dominante: eliminando il busto che costringeva il corpo femminile ad assumere la linea ad S, e sostituendolo con una cintura rigida e steccata alla quale era cucita la gonna. Con poche eccezioni, fin dal tardo Medioevo l’abbigliamento delle donne occidentali era sempre stato caratterizzato da un corsetto che stringeva il punto vita ed era l’elemento che determinava la linea. E’ certamente vero che egli non utilizzò più il busto tradizionale che stringeva in vita, ma lo sostituì con una guaina più lunga che aderiva al corpo in modo uniforme e costringeva soprattutto il seno e il sedere. Se questo rappresentò già un notevole passo in avanti in vista di una naturalizzazione dell’apparire delle forme femminili, fu probabilmente più importante la conseguente eliminazione di quasi tutta la biancheria che fino ad allora si collocava sotto le gonne. I nuovi abiti, morbidi e leggeri, lasciavano spazio alla sola camicia e così eliminavano il peso che le donne erano abituate a indossare. E’ in nome della Libertà che Poiret impose la caduta del busto e l’adozione del reggiseno che poi ha fatto fortuna, passando quindi da una forma artificiale basata sul corsetto a una forma più naturale. Da quel momento, Poiret cominciò a lavorare intorno alla nuova linea e ad un’idea di donna assolutamente innovativa. La sua linea 115


Vague del 1906 si ispira al Liberty e alla moda napoleonica del Direttorio. Di qui, abiti da sera sobri che cadono a terra da sotto il seno, configurando un corpo liberato dal busto. Il tutto veniva realizzato con materiali innovativi ispirandosi allo stile esotico e soprattutto con colori forti e decisi, come: il rosso, il verde, il giallo limone, l’arancione e il violetto. Nel 1910 propone una gonna lunga e diritta, fermata all’altezza dei polpacci da un nastro che costringe le donne a piccoli passetti come una geisha - la jupe entravèe; tale soluzione finisce per definire nuovamente il ruolo della donna sottomessa all’uomo. Poiret crea una donna sensuale, bella e romantica, oppure altera ed orgogliosa, perfino crudele, ma che corrisponda ai desideri maschili: sembrò la negazione di tutto quello che il sarto aveva realizzato prima del 1910, liberando il corpo femminile da corsetti e biancheria pesante. Ma probabilmente si trattava semplicemente di un esperimento, alla ricerca di una nuova linea da attribuire all’abito, oppure, forse, del freno a un movimento di liberazione che rischiava di sfuggirgli di mano. La donna che Poiret aveva in mente era una signora del bel mondo che non doveva avere alcun rapporto concreto con la vita reale. Egli la liberò dal corpo, perché quell’immagine di costrizione artificiale che aveva regnato nell’Ottocento non aveva più niente a che vedere con i riti della fastosità Belle Epoque, ma non nel ruolo. Una femme fatale o fatata, circondata di un alone di erotismo misterioso, che la trasformava in oggetto di desiderio e di lusso. Fu all’inizio dell’anno successivo che l’immagine di donna che Poiret sognava venne chiarita, quando egli presentò la prima jupe-culotte: un paio di pantaloni da harem da portare come abito da casa, sotto una tunica che arrivava al polpaccio. Il 24 Giugno 1911 si svolse una serata in costume - La Fête de la Mille ed Deuxième Nuit (La Festa della Milleduesima Notte). Per l’occasione lo stilista vestì la moglie Denise con un abito in culotte e corpetto di mussolina di seta color sabbia, e una gonna svasata di tessuto d’oro rifinita da una frangia, il tutto completato da un turbante. Creò così l’abito “La Mille ed Deuxième Nuit”: un lamé argento e verde con pantaloni 116


da harem stretti alla caviglia, e corpetto ornato da una serie di pietre e perle in celluloide in sfumature blu, verdi, rosse e gialle. Nel 1915 collaborò all’organizzazione della Fête parisienne promossa da «Vogue», che si svolse al Ritz Carlton di New York. La presentazione delle novità della moda parigina aveva lo scopo di mantenere uno stretto rapporto con il mercato americano, ma era stata progettata sia da «Vogue» sia dai francesi con un secondo obiettivo patriottico e politico: sollecitare sostegni per la Francia in guerra e creare un clima di solidarietà interalleata. Poiret sfilò con abiti diversi da quelli di gusto orientale che il mondo conosceva; scelse infatti di allinearsi con la tendenza che stava caratterizzando quegli anni: con gonne accorciate e ampie, sostenute da crinoline, e con elementi di gusto maschile. Paul Poiret artefice del meraviglioso, dell’eccesso, non si limitò alla moda. Era anche diventato il fondatore e direttore della “Scuola di Design Martine”, dove si producevano e vendevano raffinati elementi d’arredo; così come aveva aperto un’industria di profumi, molto apprezzata. Inoltre lavorò in collaborazione con i migliori scenografi e registri teatrali del tempo, disegnando costumi per il teatro. II.2.2. Elsa Schiaparelli (1890-1973) Rivoluzionaria, creativa, moderna, Elsa Schiaparelli o Schiap, come amava farsi chiamare, rappresenta una delle figure più importanti dello stilismo anni ’30. Nata a Roma da una famiglia di intellettuali piemontesi conduce una adolescenza colta e agiata. Visse a New York e nel 1924 si trasferì a Parigi. Nella capitale francese ha occasione di conoscere il celebre sarto Paul Poiret che la incoraggia a dedicarsi alla moda. I suoi modelli prendono spesso spunto da oggetti o figure della quotidianità, trasformati in abiti: maglioni tatuaggio, pullover raggi X che ridisegnano in superficie l’ossatura del corpo umano, costumi da bagno in semplice jersey e accessori originali sono i suoi primi capi etichettati Schiaparelli pour 117


le sport. Stravagante e anticonformista, stupisce presto per le sue creazioni singolari e originali, spesso legate al mondo dell’arte, come del resto conferma la sua collaborazione con grandi nomi del Cubismo e del Surrealismo. Colori, materiali, lavorazioni e disegni sono sempre il risultato di un lungo lavoro di ricerca e di sperimentazione, dove ironia e citazioni si fondono perfettamente. Pioniera nell’introdurre materiali come il tweed, il tessuto goffrato scorza d’albero (ecorce d’arbre) e le fibre artificiali nel più tradizionale repertorio degli abiti da sera. Nell’estate del 1935 esordisce con una mantella in rhodophane - tipo di plastica e cellophane trasparente, chiamandola “cape de verre”, destinata, con provocatoria ironia, a toilette eleganti. Tuttavia, la moda Schiaparelli era assai portabile, a partire dal primo successo del maglioncino nero con motivo a forma di fiocchetto bianco, ai semplici tailleur arricchiti da dettagli curiosi come i bottoni a forma di zolletta di zucchero o che rappresentano clown, cupidi, animali, segni zodiacali e i ricchissimi ricami sulle giacche con acrobati e pagliacci, agli abiti-pantalone in jersey fino a al bolero con l’abito da sera lungo. Dal 1936 al 1937 intensifica le sue frequentazioni soprattutto in ambienta surrealista; dalla collaborazione con Salvador Dalì nascono ad esempio: abiti da ballo con aragoste dipinte su organza, borse in velluto a forma di telefono, tailleur costellati da vistose labbra rosse patchwork, cappelli a forma di calamaio, di nido di gallina, di coscio di montone e il famoso “cappello-scarpa”, i guanti con unghie dorate, l’abito strappato dove la stampa evoca strappi e buchi sulla stoffa. Crea inoltre il celebre tailleur con tasche a cassetti sporgenti tratto dalla più celebre Venere di Milo con cassetti, fusa da Dalì nel 1936. Il suo profumo dal nome Shocking (1938), su cui la scultrice Leonor Fini plasma il celebre flacone sagomato sulle voluttuose forme dell’attrice Mae West (1893-1980), era tratto dal colore rosa shocking che tanto amava e che inseriva con regolarità nelle sue creazioni. Il flacone a forma di “manichino da sartoria” è stato poi ripreso da Jean Paul Gaultier nel 1993 118


in un busto femminile per il profumo da donna e in un busto maschile per il profumo da uomo. La silhouette femminile da lei creata, squadrata ed essenziale, con spalle imbottite e ben delineate per rendere la vita più sottile, ha caratterizzato la moda internazionale fino all’avvento nel 1947 del New Look di Dior. II.2.3. Christian Dior (1905-1957) La storia pubblica di Dior comincia il 12 Febbraio 1947 quando, con una sola sfilata, cambiò la moda femminile dell’Occidente: un risultato che non era mai riuscito a nessuno e che è entrato nella mitologia, tanto da cancellare quello che egli aveva fatto fino ad allora e da giustificare l’idea del couturier come demiurgo che, con un solo gesto del suo ingegno, trascina dietro di sé folle desiderose di farsi guidare sulla strada dell’eleganza e del buon gusto. Sarto e stilista fra i più importanti nel panorama della Haute Couture francese, nasce a Granville, in Normandia. Nel 1934 si ammala seriamente di tubercolosi e, dopo un anno di convalescenza in Spagna, tornato a Parigi, comincia a collaborare alle pagine di moda del settimanile «Le Figaro Illustrè», per cui disegna cappelli ed inizia a vendere schizzi di abiti e di accessori a diverse case di moda. Su suggerimento di Robert Piguet2, che aveva apprezzato il suo lavoro, provò a proporre idee originali e inventare uno stile che incontrò un certo successo; è lo stesso Piguet che nel 1938 gli propose di entrare nel suo atelier come modellista. La guerra lo costrinse a fermarsi tra il 1939 e il 1941, ma il grande successo giunse all’indomani della fine del conflitto, con la collezione del 12 Febbraio 1947, in stile New Look. L’idea vincente di Christian Dior fu d’aver scelto come ispirazione le epoche francesi della storia francese: il Settecento e soprattutto il Secondo Impero e la Belle Epoque, con i volumi accentuati e il desiderio di un rinnovato benessere dopo la guerra, rappresentata appunto dal lusso e dalla ricerca estetica nell’abbigliamento. Dalla rielaborazione di questi 119


temi veniva l’idea di modellare il corpo della donna secondo una silhouette che ne enfatizzasse le curve ricorrendo all’aiuto di accessori da tempo dimenticati: il corsetto e la guêpière indumenti che diventavano ora uno dei cardini intorno a cui si costruiva il nuovo modello sartoriale. Al busto piccolo e arrotondato faceva riscontro una gonna ampia, lunga fino al polpaccio, spesso a pieghe sagomate, che si appoggiava su una sottogonna di tulle; petto alto e spalle minute. La prima uscita fu il modello “Acacia”: busto aderente, vita stretta, fianchi segnati e gonna lunga fino a metà polpaccio, seguito da una serie di capi con la stessa linea chiamata “a 8”: pulita e sagomata, seno sottolineato, vita stretta, fianchi accentuati. Poi, con un vero colpo di teatro, comparvero i modelli con gonne larghissime, la silhouette Corolle: danzante, molto sostenuta dalla sottoveste, busto modellato, vita sottile. Era la vera novità della collezione. In entrambi i casi le gonne erano nettamente allungate, le vite marcate, le baschine delle giacche spesso accorciate così da slanciare la silhouette; era una moda dalle linee tipicamente femminili e fatte per valorizzare chi le porta. La linea Corolle costituiva anche una ripresa delle tendenze di moda che avevano preceduto l’inizio della guerra: nelle collezioni della fine degli anni Trenta erano comparse gonne ampie, cariche di ricami e volant. L’ultimo sogno prima della catastrofe era stata l’esile figura di Vivien Leigh trionfante nelle meravigliose crinoline di Scarlett O’Hara in Via col vento, un’immagine tanto più sognata per il fatto che non tutti l’avevano vista nel 1939, quando la pellicola era uscita negli Stati Uniti, e tanto più reale ora che il film veniva finalmente distribuito anche in Europa. Le spettatrici, con le loro gonne corte e le spalle squadrate, furono rapite dalla novità: una rappresentazione teatrale come nessuna maison de Couture aveva mai fatto; una rivoluzione della moda e contemporaneamente una rivoluzione nella maniera di mostrare la moda. Carmel Snow3 fu la madrina della nuova linea; fu lei a definirla New Look, un’espressione che immediatamente sarebbe stata adottata da tutti; e il tailleur “Bar”, con la piccola giacca di shantung 120


crema dalle baschine arrotondate e l’ampia gonna di lana nera e pieghe, divenne il simbolo della collezione e del nuovo stile fotografato e disegnato da tutti, pubblicato su tutte le riviste, richiesto da tutte le clienti; ancora oggi è uno degli indumenti più documentati della storia della moda e più presenti nelle collezioni dei musei. La seconda collezione per l’autunno-inverno, presentata il 6 Agosto 1947, confermò la linea New Look accentuandone le caratteristiche. La silhouette Corolle si sagoma, si svasa a tulipano: la sua espressione più spinta è l’abito “Diorama” con una circonferenza all’orlo di quaranta metri, (questo abito ha richiesto: 26,70 metri di tessuto alto 1.30; 42,50 metri di treccia nera e 230 ore di lavoro. Esso pesa più di 3 kg.); se si pensa che i limiti imposti alla couture durante la guerra erano per i tessuti di lana 3,25 metri per un abito, 4,25 metri per un cappotto, 4,25 per un tailleur - è evidente la rivoluzione operata da Dior. La silhouette stretta si profila in una linea detta Derrière de Paris di cui l’abito “Scarabèe” è l’esempio tipo: i bustini piatti e molto accollati aderiscono al seno ed esplodono in plissé, in rigonfiamenti che amplificano il petto. Nelle stagioni successive il riferimento storico divenne ancora più esplicito e più sapiente: le linee di base delle collezioni presentate fra il 1948 e il 1949 erano definite con termini di tipo grafico o dinamico, come: Zig-Zag, Ailée, Envol, Cyclone, Trompe-l’œil, Oblique, Ovale, che evidenziavano da un lato l’aspirazione che Dior aveva seguito nel disegnare i modelli e dall’altro l’effetto che il vestito sviluppava attraverso il movimento. Ormai fissata la silhouette di base, gli abiti avevano strutture asimmetriche o effetti di sovrapposizione geometrici attraverso cui venivano restituite e suggerite le linee costruttive dei modelli fine Ottocento. La decorazione della tournure si trasformava in una costruzione di linee ondulanti che percorrevano il dietro della gonna, le scollature quadrate si spostavano di lato in maniera asimmetrica, la princesse si articolava con abbottonature (vere o finte) e con spacchi diagonali. Solo le toilette da gran sera continuavano a sviluppare la linea a corolla della prima collezione: 121


arricchendola però di effetti sartoriali che conferivano loro un aspetto sontuoso e quasi irreale. La collezione “Milieu de siècle” per l’autunno-inverno 1949/50, rappresentò l’apoteosi del modello Dior: non più una sola linea, ma un’infinita variazione su tutti i temi, a seconda dei modelli, alternando i tessuti per ottenere effetti asimmetrici a forbice e a mulino a vento, i grandi colli a “coup de vent”, le aderenze morbide, le gonne a campana, i drappeggi, ecc. Anche qui, per la sera, abiti da favola di tulle alternato al satin, fittamente ricamati con materiali luminosi. Persino l’abito da sposa “Fidelité” recuperava la sua matrice ottocentesca: colletto e maniche lunghe erano infatti accoppiate a un enorme gonna di tulle con una sopra-gonna di raso, che ricordava molto da vicino i modelli da ballo delle prime collezioni di Worth. Il New Look durò sette anni: ebbe il suo culmine nella “Ligne Muguet” per la primavera del 1954 e venne cancellato dalla linea H della stagione successiva; era chiaro che stava per nascere qualcosa di nuovo. Il New Look era finito, ormai ridotto alle mille cattive copiature delle sarte e dell’industria di confezione. La press-release della collezione successiva di Dior affermava: è suonata l’ora H di una linea interamente differente basata sulla lunghezza e l’assottigliamento del busto. È sulle parallele che formano la lettera H, tutte in altezza, che si costruiscono abiti, tailleur e mantelli; se la vita resta sempre al suo posto, è attraverso i giromanica verticali, il seno poco marcato e piazzato alto, numerosi effetti di drappeggi o di sproni piazzati sotto la vita, all’inizio dei fianchi, che abbiamo ottenuto questo effetto di busto lungo che si appoggia sui fianchi, che è il segno della stagione; una nuova struttura del corpo: morbido, a volte indipendente dall’abito, che contribuisce per larga parte a questa silhouette. Nelle collezioni successive il nuovo modello diritto venne riproposto in variazioni che continuarono la serie delle lettere dell’alfabeto: A e Y; continuando a vestire una figura femminile che ostentava le curve del suo corpo, che amava le gonne larghe e i ricami fioriti. La correzione era 122


necessaria, perché l’eccesso di diffusione e la concorrenza di altri stili avevano messo in serio dubbio il New Look, ma l’innovazione era stata creata senza cancellare del tutto quella che ormai era diventata l’immagine Dior. Nel 1957, a dieci anni dalla prima collezione, la fama di Christian Dior era giunta al culmine e la sua azienda era un impero valutato sette miliardi di franchi. Persino «Time» gli dedicò una copertina; ed era la prima volta che questo accadeva a un couturier. Il 27 Ottobre Christian Dior morì improvvisamente a Montecatini. La collezione, del 30 Gennaio 1958 porterà la firma di Yves Saint-Laurent che da tre anni è divenuto di Dior l’aiutante ed erede. Essa era concepita su due linee: la prima costruita sulla figura geometrica del trapezio e sulla purezza della sua costruzione, la seconda riprendeva lo stile Dior, gonfiando le gonne a cupola o a palloncino. Questa collezione funziona come uno specchio a due facce: da un lato il Giorno, il rigore, la semplicità; dall’altra la Notte, il teatro, i capricci della seduzione che rivelano nel modo più esplicito la filiazione di Laurent da Christian Dior. Nell’89 approda alla maison l’italiano Gianfranco Ferré, che nelle quattro collezioni annuali fra Alta moda e prêt-à-porter, sviluppa una gamma di creatività consona tanto al tempo attuale che al prestigio della casa illustre. In tempi più recenti, dopo l’uscita di scena di Ferré, il timbro di impeccabile bellezza della griffe non è sempre restituita dalle collezioni firmate John Galliano, votato all’ironia o agli eccessi più che alla voluttuosa grazie della perfezione Dior.

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II.3. Evoluzione dell’Intimo Femminile: la Lingerie La storia dell’intimo è contemporanea a quella della emancipazione femminile. Essa segna il passaggio dalla condizione sociale di costrizione - ovvero del busto/corsetto, dei mutandoni (braghesse) lunghi fino al ginocchio, delle giarrettiere, di nastri, ganci e bottoni (tutti elementi che sottolineavano la schiavitù, l’impaccio e la difficoltà di movimento) - a quella della libertà. In tal senso il Novecento è stato un secolo rivoluzionario: un secolo di liberazione che ha visto numerosi stravolgimenti nel mondo dell’intimo femminile, dovuti soprattutto all’industrializzazione e alla scoperta di nuovi materiali, e nel quale in modo particolare si assiste alla nascita del reggiseno, della sottoveste e dello slip. L’intimo finalmente circonda il corpo della donna con tessuti leggeri e trasparenze, resi tali anche dall’introduzione dei materiali quali il rayon e il nylon. Se a fine Ottocento la sottoveste era l’indumento che lasciava immaginare e sognare, dando le vertigini ai giovani e meno giovani, all’inizio del Novecento comincia a trasformarsi diventando man mano un leggero velo più o meno trasparente che lascia ancor più intuire il corpo nel gioco intrigante del “vedo non vedo”, sottolineandone le curve, che porta al vertice della seduzione. Sottovesti di flanella, batista di lino o di cotone, di pizzo, poi taffetà di seta pura e soprattutto raso, quel raso frusciante e così morbido da confondersi con la pelle, così tenero al tatto, così piacevole alla vista. La Seconda guerra mondiale segna però uno stop nello sviluppo dell’intimo, l’inizio di un periodo buio di forte crisi economica. La sottoveste subisce una logica battuta d’arresto: quando il riscaldamento nelle case è un semplice ricordo, essa sarà di grosso cotone, o addirittura di lana. Quelle da seta sono tenute con estrema cura, come un bene prezioso per grandi o particolari occasioni. Ma con la fine del conflitto le donne vengono prese da un irrefrenabile desiderio, quasi una frenesia (garantita dal ritorno delle riviste di moda), di vestire non soltanto il sopra, indossando abiti per mattino, 124


pomeriggio, sera, ma anche il sotto. Di nuovo affascinano le parure importanti, leggere, ultra-femminili, con le sottovesti coordinate alle mutandine, al reggiseno, quasi sempre alla camicia da notte, spesso alla vestaglia. E’ datata 3 Novembre 1914 l’invenzione che ha cambiato profondamente il costume femminile, non solo dal punto di vista estetico ma soprattutto pratico, con un notevole miglioramento fisico e psichico della donna: viene brevettato il moderno reggiseno, che pone fine all’epoca degli scomodissimi corsetti, delle stecche di balena e di tutti gli altri informi metodi di contenimento che si usavano prima di allora (fasce, ecc.). Ideatrice dell’invenzione è la sarta statunitense Mary Phelps Jacob, detta Caresse Crosby4, che decise di costruire per sé un modello adatto ad un abito particolarmente scollato e trasparente: è un modello di reggiseno leggerissimo, senza spalline e senza supporti di stecche che sostenessero il petto, formato da due fazzoletti allacciati a una sorta di tracolla che veniva unita alla schiena con dei nastri - inventato per appiattire e non per esaltare le forme. In questo modo non solo sostituì il fastidioso corsetto, ma inventò una nuova concezione di femminilità, garantendole un posto di ribalta nella storia della moda e del costume femminile. Ed è negli anni ‘20 -‘30 che nell’intimo si aggiunge il sexy e talvolta peccaminoso négligé - veste da camera, da casa, con cui le divine ricevevano i loro spasimanti e che poi è divenuta di uso comune come semplice vestaglia - senza piume di struzzo e chilometri di pizzi e volants sia pure di raso, di seta, se non d’inverno a maglia o di lana. Nel suo segno irromperanno più tardi dagli schemi cinematografici dive come Elizabeth Taylor (in La gatta sul tetto che scotta, di Richard Brooks, 1958) e Sophia Loren (in Ieri, oggi e domani, di Vittorio De Sica, 1963). Nel 1947 Marcel Rochas5 inizia la sua sfilata AutunnoInverno con una giovane indossatrice in gonnellina di raso bianco e corpino di pizzo nero: è il segnale di quella che viene definita “rivoluzione della biancheria”. Le sottovesti devono seguire sempre più la linea degli abiti: sono “a busto” 125


o comunque tagliate a reggiseno nella parte superiore. Per accrescere l’effetto “vita di vespa”, sopra alla sottoveste può essere indossata una guêpière di pizzo, quando non è inserita nell’abito stesso - soprattutto per sera, a spalle nude. L’anno seguente, dopo la guêpière, Rochas crea il bustier- guêpière: che termina con una sottanina ancora di raso bianco, ma velato da dentelle. Negli anni ‘50 si assiste quindi al ritorno della lingerie cosiddetta “scomoda”: bustino e guêpière in testa, ma questa volta solamente per pura seduzione ed esibizionismo. La vita si assottiglia ancora una volta per mettere in evidenza i seni prosperosi: è la moda delle Pin-up, espressione che letteralmente significa “appendere su”, “appendere con spillo”. Così si indicano le ragazze fotografate in abiti succinti, le cui immagini, durante la Seconda guerra mondiale, iniziarono a diffondersi sulle riviste settimanali degli Stati Uniti. L’elemento essenziale è la postura; la Pin-up doveva mettere in evidenza le curve sinuose, affiancata da un’espressione del volto ingenua, sorridente e allo stesso tempo accattivante; doveva quindi essere incantatrice, spiritosa e maliziosa con il suo osservatore: attirando in maniera sempre maggiore l’attenzione fra i soldati impegnati al fronte, che ritagliavano le immagini di queste ragazze e le appendevano nei loro armadietti o nelle tende di accampamento, da cui il loro nome. Le Pin-up divennero famose e invasero i tabloid, calendari, pubblicità, con l’unico scopo di sedurre e attirare l’attenzione degli uomini. L’abbigliamento giocava un ruolo fondamentale nel suo “vedo non vedo”. La Pin-up non doveva mostrare troppo; il gioco consisteva nel coprire in modo sapiente i punti “proibiti”. Iniziarono così a spopolare corpetti con una spallina cadente, lunghe gonne a pieghe sollevate da un forte vento e trasparenti Baby Doll. Il Baby Doll uno dei simboli per antonomasia della seduzione femminile a partire dagli anni ’50. Il nome deriva dal titolo dell’omonimo film di Elia Kazan, girato nel 1956 e interpretato da Carroll Baker nel ruolo di una moglie-bambina che indossava un succinto pigiamino e si succhiava il pollice. 126


Lunghezze minime e trasparenze sono la peculiarità di questo indumento, nato nel 1950 circa, in un momento storico che vede la donna ritrovare il desiderio di sentirsi attraente in ogni momento del giorno. A metà tra la biancheria intima e l’indumento da notte, dalla foggia graziosamente infantile, è composto da: una camicia scollata, senza maniche e tanto corta da fare intravedere mutandine riccamente ornate da pizzi e fiocchi, utilizzati anche per arricchire lo scollo e il bordo inferiore della camicia stessa. Gli anni ’50 sono anche legati all’immagine di una silhouette femminile dette “Sweater Girl”, caratterizzata da un’elegante gonna sotto al ginocchio e un maglioncino aderente che lascia intravedere le forme sensuali e appuntite. Le Sweater girl hanno rappresentato un’epoca, anche e soprattutto grazie ad un particolare tipo di reggiseno chiamato Bullet-bra, reggiseno “a proiettile”, o Cone-bra, modello caratterizzato da cuciture circolari sulla coppa che terminano in una punta in prossimità del capezzolo. Era una lingerie che permetteva di esibire quindi seni atomici e appuntiti. Raggiunse il culmine della popolarità, quando cominciarono ad indossarlo anche stelle Hollywoodiane come Marylin Monroe. Usato ancora negli anni ’60, nel decennio successivo il Bullet-bra divenne meno popolare e sparì quasi del tutto. Negli anni ’60 l’intimo conosce il suo periodo di massimo splendore, mostrato e promosso dalle dive del cinema, diventa un vero e proprio fenomeno di costume. Verso la fine del decennio, le forti tensioni sociali che caratterizzano il periodo e che portano verso l’emancipazione femminile, finiscono per influenzare anche il modo di intendere l’abbigliamento intimo. A partire dalla metà dei ‘60 una rinnovata attenzione per la femminilità crea le condizioni giuste affinché le donne tornino a giocare con la seduzione: se le femministe avevano bruciato il reggiseno e nascosto il corpo, la conquistata libertà sessuale spinge le donne a desiderare di sentirsi nuovamente attraenti. Per tutti gli anni ’70 le parole d’ordine saranno: comodità e sobrietà. I capi di biancheria dovranno rispondere a precise esigenze di libertà e comfort - entra in commercio una 127


biancheria che utilizza fibre di cotone e lycra, elasticizzata, molto confortevole e gradevole esteticamente; gli indumenti intimi principali saranno quindi reggiseni elasticizzati e collant da portare con le minigonne. Nel 1978 a Parigi fa la sua comparsa il bustier: versione moderna dell’antico bustino, fatto per essere portato in vista e apprezzato soprattutto come capo per le serate in discoteca. Gli anni ’80 segnano una nuova crescita per l’intimo femminile. Dopo la sobrietà degli anni ’70 è arrivata l’ora di riscoprire l’intimo come arma di seduzione: pizzi, ricami, voile, tulle, giarrettiere, reggicalze, guêpière. È l’esplosione della lingerie sexy in tutte le sue espressioni. L’intimo femminile sarà una costante presenza nei film e grazie a Kim Basinger, nelle indimenticabili scene di striptease in 9½ Weeks (9 Settimane e ½, di Adrian Lyne, 20Th Century Fox Home Entertainment, USA, 1986), la sottoveste bianca mozzafiato ridiventa un indumento sexy e provocante che, accorciandosi sempre più, arriverà fino ai giorni nostri. Emblema dell’intimo femminile negli anni ’90 è il reggiseno, più complesso per struttura e materiale. Nascono così tantissimi modelli per soddisfare qualsiasi tipo di esigenza. E’ l’epoca del Wonderbra, il reggiseno push up che evidenzia il seno spingendolo verso l’alto. Lanciato dalla modella Eva Herzigova in una nota campagna pubblicitaria del 19946: diventa un’icona culturale, garantendo un décolleté dall’effetto mozzafiato. Negli ultimi anni l’intimo femminile continuò la sua evoluzione. Dopo il Wonderbra si assiste all’introduzione di reggiseni sempre più accessoriati. Arrivano così: i pescetti/ pesciolini estraibili, i cuscinetti in silicone, le coppette da attaccare al seno, i reggiseni push up senza ferretto e senza cuciture, e i super push up, che sollevano, avvicinano ed esaltano ancora di più le forme, morbidi al tatto e con un effetto molto naturale. Oggi la lingerie spunta dai vestiti, fa mostra di sé. I più grandi e importanti fashion designers creano intere collezioni facendola sfilare in passerella come un qualsiasi capo 128


d’abbigliamento. Modelle sfilano vestite di soli reggiseno, slip, culotte, bustier e sottovesti; è la nuova moda che mette in mostra quello che per anni le donne hanno nascosto sotto strati di abiti. Preziosa, impeccabile, sexy e provocante, la lingerie ammicca sotto abiti di voile e scollature vertiginose e addirittura sotto top e magliette, sembra volersi svelare ad ogni costo e si esibisce sulle passerelle più famose e nelle mise più cool. Abiti, camicie e top che giocano con le trasparenze e con le scollature e le aperture; giacche che si portano aperte e a pelle o quasi; maglioncini morbidi e mini che mostrano in pieno il décolleté. Ogni capo dell’underwear si indossa sopra oppure si mostra apertamente sotto tessuti impalpabili. L’intimo diventa capo da vestiario a tutti gli effetti ed è la proposta più audace e sexy per la stagione Primavera-Estate 2010: la guêpière diventa mini-dress, il bustier si porta con la giacca, il reggiseno al posto della camicia, sotto golfini, camice, top e la culotte sostituisce gli shorts nelle mise ultra femminili dei couturier. Lo “stile lingerie” o “nude look” è per la stagione 2010, fatale per Christian Dior - diventa abito in pizzo colorato e sexy per Jean Paul Gaultier - si porta sotto una giacca in raso. Sulla passerella sfilano tutti i capi più sexy dell’intimo femminile. C’è la guêpière, il bustino chiuso sulla schiena con laccetti e piccoli ganci che seguono la silhouette e che si prolunga fungendo da reggicalze. Sfila anche il Baby Doll, grande protagonista degli anni ’50. Persino il reggiseno si esibisce nelle nuove mise: innocente o super sexy, imbottito o con ferretto, da gran diva o a fascia, incrociato oppure a triangolo, minimale oppure in pizzo; non è più nascosto e diventa un vero e proprio passe-partout da mostrare in bella vista. Le culotte ritornano a vita alta, a metà fra bustini e hot-pants che sostituiscono il pezzo sotto del guardaroba femminile: gonna, pantalone o shorts che sia. Completa l’insieme il “bustier”: che si porta a pelle e, nelle versioni più trendy, rappresenta il sopra degli abiti e le sottovesti che nulla hanno da invidiare a veri e propri abiti, eleganti e chic per la sera.

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II.3.1. Il Bustier E’ indubbiamente lui, il bustier - corpetto sostenuto da leggere stecche laterali con coppe a mezzaluna che esaltano il seno, l’erede dell’antico corsetto. Negli anni ’80, in tessuti estrosi e luccicanti, anche stretch, diventa un importante capo da sera. Assottiglia il busto, esalta il décolleté ed usa materiali più leggeri, il capo più fashion e sexy della stagione. Oggi è usato come indumento esterno in modelli che si portano quasi sempre a spalle nude, senza spalline, scollati, con raffinate allacciature sulla schiena. Negli ultimi anni è stato celebrato al cinema da: Gwyneth Paltrow che lo sfoggia nel film Shakespeare in Love (di John Madden, Universal Pictures, USA, 1998), da Nicole Kidman in Mouling Rouge (di Baz Luhrmann, Baz Luhrmann e Fred Baron per Bazmark Films, Australia, 2001), da Renée Kathleen Zellweger in Chicago (di Rob Marshall, Miramax Films, Germania, 2002), da Kirsten Dunst in Marie Antoinette (di Sofia Coppola, Columbia Pictures Corporation, American Zoetrope, USA, 2006), e recentemente da Christina Aguilera in Burlesque (di Steve Antin, De Line Pictures, USA, 2010). Ma sono le nuove star della canzone come Lady Gaga, Rihanna e Britney Spears che, dopo averlo esibito in concerti e video, hanno ispirato gli stilisti nella nuova stagione della moda. Si indossano come top, sotto le giacche, le camice trasparenti o sopra le maglie per evidenziare fianchi, vita e décolleté. Si portano con i leggings e con le minigonne. L’Haute Couture lo rilancia tempestato di Swarovski, oppure realizzato con sete preziose e sofisticati tulle. Il Prêt-à-porter lo fa sfilare per il giorno ed in versione da sera. Ma è sicuramente nella sua nuova versione, come soprabito, che più piace agli stilisti, perché il dress-bustier (l’abito con bustier incorporato) mette in risalto le forme femminili. Dolce & Gabbana lo ha presentato in denim, in pelle, in cotone coloniale e stampato, con il gonnellino decorato da ruche.

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II.3.2. Dolce & Gabbana Se per Jean Paul Gaultier il corsetto è un must, per Dolce & Gabbana tutto il mondo della lingerie, dei busti, dei reggiseni, sarà dalla prima collezione (1985) un tema ricorrente. Indimenticabili le fotografie di Ferdinando Scianna per le prime campagne pubblicitarie (Caltagirone, 1987) dell’azienda, dove la modella olandese Marpessa Hennik indossa abiti-busti o semplici sottovesti nere ispirate alla tradizione siciliana, o ancora vestiti con le forme della vecchia lingerie, con particolari dettagli come ganci e lacci. La lingerie viene promossa in ogni tessuto: dal pizzo, alla pelle, e in ogni fantasia, dai fiori al leopardo, che diventa un altro loro basilare motivo guida. Stilisti italiani che lavorano in tandem, considerati i creatori di un nuovo stile mediterraneo, Domenico Dolce (1958) nasce a Polizzi Generosa (Palermo) e sin da giovane segue l’attività del padre nella sua piccola azienda d’abbigliamento; Stefano Gabbana (1962) nasce a Milano, studia grafica, ma presto sceglie la moda come professione. S’incontrano e formano un duo professionale, dando presto vita alla griffe Dolce & Gabbana. La prima sfilata è del 1985: in passerella sfila una produzione di sicura novità, realizzata in una serie di laboratori artigianali siciliani e attrae l’interesse della stampa specializzata. Successivamente, con la prima collezione auto-prodotta e presentata nel loro atelier milanese, in piena atmosfera di minigonne e spalle squadrate da donna manager, la figura femminile proposta da Dolce & Gabbana è quella tradizionale: donne di Sicilia, focose, seducenti e severe allo stesso tempo, timorate di Dio, legate alla famiglia e alla chiesa; un misto di glamour e di naturalismo, esaltazione di una riscoperta mediterraneità. Musa ispiratrice è una “Santuzza” che gioca a fare la spregiudicata, con reggiseni e corsetti portati a vista, sottovesti, veli e pizzi esibiti con erotica sfrontatezza. Lo stile Dolce & Gabbana ha un impronta decisa, che si stacca nettamente dal panorama di quegli anni. La loro Santuzza si fa 131


strada velocemente a colpi di guêpière, a colpi di rosari portati al collo come collane preziose, di gilet maschili con il dorso di pizzo e di reggiseni portati sopra la maglia. Il 1990 è un’altra tappa fondamentale della carriera dei due giovani stilisti: viene presentata la prima collezione uomo, e nel 1994 nasce la collezione D&G: linea per i giovani. Una protagonista del mondo dello spettacolo ha un peso determinante nella storia dei due stilisti: Madonna, è un’amicizia la loro, che acquista clamore internazionale con la presenza della rock star americana al party-sfilata di D&G del ’92. Madonna dichiara una vera passione per la griffe e a loro chiede di disegnare i 1.500 costumi del suo tour Girlie Show del 1993. Nel Giugno 2002, per Kylie Minogue, presente l’unica volta in Italia al Filaforum di Assago, i due stilisti hanno dato una gran festa allo spazio Antologico di via Mecenate: gli invitati potevano entrare solo indossando una T-shirt con la scritta “Dolce & Gabbana per Kylie”, spedita insieme all’invito e con un trasferello delle labbra della diva pop australiana “effetto bacio” elaborato al computer. Hanno creato per lei e il suo team tutti i costumi di scena per il tour europeo. Nel Settembre 2002 il ritorno allo stile originario: quello che li rese famosi nella seconda metà degli anni ’80. Il ritorno in passerella: della mini-guêpière portata sulla camicia bianca, l’abito-bustier nero stringato sui fianchi, l’abitino in maglia aderente, il tailleur nero sexy e attillato, che mette in mostra le curve. La sfilata prosegue poi con le nuove proposte per la Primavera-Estate 2003: un’ambientazione surreale e nostalgica, in un vecchio porto con ormeggi e catene arrugginite, ha fatto da sfondo ai pantaloni aderentissimi chiusi da fibbie, ai giubbotti in cotone argento, alle minigonne di cuoio, alle camicie ampie e asimmetriche, al peplo corto in jersey rosso, alle pellicce che hanno intarsi di maglia e catene. Futurista, sexy, stravagante, erotica, guerriera, ellenica: sono questi gli aggettivi usati da D&G per la nuova collezione. Dal 25 Novembre 2010 al 26 Giugno 2011 Dolce & Gabbana ha rappresentato la moda, la creatività e la tradizione artigianale 132


italiana all’interno della seconda edizione della mostra Les années 1900-2000: Histoire Idéale de la Mode Contemporaine. Vol. 2, svoltasi presso il prestigioso Musée des Arts Decoratifs di Parigi. La mostra si propone di tracciare un percorso di analisi e sintesi di alcuni dei protagonisti della moda che hanno segnato con il loro lavoro il gusto e lo stile di due decenni: dal “1970 al 1980” e dal “1990 al 2000”. Il marchio italiano è stato presente con due corsetti-icona, indossati da due star della musica mondiale; creazioni tratte, rispettivamente, dalle collezioni: “Le Pin Up” (Autunno-Inverno 1991/1992): un corsetto tempestato di pietre multicolori e di ciondoli diventato un capo iconico perché indossato nel 1991 da Madonna alla prima del film Truth or Dare (A letto con Madonna) di Alek Keshishian (Propaganda Film e Boy Joy Inc., USA, 1991) a New York, poi indossato in passerella da Naomi Campbell; e “New Sexy Glam” (Primavera-Estate 2007): un corsettoarmatura in pelle metallizzata, con gonna larga bombata sui fianchi, effetto panier, scelto dall’estrosa Lady Gaga per la copertina e il video musicale del singolo Paparazzi (2009), presentato in passerella dalla modella canadese Jessica Stam. Il corsetto è esposto a Parigi dentro una scatola. Entrambe le star della musica internazionale hanno scalato le classifiche e fatto ballare a suon di look eccentrici e provocatori, ma soprattutto, di corsetti mozzafiato. La cantante e performer australiana Kylie Minogue, in occasione del suo tour mondiale “Aphrodite - Les Folies Tour” (dal 19 Febbraio al 22 Maggio 2011), è entrata in scena adornata da una coppia di coreografi d’eccezione: Dolce & Gabbana per l’appunto; questa piccola divinità non poteva che diventare letteralmente “musa” ispiratrice per la creazione di una serie di abiti luminosi e fluttuanti, in una parola, statuari, soprattutto preziosi, protagonista il corsetto dorato e ultrasagomato, completato da abiti modellati su pieghe, dai bagliori metallici: richiamo a quel plissé soleil di Mariano Fortuny campione di stile d’inizio ’900.

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Per la Primavera-Estate 2011 è firmata Dolce & Gabbana la lingerie da indossare. Un tuffo nel passato attraverso il classico corredo che le nonne e bisnonne facevano alle nipoti: capi tradizionali ispirati alla tradizione siciliana. Tutto luccica di un bianco splendente e ritorna l’amore per il pizzo: baby doll ricamati al tombolo, camicie da notte in cotone, culotte in mussola, i corsetti e i body tornano più glamour che mai. Silhouette super-femminili e fascianti, dal bustier all’abito a sirena. L’uscita in finale di passerella con tutte le modelle vestite di lingerie, ha reso molto accattivante e maliziosa la sfilata. II.3.3. Jean Paul Gaultier (1952) Couturier francese, enfant terrible della moda - così tiene ad autodefinirsi. Rimescolatore dei diversi modi di vestire, divertito costruttore di alleanze impossibili quanto desiderabili fra stili dissimili, teso da sempre a infrangere le barriere fra maschile e femminile in scioccanti variazioni sul tema, Gaultier è riuscito fin dalla prima collezione a fare di ogni sfilata un evento, all’insegna di una multiforme estetica e delle trovate più provocanti. Attento gestore del proprio successo attraverso un ampio elenco di partecipazione ai media - dal cinema, alla televisione (con il suo programma Eurotrash per la Tv britannica), alla musica, realizzando il singolo New-BeatHouse - How To Do That del 1989. Per il Gaultier adolescente e poco studioso, la nonna ed il suo salone di bellezza ad Arcueil sembrano aver avuto un ruolo educativo ed ispirativo fondamentale: ivi conosce le prime immagini della moda fra acconciature, foto, riviste femminili. Su quella scorta visiva comincia a disegnare figurini, bozzetti; niente corsi di figurino e niente scuole di design, solo grande istinto e esperienza di autodidatta. “Il primo feticcio che feci fu un corsetto”, ricorda Gaultier, trae spunto ancora una volta da sua nonna; quando era bambino, stava spesso da lei e, nel trovare un corsetto color salmone con i lacci nel suo armadio. Lei gli parlò anche del tight-lacing di fine secolo, pratica che lo affascinò ed incantò. 134


Viene assunto a soli diciotto anni da Pierre Cardin che rimane impressionato dalla sua naturale preparazione ma anche dal suo portamento decisamente fuori dagli schemi. Nel 1974 lo stesso Cardin lo manda nelle Filippine per disegnare alcune collezioni mirate al mercato americano. Insieme a due suoi cari amici d’infanzia (Daniel e François) decide di aprire una piccola sartoria di moda indipendente a Parigi e presenta la sua prima collezione donna per la Primavera-Estate 1977: il gusto per gli accordi strabilianti, le sollecitazioni kitsch, i toni eversivi della sfilata concentrano l’interesse sul suo nome. Esordisce già con la chiara volontà di stupire, talvolta scandalizzare, sia la critica che il pubblico. Il suo asso nella manica sono le alleanze impossibili: tra passato e avanguardia, tra il taglio eccellente e la stravaganza, tra abbigliamento maschile e femminile. Fin dalla prima collezione la sua passerella è percorsa da una ventata di novità che travolge le barriere e sfida le regole del conformismo. La sua prima collezione di prêt-à-porter maschile, per la Primavera-Estate 1984 dal titolo emblematico L’uomooggetto, gli offre nuovi territori d’ironia, di travestimento e di rimescolamento delle zone erogene dell’uomo: scolli profondi che scoprono la schiena, gonne ironiche portate con disinvoltura e addirittura revival di princesse. Il suo tema preferito - l’attacco frontale ai cliché di guardaroba dei due sessi - tocca un punto importante nei modelli per l’estate 1985: il titolo rivelatore Une Garde-Robe pour Deux (Un guardaroba per due), collezione uomo/donna, è una vera e propria dichiarazione di poetica, con l’intenzione di far coincidere a metà strada identità maschile e femminile, senza trascurare gli eccessi e gli aspetti caricaturali in abiti-gag come il busto a stecche in vista sotto lo smoking della donna, i drappeggi in chiffon, il pizzo sulla camicia da sera maschile portata con i boxer. Le sue sfilate spettacolari attirano l’attenzione della stampa internazionale, che accorre volentieri in massa per registrare la spettacolarità dell’evento, contraddistinto ogni volta da un getto continuo di sorprese sempre nuove. Porta in passerella 135


un’indossatrice greca dal gran naso ricurvo, un’anziana signora, una coppia legata dallo stesso abito che comincia da lei, coinvolge lui e offre, sciogliendosi come una benda in orizzontale, nuove inversioni di ruolo fra i due sessi; modelle sovrappeso nel nome della “morbidezza” e così via. Altra sua caratteristica è un’appariscente e intelligente mescolanza di passato e presente nel taglio e nei materiali. Fra le sue invenzioni famose: la felpa unita al satin e al pizzo, le magliette multiple stracciate nei loro strati sovrapposti per rivelare spalle e parte delle braccia, tacchi a spillo come una Tour Eiffel capovolta e, su tutto, l’idea del corsetto, talvolta del busto ottocentesco, rigidi e stravaganti. E’ nel 1983 che Jean Paul Gaultier presenta il primo abito ispirato ai busti con stecche di balena, mentre, per la collezione Barbés - prêt-à-porter Autunno-Inverno del 1984/85, fa sfilare un abito di velluto con seni a cono che incanterà Madonna, vestita di Gaultier - con un bustier provocante e scintillante d’oro e con il leggendario reggiseno a cono, nella sua tournée mondiale “Blond Ambition Tour” del 1990. Madonna rappresenta la rivoluzione sessuale di quegli anni, e questo accessorio, lontano dall’essere uno strumento di tortura che castiga il corpo della donna, incarna femminilità ed erotismo; indumento di moda quindi da portare a vista. Anche il flacone del suo primo profumo “Classique” avrà la forma di un busto serrato dal corsetto, racchiuso non in una scatola ma in una confezione davvero stravagante: una lattina di alluminio targata Gaultier, omaggio alla nuova collezione “High-tech” 1993. Una fragranza floreale-orientale per donne, seguita da “Le Male” per uomo: un busto che indossa una maglia a righe, di vetro leggermente opaco, con una colorazione mista tra il verde e il blu. Nel 2006 lo stilista collabora di nuovo con Madonna, disegnando i costumi di scena del suo Confessions Tour. Collabora con Gaultier anche la famosa cantante Kylie Minogue che, per il debutto dell’album “Aphrodite” (2010), sceglie per la copertina un abito della collezione Haute Couture Spring-Summer 2010. Così sembra una dea greca: 136


abito lungo in chiffon di seta colore blu notte guarnito di corpetto e accessori in metallo. Collaborazione glamour speciale, tra l’eccentrico designer e La Perla7 - nota maison italiana di lingerie sinonimo di eleganza e raffinatezza, avviene per l’autunno 2010: per il lancio di un’esclusiva collezione - “Collection Crèateur” di lingerie a cui seguirà una collezione beachwear. La femminilità assoluta propria del dna La Perla e la seduzione couture di Jean Paul Gaultier, dall’inconfondibile approccio creativo, si incontrano in una collezione volta a celebrare le forme femminili: presenta modelli caratterizzati dall’inconfondibile firma dello stilista, il corsetto: con laccetti - capo principale dell’intera collezione; reggiseni conici; slip a vita alta e tanti altri accessori che esaltano le forme femminili e valorizzano la silhouette delle signore. I temi e i colori sono in sintonia con lo spirito della collezione Haute Couture Autunno-Inverno 2010/2011 dello stilista: sobrio, retrò, ultra chic e femminile con predominanza di nero e rosa cipria - due tinte cult per la lingerie, ma anche il bordeaux, l’arancio e il bleu: si gioca con le trasparenze, con il pizzo e le stecche per disegnare il corpo ottenendo così una carica seducente ed elegante. Due creazioni speciali in anteprima e in edizione limitata, infatti saranno presentate a Parigi durante la sfilata: un reggiseno in raso con un motivo copri-spalle da cui partono le stringhe reggi-guanti, e un reggicalze strategicamente impunturato per arrotondare la silhouette. La collezione abbina due proposte decisamente alla moda: la lavorazione a soutache, treccia, che è uno dei grandi classici di La Perla - una tecnica sofisticata per creare motivi in fettuccia di seta su tulle e le impunture a stella su raso per capi che delineano quelle silhouette così care allo stilista. Ogni modello è una celebrazione del corpo femminile, dal corsetto-stringi vita, alla sottoveste che disegna le forme, dallo slip altissimo che fascia i fianchi al bustier che evidenzia il décolleté. Non mancano il reggiseno e il body, con le celebri coppe a punta che ricordano i costumi creati da Gaultier per il Blond Ambition Tour di Madonna del 1990. Una collezione per donne indipendenti, sicure di sé e consapevoli 137


del loro fascino - un invito a indossare i panni di una lussuosa cortigiana alla stregua della splendida spogliarellista che ha chiuso la sfilata: Dita Von Teese. Jean Paul Gaultier a proposito di questa collaborazione afferma: «La lingerie è una parte del mio dna e del mio vissuto creativo; sono ormai passati trent’anni da quando ho disegnato il mio primo abitobustier e nella mia ultima collezione prêt-à-porter ho rivisitato i reggiseni a cono e i corsetti indossati come outerwear. La collaborazione, quindi, è nata come naturale evoluzione di questo approccio: dal momento che La Perla è la vera “perla preziosa” nel mondo della lingerie, con una grande storia e il migliore know-how»8. La sua linea di profumi, sempre molto popolare, si è ultimamente arricchita di nuove fragranze: come il profumo unisex Gaultier2 (Gaultier alla seconda), quello per uomo Fleur du Male e quello da donna Ma Dame. Non mancano poi le versioni reinterpretate in splendide limited edition: Classique, ad esempio, si sottotitola “Extrait Classique X Collection”: il flacone è il mezzo busto iconico dei profumi di Jean Paul Gaultier, si presenta in modo teatrale e adotta una mise nera mettendo in mostra un décolleté estremo valorizzato dalla X trasparente nella cavità dei seni. Ancora, il celebre busto Classique abbandona l’iconico corsetto e veste la sua silhouette di un velo metallizzato: “Classique Charm Edition”: la nuova versione propone un effetto di trasparenza molto suggestivo, con riflessi cangianti che sfumano a poco a poco creando un gioco di luce sensuale. Tra i seni scivola languidamente una lunga collana con delle bolle argentate pendenti - un accessorio da riutilizzare come bijou da borsetta firmato Jean Paul Gaultier ed è racchiusa in un flaconescrigno; la stessa fragranza di Le Male è riproposta con un super-costume: maglia alla marinara con una super G al centro e anello laterale che la rende un portachiavi. Attualmente lo stilista, accanto alle sue collezioni, disegna quelle di prêt-à-porter di Hermès che, dopo sei anni di collaborazione con Martin Margiela9, si affida a Gaultier a partire dalla collezione Autunno-Inverno 2004/05. Per la 138


collezione Primavera/Estate 2011 lo stilista ha giocato con l’innovazione, pur mantenendo ben saldo il legame con la tradizione della griffe. Hermès, nasce nel 1837 come bottega artigiana per bardature e finimenti per i cavalli e nel mood della collezione c’è tutto questo carattere e legame con il suo passato. E’ la pelle la protagonista assoluta di questo show, vista e interpretata attraverso lo sguardo del genio. Una collezione davvero affascinante, un percorso stilistico dove i finimenti usati per i cavalli diventano: cinture, corpetti, accessori. La Birkin e la Kelly (borsa ispirata a quelle da sella) - borse idolo per ogni fashionista, completano il look nella deliziosa versione micro legata al polso, in rafia o in pelle finissima, appiattita come un marsupio in vita, rivisitata come un corpetto rigido sul corpo delle modelle. I colori sono quelli Hermès: il cuoio, l’avorio, il nero, l’immancabile arancione, qualche tocco di verde, di rosa e di blu. Le trecce, in cui sono raccolti i capelli delle modelle, sono impreziosite dai foulard che fanno capolino dai cappelli di tradizione argentina. La giacca è destrutturata e di una morbidissima pelle. Incredibile quella di cocco trasparente, una lavorazione della pelle che, d’altra parte, ci si può aspettare solo da Hermès. Trucco invisibile sulla pelle delle modelle, stivali da cavallerizza con il tacco e un’incredibile abito-bustier: semplice ma completato da una cappa in voile che, come una farfalla, avvolge l’andatura della modella svedese Frida Gustavsson. Con questa collezione, Jean Paul Gaultier ha dato prova di quello che attesta essere un genio della moda, capire cioè, che a volte la misura, il non eccedere, il perseguire la tradizione innovando nei materiali senza alterare l’anima di un marchio, e il mettere in primo piano il rispetto per il suo carattere aziendale, spesso sono la carta vincente.

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II.4. La Lingerie Oggi: Victoria’s Secret Victoria’s Secret - “Il segreto di Victoria”, in onore alla regina Vittoria (1819-1901), attualmente è uno dei marchi americani di lingerie più prestigiosi a livello mondiale, ma, probabilmente non sarebbe esistito senza la brillante idea dell’imprenditore statunitense Roy Raymond (Connecticut, USA, 1947 - Marin County, California, 1993). Dopo essersi laureato alla Stanford University (USA), grazie al denaro chiesto ai parenti e a un finanziamento bancario di 40.000 dollari, nel 1977 pensò bene di aprire un piccolo negozio di lingerie chiamato appunto Victoria’s Secret, all’interno dello Stanford Shopping Center di San Francisco, come conseguenza dell’estremo imbarazzo che provava nell’entrare nelle grandi boutique di lingerie (come il suo) per acquistare dei regali a sua moglie. Ad un anno dall’apertura della sua attività, Roy Raymond guadagnò la bellezza di 500.000 dollari e successivamente aprì altri tre negozi più un servizio di catalogo con spedizione (Victoria’s Secret Direct) ricavandoci 6.000.000 di dollari. Nel 1982, la società è stata acquistata da The Limited Inc. - catena di negozi statunitensi (fondata dall’imprenditore commerciale Leslie Wexner), per 4.000.000 di dollari. Nel 1984, Roy Raymond fondò la My Child’s Destiny, che però non ebbe il successo della Victoria’s Secret, fallendo due anni dopo. Nel 1993, incapace di risollevare le proprie sorti, si suicidò gettandosi dal Golden Gate Bridge di San Francisco. Nonostante la triste vicenda, Victoria’s Secret continuò a riscuotere parecchi consensi. Tra le top modelle che hanno lavorato con il prezioso brand - dette “Victoria’s Secret Angels”, figurano: Adriana Lima, Heidi Klum, Naomi Campbell, Laetitia Casta ed Eva Herzigova. Il Fashion Show è l’evento più importante organizzato per presentare la meravigliosa collezione di biancheria intima e reggiseni firmata Victoria’s Secret e ha luogo al New York Armony sulla Lexington Avenue. Lo spettacolo è caratterizzato da elaborati costumi, musiche ed effetti scenografici, che cambiano in base ai diversi temi dello show. Le enormi ali d’angelo indossate dalle modelle così come altre ali di varie 140


forme: farfalla, pavone o ali da diavolo, sono un marchio di fabbrica di Victoria’s Secret. Ogni anno (dal 2001), durante il Fashion Show, viene presentato il costoso reggiseno della linea Fantasy Bra, formato da: diamanti, smeraldi e rubini. Gli altri capi indossati sono: il Red Hot Fantasy Bra/Panties (2000) che conquista il Guinness dei Primati come capo di intimo più costoso mai creato (15 milioni di dollari), seguito dall’Harlequin Fantasy Bra (2009) e dal Bombshell Fantasy Bra (2010) creati da Damiani (l’eccellenza orafa italiana nel mondo). Novecento punti vendita negli Stati Uniti nel 2007 e vendite per più di 5 miliardi di dollari, questa è la garanzia produttiva di Victoria’s Secret - un’azienda destinata a non deludere le aspettative di qualsiasi tipo di clientela.

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Note A Parigi, negli anni della Grande Rivoluzione, l’espressione “abbigliamento rivoluzionario” assunse due significati contrastanti, l’uno dal 1791 al 1794, l’altro a partire dal 1795, negli anni del Direttorio. Il primo significato si trova anche nella nostra epoca. L’abbigliamento della Cina moderna si basa sullo stesso principio di quello della Parigi di Robespierre: anche se gli abiti indossati sono diversi, in entrambi i casi sono concepiti come uniformi, che simboleggiano la lotta sociale per l’uguaglianza. A Parigi, l’uso di camicie anonime, di pantaloni al ginocchio dal taglio semplice, e l’assenza di gioielli, accessori o ornamenti, indicavano l’assenza di barriere sociali. La Parigi di Robespierre era un attacco diretto alle etichette sociali dell’Ancien Règime, che furono quindi rimosse. Il corpo fu privato dei connotati sessuali: non si potevano indossare fronzoli per renderlo più attraente o metterlo in mostra. Rendendo il corpo “neutro”, i cittadini erano “liberi”, di relazionarsi tra loro senza l’intrusione di differenze esteriori. Poco dopo la caduta di Robespierre, a quest’idea di abbigliamento rivoluzionario ne subentrò una molto più complessa. Invece di cancellare i tratti del corpo, s’iniziò a vestirsi in modo da esporre il proprio corpo agli altri per strada. La libertà non si esprimeva più nell’uniformità dell’abbigliamento, ma nella libertà di movimento consentita da quest’ultimo. Il movimento naturale e spontaneo del corpo era ciò che la gente voleva vedere per strada. L’aspetto négligé che caratterizzava la vita domestica a metà Settecento si trasferì alla sfera pubblica. Nell’Ancien Règime, il corpo era un manichino da vestire. Nel primo anno del Direttorio, il corpo fu svestito così tanto da diventare semplicemente “carne”. La Merveilleuse - la donna alla moda, indossava un abito-tunica senza maniche (habit chemise), diritto, sciolto, molto leggero, di mussola trasparente e assolutamente bianco, generalmente con strascico, e sandali ai piedi (imitante le tuniche alla romana e alla greca delle statue antiche e neoclassiche). Inizialmente senza taglio in vita, una struttura unica da fermarsi sotto al seno con una sciarpa, ma quasi subito fu trovato che il taglio in vita, cioè un modello che univa un corpino (nel quale spesso era inserito un doppio corpetto in lino per sorreggere il seno) e una gonna, donna molto di più e creava realmente l’illusione di una figura statuaria. In Inghilterra alcune donne fecero grande scandalo perché sotto queste tuniche semitrasparenti portavano una variazione del pantalone maschile: i pantellet - lunghi quasi fino a metà polpaccio. Madame Tallien (Thérésa Cabarrus, 1773 - 1835), punto di riferimento della moda nella Parigi del Direttorio, nell’autunno del 1795 fece la sua comparsa al ballo dell’Opera di Parigi indossando una tunica senza maniche di raso bianco, senza alcuna biancheria. Madame Tallien, possedeva requisiti fisici e spirituali tali da non dover nascondere nulla, e ciò era precisamente quello che essa voleva dimostrare. Sotto il Direttorio venne di moda per le donne un abbigliamento ridotto al minimo. Fino al 1797 si adoperò un tessuto sempre più leggero, finché la delicata mussolina venne sostituita dal tulle, ancora più trasparente. D’inverno le donne portavano sotto l’abito una maglia; il petto veniva mostrato sempre più generosamente dalla scollatura e i seni dovevano sempre più innalzarsi dal busto. Per rendere ancora più statuarie le forme femminili per breve tempo fu lanciata anche una moda estremamente pericolosa, oltre che stravagante: le donne giunsero a bagnarsi le vesti di mussola bianca mentre le avevano indosso, al fine di rendere la stoffa più trasparente e aderente al corpo. Questa moda provocò un’epidemia di influenza mortale 1

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che si diffuse in tutta Europa (1802-03), laddove si era adottato questo stile; la triste fine delle signore morte a seguito di questa estrema devozione alla moda, pose un termine a questo rischioso esperimento. Le donne comuni accolsero più lentamente queste novità; anche perché non era certo da tutte potersi permettere estremismi quali la semi-nudità, capellini e acconciature eccentriche, grandi scialli e tutte quelle stravaganze che caratterizzarono un periodo di confusione e di trasformazione qual era il Direttorio. Kybalovà, Ludmila, Herbenovà, Olga, Lamarovà Milena, Enciclopedia illustrata della moda, edizione italiana a cura di Giannino Malossi, Bruno Mondadori ed., Milano 2002, p. 207-224. Robert Piguet (Yverdon, 1901-1953). Stilista svizzero. Nel 1981 si trasferisce a Parigi, dalla natia Yverdon, cittadina svizzera che si affaccia sul lago di Neuchâtel. Nel suo bagaglio soltanto un’esperienza come disegnatore di calzature e alcuni schizzi di modelli alquanto originali, a stampa batik: osa proporli alla maison Lanvin, che li rifiuta. Dopo un primo tentativo (1920) andato male di lanciare una propria boutique sulla Avenue Montaigne, lavora per Paul Poiret e successivamente per un periodo più lungo per la casa di moda Redfern (nome legato alla prima uniforme da donna per la Croce Rossa). Nel 1933 inaugura una nuova boutique, gestita dal fratello Georges, che nel 1938 si trasferisce definitivamente al Rond-Point (Champs-Elysees). Robert Piguet alterna allo stile sobrio per il giorno, abiti sensazionali per la sera: look che emanano un profumo di raffinatezze ottocentesche. Celebre rimane la crinolina pieghettata, sostenuta da un nastro rigido: romanticherie che si ritrovano nelle lunghe gonne voluminose, in contrasto col bustino attillato, indossate per riviste di moda dalla moglie Mathilde. Seguirono: nel 1945 Visa, nel 1948 Fracas e nel 1950 Bagari. Continua la sua attività fino al 1951, anno in cui la chiude per motivi di salute; si spense due anni dopo. Vergani 2010, p. 938. 2

Carmel Snow (1888-1961). Giornalista americana. Nata in Irlanda, a Dublino, approdata negli Stati Uniti da piccola emigrante dove la madre aprì una sartoria. Cominciò a collaborare con «Vogue» nel 1921 raggiungendo posizioni vertiginose. Dopo dieci anni passò ad «Harper’s Baazar», trasformando questa rivista in un serio rivale di «Vogue». Condè Nast - proprietario di «Vogue» e di «Woolman Chase» - caporedattrice, la considerarono per tutta la vita una traditrice. Alle sfilate di Parigi (o di Firenze) sembrava quasi non seguire le modelle sulla passerella; addirittura a volte pareva addormentata. Ma era solo una posa perché il suo intuito le faceva scegliere per le fotografie sempre e solo il meglio di ogni collezione. Portò ad «Harper’s Baazar»: Dalì e Chagall come illustratori e, insieme ad Alexey Brodovitch, direttore artistico delle rivista, fu una grande sostenitrice del talento fotografico di Dahl-Wolfe, Horst, Munkacsi, Penn e Avedon. Ibidem, p. 1098. 3

Caresse Crosby - Mary Phelps Jacob (New York, 1981 - Roma, 1970). Sarta statunitense. Nel 1914, ha inventato un modello di reggiseno leggerissimo, senza spalline e senza supporti di stecche che sostenessero il petto: lo scopo 4

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non era di esaltare il petto, ma di appiattirlo. L’idea anticipava quella che fu la moda garçonne delle maschiette anni ’20, alla Greta Garbo (Stoccolma, 1905, New York, 1990). Seduzione androgina, si sarebbe detto molti anni dopo. Certo è che quel reggiseno “mortificante” - simbolo dell’emancipazione femminile e dichiarazione di guerra contro gli scomodissimi corsetti che strizzavano e rendevano difficile la respirazione, ebbe un grande successo, garantendo alla signora Crosby-Jacob un posto di rilievo nella storia della moda e del costume femminile. Nipote dell’ingegnere statunitense e inventore della nave a vapore, Robert Fulton (Contea di Lancaster, Pennsylvania, 1765 - New York, 1815), Caresse Crosby, commentò: «Non posso dire che il reggiseno cambierà il mondo come il battello del mio antenato, ma quasi». Ibidem, p. 604. Marcel Rochas (Parigi, 1902 - 1955). Sarto e stilista francese, fondatore della maison Rochas. Debutta nel 1925 con un atelier a Parigi in Faubourg SaintHonorè. Negli anni dà importanza alle spalle, disegna l’abito Bali ispirato al costume delle danzatrici balinesi, le maniche a kimono e la guêpière. Il suo stile, giovane e moderno, è spesso anticipatore. Una vita intensa la sua, dal punto di vista sentimentale sposò in terze nozze Hélène, bellissima musa e dal profilo economico con la nascita di numerose società e il lancio di profumi di successo: Avenue Matignon, Mouche, Moustache, ancora oggi in commercio come Femme e Eau de Rochas. La sua morte determinò un momento di crisi per la maison e la chiusura del reparto Alta moda. La moglie Hélène prese la direzione del settore profumi. Nel 1987, arrivò un nuovo proprietario, il gruppo tedesco Wella e nel 1989 Hélène Rochas lascia l’azienda. Nel 1990, la nuova gestione mette sul mercato un nuovo profumo Byzance e una linea di prêt-à-porter femminile, con il contributo dello stilista Peter O’Brian; inaugura anche una linea di moda maschile. Nel Novembre 2002, Olivier Thetskens ha accettato l’offerta di Wella per rilanciare l’immagine della maison a partire dalla collezione Autunno/Inverno 2003-2004. Ibidem, p. 1013. 5

Il reggiseno Wonderbra - definito dal Council of Fashion Designer of America: «un fenomeno mai sperimentato nell’industria della moda». Creato nel 1963 dalla stilista canadese Louise Poirer, fa il suo debutto ufficiale nel 1994 negli Stati Uniti rivoluzionando il mondo della lingerie. Il «reggiseno delle meraviglie», che magnifica il décolleté con il suo sistema di push up, è lanciato dal marchio Playtex (leader nel settore della lingerie femminile, nato negli Stati Uniti nel 1932, il Gruppo, negli anni ’60, si trasforma in International Playtex Corporation (Ipc) e apre filiali e fabbriche in tutta Europa, Italia compresa - celebre anche il reggiseno Criss Cross), divenendo ben presto un’icona culturale, grazie anche all’immagine di Eva Herzigova, modella della prima campagna pubblicitaria, che la rende la modella dei sogni maschili: vagamente somigliante alla Monroe, candida, formosa. Vergani 2010, p. 1254. 6

La Perla - azienda italiana leader mondiale dell’intimo femminile. Nel 1954, Ada Masotti, bustaia di Bologna, apre un laboratorio di confezione. 7

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Non potendo affidarsi alle fibre elastiche, punta sulla modellazione sartoriale, per capi realizzati a mano. Sua la scelta del nome. Oggi l’azienda (La Perla Fashion Group) è gestita dalla seconda generazione. Punti di forza sono: il pizzo Leawers (così chiamato dal nome di un telaio inglese di cui rimangono solo 1200 esemplari nel mondo); il ricamo Cornelly (a cordonetto); il macramè; il soutache (un tubolare di seta che viene applicato a mano per comporre il disegno) e l’antica tecnica del ricamo a frastaglio (a punto piatto). La Perla ha in esclusiva mondiale il tessuto Lycra crêpe de chine che offre un’estrema elasticità. Nel 1981 la direzione del marchio passa ad Alberto Masotti, figlio della fondatrice. Masotti, coadiuvato dalla figlia Anna, nominata fashion coordinator. Dal 1997, Masotti espande la produzione di La Perla al prêt-à-porter femminile, che debutta sulle passerelle di Milano Moda Donna nel Settembre 2001. Nello stesso anno viene nominato direttore creativo del marchio lo stilista islandese Sigurd Steinunn, proveniente da Calvin Klein. Nel Settembre 2002, legame tra tecnologia e moda: patto d’alleanza con la Nylstar - tra i colossi dell’innovazione tecnologica nel campo delle fibre e dei filati, per la produzione di calze a doppia firma in microfibra Meryl. Nel Dicembre 2002, Alessandro Dell’Acqua passa a La Perla; è il nuovo direttore creativo delle linee di prêt-à-porter. Con l’aumentare dei prodotti commercializzati da La Perla, la distribuzione del marchio si è suddivisa in una serie di brand specializzati. I seguenti marchi occupano il settore dell’abbigliamento e dell’intimo femminile: La Perla, La Perla Black Label, La Perla Prêt-à-porter, La Perla Calze & Collant, La Perla Studio, La Perla Glamour, La Perla Beachwear, Malizia by La Perla, Joelle by La Perla, Occhiverdi, AnnaClub by La Perla, Aquasuit by La Perla. I marchi per l’abbigliamento maschile sono: Grigio Perla e Grigio Sport, mentre La Perla Baby è destinata ai bambini. Ibidem, p. 668-69. 8

Ibidem, p. 483.

Martin Margiela (Lovanio, Belgio, 1957). Stilista belga. Studia all’Académie des Beaux Arts di Anversa. Nel 1984 diventa assistente di Jean Paul Gaultier col quale resta fino al 1987. Nell’Ottobre 1989 lancia una sua collezione di prêt-à-porter. Grande creatività nello stile di Martin Margiela: uso di tecniche e spunti, con elementi ripresi da tutte le culture, motivi etnici, materiali riciclati e riusati - tagliare e rimontare insieme parti di abiti vecchi, mettere in mostra fodere e parti interne, staccare e rimontare le maniche in modo nuovo. Questa concezione riprende ed amplia la pratica del punk e dello street style del tagliare e strappare T-shirt e jeans. I colori dominanti nelle sue prime collezioni sono colori potenti come: il nero, il bianco e il rosso. Nel 1997 è stato nominato direttore creativo per il prêt-à-porter della maison Hermès - della quale rispetta la tradizione di lusso e di alta qualità sartoriale continuando però a lavorare sui limiti delle strutture tradizionali degli abiti, creando ad esempio: maglioni reversibili e cappotti-mantella. Nel Luglio 2002, avviene l’acquisizione della maison Martin Margiela da parte di Renzo Rosso (presidente del gruppo Diesel). Nel 2008, firma un accordo con L’Oréal per la creazione di una linea di profumi. Ibidem, p. 743. 9

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Lo Stilismo

Capitolo III

nel

Novecento, tra Fetish, Body Moda

art e

III.1. Il Feticismo Stivali eccentrici, corsetti, biancheria intima usata come abito, vestiti di gomma o di pelle che fasciano il corpo, piercing, ecc.: non c’è oggetto dell’immaginario feticista che oggi non venga riciclato dalla moda. La connessione tra moda e feticismo va ben oltre le rare collezioni dell’Haute Couture - negli ultimi trent’anni la sua iconografia è penetrata sempre più nella società e nella cultura popolare e lo testimoniano: la Catwoman di Michelle Pfeiffer o quella più recente di Halle Berry, ma anche stili “di strada” come il punk o diffusissimi look “tutta pelle”. Il concetto di feticismo ha assunto recentemente un’importanza crescente nel pensiero critico relativo alla costruzione culturale della sessualità. Immagini di culti arcaici, panorami della prima industrializzazione, perversioni personali, ritualismi sottoculturali, fruizioni pornografiche, evangelizzazioni consumiste e il trionfo di un’estetica planetaria gestita dalle grandi marche della moda - tutto questo è feticismo. Ma si tratta di una massa semantica che sovrasta le capacità cognitive dei soggetti, i quali devono ricorrere alla forma dello stereotipo per ridurre la complessità del fenomeno. Anche la scienza, che trasforma parole d’uso quotidiano in concetti operativi, ha dovuto cimentarsi con tale problematica, relegandola nella sfera della perversione, rispetto a un valore tanto indefinito quanto relativo di “normalità”. Sino a quando un indirizzo di studi culturologici ha saputo trattarla come fenomeno diffuso, emancipato dalla sua classificazione in termini patologici o settari. Giunge più che opportuna la traduzione italiana di uno studio profondo, chiaro e immediato, che ha saputo far luce sull’estrema molteplicità di questo termine e ha saputo sondare a pieno i suoi aspetti più misteriosi per sgretolare lo strato di stereotipi che lo circondava. 147


Il termine, deriva dalla parola feitiços - con la quale i colonizzatori portoghesi del XV secolo indicavano le pratiche delle popolazioni della Guinea centrate sull’utilizzo di oggetti inanimati come: ciuffi di pelli, frammenti di ossa, crani essiccati, ecc. Una definizione odierna di feticismo non può trascendere dal confronto con almeno altre due dimensioni che hanno assunto nella società e in particolar modo nella sfera mediale un ruolo primario: l’erotismo e la pornografia; con l’erotismo esso condivide la propensione per il nascondimento del sesso, per l’attesa che in questo caso è fine a se stessa, per l’adorazione del velo che però non si frappone fra il desiderio e l’atto ma è esso stesso atto. Con la pornografia invece il feticismo condivide il piacere con il frammento, per la de-contestualizzazione dell’atto sessuale che però non è organizzato intorno alla centralità dei genitali ma che individua altri elementi periferici o surrogati del corpo che divengono indispensabili per la soddisfazione della pulsione. Per un verso, esso sovraccarica di valori simbolici elementi sessualmente marginali del corpo umano oppure oggetti che possono essere tanto eccezionali, cioè prossimi alla sfera della sessualità, quanto banali; per l’altro verso esso concretizza tramite le pratiche performative dei suoi sostenitori alcune categorie mentali stratificate nell’immaginario che tendono spesso a veicolare i segni del potere, oppure materializza sistemi di significati e di relazioni, in determinati oggetti. Da un lato, vi sono: piedi, gambe, cappelli, oppure corsetti, scarpe, tacchi alti, cerniere e pizzi che diventano obiettivi finali del rapporto sessuale; dall’altro invece, vestizioni relative a molteplici categorie sociali come ad esempio i militari, le suore, i pompieri ecc., che invece trasferiscono dei contenuti astratti in situazioni concrete verso le quali s’indirizza il desiderio sessuale. Molti oggetti sono stati usati come feticci, non solo gli abiti: spazzole per capelli, protesi artificiali, spille da balia, fruste e manubri di biciclette da corsa. Ci sono anche i cosiddetti feticci negativi, che comportano l’assenza di qualcosa normalmente presente: alcuni uomini sono attratti da amputazioni e mutilazioni. 148


In ogni modo, gli abiti sono particolarmente importanti: sia perché sono strettamente associati al corpo, sia perché sono oggetti artificiali che possono essere sostituiti, presi o passati da una persona a un’altra. Il feticismo pertanto funziona come un commutatore tra: l’immaginario di un’epoca e le pratiche sessuali che a esso possono fare riferimento. Nel costume si concentrano le tensioni verso un insieme di universi simbolici che possono essere tanto generalisti, quanto settoriali. Questi vengono riattualizzati in veri e propri giochi di ruolo che danno consistenza e corpo a una serie di immagini virtuali che sono conservate nella memoria collettiva; così il costume è parte di un elaborato dramma erotico. Partecipare a questi rituali sessuali significa indossare costumi ricavati da un campo ristretto di ruoli, tra i più comuni c’è: la dominatrix, il padrone, lo schiavo, il biker, il cow-boy, l’uomo in uniforme, l’infermiera, la vergine, l’odalisca, l’amazzone. La varietà delle manifestazioni feticiste va classificata in sottolivelli, come ad esempio: “non conformisti”, “identificatori” e “maschisti”, di cui solo alcuni esempi possono riguardare comportamenti patologici. Il feticismo, come la pornografia, ha una storia: nonostante ogni attività sessuale bizzarra che si conosce oggi, esisteva già al tempo dell’Impero Romano, ciò non significa necessariamente che il feticismo sia sempre esistito. Ci sono due teorie al riguardo: la prima afferma fondamentalmente che il feticismo è universale, o per lo meno, è esistito per migliaia d’anni in molte culture; la seconda teoria sostiene, al contrario, che il feticismo si sviluppò solo nella moderna società occidentale. Ci sono prove che le confermano entrambe: le modificazioni del corpo e i travestimenti sono rituali comuni praticati in molte culture; anche parti del corpo e vestiti sono stati ampiamente feticizzati. E, sebbene feticizzare possa caratterizzare la maggior parte degli uomini in molte culture, il feticismo, come lo intendiamo oggi, sembra essere comparso in Europa nel XVIII secolo e fissato come un fenomeno sessuale autonomo nella seconda metà del XIX secolo. Pare che sia accaduto qualcos’altro nel XIX secolo che ha cambiato 149


per sempre il significato della sessualità; il XVIII secolo fu un periodo di transizione, durante il quale atteggiamenti e comportamenti sessuali tradizionali cominciarono a evolversi verso un modello moderno; gradualmente le persone smisero di pensare in termini di atti sessuali e incominciarono a parlare d’identità sessuale. Né la storia né la psicoanalisi spiegano in modo soddisfacente perché il feticismo, come tutte le perversioni, sia così tanto più diffuso tra gli uomini piuttosto che tra le donne - uomini e donne manifestano diversi atteggiamenti verso l’amore e il sesso. Un corsetto, per esempio, esagera la forma a clessidra che attrae molti uomini eterosessuali: questa esagerazione può esercitare una potente attrazione psicologica su un certo tipo di uomini. Il “Manuale Diagnostico e Statistico” dell’Associazione Americana Psichiatrica definisce il feticismo come ricorrenti, intense fantasie sessuali eccitanti, stimoli o comportamenti sessuali che implicano l’uso di oggetti inanimati, per esempio: indumenti intimi femminili; ma nella pratica, è spesso impossibile individuare delle differenze sostanziali tra un feticismo rivolto ai piedi e uno alle scarpe. Il feticcio inanimato è spesso, ma non necessariamente, la parte di un abito: grembiuli, stivali, abiti da sera, occhiali, guanti, fazzoletti, impermeabili, scarpe, calze, biancheria e uniformi. Spesso ci sono richieste precise: un vestito che dovrebbe essere bagnato o strappato, le scarpe brillanti o scricchiolanti. Il feticcio può anche essere un tipo di materiale, ad esempio: la pelliccia, la pelle, la seta o la gomma, che a seconda dei casi può anche essere inserito in un tipo particolare d’abbigliamento. I materiali dei feticci sono divisi in due tipi: duri e morbidi. I feticci duri, fatti con materiali tipo la pelle o la gomma, tendono a essere lisci, lucidi, neri e spesso sono indumenti o scarpe che stringono e comprimono; i feticci morbidi sono soffici, pelosi, o con fronzoli. Il Manuale Diagnostico e Statistico1 elenca il feticismo sotto la voce “Disordini sessuali e d’identità di genere”, formalmente “Disordini Psicosessuali”, insieme a: esibizionismo, pedofilia, sadismo e masochismo sessuale, travestitismo, voyeurismo, zoofilia. Questo schema è comprensibilmente impopolare tra 150


molti entusiasti, che preferiscono vedere il feticismo come una variante sessuale non ortodossa ma legittimata o addirittura come una sessualmente più libera. III.1.1. Feticismo nella Moda: lo stile Punk Oggi bondage, pelle, gomma, second skin, gonne strette, lunghe, vestiti strappati, bottes con zip, ogni abito che deriva da sogni feticisti, è disponibile direttamente da: Alaïa2, Gaultier, Montana3, Versace4. Come riportava «Vogue» nel 1992, molti dei più importanti stilisti del mondo erano ispirati dalle perversità sessuali. Nell’ultimo trentennio, la moda ha attinto in modo bizzarro a temi feticisti. In ogni flusso e riflusso delle collezioni stagionali, essa ha enfatizzato ripetutamente e con sempre maggiore insistenza gli stili legati a tale orientamento. Prima del 1965, le immagini feticistiche erano perlopiù riservate a riviste erotiche come: «High Heels», ed era difficile procurarsi abiti fetish. Ma in seguito, oggetti e immagini associati al feticismo hanno acquisito sempre maggiore visibilità. Il movimento per la “liberazione sessuale” degli anni Sessanta e Settanta condusse a una rivalutazione delle deviazioni sessuali; ribellione e piacere furono sempre più privilegiati e, di conseguenza, le restrizioni imposte dalla civilizzazione sempre più criticate; la sessualità “perversa” fu apertamente dichiarata seducente. Il primo capo d’abbigliamento fetish che ottenne il consenso popolare furono i cosiddetti: Kinky Boot - stivali di pelle nera con tacchi alti. Potevano arrivare fino al ginocchio o fino alla coscia e avevano in genere bottoni o lacci, inizialmente associati alle prostitute, specialmente alle dominatrix. Lo show televisivo The Avengers (Agente speciale, serie televisiva britannica degli anni Sessanta) fu particolarmente importante per la diffusione della moda fetish - Diana Rigg interpretava Emma Peel: una donna forte e affascinante con una catsuit di pelle fortemente ispirata alla couture di costumi fetish creati da John Sutcliffe’s Atomage5 - stilista britannico e fotografo fetish. La prima versione 151


del costume di Mrs. Emma Peel riprendeva direttamente il prototipo di Atomage, ma il produttore televisivo ritenne che il riferimento al feticismo era troppo esplicito, così la maschera sul viso e il cappuccio furono eliminati. Nel 1990, ritornò l’interesse per lo stile di Emma Peel, contemporaneamente alla moda anni Sessanta e specialmente le catsuit - in quel periodo compariva sui giornali di moda come un’eroina femminista paragonata a Catwoman, altra femmina feroce. L’immagine della donna sia forte che affascinante ovviamente piaceva alle stesse donne e anche a molti uomini. E’ importante sottolineare come la moda fetish popolare sia durata per un lungo periodo e gli anni Sessanta furono meravigliosi per chi era interessato ad abiti esotico-erotici. Nel 1971 la moda ispirata al feticismo, come kinky boot, pelle e corsetti allacciati, fu persino venduta in magazzini economici come il Montgomery Ward6. Anche gli abiti da uomo divennero notevolmente più erotici in quel periodo, quando il Rock and roll fornì un nuovo modello di mascolinità. Molto prima che Madonna guidasse la diffusione di massa dell’immaginario sadomasochista, molti artisti usarono abiti fetish. I punk - una sottocultura giovanile associata a gruppi come i Sex Pistols, furono particolarmente utili nell’introdurre il feticismo nella moda. Il punk fu una rivolta e divenne volontariamente uno stile avverso che innestò nella moda vari oggetti offensivi o minacciosi come collari per cani e catene creati per sconvolgere gli osservatori più ingenui: le spille da balia furono portate come macabri ornamenti infilate nelle guance, nelle orecchie o nelle labbra; tessuti scadenti ed economici come pvc, plastica, lurex, in disegni indecenti e in colori sgradevoli, da tempo scartati per ragioni di qualità dall’industria della moda o perché considerati kitsch, furono recuperati dal punk e trasformati in capo di vestiario. In particolare, l’iconografia illecita del feticismo sessuale fu tirata fuori dall’armadio e dal cinema pornografico e collocata nelle strade. Le donne punk si appropriarono di questi concetti proibiti e ne ridefinirono o demolirono i significati, mescolarono 152


i cliché sessuali come: calze a rete, tacchi a spillo, reggiseni visibili e impermeabili di gomma. La stilista più vicina allo stile punk fu principalmente Vivienne Westwood. Nel 1974, trasformò il suo negozio nella famigerata boutique del sesso SM, bondage e fetish, che vendeva: vestiti di gomma, abiti bondage di pelle e scarpe bizzarre. Il negozio era decorato con fruste, catene, maschere, pinze per capezzoli e perfino un letto da ospedale con lenzuola di gomma. I clienti erano per metà feticisti che compravano costosi vestiti di gomma fatti su misura e per metà giovani che volevano vestiti che spazzassero i tabù e che mettessero in esposizione: «how BAD you are», si sarebbe detto allora. «Gli abiti bondage erano apparentemente restrittivi, ma quando li indossavi ti davano una sensazione di libertà»7, dichiara la Westwood e lei stessa indossava abiti totalmente SM nei primi anni Settanta: vestiva con calze di gomma e négligé, con tacchi a spillo e più tardi, in completo bondage, quando tutti portavano pantaloni scampanati e zatteroni; probabilmente fu un modo per sfidare “gli abiti ortodossi”. Il partner della Westwood, Malcolm McLaren8 recentemente ha sostenuto che giacché gomma e pelle “simboleggiano un atteggiamento radicale, la moda fetish è l’incarnazione della giovinezza”9. La moda degli anni Sessanta, in generale, fu caratterizzata da un forte senso occulto di violenza perversa erotica e sadomasochista, definita minacciosamente come: “Terrorist Chic”. I fantasiosi vestiti degli anni Sessanta sono stati sostituiti da un nuovo brutalismo e perfino le vetrine dei negozi esponevano manichini bendati, legati e feriti con colpi di pistola e le riviste di moda enfatizzavano perversità e decadenza. In un saggio sul «Vogue» americano, un articolo fu illustrato da Helmut Newton10 (noto per aver reso il feticismo chic), per il quale le fotografie di bellissime donne intrappolate o strette in lacci, accentuano l’interfaccia tra liberazione è schiavitù. Un’anonima stanza di hotel evoca fantasie di potenziali avventure erotiche, superfici scintillanti prendono e riflettono la luce in immagini che mettono in relazione eleganza e dolore, opulenza di fine secolo e alienazione contemporanea. 153


Tornando agli anni Settanta, gli stilisti che stavano cercando gli accessori appropriati per le fotografie di Newton dovettero rovistare negozi che vestivano prostitute e feticisti. Ma dagli anni Novanta, l’Alta moda arrivò a una sua visione della donna moderna. Nonostante Newton non può essere considerato l’unico che portò il feticismo nella moda, le sue fotografie furono sicuramente determinanti in quanto focalizzavano la relazione tra sesso e potere. I suoi personaggi sessuali erano: il voyeur, l’esibizionista, la prostituta, il feticista, il sadomasochista, il travestito e la dominatrix. Da considerare, una serie di fotografie di Newton pubblicate sul «Vogue» francese nel 1977 con il titolo Women or Super-Women: una donna in piedi davanti allo specchio, indossa un casco e degli stivali da cavallerizza; le sue gambe sono aperte e saldamente piantate a terra, apre con forza un’impermeabile di pelle nera di Claude Montana, stilista rinomato per quel tipo di capi. Nel 1994, «Vogue» americano riprodusse la fotografia di Newton: Saddle. Essa ritraeva una donna su un letto con dei pantaloni da cavallerizza, stivali e con una pesante sella di pelle sulla schiena, pronta per essere montata. Molti abiti ispirati al feticismo sono rinvenibili nelle riviste di stile, nei negozi, nelle strade. Nel Dicembre 1987, per esempio, «Elle» inglese pubblicò una copertina con abiti di scintillante pvc, lycra e gomma; nel Gennaio 1988 esibì un corsetto di raso nero e una minigonna di pelle. Mentre a Febbraio unì una giacca di gomma con un corsetto-bondage. Di certo, parole come fetish tendono ad essere troppo dirette, troppo minacciose per un mercato di massa, così devono essere trovati altri termini, come: “Body Conscious”, “Silck Chic” o il più comune Sexy. Poiché gli abiti fetish spesso somigliavano a quelli della dominatrix, possono anche essere interpretati come abbigliamento del potere, che fu la moda di maggior tendenza negli anni Ottanta. Le fotografie di Helmut Newton degli anni Settanta e Ottanta sono di forte influenza - essendo in esse molto forte l’idea della donna. Il simbolismo del corsetto è complesso; alcuni sadomasochisti credono che i corsetti di pelle siano solo per chi domina e 154


i corsetti di gomma soltanto per chi si sottomette, ma altri insistono nel sostenere che i corsetti non hanno nessuna connotazione sessuale predeterminata. Il significato del corsetto è contestuale e costruito: la dominatrix indossa il suo corsetto come fosse un’armatura, le sue curvature estreme e rigide rappresentano il definitivo sberleffo dello schiavo che può guardare ma non toccare. La dominatrix nel corsetto sembra e si sente impenetrabile; al contrario, il corsetto per lo schiavo significa e impone disciplina e bondage - questo perché il corsetto è spesso usato nella trasformazione dell’uomo in transessuale. Molte donne indossano abiti con espliciti riferimenti al feticismo, ma il motivo per cui lo fanno - se per piacere agli uomini o perché loro stesse trovavano gratificazioni erotiche in articoli come scarpe con tacchi alti e lingerie - per il momento può rimanere una domanda aperta. Precedentemente alla produzione commerciale di abiti e accessori fetish, gli individui costruivano da soli i propri feticci, così come facevano da sé la propria pornografia. Con l’arrivo del nuovo secolo, alcuni cominciarono l’impresa di produrre e vendere feticci, specialmente corsetti e scarpe, troppo complessi per essere costruiti in casa. Dal 1940 fino a tutti gli anni Cinquanta, a Parigi e Londra si produssero scarpe fetish con tacchi e zeppe esagerate. Invece, durante gli anni Settanta, molte scarpe fetish vennero prodotte anonimamente; non essendo griffate possono essere state ordinate da singoli clienti a calzolai ordinari, ma tolleranti. I produttori e distributori di oggetti e accessori fetish, così come i pornografi, hanno spesso affrontato sanzioni legali. Infatti, molte compagnie inglesi produttrici di abiti in gomma e/o pelle furono querelate negli anni Settanta. La situazione era comunque più semplice nei primi del XX secolo, quando le autorità, apparentemente non vedevano niente di “sessuale” nei materiali feticisti, quando questi focalizzavano l’attenzione su oggetti e rituali, piuttosto che nudità e rapporti genitali. Dal 1923 al 1940 «London Life» - presumibilmente il più importante periodico feticista del XX secolo - pubblicò un’estesa e famigerata corrispondenza su 155


corsetti, scarpe con tacchi alti, sia per uomini che per donne, piercing, cross-dressing, punizioni corporali e cose simili, e ciò avvenne nel periodo in cui pubblicazioni di letteratura scientifica sul sesso erano ufficialmente proibite in Gran Bretagna; stampò inserzioni su scarpe con tacchi da diciotto centimetri e corsetti. La commercializzazione della sessualità feticista può aver reso popolare la neo-sessualità, ma non l’ha creata e sembra che le sartorie fossero sorprendentemente lente nel rispondere ai desideri dei feticisti, che spesso lamentavano difficoltà nel trovare gli abiti desiderati. Anche alcuni fabbricanti di corsetti e abiti di gomma, oppure calzolai che rifornivano il mercato dei feticisti, erano loro stessi degli entusiasti. Madame Kayne11, per esempio, si diceva che fosse stata una tight-lacer - sosteneva che una vita alla moda, alla fine del XIX secolo, misurava da trentacinque a quarantacinque centimetri, e molte giovani donne portavano persino busti di taglie inferiori a questa. Nel 1930 si specializzò in antiquati busti dalla vita sottile sia per gentiluomini che per signore e vendeva anche biancheria intima di seta o di raso e mutande, pigiami e perfino reggiseni di gomma. I corsetti stretti, tacchi alti e la pratica del piercing erano e rimangono tre dei feticci più popolari. Queste manifestazioni di entusiasmo, generalmente non influenzarono lo stile d’abbigliamento del periodo o perlomeno quello degli uomini. Ma gli entusiasti erano abili a rintracciare gli abiti che desideravano. Durante gli anni Settanta, i più convinti indossatori degli abiti restrittivi e protettivi esitavano ad apparire in pubblico con la loro divisa feticista: portavano abiti firmati da Sealwear12 - specialista della gomma e John Sutcliffe’s Atomage - creatore di costumi in pelle. Ciò cambiò nel 1983, quando i club di moda fetish cominciarono ad aprire e ad essere frequentati da un misto di vecchi entusiasti e giovani alla moda. Contemporaneamente lo stile di strada si arricchì con vari stili tribali e negli anni Ottanta nacquero nuove tribù, arrivarono i pervs13 - che ebbero una pronunciata influenza sia sui più recenti stili tribali, come i cyber-punk, sia sulla moda in generale. Oggi, il feticismo è un fenomeno internazionale. 156


I consumatori hanno accesso ad accessori disegnati e costruiti da una vasta varietà di compagnie, come Axfords14 per i corsetti e Ectomorph15 per il lattice. Ci sono negozi fetish in Australia, Danimarca, Francia, Germania, Olanda, Giappone, Svizzera e in ogni parte degli Stati Uniti. Una volta che gli abiti fetish raggiungono una certa conformazione stilistica tra coloro che fanno tendenza, vengono ripresi da stilisti di fama internazionale, il cui lavoro poi è fatto ricadere dai fabbricanti di abiti sul mercato di massa. Le scarpe fetish con venti centimetri di tacco sono certamente un’esagerazione dei tacchi alti abituali, ma non solo questo; perfino quando gli stilisti riproducono, più o meno consciamente il look feticista, l’abito che ne consegue ha un significato differente in relazione al contesto e a chi lo indossa. Quando nella moda riapparve il corsetto: Vivienne Westwood fu una delle prime stiliste a sfruttare il prestigio della proibizione; nel 1985, il suo corsetto, il primo con reggiseno push-up che crea uno spacco tra i seni, è stato il contributo più significativo negli ultimi dieci anni. La Westwood fu ispirata dai busti del XVIII secolo, piuttosto che dai più familiari corsetti a clessidra vittoriani - la moda richiede sempre qualcosa di nuovo anche se recuperato dal passato, e se l’estetica dei suoi corsetti era robusta, erano comunque meno strutturati di quelli consueti: non si allacciano, ma si chiudono con una zip. Fino alla metà degli anni Ottanta, il corsetto è stato un motivo ricorrente nella moda; lo stilista francese Thierry Mugler è particolarmente singolare per aver reso il corsetto un elemento costitutivo nell’immagine della sua teatrale femme fatale. Senza paura di superare ogni limite, Mugler ha mostrato corsetti aggressivi come reggiseni appuntiti e corsetti di pelle con accessori che assomigliavano molto ad orecchini sui capezzoli. Realizzò un scintillante corsetto da sera con il busto di struttura plastificata che rievocava le armature romane adattate al corpo femminile e numerosi altri stili di corsetti, reggiseni, busti; ha anche incorporato i corsetti in altri capi, come le giacche di pelle nera. 157


Azzedine Alaïa, nel 1991 mise in mostra corsetti e calze con decorazioni leopardate. Nel 1992, creò dei bellissimi corsetti rossi e rosa antico di pelle, e accessori, come: borse a forma di piccoli corsetti. Karl Lagerfeld16 ha fatto della corsetteria la parte centrale del suo lavoro per Chanel: «Non si possono indossare questi abiti senza un corsetto; sono così aderenti che senza un corsetto tutti i bottoni salterebbero»17, ha dichiarato. Mentre, lo stilista giapponese Issey Miyake18 ha creato e modellato corsetti in plastica ricreando l’immagine di un dorso nudo, e lo stilista inglese/turco/cipriota Hussein Chalayan19 ha realizzato il “corsetto chirurgico”: che evoca immagini preoccupanti di lesioni fisiche o malformazioni, per dimostrare appunto le deformazioni fisiche causate dal corsetto nel passato. Nel 1994, il corsetto è riapparso come outerwear e come lingerie. Addirittura, magazzini convenzionali statunitensi, come Sack Fifth Avenue20, hanno lanciato campagne in cui si sottolineava che “il corsetto è emerso come l’ultimo accessorio”21. III.1.2. Vivienne Westwood (1941) La tendenza comune degli anni Settanta era quella di scandalizzare il più possibile: nella vita quotidiana, nei modi di essere e soprattutto nella moda. La voglia di cambiamento era già da tempo nell’aria, ma esplose coraggiosa e prorompente allora nuove tendenze musicali più che altrove; Londra, in particolare iniziava a scoprire la cultura punk rock e nella moda, inutile replicare, il nome era solo uno: Vivienne Westwood. Londra si trasforma ben presto nella capitale dello stile punk, la città è in confusione e disagio per la disoccupazione giovanile, il disprezzo per il potere e l’autorità e la voglia di ribellione. I ragazzi indossano T-shirt strappate, tessuti tartan tipicamente britannici, giacche di pelle decorate con scritte spray, alte scarpe da basket o grossi anfibi, catene, spille da balia, collari con punte metalliche, borchie di ogni tipo: tutto ciò che possa creare un’immagine aggressiva e irregolare, per 158


provocare contrarietà nella società. Vivienne Westwood mette la sua firma sull’abbigliamento punk, anche con l’aggiunta di accessori sadomaso. Eccentrica designer inglese, ha segnato la storia del costume come “musa del punk”. Nata a Glossop nel Derbyshire, si forma alla Glossop Grammar School; profetico per la sua futura carriera il motto dell’Istituto: “Virtus, veritas, libertas”. Dopo un breve matrimonio con Derek Westwood, si lega al musicista Malcom McLaren, che riuscì a dare una svolta radicale alla sua vita. Nel 1970 aprono insieme il negozio “Let it Rock”, al 430 di King’s Road (Londra) che, prima di essere un negozio, era un luogo d’incontro delle ultime tendenze della capitale britannica e raccoglieva numerosa gente del mondo della musica. Uno dei primi pezzi venduti fu la T-shirt con le ossa di pollo e catene che formano la scritta: ROCK. Nel 1972, con la nuova insegna: “Too Fast to Live, Too Young to Die” - presenta la sua prima collezione dedicata ai Rockers. Il tutto faceva parte di una nuova nascente tendenza: forte, aggressiva, disordinata e contraria a tutto. Determinante per il suo lavoro e la sua affermazione resta tuttavia il legame con McLaren, con lui nel 1974 lancia abiti di cuoio, giacche in pelle nera rivisitate da cerniere e catene e da singolari spille-immagine da balia, magliette di gomma e T-shirt con immagini pornografiche. Il passo verso la creazione di un nuovo stile, il punk inglese, è stato breve: più una tendenza di vita, che una vera e propria moda. Vivienne Westwood riesce a materializzare in espressione artistica quelli che fino ad allora erano solo pensieri e gesti di estrema politicizzazione. Palcoscenico della provocazione è la solita boutique di King’s Road, coerentemente ribattezzata “Sex”. Interverrà la polizia a chiudere quel rifugio di scandali, ma dietro le saracinesche abbassate maturano fermenti ancor più rivoluzionari. Sono anni in cui Malcom McLaren si prepara a lanciare il gruppo Sex Pistols (1976): una band destinata a lasciare il segno nella storia della musica e della moda. Diventandone il manager, ne fa studiare il look, a tavolino, dalla sua partner in ogni minimo dettaglio. Indossano quindi, abiti firmati da Vivienne 159


Westwood durante i loro concerti, consacrando così lo stile creato dalla stilista inglese. I Sex Pistols, con la loro immagine minuziosamente curata, influenzano notevolmente e vengono ricordati e adorati tutt’oggi, questo perché la designer li ha resi un’icona estetico-musicale del movimento punk e l’impatto visivo, qualche volta si sa, è anche più importante di quello sonoro. Nel 1976, per l’occasione il negozio cambia nuovamente nome in: “Seditionaries” - gioco di parole tra seduzione e sedizione. Esso forniva, in termini di mode e pose, il manuale dei nuovi anarchici che suonavano al Roxy di Londra: trafiggendosi le guance con le spille da balia e pettinandosi con creste minacciose (Mohawk o capelli alla moicano). La “coppia maledetta” tocca la vetta della massima provocazione e popolarità nel 1977: quando i Sex Pistols, in omaggio al “Silver Jubilee” (Giubileo d’Argento) per i 25 anni di trono della regina Elisabetta II d’Inghilterra, incidono con l’etichetta Virgin: God Save the Queen (Dio salvi la Regina, 27 Maggio 1977). Non proprio gradevole e gradito, per il suo contenuto offensivo e provocatorio, il brano definisce Sua Maestà moron (deficiente); in breve raggiunse la prima posizione nelle hit parade e divenne l’inno del movimento punk, ormai mondiale. Dalla ribellione dei ’70 all’edonismo dei nascenti ’80, la moda di Vivienne Westwood andò verso nuove sperimentazioni: mette in luce quanto la sua originalità non si sia limitata al fenomeno punk, disegna la collezione epocale Pirate (Autunno/Inverno 1981) che lancia il look New Romatic e la Buffalo Collection (Autunno/Inverno 1982-83), che riscossero un grande successo tra i giovani. Pirate, la prima collezione ufficiale, sfila a Londra durante la “London Fashion Week” del 1981: romantica, unisex e colorata, s’ispira all’età d’oro dei pirati e dei dandy, precorrendo i tempi. Prende piede l’ondata retrò, punto fermo di tutta la futura collezione. Forse proprio il tramonto della ribellione punk ispira il nuovo e definitivo nome: “World’s End”, che mantiene dagli anni ’80, per il suo negozio londinese, caratterizzato dall’insegna 160


con l’orologio che gira al contrario, proprio come lei, anticonformista regina del punk; vengono riscoperte inoltre, vecchie tradizioni inglesi come lo stile del tessuto tartan; la biancheria intima del passato come i corsetti stile Marie Antoinette, le crinoline, le tournure e tutti quegli elementi di antica sartoria rivisitati alla Westwood. Lo squilibrato abbinamento di biancheria intima classica e chiusure lampo metalliche è tipico della designer. Tanto per continuare a stupire, le modelle Westwood, si presentavano con un trucco definito “offensivo” per quel tempo: i denti, per esempio, venivano completamente colorati di polvere dorata, mentre, le labbra venivano disegnate a rappresentare la bandiera britannica. Nel 1985 è trionfo per la “Mini-Crini Collection”: con mini crinoline e zeppe altissime, calzature - nota la stessa creatrice “ideate per innalzare la bellezza femminile su un piedistallo”22; proprio di tali scarpe, ribattezzate “Platform”, resta vittima in sfilata la top model Naomi Campbell che, inciampando nei tacchi vertiginosi, cade rovinosamente a gambe aperte. Nel 1987 disegna il corsetto “Statue of Liberty” per la collezione “Harris Tweed” (Autunno/Inverno 1987-88): esempio straordinario di reinvenzione del corsetto in pelle color argento, con cerniera nella parte posteriore, abbinato ad una gonna in stile XVIII secolo, in lamé argento metallizzato e tulle di seta bianco. Nel Novembre 1989 il nome di Vivienne Westwood viene inserito, come unica donna, tra i sei “stilisti migliori al mondo” nel volume Chic Savage di John Fairchild23, e nello stesso anno, fino al 1991, sale in cattedra all’Accademia delle Arti Applicate di Vienna in qualità di docente di moda. La sua fama è ormai tale che la stessa regina Elisabetta, dimenticando l’affronto di God Save the Queen, nel 1992 riconosce alla stilista l’onorificenza: “Order of British Empire”. Oggi il mondo di Vivienne Westwood comprende numerose collezioni; la fama raggiunta da questa esile ed egocentrica signora è stata incredibile. Nel 2004, per un’intera stagione, la sua moda venne esposta al Victoria and Albert Museum 161


di Londra24. La mostra è il più grande tributo che il museo abbia mai dedicato ad uno/a stilista di moda, ed espone capi selezionati direttamente dalla collezione privata del V&A e dall’archivio personale della designer inglese. Grazie al suo contributo storico nel campo della moda, la Westwood è stata onorata nel 2006 del titolo di Dama dalla Casa Reale britannica. Amata e odiata, altrettanto criticata e discussa, Vivienne Westwood non ha mai smesso di scandalizzare il mondo e lo ha fatto però sempre con estro e senso artistico - la sua più autentica passione. III.1.3. Thierry Mugler (1948) Nasce a Strasburgo. A 14 anni è ballerino professionista nei Ballets de l’Opéra National du Rhin (Francia) è al tempo stesso: regista, sceneggiatore, fotografo, profumiere e creatore di costumi. Thierry Mugler realizza la sua prima linea di abbigliamento “Cafè de Paris” nel 1970 e nel 1974, fonda una maison con il suo nome. L’esperienza del teatro e del balletto hanno profondamente influenzato il suo stile dai tratti spettacolari, basato su una idea della creatività audace e sperimentale, innovativa nell’uso dei materiali e delle forme. Dal ’90 crea anche profumi. Pubblica il suo primo libro nel 1988: Thierry Mugler Photographe25 a cui segue nel 1999 una monografia, dove ha espresso la sua visione estrema sul corpo femminile: Fashion Fetish Fantasy26 esalta l’importanza e la bellezza del linguaggio del corpo, scattando foto e firmando lui stesso alcuni aforismi. Per Thierry Mugler, la donna è una combattente con un immenso potere sulla sua vita, l’eleganza è coraggio e audacia, è un istinto animale che viene liberato in ogni momento. Essere eleganti significa essere sessuali e sensuali. Eclettico e curioso, trova i suoi punti di riferimento e ispirazione nella storia, nelle carrozzerie delle automobili - in particolare quelle americane degli anni ’70 (ha trasferito la passione per le tonalità metalliche e le linee aerodinamiche nel packaging 162


dei suoi profumi), nel cinema, nei fumetti, nei video-giochi, nel cyberspazio e persino dal mondo della natura per ideare le sue donne-insetto. I suoi modelli dovevano essere più grandi, più alti e più forti dei comuni mortali. Faceva volare modelli dal soffitto, vestiva modelle da transformer e realizzava body in: vinile, pelle o cristallo - è sempre stato un curioso appassionato di ogni tipo di forma artistica; la sua moda si è distinta per essere: pulita, precisa e dai tagli strutturati - una silhouette assolutamente riconoscibile con spalle importanti. Inventa uno stile molto personale, i corpi vengono scolpiti da abiti che disegnano spalle imperiose e stringono il punto vita: un look anatomico e classico, dinamico e affusolato allo stesso tempo, che ha sempre caratterizzato lo stilista. Era soprattutto durante le sfilate che lo stilista si esprimeva, con forza, comunicando e definendo stagione dopo stagione il suo universo creativo: reggiseni fatti di specchietti, corsetti realizzati come carrozzerie di automobili, abitini sado-maso con borchie e stringhe, tacchi vertiginosi in plexiglas, dove acque azzurre creavano movimento; donne-insetto, api-regine avvolte in tessuti multicolori, trionfi di piume e di cristalli. Nel 2000 Thierry Mugler decide di abbandonare l’attività di stilista e di dedicarsi esclusivamente alla creazione di profumi (tra cui il famoso Angel del ’92) in collaborazione con Clarins27. Dopo il ritiro di Mugler dalla scena internazionale della moda, molti sono stati i nomi che hanno concorso per il posto di direttore della maison francese, fino a che, nel Settembre 2010, Nicola Formichetti è stato annunciato come il nuovo Direttore Creativo del marchio per le linee di prêt-àporter; nominato inoltre nel Novembre 2010 come una delle “forze creative più influenti sulla moda moderna”. Nicola Formichetti, classe 1977, ha sempre saputo mettere la sua infinita immaginazione al servizio di una creatività visionaria e controllata. Nato in Giappone, cresciuto tra Roma e Tokyo, ha sviluppato con naturalezza uno stile unico ed eclettico; la sua notorietà è aumentata maggiormente nel 2009, quando Lady Gaga lo scelse come suo stilista personale e i due diventarono uno l’ombra dell’altra. Dall’immagine 163


di Lady Gaga, con la quale lavora in stretta collaborazione da diversi anni, il suo tocco è oggi onnipresente; come non ricordare l’abito-scandalo di carne indossato agli “MTV Video Music Awards” (Settembre 2010) disegnato da Formichetti, che, come promesso dalla pop star, diventerà un pezzo da museo. L’abito infatti è stato trattato ad arte ed essiccato per poter essere esposto ed ammirato dai fan di tutto il mondo nel Rock and Roll of Fame and Museum di Cleveland, Ohio. Il suggestivo abito, che inizialmente aveva suscitato lo sdegno della PETA (People for the Ethical Treatment of Animals) associazione Americana che si occupa della difesa dei diritti degli animali, è successivamente diventato il simbolo della lotta all’uguaglianza dei diritti per gli omosessuali. Infatti, l’abito è stato indossato durante la cerimonia di MTV per sottolineare l’abolizione della legge americana “Don’t Ask, Don’t Tell”, che vietava ai militari gay di entrare nell’esercito; e anche la scelta di un nuovo testimonial per la campagna promozionale della collezione Autunno/Inverno 2011, The Zombie boy: Rick Genest (1985) - il ragazzo canadese ricoperto per l’80% da tatuaggi, diventato famoso grazie ad un video con Lady Gaga (Born This Way, 2011). Gli abiti di Mugler sono sempre stati in grado di conferire potere. Tanto attraverso la forma dominante, quanto con l’ampliamento della linea delle spalle, si è sempre trattato di trasformare gli umani in super-umani. Quello che desiderava Formichetti, era fare suo quel potere; i suoi abiti, anche per la linea uomo, creano ancora delle forme imponenti, ma più semplici, e Rick Genest per il designer è la combinazione perfetta. Chi può rappresentare meglio di lui l’esternazione dei propri sentimenti interiori? La maison, da Thierry Mugler, diventa Mugler e cambia direzione. Per la sfilata parigina Autunno/Inverno 2011-2012 Formichetti ha voluto ovviamente l’estrosa pop star Lady Gaga come modella di punta della sua nuova collezione, che non potendo certo passare inosservata sfila in passerella con scarpe vertiginose e abiti altrettanto esorbitanti. Si è esibita con una gonna in latex e reggiseno nero a vista per 164


la prima apparizione, mentre nella seconda con un abitobustier bianco. Ha inoltre curato personalmente la colonna sonora dell’evento. Uno stile, quello di Formichetti, post moderno, rock, stravagante, ma caratterizzato sempre dalle linee essenziali, statuarie; spalle importanti, su lunghe ed esili figure, tra dominatrici ondeggianti su tacchi vertiginosi. Il designer Thierry Mugler e la star del Burlesque Dita Von Teese hanno entrambi una “visione esasperata” della femminilità - una specie di ossessione per le forme arrotondate, i vitini di vespa, che fanno esplodere fianchi generosi e glutei pronunciati. Dita Von Teese amava Thierry Mugler da quando era giovanissima e sognava di diventare una showgirl. Negli anni ‘80 era una delle poche ragazze americane di provincia a conoscerlo. Senza mai avere accesso alle sue creazioni originali, cercava di copiare il look che proponeva. L’unica cosa che poteva permettersi del suo universo era Angel, il profumo uscito quando aveva vent’anni. «Vanity Fair» del 2011, con la complicità di Ali Mahdavi28 - il fotografo delle modelle, le più celebri nella storia della moda (autore del servizio) e dello staff di Clarins Cosmetics - la casa produttrice dei profumi di Mugler, ha potuto assistere a uno spettacolo inedito: quello della “vestizione” di Dita Von Teese con abiti vintage originali del couturier; servizio fotografico, svoltosi nel laboratorio Clarins, in Francia, dove: fantasie dinamiche, tecnologia, futurismo e precisione dominano le fotografie e in ognuna di esse, inoltre è forte: il senso di dominazione femminile e l’idea di donna meravigliosa.

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III.2. Il Fascino erotico della lingerie femminile-maschile e materiali-costumi Fetish nella moda La biancheria cominciò a stimolare sia l’interesse sessuale della gente che quello della sartoria nel XVIII secolo. Tale processo accelerò nella seconda metà del XIX secolo tanto che gli anni tra il 1890 e il 1910 furono “la grande epoca della biancheria” e, in seguito, le riviste di moda si occuparono del tema. Nonostante la biancheria abbia avuto un ruolo importante nella storia della letteratura feticista, non sembra aver raggiunto la popolarità di corsetti e tacchi alti. Undercover News: una storia di travestitismo scritta nel 196029, racconta di piccole e graziose mutande in pelle che potevano essere unite al corpo chiudendole con un piccolo lucchetto e una chiave, congiunte ad una camicetta di lattice trasparente che aderiva come una seconda pelle e altri ingegnosi modelli d’intimo. Qui la biancheria evoca il bondage e rimpiazza il corpo stesso. Le “Candy Pants” - mutande mangiabili in stile bikini per uomo e donna, erano la mania degli anni Settanta; approvate come commestibili dalla Food and Drug Administration, erano disponibili al gusto di cioccolata, banana split e ciliegia. Solo raramente la biancheria maschile si carica di connotazioni erotiche come quella femminile, semplicemente per il motivo che il corpo maschile di solito non è stato interpretato primariamente in termini sessuali. Malgrado ciò la feticizzazione della biancheria maschile ha una storia significativa all’interno della sottocultura omosessuale. Al contrario dell’ampia varietà di indumenti intimi femminili, ci sono solo pochi capi maschili, in particolare mutande e canottiere, la maggior parte dei quali tendono ad essere piuttosto insignificanti, sebbene ci sia una varietà di colori, materiali e stili, più ampia di quanto si possa immaginare. Va detto inoltre, che perfino delle banali T-shirt o slip di cotone bianco possono assumere una valenza erotica. Per esempio, la canottiera di cotone bianco fu un’importante simbolo di omosessualità all’inizio degli anni Trenta. Richard Martin30 - curatore di 166


abiti al Metropolitan Museum of Art, ha analizzato come la canottiera divenne un indumento feticcio dell’immaginario omosessuale. Poiché il mostrare la canottiera era associato agli uomini della working-class, tale indumento divenne simbolo di virilità, specialmente quando delineava la muscolatura del torace maschile. Già negli anni Cinquanta, l’immagine di Marlon Brando in canottiera bianca favorì la propagazione di tale fascino anche all’interno dell’immaginario omosessuale. Dagli anni Settanta iniziò a diffondersi un’ampia varietà di stili di biancheria intima da uomo. Mutande trasparenti, mutande kinky, mutande di soffice pelle, indumenti intimi fatti di gomma, pvc e molti altri materiali che offrono eccitamento e stimoli sessuali. Nei primi anni Ottanta, Calvin Klein31 inizia a pubblicizzare biancheria intima maschile e femminile. Le fotografie di Bruce Weber32 di uomini simili a dei, vestiti solo della biancheria, erano per questo molto più profondamente radicali rispetto alle sue immagini di donne che indossavano una biancheria androgina. A partire dal 1982, Weber e Klein collaborarono alla produzione delle prime pubblicità per biancheria intima maschile esplicitamente erotiche. Presto apparvero manifesti giganti sul panorama urbano che rappresentavano il busto muscoloso di uomini seminudi con mutande bianche, provocatoriamente turgide. Dieci anni dopo, Klein vide una fotografia sulla copertina di «Rolling Stone» del cantante rap Marky Mark33 che indossava solo un paio di mutande; spogliarsi delle sue Calvin faceva parte delle performance del cantante. Steven Meisel34 cominciò a fotografare Marky Mark per una pubblicità di biancheria intima per Klein: una delle fotografie con riferimenti sessuali più espliciti mostrava il petto nudo minaccioso dell’artista che indossava mutande bianche a mezza coscia mentre con una mano afferrava il suo sesso. Ci si potrebbe aspettare che il reggiseno sia popolare quanto le mutande, ma inspiegabilmente solo raramente diventa un feticcio, malgrado la nostra insistenza culturale sul seno come oggetto dell’attenzione sessuale. Il reggiseno così come lo conosciamo oggi, è un’invenzione del XX 167


secolo, apparso quando il corsetto non svolgeva più la sua funzione di supporto del busto in modo adeguato. Come quintessenza dell’abbigliamento femminile, il reggiseno affascina fortemente i travestiti; più il reggiseno è appuntito, rigido, brillante, trasparente, grande, succinto e/o decorato, più è facile che sia feticizzato. Gli indumenti muniti di una struttura rigida, come: corsetti, fasce e reggiseni, che supporta, dà forma e delimita alcune parti del corpo, si prestano ad essere facilmente feticizzati. L’aspetto solido e robusto dei reggiseni e delle fasce affascinò in modo speciale i punk, i quali reagirono contro la generazione hippy, che invece rifiutò il reggiseno. I punk si riappropriarono in modo comunque rivoluzionario del simbolo più malizioso della repressione sessuale e con toni provocatori indossarono fasce e reggiseni economici, utilizzandoli come abiti eterni. Vivienne Westwood, ad esempio, fu ispirata dall’uso che si faceva nei paesi sottosviluppati del reggiseno come status symbol, e non appena questa pratica divenne sinonimo di avanguardia l’industria della moda seguì immediatamente la tendenza. Le femministe hanno rifiutato l’esposizione pubblica della biancheria come anche l’immagine erotizzata della donna in vesti intime, per il fatto che ciò costituiva una sorta di molestia sessuale visiva - il revival della lingerie sexy è stato interpretato come parte di una reazione antifemminista. La moda dell’underwear come outerwear è significativa poiché viola il tradizionale tabù che separa in modo netto i comportamenti pubblici di quelli privati. La biancheria è stata a lungo percepita come un oggetto segreto e sensuale, mentre, ora viene sempre più messa in mostra sulle passerelle. Un elemento tipico degli striptease è stato introdotto addirittura da una casa di moda conservatrice come Dior, che ha fatto sfilare una modella mentre apriva la sua mantella di raso per svelare una collana e delle mutande ingioiellate. Thierry Mugler ha realizzato biancheria intima di metallo, pelle e lattice. Ma probabilmente, l’indumento intimo più kinky degli ultimi anni sono le mutande di finta pelliccia di Vivienne Westwood, che esagerano il ruolo giocato dai materiali tanto nella moda 168


quanto nel feticismo. Certi materiali esprimono un potente fascino erotico in virtù delle loro caratteristiche tattili, olfattive e visive e per le loro associazioni simboliche. Ma la popolarità dei materiali fetish è cambiata negli anni, in parte per l’avvento di progressi tecnologici come l’invenzione del cloruro di polivinile (pvc). Nel XIX secolo e all’inizio del XX secolo, l’attenzione era rivolta ai materiali soffici come il raso e la pelliccia, principalmente associati all’abbigliamento femminile; ma, alla fine del XX secolo, i materiali rigidi, specialmente pelle e gomma, hanno dominato. La strana e misteriosa attrazione che il raso, con la sua trama e la superficie altamente rifinita, ha sugli uomini più virili e benpensanti, è un’incomprensibile enigma. Questo nuovo feticcio sembra diverso dagli altri e l’entusiasmo per il ricco, costoso e scintillante raso esiste a prescindere dai più comuni feticci come la vita sottile, i tacchi alti, ecc. Il raso è un tessuto fatto di seta, ma di recente anche di nylon, poliestere e altre fibre; ordito in modo tale da produrre una superficie lucente e una trama morbida e liscia. Abito grigio di pelle lucida, reggicalze di raso bianco, fascia lilla di gomma elasticizzata e sottoveste di taffettà: tutti esempi questi di erotismo ed eccesso nella moda femminile. La gomma è un materiale liscio, elastico, impermeabile, costruito trattando chimicamente la linfa dell’albero del caucciù. Uno degli usi più comuni della gomma è stata la fabbricazione di impermeabili e cappelli, impiegata anche per articoli domestici come i guanti e, nei casi in cui servono oggetti impermeabili, anche mutande e lenzuola. Ovviamente non esistevano feticisti della gomma prima che la gomma stessa fosse inventata nel XIX secolo. Ma dal 1920 un’ampia varietà di abiti di gomma si diffuse in Germania, Inghilterra e Stati Uniti. Il più popolate feticcio di gomma fu il “Mackintosh”, un’impermeabile gommato, e una delle più antiche organizzazioni feticiste al mondo è la Mackintosh Society, con sede in Inghilterra. Il “mistero del mackintosh” è proprio questo: sentirsi protetto quando si è strettamente avvolti dall’odore della gomma, 169


ed è divino quando l’affascinante fruscio sommerge ogni altro suono. Molti ammiratori della gomma amano essere strettamente avvolti dai loro materiali fetish dalla testa ai piedi. Per la gomma, come per i corsetti, in molti casi si parla di “feticci costrittivi”. La gomma, comunque, come tutti i feticci ha varie fonti d’attrazione; gli abiti di gomma sono gentili, accarezzano la pelle confortandola e lisciandola, sono quindi piacevolmente stimolanti. Fin dal 1970 le industrie tendevano a sostituire la gomma con la plastica, ma questo non portò alla fine del feticismo della gomma, anzi aumentò la categoria, includendo pvc e lattice. L’invenzione del pvc fu particolarmente importante perché rese possibile il “wetlook”, tessuto con effetto bagnato, dando rinnovato entusiasmo all’impermeabile. Feticci di gomma e cuoio coesistono. Il cuoio, da molto tempo usato per fabbricare finimenti, selle, fruste e articoli d’abbigliamento come scarpe, cinte, giacche, grembiuli da fabbro, armature, guanti e borse, divenne un feticcio nel XIX secolo e più recentemente fu considerato subordinato al feticismo delle scarpe. Principalmente, i feticisti misero in risalto l’odore e la lucentezza di tale feticcio, dando un valore particolare alla vera pelle e nel XX secolo. Le associazioni simboliche della pelle cominciarono a diventare sempre più importanti. Fu per il suo carattere che divenne alla moda. L’abbigliamento kinky di pelle entrò nelle passerelle negli anni Sessanta, quando Yves Saint Laurent divenne il primo degli stilisti a renderla alla moda. Ebbe soprattutto un successo particolare negli anni Settanta, quando sia l’omosessualità che il sadomasochismo vennero in gran parte accettati. Fu soprattutto lo stile punk ad accentuare il ruolo della pelle, che dai primi anni Ottanta si trovò dovunque, usata principalmente per fare riferimento ai duri motociclisti. Oggi invece è il tessuto che ognuno desidera: versatile, adatto al giorno e alla notte, non si sgualcisce, è un materiale lussuoso, sensuale. La donna è pronta a spendere una fortuna per averla; ancora oggi la pelle rimane il feticcio preferito ed è diventato inoltre un segno internazionale del sesso radicale. 170


Il fascino feticista per la seconda pelle (second skin) si estende fino alla decorazione del corpo stesso: le pratiche del tatuaggio e del piercing sono una forma d’espressione antica e storicamente diffusa del mondo e in molte culture tradizionali, hanno la funzione di decorazioni rituali e/o segni sociali. La body modification feticista è una cosa differente, poiché viene intrapresa dall’individuo per ragioni personali, spesso in relazione al dolore e al piacere erotico. Oggi tatuaggi e piercing hanno raffinato maggiormente il loro stile: piercing su labbra, guance, capezzoli, lingua e genitali. Il piercing entra nella cultura contemporanea attraverso le sottoculture sm, omosessuale e fetish; in parte il loro scopo era semplicemente di scioccare e in questo erano molto vicini al pensiero punk. La più diffusa decorazione epidermica è stata e continua ad essere il maquillage e soprattutto il rossetto. In effetti, i cosmetici possono essere considerati uno dei più popolari feticci sessuali. Nella vita sociale di un uomo, ci sono momenti in cui l’abito ha la funzione di una sorta di maschera e in modo rivoluzionario nasconde l’individuo sotto le apparenze di un sé fantastico. Alcuni feticisti spingono le loro ossessioni stilistiche oltre la fissazione per un singolo oggetto e usano interi completi che incorporano una varietà di articoli fetish: un corsetto indossato su una catsuit di pelle, con stivali dai tacchi alti, guanti, ecc. A primo impatto questi travestimenti comunicano significati specifici che riguardano il tipo di prestazione sessuale offerta e/o richiesta e i ruoli che saranno inscenati. Partecipare a questi rituali sessuali significa indossare costumi ricavati da un campo ristretto di ruoli. Tra i più comuni c’è la dominatrix, il padrone, lo schiavo, il biker, il cowboy, l’uomo in uniforme, l’infermiera, l’amazzone. Alcune aziende specializzate in costumi riferiscono di molti clienti che seguono fantasie banali, come ad esempio la femme fatale, le governanti francesi, le show girl, le infermiere sexy e le poliziotte sexy. La collezione “Bondage” presentata nel 1992 dallo stilista Gianni Versace fu criticabile. Alcune donne considerarono offensivi i suoi abiti, descrivendoli come immorali e 171


antifemministi. La moda di Versace saggiamente rafforza e declassa le donne; la donna di Versace è quella che sta afferrando la frusta, oppure, quella alla quale sono state messe i finimenti per cavalcarla nella stanza indossando un collare e un guinzaglio. Il costume della dominatrix, oltre ad essere il costume fetish più importante, ha anche esercitato una grande influenza sulla moda contemporanea. Scarpe con tacchi alti, stivali e guanti sono chiaramente simboli fallici, proprio come la frusta che spesso ha con sé. La dominatrix solitamente indossa un corsetto che è simbolicamente altrettanto fallico, nonostante abbia la forma del busto femminile, dato che le sue stecche lo rendono duro e flessibile: una persona con il corsetto rimane eretta. Anche le sue vittime o clienti, indossano un corsetto, capo frequentemente associato ai rituali di sottomissione, al bondage o al travestitismo. Indossandoli con una maschera si rimane anonimi. Gli stilisti di moda femminile, molti dei quali sono omosessuali, hanno preso frequentemente ispirazione dell’abbigliamento dei cowboy e dei biker. Una cowgirl alla moda recupera ogni elemento del guardaroba macho del cowboy, dal cappello, agli stivali lucidi e accessori di pelle. La donna biker ha acquistato un posto stabile nell’Alta moda; se Claude Montana veste le donne con giacche di pelle da biker, nelle pubblicità di Calvin Klein esse posano con grandi e potenti motociclette. Thierry Mugler fa un ulteriore passo e crea per una sua sfilata un busto metallico che trasforma la donna stessa nella rappresentazione di una motocicletta. Nel frattempo, all’interno della sottocultura sessuale, il look da biker, che per lungo tempo fu popolare nella scena sm, cominciò a dissolversi. Anche il cross-dressing ha sempre avuto una parte importante nella scena feticista, e l’emergere del “fetish drag” è un nuovo fenomeno. Il fetish drag non richiede un look definito, si basa sulla combinazione di elementi maschili come una giacca di pelle nera e stivali con elementi femminili, come calze e corsetti. Il simbolismo cromatico associato alla moda fetish è 172


particolarmente significativo. Il nero è da sempre il colore più popolare, seguito dal rosso. Il nero è un colore eccezionalmente potente, astratto, puro e misterioso, freddo, pericoloso e sexy. Il concetto di nero infernale e satanico risulta perversamente erotico. Gli anni Sessanta videro nascere il “Black Power” e mettere in secondo piano le aspirazioni dei giovani bianchi. Negli anni Settanta, sia i gay che i punk rivissero l’esaltazione della pelle nera, associata al sadomasochismo e agli Hell’s Angels Motorcycle Club (HAMC) - letteralmente “Club motociclistico angeli dell’inferno”: società motociclistica nata negli Stati Uniti, oggi diffusa in tutto il mondo, i cui membri, tradizionalmente, montano motociclette Harley-Davidson. E’ dagli anni Novanta che il nero divenne il colore fondamentale della moda, dominò nella moda contemporanea per lo stesso motivo per cui ha dominato nella moda feticista: è associato alla morte, alla perversione, alla ribellione e al peccato. Unico rivale del nero, per potenza simbolica e visuale, è il rosso: il colore del sangue, del fuoco; il colore della passione, della collera, del pericolo e della rivoluzione. III.2.1. Il Latex Oggi: Atsuko Kudo Il “latexwear” più sofisticato nasce a Londra nell’atelier di Atsuko Kudo35 - designer giapponese di nascita e inglese di adozione, con la passione del latex: insolito materiale in lattice di gomma. Una sua nota creazione è l’abito lungo color rosso lacca in latex indossato da Lady Gaga, quando incontra la Regina Elisabetta II durante il “Royal Variety Performance” (2009), un evento benefico andato in scena all’Opera House di Blackpool, realizzato nella sua boutique-studio al 64 di Holloway Road (Londra) e gestita insieme al marito, che è un ballerino di burlesque al maschile. Diverse star, hanno indossato creazioni ideate dalla designer, come l’abito-bustier giallo limone in latex di Beyoncé nel video Telephone (Marzo - 2010); Christina Aguilera indossa un sexy mini abito-bustier nero in latex con borchie per la copertina del suo album: Not Myself Tonight (Aprile -2010), e 173


ancora, una super tutina nera sempre in latex, trucco pesante, baci lesbo e qualche traccia di bondage, accompagnano il video ufficiale; mentre, la cantante e attrice portoricana Jennifer Lopez, che ha posato per la campagna pubblicitaria “L’Oréal Paris” (2011/12), indossa una serie di tubini super attillati neri e uno color ruggine in latex - sempre tutto Made in Kudo. Vincitrice del “Best Fetish Design” (Miglior Design Fetish) nelle edizioni 2008 e 2009 degli “European Fetish Awards”, Atsuko Kudo riesce a conciliare: il tocco aggressivo di un materiale provocante per eccellenza, con linee raffinate da sofisticata lady degli anni ’40, e a sedurre e affascinare tantissimi clienti in tutto il mondo con un latexwear malizioso, sensuale e mai minaccioso, utilizzandolo in una gran varietà di stampe (leopardo, serpente, ecc.) e colori. Il latex per Atsuko Kudo rafforza il potere delle donne. Quando s’indossa la sensazione è davvero unica e poi, se viene tagliato e confezionato a dovere, valorizza il corpo femminile, lo rimodella, è come una seconda pelle. Lascia una sensazione molto gradevole sulla pelle e si tratta soprattutto di un tessuto naturale, non è soffocante come la plastica o il pvc. Atsuko Kudo disegna e realizza abiti per donne che vogliono sentirsi bellissime, femminili e forti. III.3. Il Burlesque e lo Strip Il termine Burlesque deriva dal francese - dove è usato sia come aggettivo, tradotto letteralmente come “burlesco”, sia come sostantivo, per definire un genere comico della letteratura del XVI e XVII secolo che faceva il verso ai grandi testi classici. L’anima burlesca di questi scritti si trasferì poi in teatro, dove diede vita a un vero e proprio genere che andò evolvendosi nei decenni. Le prime tracce del Burlesque come rappresentazione teatrale si trovano nell’Inghilterra vittoriana, quando il suo carattere comico si è andato a incrociare con gli altri tipi di spettacolo, ai quali ha aggiunto un pizzico di erotismo, seduzione al femminile, fino a diventare quello che 174


è oggi: una messa in scena ironica di uno strip non integrale. L’evoluzione di questo spettacolo è fatta di raffinatezze interessanti che si vanno a celare tra paillette, sorrisi e piume di struzzo. Tutto ciò si sviluppa attorno alla parola strip e al suo mondo di nudo e voyeurismo, di divieto e di permissione, di seduzione e di eccitazione con il quale il Burlesque si incrocia, trovando il suo spazio e il suo tempo e definendo via via la sua identità. La storia di queste performance è fatta di un susseguirsi di episodi legati a casualità, incidenti, leggi, sentimenti, denaro, leggende metropolitane, fotografie, ironia, un insieme di elementi apparentemente lontani tra loro, che hanno fatto del Burlesque una vera e propria forma d’arte che, finita la sua età d’oro negli anni Sessanta, è rimasta nella memoria e ha permesso inoltre di far nascere alla fine del Novecento: il New Burlesque. Si deve ad una donna l’affermazione del Burlesque come forma di spettacolo teatrale nell’Inghilterra della prima metà dell’Ottocento; Eliza Vetris (Lucia Elizabeth Vestris, 17971856) è il nome della prima artista inglese di Burlesque elencata nella storia. E’ stata una delle più grandi interpreti di opere comiche e di canzoni dell’epoca romantica e vittoriana, debuttante a Londra nel 1815 al King’s Theatre. Il Burlesque si sviluppò parallelamente al vaudeville, commedia musicale dal quale pare sia in qualche modo derivato. Originariamente i due generi convivevano; poi, con il passare del tempo, il Burlesque si andò delineando come una sua evoluzione, conservandone il tono popolare, le canzoni maliziose e satiriche, l’umorismo e i balletti, con l’aggiunta di ammiccamenti ed erotismo scherzoso. Gli spettacoli di Burlesque erano pensati per la classe lavoratrice che amava numeri di varietà brevi in locali dove si potessero bere bevande economiche: spettacoli facili da seguire perché composti da piccole scene l’una diversa dall’altra, senza una storia di fondo. Inoltre, piacevano molto perché prendevano di mira l’aristocrazia con la quale il popolo in quegli anni si scontrava e viveva tensioni sociali. Dall’Inghilterra il Burlesque conquistò anche gli Stati Uniti, dove inizialmente gli spettacoli erano solamente delle farse. 175


I punti di forza dei palcoscenici americani, fin dai primi dell’Ottocento, erano le parodie di libri o di opere teatrali classiche e contemporanee, chiamate travesties (farse, testi) da cui poi nasceva una versione comica, arricchita da canzoni, balli e caricature di personaggi famosi. Nel 1820-1830, dalla farse si passa ai minstrel show - miscela di sketch comici, varietà, danza e musica, interpretati da attori bianchi, chiamati minstrels in blackface, che dipingevano la faccia di nero con un sughero bruciato per prendere in giro i comportamenti degli schiavi di colore. Questi spettacoli erano strutturati in tre parti diverse: la prima comprendeva sketch comici, canzoni e danze con più attori in scena; la seconda, detta olio: numeri di varietà; e infine la terza la parodia di un’opera lirica. Da questo movimento di delineò il “burlesk”, spettacolo basato solamente sulla farsa e sulla satira. Il circo, con i suoi momenti comici veloci, le clownerie, i mimi, le acrobazie, ma soprattutto il divertimento di base, produssero molta influenza sul burlesk. Gli show - spettacoli di intrattenimento popolare - sono composti da una serie di atti che vedono alternarsi musiche, danze, canzoni, comicità fisica e giochi di parole e una serie di ballerine bellissime di fila per sostenere il ritmo veloce dello spettacolo e far divertire il pubblico; si svolgevano nelle sale da ballo, nelle birrerie e negli honky-tonks, osterie con sale da ballo. Contemporaneamente al burlesk, dedicato alla farsa, avevano luogo anche i girlie shows - spettacoli basati sulla presenza femminile. A segnarne la storia fu The Black Crook, presentato a New York nel 1866 e ricordato come il primo musical americano, nato dall’unione fra una compagnia di ballo parigina, rimasta senza lavoro e una compagnia di prosa americana, i cui produttori pensarono bene di impiegare le disoccupate signorine francesi per ravvivare la propria compagnia. Le ballerine, che si esibivano in calzamaglia di seta color carne e gonnelline corte, suscitarono grande clamore, portandolo subito al gran successo, tanto che la commedia venne rappresentata per un numero record di spettacoli e andò in tournée per gli Stati Uniti per decine di anni. E’ quindi da The Black Crook che il corpo di ballo divenne un elemento 176


fisso del musical. Nel 1868, sempre a New York, arrivò dall’Inghilterra Lydia Thompson (1838-1908), primadonna del Burlesque, insieme alla sua compagnia “Imported British Blondes”, composta da ballerine di fila tutta bionde, per portare in scena Ixion (spettacolo tratto dalla commedia Lisistrata di Aristofane). Quest’ultime, al contrario delle ballerine di The Black Crook, che rimasero anonime, recitavano numeri individuali e venivano presentate con il proprio nome; cantavano, ballavano e interpretavano diverse divinità. Ixion ottenne un gran successo, eseguendo tournée per più di vent’anni in molte città americane, divenendo una vera e propria attrazione e ponendo le basi del Burlesque negli Stati Uniti. La compagnia di Lydia Thompson creò una prima forma di burlesk al femminile dove le donne recitavano da sole o insieme, che indusse gli impresari a investire su questo tipo di show. Pioniere fu l’impresario e produttore teatrale M. B. Mike Leavitt (1843-1935), che nel 1869 produsse il primo lady minstrel show, chiamato Madame Rentz’s Female Minstrels: le sue donne si esibivano in collant e corsetti ed erano le protagoniste dell’intero spettacolo. Ottenne molta fama, al punto che Leavitt pensò di investire unicamente sulle donne, affidando loro anche i ruoli maschili e di unire i lady minstrel show, il vaudeville e le parodie musicali in un unico programma, che chiamò: Burlesque. La sua compagnia, si chiamò Rentz-Santley Novelty & Burlesque Company - dal nome della sua interprete principale Mabel Saintley; poi solo Rentz-Santley, che divenne anche il titolo dello spettacolo: riconosciuta come la prima vera compagnia di Burlesque nella storia. Il successo della Rentz-Santley Novelty & Burlesque Company, promosse la nascita di molte altre compagnie che favorirono il diffondersi del Burlesque negli Stati uniti, in particolar modo a New York e Chicago. Le signorine dei primi Burlesque rappresentavano: dee dell’Antica Grecia, ninfe, geishe, guerriere amazzoni, indossavano copricapi, tuniche adornate di gioielli e frange, calzamaglie e corsetti che modellavano il fisico, portavano capelli lunghi, tirati su o sciolti, a seconda del personaggio che interpretavano. 177


Gli anni Ottanta continuarono a segnare il successo del Burlesque e soprattutto delle sue queens - star dei vari gruppi; una di queste, May Howard, nel 1888 creò una propria compagnia: la “May Howard Company”, la cui attrazione principale erano le forme significativamente rotonde delle ragazze, con un peso di almeno 68-70 chili. I suoi show ebbero successo per i corpi abbondanti delle ballerine, che si esibivano in collant, guadagnandosi il soprannome di: “A leg show pure and simple”. La compagnia fece il giro degli Stati Uniti fino alla fine del XIX secolo, quando ormai mostrare le gambe non faceva più notizia a causa della tanta concorrenza. L’incontro tra il Burlesque e lo Strip datato 1917, è dovuto a un episodio casuale, avvenuto in un locale di New York durante uno spettacolo di Burlesque prodotto dai quattro fratelli Minsky - tra i più noti impresari di stock burlesque di quegli anni, che lavorarono tra il 1912 e il 1937. La protagonista accidentale fu la ballerina Mae Dix. Mentre si esibiva perse il suo abito e rimase del tutto svestita; ciò piacque molto al pubblico, che dimostrò entusiasmo per questa curiosa novità e il successo fu tale che gli organizzatori pensarono bene di riprodurre “l’incidente” come se fosse un elemento previsto dalla sceneggiatura, segnando così l’inizio dello strip nella storia. Nei primi del Novecento era permesso mostrare solo le gambe nude e le vere protagoniste erano donne con la loro carica sensuale, che si esibivano in abiti provocanti ma mai nude o nell’atto di spogliarsi; per questo l’incidente di Mae Dix fece storia. Dopo questo evento lo strip divenne parte integrale degli spettacoli di burlesque, che continuarono a comprendere comici, cantanti, parodie, numeri speciali e musical (una varietà di generi che ne mantenne la popolarità e di cui i Minsky furono maestri, impresari che ebbero in gestione il Teatro National Winter Gardens a New York). Le ragazze iniziarono a calcare le passerelle indossando solo dello chiffon trasparente per coprire il seno; successivamente mostrarono i loro seni solo per pochi minuti, per poi arrivare a farle sfilare solo con il tanga. Oltre al successo, questi spettacoli attirarono anche le critiche dei moralisti e il controllo della polizia. La 178


prima retata importante avvenne nel 1934 all’Irving Palace Theatre (New York) degli Irwin Brothers - uno dei primi teatri a osare in scena questo tipo di nudità facendo da apripista per gli altri. Ne seguirono delle riforme che intendevano porre un freno alle libertà che il burlesque si era preso: fu reso obbligatorio in scena il reggiseno, vietati i bis di spogliarello, rimosse le passerelle poiché dichiarate “al alto rischio d’incendio”. Così, per eludere le proibizioni, evitare la nudità totale, ma continuando a dare al pubblico ciò che voleva, si diffuse l’uso dei tanga (string) e dei copri-capezzoli (pasties); ma nel contempo le artiste continuavano a spogliarsi. Lo strip non solo si affermava come parte fondamentale degli spettacoli di burlesque, ma iniziò a diffondersi anche negli spettacoli di Broadway, nei cabaret e nei vaudeville. Nonostante i divieti nelle città di New York, negli Stati Uniti fu ancora possibile vedere gli spettacoli di Burlesque negli anni a venire. I girlie shows degli anni ’40 piacevano ai giovani colletti bianchi, alle tute blu e ai militari, ma erano soprattutto i ragazzi dei college a sostenere gli show del burlesque - la cui visione rappresentava un rito di passaggio verso l’età adulta. Tra gli anni ’40 e ’50 il Burlesque divenne semplicemente sinonimo di striptease e le artiste di conseguenza venivano chiamate “strippers”. In questo periodo le autorità continuavano a tenere sotto controllo gli show, così i produttori si dovettero ingegnare per aggirarle; espedienti come: la gestione delle luci nel momento in cui l’artista si toglieva il tanga, ad esempio. Negli anni dei divieti, gli spettacoli erano costruiti su piccoli trucchi, illusioni; e se il “paneled skirt” era uno degli indumenti caratteristici delle artiste di Burlesque (esso consisteva in una sorta di gonna lunga con due spacchi laterali che partivano dalla vita fino a terra; l’effetto era quello di due pannelli di tessuto attaccati al string (tanga) davanti e dietro, che lasciavano intravedere le cosce e i fianchi durante il ballo o la camminata), la legge ritenne che i pasties non erano abbastanza evidenti o abbastanza larghi, l’artista vi attaccava delle nappe e le faceva roteare attirando l’attenzione del pubblico, da qui, la nascita del tassels twirling 179


- roteazione delle nappine attaccate ai copri-capezzoli, e del bump’n’grind - movimento rotatorio tipico dei fianchi e dei seni seguito dal colpo di addome. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il Burlesque dovette affrontare un nuovo concorrente, ovvero lo spettacolo di nightclub, dove gli show erano più spinti e soprattutto si potevano vendere alcolici, cosa vietata nei teatri. Così, nei tardi anni ’40, ’50 e ’60, molti artisti di Burlesque lasciarono i teatri, ormai deserti, per i nightclub. Il successo del Burlesque fu tra gli anni ’20 e la fine degli anni ’40, quindi ancora nei meravigliosi anni ’50. Ma il successivo movimento hippy degli anni ’60 finì per cambiare il panorama sociale e culturale degli USA, segnandone la fine. Anche la nascita della rivista «Playboy» (Playboy Magazine, dal 1953), fondata a Chicago da Hugh Hefner, dedicata alla fotografia erotica e rivolta in prevalenza a un pubblico maschile eterosessuale, influenzò il cambiamento dell’immaginario erotico con le sue pagine centrali dedicati al nudo femminile; il suo declino avvenne intorno alla metà degli anni ’60. Lo stuzzicamento sessuale e l’ammiccamento divertito erano gli aspetti che lo distinguevano dagli altri tipi di show; il Burlesque quindi piaceva proprio perché era qualcosa di diverso dal varietà. Anche l’atteggiamento sfacciato e l’allure di illegalità che il Burlesque si era dato negli anni, avevano aumentato il suo fascino, ampliato dai costumi elaborati, dagli effetti di luce adulanti e dalla distanza delle artiste dal pubblico, che le rendevano ancora più desiderabili. Il Burlesque portava in scena la seduzione, puntava sulla sensualità, femminilità, sulla naturalezza delle artiste, caratteristiche queste che lo resero sempre un genere diverso dagli altri. Soprattutto il successo delle esibizioni delle artiste (danzatrici esotiche), che, da elemento facente parte di spettacoli più articolati e complessi, divennero la principale attrazione e protagoniste, motivo per cui rimasero nella storia sia il Burlesque, sia le sue artiste.

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III.4. Il New Burlesque Gli anni Cinquanta marcarono la decadenza del Burlesque. Dopo aver garantito al pubblico molte ore di divertente intrattenimento e segnato una parte importante della storia e della cultura americana, il genere iniziò ad essere rifiutato soprattutto nella zona di Los Angeles, metropoli in cui le artiste venivano pagate meno rispetto alle altre grandi città. Alcune di loro decisero di protestare contro questa minima paga e nel 1955 si riunirono pubblicamente per denunciare tale abuso; tra loro, Jennie Lee (Kansas City, 1928-1990). Jennie iniziò a ballare da adolescente e la sua prima performance come ballerina esotica fu un successo clamoroso. Calcò i palcoscenici di Burlesque per trent’anni. Designata “The Bazoom Girl” per l’abbondanza dei suoi seni, aveva un numero speciale: Diamond Lil, che consisteva nel far roteare i puntini che coprivano i suoi capezzoli a notevole velocità. Dalla sua esperienza nacque la League of Exotic Dancers (edl): inizialmente un’associazione con l’intento di preservare le tradizioni del Burlesque, successivamente un social club per artiste dello stesso Burlesque sulla via della pensione. Nel 1968 Jennie Lee acquistò il suo primo nightclub, che utilizzò per sistemarvi la sua collezione di ricordi con l’intento di creare un vero e proprio museo del Burlesque. Nei primi anni Ottanta comprò un ranch in California per costruirvi una scuola per formare giovani artisti, un bed and breakfast e un edificio per il museo. Avrebbe ospitato anche le ex-artiste di Burlesque (il Jennie Lee’s Exotico World), ma alla fine degli anni Ottanta, cominciò ad avere seri problemi di salute. Nel 1987 fu sottoposta a una parziale mastectomia. Per lei che aveva fatto dei seni parte del suo successo non fu facile sopportarlo, ma riuscì a trovare la forza e l’ottimismo per reagire, mantenendo sempre il sorriso, che era ciò che la caratterizzava anche nelle situazioni più difficili, e che la rese un punto di riferimento nel mondo del Burlesque. Morì nel 1990 senza riuscire a portare a termine il suo progetto di recupero del Burlesque e vedere realizzato il Jennie Lee’s Exotic World che aveva sognato. Fu 181


l’amica Dixie Evans ad aprire al pubblico il ranch/museo, a cui diede il nome di: Exotic World Home of the Movers & Shaker’s Burlesque Museum and Striptease Hall of Fame, poi chiamato Exotic World Museum (a Vancouver): un vero e proprio tempio dove poter assaporare l’atmosfera, comprendere il senso del Burlesque d’inizio secolo e ripercorrerne la storia, che raccoglie abiti e accessori originali delle sue più note attrici, come guanti, scarpe, pasties, tanga, gioielli e oggetti scena, oltre a immagini, fotografie e locandine degli spettacoli. Per pubblicizzare il museo e dare nuova vita al Burlesque, Dixie Evans organizzò nel 1991 il concorso Miss Exotic World, che ogni anno incorona una reginetta e che premia la migliore performer di Burlesque dell’anno. L’apertura del museo contribuì a dare l’input alla rinascita del Burlesque in America con il nome di New Burlesque, diffusosi poi in Europa e in Australia. Molte delle stelle del Burlesque brillano ancora - prima chiamate stars, oggi legenda, perché raffigurano un periodo storico di cui conservano memoria e di cui sono testimoni viventi. Tra queste spicca Dixie Evans (1926), arrivata al Burlesque senza saper né ballare, né cantare; ma per la sua impressionante somiglianza con Marylin Monroe sia nel modo di muoversi, sia nel modo di occupare la scena. Soprannominata dal suo impresario “la Marylin Monroe del Burlesque”, sfruttò questa somiglianza imitando la diva fino a quando essa morì nel 1962. Una delle sue esibizioni più famose era con una specie di manichino che riproduceva le fisionomie del marito Joe DiMaggio. Oggi Dixie Evans ha più di ottant’anni ed è attiva come lo era nel suo periodo d’oro, mantiene inoltre vivo il Burlesque e sostiene le nuove leve. Negli anni Sessanta arrivarono i nightclub e le go-go dancers, famose per i loro go-go boots: stivali alti e neri. Ballerine ingaggiate dai proprietari del locale per ballare sui tavoli, diventarono per i clienti la nuova attrazione. Il termine gogo deriva dall’espressione francese à gogo - in abbondanza, a grandi quantità. Nel 1964 Carol Doda (1937) ballò per la prima volta a seno nudo, divenendo la regina del topless e inaugurando 182


la stagione delle go-go dancers in topless. Mostrava inoltre il primo seno rifatto della storia, essendo stata la prima a farvi iniettare del silicone per aumentare il volume di dieci centimetri, soprannominato: “Doda’s twin 44s” (le gemelle taglia 44 di Doda), facendo notizia a livello internazionale. Così si sdoganò una volta per tutte il nudo e s’inaugurò l’era della chirurgia estetica. Ciò accadeva in un momento storico di cambiamenti sociali che favorivano la liberazione sessuale sia nei costumi sia nelle forme d’espressione. Ai nightclub, dove ormai gli striptease integrali erano all’ordine del giorno, seguì l’arrivo della lap-dance: danza intorno al palo che partì da San Francisco e si divulgò a livello mondiale. Dagli anni Novanta in poi il Burlesque recuperò il suo status di forma artistica onorevole, dotata di senso dell’umorismo e ironia soprattutto in un momento storico di ripresa degli spettacoli dal vivo. Dalla metà degli anni Cinquanta in poi, infatti, la televisione aveva cambiato le abitudini delle persone, invogliandole a rimanere a casa piuttosto che uscire, abitudine questa ritenuta tra le cause della fine del Burlesque negli anni Sessanta, riportando una nuova voglia di socializzare nei locali, nei bar, nelle discoteche e la necessità di produrre esibizioni live come concerti e rappresentazioni di vario tipo, favorendo così la rinascita del genere Burlesque come forma di spettacolo. Il New Burlesque riprende dal Burlesque soprattutto le scenografie e le coreografie di base, aggiungendo elementi di contemporaneità. Se gli anni Novanta posero il seme per la divulgazione del New Burlesque negli Stati Uniti, soprattutto come fenomeno underground e sperimentale, gli anni Duemila ne segnarono la vera e propria affermazione, giungendo a livello mondiale, influenzando il suo carattere e favorendo contaminazioni culturali di ogni tipo. Un esempio è l’incontro con il samba, che ha dato vita al gruppo delle Hot Pink Feathers, una realtà che si contraddistingue per la contemporanea esuberanza di Rio e l’atmosfera del cabaret che mette nei suoi show; è stata l’affermata ballerina e coreografa Kelly Garton (Kellita) a fondarlo nel 2000 e a crearne gli spettacoli basati 183


sull’entusiasmo tipico del carnevale brasiliano, mescolato ai balli latini e alle stravaganze del Burlesque, in particolare nella sincronizzazione del movimento del samba con il bump’n’grind. Il Giappone, non rimane immune da questa ondata di revival del Burlesque, tanto da avere un gruppo d’alto livello come le Murasaki Babydoll, nate a Tokyo e vincitrici del premio Best Troupe al Miss Exotic World (2006) - la prima compagnia orientale a mischiare boa, corsetti e occhi a mandorla. Sull’onda del successo americano, il New Burlesque è arrivato in Europa, dando vita nel 2007 in Inghilterra all’International London Burlesque Festival - manifestazione che ha visto la partecipazione delle artiste più affermate, organizzata e prodotta da Chaz Royal: pioniere di questo genere e oggi tra i più importanti organizzatori di eventi mondiali legati al Burlesque. III.4.1. Costumi-accessori e Coreografie-scenografie I costumi indossati dalle Burlesque-girls sono legati al tipo di scena rappresentato e a seconda dal personaggio che la performer decide di interpretare. Possono quindi variare di genere, colore e taglio, dall’abito da sera con paillettes alla tunica orientale. Non c’è quindi un costume-tipo, ma si evidenziano alcuni indumenti che si ritrovano in quasi tutte le esibizioni. Il corsetto, il reggiseno decorato, lo stringi-vita e il tanga sono il capo base che ogni artista generalmente indossa sotto il vero costume di scena. Mentre l’accessorio fondamentale che caratterizza uno show di Burlesque, rendendolo altro rispetto ai classici striptease, è la famosa coppia di pasties (copri capezzoli o puntini): due cerchi di stoffa che si applicano sui capezzoli con del mastice cosmetico (paste) o del biadesivo, e che portano con sé il fascino dell’accessorio retrò, perché erano l’elemento che caratterizzava gli show di Burlesque della golden age. I pasties completano il costume al quale sono abbinati e ne esistono di differenti tipi: stelline di strass, puntini di piume, smile, ecc. Altro accessorio tipico è il 184


merkin: parrucca pubica ricoperta di gioielli, strass o piume. Poi, ancora, culottes mini, calze, reggicalze, cappelli, guanti da sera lunghi fino oltre il gomito, di seta, raso, con piume sul bordo, chiamati anche opera gloves. Le piume di struzzo sono importanti protagoniste di questo show; accompagnano le artiste nei lunghi boa, nei ventagli e sui cappelli. L’importanza della piuma è data dalla sua capacità di conferire all’artista un atteggiamento regale, perché aiuta a tenere la testa alta, accentuando il controllo della postura e dei movimenti. Infine, a completamento dell’opera costumistica ci sono tacchi altissimi, calze a rete, fiocchi e paillettes, oltre al trucco e al parrucco rigorosamente anni Venti, con i capelli raccolti a disegnare onde mentre il viso è bianco pallido, le sopracciglia sono ben evidenziate, le ciglia moltiplicate, a tratti eccessive (perché posticce); l’eyeliner sottolinea gli occhi e le labbra di color rosso intenso, come anche lo smalto delle unghie. Anche qui non ci sono regole, infatti molte artiste si esibiscono in stile punk. La cosa importante è che l’intero costume esalti le forme di ogni performer e sia cucito addosso al suo fisico e alla sua personalità. I modelli scenografici della prima metà del Novecento, ormai divenuti storici, sono: la “fan dance”, danza con i ventagli detta anche ostrich fan, perché dà l’idea di formare un’ostrica. È una messa in scena sensuale e armoniosa in grado d’incantare lo spettatore, oggi come ieri, per la spettacolarità e l’eleganza dell’esibizione; la “bubble dance” - oltre al classico numero in cui l’artista gioca con la palla, ci sono nuove forme, l’artista-performer Julie Atlas Muz (Detroit, 1973) per esempio, ne propone una innovativa e del tutto unica, dove è lei stessa a entrare nella palla. Una versione della bubble dance è il “balloon striptease” - dove l’artista ricopre il proprio corpo con diverse decine di palloncini, facendoli esplodere una alla volta, restando progressivamente sempre più nuda. Le coreografie, spesso sono contraddistinte dai seguenti movimenti, caratteristici dello stile Burlesque: il bump’n’grind - rotazione dei fianchi; 185


lo shinny - movimento delle spalle che vanno avanti e indietro, spesso anche dell’anca, che arriva a far muovere tutto il corpo; il tassels-twirling - movimento dei seni che fa roteare le nappine che sono applicate sui pasties. Negli show, la seduzione si basa sugli occhi e quindi sulla mente, mai sul corpo. E’ per questo che il Burlesque non ha un modello fisico di riferimento, anzi, nel suo ambito, bellezza e fascino non risiedono nelle forme canonicamente giuste: ogni artista ha le sue, purché sia in grado di dargli un’anima e una capacità espressiva. Il Burlesque è un atteggiamento dell’anima. La performer più conosciuta in Italia è Eve LaPlume, che scopre il Burlesque nel 2005: raffinata e retrò, con una pelle di porcellana e un sorriso gentile, porta in scena un Burlesque fatto di fine seduzione, ironico e sensuale, con elementi scenici di forte impatto, supportata da splendidi costumi di ispirazione vintage che lei stessa si cuce. III.4.2. Dita Von Teese (1972) Il nome di Dita Von Teese negli ultimi anni è diventato sinonimo di Burlesque, riproponendo questo genere nella sua versione quasi originale, ossia costruendo i suoi spettacoli sulle musiche classiche del Burlesque e scegliendo costumi tipici degli anni Venti, Trenta e Quaranta. E’ stata capace di ricreare un immaginario retrò di cui è diventata fashion icon per il suo stile vintage e sofisticato, grazie a una comunicazione strategica costruita e seguita passo passo, che ha avuto l’obiettivo di rendere la sua immagine immediatamente identificabile con il mondo del burlesque old style. Tutti questi elementi hanno fatto sì che il suo personaggio divenisse il massimo rappresentante del genere. Dita Von Teese (Heather Renèè Sweet) nasce nel Michigan nel 1972, studia danza classica e si appassiona subito ai musical, alle immagini pin-up e alla lingerie in stile vintage. In particolare ama i corsetti che strizzano la vita, le calze in seta e i pizzi. Intorno agli Novanta, all’età di diciannove anni, 186


inizia a fare striptease nei locali, indossando lingerie in stile vintage per distinguersi dalle altre che si presentavano già nude. Bionda naturale, punta su un nero corvino, mantiene una pelle bianca e si crea uno stile e una mise totalmente retrò, truccandosi sempre con un rossetto rosso fuoco. Ha girato dei video fetish, alcuni bondage e un film erotico (Pin Ups, di Andrew Blake, Production Company, USA, 1999). Il vero trampolino di lancio è per lei «Playboy», che la mette in copertina per il numero di Natale del 2002, rilanciando la sua immagine al mondo intero. Nel 2006 mette a punto i suoi spettacoli che la vedono fare il bagno nel noto bicchiere di Martini, ballare con i ventagli di piume di struzzo o dondolare sul cavallino della giostra; numeri questi che diventano dei propri eventi esclusivi di livello internazionale. Si esibisce all’Amfar Cinema Against Aids Gala a Cannes nel 2007, dove porta in scena il celebre numero “Lipteese” presentandosi a cavallo di un enorme rossetto. Sfila per Moschino, Jean Paul Gaultier e nel 2008 crea per Wonderbra una linea d’intimo ispirata a se stessa e agli anni Quaranta e Cinquanta. Nello stesso anno è testimonial per il liquore Cointreau, che le dedica il CointreauTeese: un cocktail personalizzato alla violetta, per il quale Dita Von Teese costruisce uno show che finisce col farci il bagno. E’ ospite nel 2010 al Festival di Sanremo. La sua popolarità è tale da affermarsi come la regina del Burlesque, fino a prendersi il merito di aver contribuito a riportare ai vertici quest’arte praticamente scomparsa. Tutto ciò dimostra come Dita Von Teese abbia costrutto la sua carriera in maniera autonoma e distaccata dal fenomeno New Burlesque, riuscendo comunque a crearsi un personaggio e una fortissima identità, arrivando a definire un vero e proprio stile: il classic burlesque, di cui Dita è diventata la rappresentante e il punto di riferimento per tutte coloro che si ispirano agli show di tipo retrò.

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III.5. Moda e New Burlesque Lo sviluppo del New Burlesque, da spettacolo di intrattenimento a vero e proprio fenomeno di costume, favorì l’influenza sulle altre arti. La moda, in particolare è stata tra gli ambienti che hanno tratto maggior ispirazione dalla sua ondata. Il rimando del New Burlesque al cabaret e agli anni Quaranta e Cinquanta ha fornito diversi elementi stilistici per la creazione delle collezioni degli ultimi anni di abbigliamento, accessori e lingerie. L’immagine della donna proposta è quella della diva retrò che indossa abitini che sottolineano la vita e le curve, camice in cotone da annodare sotto il seno, gonne a ruota, corsetteria pregiata, scarpe dai tacchi vertiginosi. Tra le linee d’abbigliamento più vintage, spicca reVamp Vintage36 - marchio americano che riproduce in maniera autentica gli abiti e gli accessori disegnati tra il 1910-1950. Produce inhouse a Los Angeles, secondo altissimi standard di qualità e in quantità limitata per permetterne la collezione agli appassionati del genere. La reVamp Vintage è nota soprattutto per le borse di lusso realizzate utilizzando materiali originali degli anni ’50 e ’60. Un esempio è il modello “62 Meteor”, ricavato con la pelle d’interni di macchine (Cadillac) e rifinito con i suoi stessi bulloni, dal design vintage a metà tra glamour e il kitsch di lusso. Mode Merr37, linea di abbigliamento indipendente - è per le ragazze New Burlesque di nuova generazione che amavano vestire con abiti in stile retrò senza tradire il loro animo punk. I modelli sono da vamp o bad girl e rispecchiano le contaminazioni tra retrò e sottoculture, affiancando maniche a palloncino a teschi e stampe. Per quanto riguarda le calzature non possono certo mancare scarpe altissime, con plateau o con la zeppa - simbolica in questo senso è Vivienne Westwood, che nel suo stile eccedente e fuori dalle righe, presenta l’esagerazione delle scarpe stesse, disegnandone un paio con plateau altissimo, impossibili da indossare. La sua moda d’altronde ha dei punti in comune 188


con il New Burlesque: ha realizzato collezioni caratterizzate da abiti stretti in vita, ma con scollature generose, occhialoni oversize e bustini stringati; è stata sempre al centro dei maggiori movimenti di costume degli ultimi trent’anni, reinterpretandoli con la sua arte in chiave anticonvenzionale. Christian Louboutin38 è lo shoes-designer francese preferito dalle dive, in particolare di Dita Von Teese, per cui disegna e personalizza scarpe per ogni spettacolo, come la décolleté in pelle lucida nera o rossa. Sono scarpe penetrate della stessa cultura glamour e fashion dei nightclub di cui lo stilista è grande appassionato. Agent Provocateur39 - altra griffe di lingerie molto amata dalle star, marchio di intimo sensuale, ha trovato ispirazione per le sue ultime collezioni proprio dal New Burlesque. Le caratterizzano: corsetti rosso fuoco, completini intimi in nero e rosso, giarrettiere e calze a rete, ironicamente intitolate “Kabaret”, “Illusion” e “Diva”. La linea di lingerie più vicina alla cultura New Burlesque è quella di Ann Summers40 - nota catena inglese di negozi di biancheria e sexy shop per sole donne, dove è possibile trovare bustini, puntini e reggicalze che trasformano una camera da letto in un palco di cabaret. Per completare lo stile retrò, sono necessarie pettinature con frange e boccoli o mini-cappellini in piume; infine, per il make-up la moda impone guance di porcellana e un rossetto rosso fuoco.

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Note 1

Ivi: p. 48.

Alaïa Azzedine (Tunisi, 1935). Stilista francese di origine tunisina. Alaïa, approdato a Parigi nel 1957 come apprendista scultore dall’Ecole des Beaux Arts di Tunisi, sua città natale, è diventato negli anni ’80 un grande della moda, con un segno inconfondibile, pur restando un infaticabile artigiano. Dalla passione per la scultura, gli deriva il senso tridimensionale dell’abito, che tanto spesso esalta la schiena e il fondoschiena (sono il centro della seduzione femminile, ama dire). Il lavoro quotidiano di taglio e cucito, le lunghe sedute di prova con le prime esigentissime clienti, lo introducono alla perfezione e alla sicurezza del mestiere. Nel 1965 apre il suo primo atelier. Nel corso degli anni si avvicina e conquista una clientela giovane e all’avanguardia con gli abiti fascianti di maglia nera, le giacche modellate dalle cerniere lampo, le cinture e i guanti in cuoio borchiato o traforato. Nel 1980 presenta la sua prima collezione. Nel 1984 fu nominato Miglior stilista dell’anno e Miglior collezione dell’anno, durante la cerimonia di premiazione degli Oscar della Moda (indetta dal ministero francese della cultura nel 1984). Dal 1993 (in seguito alla morte della sorella), ha rinunciato alle sfilate e alla presentazione delle collezioni secondo il calendario della Chambre Syndicale che detta legge a Parigi. Nel 2000 firma un contratto di partnership con il Gruppo Prada, lo stesso anno in cui il Guggenheim di New York gli dedica una mostra monografica, e nel 2002 ritorna sulle passerelle dell’Alta moda francese. L’aver lavorato con Prada ha determinato un effetto rigenerativo per lo stilista che, nel Luglio del 2007 riacquista la propria maison e il proprio marchio, anche se le divisioni Calzature ed Accessori continuano ad essere prodotti dal gruppo. Vergani 2010, p. 22. 2

Montana Claude (Parigi, 1949). Stilista francese. Uno dei creatori che, sia nella sua fase più aggressiva, sia nei successivi sviluppi di sofisticata, scultorea semplicità strutturale, meglio ha caratterizzato in Francia il prêt-à-porter degli anni ’70 e diffuso la sua influenza nel mondo. Le sue composite origini si riflettono in una visione della silhouette femminile di grande energia, affidata via via al trascolorare dell’unica, prescelta tinta, il blu di del pittore Yves Klein in abiti modulati come corazze senza peso, mantelli proiettati nello spazio in laminate sciarpe o in colli spiraleggianti. Ha vent’anni quando nel 1978 debutta sulla passerella; ma ha dietro di sé un apprendistato notevole e vario: illustratore di riviste moda a Parigi, assistente dello stilista Jean Voight, specializzato negli abiti in pelle. Proprio la pelle costituisce, nei primi anni ’70, la sua materia prediletta, morbida, spesso alleata alla maglia. Negli anni ’80, disegna una donna ieratica, vagamente spaziale, spallata ma esile, il corpo stilizzato, geometriche e aeree le acconciature, e la presenta in sfilate teatrali, luci illusionistiche, paesaggi e gesti dosatissimi, e, riceve per la collezione primavera-estate 1986 l’Oscar della moda. Dall’inverno ’90 al ’92, è responsabile dell’Alta moda nella rinnovata Maison Lanvin e ben due 3

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collezioni consecutive meritano il Dé d’Or. Nel 2002, Sthépane Parmentier è il nuovo direttore creativo. Oggi lo stilista è d’ispirazione per grandi e diversi designer, tra i quali Alexander McQueen, che ha citato Claude Montana in molte delle sue collezioni. Ibidem, p. 823-24. Versace Gianni (1946-1997). L’avventura del giovane calabrese, poco incline agli studi e diventato braccio destro della madre nella sua sartoria e nel negozio d’abbigliamento, comincia il 5 Febbraio 1972 con un viaggio a Milano, disegna una collezione per la Florentine Flowers, e ha subito successo. Nel 1973 collabora con Callaghan, Genny e Alma. La prima collezione firmata dello stilista va in passerella nel palazzo della Permanente di Milano nel Marzo del 1978. In venticinque anni di sviluppo, la griffe si trasforma fa azienda di famiglia in gruppo di successo nazionale. Nel 1979 inizia una fortunata collaborazione con il fotografo americano Richard Avedon, che lascia subito il segno sulle campagne pubblicitarie. In questo periodo Versace introduce quegli elementi metallici che diventeranno poi un classico della sua produzione. Si ricordano anche: la pelle trattata e colorata come tessuto presentata nell’Ottobre 1981; le sete stampate e coloratissime a motivi geometrici del 1989; e sono il cuoio e gli spilloni di metallo sui nudi vertiginosi dei primi anni ’90, che fanno gridare allo scandalo e a una moda bondage (sado-maso) la stampa americana. Il 6 Luglio 1989, nasce a Milano la linea Versus, dedicata ai giovani e alternativa la modo di vivere convenzionale, e nel 1991 Signature, una collezione di classici Versace. Il 15 Luglio 1997 Versace viene assassinato da uno squilibrato sugli scalini della propria abitazione a Miami Beach. L’assassino, un certo Andrew Cunanan , è un tossicodipendente, dedito alla prostituzione e presunto serial killer, sospettato di aver assassinato in precedenza altre persone, e per questo da tempo ricercato. Dopo una misteriosa fuga, si uccide prima di essere catturato dalla polizia statunitense. Nel 2009 è ufficializzato il passaggio della licenza di Versus da Ittierre al gruppo veneto Facchini, che prende in carico la produzione dell’abbigliamento e degli accessori della linea giovane della Maison. Ivi: p. 1219-22. 4

John Sutcliffe, uomo modesto e schivo, laureato alla Facoltà di Ingegneria Aeronautica di Chelsea (Londra), era il padre del feticismo britannico; Stilista e fotografo fetish famoso negli anni ’50, ’60 e ’70 come il designer di abiti per gli appassionati della pelle, gomma e PVC. Realizza principalmente: tute, cappe/mantelle e maschere antigas. Nel 1957, John Sutcliffe fonda l’azienda fetish Atomage (Londra), specializzata in abiti in pelle, gomma e PVC molto intriganti. Ha disegnato gli abiti per la serie televisiva The Avengers (19601969) e per i film di James Bond. Nel 1967, John Sutcliffe ha progettato un nuovo metodo per far aderire la gomma, creando un collante nuovo che, con l’aiuto di un ferro da stiro sigillava le cuciture. V. http://www.atomage.co.uk/ AtomageHistory.html. 5

Montgomery Ward, azienda al dettaglio (USA), fondata nel 1872 da Aaron Montgomery Ward (Chatham, New Jersey, 1843 - 1913), un americano 6

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d’affari noto per l’invenzione della vendita per corrispondenza. V. http:// www.wards.com/. 7

Steele 2005, p. 60.

Malcolm McLaren (Londra, 1943 - Bellinzona, Svizzera, 2010). Imprenditore, musicista, stilista, talent scout inglese. Ha dato voce e vestito il movimento punk negli anni ’70. Nel 1971 con la sua compagna, la stilista Vivienne Westwood, inaugurerà una boutique chiamata Let it Rock, a King’s Road, Londra. Ribattezzato in seguito: Too Fast to Live, Too Young to Die, Sex, Seditionaries, specializzato in vestiti di PVC, pelle, gomma e accessori feticisti e sadomaso. Espone il suo manifesto indossando gli abiti gommati in vendita nel suo negozio, Sex, per il film The Great Rock’ n ’Roll Swindle (1978). E’ lì, nel negozio di King’s Road, che McLaren conosce la band che lo avrebbe consacrato come icona del periodo: i Sex Pistols, erano loro clienti e dovettero il nome al negozio. Il negozio diventa uno dei fulcri della scena punk-rock, lì si ritrovano molti dei fondatori del movimento punk. Nel 1973, McLaren diventa manager dei Sex Pistols; il cui singolo God Save the Queen del 1977, nonostante il bando di radio e Tv, conquista i vertici delle classifiche proprio in contemporanea al Giubileo per il 25° anniversario dell’incoronazione della Regina Elisabetta. McLaren aveva organizzato un concerto mobile, la band si sarebbe dovuta esibire su una barca sul Tamigi e gli altri avrebbero suonato davanti al palazzo del Parlamento. Ma non fecero in tempo, l’imbarcazione fu bloccata dalla polizia e McLaren fu arrestato. Una pubblicità gratuita che giovò non poco al manager, uomo visionario ma anche dal grande intuito commerciale. Nel 1986, la vertenza legale tra i Sex Pistols e l’impresario si conclude dopo otto anni di polemiche, con la sconfitta di quest’ultimo. Le società , con cui lo scopritore della band aveva controllato le attività e i proventi del gruppo, passano sotto il controllo dei musicisti. Nel 1989 nelle discoteche di tutto il mondo impazza una nuova moda: il Vogue. Ed è proprio lui che, svestiti gli abiti punk, lancia Waltz darling - il singolo, il più commerciale che l’ex front-man dei Sex Pistols abbia mai composto, riprende un po’ il nuovo modo di vestire e di muoversi in pista. Si balla con movimenti lenti e calibrati che si fissano per qualche secondo in pose elegantissime, imitando le immagini da copertina delle riviste di moda («Vogue», in testa). Vergani 2010, p. 774. 8

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Steele 2005, p. 60-61.

Helmut Newton, pseudonimo di Helmut Neustädter (Berlino, 1920 Los Angeles, 2004). Fotografo tedesco che ha maggiormente segnato con il suo stile la fotografia di moda del nostro tempo. Dopo aver mosso i primi passi nello studio della fotografa di moda Else Simon, meglio nota come Yva (Berlino, 1900 - Majdanpek, Serbia, 1944 ), volta le spalle alla Germania diventata nazista, passando per Singapore, dove rimane un anno, emigra in Australia e nell’esercito di quel paese combatte durante il secondo conflitto mondiale alla fine del quale riprende a fotografare e pubblica da 10

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free-lance su Vogue Australia. Nel 1958 si trasferisce prima a Londra e poi a Parigi iniziando a collaborare con «Marie Claire», «Elle», ecc. Il suo stile inconfondibile e aggressivo, con forti richiami alla sensualità e alla sessualità, lo porta negli anni ’60 a collaborare per un verso con «Playboy» e per l’altro con «Stern» e «Life», mentre si fa più stabile il lavoro con le edizioni americana, italiana, inglese e francese di «Vogue». Autore di grande intensità, ha sempre imposto la propria visione con una determinazione autentica: quasi schivo negli atteggiamenti personali, diviene personaggio solo attraverso le sue immagini eseguite sempre con straordinaria perizia tecnica alternando un colore sempre molto preciso e quasi calligrafico a un bianconero di gran classe che risente spesso degli influssi culturali dell’espressionismo e dello stile caro agli ai fotoreporter d’assalto ai quali talvolta si rifà con dichiarate citazioni. Ha realizzato campagne per i marchi più noti di tutto il mondo, ogni volta portando non solo la visione di una donna decisa, autonoma, indipendente dall’uomo ma anche quel suo stile dichiaratamente voyeuristico, non privo di richiami eccentrici al feticismo, che viene apprezzato da molti e violentemente contrastato da altri che gli rinfacciano un troppo ostentato maschilismo. Le sue fotografie sono raccolte in numerosi libri ed esposte in mostre in tutto il mondo. Importante è la collaborazione con la moglie June, anch’essa fotografa e nota con lo pseudonimo di Alice Springs che, come noto, è una località australiana. Muore nel Gennaio 2004 in un incidente stradale a Hollywood quando la sua macchina si schianta contro un muro del famoso Chateau Marmont - l’hotel sul Sunset Boulevard che era stata per anni la sua residenza quando abitava nella California del Sud. Le sue spoglie sono state poste a Berlino nel cimitero ebraico di Friedenau. Oggi la Fondazione Helmut Newton, da lui stesso creata nel 2003, ha il compito di preservare e diffondere l’opera fotografica di Newton e di sua moglie. Vergani 2010, p. 863-64. Madame Kayne. The Corset in the Nineteenth and Eighteenth Centuries. Brighton: Greenfields, n.d. [ca. 1932]. 11

Sealwear (Dorset, Inghilterra), azienda fetish fondata nel 1959 da Mr. Richfield, specializzata in capi di gomma, principalmente in mantelle, impermeabili, abiti da infermiera, da cameriera, abiti in stile Vittoriano e biancheria intima con volant e fronzoli. V. http://www.sealwear-shop.com/. 12

I pervs generalmente non erano veri feticisti, nonostante indossavano materiali fetish, come la gomma e adottavano capi come corsetti e scarpe bizzarre. Al movimento appartenevano un contingente di musicisti pop, stilisti alternativi, come Pam Hogg (stilista inglese, grande nome dell’alternatività post-punk internazionale) e Krystina Kitsis (Londra - fashion designer di abiti in latex e PVC e fondatrice di Ectomorph) e club kids di tendenza. Steele 2005, p. 84. 13

Axfords Corsets (Brighton, Inghilterra, 1880), il cui proprietario è Michael Hammond, è un azienda a conduzione familiare specializzata nella vendita sia al dettaglio che all’ingrosso di corsetti che mescolano le raffinate tradizioni 14

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vittoriane con la tecnologia moderna. I corsetti vengono realizzati dall’inizio alla fine da corsettieri altamente qualificati. V. http://www.axfords.com/. Ectomorph (Londra, 1985), casa di moda, fondata dalla designer Krystina Kitsis, laureata presso la Royal College of Art di Londra, specializzata in abiti in lattice per uomini e donne e in accessori come: guanti, calze, maschere e biancheria intima. V. http://www.ectomorph.com/. 15

Karl Lagerfeld (Amburgo, 1938). Stilista tedesco, soprannominato Kaister, imperatore della moda, per le sue origini: una famiglia di ricchi industriali d’Amburgo. Il gusto innato per il futile e l’effimero e la sua perizia nel disegno lo predestinano alla moda. Nel 1958 si trasferisce alla Maison Patou per completare la sua esperienza nel campo dell’Alta moda. Nel 1965, la prima grande svolta della sua carriera: l’incontro e l’inizio della collaborazione con le sorelle Fendi, un sodalizio che dura tuttora e che nel 1985 è stato celebrato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma con la mostra Un percorso di lavoro Fendi - Karl Lagerfeld. Per la maison romana, lo stilista disegna collezioni di pelliccia rivoluzionarie che trasformano uno status symbol borghese in un modo di vestirsi all’avanguardia dello stile. Nel 1977 nasce la prima linea di abbigliamento. Nel 1983, Chanel lo nomina direttore artistico della maison, incaricandolo di disegnare le collezioni di Alta moda, prêt-à-porter e accessori. Riesce ad interpretare lo spirito di Mademoiselle Coco rinnovandolo con la sua personale ispirazione, pur mantenendo lo stile inconfondibile del marchio. Karl Lagerfeld è anche costumista-scenografo e originale illustratore per accompagnare le cartelle stampa delle collezioni, per tenere un diario, per gli appunti di lavoro. Oltre ad essere direttore creativo della maison Chanel, è anche un fotografo di fama internazionale; tra le sue celebri raccolte/pubblicazioni Visionaire23. L’impero dei nuovi vestiti, una serie di foto di nudi di modelle del Sud Africa. L’ultimo progetto del designer risale al 2006, quando decide di creare una propria linea K Karl Lagerfeld per uomo e donna. Una linea dedicata al casual, composta da jeans e magliette attillate, minimal-chic, come solo Karl Lagerfeld sa fare. Vergani 2010, p. 656-58. 16

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Steele 2005, p. 129.

Issey Miyake (Hiroshima, 1938). Stilista giapponese. Creatore di rara fedeltà alla purezza della propria visione di incontro delle suggestioni d’Oriente con l’audacia e la ricerca d’Occidente. A partire dalla sua prima sfilata parigina del 1973, l’ascetismo delle forme di una lineare geometria si sviluppa in ieratiche metamorfosi, complici lo stratificarsi del tessuto e il divenire della sua scioltezza in non immobili drappeggi, ora con esiti di antiche vesti nipponiche, ora da avveniristiche corazze di estrema delicatezza. Laureatosi nel 1964 alla Tama Art University a Tokyo, Issey Miyake l’anno dopo è a Parigi e lavora anche a New York. L’attenzione al tessuto, spesso prodotto in esclusiva per le collezioni, alla sua grana e al colore spento, in indefinibili varianti del bianco, grigio e delle tinte decise ma di tono cupo, 18

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rende uniche, sempre peculiari eppure sempre sensibili al volgere del gusto in un solco costante, le sue creazioni e insostituibile la sua presenza nel prêtà-porter mondiale, ormai quasi trentennale. Miyake, di anno in anno, diventa il maestro, il guru della più fluida modernità. Nella collezione PrimaveraEstate 2000, battezzata A-Poc - a Piece of Clothes, uno stesso pezzo di stoffa diventava gonna lunga o corta, T-shirt, bikini, calze, guanti. Vergani 2010, p. 801-02. Hussein Chalayan (Nicosia, 1970). Fashion designer. Nel 1993 si diploma al Central Saint Martin’s College or Art ad Design di Londra, e la sua collezione viene comperata in blocco ed esposta nelle vetrine di Browns. Introverso e cerebrale, disegna abiti sperimentali, usando anche il plexiglass, al confine con l’arte. Nel 1999 ha vinto il titolo Designer of the Year al British Fashion Awards. Nel Febbraio del 2000, Chalayan ha inventato e realizzato, insieme ai grafici Rebecca Brown e Mike Heart, un vestito che, come dice il nome: Armail, sta in una normale busta e può essere spedito come una lettera; prodotto in soli duecento esemplari, è in tyvek - materiale che unisce le caratteristiche della carta e quelle del tessuto. All’inizio del 2008 ha disegnato una serie di abiti con LED laser in collaborazione con la Swarovski ed esposti a Tokyo; nel contempo è diventato direttore creativo della linea sportswear di Puma e il suo arrivo ha contribuito significativamente ad aumentare l’indice di gradimento del marchio. Ibidem, p. 242-43. 19

Sack Fifth Avenue, è una catena di grandi magazzini statunitensi di proprietà e gestione della Saks Fifth Avenue Enterprises (SFAE), una sussidiaria della Saks Incorporated. Saks Fifth Avenue è il successore di un business fondato da Andrew Saks nel 1867 e incorporato a New York nel 1902 con il nome di Saks & Company. Il fondatore morì nel 1912 e nel 1923 la Saks & Co. si fuse con la Gimbel Brothers Inc., operando come una sussidiaria autonoma. Il 15 Settembre 1924, Horace Saks e Bernard Gimbel aprirono il primo Saks Fifth Avenue a New York. Il primo negozio distaccato fu aperto a Palm Beach, in Florida, nel 1926. Ma il primo vero grande magazzino fuori sede fu aperto a Chicago nel 1929, seguito da un altro negozio a Miami Beach. Altri grandi magazzini furono aperti nel 1940 a Detroit e nel 1949 a Pittsburgh (Pennsylvania). Il negozio di San Francisco aprì nel 1952. Altre espansioni condussero ad aprire negozi nel Texas e perfino in Arabia Saudita, rendendo così Sack Fifth Avenue una compagnia internazionale. Nel novembre 2007, Sack ha aperto un negozio anche a Città del Messico. Nel 1998 la società è stata comprata da Proffitt’s, Inc., che ha cambiato il proprio nome in Saks Incorporated. Oggi, Saks Fifth Avenue rimane uno dei più importanti rivenditori mondiali specializzati, celebre soprattutto per le sue collezioni di stilisti americani ed internazionali e per il suo vasto assortimento di borse, scarpe, gioielli, cosmetici e articoli da regalo. Attualmente, Saks Fifth Avenue ha 46 negozi in 23 stati. V. http://www.saksfifthavenue.com/. 20

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Steele 2005, p. 129.

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Vergani 2010, p. 1248.

John Fairchild, editore del quotidiano di moda «Women’s Wear Daily» (1910). Ibidem. 23

Victoria and Albert Museum (Londra). Voluto dalla regina Vittoria come espressione del gusto e delle tendenze sotto il suo regno, questo museo, inaugurato nel 1840 con il preciso intento di raccogliere un patrimonio di tessuti pregiati e di studiare nuovi materiali per l’alta sartoria, nel tempo si è maggiormente orientato alla moda e oggi raggruppa le collezioni più importanti del mondo (ottantamila reperti) per guanto riguarda stoffe, abiti e costumi. Dal 1971, sceglie di focalizzare la sua attenzione sui creatori del ‘900. Tre le sale più visitate, quella allestita da Cecil Beaton per la mostra permanete dal titolo ‘400 Years of Fashion. Nel tempo il museo ha allargato i propri interessi ad altri settori dell’arte e dell’artigianato. Ivi: p. 1226. 24

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Ivi: p. 839.

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Ivi.

Clarins, azienda francese di cosmetici fondata nel 1954 da Jacques Courtin. E’ leader in Europa. Nel 1972 si espande nel mercato internazionale aprendo filiali in USA e Giappone. Opera in 110 paesi, attraverso quasi tredicimila punti di vendita. Nel 1990 lancia la linea di profumi di Mugler. Dal 1995 produce anche i profumi di Azzaro e di Montana. Ha proposto una linea ecologica di maquillage per difendere la pelle dall’inquinamento atmosferico. Vergani 2010, p. 263. 27

Ali Mahdavi (1974). Fotografo iraniano. Si trasferisce a Parigi dove frequenta l’Ecole National Supérieure des Beaux Arts. Entra nel mondo della moda portando uno stile molto personale, che, nel 1996, gli permette di vincere il premio Polaroid riservato ai giovani autori creativi. Ibidem, p. 730. 28

Undercover News, in Carlson Wade, Panty Raid and Other Stories of Transvestism and Female Impersonation, New York: Selbee, 1963. 29

Richard Martin (1967-1999). Studioso statunitense di storia della moda. E’ il responsabile del Costume Institute del Metropolitan Museum di New York. Ha insegnato Storia dell’Arte al Fashion Institute of Technology; è docente d’Arte e di Archeologia alla Columbia University e alla New York University. Nel 1997, ha curato The Saint James Fashion Encyclopedia: a survey of style from 1945 to the present - una rassegna sul meglio della creatività della moda dal dopoguerra ad oggi. Ha scritto un’infinità di saggi sui grandi designer. E’ stato premiato dal Council of Fashion Designers of America nel 1996 per avere promosso la moda come arte e cultura. Vergani 2010, p 753. 30

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Calvin Klein (New York, 1942). Stilista statunitense. Fonda, con Barry

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Schwartz, suo compagno di scuola, l’omonima casa di prêt-à-porter nel 1968. Frequenta la prestigiosa New York’s Fashion Institute of Technology. Dopo cinque anni di gavetta in varie aziende tessili e ditte di moda pronta, si mette in proprio, specializzandosi per alcuni anni nel progettare completi e soprabiti di taglio nitido. La sua immagine personale è un punto di forza del successo insieme al talento e alla sapienza pubblicitaria, da sempre a forte sapore erotico, come la campagna per i famosi jeans K. per cui sceglie una giovanissima Brooke Shields, quando, dopo il 1971, introduce nelle proprie collezioni capi sportswear e coordinati pratici ma dal perfetto taglio sartoriale. Lo stile è sempre semplicissimo; la tinta è in sfumature nei capi sovrapposti. I suoi vestiti puntano alla praticità: niente fronzoli, scintille, ma un’eleganza da secondo sguardo. Una nuova linea d’abbigliamento “Ck” e una linea di biancheria “Calvin Klein Underwear”, diffondono la sua fama con ampio giro d’affari, sostenuto dalle campagne pubblicitarie costruite sulle conturbanti foto di Bruce Weber. Nei primi anni ’90, per lanciare la nuova linea di abbigliamento intimo maschile fu scelto Mark Wahlberg che, sotto il nome di Marky Mark, vide decollare la propria carriera di cantante. Il particolare tipo di boxer indossati da Mark Wahlberg fu associato in maniera indelebile al marchio Ck, al punto di essere spesso chiamati calvins. Ha grande importanza l’incontro con Kelly Rector (dipendente della Calvin Klein Inc.), che diventerà sua moglie, collaborando alla resa più sofisticata, femminile del secondo periodo creativo dello stilista, alla fine degli anni ’70: non solo per una più nutrita presenza di abiti da sera, ma per una maggiore grazia anche nei modelli da giorno. Calvin Klein deve il persistente consenso di chi sceglie i suoi abiti alla particolare ricerca di modelli, privi di complicati ornamenti e accessori, suscettibili, quindi, di essere avviati a una produzione di massa e tagliati in modo da concedere la più ampia vestibilità. Lo deve anche a quel sapore di moda che ha reso inimitabili persino capì di vestiario rimasti a lungo al di qua dello stilista, come i jeans. E’ stato il primo creatore a vedersi assegnare, nello stesso anno, il premio del Council of Fashion Designers of America (1993) per la collezione Uomo e per quella Donna. Nel 2003, lo stilista ammette pubblicamente il proprio abuso di sostanza stupefacenti e alcool e dichiara di volersi sottoporre a una cura disintossicante. Già nel 1988 il designer era stato ricoverato per problemi di droga. Ibidem, p. 639-40. Bruce Weber (Greensburg, Pennsylvania, 1946), fotografo americano. A lui si deve la nuova immagine della bellezza nella fotografia di moda. Negli anni ’50 studia a New York, incontra la fotografa Diane Arbus, che lascerà a lungo una forte impronta sulla sua sensibilità artistica. Inizia la carriera negli anni ’70: la prima mostra personale risale al 1974 alla Galleria Staley - Wise di New York. Bruce Weber presenta una raccolta di scatti che avevano come tema i body builders, dimostrando di avere un occhio all’avanguardia nei confronti delle tendenze estetiche maschili. I fisici di uomini e ragazzi ritratti in palestra, con i muscoli modellati e la pelle lucida, sarebbero diventati all’ordine del giorno soltanto un decennio più tardi. Il primo reportage di moda gli viene commissionato da Vogue USA nel 1980. I vestiti assumono nelle sue immagini il ruolo di enfatizzatori del corpo e dei visi. Le espressioni 32

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e i movimenti prendono vita davanti al suo obiettivo e gli abiti diventano parte integrante di un sentimento cinematografico trasposto su carta. Weber eccelle nel ritratto e nella rappresentazione della bellezza maschile, che immortala nel corso degli anni definendo una scala evolutiva dell’estetica dell’uomo. Nel 1983, fotografa circa duecentocinquanta atleti che partecipano alle Olimpiadi dell’anno dopo. Collabora con le più importanti riviste d’immagine del mondo, da «Vogue America» a «Vanity Fair». Ivi: p. 1245. Marky Mark, pseudonimo di Mark Wahlberg, (Dorchester, Massachusetts, 1971). Attore, produttore televisivo, rapper statunitense ed ex-modello. Cresciuto in una famiglia povera, ultimo di nove figli, Mark Wahlberg entra in breve tempo nel giro della microcriminalità e dello spaccio di stupefacenti, che lo porta addirittura a finire in carcere a soli sedici anni. A riscattarlo da un probabile futuro alla deriva giunge però l’ambiente della musica rap, che ha rappresentato per molti giovani americani come lui, cresciuti in condizioni d’emarginazione, un’occasione di riscatto e di fuga da un’opprimente realtà. L’opportunità arriva grazie al fratello Donnie, che fa parte del celebre gruppo pop dei New Kids on the Block (1984). Ottiene un contratto discografico e assume lo pseudonimo Marky Mark, assieme ad un deejay forma il gruppo: Marky Mark & the Funky Bunch che riscuote un inaspettato successo nel 1991 con il brano Good Vibrations, il quale diviene addirittura “Disco di Platino”. Si tratta però di un fenomeno passeggero, ma prima che la band finisca nell’oblio dopo il flop dell’album successivo, Mark Wahlberg riesce a farsi notare per il suo fisico scolpito, che gli frutterà un contratto con il celebre marchio Calvin Klein per apparire in una campagna pubblicitaria di una linea di biancheria intima insieme alla top model Kate Moss. Il palestrato Wahlberg appare così rapidamente sulle pagine delle principali riviste patinate, pronto a sfruttare la notorietà acquisita per entrare a Hollywood dalla porta principale. Dopo l’esordio al cinema con un ruolo minore nella commedia militaresca Mezzo professore tra i Marines (di Penny Marshall, USA, 1994), Mark Wahlberg ha il modo di dimostrare il suo talento in una parte che gli è congeniale, in Ritorno dal Nulla (di Scott Kalvert, USA, 1995), infatti, insieme al protagonista Leonardo Di Caprio, recita la parte di un giovane di periferia che finirà stritolato dall’abbraccio mortale della droga. Una svolta importante arriva grazie alla partecipazione nel pluripremiato film del maestro Martin Scorsese, The Departed - Il bene e il male (USA, 2006), dove Mark Wahlberg si fa notare per la parte di un odioso sergente, ottenendo persino la candidatura sia al Golden Globe che all’Oscar come attore non protagonista. Nel 2007, è protagonista del film Shooter (di Antoine Fuqua, USA), in cui interpreta un ex-tiratore scelto del corpo dei Marines, che deve proteggere il Presidente degli Stati Uniti. Nella classifica (fatta da MTV nel 2009) delle cinquanta persone più sexy degli anni ’90, si è classificato addirittura al primo posto. Ivi: p. 1241. 33

Steven Meisel (New York, 1954). Fotografo statunitense. Dopo aver studiato all’Art and Design Institute di New York, a diciassette anni comincia una lunga collaborazione come illustratore con il quotidiano di moda 34

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americano «Woman’s Wear Daily», per poi passare alla fotografia. Interpreta la moda attraverso immagini estreme e d’avanguardia. Alle sue modelle spesso fa assumere atteggiamenti aggressivi. Ha ottenuto fama e successo per i suoi servizi fotografici e copertine per: «Vogue USA», «Vogue Italia» e l’«Uomo Vogue» e per aver inoltre fotografato Madonna nel 1992 nel libro Sex (le foto raffigurano la cantante affiancata da alcune star del calibro di Isabella Rossellini, Naomi Campbell, Joey Stefano, Udo Kier e Vanilla Ice). Il successo di Steven Meisel è in parte dovuto all’apprezzamento per il suo stile fotografico da parte di due regine del fashion-system: le direttrici di «Vogue Italia» e «Vogue USA», rispettivamente, Franca Sozzani e Anna Wintour. Per «Vogue Italia» è stato l’unico fotografo per la copertina durante gli ultimi quindici anni. Ha curato campagne pubblicitarie per Gianni Versace, Valentino, Dolce & Gabbana, Calvin Klein (per il quale ha creato dei servizi fotografici molto controversi), Prada, Lanvin, Anna Sui. Ivi: p. 776. Atsuko Kudo, designer giapponese, vive e lavora a Londra, con una sola ed unica passione, quella del latex (questo materiale è una sorta di gomma naturale che si ottiene dalla linfa lattea dell’albero della gomma, Hevea Brasiliens - una pianta tropicale del genere delle Euphorbiaceae. Quest’albero viene coltivato in America Centrale e Meridionale, in Africa e nel Sud dell’Asia). I modelli di Atsuko Kudo sono super cool, una sorta di latex-wear sofisticato che rimane molto aderente al corpo, non solo vestiti ma anche biancheria intima molto sexy. Questo stile fetish e chic, è molto desiderato e ricercato nel mondo delle celebrità come: Jennifer Lopez, Lady Gaga, Kate Moss, Beyoncé. V. http:// www.atsukokudo.com/. 35

ReVamp Vintage (Los Angeles), marchio americano creato nel 1998 da Annamarie von Firley e Autumn Carey Adamme, specializzato nella riproduzione autentica di abiti e accessori d’epoca per uomini e donne, basandosi principalmente sulla moda disegnata tra il 1910-1950, offrendo l’eleganza e la bellezza delle epoche passate mescolate in un contesto contemporaneo. Annamarie von Firley, fashion designer con la passione per gli abiti vintage, che ama anche soprattutto indossare, ha collezionato: cataloghi, filmati, libri di testo, musica e arte datati 1890-1950. V. http://www. revampvintage.com/. 36

Mode Merr, (Rochester, New Hampshire, USA) azienda di abbigliamento femminile indipendente specializzata in abiti e accessori in stile retrò, fondata dalla designer Angela Zampell che, con l’aiuto di un personale di talento garantisce la produzione e vendita di prodotti di alta qualità. Ciò che ha ispirato lo sviluppo della moda Mode Merr è l’amore e la passione della designer per le epoche passate e per gli abiti vintage principalmente anni ’50 e ’60. I modelli, sono da vamp o bad girl, caratterizzati da: gonne appena sotto il ginocchio, con spacco centrale posteriore, maniche a sbuffo, bolerini, cardigan, ecc., realizzati in cotone stretch, stampa leopardo/teschio, jersey. V. http://modemerr.com/. 37

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Christian Louboutin (1964). Creatore francese di scarpe. Materiali inediti e tacchi-scultura per caratterizzano le calzature di questo stilista parigino. Già da ragazzo, nel 1978, si lasciò affascinare dalle luci della vita notturna dei nightclub. A sedici anni vennero acquistati dei suoi disegni da una rinomata scuola di danza. Nel 1991 la prima collezione che porta il suo nome, poi il negozio a Parigi che annovera fra i clienti abituali Caroline di Monaco, Madonna, Nicole Kidman, Cher, Carolyn Bessette-Kennedy. Nel 1998, ha vinto il Fashion Footwear Association of New York - trofeo dell’anno per il miglior stilista di calzature. Nel 2009, Christian Louboutin è presente in quarantasei paesi del mondo con dodici boutique monomarca. Continua a creare scarpe per giovani e talentuosi designer come Rodarte (Kate e Laura Mulleavy - Los Angeles, 2005) e Roland Mouret (Lourdes, Francia, 1962). Vergani 2010, p. 707. 38

Agent Provocateur, marchio inglese di biancheria intima. Nasce con il negozio Agent Provocateur aperto a Londra nel Dicembre 1994 da Joseph Ferdinand Corré (1967), figlio della stilista Vivienne Westwood e da Serena Rees (1968), che propongono una linea di lingerie all’insegna dell’erotismo e dell’esibizionismo. La provocazione è il motivo conduttore dei due stilisti. La loro prima campagna pubblicitaria faceva leva su questo slogan: «La settimana della moda è morta, questa è la settimana della passione». Nell’Ottobre 2000 apre il nuovo negozio a Los Angeles, in Melrose Avenue. Nel Luglio 2002, dopo Broadwick Street e Pont Street, apre il terzo negozio londinese a Royal Exchange. In occasione dell’uscita della raccolta 40 Lic - sintesi del repertorio dei Rolling Stones, il marchio di lingerie mette in commercio intimo e costumi da bagno con il marchio di fabbrica del gruppo: la linguaccia ideata da Andy Warhol per Jagger e soci. Negli ultimi anni il marchio inglese ha annunciato una collaborazione di produzione e vendita con i grandi magazzini Mark & Spencer. Ibidem, p. 17. 39

Ann Summers, è un azienda multinazionale britannica specializzata in biancheria e sexy shop, con oltre centoquarantaquattro negozi tra il Regno Unito, Irlanda, Normandia, Spagna. Nel 2000, Ann Summers ha acquisito il marchio Knickerbox - lingerie intima femminile semplice e comoda; mentre la lingerie e i prodotti Ann Summers hanno uno stile molto sensuale e super sexy. Il primo negozio Ann Summers è stato aperto a Marble Arch (Londra) nel 1970. I negozi propongono: lingerie, bustini, costumi da bagno, cosmetici e giocattoli-sessuali (come il rampant rabbit - un genere di vibratore esclusivo 40

firmato Ann Summers). V. http://www.annsummers.com/.


Capitolo IV

Ultime Tendenze Dello Stilismo Di Moda Il corsetto-bustier, oggetto di seduzione, da sempre amato e/o odiato, abolito da Paul Poiret negli anni Venti, divenne lo spartiacque tra una moda che puntava sul corpo celato e l’altra che invece lo voleva libero da costrizioni di ogni genere. Tornerà ad esaltare il corpo femminile con il New Look di Christian Dior (1947), per poi essere utilizzato, oggi, come indumento esterno e/o come abito per il giorno e per la sera. Dalle passerelle ai red carpet, il corsetto-bustier si presenta: in pelle, in lattice, con borchie, con ricami, a punto croce, in versione sadomaso, tempestato di Swarovski, realizzato con sete preziose, sofisticati tulle, materiali impalpabili, in versione lurex e stretch. Le collezioni di Haute Couture e di Prêt-à-porter rilanciano il corsetto-bustier: rinasce uno dei miti dell’immaginario maschile, rivisitato, perfezionato e riattualizzato, trasformandolo da quello che era lo strumento di tortura, da sopportare in nome della moda, ad accessorio-capo super glamour, facendo già, da qualche passata stagione e ancora oggi, la sua ricomparsa tra i nomi più importanti delle maison di moda italiane e straniere. Viene proposto in diverse versioni per la collezione Autunno/Inverno 2006/2007: senza spalline da abbinare a gonne lunghe fino al ginocchio, cucito sopra un elegantissimo abito tubino o con spalline da indossare sopra lunghi pantaloni a sigaretta; morbido, in velluto nero da abbinare ad una gonna a vita alta; delicato e raffinato, in pizzo effetto nude look, con un fiocco ad evidenziare il punto vita, da indossare con un lunga e morbida gonna. L’abito-bustier è il passe-partout delle stagioni 2010/2011 - 2011/2012: in versione elegante, lungo e sinuoso al punto giusto per accarezzare le curve; sexy da Pin-up; da gran dama del Settecento: con fianchi pronunciati, preziosi decori sul corpetto e volant sul décolleté ma con lunghezze attuali, molto sopra al ginocchio o per un look più intellectual-chic: accorciato come fosse carta con intorno una sottile cintura metallica, oppure trasformato in un solido diamante ricco di 201


sfaccettature. Di seguito verrà presentata una sequenza iconografica che dà conto di quanto il corsetto-bustier si sia evoluto nel tempo e quanto le passerelle hanno sentito e sentono il richiamo di questo meraviglioso capo nella moda. Verranno inoltre mostrate differenti schede di stilisti e designer di moda: da Giorgio Armani a Christian Dior, da Jean Paul Gaultier ad Alexander McQueen, ecc. Le stesse danno conto dei diversi tessuti o materiali utilizzati nelle loro collezioni per creare e presentare un capo d’abbigliamento moderno e sofisticato.

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IV. 1 Armani Giorgio (Piacenza, 1934) Sede/Sedi: Milano, Via Borgonuovo 11. Sito aziendale: http://www.giorgioarmani.com/ Nota Biografica Armani è lo stilista italiano che, più di altri, porta alto il nome del Made in Italy nel mondo. Giorgio Armani, detto anche “Re Giorgio”, ha iniziato la sua carriera come stilista dopo aver abbandonato la Facoltà di Medicina per potersi dedicare interamente alla passione che più amava. Una scelta difficile ma decisamente felice, che lo ha portato negli anni ad essere presidente e amministratore unico del Gruppo Armani, ed unico azionista della Giorgio Armani S.p.A., una delle case di moda e design leader a livello mondiale. Il percorso di Giorgio nella moda comincia, come la maggior parte delle volte, alla corte di già affermati stilisti, per poi proseguire in un’ascesa personale nell’élite del settore. Non fu diverso per Armani, il quale lavora per La Rinascente fino al 1965, anno in cui viene assunto da Nino Cerruti per ridisegnare le linee del marchio Hitman. Corre l’anno 1975 quando nasce la Giorgio Armani S.p.A. e viene lanciata la prima linea di Prêt-à-porter maschile e femminile. Abile imprenditore, personalmente coinvolto in tutte le scelte strategiche del gruppo e sovrintendente agli aspetti creativi e di design, Armani si espande oltreoceano e nel 1979 fonda la Giorgio Armani Corporation, negli Stati Uniti. La produzione di Armani spazia fra abiti di ogni genere: cominciando dalle giacche, di cui rivoluziona il design, vengono eliminati i supporti interni, imbottiture e controfodere; vengono spostati i bottoni e modificate le proporzioni tradizionali, nascono così le “giacche destrutturate”, emblema assoluto del suo stile. La giacca diventa la protagonista del tailleur di taglio maschile che Armani disegna per le donne. Collezioni Principali Giorgio Armani Privè 2007, La dame au plissè (collezione Alta moda Autunno/In203


verno 2006/2007); 2012, Collezione Alta Moda Autunno/Inverno 2011/2012 Paris; 2012, Collezione Alta Moda Primavera/Estate 2012 Paris. Giorgio Armani 2007, Collezione Autunno/Inverno 2006/2007; 2012, Collezione Primavera/Estate 2012.

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IV. 1. 1 Giorgio Armani Privè Collezione La Dame Au Plissè A/I 2006/2007 Aumenta la confidenza di Giorgio Armani con i vantaggi sartoriali della Haute Couture e questa volta tocca al plissé. Armani lo affronta con analitica fantasia, partendo dall’effetto optical delle gonne svasate pieghettate a righe bianco/nere per arrivare alle giacche e agli abiti-bustier con scolli asimmetrici chiusi da gorgiere destrutturate sciolte a revers. Cfr.http://www.vogue.it/sfilate/sfilata/ai-06-07-alta-moda/ giorgio-armani-prive

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Collezione A/I 2011/2012 Paris Per questa collezione Giorgio Armani si è ispirato al Giappone ed ha presentato una collezione che unisce il rigore minimale con il romanticismo dei fiori del paese del Sol Levante. In passerella “abiti-bustier” dalle linee nette e classiche in velluto rasato, impreziositi da stampe di peonie o di fiori di ciliegio. Per la sera gli abiti scelgono forme vagamente a vaso, cinture in vernice e cappelli scultura. Forme diritte, svasate, a corolla, abiti a vaso, giacche con spalle a pagoda. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=ImKZg5W72j4 Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=OQFsIeEGvCo

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Collezione P/E 2012 Paris Sfilano in passerella tailleur in rete con giacche dalla spalla insellata, “abiti bustier” ricoperti di swarovski e paillettes che cambiano colore con forme leggermente svasate. La silhouette è decisa: tagli a spirale avvolgono la figura e rivelano sensuali dettagli del corpo. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=lhMeOdiKfVo

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IV. 1. 2 Giorgio Armani Collezione A/I 2006/2007 Nella nuova era Armani, non c’è più traccia dell’androgino tailleur pantalone e il mood ultra-femminile è basato su gonne fascianti nei punti strategici, micro-giacche ben avvitate e cappellini a disco. Tutta la collezione è basata sui toni delle pietre e dei metalli preziosi: ametista, granata, sfumature platino e un tenue beige. Una festa di bagliori esce con gli abiti da sera in seta preziosa o taffettà damascato costellato di micropaillette, Swarovski e jais. Cfr. http://www.vogue.it/sfilate/sfilata/autunno-inverno-0607/giorgio-armani

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Collezione P/E 2012 Eleganza rarefatta e fantastica fatta da bellezza e gentilezza, senza però rinunciare alla grinta e alla forza, tipiche del carattere femminile. Giorgio Armani ha le idee molto chiare su come sarà la donna della prossima Primavera-Estate. In passerella i classici tailleur diventano contemporanei grazie ad orli asimmetrici e a tagli a sbieco, mentre gli “abiti-bustier” impreziositi da maxi fiocchi rivelano un anima di rete ricoperta di cristalli. Le forme hanno una silhouette netta e minimal. I tailleur fluidi scelgono orli asimmetrici. Gli abiti-bustier hanno forme a sirena. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=qV2thr27rzs

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Bibliografia Essenziale Molho, Renata, Essere Armani. Una biografia, Baldini Castoldi Dalai ed., Milano 2006. Sitografia Essenziale http://www.life4style.it/index.php/Fashion/Armani.html http://www.renatamolho.it/renata_molho/Essere_Armani. html

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IV. 2 Chalayan Hussein (Nicosia, Cipro, 1970) Sede/Sedi: Londra, Clifton Street 109/123. Sito aziendale: http://www.husseinchalayan.com/ Nota Biografica Introverso e razionale, disegna abiti sperimentali, usa anche il plexiglas, al confine con l’arte. Per il taglio sicuro e le qualità concettuali, i suoi abiti sono stati spesso esibiti al Victoria and Albert Museum, al Barbican, alla Hayward Gallery. Nel Febbraio del 2000 Chalayan ha inventato e realizzato un vestito che, come dice il nome “Armail”, sta in una normale busta e può essere spedito come una lettera. Per ora è prodotto in soli 200 esemplari. E’ in tyvek - un materiale che unisce le caratteristiche della carta e quelle del tessuto. Nel Luglio 2002, per la prima volta Chalayan ha presentato a Parigi la sua collezione uomo per la Primavera/Estate. Per la Primavera/Estate, ha abbandonato l’etnico per un gioco sapiente di tagli, aperture, scorci. Ha usato il jersey, con molteplici strati sovrapposti che creano un effetto di buco chiuso da un altro buco. Lo stesso gioco è ripetuto con lo chiffon plissé-soleil. All’inizio del 2008 Chalayan ha disegnato una serie di abiti con il LED laser in collaborazione con la Swarovski, esposti a Tokyo alla fine del mese di Febbraio. Ha creato abiti robotici che cambiano di forma con un click, giacche che sembrano scolpite nel cemento, gonne che diventano tavolini, ma anche pezzi indossabili di complicatissima purezza, tutti prodotti in Italia. Concettuale fino all’estremo limite, Chalayan muove sempre da un’idea guida, traendo spunto dal mondo dell’architettura, della filosofia e dell’antropologia, collocandosi perfettamente a metà tra ciò che è moda e ciò che è arte. La sua maniera risulta spesso dissacrante, si rifà a concetti ancestrali, alle radici della terra ed ai cicli del cosmo. Collezioni Principali 2009, Inertia (collezione Primavera/Estate 2009); 2010, Scolpiti nel marmo (collezione Autunno/Inverno 2009/2010). 211


IV. 2 .1. Collezione Inertia P/E 2009 La collezione presenta modelle vestite con insoliti miniabiti in lattice dai tagli aerodinamici, dipinti a mano con frammenti di auto incidentate, un cumulo di targhe e lamiere. Chalayan ha lanciato una collezione ben strutturata, con un alto grado di creatività e una buona dosa di sartorialità; anzi, un gioco di righe bianche azzurre, ben lontano dal solito tema “marina”, ha percorso i miniabiti come le tute trompe l’oeil, dall’effetto top-pant. Gli abiti, sono costruiti attorno al corpo con movimenti davvero unici, grazie ai quali si trasformano talvolta in body-costume o in casacche-bluse. Cfr. http://chalayan.com/collection/view/album/id/28 Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=KwOfXuXT9OA

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IV. 2. 2 Collezione Scolpiti nel marmo A/I 2009/2010 Collezione dalle forme precise, angoli arrotondati o spigoli taglienti rinascono e vengono ripensati in chiave moderna ed ultra-femminile. Le spalle sono il punto focale: dritte e leggermente alzate nei blazer rettangolari, arrotondate e quasi cadenti nei cappotti a forma di uovo. La donna, con le sue sfaccettature, concreta ed urbana, indossa scollature profonde e copre il busto in un improvviso slancio di pudore. La donna è al contempo metropolitana e moderna, indossa abiti morbidi come fossero corazze fetish in pelle o lattice, dietro alle quali proteggersi e nascondersi in un raffinato gioco di seduzione. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=n3hkL05cOJs Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=EMkA12tHcp0

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Bibliografia Essenziale Chalayan, Hussein, Evans, Caroline, Menkes, Suzy, Hussein Chalayan, NAI Publishers ed., Rotterdam 2005. Sitografia Essenziale http://cultureofdesign.wordpress.com/2010/05/04/husseinchalayan-by-paloma-h-canut/ http://www.fashion-lifestyle.bg/designers_en_broi7 http://www.nowabsolutely.com/tag/hussein-chalayan http://thepillowbook.splinder.com/post/13680811/husseinchalayan-animatronic-fashion

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IV. 3 Dior Christian (Granville, 1905 - Montecatini Terme, 1957) Sede/Sedi: Parigi, Avenue Hoche, 30. Sito aziendale: http://www.dior.com/ Nota Biografica Christian Dior nasce a Granville, in Francia, il 21 gennaio 1905, da una ricca famiglia di commercianti e inizia a lavorare come illustratore di moda, assistente a Parigi sia per Lucien-Camille Lelong (1889 - 1958) che per Robert Piguet (1898 - 1953). Il 16 Dicembre 1946 Christian Dior apre la sua maison al n.30 di Avenue Montaigne, a Parigi, grazie all’aiuto finanziario dell’imprenditore del cotone Marcel Boussac (1889 - 1980). La maison Dior nasce da un evento clamoroso, il 12 Febbraio 1947, data in cui Christian Dior presenta la sua prima collezione di Alta Moda. Alle donne del dopoguerra, stanche di anni di restrizioni e ristrettezze, lo stilista apre le porte di una meravigliosa e riconquistata femminilità: il “New Look” è una rivoluzione; gonne allungate, ampie e voluttuose, che sbocciano come la corolla di un fiore, vita strizzata con giacchine e corpetti castigati per enfatizzare i volumi questi gli elementi fondamentali del suo successo mondiale. Il genio della moda muore il 24 Ottobre 1957 a Montecatini, a soli 52 anni, a causa di una crisi cardiaca. Yves Saint Laurent, assistente di Christian Dior, presenta con successo la sua prima collezione “Ligne Trapèze”, il 30 Gennaio 1958. Nel 1960 Marc Bohan è nominato direttore artistico e presenta la sua prima collezione “Slim Look”. Nel 1985, il marchio Dior passa sotto l’egida del gruppo LVMH (Louis Vuitton, Moët Hennessy S.A.). John Galliano nel 1997 è nominato direttore artistico delle collezioni donna. Per il 50° anniversario della maison, al Metropolitan Museum of Modern Art di New York è organizzata la mostra “Christian Dior: 1947-1957”. Diana, principessa del Galles, indossa il primo abito creato da John Galliano per Christian Dior.

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Il nome Dior è ancora oggi sinonimo di magia: capi meravigliosi, istintiva creatività, piacere di osare, senso dell’eleganza. Alta Moda, Prêt-à-Porter, accessori, profumi, cosmesi, gioielleria, orologeria, moda maschile, a prescindere dall’universo creativo, il sogno Dior continua ancora oggi fra tradizione e modernità. Collezioni Principali 2009, Vitino da vespa (collezione Alta Moda Autunno/Inverno 2008/2009); 2009, Collezione Alta Moda Primavera/Estate 2009; 2010, Collezione Alta Moda Autunno/Inverno 2009/2010); 2011, A world of flowers (collezione Alta Moda Autunno/Inverno 2010/2011): 2012, Collezione Alta Moda Primavera/Estate 2012.

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IV. 3. 1 Collezione Vitino daVespa A/I 2008/2009 L’attenzione è tutta indirizzata sulle top model dalla “vita di vespa” chiusa in alte fasce-corsetto o in rigide cinture, una sorta di divisorio tra le fluttuanti gonne aperte “a corolla” e i generosi bustier drappeggiati e la silhouette “Bar”, lanciata da Dior negli anni Cinquanta, molto sensuale e molto femminile. È questo il “New Look” di Galliano: uno sguardo al passato, e un occhio all’attualità, con la voglia di tingere il quotidiano delle signore ricche e famose con una carrellata di sfumature pastello che mettono di buon umore fin dal mattino. Cfr. http://www.vogue.it/sfilate/sfilata/haute-couture-a-i-08 09/christian-dior/collection/2014

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IV. 3. 2 Collezione Alta Moda P/E 2009 E’ ispirata da atmosfere fiamminghe; sete impalpabili nelle sfumature del giallo, del blu e dell’écru: la leggerezza è protagonista. Per le sue modelle, John Galliano si è divertito a rivisitare delle pettinature quasi tradizionali, donando loro un tocco di modernità. Le “crinoline” gonfiano gonne leggere e i sottogonna dai ricami blu fiammingo. Il taglio e l’architettura degli abiti sono facilmente riconoscibili: girovita stretti, gonne ampie, giacche che sottolineano il busto - inconfondibilmente Dior. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=RaokT9Bl0Uk Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=4wmKGxAbjcM

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IV. 3. 3 Collezione Alta Moda A/I 2009/2010 John Galliano presenta una collezione che cita i grandi splendori del “New Look” del 1947 infondendogli un’allure un po’ spudorata, garbatamente maliziosa. Nelle loro pose ammiccanti, le modelle svelano i segreti di uno charme inossidabile fatto colori smaglianti: il glamour vibrante della “parisienne”. Reggiseni a balconcino, veli, corsetti, crinoline fluttuanti e “guêpière” allestiscono una seduzione d’altri tempi, fra guanti lunghi neri, redingote arancio decorate da petali floreali e stampe animalier, maculate e zebrate, in un tripudio di mise ispirate ai backstage delle sfilate di Monsieur Dior. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=EJQtua7UOXQ

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IV. 3. 4 Collezione a World of Flowers A/I 2010/2011 Le gonne sono le vere protagoniste: dal “vitino di vespa� si aprono rigogliose petali su petali. I corpini avvolgono il busto con volumi orientali e tagli rigorosi, ammorbiditi da spessori di ruche e volant che sembrano riprodurre la perfezione di una rosa. Mise con la vita segnata da cinture, le spalle arrotondate da morbide volute o messe in evidenza da bustier negli abiti da sera. Un fruscio di petali e una cascata di ruche creano un’immagine molto femminile e decisa. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=pLWy1q1nNh0

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IV. 3. 5 Collezione Alta Moda P/E 2012 Questa collezione è ispirata a Monsieur Dior e ai modelli classici del 1947: come la “corolla” e alla nascita del “New Look”. I canoni estetici della maison come: eleganza, naturalezza e semplicità sono stati ripresi e trasformati in una visione più contemporanea. Sfilano abiti da gran ballo vaporosi grazie alle “crinoline”. La silhouette “a corolla” del classico modello di Christian Dior viene ripresa e modernizzata; non mancano abiti tubini dalle forme slim e diritte. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=ib_Vt5LH7Ds

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Bibliografia Essenziale Arnault, Bernard, Chenoune, Farid, Hamani, Laziz, Dior: 60 Years of Style. From Christian Dior to John Galliano, Thames & Hudson ed., London 2007. Dior, Christian, Dior by Dior. The Autobiography of Christian Dior, Victoria & Albert Museum ed., London 2007. Sitografia Essenziale http://designmuseum.org/design/christian-dior http://www.diorhorlogerie.com/it/christian-dior

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IV. 4 Dolce & Gabbana S.R.L. (Legnano, Milano, 1985) Dolce Domenico (Polizzi Generosa, Palermo, 1958) Gabbana Stefano (Milano, 1962) Sede/Sedi: Milano, Via Santa Cecilia 7. Sito aziendale: http://www.dolcegabbana.it/ Nota Biografica Domenico Dolce & Stefano Gabbana hanno fatto dei loro cognomi un marchio conosciuto in tutto il mondo, facilmente riconoscibile per il suo glamour e la sua grande versatilità. Due stilisti che hanno saputo fare della loro italianità un simbolo, hanno saputo interpretare e imporre al mondo il loro stile sensuale e unico. Due stilisti giovani, che si rivolgono ai giovani e che dai giovani traggono ispirazione, adorati dalle star di Hollywood, che ne hanno fatto i loro beniamini. Due stilisti che vestono tutte le rock star del momento, che li hanno eletti leader indiscussi; gli stilisti di Madonna, Monica Bellucci, Isabella Rossellini, Kylie Minogue, Angelina Jolie. La donna Dolce & Gabbana è una donna forte, che si piace e sa di piacere. Una donna internazionale, che ha girato il mondo ma non dimentica le sue radici. Una donna che indossa indifferentemente “guêpière” estremamente sexy o reggiseni in vista sotto capi trasparenti, contrapponendoli a maschili gessati con tanto di cravatta e camicia bianca o alla canottiera da uomo, ma portando sempre tacchi altissimi che le danno comunque un’andatura estremamente femminile e sexy. Ama la coppola portata dalla Sicilia e il rosario della prima comunione, che porta come collana; può essere indifferentemente manager, moglie, mamma, ma sempre e comunque donna sino in fondo. Collezioni Principali D&G 2009, Collezione Autunno/Inverno 2009/2010; 2010, Sexy cowgirl D&G (collezione Primavera/Estate 2010).

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Dolce & Gabbana 2008, Metallic Future Love (collezione Autunno/Inverno 2007/2008); 2010, Collezione Primavera/Estate 2010; 2012, Collezione Primavera/Estate 2012.

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IV. 4. 1 D&G Collezione A/I 2009/2010 La collezione è ispirata all’affascinante mondo del teatro; i materiali comprendono broccati, velluti lisci, strass e pietre, visone, chiffon, cachemire stampato, denim ricamato con pietre o dettagli di preziosa passamaneria, tulle e nastri. La collezione spicca per gli “abiti-bustier” con crinoline interne, broccati o di velluto, con pietre preziose, e bustini realizzati con cordoni di passamaneria dorata da portare con jeans; bustier stampati con le locandine delle opere teatrali da portare con lunghe gonne di chiffon con stampa arazzo dai volumi teatrali. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=CCgZVM-CYUI

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Collezione Sexy Cowgirl P/E 2010 La collezione rielabora il guardaroba dei cowboy mescolando: denim, gessati maschili, camoscio e pelle traforata con romantici pizzi bianchi, chiffon di seta e crêpe con stampe di Mickey Mouse e Minnie, calzando stivaloni di cuoio o pelle scamosciata. La sexy cowgirl di D&G abbina denim, street-style e abbigliamento formale con inimitabile nonchalance. E’ quindi il denim a rappresentare il tessuto must della collezione: pantaloni, gonne, bustier e camicie in stile rodeo: un tributo al vecchio West. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=G_AEDIScrR0

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IV. 4. 2 Dolce & Gabbana Collezione Metallic Future Love A/I 2007/2008 La collezione presenta vestiti metallici - rame, bronzo, peltro e l’alluminio, spesso strizzati in vita da un’alta “cinturabustino”, chiusa da lucchetti che fanno pensare alle cintura di castità. Una nuova donna: avvolta da lamiere contorte, misteriosa e dominatrice, il campionario è quello di un negozio fetish: frustini e maschere, tacchi a spillo metallici e borchie. Un tessuto laccato fino a sembrare stagno è trattato come se fosse una lattina accartocciata da una mano vigorosa. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=cYfn-0l44jc

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Collezione P/E 2010 Per la collezione, è la Sicilia, con il suo richiamo materno a ispirare gli stilisti, che portano in scena la piazza isolana, elemento coreografico stilizzato, con delle sedie in passerella. E’ il pizzo inoltre che vince su tutto, bianco e nero, lo si trova sul denim, sui cardigan, sui vestitini bustier indossati con T-shirt nera; poi, reggiseno a vista e corpetti anni Cinquanta. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=KuVkSNv_qMo

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Collezione P/E 2012 Una femminilità allegra ed energetica che invade la passerella di colori e seduzione. Dopo un intermezzo di PVC trasparente arancio portato sulla lingerie, non può mancare la parte dedicata al pizzo, rigorosamente nero, ricco di applicazioni e decori e ricamato o profilato di nappe. Esultanza poi alla chiusura con “bustier” ricamati di pietre, paillettes e cristalli. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=xRC9X6xtTfM

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Bibliografia Essenziale Sozzani, Franca, Dolce & Gabbana, Octavo ed., Firenze 1998. Vivanco, Mariano, Zazzaroni, Ivan, Milan. Dolce & Gabbana, Mondadori Electa ed., Milano 2006. Sitografia Essenziale http://www.dgvictims.com/search/label/Archivio%20DG_ VICTIMS http://www.dolcegabbana.it/corporate/it/storia/tappe-principali.html http://www.dolcegabbana.it/corporate/it/gruppo/azienda.html http://www.swide.com/luxury-magazine/History/DG-Archive/dg-archive-1993-hippy/2011/4/10

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IV. 5 Dsquared2 (Milano, 1996) Dean & Dan Caten (Willowdale, Toronto, Canada, 1960) Sede/Sedi: Milano, Via Ceresio 9. Sito aziendale: http://www.dsquared2.com/ Nota Biografica Dsquared2 sta per D al quadrato, casa di moda italiana fondata nel 1996 dai due gemelli canadesi Dean & Dan Caten, i fratelli inseparabili della moda che impazzano nel mercato globale. Si trasferirono a New York nel 1983 per frequentare la Parsons School of Design e nel 1991 giunsero in Italia dove nel 1994, dopo numerose collaborazioni con le più importanti case di moda, realizzarono la loro prima collezione maschile che è il primo passo verso una lunga serie di sfilate-evento. Entrambi molto creativi - nel processo creativo in senso stretto fanno quasi tutto insieme -, tra loro non esiste una vera e propria suddivisione dei ruoli; partono da un tema che sviluppano gradualmente in varie direzioni. In pedana non portano semplicemente la collezione, ma attraverso un’attenta regia cercano di creare quasi dei cortometraggi che raccontino una piccola storia. Il loro stile può essere riassunto come un mix di ambizione e arte sartoriale italiana, uniti a una maniacale attenzione per i dettagli, che sono stati alla base dell’evoluzione creativa del loro marchio. La donna Dsquared2 è sempre stata e continuerà ad essere una donna sexy; anche lei ama il jeans, ma abbinato magari ad una giacca elegante, con un top ricamato a mano o una cappa di pelle nera. Collezioni Principali 2011, Collezione Autunno/Inverno 2010/2011; 2012, Collezione Autunno/Inverno 2011/2012.

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IV. 5. 1 Collezione A/I 2010/2011 La donna di Dsquared2 è una moderna femme fatale, a metà tra dark lady e donna cibernetica: tubini con ricami in tulle e cristalli, tailleur dalle linee asciutte, ma anche corsetti severi, abiti di pelle e lingerie e accessori di latex. L’ispirazione fonde i manga giapponesi con le atmosfere dei film noir occidentali, con forme “a clessidra”, abiti sartoriali, giacche biker, abiti a tubino, gonne avvitate e tailleur slanciati. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=h07r60vIknc Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=IDP9lxTwQnc

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IV. 5. 2 Collezione A/I 2011/2012 La collezione guarda anche ai temi e ai materiali cari ai gemelli Caten: le temperature sotto zero del Canada, paese d’origine degli stilisti, da cui ci si difende sovrapponendo diversi pezzi del guardaroba e avvolgendosi nelle pellicce e nel denim, da sempre uno dei loro capisaldi. La sensualità emerge dagli abiti lunghi e stretch per la sera; il punto vita è sempre evidenziato da “cinture- corsetto” e abbottonature che richiamano alla mente i bustier. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=SyHz6sfv9IQ

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Sitografia Essenziale http://citofonarelordlucas.wordpress.com/personaggi/dean-edan-caten/ http://www.adversus.it/interviste/dean-dan-caten-dsquared2/ http://www.moras.it/dsquaredonna2013.htm http://www.pambianconews.com/interviste/dean-e-dan-caten/ http://www.stylosophy.it/articolo/dsquared-dean-e-dan-catennella-walk-of-fame-canadese/10715/

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IV. 6 Gaultier Jean Paul (Arcueil Val-de-Marne, Francia, 1952) Sede principale: Parigi, Rue Saint Martin, 325. Sito aziendale: http://www.jeanpaul-gaultier.com/ Nota Biografica Creativo e innovatore, Jean Paul Gaultier rappresenta uno dei più interessanti stilisti dei nostri tempi. Giovanissimo, debutta nel 1977 conquistandosi la fama di “Enfant Terrible”, eppure i suoi abiti presentano spesso citazioni colte, tratte dalle fonti più diverse. Considerato il massimo erede della grande Vivienne Westwood, Gaultier esordisce già con la chiara volontà di stupire, talvolta scandalizzare, sia la critica che il pubblico. Il suo asso nella manica sono le alleanze impossibili tra passato e avanguardia, tra il taglio eccellente e la stravaganza, tra abbigliamento maschile e femminile. Fin dalla prima collezione la sua passerella è percorsa da una ventata di novità che travolge le barriere e sfida le regole del conformismo. Le sfilate di Gaultier catalizzano l’attenzione della stampa internazionale che accorre volentieri in massa per registrare la spettacolarità dell’evento, contraddistinto ogni volta da un getto continuo di sorprese sempre nuove. Poi i “corsetti”, rigidi e stravaganti, come quello con le coppe a punta indossato da Madonna nella sua tournée del ‘90; il famoso reggiseno conico fa la sua comparsa. Il corpetto divenne un elemento da indossare sopra i vestiti, non sotto; i tacchi a spillo a forma di Tour Eiffel capovolta, le magliette multi-strato stracciate, fino ad arrivare ai costumi indossati da Marylin Manson. Nell’ 83 Jean Paul Gaultier presenta il primo abito ispirato ai busti con stecche di balena e nell’84 un abito di velluto con seni a cono. Famosissima la fragranza Jean-Paul Gaultier del 1993, con il flacone a forma di corsetto feticcio, racchiusa in una incongrua lattina da conserva (in onore dell’amata nonna).

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Collezioni Principali 2007, Like a Celebration (collezione Primavera/Estate 2007); 2008, A Fanciful cage (collezione Alta Moda Autunno/Inverno 2008/2009); 2009, Eighties shapes (collezione Alta Moda Primavera/Estate 2009); 2009, Silver screen (collezione Alta Moda Autunno/Inverno 2009/2010); 2010, A multitask woman (collezione Haute Couture Primavera/Estate 2010); 2011, L’Êsprit de France (collezione Alta Moda Autunno/Inverno 2010/2011); 2011, Collezione Haute Couture Primavera/Estate 2011; 2012, Collezione Primavera/Estate 2012; 2012, Collezione Haute Couture Primavera/Estate 2012.

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IV. 6. 1. Collezione Like A Celebration P/E 2007 Gli show di Gaultier sono un concentrato di adrenalina e sicuramente non è da meno quest’ultima sfilata ambientata nel magnifico spazio di Rue Saint Martin; è qui che l’enfant terribile della moda celebra i suoi trent’anni di carriera. Ci sono il chiodo con l’abito da ballerina e i bustier con “reggiseno conico” ma anche il fourreau (abito aderente e diritto) di denim piumato e gli abiti tatuaggio oltre alle celebri t-shirt da marinaio. Cfr.http://www.vogue.it/sfilate/sfilata/primavera-estate-2007/ jean-paul-gaultier

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IV. 6. 2 Collezione A Fanciful Cage A/I 2008/2009 Collezione composta da una “gabbia”: di crinolina, di lana, di pelle, di tessuto, di piume, di pelliccia, inserita nella giacchina strizzata, come una cappa da avvolgere attorno all’abitino. Se non sono sempre le dure, vecchie “stecche di balena”, sono cinture, cinturini e cinturoni di pelle a stringere, impacchettare, chiudere la silhouette. La fantascienza fluorescente, i colorati anni Ottanta, il tribalismo delle piume: forse tutto insieme è un po’ troppo, ma a Jean Paul Gaultier piace esagerare. Cfr.http://www.vogue.it/en/shows/show/fw-08-09-hautecouture/jean-paul-gaultier

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IV. 6. 3 Collezione Eighties Shapes P/E 2009 La collezione si basa sul gioco della seduzione super-sexy, esaltata dall’ossessione per il “corsetto” e la “guêpière” sempre ben visibili sotto strati di trasparenze. La collezione scorre dagli anni Ottanta in poi, con le spalle bene in evidenza, geometriche e rigorose, dalle quali scende un’armonia di linee decise, che si fermano sul décolleté e poi sulla vita, fino all’orlo, mai troppo corto, esaltato dal dominio del doppio colore, bianco e nero, inserti di pizzo, ventagli di chiffon trasparente con ragnatele di passamanerie. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=j5y10n0L-c8

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IV. 6. 4 Collezione Silver Screen A/I 2009/2010 In passerella scorre una galleria di ritratti di dive e divine di inossidabile charme filtrate da un occhio inequivocabilmente contemporaneo: da Catherine Deneuve a Rita Hayworth, da Jean Harlow a Veronica Lake, fino a Kylie Minogue, presente in sala. In passerella silhouette “a clessidra”, spalle a punta, pellicce, trench da vamp in pelle nera e fourreau di cristalli e lamé. Dulcis in fundo: un “body imbottito” grigio-acciaio, in omaggio a Madonna all’epoca del Blonde Ambition Tour. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=XLRw8L5elEs Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=aYEzMH9jjxU

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IV. 6. 5 Collezione A Multitask Woman P/E 2010 Una donna con l’abito dal “corpetto metallico”, una masai con gioielli-corazza e un’elegante madame “parisienne” in tailleur crema. Jean Paul Gaultier, maestro nello strutturare i volumi e legato soprattutto al suo cavallo di battaglia: il “reggiseno sagomato”, percorre la via di uno sfarzo che pesca un po’ dall’etnico, un po’ dal tribale, un po’ dal folk, un po’ dal barocco, un po’ persino dal fantascientifico; il tutto per mettere insieme una collezione che rispetta quello che l’Haute Couture vuole: stupire. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=9_DHa34fDy8

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IV. 6. 6 Collezione L’ésprit de France A/I 2010/2011 La collezione parte dal trench ispirato agli anni Ottanta, passa dalle calze a rete con la tour Eiffel e arriva alla “guêpière”. Linee e volumi esaltano il corpo femminile, è un omaggio alla donna, capace di sedurre con un tailleur pantalone così come un abitino con oblò a vista. Tocchi eccentrici come ad esempio il “bra” di visone sulla maglia di jersey. I tessuti e i materiali vengono scolpiti con precisione, per sottolineare un’idea di fluidità dolce. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=yxsl4wwsEbU

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IV. 6. 7 Collezione Haute Couture P/E 2011 Una collezione molto francese, ispirata alle atmosfere del Moulin Rouge, dove i lunghi abiti da sera dalle gonne a ruota tipiche del can-can si decorano di echi punk e glam rock. Un trionfo di “corsetti� delicati e sinuosi, abiti ricamati di paillette e di giubbini super-chic. Jean Paul Gaultier propone una collezione molto francese e molto couture ma che sa anche guardare altrove. Cfr. http://www.vogue.it/en/shows/show/ss-2011-haute-couture/jean-paul-gaultier

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IV. 6. 8 Collezione P/E 2012 La sfilata riprende le vecchie caratteristiche delle presentazioni couture, rivisita i capisaldi del suo stile con maestria e mano sicura, aggiungendo come sempre ironia e un tocco di disincanto. I classici dello stile Gaultier vengono ripresentati con modernità e con una costruzione rinnovata, dimostrandosi dei veri e propri must del guardaroba contemporaneo: il trench, i pantaloni fluidi a vita alta, il gilet, la camicia bianca, i “body seconda pelle” in tulle tatuato, gli “abiti-lingerie”. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=2is5Orgq-hE

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IV. 6. 9 Collezione Haute Couture P/E 2012 La collezione è un tributo ad Amy Winehouse, la cantante scomparsa il 23 Luglio scorso e al suo stile ribelle e anticonformista. In passerella sfilano tutti i capi iconici di Gaultier come: il tailleur maschile, il bustier e l’abito-trench. Il designer francese rivoluziona i canoni della couture e invece di concludere la sfilata con un abito da sposa sceglie di far sfilare donne con veli neri sulle note di Back to Black (2006). Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=4M1pjX2CmvU Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=mWsplb0brRs

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Bibliografia Essenziale Chenoune, Farid, Jean Paul Gaultier, Assouline ed., New York 2006. Delbourg-Delphis, Marylène, La Mode pour la Vie, Autrement ed., Paris 1983. Gaultier, Jean Paul, A nous deux la Mode, Flammarion ed., Paris 1992. Gaultier, Jean Paul, Lefort Gerard, Pain Couture. Jean Paul Gaultier, Fondation Cartier ed., libro sulla mostra della Fondazione Cartier per l’Arte Contemporanea, 2004. Sitografia Essenziale http://www.juniormagazine.co.uk/vintage-junior/jean-paulgaultier-interview-lenfant-formidable/1649.html

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IV. 8 McQueen Alexander (Londra, 1969 - 2010) Sede/Sedi: Londra, Old Bond Street, 4/5. Sito aziendale: http://www.alexandermcqueen.com/ - http:// www.m-c-q.com/ Nota Biografica Due sono gli aspetti che hanno determinato il precoce successo di questo giovane stilista inglese, nominato per ben quattro volte “British Designer” dell’anno e premiato nel 2003 dal Council of Fashion Designers of America: l’eccellente esperienza nella pratica sartoriale e la contaminazione con il teatro elisabettiano. Affascinato dai costumi d’epoca, McQueen approfondisce lo studio degli abiti del Seicento, indossati dagli attori che interpretano Shakespeare nei teatri di Londra, e ne assimila il gusto sfarzoso e decadente che diventerà motivo delle sue sfilate-performance. Nel 1994 succede a John Galliano alla direzione creativa della Givenchy Prêt-à-porter, mentre parallelamente continua a disegnare una linea che porta il suo nome. Nel 2000 la griffe McQueen viene acquisita al 51% dal gruppo Gucci Pinault Printemps Redoute e i relativi negozi mono-marca sono inaugurati nelle principali capitali della moda. L’appuntamento stagionale con le sfilate di McQueen attira l’attenzione di tutti, addetti al mestiere e non, per la sempre nuova ed eccentrica scelta delle ambientazioni e per la riproduzione di atmosfere che ricordano palcoscenici del passato, rivisitati in chiave avanguardista. Spettacoli veri e propri, in cui gli abiti sono protagonisti di una narrazione sempre nuova che stravolge il classico concetto di passerella. Nel 2003 lo stilista è stato convocato dalla regina Elisabetta d’Inghilterra in persona, lei amante degli abiti ben confezionati, di cui Alexander porta traccia nel cognome. Sua maestà gli ha conferito il titolo prestigioso di “Commander of the Most Excellent Order of the British Empire”, proprio come uno di quei marchesi e baronetti innamorati di dame fruscianti che riempivano da sempre la sua fantasia, per il suo importante contributo all’eccellenza della moda inglese. Nel 2006 nasce “McQ - Alexander McQueen”: una linea basata sul denim; le 247


collezioni includono abbigliamento da donna, uomo e accessori. Il corpo senza vita di Alexander McQueen è stato trovato l’11 febbraio 2010 nella sua abitazione di Londra. La BBC ha parlato di un tragico caso di suicidio, il mondo della moda sotto shock. Oggi Sarah Burton è la direttrice creativa di Alexander McQueen, giovane designer e insostituibile braccio destro dello stilista, di cui era anche amica intima. La sua morte ha portato sotto le luci della ribalta il nome della designer, che fino ad un paio d’anni prima nessuno (fatti salvi gli operatori del settore) conosceva. Gli ultimi mesi infatti sono stati di vitale importanza per la designer inglese. Chiamata a raccogliere l’eredità fatta di estro ed intuito lasciata da McQueen, la Burton ha dato prova, con le recenti collezioni, di essere l’unica in grado di portare avanti l’identità visionaria del brand costruita dallo stilista; un lavoro che le è valso la fiducia della consorte del Principe William d’Inghilterra, oltre che la consacrazione a designer-leggenda. Collezioni Principali 2007, Sarabande (collezione Primavera/Estate 2007); 2008, In Memory Of Elizabeth How, Salem 1962 (collezione Autunno/Inverno 2007/2008); 2009, Natural Dis-tinction, Un-natural Selection (collezione Primavera/Estate 2009); 2011, Collezione Primavera/Estate 2011; 2012, The Ice Queen and her court (collezione Autunno/Inverno 2011/2012); 2012, Collezione Primavera/Estate 2012; 2013, Pre-Collezione Autunno/Inverno 2012/2013.

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IV. 8. 1 Collezione Sarabande P/E 2007 Ad alimentare l’immaginario del creativo dalle radici scozzesi è il ritmo della sarabanda: una danza popolare portoghese tipica del Rinascimento che è anche il titolo del suo fantasmagorico show ambientato nel Circo d’Inverno Bouglione (Francia). La silhouette è una clessidra che cesella il busto come un “corsetto” e disegna fianchi ad anfora, quasi a formare dei panier, per maestosi abiti di chiffon con orlo tripla balza arricciata o ancora intessute di fiori freschi conservati con un gel. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=b5RTYdp93oE Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=OG4aOkHvRoY

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IV. 8. 2 Collezione In Memory of Elizabeth Howe, Salem 1962 A/I 2007/2008 La collezione è l’omaggio all’antenata Elizabeth Howe che fu bruciata viva a Salem con l’accusa di stregoneria alla fine del Seicento. Le modelle si preparano al sabba (la messa nera delle streghe) più chic della stagione, camminando su tacchi scultorei; in “bustier” sagomati in cuoio provvisti di mascher, ostentando una regale sicurezza, soprattutto quando si propongono come reincarnazioni di Cleopatra e Nefertiti in lunghi fourreau (abito aderente e diritto) gioiello immersi nell’oro o modellati da anelli come le vesti abbondanti di Iside. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=dya9cjxvkGM&featu re=related

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IV. 8. 3 Collezione Natural Dis-tinction Un-natural P/E 2009 La collezione ripercorre le tappe fondamentali della storia dell’umanità dai primordi secondo Darwin alla rivoluzione industriale, che, secondo il designer, è stato l’inizio della fine della natura. «In un recente viaggio in Francia ho ritrovato delle plastiche forme vittoriane molto organiche e scultoree e le ho adattate al corpo umano raffigurato in una perenne metamorfosi», spiega lo stilista. Meravigliose le stampe naturalistiche digitalizzate, virtuosistici gli abiti di frange, come gli abitini “a clessidra” incastonati di ricami gioiello abbinati a tacco a cono vertiginosi. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=1yEMeOV95_0

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IV. 8. 4 Collezione P/E 2011 Sarah Burton è ora il direttore creativo del marchio e presentando una collezione dall’impatto fortissimo, resa personale da un tocco più soft e femminile, che sicuramente darà ottimi frutti nel futuro. La silhouette McQueen è riproposta negli abiti corti “a clessidra”, con gonne rigide a tutù o tonde e alte “cinture-bustier” con fibbie dorate. Materiali eccezionali come crine lavorato a intreccio per abiti teatrali con criniera nel dorso, piume di fagiano per impreziosire gonne regali con bustier in rafia e beneauguranti spighe di grano riprendono quell’effetto teatrale e mozzafiato tipico della visione davvero artistica del designer. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=uYlJMyIneTY

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IV. 8. 5 Collezione The Ice Queen and Her Court A/I 2011/2012 Sfilata che celebra una femminilità regale, maestosa, rituale, guerriera, straordinaria nella sua forza evocativa e nel virtuosismo simbolico, inquietante e misteriosa negli accenti fetish. Silhouette aderente, “vita stretta” in alte cinture, spalle importanti; gonne a sirena con giochi di zip, che diventano elemento decorativo e costruttivo insieme; bustier in cocci di porcellana dipinti e riassemblati, e lunghe gonne principesche in organza tagliata a vivo; abiti con corpino sottile che sbocciano in gonne a corolla in organza lavorata a nido d’ape. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=WgnlAQQ5WV0

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IV. 8. 6 Collezione P/E 2012 Il fascino della vita sottomarina ha ispirato Sarah Burton per la sua sfilata Alexander McQueen: creature magiche e ipnotizzanti, ondulanti ed elastiche come alghe dei fondali oceanici, ieratiche divinità dal volto misteriosamente celato da inquietanti maschere di pizzo. La silhouette è sinuosa e sensuale; abiti sirena plissettati che si aprono a corolla con busto e alti “bustier”; abiti pouf a vita impero completamente costruiti da nastri ondulati che racchiudono minuscole perle; abiti lunghi con strascico interamente ricamati, cappe in tulle su abiti da sera realizzati da strati di tulle e ricami in perle su abiti “a clessidra”. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=UIjf9QMbg_w

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IV. 8. 7 Pre-Collezione A/I 2012/2013 Collezione che si può definire quasi come una citazione didascalica del passato tra fine Ottocento e inizio Novecento, ossia l’epoca dei grandi couturier e delle loro creazioni. La silhouette è sviluppata con una grande attenzione a enfatizzare i volumi su fianchi e spalle, riducendo le dimensioni del punto vita, sottolineato però da cinture importanti. Alla linearità del bianco e nero è contrapposta la tridimensionalità del pizzo e di fiori di tessuto applicati su camicette, bustini e lunghi abiti da sera che non rinunciano a un tocco di sensuale trasparenza. Cfr. http://www.vanityfair.it/starstyle/sfilate/sfilata/ai-12-13pre-collezioni/alexander-mcqueen

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Bibliografia Essenziale Knox, Kristin, Alexander McQueen. Genius of a Generation, A&C Black Publishers ed., London 2010. Sitografia Essenziale http://denniscooper-theweaklings.blogspot.com/2010/03/justin-presents-alexander-mcqueen-kit.html http://www.fashionist.ca/2011/02/alexander-mcqueen-complete-runway-retrospective-1994-2010.html http://www.stile.it/mcqueen http://www.vam.ac.uk/collections/fashion/fashion_motion/ mcqueen_leane/index.html

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IV. 9 Versace Gianni (Reggio Calabria, 1946 - Miami Beach, 1997) Sede/Sedi: Milano, Via Manzoni, 38. Sito aziendale: http://www.versace.com/ Nota Biografica L’avventura del giovane calabrese, poco incline agli studi e diventato braccio destro della madre nella sua sartoria e nel negozio d’abbigliamento, comincia il 5 Febbraio 1972 con un viaggio a Milano: chiamato da Ezio Nicosia e Salvatore Chiodini, disegna una collezione per la “Florentine Flowers” ed ha subito successo. Nel 1976 la grande svolta: il fratello maggiore, Santo, sbarca a Milano per gettare le basi di un’impresa che porti il nome di “Gianni”. La prima collezione firmata dallo stilista va in passerella nel Palazzo della Permanente di Milano nel 1978. In venticinque anni di sviluppo, la griffe si trasforma da azienda di famiglia (ai due fratelli si aggiunge la sorella minore Donatella) in un gruppo di successo nazionale; è per lei che Gianni taglia i primi vestitini, è lei quindi che indossa i primi Versace. Donatella abbandonerà l’Università per diventare prima l’ombra, poi la musa e il braccio destro dello stilista. Fu Gianni a trasformare le mannequin, fino ad allora algide regine delle passerelle, in “top model”; fu lui a volere le donne copertina di «Vogue USA» e «Harper’s Bazaar» alle sue sfilate milanesi e le convinse a suon di milioni. All’inizio si chiamavano Cindy Crawford e Linda Evangelista, poi arrivarono anche Naomi Campbell e Christy Turlington, Helena Christensen e Claudia Schiffer, Eva Herzigova e Kate Moss: i nomi e i volti della bellezza anni ’90. Sul finire degli anni ’80, gli abiti di Versace diventano sempre più “colti”, influenzati dal rapporto diretto con l’arte: le sue ispirazioni vanno dalle avanguardie a Picasso, da Kandinskij a Klimt; sono molti anche i quadri che lo stilista colleziona nella sua continua ricerca del bello. Nel 1983 Versace è invitato al Victoria and Albert Museum di Londra per intervenire ad una conferenza sul suo stile, per parlare a un vasto gruppo studenti e presentare la mostra Arte e Moda. Nel 1986, il presidente della Repubbli257


ca italiana Francesco Cossiga conferisce a Versace il titolo di “Commendatore della Repubblica”, mentre il National Field Museum di Chicago gli dedica una retrospettiva sulle creazioni dell’ultimo decennio. Nel 1989 nasce la linea Versus, dedicata ai giovani e alternativa al modo di vestire convenzionale: Naomi Campbell fece scalpore con l’abito a stringhe di pelle nera della collezione Autunno/Inverno 1993, perché il suo look sdoganava il fetish e lo rendeva fashion. Il 15 Luglio del 1997 lo stilista è stato assassinato nella sua villa di Miami Beach da Andrew Cunanan, un serial killer. Dopo la sua morte, Donatella Versace ha assunto il ruolo di direttore artistico della maison e, insieme al fratello Santo, ha preso la guida di uno dei maggiori gruppi del lusso esistenti. Con le sue collezioni, ha aggiunto un suo tocco moderno e personale allo stile Versace. Se Gianni è stato un pioniere nell’uso dell’immagine per le campagne pubblicitarie, Donatella ne continua la tradizione. Collezione Principale 2012, Collezione Alta Moda Primavera/Estate 2012.

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IV. 9. 1 Collezione Alta Moda P/E 2012 Una mini sfilata di abiti dal sapore futuristico. Le creazioni di Versace sono dedicate a tutte le donne belle, sicure e altere, che comunque non rinunciano a quel tocco di sensualità e spregiudicatezza che contraddistingue la maison. Sulla scalinata color oro sfilano “abiti-bustier” a sirena in pizzo impreziositi da paillette, jais e ricami con dischi in metallo che enfatizzano il punto vita o il décolleté, micro abiti in lamé operato e completi biker in pelle dai colori lunari. La silhouette è slim e scolpita. I volumi sottolineano le forme e dischi di metallo color oro enfatizzano punto vita e spalle. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=u-c_3-qb-Pk

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Bibliografia Essenziale Gastel, Minnie, Il mito Versace. Una biografia, Baldini Castoldi Dalai ed., Milano 2007. Sitografia Essenziale http://gianniversacetribute.ning.com/

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IV. 10 Westwood Vivienne (Tintwistle, Derbyshire, Regno Unito, 1941) Sede/Sedi: Londra, Conduit St, 44. Sito aziendale: http://www.viviennewestwood.co.uk/ Nota Biografica Dopo il primo matrimonio e un figlio con Derek Westwood, iniziò una relazione con Malcolm McLaren, destinato a diventare il manager dei Sex Pistols. Nel 1971 insieme aprirono il loro primo negozio, Let it Rock, al 430 di King’s Road, Londra. Fu l’inizio di uno stile straordinario che continua a stupire e inventare nuove frontiere della moda ancora oggi. Il negozio prese diversi nomi nel corso degli anni, seguendo l’evoluzione stilistica di Vivienne: Sex, Too fast to live too young to die, Seditionaries e infine World’s End, rimasto fino ad oggi e conosciuto per la celebre insegna con l’orologio che gira al contrario. Negli anni ’70, Vivienne Weswtood contribuì a creare lo stile punk, che ancora oggi rimane come impronta indelebile e riaffiora ciclicamente nel suo lavoro, e includeva accessori sadomaso, lacci, spille da balia, lamette, catene di bicicletta e collari a punte metalliche, accostando a questi accessori inusuali, classici e tradizionali, elementi dello stile britannico, come il tessuto tartan, con un risultato complessivo ancora più sconvolgente. La prima sfilata di Vivienne Westwood a Londra è del Marzo 1981, con la collezione “Pirate”. I suoi modelli ora non traevano più ispirazione soltanto dalla moda di strada e dal mondo giovanile, ma da tradizione e tecnica; la sua ricerca, prendendo vari spunti dalla storia del costume del XVII e XVIII secolo, ha esplorato tutte le epoche: Vivienne Westwood è stata la prima stilista contemporanea a riproporre con determinazione, modernizzandoli: il “corsetto” e il “faux-cul”, elementi di sartoria che sembravano ormai sepolti in un tempo lontano. Nel 2004 il Victoria & Albert Museum di Londra allestisce una mostra itinerante dedicata alla designer, riconosciuta come icona della moda contemporanea. Tale mostra dura ben sette anni e si sposta dalla Cina, all’Australia e Stati Uniti. L’energia creativa della Westwood non è 261


priva di logica, ma ha origine dal suo amore per la storia, la pittura, l’impegno sociale e politico. Collezione Principale 2012, Collezione Primavera/Estate 2012.

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IV. 10. 1 Collezione P/E 2012 Le modelle camminano su una passerella circolare, posando e pavoneggiandosi in abiti brillanti e abiti da sposa che combinavano elementi del XVII secolo - principalmente i “corsetti” dell’epoca di Carlo II d’Inghilterra - con elementi di costume cinese. Le idee disparate avevano lo scopo di simboleggiare il matrimonio di Gaia - la madre terra, con la scienza; tuttavia il manifesto politico della Westwood potrebbe essersi perso nella traduzione in abiti. In superficie, questa collezione sembrava pura moda decadente. E’ stata una delle uscite più forti della Westwood ultimamente, con il pubblico che tifava sfrenatamente dopo la sfilata finale delle modelle. Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=6Fmkq63SBrI

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Bibliografia Essenziale Mulvagh, Jane, Vivienne Westwood. An Unfashionable Life, HarperCollins ed., London 1998. Wilcox, Claire, Vivienne Westwood. Dal Punk alla Couture, Skira ed., Milano 2007. Sitografia Essenziale http://www.vam.ac.uk/vastatic/microsites/1231_vivienne_ westwood/ http://www.westwoodevents.com/

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Capitolo V Il Progetto V.1. Steampunk Lo Steampunk è un filone della narrativa fantascientifica ambientato generalmente nell’Ottocento e in particolare nella Londra Vittoriana tanto cara a Arthur Conan Doyle1 e Herbert George Wells2, visto come un mondo anacronistico, a volte un’ucronia (storia alternativa, fanta-storia), in cui armi e strumentazioni vengono azionate dalla forza motrice del vapore (steam) anziché dall’energia elettrica, dove i computer sono completamente analogici o enormi apparati magnetici sono in grado di modificare l’orbita lunare. Un modo per descrivere l’atmosfera Steampunk risiede nello slogan: “come sarebbe stato il passato se il futuro fosse arrivato prima”. Lo Steampunk è considerato un sottogenere della fantascienza, diventato un termine di uso comune per molte altre forme analoghe di narrativa fantastica (o speculative fiction) ambientate in secoli anche successivi all’Ottocento. Dalla fine degli anni Novanta l’etichetta di Steampunk ha superato i confini del regno della fantascienza vera e propria per essere applicata ad altre forme di fantastico, finendo con l’essere applicata anche a storie fantasy o con influssi horror. I maggiori esponenti di questo sottogenere sono: China Tom Miéville3 e Michael Swanwick4; inoltre il termine è stato usato per numerosi videogiochi e giochi di ruolo. Il termine Steampunk nasce, secondo la critica specializzata, con il romanzo “La notte dei Morlock” di Kevin Wayne Jeter5 (Morlock Night, 1979), secondo alcuni in contrapposizione con il nascente genere cyberpunk, di cui è però considerato una variante: piuttosto che enfatizzare i temi della distopia informatica, la robotica e la nanotecnologia della narrativa cyberpunk, lo Steampunk tende a concentrarsi più attentamente sulla tecnologia (autentica, teorica o cinematografica) dell’era vittoriana, con macchine a vapore, congegni meccanici e a orologeria, macchine differenziali. Si presenta dunque come il tripudio della meccanica in opposto all’elettronica cyberpunk.

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Malgrado la narrativa Steampunk sia nata e prevalentemente ambientata in scenari dell’età vittoriana, non si tratta di un requisito essenziale, tanto che ha trovato espansione nell’ambiente medioevale, nel genere fantasy e altrove. Benché vi siano precedenti piuttosto datati (come Herbert George Wells) nei generi del romanzo scientifico; lo Steampunk in quanto genere si sviluppa negli anni Ottanta del Novecento come una derivazione del cyberpunk o come reazione ad esso. Il romanzo “La macchina della realtà” (The Difference Engine, 1992) scritto da William Ford Gibson6 e Bruce Michael Sterling7 è considerato come quello che ha inspirato il termine Steampunk. In esso, i temi e i principi ispiratori delle storie cyberpunk di Gibson e Sterling sono applicati ad un’età vittoriana alternativa, nella quale, la macchina analitica di Charles Babbage8 è stata effettivamente costruita, causando l’inizio dell’era dell’informazione con oltre un secolo di anticipo. Altri retrodatano l’origine del concetto di Steampunk all’adattamento disneyano del “Ventimila leghe sotto i mari” (Vingt mille lieues sous les mers, 1870) di Jules Verne9, girato nel 1954 (regia di Richard Fleischer, Walt Disney Pictures, USA). In effetti il film fu una sorta di banco di prova del genere, con la sua consapevole scelta di mantenere un’ambientazione e un’atmosfera vittoriana invece di essere aggiornate. L’attuale crescente popolarità dello Steampunk è probabilmente dovuta in parte alle due serie a fumetti di Alan Oswald Moore10e Kevin O’Neill11: “La Lega degli Straordinari Gentlemen” (The League of Extraordinary Gentlemen, 1999), da cui più recentemente è stato tratto il film “La leggenda degli uomini straordinari” (The League of Extraordinary Gentlemen, 2003 - diretto da Stephen Norrington, 20th Century Fox - Angry Films, USA). Sono stati l’idea e i testi di Alan Oswald Moore a rendere le serie popolarissime; ma l’etichetta di Steampunk legata loro dai critici è stata per molti la prima occasione di venire a conoscenza del termine. Nello Steampunk vi sono due filoni principali, lo Steampunk storico e lo Steampunk fantasy: Lo Steampunk storico pende più verso la fantascienza, tratteggiando una storia alternativa, presentando luoghi e persone reali da una storia in cui si è sviluppata un’altra tecnologia. 266


Le ambientazioni più comuni dello Steampunk storico sono: l’epoca vittoriana (1837-1901) e l’epoca edoardiana (19011910), nonostante qualche esempio di Steampunk vittoriano possa risalire fino alla rivoluzione industriale (esempi di questo tipo comprendono il fumetto: “La Lega degli Straordinari Gentlemen” e il romanzo “La macchina della realtà”, già citati). Lo Steampunk fantasy, invece, lo colloca in un mondo del tutto immaginario, fantasy appunto, spesso popolato da creature fantastiche che convivono con la tecnologia propriamente Steampunk. L’etichetta di Steampunk fantasy è spesso applicata genericamente ad ogni opera di narrativa fantastica che combini la magia con la tecnologia del vapore o l’ingegneria meccanica. L’espressione Steamfantasy indica un’ambientazione fantasy dal sapore tecnologico dello Steampunk o dell’Age of Steam (l’Ottocento, l’Età del vapore) in cui i due elementi, Steampunk/Age of Steam e fantasy, siano ben bilanciati tra loro senza che uno soffochi l’altro. Tra gli esempi di Steampunk fantasy vi sono molti dei giochi di ruolo della serie “Final Fantasy” (prodotta da Square). Vi è poi un sottogenere che è ambientato in un ipotetico futuro in cui c’è un mondo ultratecnologico che somiglia al passato nell’estetica degli oggetti, ambienti e veicoli e nel modo di vestire; un esempio è il film disneyano: “Il pianeta del tesoro” (Treasure Planet, regia di Ron Clements, John Musker, Walt Disney Pictures, USA, 2002). Questo tipo di Steampunk può essere definito anche “retro-futurismo”. Il retro-futurismo fa riferimento a due tipi di produzioni che si sovrappongono e che possono essere indicate come: il «futuro visto dal passato» e il «passato non realizzato nel futuro»; il primo tipo di produzioni, quello del futuro visto dal passato, deriva direttamente dal domani ideato nella mente degli scrittori, artisti e registi che nell’ultimo secolo hanno tentato di disegnare un futuro tecnologico e utopistico; il secondo tipo di produzioni risulta meno aderente al concetto stesso di retro-futurismo, in quanto è contaminato dalla consapevolezza scientifica, tecnologica e sociale del presente. Appartengono a quest’ultimo correnti come quella appunto dello Steampunk, in cui la tecnologia avveniristica viene applicata ai tratti dell’epoca vittoriana. Le due produzioni non si riferiscono a momenti storici precisi ma si snodano lungo un futuro immaginario. 267


V.1.1. Moda Steampunk La moda Steampunk non ha canoni definiti; ma alla domanda: «cosa sarebbe successo se punk e goth fossero vissuti in epoca vittoriana?», le risposte possono includere: tagli alla moicana o massiccio ricorso al piercing, oppure corsetti e sottovesti a brandelli, o completi vittoriani con occhiali di protezione e stivali con fibbie a suola larga, o infine gli stili gotici: Elegant-Gothic Aristocrat e Elegant-Gothic Lolita. Si tratta di indumenti d’epoca in versione moderna, retro-futurista. Alcuni degli elementi più caratteristici che troviamo nella moda Steampunk sono: occhiali da aviatore, strumenti di misura: come orologi, antichi voltmetri, armi. Essendo ispirato principalmente al periodo vittoriano, gli abiti utilizzati sono tipici di quell’epoca; per gli uomini: redingote, gilet, bombette, cappelli a cilindro; mentre, per le donne: gonne lunghe e molto volume, sottolineato da crinoline, maniche a palloncino e principalmente il corsetto, giungendo alla tipica silhouette a clessidra, vita sottile (vitino da vespa) e fianchi arrotondati. Corsetti avvitati su gonnelloni alle caviglie, occhialini da pilota per guidare bizzarre mongolfiere e dirigibili; poi metallo, cuoio, catene e bulloni, preferibilmente: dorate, di rame, color marrone, terra, ma anche colori e motivi, propri dell’era vittoriana, come: il verde, il violetta, l’azzurro, bianchi e neri, enormi marchingegni meccanici e scenografie rubate a una Londra vittoriana futuribile.

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V.2. Steampunk Inspiration: Bibian Blue, Maya Hansen e Skin.Graft Designs Bibian Blue (Barcellona, Catalogna, Spagna) Sede/Sedi: Barcellona, Spagna, C/ Torres, 13. Sito aziendale: http://www.bibianblue.com/ Nota Biografica A Barcellona, Bibian Blue è una piccola leggenda: designer di moda molto interessante, specializzata in lingerie e corsetteria dallo stile abbastanza singolare. Bibian Blue, infatti, è particolarmente affezionata alle manifatture vintage, molto gradite anche a chi ama il fetish e il Burlesque. Colori vivaci, rifiniture eccentriche, dettagli stravaganti ed originalissimi. La sua popolarità è dovuta proprio all’aver dato nuovo vigore allo stile da Pin-up, mescolando elementi un po’ retrò con altri più moderni e glamour. Il suo negozio di Barcellona è una tappa obbligata per chi voglia dare un’occhiata ad indumenti sorprendenti e spettacolari. Bibian Blue ha iniziato la sua carriera frequentando diversi corsi, prima di disegno grafico, poi di make-up artistico ed infine di moda. Il marchio Bibian Blue è stato lanciato a Barcellona nell’Ottobre del 2000 e la sua originalità è stata riconosciuta fin da subito. Il suo atelier-boutique è ormai un punto di riferimento della moda e un’imperdibile luogo per lo shopping nel centro di Barcellona. Crea nuovi stili, reinventa e modernizza il corsetto - capo indispensabile e unicamente femminile, con un design esclusivo e originale. Le sue collezioni sono quindi basate sul glamour, sul Burlesque, sullo Steampunk e Pin-up. Collezione Principale 2009, Steamdream (collezione Steampunk 2009) Cfr. http://www.bibianblue.com/home_bb11-eng.html

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Sitografia Essenziale http://www.curiositesesthetiques.com/2011/06/interview-bibian-blue.html

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Maya Hansen (Madrid, Spagna, 1978) Sede/Sedi: Madrid, Spagna, Calle de Lenguas, 14. Sito aziendale: http://www.mayahansen.com/ Nota Biografica Maya Hansen è una giovane fashion designer specializzata nelle produzione di raffinata corsetteria. Nelle sue collezioni niente semplicità, la ricchezza è il punto focale delle sue eclettiche creazioni. Il suo debutto nel mondo nella moda avviene nel 2002 durante la settimana della Moda di Barcellona; ma è solo nel 2006 che avviene la svolta e si specializza nella corsetteria. La ricerca di Maya Hansen nell’ambito della corsetteria non è puramente estetica: l’obiettivo è quello di adattare e rinnovare questo capo in modo attuale, andando incontro alle esigenze e ai gusti delle donne del XXI secolo. Per questo viene impiegato molto tempo per sperimentare, provare e tentare, per ottenere risultati sempre migliori, originali e innovativi, grazie alla ricerca dei tessuti e delle tecniche adatte alla realizzazione dei capi. Per alcuni pezzi vengono usati fino a sei strati di stoffa, per mantenere il capo rigido e durevole. Nella collezione troviamo diverse linee: la Linea-sposa: ricchi corpetti che donano al busto una forma perfetta; la Linea-black: la più seducente ispirata allo stile gotico, Burlesque e ad un fascino classico; la Linea-couture: quella più ricca di dettagli, con le lavorazioni più complesse e gli abbinamenti più arditi, con piume, pizzi e perle, ed infine, la linea divertente, coloratissima, la più giovane e vivace ispirata: ai dolci, con ciliegie, fragole, cuori e gattini, illustrazioni stile vintage e stile tattoo - la linea più carina della collezione. Collezione Principale 2010, SteamPunk (collezione Autunno/Inverno 2010/2011) Cfr.http://www.youtube.com/watch?v=YuAdoGBFD-U Cfr.http://www.youtube.com/watch?v=fkcgNpaphww&featu re=related

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Sitografia Essenziale http://www.lingerietalk.com/2010/07/13/maya-hansen-corsetry/steampunk-fashion-maya-hansens-futuristic-corsets-for2010-11.html

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Skin.Graft Designs Sede/sedi: Los Angeles, West 4th St., 125. Sito aziendale: http://skingraftdesigns.com/ Nota Biografica Nuovo brand di Los Angeles nato nel 2005 ma effettivamente lanciato sul mercato della moda nel 2009 con la sua partecipazione alla “LA Fashion Week”. I tre: Johnny Cota, Katie Kay e Cassidy Haley, con l’abbandono di quest’ultimo l’anno scorso per continuare la sua carriera di performer, sono rimasti in due. Ciò non ha di certo fermato la loro voglia di creare. Per la collezione 2010 si sono ispirati all’aviatrice Amelia Earhart e agli uccelli in volo, con profusione di piume e dispiego massiccio di ornamenti. Specializzati in abbigliamento da uomo e da donna e accessori in pelle, debuttarono con una collezione di ispirazione Steampunk con insolite imbracature munite di fondine (sempre di pelle) e portafogli sospesi. S’ispirano ai romanzi e ai racconti delle fate, fusi in sogni futuristici. Recuperano suggestioni morte, passate, per ridargli una nuova vita nel presente. Il loro simbolo è una testa di cervo, che soggiorna (vera) nel negozio che hanno aperto il 3 Marzo 2009 nella Downtown di Los Angeles. Il significato di Skin.Graft è: Innesto epidermico, e riassume perfettamente lo spirito del brand. Collezione Principale 2010, SteamPunk (collezione Primavera/Estate 2010). Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=fTjqmsO7WzQ

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Sitografia Essenziale http://www.labelnetworks.com/fashion/skin_graft_07.html http://www.twistedlamb.com/2009/10/skingraft-designsss10-la-fashion-week.html

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V.3. Descrizione Progetto: MetaLPunK Corsets Progettazione di tavole disegnate a mano con l’uso di pennarelli-pantoni, successivamente completati in formato digitale. Corsetti ispirati alla moda Steampunk - abbigliamento d’epoca (Era Vittoriana) in versione moderna; realizzati principalmente con l’utilizzo di pelle/similpelle e tessuti gommati (latex), rigorosamente in nero e metallic-silver; applicazione di elementi/accessori metallici quali: fibbie, ganci, anelli, catene, borchie; il tutto completato da larghi polsini ornati da borchie, fibbie metalliche e stringhe, leggings, anch’essi in similpelle e l’aggiunta finale di accessori tipici dello stile Steampunk, come l’orologio da taschino con cassa color bronzo, vetro affumicato e catena. L’esito finale è riassunto da tre modelli di corsetti realizzati personalmente: 1. PunkPanier Corset: corsetto in similpelle black & silver con gonna bombata sui fianchi - effetto panier, imbottito e steccato con stecche flessibili a spirale piatta in acciaio; collare con catenine metalliche silver sul davanti, che si agganciano tramite anelli al corsetto e chiuso dietro con fibbia metallica silver; Dietro: chiusura a stringhe con anelli metallici silver; Panier guarnito davanti e dietro da catenine metalliche silver. 2. BracesPunk Corset: corsetto in similpelle coccodrillo black, con stecche piatte in acciaio, alte/larghe bretelle e fianchi imbottiti/steccati, coda/falda con spacchetto sul dietro; Davanti: chiusura a stringhe con ganci metallici silver, Dietro: chiusura con fibbie metalliche silver. 3. LatexMetal Corset: corsetto in latex black, con stecche piatte in acciaio, arricchito davanti e dietro da un mix di bretelle realizzate in strisce di latex e con catene metalliche silver; Davanti: chiusura a stringhe con anelli metallici silver.

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V.3.1. Look-Book Progettuale Visual Inspirations Elaborati-Tavole: 1. PunkPanier Corset 2. BracesPunk Corset 3. LatexMetal Corset

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V.3.2. Look-Book Fotografico MetaLPunK CorsetS

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Note Arthur Conan Doyle (Edimburgo 1859 - Crowborough, Sussex 1930). Scrittore scozzese di origine irlandese, compie gli studi superiori in una scuola cattolica (Stonyhurst Jesuit College, Lancashire). Conseguita la laurea nel 1881, si iscrive a un master in Chirurgia e inizia a lavorare presso l’ospedale di Edimburgo. Le ristrettezze economiche lo costringono ad imbarcarsi come medico di bordo su una baleniera, trascorrendo alcuni mesi fra i ghiacci dell’Artico e le coste dell’Africa occidentale. Rientrato in patria, apre con scarso successo uno studio medico nel Southsea, elegante quartiere residenziale di Portsmouth, Inghilterra, impiegando il tempo libero nella scrittura di racconti polizieschi perlopiù rimasti inediti. Proprio in questo periodo Arthur Conan Doyle comincia a scrivere le avventure di Holmes: in breve le storie di questo personaggio iniziano ad riscontrare discreto successo presso il pubblico britannico. Il manoscritto di Uno Studio in rosso (1887), il primo racconto che vede come protagonista il detective Sherlock Holmes e come narratore il fedele dottor Watson; viene però respinto da tre importanti editori, finché una piccola casa editrice s’impegna a pubblicare il libro per un compenso irrisorio. Nel 1890, l’editore del celebre periodico di Philadelphia «Lippincott’s Monthly Magazine», s’innamora dell’eccentrico detective chiedendo all’autore di scrivere un romanzo a puntate con lo stesso protagonista per l’edizione inglese della rivista; a questa prima opera fa seguito la sua seconda avventura: Il Segno dei quattro (1890), opera che vale a Arthur Conan Doyle e al suo Sherlock Holmes enormi successi, tanto da non avere eguali nella storia della letteratura poliziesca. Nel giro di un paio d’anni l’onnipresente investigatore diverrà talmente insopportabile al suo creatore (insofferente all’incredibile successo ottenuto in un genere considerato “minore”) che in Il Problema finale (1893) tenterà di eliminarlo definitivamente, facendolo precipitare nelle tumultuose cascate di Reichenbach per mano del suo acerrimo nemico professor Moriarty; epilogo che provocherà una violenta reazione da parte del suo pubblico. Nel frattempo, tali sono le pressioni dell’editore e l’insistenza di centinaia di lettori, che lo scrittore si vede costretto a restituire loro l’idolatrato detective con Il Mastino di Baskerville (1902), decidendo di presentare la nuova avventura come precedente alla fatale caduta. D. muore il 30 Luglio del 1930 nella sua casa in campagna colto da un improvviso attacco cardiaco; invece, l’immortale Sherlock Holmes, vero e proprio mito moderno e inesauribile continuerà ad essere fonte d’ispirazione per romanzieri, sceneggiatori, registi teatrali e cinematografici. Doyle, Arthur Conan, Il Mastino dei Baskerville, Feltrinelli ed., Milano 2008, p. 9-13. 1

Herbert George Wells (Bromley, 1866 - Londra, 1946). Scrittore britannico tra i più popolari della sua epoca, studiò biologia alla Normal School of Science di Londra sotto il grande studioso, umanista ed evoluzionista Thomas Henry Huxley (1825-1895). Nel 1895 riesce a pubblicare contemporaneamente un volume di racconti: Il Bacillo rubato e altri casi e i capolavori La Macchina del tempo e La Visita meravigliosa, ed è subito successo strepitoso. La serie di 2

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romanzi continua così a ritmo serrato e vengono alla luce in rapida successione: L’Isola del dottor Moreau (1895), L’Uomo invisibile (1897), La Guerra dei mondi (1897), la cui diffusione lo renderanno autore di fama mondiale; da La Guerra dei mondi, fu tratto un dramma radiofonico omonimo interpretato da Orson Welles (1915-1985), artista più interessante del Novecento in ambito teatrale, radiofonico e cinematografico), come una radiocronaca, talmente realistica e convincente da gettare nel panico milioni di ascoltatori americani; non si accorsero, infatti, che si trattava di una finzione e credettero invece che la Terra stesse realmente subendo lo sbarco di una flotta di bellicose astronavi marziane. Herbert George Wells muore a Londra il 13 Agosto 1946. E’ oggi considerato il fondatore della fantascienza vera e propria, genere in cui Herbert George Wells è davvero esemplare. Danahay, Martin A., Wells, Herbert, George, The war of the worlds, Broadview Press ed., Canada 2003, p. 11-21. China Tom Miéville (Norwich, Inghilterra, 1972). Scrittore inglese di romanzi fantasy e fantascienza. A diciotto anni si è trasferito in Egitto, dove ha insegnato inglese e si è interessato alla cultura araba e alla situazione politica mediorientale. È laureato all’Università di Cambridge in Antropologia sociale e ha conseguito un master presso la London School of Economics. E’ tra i vincitori del premio Hugo (Hugo Award) - in omaggio a Hugo Gernsback (1884-1967), fondatore nel 1926 della rivista «Amazing Stories»: la prima di fantascienza del mondo. I premi dell’edizione 2010 sono stati assegnati durante la “68° World Science Fiction Convention” (Worldcon) - congresso mondiale degli appassionati di fantascienza, svoltasi regolarmente dal 1939; il premio viene aggiudicato all’autore più votato dal pubblico presente, che premia i migliori lavori di fantascienza e fantasy. China Tom Miéville è uno degli autori più eclettici della science fiction. Bould, Mark, Butler, Andrew, Fifty Key Figures in Science Fiction, Routledge ed., New York 2009, p. 15760. 3

Michael Swanwick (Schenectady, New York, 1950). Scrittore statunitense, autore di fantascienza e fantasy. Michael Swanwick, nei suoi romanzi, spazia dal fantasy alla fantascienza, passando per sottogeneri come il New Weird che si caratterizza per la deliberata contaminazione di fantasy, fantascienza e horror - e lo Steampunk. V. http://www.michaelswanwick.com/. 4

Kevin Wayne Jeter (Los Angeles, 1950). Autore statunitense di fantascienza, famoso soprattutto per i suoi romanzi dell’orrore. Laureato in sociologia all’Università di San Francisco, prima di diventare scrittore ha lavorato anche come assistente sociale. Nel 1979 Kevin Wayne Jeter ha scritto un seguito de La Macchina del tempo di Herbert George Wells, intitolato La Notte dei Morlock (Morlock Night). Le Macchine infernali (Infernal Devices) del 1987, è un romanzo Steampunk: un filone narrativo di cui lo stesso Kevin Wayne Jeter avrebbe inventato il nome quell’anno e di cui fa parte a buon diritto anche La Notte dei Morlock; si tratta di romanzi che, pur essendo tipicamente fantascientifici e sfruttando temi classici come il viaggio nel tempo e 5

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l’invenzione prodigiosa, fanno riferimento ai capostipiti del genere (Herbert George Wells, Jules Verne, Arthur Conan Doyle) per immergersi con ironia nel mondo vittoriano che generò quelle fantasie archetipali. V. http://www. fantasticfiction.co.uk/j/k-w-jeter/. William Ford Gibson (Conway, South Carolina, 1948). Scrittore e autore di fantascienza statunitense, considerato il padre del filone cyberpunk una corrente letteraria e artistica nata nella prima metà degli anni ottanta nell’ambito della fantascienza, di cui è divenuto un sottogenere. Tra il 1984 e il 1988 vengono fuori le tre opere che daranno successo a William Gibson; si tratta della Trilogia dello Sprawl, composta da: Neuromante (Neuromancer), vincitore del Premio Hugo (1985); Giù nel ciberspazi (Count Zero, 1986) e Monna Lisa Cyberpunk (Mona Lisa Overdrive, 1988). Nel 1992 esce il romanzo La Macchina della realtà (The Difference Engine), scritto con Bruce Sterling: la storia è un’ucronia (storia alternativa o fanta-storia, genere di narrativa fantastica basata sulla premessa generale che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello reale), ambientata in un’Inghilterra vittoriana di metà Ottocento alternativa. Il rapporto con la tecnologia rimane centrale, ma, i temi trattati e l’ambiente descritto hanno portato molti a vedere in questo romanzo l’inizio del sottogenere Steampunk. Henthorne, Tom, William Gibson: A Literary Companion, Mcfarland & Co Inc. ed., USA 2011, p. 5-16. 6

Bruce Michael Sterling (Brownsville, Texas, 1954). Autore di fantascienza statunitense. Dopo essersi laureato in Giornalismo all’University of Texas di Austin, lavora per alcuni anni per il “Legislative Council of Texas” come correttore di bozze, e, dopo aver trascorso alcuni anni in India, inizia l’attività di giornalista tenendo una regolare rubrica di divulgazione scientifica sul «Magazine of Fantasy and Science-Fiction» ed una colonna di critica letteraria per «Science-Fiction Eye». Viene così a contatto col “Turkey City Writer’s Workshop”: piccolo gruppo appassionato di fantascienza che lo spinge nel 1976 a pubblicare il suo primo racconto di science fiction: “Man-Made Self”, pubblicato all’interno di «Lone Star Universe» - un’antologia di fantascienza di autori texani. Ma è nel 1986, con la pubblicazione di “Mirrorshades”: volume di racconti, una sorta di manifesto del cyberpunk, che diviene uno dei massimi rappresentanti e ideologi. Successivamente, continua a spostarsi su nuovi terreni narrativi, abbracciando un nuovo genere: lo Steampunk, e si dedica inoltre a saggi e articoli giornalistici, in gran parte volti a difendere la libertà della nascente rete internet. V. http://www.realdarkdream.com/ letteratura/brucesterling.html. 7

Charles Babbage (Londra, 1791-1871). Matematico e filosofo inglese, a lui si deve la descrizione del primo calcolatore digitale automatico di uso generale, la cosiddetta “macchina analitica”: modello per tutti i successivi calcolatori digitali universali. Charles Babbage, aveva conosciuto il “telaio di Jacquard” nei suoi studi sulle manifatture, e da questa invenzione aveva ricavato alcuni concetti che gli furono utili nell’ideazione della sua macchina 8

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(analitica); per questa macchina, precorrendo i tempi, aveva immaginato la possibilità d’introdurre da un lato: le regole (gli algoritmi) e dall’altro i valori (le variabili e le costanti). Il modo più semplice per farlo consisteva nell’utilizzo di schede o nastri perforati in tutto simili a quelli dei telai di Jacquard. La macchina doveva essere in grado di eseguire operazioni ricorrenti nel calcolo delle tavole e, per questo, dovevano esserci varie schede, una per ogni operazione da compiere, che venivano unite in un nastro nella opportuna sequenza; di fatto, questo era il programma di calcolo (operation cards). Altre schede perforate contenevano: i dati, variabili e costanti e venivano a costituire un secondo nastro (variable cards). Realizzò inoltre una “macchina alle differenze”, in grado di svolgere calcoli più specializzati. Si rimane colpiti dalla modernità dei concetti che stanno alla base di questa macchina, gli stessi che oggi, con tecnologia elettronica, sono alla base dei calcolatori. Charles Babbage non vedrà mai funzionare la sua macchina analitica; mentre la “macchina alle differenze” sarà completata solo nel 1989; esposta oggi al Museo della Scienza (Science Museum) di Londra. Bisognerà, dunque, aspettare la seconda metà del Novecento, per vedere riconosciuta l’opera di questo “visionario” ottocentesco. Collier, Bruce, MacLachlan, James, Charles Babbage and the Engines of Perfection, Oxford Univerity Press ed., New York 1998, p. 9-18. Jules Verne (Nantes, 1828 - Amiens, 1905). Scrittore francese, considerato oggi tra i più influenti autori di storie per ragazzi, e con i suoi romanzi scientifici, uno dei padri della moderna fantascienza. Il successo giunse nel 1863 quando si dedicò al racconto d’avventura. Si laurea nel 1850. Nel 1862 intraprese la carriera di scrittore (carriera che continuò fino al 19059. Il 16 Marzo 1867 (in compagnia del fratello Paul) s’imbarcò sul Great Eastern grande battello a vapore a Liverpool, esperienza da cui ricavò il romanzo: Una Città galleggiante (1870); nello stesso anno termina uno dei suoi romanzi più famosi: Ventimila Leghe sotto i mari. Nel 1886, iniziò per Jules Verne quello da lui stesso definito come il “periodo nero” della sua vita; si susseguirono le morti di persone molto vicine a lui; inoltre, fu costretto a terminare i suoi giorni su di una carrozzella, in seguito all’attentato da parte del nipote, con problemi psichici, che gambizzò lo scrittore. Gli scritti di Jules Verne divennero a questo punto meno brillanti, l’inventiva che lo aveva contraddistinto, letterariamente e scientificamente, sembrava averlo abbandonato. Nel 1888, Jules Verne divenne consigliere comunale di Amiens e morì nel 1905, a settantasette anni, ormai quasi cieco, sofferente di diabete e colpito da paralisi. V. http://www. jules-verne.net/ita/jules-verne-biographie.html. 9

Alan Oswald Moore (Northampton, Inghilterra, 1953) è un fumettista, scrittore e compositore britannico. Ben presto scopre il fumetto americano di genere super-eroico: è il 1961 quando inizia a leggere le storie della cosiddetta Silver Age (periodo della storia dei fumetti statunitensi - comics, che dura dal 1956 al triennio 1969-1971). Le sue prime letture riguardano principalmente Superman (1938), cui si aggiungono i Fantastici Quattro (1961) e tutto il materiale prodotto da Marvel e DC Comics. Ben presto, decise di iniziare a 10

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lavorare nel mondo del fumetto come professionista, inviando i suoi progetti a diverse testate del settore che, pur non essendo retribuito, lo aiutarono comunque nel migliorare la sua capacità nel rispettare le scadenze. Grazie al suo amico Steve Moore (1978) iniziò a lavorare per la Marvel UK e nel frattempo anche per la rivista «Underground 2000AD», per la quale realizzò episodi di Tharg’s Future Shocks e Ro-Jaws’ Robo Tales e creò il personaggio di Abelard Snazz (l’uomo con il cervello a due piani, 1980-83). Nel 1983 iniziò a collaborare con la DC Comics e dovette lasciare la rivista «Warrior». In seguito, i rapporti con la DC s’incrinarono e dopo aver concluso V per Vendetta, verso la fine degli anni Ottanta si ritirò dal mondo del fumetto. Aa. Vv., Alan Moore. Ritratto di uno straordinario gentleman, Black Velvet ed., Bologna 2003. Kevin O’Neill (Londra, 1953). A metà degli anni ‘70 entra nello staff di disegnatori di «2000AD» diventando uno degli autori di punta della rivista inglese per cui disegna numerose storie e crea insieme allo sceneggiatore Patt Mills, la serie “Nemesis the Warlock”. Nel 1987, per il marchio “Epic Comics” della Marvel, crea, sempre con Patt Mills, la serie di “Marshall Law” che continuerà poi le pubblicazioni nel corso degli anni su varie testate e diversi editori. La grande e meritata fama di Kevin O’Neill è legata alla pluri-premiata serie: La Lega degli Straordinari Gentlemen (The League of Extraordinary Gentlemen) ideata insieme allo sceneggiatore Alan Moore nel 1999 (edita sotto l’etichetta America’s Best Comics dalla Wildstorm/DC), che riunisce insieme alcuni personaggi dei romanzi vittoriani in un mix unico di rimandi letterari e avventura. Nel 2003 è stato tratto un film con protagonista Sean Connery giunto in Italia, intitolato: La Leggenda degli uomini straordinari (The League of Extraordinary Gentlemen). Disegnatore capace di coniugare modernità e tradizione, Kevin O’Neill, è senza alcun dubbio uno dei disegnatori dal segno più originale e distintivo nel panorama contemporaneo dei comics. V. http://www.barbelith.com/cgi-bin/articles/00000018.shtml 11

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Indice delle Illustrazioni Fig. 1

Scarificazione, incisione dell’epidermide me- p. 299 diante uno strumento affilato che, una volta cicatrizzate, lasciano sull’epidermide stessa un cheloide (cicatrice).

Fig. 2

Padaung, donna giraffa, deformazioni del collo p. 299 praticate attraverso l’applicazione progressiva di anelli, collari che modificano irreversibilmente la struttura ossea del collo stesso, Birmania.

Fig. 3

Orlan, Omniprèsence (settimo intervento), New p. 300 York, 1993 (foto sinistra); Orlan, innesto sul viso di due protesi destinate al rialzo degli zigomi, poste per sua volontà sui lati della fronte (foto destra).

Fig. 4

Franko B, l’artista del sangue (foto destra). Fran- p. 300 ko B, I Miss You, Tate Modern Gallery, (foto centrale - sinistra), Londra, 2003/2007.

Fig. 5

Jana Sterbak, Vanitas: Flesh Dress for an Albi- p. 300 no Anorectic (1987), vestito realizzato con trenta chili di bistecche di manzo cucite tra di loro (foto destra), Walker Art Center (Minneapolis, Stati Uniti), Centre Pompidou (Parigi); Jana Sterbak, Tèlècommande (1989), robe-machine visionaria e sospesa nel tempo, una crinolina di foggia ottocentesca realizzata in alluminio, una sorta di gabbia all’interno della quale il corpo femminile viene sospeso (foto centrale), Museu d’Art Contemporani (Barcellona, Spagna); Jana Sterbak, Dame aux chiens (Défence) (1995), affronta il discorso dell’assoggettamento del corpo o meglio del limite in cui esso si districa (foto sinistra), Fundació Suñol, Contemporary Art (Barcellona, Spagna).

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Fig. 6

Stelarc, The Body Suspensions (1976-1988), so- p. 301 spensione con ganci conficcati nella pelle (foto in alto-destra); Stelarc, The Third Hand (La terza mano, 1981-1994), mano artificiale fissata al braccio destro come elemento aggiuntivo e non come sostituzione prostetica (foto in basso-destra); Stelarc, Ear on Arm (Orecchio nel braccio, 2003/2006), installazione di un terzo orecchio per amplificarne le funzioni (foto sinistra).

Fig. 7

Matthew Barney, Cremaster 1 (foto in alto-de- p. 301 stra), 1995; Cremaster 2 (foto in alto-sinistra), 1999; Cremaster 3 (foto in basso-destra), 2002; Cremaster 4 (foto in basso-centrale), 1994; Cremaster 5 (foto in basdso-sinistra), 1995.

Fig. 8

Elaine Davidson (Brasile, 49 anni), la donna con p. 302 più piercing al corpo, (6.925 interni ed esterni) con un peso totale di gioielli pari a 3 chilogrammi - The World Record Holder For Body Piercings.

Fig. 9

Etienne Dumont (60 anni), l’uomo che ha trasfor- p. 302 mato il suo corpo in un’opera d’arte: è ricoperto di tatuaggi coloratissimi e molteplici buchi/protesi in tutto il volto, la cosa più impressionante e curiosa: un’enorme buco dal quale è possibile vedere tutta l’arcata dentale inferiore.

Fig. 10

Rick Genest (Canada, 26 anni) - Zombie Boy, per p. 303 un tatuaggio che copre la maggior parte del suo corpo che lo rende simile ad un cadavere (foto destra).

Fig. 11

Corset piercing, serie di piercing, con buchi tem- p. 303 poranei o definitivi posizionati su due linee parallele dritte o ricurve, in ogni buco è collocato un cerchietto attraverso il quale viene fatto passare un nastrino.

Fig. 12

Fakir Musafar (Roland Loomis, 55 anni), capo p. 304 spirituale di quel movimento che egli stesso ha

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definito Modern Primitives - pratiche di decorazione corporea (body-play). Fig. 13

Ethel Granger (1905-1982), la più famosa tight- p. 304 lacer, ridusse la misura della sua vita da 59 centimetri a 33 centimetri.

Fig. 14

Cathie Jung (North Carolina, 75 anni), la regi- p. 305 na del corsetto, tight-lacer, attualmente detiene il primato (da vivente) del girovita più sottile al mondo di 38 centimetri (foto destra); Cathie Jung e il sarto/corsettiere (foto centrale) Jeroen van der Klis (Amsterdam, 1956); Cathie Jung in un bellissimo corsetto argentato (foto in alto-sinistra); particolare girovita (foto in basso-sinistra).

Fig. 15

Mr. Pearl (Pullin Mark - Sud Africa, 1962), il p. 305 mago dei corsetti, tight-lacer dei giorni nostri, (foto destra), Photograph by Michael James O’Brien, 1993; Dita von Teese in un corsetto by Mr. Pearl (foto centrale), Photograph by Michael James O’Brien; Dita von Teese & Mr. Pearl (foto sinistra).

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Fig. 19

Mr Pearl, Corsetto della collezione Thierry Mu- p. 305 gler “Les Insectes” Primavera/Estate 1997 (foto destra); Mr Pearl, busto per l’abito con cui la ex Spice, Victoria Adams, sposa il calciatore David Beckham, 1999 (foto sinistra). Mr. Pearl, Black corset, Photograph by Michael p. 306 James O’Brien. Mr. Pearl, Corset-dress, abito lungo di colore p. 307 rosa indossato in passerella da Sophie Dahl per la collezione Jean Paul Gaultier, Haute Couture Primavera/Estate 2001. Kylie Minogue indossa un corsetto blu creato p. 307 da Mr. Pearl ricamato con più di 500.000 cristalli Swarovski Swarovski e perline, «Showgirl 353


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Tour» 2005 (foto destra); Mr Pearl, Bike Corset di metallo della collezione “Thierry Mugler” Primavera/Estate 1993, , indossato da Beyoncè per promuovere l’album «I’m… Sasha Fierce» 2008 (foto sinistra). Mr Pearl, Guêpière color carne con dettagli neri p. 307 indossata da Dita Von Teese per la sfilata Jean Paul Gaultier - Haute Couture Autunno/Inverno 2010 Paris, ha un ricamo a forma di colonna vertebrale sulla schiena, ricorda le ossa di uno scheletro e ridisegna il suo corpo a clessidra. Iron Corset (strumento di tortura), Musèe Natio- p. 308 nal du Moyen Age, Parigi, c. 1590. Corpetto in ferro, XVI secolo, Francia.

p. 308

Scuola francese del secolo XVI, Caterina de’ Me- p. 309 dici 1547-59, presenza nell’abito del verdugadin conico di gusto spagnolo, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, Firenze. Marcus Gheeraerts il Giovane, Elisabetta I d’In- p. 309 ghilterra, presenza nell’abito del vertugadin à tambour (Francia, Inghilterra) risulta ulteriormente aumentato orizzontalmente, il corsetto è scollato e ornato da un collaretto con grandi increspature in pizzo rialzato dietro la nuca a forma di ventaglio (alla Medici) e la punta estremamente lunga. La figura della sovrana appare completamente immobilizzata sotto la pesantezza delle veste, National Portrait Gallery, Londra, c. 1592. Stecche del XVII secolo, una lamina d’osso o di p. 310 metallo posta in mezzo al busto sul davanti, ne assicura la rigidezza, scolpita o dipinta, in avorio o acciaio, è amovibile e a volte nasconde un pugnale. Verso la fine del Seicento la moda della stecca centrale è soppiantata dall’uso del fanone di balena, più leggero, che permette di moltipli-


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care le lamine. Busto staccato modello francese, allacciato da- p. 310 vanti e dietro, con spalline e a volte le maniche, il davanti prolunga a punta, il rovescio è di tela impunturata, il diritto è in damasco, taffettà, satin o seta ricamata, lamé d’oro o d’argento, 1750. Corset, Panier, Chemise, corsetto in raso di co- p. 311 tone color marrone con all’interno 162 stecche di balena, panier ovale imbottito, chemise in lino, 1760-80, The Kyoto Costume Institute (Photo by Takashi Hatakeyama). Pettorina, satin di seta, decorato con seta policro- p. 312 ma, ciniglia e fiori di frange, 1760-70, Svizzera, The Kyoto Costume Institute (Photo by Toru Kogure). Abito di corte ricamato in seta e filato d’argento, p. 312 Inghilterra, «Victoria and Albert Museum» Londra, 1744. Busto (destra), taffetà di seta beige trapuntato p. 313 a motivi ornamentali, allacciatura davanti con stringhe e asole realizzate a mano, davanti, dietro e ai lati rinforzato con stecche di balena, spalline allacciate con nastri, c. 1785, Inghilterra; Busto accanto (centro), chintz di lino bianco, davanti, dietro e ai lati rinforzato con stecche di balena, molle di metallo sui lati, allacciato davanti, spalline allacciate con nastri, c. 1790; Busto per bambina (in basso), lino beige, interamente rinforzato con stecche di balena, allacciato dietro, c. 1785, Inghilterra; Busto (in alto), traliccio beige con spalline continue, allacciatura davanti con stringhe e asole realizzate a mano, interamente rinforzato con stecche di balena, c. 1785, Inghilterra. Corsetto bianco in satin di cotone trapuntato con p. 313 stecche di metallo e d’osso, busto: 80 cm, vita: 49 355


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cm, 1820-30. Busto, particolare del dorso allacciato, invenzio- p. 314 ne dell’occhiello metallico avvenuta nel 1828 pone rimedio agli inconvenienti causati dai semplici buchi fatti nel tessuto e che le asole non proteggevano a sufficienza, modello inglese, 187980. Corsetto disegnato nel 1851 in modo da limitare p. 315 la costrizione del corpo femminile, consentiva comunque di ridurre il girovita fino a cinquanta centimetri. Corsetto in seta, rinforzato con stecche di balena, p. 315 modello realizzato in Francia e in Gran Bretagna, 1870-90. Corsetto, satin di seta azzurro, stecche di metallo p. 316 e di balena, busto: 76 cm., vita: 49 cm., c. 188090. Corsetto in satin di seta rosso di fattura francese, p. 316 impreziosito da un bordo di pizzo nero, 1890. Crinolina, cotone bianco con diciannove cerchi p. 317 di filo di ferro, diametro da sinistra a destra: 105 cm., da davanti a dietro: 98 cm., circonferenza dell’orlo: 318 cm., 1865-69. Crinolina (foto destra), cotone rosso con dodici p. 317 cerchi di ferro, diametro da sinistra a destra: 58 cm., da davanti a dietro: 59 cm., circonferenza dell’orlo: 189 cm., c. 1875. Crinolina (foto sinistra), cotone bianco e viola con dodici cerchi di filo di ferro, diametro da sinistra a destra: 73 cm., da davanti a dietro: 81 cm., circonferenza dell’orlo: 244 cm., c. 1865. Corsetto medico, modello americano, c. 1890.

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Busto per gravidanza e allattamento, modello p. 318 americano, 1908. Tournure, cotone a righe rosse e marroni con filo p. 319 di ferro, c. 1870-80 (foto destra); Tournure, cotone a righe marroni e beige con tredici fili di ferro; corsetto in satin di seta nero con nastri di seta gialla e ricami; camicetta e mutandoni di cotone bianco, c. 1870-90 (foto sinistra). Charles Frederick Worth, abito da sera di raso e p. 319 tulle di seta crema, cristalli e piumino di cigno, composto da gonna e due corpetti, New York, Museum of the City of New York, c. 1862 (foto in alto a sinistra);Charles Frederick Worth, c. 1874 (foto in alto a destra), The Kyoto Costume Institute (photo by Takashi Hatakeyama). Charles Frederick Worth, c. 1883 (foto in basso a sinistra), The Kyoto Costume Institute (photo by Takashi Hatakeyama). Charles Frederick Worth, c. 1892 (foto in basso a destra), larga manica a gigot, gonfia all’altezza delle spalle e stretta sul resto del braccio. The Kyoto Costume Institute (photo by Kazumi Kurigami). The back page, by Ronald Searle, The Corset- p. 320 fashioning the body, «The Newyorker» 20 Marzo 2000, p. 146. Paul Poiret, jupe-culotte, pantaloni da harem da p. 321 portare come abito da casa, sotto una tunica che arrivava al polpaccio, «L’Illustration» 18 Febbraio 1911 (foto destra); La Festa della Milleduesima Notte, Denise Poiret indossa culotte e corpetto di mussolina di seta color sabbia e una gonna svasata di tessuto d’oro rifinita da una frangia, 1912 (foto sinistra). Paul Poiret, abito “La Mille ed Deuxième Nuit”, p. 321 lamé argento e verde con pantaloni da harem stretti alla caviglia, e corpetto (particolare) ornato 357


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da una serie di pietre e perle in celluloide in sfumature blu, verdi, rosse e gialle. (Photograph by The Metropolitan Museum of Art, New York). Elsa Schiaparelli, Shocking, il flacone disegnato p. 322 da Leonor Fini è inserito in una scatola trasparente e decorato con un metro da sarta, 1938 (foto destra); Le Classique de Jean Paul Gaultier, flacone a forma di manichino ripreso nel 1993 in busto femminile per il profumo da donna e in un busto maschile per il profumo da uomo (foto sinistra). Christian Dior, Modello Bar, completo compo- p. 322 sto da giacca di shantung naturale con baschina e collo a revers (particolare) e gonna di tessuto di lana nero a piccole pieghe, Collezione Primavera/Estate 1947, Musée de la Mode et du Textile, Parigi. Brassière (foto destra), XIX secolo, The Kyoto p. 323 Costume Institute (photo by Toru Kogure); Mary Phelps Jacob, copia del primo brevetto (foto sinistra), modello di reggiseno leggerissimo, senza spalline e senza supporti di stecche che sostenessero il petto, formato da due fazzoletti allacciati a una sorta di tracolla che veniva unita alla schiena con dei nastri, 1914. Elizabeth Taylor (foto destra), La gatta sul tetto p. 323 che scotta, 1958. Sophia Loren (foto sinistra), Ieri, oggi, domani, 1963. Baby Doll, regia di Elia Kazan, produzione di p. 323 Newtown Production, interpretato da Carroll Baker nel ruolo di una moglie-bambina che indossava un succinto pigiamino e si succhiava il pollice, USA, 1956. Pubblicità, Bullet/Cone-bra, anni ’50, modello p. 324 caratterizzato da cuciture circolari sulla coppa


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che terminano in una punta in prossimità del capezzolo. Busto nero, New York, 1962 (foto Jeanloup p. 324 Sieff). Triumph, pubblicità: “Triumph ha il reggiseno p. 325 adatto al tuo modo di essere”, negli anni Settanta la parola d’ordine è libertà di scelta, 1970. Kim Basinger,, la bionda attrice americana è di- p. 325 ventata l’ossessione erotica di milioni di ammiratori, 9½ Weeks, USA, 1986. Pubblicità, Wonderbra, il reggiseno che rende p. 326 qualsiasi donna una maggiorata, il nuovo modello ottiene un successo straordinario e a contribuire all’inaspettato boom delle vendite contribuisce la scelta della bellissima modella Eva Herzigova, 1994. D&G, è in denim l’abito-bustier con gonnellino p. 326 di ruches, collezione Primavera/Estate 2010. . Christian Dior, è viola l’abito sottoveste in leg- p. 327 gerissimo chiffon che mostra il reggiseno e la culotte in raso e pizzo in tinta, collezione Primavera/Estate 2010, Paris (foto in alto); Jean Paul Gaultier, culotte a vita alta e bustier con stecche in raso portato/esibito sotto la giacca, collezione Primavera/Estate 2010, Paris (foto in basso). Nicole Kidman in “Mouling Rouge”, di Baz p. 328 Luhrmann, 2001. Christina Aguilera in “Burlesque”, di Steve An- p. 328 tin, 2010. Lady Gaga, corset-body Giorgio Armani Privè p. 329 (foto destra), «Grammy Awards Performance» 2010; Lady Gaga, corset-dress Giorgio Armani 359


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Privè (foto sinistra), «Grammy Awards» 2010. Britney Spears, corset (foto destra), «Annual p. 329 American Music Awards Show» 2003; Rihanna, leather-corset (foto sinistra), «American Music Awards Performance» 2008. Corsetto tempestato di pietre multicolori e di p. 330 ciondoli, indossato nel 1991 da Madonna alla prima del film “Truth or Dare” (A letto con Madonna) di Alek Keshishian (foto destra), indossato in passerella da Naomi Campbell (foto sinistra), collezione “Le Pin Up” Autunno/Inverno 1991/1992. Corsetto-armatura in pelle metallizzata, con p. 330 gonna larga bombata sui fianchi, effetto panier, presentato in passerella dalla modella canadese Jessica Stam (foto destra); scelto da Lady Gaga per la copertina e il video musicale del singolo “Paparazzi” (foto centrale e in alto-sinistra), 2009; il corsetto è esposto a Parigi dentro una scatola (foto in basso-sinistra), collezione “New Sexy Glam” Primavera/Estate 2007. Kylie Minogue e Dolce & Gabbana (foto destra), p. 331 corsetto dorato e ultra-sagomato (foto sinistra), tour mondiale «Aphrodite - Les Folies Tour» 2011. Dolce & Gabbana, collezione Primavera/Estate p. 331 2011. Madonna in un bustier provocante e scintillante p. 332 d’oro e con il leggendario reggiseno a cono firmato Jean Paul Gaultier, «Blond Ambition Tour» 1990. Jean Paul Gaultier perfume, Le Male per uomo, p. 332 busto che indossa una maglia a righe (foto destra); Classique per donna, flacone a forma di un


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busto serrato dal corsetto (foto sinistra). Kylie Minogue, «North America Tour», in un p. 333 corsetto Jean Paul Gaultier, 2009 (foto destra); per la copertina «Aphrodite» è in un abito lungo in chiffon di seta colore blu notte guarnito di corpetto e accessori in metallo firmato Jean Paul Gaultier, collezione Haute Couture Primavera/ Estate 2010 (foto sinistra). Collection Crèateur, collaborazione tra Jean Paul p. 333 Gaultier e La Perla, collezione Autunno/Inverno 2010-2011. Jean Paul Gaultier, collezione prêt-à-porter di p. 334 Hermès, Primavera/Estate 2011. Heidi Klum in passerella per Victoria’s Secret, p. 334 «Fashion Show» 2008 (foto destra); Adriana Lima indossa il Bombshell Fantasy Bra, reggiseno composto da oltre 3000 brillanti bianchi, topazi e zaffiri blu, disegnato da Damiani per Victoria’s Secrets, 2010 (foto sinistra). Catwoman, Michelle Pfeiffer, 1992 (foto destra) p. 335 e Halle Berry, 2004 (foto sinistra) indossano costumi in pelle. Corsetto fetish in pelle nera (foto destra), apparso p. 335 su «Skin Two» (Tresor Watson); Copertina, illustrazione di John Willie (foto sinistra), «Bizarre» 1974. Vivienne Westwood in un completo con giacca p. 336 bondage (con Jordan e un’altra ragazza punk) in una via di Londra, 1977 (foto destra); The Sex Pistols, punk-rock band, 1977 (foto sinistra). Aziende/Negozi fetish, John Sutcliffe’s Atomage, p.336 creatore di costumi in pelle, Londra (foto destra) e Sealwear, corset, specialista della gomma, In361


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ghilterra (foto sinistra). Ectomorph, specialista del lattice, body con zip, Photo: Patrick Jackson, Model: Lindsay, Londra (foto destra) e Axfords, azienda corsetti, Inghilterra (foto sinistra). Hussein Chalayan, corsetto realizzato in legno p. 337 colore giallo ambrato e metallo, 1995-96. Issey Miyake, corpetto in plastica rossa sbal- p. 337 zato all’interno, 1980 (foto destra); Alexander McQueen/Givenchy, corpetto in cuoio stampato rosso, 1999 (foto centrale); Alexander McQueen, corsetto in cuoio marrone plasmato, collezione Primavera/Estate 1999 (foto sinistra). Vivienne Westwood, mini crinoline e zeppe al- p. 338 tissime, “Mini-Crini Collection”, 1985 (Photo by Kim Knott). Vivienne Westwood, Statue of Liberty, esem- p. 339 pio straordinario di reinvenzione del corsetto in pelle color argento, con cerniera nella parte posteriore, abbinato ad una gonna in stile XVIII secolo, in lamé argento metallizzato e tulle di seta bianco, collezione “Harris Tweed” Autunno/Inverno 1987-88 (foto destra); Vivienne Westwood, Harlequin and Columbine, “Voyage to Cythera”, Autunno/Inverno 1989-90, il titolo della collezione è un omaggio al dipinto di Jean-Antoine Watteau (L’imbarco per Citera, 1717) in cui i protagonisti indossano leggings che ricordano i costumi teatrali di Arlecchino e Colombina, The Exhibition, Museums Sheffield: Millennium Gallery, 2008 (foto sinistra). Vivienne Westwood, “Always on camera”, Au- p. 339 tunno/Inverno 1992-93, corsetto corto, da cui spunta l’immagine ingrandita dell’infanta Catharina Hooft, ripresa dal dipinto del fiammingo Franz Hals (foto destra); Catharina Hooft with her Nurse, dipinto, c. 1619-1620 (foto sinistra);


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Ispirato alla figura di Ninon de Lensclos (Parigi 1620-1705), una tra le Cortigiane più famose del XVII secolo, la Westwood porta all’estremo la sensualità degli abiti dell’epoca proponendo un attillato bustino con cuscino posteriore, il tutto rigorosamente heavy black, per non tradire l’anima punk-rock del brand (foto destra); collezione i cui abiti richiamano i sontuosi abiti delle dame settecentesche (foto sinistra); Vivienne Westwood è stata la prima stilista contemporanea a riproporre il corsetto e il faux-cul (imbottitura sul sedere) in maniera moderna, “Vive la Cocotte” prêt-à-porter Autunno/Inverno 1995-1996. Vivienne Westwood, Platform shoes (foto destra), indossate dalla top model Naomi Campbell inciampa nei tacchi vertiginosi durante una sfilata, 1993 (foto sinistra). Thierry Mugler metallic outfit, collezione Prima- p. 340 vera/Estate 1991 (foto destra, model: Emma Sjoberg); Lady Gaga nel video “Paparazzi” (foto sinistra) diretto da Jonas Åkerlund (2009); Cyborg Robot Couture (foto destra), completo in metallo e plexiglass (Photo by Christopher Moore), Nadja Auermann (foto sinistra), Thierry Mugler collezione Autunno/Inverno 1995-1996. Thierry Mugler, “Les Insectes” collezione Primavera/ Estate 1997 (foto destra); “La Chimere” collezione Haute Couture Autunno/Inverno 1997-1998 (foto centrale); collezione Haute Couture Autunno/Inverno 1997-1998 (foto sinistra), Collection Maison Thierry Mugler. Rick Genest, The Zombie boy, testimonial per p. 341 la campagna promozionale della collezione MUGLER Autunno/Inverno 2011 (foto in alto e centrale); Rick Genest nel video del brano di Lady Gaga «Born This Way», in cui la cantante compare tatuata allo stesso modo (foto in basso), 2011.

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L’abito-scandalo di carne disegnato da Nicola p. 342 Formichetti, indossato da Lady Gaga agli «MTV Video Music Awards» 2010; copertina di «Vogue Hommes Japan» (foto destra). Lady Gaga con gonna in latex e reggiseno nero a p. 342 vista (foto destra) e con abito-bustier bianco (foto sinistra) per la collezione Autunno/Inverno 20112012 by Nicola Formichetti. Dita Von Teese Looks, mantella bolla di velluto p. 343 foderata in satin duchesse su abito lungo in satin bianco e velluto nero, collezione prêt-à-porter “Gli insetti” Autunno/Inverno 1995-1996 (Look n.1, foto in alto-destra) e Bustier-scultura cristallino su un abito-toga drappeggiato in voile madreperlato laccato, Collezione moda “Le Meduse” Autunno/Inverno 1999-2000 (Look n.2, foto in alto-sinistra); Blusa a portafoglio in cotone bianco, Collezione prêt-à-porter “Le Aviatrici” Autunno/Inverno 1987-1988 (Look n.3, foto centrale-destra) e Abito lungo asimmetrico drappeggiato in satin blu, Collezione prêt-à-porter “Inverno degli Angeli” Autunno/Inverno 19841985 (Look n.4, foto centrale-sinistra); Bustier ricamato con pietre in dégradé a fiamma su gonna in crêpe rosso, Collezione prêt-à-porter “Le Infernali” Autunno/Inverno 1988-1989 (Look n.5, foto in basso-destra) e Abito lungo in lurex plissettato a sole, Collezione prêt-à-porter “Zenit” Autunno/Inverno 1984-1985 (Look n.6, foto in basso-sinistra); Archivi Thierry Mugler, «Vanity Fair» 2011, Photo by Ali Mahdavi. Calvin Klein Underwear, manifesto a Times p. 344 Square (foto destra) nel 1982 (Andy Levin); Marky Mark (foto sinistra), 1992 (Photo by Steven Meisel). Gianni Versace, “Bondage” collezione Hau- p. 344 te Couture Autunno/Inverno 1992-1993 (foto


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in alto destra-sinistra e in basso-sinistra); Lady Gaga nel video del singolo «The edge of glory» 2011, veste alcuni dei pezzi più famosi della collezione Bondage con bottoni dorati (foto in basso-destra). Lady Gaga durante il «Royal Variety Performan- p. 345 ce» 2009 quando incontra la Regina Elisabetta II, indossa un abito lungo in latex color rosso lacca by Atsuko Kudo; Beyoncé, abito-bustier giallo limone in latex nel video del brano «Telephone» 2010 (foto destra); Christina Aguilera, sexy mini abito-bustier nero in latex con borchie per la copertina del suo album «Not Myself Tonight» 2010 (foto centrale); Jennifer Lopez, tubino nero in latex super attillato per la campagna pubblicitaria «L’Oréal Paris» 2011-2012 (foto sinistra), tutto by Atsuko Kudo; Atsuko Kudo, Luxury Latex Lingerie, Primavera/Estate 2010. Fan dance (foto destra) di Michelle L’amour, p. 346 danza con i ventagli (foto di Michael Albov); Bubble dance (foto sinistra) di Julie Atlas Muz, danza/gioco con la palla (foto archivio Napoli Teatro Festival Italia). Eve LaPlume, foto di Maurizio Camagna.

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Dita Von Teese, bagno nel noto bicchiere di Mar- p. 347 tini (foto in basso); Lipteese, si presenta a cavallo di un enorme rossetto, «Amfar Cinema Against Aids Gala» Cannes, 2007 (foto in alto-destra); Wonderbra Collection by Dita Von Teese (foto in alto-sinistra), linea di lingerie ispirata a se stessa e agli anni Quaranta-Cinquanta, alla presentazione posa seduta su un gigantesco reggiseno, Autunno/inverno 2008-2009. Sfilata di Moda Burlesque, foto di Kristian Bjor- p. 348 nard.

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Mode Merr, linea di abbigliamento per le ragazze p. 348 New Burlesque di nuova generazione che amavano vestire con abiti in stile retrò senza tradire il loro animo punk. Morlock Night (La notte dei Morlock), romanzo p. 349 di fantascienza di Kevin Wayne Jeter, 1979 (foto destra); The Difference Engine (La macchina della realtà), romanzo di fantascienza Steampunk, scritto da William Gibson e Bruce Sterling, 1992 (foto sinistra). The League of Extraordinary Gentlemen (La p. 349 Lega degli Straordinari Gentlemen), fumetti Steampunk di maggior successo ideati da Alan Oswald Moore e Kevin O’Neill, 1999 (foto destra); The League of Extraordinary Gentlemen, diretto da Stephen Norrington, 20th Century Fox, Angry Films, USA, 2003 (foto sinistra). Steampunk Fashion/Couture, indumenti d’epoca p. 350 - Era Vittoriana in versione moderna, retro-futurista.


Bibliografia AA.VV., Alan Moore. Ritratto di uno straordinario gentleman, Black Velvet ed., Bologna 2003. AA.VV., Il Mondo della Moda, Phaidon ed., New York 2008. AA.VV., La Moda. Storia dal XVIII al XX secolo, The Kyoto Costume Institute, Taschen ed., Kyoto 2005. Alfano Miglietti, Francesca, Virus art. Viste e Interviste dalla rivista Virus Mutations, Skira ed., Milano 2003. Bargna, Ivan, I Dizionari delle Civiltà. Africa nera, Mondadori Electa ed., Milano 2007. Bock, Gisela, Nobili, Giuliana, Il corpo delle donne, Transeuropa ed., Bologna 1988. Bould, Mark, Butler, Andrew, Fifty Key Figures in Science Fiction, Routledge ed., New York 2009 Cappa, Felice, Gelli, Piero, Dizionario dello Spettacolo del ‘900, Baldini & Castoldi ed., Milano 1998. Collier, Bruce, Maclachlan, James, Charles Babbage and the Engines of Perfection, Oxford Univerity Press ed., New York 1998. Collucci, Mario, Di Vittorio, Pierangelo, Franco Basaglia, Bruno Mondadori ed., Milano 2001. Danahay, Martin A., Wells, Herbert, George, The war of the worlds, Broadview Press ed., Canada 2003. Doyle, Arthur Conan, Il Mastino dei Baskerville, Feltrinelli ed., Milano 2008. Fiorani, Eleonora, Abitare il corpo. Il corpo di stoffa e la moda, Lupetti ed., Milano 2010. Folli, Anna, Manferto De Fabianis, Valeria, Lingerie. L’arte della 367


seduzione, White Star ed., Novara 2010. Fruci, Lorenza, Burlesque: Quando lo spettacolo diventa seduzione. Storie, dive e leggende di ieri e di oggi, Alberto Castelvecchi ed., Roma 2011. Fusaschi, Michela, I Segni sul corpo. Per un’antropologia delle modificazioni dei genitali femminili, Bollati Boringhieri ed., Torino 2003. Kybalova, Ludmila, Herbenovà, Olga, Lamarovà, Milena, Enciclopedia illustrata della moda, edizione italiana a cura di Giannino Malossi, Bruno Mondadori ed., Milano 2002. Lauder, Velda, Corsets. A Modern Guide, A&C Black Publisher LTD ed., London 2010. Macrì, Teresa, Il corpo postorganico, Costa & Nolan ed., Milano 2006. Marenko, Betti, Ibridazioni. Corpi in transito e alchimie della nuova carne, Castelvecchi ed., Roma 1997. Marenko, Betti, Segni indelebili. Materia e desiderio del corpo tatuato, Feltrinelli ed., Milano 2002. Morini, Enrica, Storia della moda. XVIII-XX secolo, Skira ed., Milano 2000. Piccolo Paci, Sara, Parliamo di Moda (Vol.1, Vol.2, Vol.3), Cappelli ed., Bologna 2004. Saint Laurent, Cécil, Intimo. Storia, immagini, seduzioni della biancheria femminile, Idealibri ed., Milano 1986. Salen, Jill, Corsets. Historic Patterns and Techniques, Batsford ed., London 2008. Steele, Valerie, Fetish. Moda, Sesso e Potere, Meltemi ed., Roma 2005.

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Sitografia Generale www.agentprovocateur.com (marchio di lingerie) www.alexandermcqueen.com www.annsummers.com (sexy shop) www.atomage.co.uk (azienda fetish) www.atsukokudo.com (designer) www.axfords.com (azienda di corsetti) www.bibianblue.com (designer) www.bizarredesign.nl (sito ufficiale - corsettiere Jeroen van der Klis) www.bodyplay.com (esplorazioni corporee) www.burlesque.it www.cathiejung.com (Guinness World Records - The Corset Queen) www.corsettraining.net/corset-training/mr-pearl (Mr. Pearl - TightLacer) www.dior.com www.dita.net (Dita Von Teese - The Queen of New Burlesque) www.dolcegabbana.it www.dsquared2.com www.ectomorph.com (azienda fetish) www.elainedavidson.co.uk (The World Record Holder For Body Piercings) www.ethelgranger.com (The Smallest Waist on Earth) www.giorgioarmani.com www.husseinchalayan.com www.jeanpaulgaultier.com www.kci.or.jp (The Kyoto Costume Institute) www.krisal.com (Etienne Dumont) www.laperla.com www.mayahansen.com (designer) www.michaeljamesobrien.com (photographer) www.modemerr.com (azienda retrò-punk) www.mugler.com www.musee-dior-granville.com www.nicolaformichetti.com www.paulpoiret.com www.philamuseum.org (The Art an Fashion of Elsa Schiaparelli) www.revampvintage.com (azienda vintage) www.rickgenest.com (Zombie Boy) www.schiaparelli.com www.sealwear-shop.com (azienda fetish) 371


www.skingraftdesigns.com (designers) www.steampunk.com (sito ufficiale - tendenza Steampunk) www.vam.ac.uk (sito ufficiale -Victoria and Albert Museum) www.versace.com www.victoriassecret.com www.viviennewestwood.co.uk www.vogue.it Sitografia Specifica Autori/Performer www.cremaster.net (Matthew Barney, The Cremaster Cycle) www.franko-b.com www.youtube.com/watch?v=ic6fOEkpiko (Franko B, I Miss You, 2003/2007) www.janasterbak.com www.youtube.com/watch?v=nqaFJO8-pko (Jana Sterbak, Vanitas: Flesh Dress for an Albino Anorectic, 1987) www.orlan.net www.youtube.com/watch?v=no_66MGu0Oo (Orlan, Art charnel, 2001) www.stelarc.org www.youtube.com/watch?v=OKEfJRe4uys (Stelarc, The Body Suspensions, 1976/1988) www.youtube.com/watch?v=Pz-UgQdHYIc (Stelarc, Third Hand, 1981/1994) Cathie Jung www.video.mediaset.it/video/mistero/puntate/204894/vita-sottile(1째-parte).html www.video.mediaset.it/video/mistero/puntate/204895/vita-sottile(2째-parte).html www.video.mediaset.it/video/mistero/puntate/204896/vita-sottile(3째-parte).html www.video.mediaset.it/video/mistero/puntate/204898/vita-sottile(4째-parte).html www.youtube.com/watch?v=DGOUZmCLspc (The Smallest Waistline - Guinness World Record) www.youtube.com/watch?v=hrx3jgqJy1E (Cathie herself) www.youtube.com/watch?v=I_N14gF3dj8 (National Geographic The Smallest Waist in the World on a Living Person, 2010).

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Ringraziamenti Desidero ringraziare prima di tutto la mia famiglia per avermi sostenuto in questo cammino di crescita, per la sua costante e paziente presenza; un grazie speciale è rivolto a mia madre, Antonina La Russa, sarta autodidatta, che fin da piccola mi ha trasmesso una passione speciale per l’arte del cucito, e per la sua collaborazione a questo lavoro a cui tengo tantissimo. Ringrazio i docenti da cui nel corso degli anni accademici ho avuto modo di apprendere, confrontarmi, consigliarmi e sviluppare soprattutto pensiero, criticità e consapevolezza, con un ringraziamento particolare al Prof. Vittorio Ugo Vicari, mio relatore di tesi, e il Prof. Sergio Pausig che ha curato la progettazione grafica. Ringrazio tutti coloro che mi sono stati costantemente vicini sia fisicamente che moralmente, mio singolare team composto da: Chiara Lucchese, Vanessa Stellino, Veronica Stellino, (MODELS); Cristina Mancuso, Monica Sutera (MAKE-UP/ HAIR ARTIST); Vittoria Silaco (PHOTOGRAPHER). Concludo con due persone speciali, il mio ragazzo, nonché futuro marito, Paolo Mascali, e la mia collega di corso e cara amica, Laura Inzerillo.

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