NPG gennaio 2014

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GENNAIO 2014

note di pastorale giovanile

PUNTI DI VISTA > Non di solo pane > I Millennials > Volti incontrati

DOSSIER L’educatore-wanderer: quale accompagnamento per i ragazzi “erranti”?

RUBRICHE > Ma

tu da dove vieni? L’incontro

> Grembi > “A

ospitali

te che importa? Tu seguimi”

> Vita

che non è mai tardi… per morire!

> Agire

per la pace futura

> Evangelii

Gaudium,

Il “manifesto” di Papa Francesco

notedipastoralegiovanile.it Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in A.P. 01/2014 - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, D.C.B. TO - Tassa Pagata/Taxe Perçue/Economy/C n.1- 2014


PROPOSTE PER EDUCARE ED EVANGELIZZARE

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I RAGAZZI E I GIOVANI

MENSILE DEL CSPG CENTRO SALESIANO PASTORALE GIOVANILE

Direzione Claudio Belfiore (direttore CSPG), Valerio Bocci (direttore Elledici), Giancarlo De Nicolò (redattore), Alberto Martelli (direttore editoriale Elledici). Gruppo di redazione Claudio Belfiore, Mauro Bignami, Cesare Bissoli, Salvatore Currò, Giancarlo De Nicolò, Tony Drazza, Michele Falabretti, Alberto Martelli, Rossano Sala, Rosangela Siboldi. Collaboratori Alessandra Augelli, Domenico Cravero, Mario Delpiano, Fabiola Falappa, Luigi Guglielmoni, Raffaele Mantegazza, Carlo Molari, Fausto Negri, Mario Pollo, Salvatore Ricci, Giuseppe Ruta, MichaelDavide Semeraro, Comunità Roma San Lorenzo – Cnos, Delegati salesiani di PG.

UN ANNO NUOVO Il 2014 si apre con una grande “assenza”, per la morte dello storico e “carismatico” direttore di NPG, d. Riccardo Tonelli. Ma il suo lascito per una PG per la vita e la speranza dei giovani, ispirata al carisma spirituale ed educativo di don Bosco e attento alle novità del mondo, della Chiesa e dei giovani, continua e continuerà in NPG... e cercherà anche di essere più propositivo e più in dialogo, a servizio della PG italiana (e non). Due i criteri che ispirano il rinnovamento: - una maggior capacità comunicativa con i nostri destinatari... anche rinnovando una storica grafica di “serietà” e utilizzando i linguaggi con cui oggi si fa comunicazione e interazione, con cui cioè si entra in dialogo (vorremmo dire... per una PG 2.0); - l’impegno a “far pensare” i nostri lettori, non presentando soluzioni predefinite, ricette pronto-uso, sussidiazione pratica immediatamente utilizzabile. Far pensare sui giovani, sulla pastoralità, sulle proposte, sui processi, sui metodi... sui risultati ottenuti.

Abbonamenti 2014 8 numeri: Italia € 38,00 · Estero € 55,00 Numero singolo: € 6,00 Abbonamenti su ccp 32701104 intestato a: Note di pastorale giovanile - Editrice Elledici 10093 Leumann TO. Autorizzazione del Tribunale di Torino n. 683 Design e impaginazione: Maison ADV, Torino Archivio fotografico: © iStock.com Logo: Catia Camillini Stampa: Higraf, Caselle Torinese (TO). Ufficio Abbonamenti tel. 011 95 52 164 fax 011 95 74 048 abbonamenti@elledici.org www.elledici.org/periodici (possibilità di abbonamento on line con carta di credito)

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PUNTI DI VISTA 2

Incroci vitali Non di solo pane Salvatore Ricci

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Orizzonte giovani I Millennials Domenico Cravero

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Sguardi pastorali Volti incontrati Michele Falabretti

SOMMARIO

RUBRICHE DOSSIER

48 Io e l’altro. Percorsi

di pedagogia interculturale /1 Ma tu da dove vieni? L’incontro Raffaele Mantegazza

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L’EDUCATORE WANDERER: Quale accompagnamento per i ragazzi “erranti”? Alessandra Augelli

54 Giovani e famiglia /1

Grembi ospitali della vita dell’altro

Francesco Botturi

62 Segni dei tempi e anno della fede /8 40 SCHEDE DI LAVORO

Vita che non è mai troppo tardi... per morire! Luigi Guglielmoni – Fausto Negri

68 Interpellati da Gesù /10

“A te che importa? Tu seguimi”

Rossano Sala

73 Il coraggio dell’aurora /8 Agire per la pace futura

Fabiola Falappa

78 Ecclesia

Evangelii Gaudium Il “manifesto” di papa Francesco. Una prima lettura

Cesare Bissoli

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INCROCI VITALI | Salvatore Ricci

Non di solo pane... Sold out! Tutto esaurito. È la notizia del giorno in prima pagina sul giornale locale. L’evento tanto atteso è ormai prossimo: tra poche ore la grande spianata accoglierà la marea di giovani che attende facendo lunghe file ai tornelli d’ingresso. Un evento che in pochi giorni ha raccolto una folla anonima spinta da comuni desideri: finalmente in tanti coronano il sogno di vedere il proprio idolo da vicino, ascoltare le sue performance vocali e poter dire “c’ero anche io”. Mi piace pensare che, pur non essendo l’artista emergente del momento, confezionato su misura dai vari talent show, c’è chi ha già da tempo battuto ogni record perché ogni sua uscita pubblica era un sold out! Il suo nome è Gesù.

Era molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare. Allora partirono sulla barca verso un luogo solitario, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero (Mc 6,31-33). Il via vai di gente gli impedisce perfino di riposare. Un dettaglio che ci aiuta a comprendere il forte desiderio della folla di incontrarlo. Non si rassegna ad essere lasciata in disparte, lo segue e riesce addirittura a precederlo, arrivando prima al luogo dello sbarco. Ma cosa spinge tanta gente a fare questo? Quale bisogno nasconde quella ricerca? Sceso dalla barca, vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose (Mc 6,34). Il bisogno della folla commuove Gesù. Un sentimento che riflette la passione di Dio per il suo popolo. Un popolo che

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non è una moltitudine anonima di fans, ma una comunità fatta di storie personali, di cuori diversi che battono all’unisono, di migliaia di volti in cerca dell’unico Volto. Colpisce il fatto che prima di provvedere al pane, procuri loro la sua Parola. Il Maestro, il Buon Pastore, ha letto il bisogno vero di quella gente: più grande della necessità di alimentarsi è il desiderio di ascoltarlo, sentire quella parola che riscalda, che nutre, che dà forza e incoraggia. E così la folla , ancor prima che un bene materiale, riceve una guida compassionevole. Una compassione capace di riempire ogni vuoto esistenziale e di ridare dignità e speranza alla persona, rendendola non semplice spettatore, ma protagonista. Saper cogliere le domande più profonde dell’altro è ciò che dovrebbe maggiormente caratterizzare il nostro impegno pastorale, specie se a servizio dei più giovani. Ma a volte è scomodo e impegnativo “fermarsi” e guardare nel profondo dell’esistenza altrui e lasciarci provocare dalla sua vera fame.


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Spesso anch’io mi sono limitato semplicemente a guardare il bisogno materiale dell’altro senza mai “fermarmi” e comprenderlo veramente. Come quella sera d’inverno, in cui la mia voglia di rientrare a casa è stata più forte della mia compassione per quel giovane, fermo all’incrocio di una strada che cercava riparo dalla pioggia e dal freddo, avvolto dal buio e in compagnia solo dei suoi pensieri. Passandogli davanti mi sono solo chiesto cosa avrei potuto fare per lui e dopo aver constatato che al momento non avevo moneta disponibile, sono andato oltre. La mia coscienza era stata messa a tacere dall’alibi di non poter fare nulla di materiale per lui. Ancora oggi però rimprovero a me stesso: “perché non ti sei fermato?”. Al di là di qualche moneta fredda lasciata tra le sue mani, forse avrei potuto fare qualcosa in più: ascoltare i suoi pensieri, conoscere la sua vera fame, avere compassione di lui. Quante volte il nostro impegno a servizio dei giovani, anche se in nome di un entusiasmante zelo apostolico, si limita a donare ciò che è frutto delle nostre capacità, della nostra creatività e originalità? Oggi tanti giovani non hanno fame di quello che sappiamo fare, ma di quello che siamo, del nostro “esserci”. Ma facilmente scusiamo le nostre mancanze con un semplice “non ho i mezzi necessari, né le capacità”. Gesù ha donato alle folle, prima ancora che le sue opere, la sua Parola, ovvero tutto se stesso. L’aver avuto in quel momento le tasche

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vuote di monete, non può giustificare il vuoto del mio cuore indifferente davanti a quel giovane. Il bisogno immediato di una persona non può farci dimenticare quello più profondo. Quanti giovani sono affamati del nostro tempo, del nostro ascolto, del nostro “fermarci” davanti a loro e nelle loro vite! “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congedali, in modo che, andando per le campagne possano comprarsi da mangiare”. Ma egli rispose: “Voi stessi date loro da mangiare”... (Mc 6,36-37). Quella gente non deve ai discepoli la soddisfazione della propria fame, ma ugualmente ha bisogno della loro presenza accanto a Gesù per soddisfare il proprio bisogno. Cosi come non possiamo essere noi a riempire i vuoti di tante giovani vite, ma certamente il Signore ha bisogno della nostra “sosta”, del nostro “esserci” perché sia efficace la sua compassione. Quanti vuoti vengono illusoriamente riempiti da un momentaneo abbaglio di luci, da un momentaneo suono assordante, da un guardare il palco dal basso. Perché non mi sono fermato quella sera? Forse non chiedeva solo un po’ di pane, ma una “sosta” e poter ascoltare una calda parola amica per nutrirsi di quella speranza necessaria per riprendere il cammino della vita e non accontentarsi più di guardare la vita dal basso di un palco, ma avere il coraggio di salirci su per vivere da protagonista. gennaio 2014 | 3


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ORIZZONTE GIOVANI | Domenico Cravero

I Millennials Il Rapporto Giovani 2013, presentato nel volume La condizione giovanile in Italia (Il Mulino, 2013) riferisce i dati dell’indagine promossa dall’Istituto Toniolo su un campione di 9000 giovani italiani dai 18 ai 29 anni. Questa ricerca è dedicata ai “Millennials”, i giovani divenuti maggiorenni nel XXI secolo, una generazione che si affaccia alla vita adulta e che raramente è oggetto di analisi e di proposte. Il frutto di questo lavoro è uno strumento che gli operatori della pastorale giovanile, gli educatori e le famiglie delle nostre comunità non dovrebbero perdere. La conoscenza che si ricava dall’ascolto attento dei giovani, infatti, è condizione indispensabile per correggere valutazioni superficiali o errate e rinnovare l’azione pastorale negli oratori e negli ambienti di vita dei giovani. Nei loro confronti abbondano, invece, i luoghi comuni di pronto utilizzo che risparmiano la fatica del pensiero. Si parla spesso dei giovani utilizzando quasi immediatamente immagini di passività, a volte di svogliatezza o anche di fuga di fronte alle responsabilità. La ricerca dell’Istituto Toniolo disconferma puntualmente questi pregiudizi, restituendo una fotografia del mondo giovanile che chiede agli adulti e alle famiglie l’assunzione delle loro responsabilità. Interpella subito quindi anche le comunità parrocchiali.

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Il primo elemento che emerge dai dati e che interroga la pastorale giovanile è la constatazione che i giovani sono pochi. La percentuale di giovani italiani è tra le più basse (solo il 10% degli abitanti del nostro paese è compreso tra i 15-24 anni). Le condizioni di vita con cui le nuove generazioni sono chiamate a misurarsi sono, invece, di estrema difficoltà come la mancanza di lavoro, la caduta dell’orizzonte della speranza, la frammentazione della vita quotidiana. In questa precarietà i giovani vivono come in uno stato di emarginazione perché non si sentono trattati equamente, né invitati e aspettati dagli adulti. Sono pochi anche i giovani credenti e


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praticanti. La ricerca descrive uno scenario in rapida trasformazione, dove l’appartenenza religiosa si fa sempre più diversificata e rarefatta. Assistiamo, infatti, a un tracollo dell’adesione di fede: i giovani che si dichiarano cattolici passano dal 2004 (ricerca Iard) al 2010 (ricerca coordinata da R. Grassi) dal 66,9% al 52,8%. Anche i dati della ricerca Toniolo confermano questo trend: è cattolico il 55,9% del campione (il 61,2% delle ragazze vs. il 50,7% dei maschi). Il Nord-Est è il più in crisi con il cattolicesimo (45,5% vs. 65,9% del Sud). In tutto il Nord, i giovani che si dichiarano cattolici sono sotto la soglia del 50%. Con il diminuire dell’età i giovani tendono a dichiarare la loro fede con minore frequenza e ad assumere maggiormente una posizione di negazione o di dubbio. Questa tendenza già si avverte nell’adolescenza (secondo i dati dell’indagine promossa dalla diocesi di Fidenza nel 2013) dove gli atei agnostici passano dal 9,1% dei tredicenni al 26,2% tre anni successivi, per scendere al 19,4 nei diciottenni. Questo dato, oltre a confermare il progressivo allontanamento dalla religione cattolica, descrive anche un processo legato all’età evolutiva: alla messa in discussione dell’adesione religiosa, succede una maggiore consapevolezza, con la maturazione adolescenziale. Aumentano così i giovani cristiani che professano una fede convinta, che partecipano ogni domenica alla messa (15,4%), che accompagnano la pratica religiosa con l’impegno sociale, con at-

tività di servizio e di volontariato. Questi dati insieme al numero di risposte che documentano la riscoperta da parte dei giovani di forme devozionali come i pellegrinaggi e le processioni, rendono evidente un modo di vivere la fede, che passa attraverso l’esperienza personale e richiede un coinvolgimento emozionale e non solo intellettuale1. Paradigmatica a questo proposito continua a essere la “riuscita” delle Giornate mondiali della gioventù. Nella disaffezione verso la chiesa cattolica, sono in crescita quelli che dicono di non credere (15,2%) o si dichiarano agnostici (7,8%) oppure sostengono di essere religiosi ma di non fare riferimento ad alcuna fede (10%). La categoria dei “non credenti” sembra quindi rimandare non tanto a una dichiarazione militante di ateismo, quanto piuttosto a una sorta d’indifferenza rispetto alle forme tradizionali di religiosità. La religione oggi non sembra in grado di dare identità ai giovani. Le nuove generazioni fanno fatica a incontrare il Vangelo, a riportarlo alla loro vita, a identificarsi nella parrocchia, negli oratori, nell’associazionismo, istituzioni nelle quali non riescono sempre a trovare indicazioni realistiche per la loro vita. Una possibile conclusione da trarre da questi primi dati è che è necessario rinnovare o creare luoghi di accoglienza e di accompagnamento che aiutino i giovani nella costruzione della loro identità, che possano favorire la difficile composizione di una vita frammentata 1 Dati e riflessioni si possono trovare sul portale dedicato www.rapportogiovani.it

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e senza futuro attorno alla speranza del vangelo, per vivere la fede come incontro personale e considerare la vita intera come vocazione. Il cammino religioso dei giovani è sempre meno dettato dall’appartenenza e sempre più frutto di un percorso personale. I giovani hanno bisogno di sentirsi ascoltati e chiamati dalla comunità cristiana. La pastorale giovanile cerca di aiutare il giovane a chiedersi il perché della sua pratica religiosa (o del suo abbandono), per fare luce sulle motivazioni di fede e sviluppare consapevolezza e maturità. Era questo il richiamo costante di papa Benedetto XVI quando chiedeva ai giovani di “conoscere quello che si crede”, di comprendere la fede con la stessa passione e precisione con cui si coltivano gli hobby o ci si affida alla scienza. È indicativo che i dati della ricerca non riportino differenze nei dati sulla credenza religiosa per quanto riguarda l’incidenza del titolo di studio. La consapevolezza intellettuale non nuoce alla fede. La religione deve però ritrovare il fascino del mistero. Una fede troppo basata sull’insegnamento non può più essere proposta, se non diventa esperienza, anche emozionale. Il primato dell’espressione di sé sulla riflessione e sul pensiero è una sfida da raccogliere, per dare della fede un’immagine che conservi tutto l’incanto della bellezza e della verità, in una forma accessibile a tutti. Questo vale anche per i giovani che già frequentano le comunità. Come i loro coetanei, essi vivono momenti di disorientamento o di crisi religiosa, spesso non trovano il nesso tra gli insegnamenti ricevuti nella catechesi e la risposta da dare alle domande che li inquietano. A volte non sembrano avere neppure i parametri per capire l’importanza di ciò che è ritenuto indispensabile a un’autentica vita cristiana (ad es. la centralità dell’eucaristia domenicale). Il nuovo corso avviato da papa Francesco – la cui popolarità tra i giovani è molto alta – è come una mano tesa dalla chiesa alle nuove generazioni. D’altra parte, papa Francesco è il primo a spingere le comunità a un’azione missionaria più decisa.


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SGUARDI PASTORALI | Michele Falabretti

Volti incontrati Mi sarei perso, se non fossero venuti a prendermi. O forse no: mi sarei scavato una nicchia e me ne sarei stato buono buono nel mio. Quando ripenso ai tratti di strada che ho potuto percorrere nella vita, non posso fare a meno di tornare a una lunga galleria di volti, i cui occhi ho avuto la fortuna di incrociare. Persone che si sono spese: per loro sono stato fonte di preoccupazione; ho occupato i loro pensieri, li ho costretti a cercare grimaldelli che scardinassero la mia testardaggine, le mie insufficienze, i miei ritardi. A volte mi hanno spronato con delicatezza, altre mi hanno scosso con franchezza e decisione. Comunque ci hanno sempre messo la faccia, a rischio di sembrarmi antipatiche o addirittura sgradevoli. Un po’ alla volta si sono creati dei legami: mi sono entrate nel cuore

e credo di aver trovato anch’io un po’ di posto nel loro. Ogni tanto mi chiedo: ma chi gliel’ha fatto fare? Perché perdere così tanto tempo, qualche volta a dire e ridire le stesse cose? E perché farlo proprio con me? Non lo so, davvero. Non credo di essere speciale, non mi pare di aver nulla di così interessante da rendermi oggetto di cure particolari. Eppure, questo lo so con certezza, oggi non so dove sarei se non ci fossero state. Sono le persone i cui sguardi ti si presentano davanti – attraverso la memoria del cuore – nei momenti e nei passaggi più delicati del tuo camminare nell’esistenza. C’è, in questo legame, qualcosa di così arcano e misterioso; c’è qualcosa di così fortemente gratuito da condurti a pensare che – in definitiva – i tratti di quel volto gennaio 2014 | 7


PUNTI DI VISTA | SGUARDI PASTORALI

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non possono essere solo quelli dell’uomo: hanno anche quelli di Dio. Quando tentiamo di parlare di educazione o ci avventuriamo in pensieri sulla pastorale giovanile, non possiamo far altro – in fondo – che ripartire dall’incontro con gli educatori incrociati nella vita. E da qui iniziamo a trovare i tratti fondamentali che un buon educatore sa riprodurre e riproporre, pur nella mediazione del proprio carattere o della propria personalità. Un’educazione non calata dall’alto, ma che umilmente sa partire dall’affiancamento e dall’accompagnamento e non ha fretta se non di condividere il tratto di strada comune. Un’educazione che non rinuncia a indicare direzioni e obiettivi da raggiungere, ma sa anche rispettare i tempi di ciascuno, le cadute e le fragilità. Chi sta diventando grande ha bisogno di percorrere un cammino, ma anche di perdersi un po’. E il suo perdersi non è sempre un errore: più spesso è un errare capace di dire il bisogno di ognuno di noi di cercare e trovare il senso dell’essere nel mondo. Fa parte dell’ormai famosa “emergenza educativa”, la necessità di educatori che si facciano compagni di strada, che sappiano perdere pazientemente tempo ed energie, che sappiano esprimere una passione profonda per ogni persona che incontrano nel loro mandato. Educatori che sappiano decentrarsi dalle proprie figure e certezze, perché le tensioni di chi è loro affidato sono le priorità del loro compito. E perché soltanto quando si cammina insieme si scoprono i tratti della Verità. Non sono pensieri così impegnativi o difficili. Eppure si sente la necessità di riprenderli se vogliamo tenere in mano il filo della pastorale giovanile. La novità è che abbiamo bisogno di tornare a quella normalità che sa esprimere la passione per il quotidiano e la vita delle persone. Perché anche il nostro possa essere – per i ragazzi, gli adolescenti e i giovani che incontriamo – un volto per cui, un giorno, si possa percepire un senso di gratitudine.



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Alessandra Augelli

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dossier

L’educatore - wanderer: quale accompagnamento per i ragazzi “erranti”? L’uomo che viaggia solo può partire oggi; ma chi viaggia in compagnia deve aspettare che l’altro sia pronto. (Henry David Thoreau)

1 La chiave interpretativa dell’erranza

4 Educare alla strada: tra confini, margini e centralità

2 Dalle parole ai fatti: un lessico errante per nuove forme di educazione

5 Un viandante per educatore

3 Spazio, tempo e corpo dell’erranza educativa

6 Preparando la bisaccia: simboli e strumenti dell’educatore viandante

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dossier

L’uomo non può mai tornare allo stesso punto da cui è partito. Perché nel frattempo lui stesso è cambiato. Tutto quello che siamo lo portiamo nel viaggio. Portiamo con noi la casa della nostra anima. Come fa la tartaruga con la corazza. (A. Tarkowski)

Disorientati, incerti, inquieti, instabili, spaesati, scoordinati…sono alcune delle parole più frequenti con cui vengono descritti i ragazzi e le ragazze che si incontrano quotidianamente. Tali aggettivi hanno perlopiù una connotazione, se non “negativa”, certamente problematica e “sospettosa” nei confronti >

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> di un’età, qual è quella preadolescenziale, che fatica ad affermarsi nella sua specificità. Le riflessioni che si sono snocciolate lungo l’intero anno scorso hanno avuto l’intento di contribuire a passare dalle ombre alle luci del passaggio preadolescenziale, cercando di lasciar emergere dietro ogni fatica una sfida e un compito evolutivo da sostenere e incoraggiare. Analizzando i temi del progetto e del desiderio, delle relazioni interpersonali, degli spazi e dei tempi, dei cambiamenti corporei e dei vissuti emotivi, si sono volute sottolineare le possibilità insite in questo periodo di vita, così delicato, ma anche così preparatorio a tutti gli altri passaggi che si incontreranno nell’esistenza. L’incertezza preadolescenziale si può tradurre, quindi, in una potentissima riserva di domande di senso, così come l’instabilità si può leggere all’insegna della capacità di lasciar abitare in


Introduzione |

L Preadolescenza: una visione psicologica e sfide alla pastorale

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Itinerario di educazione alla fede per i preadolescenti

sé le contraddizioni e cercare nuovi equilibri; l’insicurezza si esplica nello slancio a sperimentare situazioni originali e il bisogno di conferme evidenza la capacità di rifondare dei legami scontati. La chiave interpretativa dell’erranza è particolarmente feconda in questa prospettiva: errante non è soltanto chi sbaglia strada e chi procede come vagabondo senza meta e obiettivi di vita, ma è anche chi sa fare di ogni passo un’esperienza profonda, chi sa accogliere l’imprevisto come possibilità e chi è capace di guardare con flessibilità e spirito di iniziativa il proprio cammino1. I ragazzi e le ragazze in questo senso sono erranti perché in questo tempo della vita non c’è percorso pre-tracciato che possa appagare la loro sete di scoperta e perché hanno bisogno, alle volte, di perdersi per ritrovarsi e per costruire da sé la propria bussola. Allo stesso tempo, ricercano quelle figure educative che sanno farsi anch’esse erranti, non per pura questione di empatia o di asimmetria, ma perché si fanno garanti della possibilità di formulare i percorsi in base alle domande e ai bisogni espressi e della necessità di fare della ricerca di senso della propria vita

dossier

Spiritualità dei preadolescenti. Appunti per un animatore

l’unica vera avventura per cui vale la pena impegnarsi, ogni oltre ricetta educativa e cammino formativo certo e prefissato. La celebre canzone “Io vagabondo” ci sollecita a pensare ai passaggi di crescita, al momento in cui si guarda con nostalgia al bambino che si è stati e alla perdita di punti di riferimento pur in contesti da sempre abitati dalla persona: l’essere vagabondi è svuotarsi dalle certezze materiali, pur confidando in un senso più ampio e profondo, in una “spiritualità” che fa della strada motivo di elevazione di sé. Mettersi in cammino è il richiamo intimo e costante di chi non si accontenta “del fuoco di un camino” – come dice il testo musicale – ma vuole scaldare la propria esistenza al “sole del mattino”: questo appello è per tutti, adulti e bambini, adolescenti e giovani, singoli e istituzioni, per chi osa cercare qualcosa in più, per chi dà inizio alla propria erranza a partire dalle “sfasature” che incontra nella propria quotidianità. “Certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova”2: questo coraggio è il solo richiesto per fare della propria vita qualcosa di unico e irripetibile e per suscitare anche negli altri questo desiderio.

Per approfondimenti si veda A. Augelli, In itinere. Per una pedagogia dell’erranza, Pensa Multimedia, Lecce, 2013. G. Rodari, La strada che non andava in nessun posto in I cinque libri, Einaudi, Torino, 1993, p. 242.

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dossier

1 LA CHIAVE

INTERPRETATIVA DELL’ERRANZA Che l’immagine del cammino sia eloquente per narrare la storia e le esperienze di ciascuna persona è indiscutibile;>

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> altrettanto innegabile è la necessità di sviscerare ciò che questa rappresentazione consegna a quanti vivono l’impegno formativo ed educativo, nei confronti di se stessi e degli altri. Non basta dire di essere per via, occorre comprendere come si pensa e si vive il proprio movimento esistenziale e, attraverso il modo di concepirlo e affrontarlo, in che modo lo comunichiamo a quanti ci circondano. Interessante la riflessione di Nietzsche: “Si distinguano i viaggiatori in cinque gradi: quelli del primo e più basso grado sono i viaggiatori che viaggiano e sono visti viaggiare;


La chiave interpretativa dell’erranza

propriamente essi ‘vengono viaggiati’ e sono quasi ciechi; i secondi guardano realmente nel mondo; ai terzi succede qualche cosa, in conseguenza di ciò che hanno visto; i quarti vivono ciò che è loro successo entro se stessi e continuano a portarlo seco; finalmente ci sono uomini di forza altissima che devono in ultimo e necessariamente far vivere ad altri ciò che hanno visto, dopo averlo vissuto e assimilato, in azioni e in opere, non appena sono tornati a casa. Simili a queste cinque specie di viaggiatori, tutti gli uomini in generale vanno peregrinando attraverso la vita”3. La consapevolezza di non essere mai viandanti di un’unica “specie”, ma di alternare sempre, a seconda del tempo e delle condizioni, il modo di concepire e vivere il cammino di vita, ci offre la possibilità di riflettere su alcune dimensioni importanti: quante volte, infatti, ci si sente “viaggiati” e si perde l’ardore di uno sguardo attivo sulla realtà? Quando, invece, riusciamo a guardarlo realmente e a gustarlo in profondità? In che modo dare spazio al cambiamento rispetto a ciò che si è ammirato? Le domande delle figure educative si infittiscono anche in relazione alla capacità, come dice Nietszche, di comprendere e dar senso a ciò che si attraversa e all’impegno a condividere con altri ciò che si è vissuto, offrendo, anche ad essi, opportunità di scoperta e di cambiamento: la possibilità di farsi cambiare dal viaggio e di portarlo a lungo con sé si eleva fino a rendere ‘testimonianza’ 3 4

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ad altri della propria esperienza vissuta. Acume nel guardare il mondo, riflessività e possibilità di cambiamento, interiorizzazione e permanenza intima della trans-formazione, possibilità di raccontare e comunicare ad altri l’esperienza di viaggio e, attraverso la traccia viva di un sé rinnovato, sollecitare nuove partenze: sono queste le dimensioni che si pongono come trama di un cammino autentico per sé e per gli altri. Se a volte, quindi, nella quotidianità si sperimentano momenti di stasi, passività, stanchezza, l’attenzione verso dimensioni qualificanti l’essere in cammino autentico legittimano questi passaggi in vista di una più feconda circolarità di pensiero e azione e di piccoli significativi mutamenti. Ciò che determina lo scarto tra un modo di essere in cammino e l’altro è proprio il valore dato al vissuto esperienziale – anche quello poco legittimato e approvato – , il pensiero riflessivo e il cambiamento che ne consegue. Sapendo che non tutti gli avanzamenti possono dirsi ‘cammino’, occorrerà interrogarsi su quali siano gli “equipaggiamenti essenziali che occorrono per esercitare un camminare consapevole”4: non esistono, infatti, luoghi particolari, né mete e itinerari prefissati che possono ‘promettere’ l’autenticità dell’essere-inmovimento. Ciò che conta è l’intenzione, che attribuisce senso al camminare, permettendo di superare anche i limiti e le fragilità di quegli spazi attraversati che non contribuiscono alla crescita e al compimento della dignità della persona.

F. Nietzsche, Il viandante e la sua ombra, Monanni, Milano, 1927, p. 119. D. Demetrio, Filosofia del camminare, Cortina, Milano, 2006, p. 154.

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DALLE PAROLE AI FATTI: UN LESSICO ERRANTE PER NUOVE FORME DI EDUCAZIONE

Se, come dice Heidegger, “il linguaggio è la dimora dell’essere”5, i cambiamenti nei modi di stare con se stessi, di relazionarsi e accompagnare l’altro, partono anche da un rinnovamento del linguaggio. Le parole “accendono” le trasformazioni > > e le sostanziano, innescano dei mutamenti e gli danno significato. “La pedagogia è una disciplina ‘straripante’ di parole: ogni comportamento, scelta, strategia, ogni situazione è stata definita con discorsi, circonlocuzioni, metafore, nell’intento di afferrare ciò che passa attraverso l’educazione”6: benché alcune dimensioni restino indescrivibili, incompiute e misteriose, offrire nuove parole alla formazione e 5 6 7 8

ristabilire il legame originario tra le parole e le realtà che esprimono significa arricchire i percorsi educativi di possibilità inesplorate. Da un esercizio siffatto ne scaturiranno non solo conoscenze disancorata da categorie date per scontate, ma anche azioni più efficaci, nella consapevolezza, come sostiene Freire, che “non esiste parola autentica che non sia prassi. Pronunciare la parola autentica significa trasformare il mondo”7. I pre-giudizi, le ovvietà, le forme di stereotipia con cui si guarda al cammino umano come rappresentazione universale della vita possono impedirci di cogliere in pienezza il senso autentico di tale esperienza esistenziale ed educativa, offuscandolo attraverso sovrapposizioni di astratte idee o di abitudinarie concettualizzazioni. Viaggio, itineranza, vagabondaggio, nomadismo, erranza, strada, percorso, pellegrinaggio, cammino, mobilità, via, sentiero… Tante le espressioni che si innestano sull’esperienza viatoria della persona e che danno vita ad un quadro composito. L’impegno educativo sta, innanzitutto, nell’utilizzare e diffondere “quelle parole che sappiano istituire una rapporto originario col fenomeno di cui discorrono; parole in cui il significato riesca ad abitare comodamente, perché sanno conservare la realtà di un’esperienza8”. Di conseguenza, sollecitati da questo sforzo, le figure educative sono chiamate a scegliere, a seconda dei contesti e delle condizioni, le parole da trasformare in atti, i significati da rendere presenti. Nell’analizzare le espressioni dell’ essere-in-cammino

M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, Milano, Adeplhi, 1995, p. 61. V. Iori, Essere per l’educazione, RCS- La Nuova Italia, Firenze, 1988, p. 80. P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Ega, Torino, 2002, p. 77. L. Mortari, Aver cura della vita della mente, RCS-La Nuova Italia, Milano,2002, p. 118.

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ciascuno, quindi, si senta provocato a coglierne la risonanza nel proprio vissuto e la ricaduta pratica nelle dinamiche educative quotidiane. ] Il movimento (dal latino moveo) ci presenta l’ampio orizzonte di significato entro cui si colloca il cammino: esso indica l’atto di togliere qualcosa o qualcuno dallo stato di quiete, effettuando uno spostamento da un luogo ad un altro, un cambiamento da una posizione ad un’altra. La diffusione del verbo nella forma riflessiva – muoversi – sottolinea quanto, nella formazione umana, sia necessario non tanto realizzare lo spostamento, quanto stimolarlo e suscitarlo, così che si tratti di un corpo che si adopera perché l’altro avverta questo prodigarsi e accolga a sua volta lo stimolo. Il muovere si accosta, quindi, al suscitare: ex-moveo, radice dello stesso termine emozione. Creare movimento è favorire esperienze in cui si possa sentire, camminare è emozionarsi, così come restar fermi è apatia (a-pathos), astenersi dal sentire provoca immobilità, assenza di cambiamento. Ogni modo di essere-per-via denota un diverso modo di vivere l’esperienza affettiva e sensoriale. ] Il valore dei vissuti esperienziali nelle dinamiche di viaggio ci viene sottolineata da Leed, facendo notare come nell’alto tedesco antico viaggiare, uscire, traversare o vagare veniva espresso con ‘Irfaran’ da cui deriva ‘Erfahrung’, esperienza9. 9 10

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In questo caso fare esperienza è legato al significato di attraversare uno spazio, di superare ostacoli, di valicare confini. “L’idea profondamente radicata che il viaggio sia un’esperienza che mette alla prova e perfeziona il carattere del viaggiatore risulta chiaro nell’aggettivo tedesco bewandert che oggi vuol dire sagace, esperto, ma che originariamente qualificava semplicemente chi aveva viaggiato molto”10. Il cammino non è sempre e indistintamente esperienza: può diventarlo, da un punto di vista formativo, a patto che i vissuti diretti stimolino e comportino un vero attraversamento, potendo riconoscere un punto da cui ci si allontana (ex-), una processualità attivata (-per-) e un movimento verso qualcosa di nuovo (-ire). ] Le parole “via, viaggio” fanno risalire il loro significato al latino viaticum: il bagaglio, l’occorrente necessario per nutrirsi durante il cammino. La radice etimologica del viaggio esprime anche la valenza di un buon equipaggiamento per affrontare la strada, che concili utilità, essenzialità e necessità di leggerezza. Si tratta, dunque, di educare ad “attrezzarsi” correttamente per un percorso di vita autentico: ciascuna preparazione, per quanto, attenta e scrupolosa dovrà lasciare ampi spazi liberi e strumenti di flessibilità, perché gli imprevisti che si incontrano possano essere vissuti in chiave costruttiva. Un bagaglio, infatti, troppo pesante e privo di spazi di ripen-

Cfr. E. J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, Il Mulino, Bologna, 1992, p.15. Idem.

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samento e arricchimento può diventare ostacolante per tradurre in pratica la prospettiva errante, per cui la strada si fa camminando e ogni evento è da vivere nella sua unicità. ] Ogni erranza che voglia dirsi tale presuppone una partenza (dal latino parspartum – dividere, dividersi): la partenza è una delle prime azioni educative da compiere ed è, al contempo, quella più faticosa e complessa, in quanto implica una perdita da rielaborare. Senza questa prospettiva di abbandono e di lascito, che coinvolge tutti i protagonisti del percorso formativo, il percorso stesso si riduce ad un “giro turistico” fine a se stesso, ad un ritorno al punto di partenza, privato della possibilità di cambiamento e trasformazione. Molti cammini di vita si basano su “false partenze” o su “pseudo-partenze” che finiscono, col tempo, per appesantire sempre di più il carico di aspettative e di certezze da cui occorrerà staccarsi. Educarsi ed educare alle piccole e semplici partenze “disseminate” lungo la propria storia risulta indispensabile per fare del percorso educativo un’autentica erranza.

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] L’espressione inglese utilizzata per indicare comunemente il viaggio, travel, nella stretta assonanza con travaglio, richiama la fatica e la stanchezza connessa al mettersi in cammino. In un tempo in cui molto spesso si rischia “amorevolemente” di sollevare i più giovani dalle difficoltà e dagli sforzi legati all’esperienza quotidiana, occorre rivalutare il senso educativo del disagio e della sofferenza. I momenti di limite e di fragilità sono quelli in cui si infittiscono le domande di senso e la persona è chiamata a dare risposte “in proprio” per la propria esistenza. Se, però, non avrà ricevuto, nel tempo, sollecitazioni in tal senso e non avrà preso con sé nessuna indicazione rispetto a cui potersi confrontare e anche contrastare, il compito di dare significato alla propria esistenza diventerà molto più arduo. ] Nella prospettiva itinerante, particolare rilevanza è da attribuire al transito: “trans-itum è movimento. In quanto participio passato di trans-ire unisce il concetto di ‘oltre’ (trans) con quello di ‘andare’ (ire) assumendo le molteplici accezioni di passare, andare, scorrere, trascorrere, ma anche di trasformarsi, mu-


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tarsi, e di passare attraverso, attraversare, trapassare, sorpassare, superare”11. Ponendosi tra il già e del non ancora, transitare attribuisce valore al durante, allo spazio e al tempo del per-corso, ai singoli istanti del mentre si è per via; transito (da cui transitorio, provvisorio) indica il passaggio in senso stretto, l’attraversamento. “La sincronicità del transito”, dice Perniola, “non deve farlo confondere col viaggio (…) Il viaggio implica un’origine e una meta, un’andata e un ritorno. Ma nel movimento dallo stesso allo stesso è impossibile fare tali distinzioni”12. Il richiamo a stare nel presente, proprio del transito, diventa cruciale quando ogni attesa si consuma nella prefigurazione degli avvenimenti e il peso del passato sembra condizionare ogni passo. ]“Peregrinatio deriva da ager (campo) e indica un’andata o una sosta in campagna nel campo, cioè in un luogo in cui non si vive normalmente, in un luogo estraneo. (…) Perciò la peregrinatio può significare sia il viaggio e il cammino in corso, sia la permanenza e il soggiorno in terra straniera. Lo stesso vale per il verbo peregrinari, che può significare sia pellegrinare, camminare, sia essere in terra straniera. I latini rendono con pellegrinatio il termine greco xeniteia”13. Nel tardo antico, quindi, il peregrinus è il forestiero, lo straniero, colui che passa

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attraverso14: la sua estranietà è vissuta nel segno della religiosità e di una tensione verso l’Assoluto. Il pellegrinaggio “è un cammino orante, verso i luoghi del culto o del miracolo; è un cammino per-egrinante, volto a realizzare un per. Per espiare, per ottenere, per pregare insieme”15. Questi significati richiamano l’attenzione educativa nei confronti della dimensione dell’intenzionalità, aspetto alle volte taciuto, altre volte sbandierato e confuso con la programmaticità del formare. “Intenzionare” un’azione o un evento significa attribuirgli significato e far emergere le facoltà del singolo di volgersi verso le cose sottraendole dall’indistinto del non senso. Questo richiede tempo e protagonismo personale e comporta anche la possibilità di incappare nell’assenza di significato o di non rispondere a schemi programmatici prefissati. ] La parola nomade deriva dal greco némo “che ha un ampia gamma di significati, ma che nella specificazione linguistica ha sempre più assunto quello di pascolare”16. Nomade è pertanto colui che si sposta per cambiare pascoli; è detto di tutte quelle popolazioni che, vivendo di pastorizia, non hanno dimora stabile. Interessante la suggestione di Ferraro sull’etimologia della parola nomade: colui che “fa della strada (odos) la propria

11 V. Iori, Nei sentieri dell’esistere. Spazio, tempo e corpo nei processi formativi, Erickson, Trento, 2006, p. 147. 12 M. Perniola, Transiti, Castelvecchi, Roma, 1998, pp.16- 17. 13 A. Grün, In cammino. Una teologia del peregrinare, Edizioni 14 Cfr., F. Ferrarotti, Partire tornare. Viaggiatori e pellegrini alla fine del millennio, Donzelli, Roma, 1999, p.60. Messaggero di Sant’Antonio, Padova, 2005 p.13. 15 D. Demetrio, Filosofia del camminare, op. cit, pp.75- 76. 16 E. Baccarini, Il pensiero nomade, Cittadella, Assisi, 1994, p. 16.

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legge (nomos)”, indicando così “la percezione di essere ovunque e da nessuna parte”17, di essere ‘condannati’ all’esclusione, alla liminarità di chi non ha fissa dimora. L’esperienza del nomadismo, da leggersi in contiguità e non in contrapposizione con quella della stanzialità, è senz’altro quella che, da un punto di vista antropologico e socio-culturale, meglio esprime i vissuti dell’uomo e della donna contemporanei: spostamenti fisici o dislocazioni cognitive, mobilità effettiva o fluidità percettiva, in ogni caso, la persona viene a contatto con una serie di implicazioni ed effetti che - a livello globale e locale, a livello virtuale e a livello di esperienza quotidiana - i processi del nomadismo contemporaneo provocano come segno e come vissuto18. La libertà di movimento si intreccia con la capacità di intravedere spazi fecondi per accasarsi, anche temporaneamente, e l’assenza di itinerari prestabiliti si affianca alla necessità di costruzione progressiva di una mappa orientativa. ] Il vagabondo (dal latino vagare, vagum) si muove di qua e là, acquisendo in profondità il senso dell’indeterminatezza, della instabilità del cammino; moto incerto e indefinito che viene condiviso dall’errante (dal latino errans, da cui errore) che, proprio in virtù di tale

vaghezza, contempla, nel suo andare, la possibilità di sbagliare, di cadere in errore, di allontanarsi dal giusto, dal vero. L’errante, il vagabondo ama camminare, spostarsi a piedi; questo particolare modo di essere-in-movimento riassume in sé la centralità e l’intenzionalità di un corpo (Leib), che esperisce il mondo e la valenza di una spazialità e una temporalità, che nel percorso, seppur fatto di avanzamenti e retrocessioni, di errori e deviazioni, avanza, progredisce, si sviluppa: “il camminare, pur senza meta precisa, è pur sempre un ‘andare verso’ (…). Si cammina sempre guidati dallo sguardo proteso in avanti”19. Tali chiarificazioni appaiono indispensabili per saper scorgere spazi di possibilità educativa, lì dove l’inconcludenza di un movimento erratico sembra condurci. ] Interessante, infine, notare le sfumature semantiche tra strada, via, sentiero, rotta. La strada (dal tardo latino stratam, che sta per via strata, via lastricata) indica un tratto di terra, generalmente spianato o lastricato, che permette la comunicazione tra più luoghi; la strada è sì lingua di terra che collega più luoghi, ma anche luogo di incontro, di scambio. L’incrocio di strade si fa bivio, crocicchio, la confluenza di strade si fa piazza. “È un errore”, dice Emanuele Severino, “rite-

17 Ibidem, p. 5. 18 Cfr. M. Callari Galli (a cura di), Nomadismi contemporanei. Rapporti tra comunità locali, stati-nazione e ‘flussi culturali globali’, Guaraldi, Rimini, 2004, p. 13. 19 D. Demetrio, Filosofia del camminare, op. cit., p. 79. 20 E. Severino, La strada, Rizzoli, Milano, 1983, p. 7. 21 L. Rigoliosi, La strada come luogo educativo. Orientamenti pedagogici sul lavoro di strada, Unicopli, Milano, 2000, p. 13. 22 S. De Giacinto, L’isola delle parole trasparenti, Vita e Pensiero, Milano, 1983, p. 31.

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nere che la strada sia uno stratum dove le cose restano così come sono, restano prodotte o distrutte, vicine o lontane dall’esistenza”20; la strada “è un piccolo mondo, dove si incontra una ‘porzione di umanità’ che trascorre parte del proprio tempo e della propria vita”21. La strada è anche via (dal latino vehere, portare), spazio che permette di transportare, luogo che consente di condurre attraverso il mondo. Alla voce sentiero troviamo la definizione di “viottolo generalmente stretto che si è formato in seguito al frequente passaggio”: percorrere sentieri battuti da altri, o essere in prima persona creatori di un sentiero grazie ad un continuo camminare. “Le strade mi s’allungavano davanti, oltre che dietro, man mano che i miei giorni portavano ciottoli sulle strade stesse”22: l’azione del portare ciottoli,

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del segnare col passo la via, del solcare la terra col vigore di una presenza costituisce opera autentica del viandante, dell’errante. E così anche la rotta (dal latino via rupta) nel significato etimologico non richiama tanto una strada rotta, spaccata, disfatta, dissestata, quanto una ‘via aperta’, generalmente usato per indicare il percorso di una nave o di un aereo; proiezione, direzione, percorso compiuto o da compiere, conservando ampi spazi di manovra, di cambiamento, di inversione. Se, come dice De Giacinto, “le parole attendono una loro realizzazione. (…) Ognuna è protagonista, vuole il suo tempo e la sua grazia”23, possiamo far sì che, negli spazi e nei tempi opportuni, esse creino interrogativi perché uno stile viandante possa caratterizzare le figure educative.

23 Ibidem, p.13.

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3 L’esperienza educativa nella complessità di variabili e di dimensioni che attiva risulta molto spesso di difficile lettura: per tentarne una comprensione ci si può lasciar aiutare da tre direzioni di senso originarie – spazio, tempo e corpo - che, in quanto proprie di ciascuna persona, ci permettono di leggere i vissuti dall’interno, superando preconcetti e ovvietà. Il cammino >

SPAZIO, TEMPO E CORPO

DELL’ERRANZA EDUCATIVA > è “laboratorio”24 educativo attraverso cui prendere

consapevolezza dello spazio che siamo: non tanto dello spazio che abbiamo a disposizione, di cui fruiamo nelle nostre attività quotidiane, dello spazio contenitore di gesti e movimenti, ma dello spazio che trattiene emozioni e ospita sentimenti e pensieri. Dice Solnit: “il senso dello spazio si può acquisire solo a piedi; poiché a piedi ogni cosa rimane collegata, perché camminando si occupano quegli spazi che separano”25.

Qualificare gli spazi L’erranza educativa permette alla persona di qualificare gli spazi incontrati, di attraversare luoghi differenti, vivendo la complessità degli “antipodi”. Tra i paesaggi dell’anima – come li chiama Galimberti – e quelli del mondo esterno si intesse un dialogo continuo, più o meno cosciente, più o meno esplicitato: i luoghi che andiamo a cercare riflettono bisogni intimi e questa consapevolezza è quanto mai fondamentale da un punto di vista educativo in quanto apre interrogativi su quei luoghi dove sono diretti i più giovani, ma anche sulla quantità e la qualità degli spazi entro cui proponiamo l’incontro interpersonale. “L’esterno ci abita quanto il nostro interno. Il paesaggio ci vive, ci at-testa stando in noi, nel nostro corpo-esperienza e nella nostra testa-pensieri. (…) Ciò che del paesaggio si fa in noi narrabilità, diviene abilità d’esistenza, 24 Non inteso dal punto di vista delle scienze esatte come luogo in cui si sperimenta una correlazione ipotizzata tra parametri preventivamente stabiliti, come campo per la raccolta e la verifica dei dati, ma come spazio in cui si fa esperienza di alcuni vissuti, si tenta di comprenderli, esprimerli e condividerli, elaborando sapere. Per approfondimenti si veda A. Augelli, “Fare laboratorio per apprendere con i ragazzi. Quel che della vita si può comprendere (meglio) attraverso laboratori educativi” in Animazione Sociale n.263 maggio 2012, pp. 88-97. 25 R. Solnit, Storia del camminare, Mondadori, Milano, 2000, p. 10.

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In cammino con i ragazzi 1. Erranza e processi educativi /1 2. Erranza e processi educativi /2 3. L’inizio di un’avventura 4. Il corpo che cambia nella preadolescenza 5. L’affacciarsi delle domande di senso 6. Nostalgia del futuro: educare il desiderio tra sogni e progetti 7. Amici, compagni, primi amori 8. Camera con vista o senza? 9. Sulla soglia del sentire. Preadolescenti ed emozioni

capacità di de-scriversi, capacità di discernere il nostro paesaggio interno dal paesaggio esterno, anche se l’uno è la continu-azione dell’altro. (…) Il paesaggio di vita, sin dall’inizio, ci attende, ci sente, ci colloca, ci racconta la nostra storia, ci trasforma in storia, perché noi lo si narri, anche senza parole – nella storia della nostra storia”26. Lo spazio, rispecchia e, al contempo, influenza i nostri vissuti emotivi. Sottolinea Binswanger come ci sia sempre uno “spazio emotivo, che non è assente da ogni altro tipo di spazialità, ma anzi lo contrassegna dal profondo”27. Ogni spazio per il viandante si offre come potenzialmente suggestivo: ogni territorio, anche quello in apparenza più sterile e insignificante, può, cioè, “suggerire”28 26 M. L. Lorenzetti, Psicologia. Estetica. Narrazione, Metafore e metaforme del cambiamento, Franco Angeli, Milano, 1997, p. 122. 27 D. Cargnello, Alterità e alienità. Introduzione alla fenomenologia antropoanalitica, Feltrinelli, Milano, 1977, p.123. L. Binswanger distingue lo spazio orientativo da quello emotivo, ossia “lo spazio nel quale il Dasein si trova in quanto emotivo, intonato”. 28 Dal latino “sub-gerere”,portare sotto, dare silenziosamente, consegnare dabbasso.

10. Preadolescenti e “spiritualità della strada” 11. Erranti nel web 12. Vivere lo sport con i preadolescenti 13. L’educatore-wanderer. Quale accompagnamento per i ragazzi “erranti” Ogni puntata è accompagnata da schede di lavoro “Ragazzi ed educatori in azione”

qualcosa, può instillare domande o stimolare risposte. L’educazione itinerante ci stimola a conservare un rapporto dialogico con gli spazi in cui stiamo, con i territori che attraversiamo poiché tramite essi personalizziamo il mondo e diamo voce ai paesaggi interiori che ci abitano. Il cammino, “il movimento - dice Merleau-Ponty - non fa altro che manifestare in modo più sensibile l’implicazione spaziale e temporale: il presente vissuto che racchiude nel suo spessore un passato e un avvenire”29. Nel momento stesso in cui avanziamo abbandoniamo apparentemente un tempo che “non è più” e ci dirigiamo verso un “non ancora”, ma in realtà il presente conserva sempre memoria e progetto, passato e futuro. Nel tempo attuale l’angoscia di sapere che non siamo noi a poter governare il tempo ci spinge da un lato a fuggire, dall’altro a convincerci di poterlo ge29 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, op. cit., p. 364.

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stire, regolare, organizzare in ogni sua dimensione. Si fugge dal presente proiettandosi in un futuro senza scopo né direzione, o rifugiandosi in un passato idilliaco, incorniciato in uno sguardo ingenuo. Non di rado si rischia di scappare anche dallo stesso futuro e dal passato ‘vivendo alla giornata’, inchiodando l’attimo ad impegni e scadenze. “Vivere alla giornata, tuffarsi nell’attivismo incessante, avere come dimensione temporale unicamente il presente diventa una fuga dal passato vissuto come troppo imponente per essere assorbito e metabolizzato, e dal futuro avvertito come sempre più minaccioso perché imprevedibile e non controllabile”30.

30 V. Iori, Nei sentieri dell’esistere, Spazio, tempo e corpo nei processi educativi, Erickson, Trento, 2006,, p. 118.

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Al “passo” del tempo? Non si cammina più al passo con il tempo, attraverso il tempo. Si corre contro il tempo, si avanza rapidamente tentando di averne la meglio. Il movimento segue ritmi frenetici e frammenta il tempo in una miriade di istanti privi di un senso unitario. Sembra si ‘lotti’ ogni giorno con un tempo mai sufficiente rispetto all’affaccendarsi umano; e a volte si giunge, paradossalmente, quasi ad apprezzare chi ha poco tempo a disposizione, perché molto impegnato. La mancanza di tempo segna la vita di ogni persona; la fretta, l’impazienza caratterizzano l’esperienza vissuta di molti e si diffonde l’incapacità di fermarsi e attendere. Si tende a spostarsi nella realtà riducendo al minimo le perdite di tempo, senza troppi slittamenti e imprevisti. In modo particolare l’attuale ‘intolleranza’ all’imprevisto è emblematica di una modalità di essere-in-viaggio propria di chi vive calcolando e gestendo i percorsi formativi secondo ‘tabelle di marcia’. Non si ammettono situazioni che intralciano la ‘corsa’, frangenti (etimologicamente dal latino ‘frangere’, rompere) che spezzano il tempo previsto del percorso, costringendo a volte a cambiar strada, contrattempi che ostacolano il volgersi programmato dei momenti del viaggio. “Il vero disagio che l’imprevisto provoca è quello di mettere a nudo la persona, di rivelarla a se stessa ed è per


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questo che fa così paura”31. Anche il tempo ‘libero’ risulta essere un tempo ‘pieno’. Per paura di saggiare ‘vuoti’ che urlano il limite, si rischia di “predisporre” percorsi educativi in cui il cambiamento è un tempo stretto tra due date (l’inizio e la fine), rosicchiato già dalla sua conclusione, un tempo ‘cieco’, indifferente a ciò che è passato e abituato ad un futuro tutto prevedibile. Rivoltella sottolinea come la maneggiabilità del tempo, se da un lato porta il tempo al di fuori dalla persona, lasciando prevalere l’ordine del manipolare (dominio della tecnica), rispetto all’ordine dell’accadere (dominio del senso collettivo e della storia), dall’altro può condurre la persona ad una maggiore possibilità di scelta, di padronanza, di orientamento nel proprio orizzonte temporale32. Compito educativo imprescindibile è quello, allora, di ristabilire il senso della memoria, del presente e del progetto. La valenza del ricordo emerge sempre più spesso soltanto quando si vive lo smarrimento, quando ci si perde e, in questo caso, tornare indietro, ripercorrere il percorso fatto diviene un’urgenza, se non un imperativo. Fare memoria è per il viandante esercizio del cuore: riconnettersi cioè con ciò che fa vibrare la propria esistenza, con ciò che appassiona e rende vitali. Rievocare la strada compiuta permette di riconoscere gli incontri decisivi, gli 31 S. Chialà, Parole in cammino, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2006, p. 80. 32 Per approfondimenti si veda P.C. Rivoltella, Giovani e percezione del tempo: il punto di vista dell’educazione in G. Ardizzo (a cura di), “L’esilio del tempo. Mondo giovanile e dilatazione del presente”,Meltemi, Roma, 2003, pp .64-73.

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eventi che hanno contrassegnato la personale via, come unica e autentica, i bivi incontrati e le scelte fatte, le possibilità censurate o non viste: solo riandando con la mente e il cuore a quei momenti, riannodando i fili del tempo, prendendo tra le mani il bandolo della matassa si può tentare di comprendere il senso di una storia di viaggio. L’homo viator si accorge che la tessitura tra passato, presente e futuro è un lavorio continuo: un paesaggio ne rievoca un altro già attraversato, una situazione che si presenta fa riemergere paure e remore antiche, un particolare fortuito ci fa battere il cuore per un futuro desiderato. “La memoria sottrae all’oblio le cose che sono state, riconsegnandole ad una nuova significatività, ad una nuova intenzionalità futura”33. In un esistenza itinerante i ricordi non vengono stipati in scatole chiuse, ma costituiscono sillabe, parole, lemmi di un andare discorrendo, alla ricerca di un senso rinnovato passo dopo passo.

Movimenti a spirale Unica via per l’errante che non vuole sottrarsi allo scorrere del tempo, ma viverlo in pienezza, è di rimettere in circolo il proprio passato, innestandolo nel presente: il ritorno al passato non è regressione, ma movimento della ricerca di senso che, attraverso la distanza temporale, permette il riappropriarsi di alcuni vissuti, tra risorse e limiti. Nel movimento a spirale dell’errante, il passato viene rivisto e riletto continuamente alla luce dei nuovi significati 33

V. Iori, Nei sentieri dell’esistere, op. cit., p. 121.

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raccolti, viene rivisitato grazie ai vissuti presenti, e si orienta verso un futuro che custodisce un senso più grande. Per questo “la passione avvertita per il proprio passato si trasforma in una passione di vita ulteriore”34. Quanto esercizio di memoria esiste nei percorsi educativi proposti? Quanta capacità di lettura critica del proprio passato e della storia comune viene promossa nei luoghi formativi? Sono domande, queste, che sostengono l’autenticità educativa, senza sacrificare tuttavia altre dimensioni. Si è ben consapevoli, infatti, di quanto sia il futuro la struttura temporale propria del viandante, “la dimensione aperta del non-ancora, in cui il soggetto si scopre finito, temporale, ma animato da un insaziabile desiderio di infinito”35. Nessuno spostamento avrebbe senso se non fosse proiettato in un tempo ‘altro’, non ancora vissuto, orizzonte in cui prendono corpo le direzioni possibili, irradiate dal presente. Il futuro è tempo in cui dimora il cambiamento, da cui il partire trae ispirazione e fondamento, verso cui il trans-ire protende, a cui ogni viandante lega le sue attese. Nella dimensione temporale del non-ancora germina la speranza: essa “libera il tempo, nel quale ci chiudiamo, come in una prigione, (…) speranza che riunisce, riconcilia i frammenti di un tempo che separa e disgiunge”36. La velocità con cui ci muoviamo non ci 34 D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Cortina, Milano,1995, p. 10. 35 E. Baccarini, Il pensiero nomade, Cittadella, Assisi, 1994, p. 27. 36 Cfr. G. Marcel, Homo viator. Prolegomeni ad una metafisica della speranza, Edizioni Borla, Parigi, 1980, pp. 6465.

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permette di vivere a pieno tutte quelle esperienze che hanno bisogno di tempo per venire alla luce, tutti quei vissuti che richiedono un tempo più ‘giusto’, ove il presente sembra non esistere. L’incontro e il dono caratterizzano il tempo presente: è nell’esperienza vissuta con l’altro e per l’altro che ciascuno può percepire l’ampliamento del tempo, la possibilità di espandere e dilatare la temporalità oggettiva e misurabile e abbracciare una realtà più ampia: la persona scopre, con stupore, la bellezza di aver speso tempo in ‘lunghezza’, ma di averlo guadagnato in ‘spessore’ di vita. Lì dove si concepisce l’esserci come temporalità vissuta, dare il proprio tempo significa offrire parti di sé. Il tempo mio diviene “tempo dell’altro che incontro e che acquista per me il senso di una temporalità che convocandomi mi oltrepassa e in questo superamento il tempo dell’altro si produce come il risultato di una gratuità”37. Un tempo dilatato, non conteggiato, di ampio respiro, lungimirante è fondamento dell’aver cura autentico, che “va oltre l’immediatezza del bisogno presente, ma investe per il futuro”38. Solo nel tempo donato il viandante supera “l’angoscia di passare, di finire, di giungere al termine, trasformandola nella ‘gioia di essere in cammino’”39.

Muoversi come corpo/persona Nell’esperienza del camminare si percepisce in modo immediato quanto il corpo sia persona, e non meccanismo che 37

E. Baccarini, Il pensiero nomade, op. cit., p. 48.

38 Idem. 39 L. Mortari, Un metodo a-metodico, La pratica della ricerca in Maria Zambrano, Liguori, Napoli, 2006, p. 11.


Spazio, tempo e corpo dell’erranza educativa

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si muove secondo sterili automatismi: il corpo offre la possibilità, non solo di entrare in contatto col mondo attraverso i sensi, ma di saggiare la correlazione tra il movimento e i vissuti emotivi, i sentimenti che ne modulano il passo. Il corpo-persona (Leib) conosce la baldanza del passo saltellato, la lentezza del camminare affaticato, l’esigenza di fermarsi, il desiderio di correre, la trepidazione di aver raggiunto una meta, la frustrazione di una via labirintica. I vissuti emotivi condizionano e caratterizzano l’andatura di ciascuno, il ‘portamento’, i modi, cioè, di ‘portarsi’ sulla scena del mondo, di essere con gli altri: la fiducia e la sicurezza di ‘camminare a testa alta’ o il timore di incedere restando ‘rinchiusi tra le spalle’. Nello stesso tempo, ‘incorporiamo’ segni di esperienze fatte lungo il cammino che si fanno visibili sul nostro corpo: le cicatrici di una caduta, lo zoppicare dopo un ostacolo incappato, il trascinare pesi o difficoltà non risolte. “L’io per mezzo del suo corpo costituisce un assoluto centro di orientamento attorno al quale il mondo viene a collocarsi come mondo circostante”40: nel camminare si fa esperienza dell’unità delle parti, che si muovono secondo la ricercatezza di un’armonia, secondo un ordine e una correlazione ritmica di ciascuna parte. “Camminare in sé è l’atto volontario più vicino ai ritmi involontari del corpo: il respiro e il battito del cuore. Stabilisce un delicato equilibrio tra il lavorare e l’oziare, tra il fare e l’essere. Camminare è uno stato ideale in cui la mente, il corpo e il

mondo sono allineati come se fossero tre personaggi che finiscono per dialogare tra loro, tre note che improvvisamente formano un accordo. Camminare ci permette di essere nel nostro corpo e nel mondo senza esserne sopraffatti”41. L’errare risponde al nostro desiderio di entrare in contatto col mondo, di saggiare una sorta di estensione nella realtà, ma al contempo di sperimentare i suoi confini, i limiti a cui il corpo è soggetto: la fatica, l’ostacolo, ma anche l’impossibilità di raggiungere alcuni luoghi solo con le nostre gambe. Errando si fa esperienza del mondo attraverso la sensibilità del proprio corpo e si conosce meglio la propria corporeità incontrando il mondo e i limiti che esso pone. La parte del corpo maggiormente coinvolta nell’esperienza del camminare sono le gambe: esse rappresentano il senso del nostro dirigerci, costituiscono la modalità mediante cui il “corpo, come assoluto qui, si orienta verso i vari là del mondo”42. Il ‘viaggio’ inizia quando ci si alza, si ‘dis-accavallano’ le gambe, ci si ‘scomoda’ per andare verso qualcosa o qualcuno. Molti nella loro vita e nella loro attività, dice Thoreau, restano “seduti con le gambe accavallate, quasi che le gambe fossero fatte per sedervisi sopra e non per mettersi eretti e camminare”43. Costituiscono, dunque, una base sicura su cui sollevarsi, da cui essere sostenuti, grazie a cui si rende possibile la flessibilità e il movimento: alternandosi una dopo l’altra, in un moto inarrestabile, le

40 D. Cargnello, Alterità e alienità. Introduzione alla fenomenologia antropoanalitica, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 110.

42 Ibidem, p. 109.

41 R. Solnit, Storia del camminare, Mondadori, Milano, 2000, p. 5. 43 D. Thoreau, Camminare, SE, Milano, 1989, pp. 14-15.

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gambe permettono l’azione verso un altrove. La stanchezza del dirigersi o la paura del pericolo incontrato si avverte innanzitutto nelle gambe, che diventano ‘molli’, fiacche e ci impediscono di andare avanti. Spesso si prova anche la bellezza di “lasciarsi portare non dalle gambe, ma dai sensi: assaporare colori, odori e suoni”44. I sensi ci permettono di cogliere la ‘finezza’ dell’esperienza viatoria, sottigliezze che non cogliamo se non attraverso un esercizio di apertura e di profondità che contrasti la distrazione e la superficialità. I colori di un paesaggio, i profumi della natura, il sapore di un pasto condiviso costituiscono l’essenza dell’attraversamento. Bodei evidenzia che i sensi “sono quasi delle finestre sul mondo e, guardando la cosa al contrario, sono delle vie d’accesso del mondo dentro di noi. I sensi umani ci mettono in rapporto con la realtà in maniera differenziata. Ciascuno di essi ci dà dei tipi di conoscenza che altri non ci possono dare e noi alla fine li integriamo, usiamo una specie di miscelatore e così costruiamo in qualche modo la realtà”45.

Affinare il sentire La sensorialità, come affinamento del sentire, non è tanto eredità tramandata o predisposizione passiva, quanto competenza dinamica, da coltivare e perfezionare. “Uno dei compiti, io credo, del nostro modo di stare nel mondo, sarebbe di

aprire più gli occhi, le orecchie, quasi tutti i pori del corpo e sostanzialmente avere un’esistenza più ricca, probabilmente più sensata - nel doppio significato del termine - in quanto ci rendiamo conto di più cose, esercitando questi sensi, soprattutto quelli che nella nostra tradizione sono stati più trascurati”46. Lo spirito itinerante nei percorsi formativi si evince, anche, quindi, dalla capacità di attivare la sensorialità e di allenare l’esercizio del senso attraverso la sollecitazione dei sensi. Contesti educativi dove non si avvertono odori, gusti, visioni, suoni, contatti particolari non solo restano anonimi ma creano indifferenza e impersonalità. Al contrario la sollecitazione dei sensi aiuta a contrastare l’ovvietà e la consuetudine e favorire il decentramento rispetto al ‘senso comune’. Essere erranti nella formazione significa aprirsi al ventaglio di sensazioni, avendo il coraggio di imbattersi in sapori nuovi. L’erranza educativa ci stimola a “ritornare a questo mondo anteriore alla conoscenza di cui la conoscenza parla sempre, e nei confronti del quale ogni determinazione scientifica è astratta, segnitiva e dipendente, come la geografia nei confronti del paesaggio in cui abbiamo imparato che cos’è una foresta, un prato o un fiume”47.

44 S. Chialà, Parole in cammino, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2006, p. 68. 45 R. Bodei, I sensi e la filosofia, Intervista del 03/07/1991, in RaiEducational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.emsf.rai.it/scripts/interviste.asp, corsivi miei.

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46 R. Bodei, I sensi e la filosofia, ibidem, corsivi miei. 47 Ibidem, p. 17.


Educare alla strada

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EDUCARE ALLA STRADA:

TRA CONFINI, MARGINI E CENTRALITÀ

La strada è, per eccellenza, luogo dell’erranza esistenziale. Nessun immagine, probabilmente, come la strada, racchiude in sé una ricchezza di simbologie, rimandi, suggestioni: artisti, scrittori, cantautori, poeti hanno attinto ispirazione da essa. Autostrade, strade a scorrimento veloce, vicoli e tratturi; strade in salita e in discesa; tornanti, curve, rettilinei; >

> paesaggi e segnaletiche; a senso unico, senza via d’uscita, restringimento di careggiata, strada dissestata... Di per sé la strada può arricchirsi di significati esistenziali, può stimolare riflessioni, può richiamare alla mente vissuti ed esperienze personali. Quando si popola di presenze diviene terreno d’incontro, luogo di scambio, ma anche sfondo su cui si stagliano storie avventurose, che si svolgono allo scoperto, senza alcun riparo e protezione dai rischi e dagli imprevisti. Per via si avverte la precarietà di relazioni che si compiono nel qui e ora, dove si sperimenta l’episodicità, ma anche l’intensità e l’essenzialità di condivisione e partecipazione. “La strada, con i suoi incontri favolosi e patetici, i suoi drammi sconosciuti. Creature profondamente diverse si mettono in viaggio destinate a percorrere la stessa strada”48. La strada brulica di gente, si fa scenario di eventi inattesi e apparentemente insignificanti, partecipa dei nostri incontri, può comunicare comunica calore o freddezza a seconda delle relazioni che in essa e attraverso essa si compiono.

Nuove possibilità educative La relazione, l’incontro, l’esperienza che in essa si dispiegano denotano la strada come spazio denso di possibilità educative. 48 La strada (1954), Regia di Federico Fellini, Prodotto da D.De Laurenis e C.Ponti; con Anthony Quinn, Giulietta Masina, Richard Basehart.

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La via può essere territorio educativo privilegiato poiché si fa spazio dis-allontanante, predisponendo all’incontro e all’interazione con l’altro. La strada ricongiunge, colma dei vuoti, rende ‘presenti’, ‘prossime’ le persone lontane: tracciare una strada, cercare o segnare una via lì dove non c’è può divenire impegno educativo concreto e sempre attuale.

Al contempo, per poter far emergere i significati formativi legati alla strada, occorre innanzitutto confrontarsi con una serie di rappresentazioni e pregiudizi: è un contesto, infatti, associato all’immoralità e all’illegalità, dove avvengono “danni” nei confronti della società. Le dimensioni della libertà e della ricerca di senso, della sperimentazione di vita e della “rottura” dei gusci protettivi necessaria per la crescita di ciascuno vengono facilmente confusi con la spensieratezza, l’autodeterminazione e la discrezionalità. Nella prospettiva socio-educativa il lavoro di strada è stato molto valorizzato soprattutto come modalità per incaricarsi dei bisogni di vita che sorgono ‘dal basso’ e valorizzare le soluzioni si escogitano processualmente con creatività. La strada, “attraversata da una pluralità di soggetti, per cui ognuno ha la sua traiettoria, le paure, gli interessi, i limiti e le risorse si fa, dunque, spazio educativo ove poter annodare fili allentati di realtà sociali e comunitarie

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sofferenti e disgregate”49. Pur accogliendo e apprezzando l’enorme contributo in termini di teoresi e di prassi che gli studi sull’educativa di strada hanno dato e continuano a dare alla formazione, si intende, qui, effettuare un passaggio: dall’educare nella strada all’educare alla strada. Se, infatti “la relazione educativa è sempre spazializzata, non solo per il suo essere contenuta in uno spazio, ma perché essa determina i caratteri di questo spazio”50, è interessante comprendere come i diversi soggetti in formazione, i ragazzi quindi e gli educatori stessi, intendono e vivono la strada come sollecitazione per la propria esistenza. Lì dove “lo spazio educativo è spazio dell’espansione della vita ed (…) è spazio della scoperta che si allarga contemporaneamente al dischiudersi ed espandersi dell’intelligenza e del sentimento”51, la strada può essere territorio, in cui ritrovarsi e rileggere il proprio modo di essere-nel-mondo.

Ai margini e confini Si può, in tal senso, educare alla strada anche se non si è fisicamente in essa, poiché la spinta all’esplorazione, la crescita in autonomia, la legittimazione dell’errore, il rafforzamento della capacità di ritornare diventano dimensioni praticabili in diversi contesti. Aprendosi all’imprevedibile bellezza 49 Cfr. P. Bertoli, Fare l’operatore di strada: tra missione e professione in AA.VV., “Acrobati senza rete”,Franco Angeli, Milano, 2004, p. 14. 50 V. Iori, Lo spazio vissuto, op.cit., p. 72. 51

Ibidem, p. 83.


Educare alla strada

dell’esistenza e alla pluralità di sollecitazioni che giungono, l’educatoreviandante si dispone a costeggiare le cose procedendo lungo percorsi sinuosi, ad ‘inseguire’ le biografie che si snocciolano dinanzi, a vivere il piacevole turbamento del perdersi, non senza una padronanza di sé, indispensabile per l’ orientamento altrui. Le derive possono essere tante, poiché è proprio la possibilità di instaurare relazioni simmetriche, il fascino di ‘tuffarsi’ pienamente nella storie incontrate, la frustrazione di confrontarsi con spazi di “povertà” e fragilità possono portare al rischio di sostituirsi all’altro per compiere scelte e agevolare percorsi e provocare così la de-responsabilizzazione dei più giovani. In una corrispondenza tra spazio esterio-

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re e luogo interiore, l’erranza, per le sue caratteristiche di avventurarsi e battere sentieri non noti, di sperimentare lo smarrimento e il ritrovarsi, di ‘far parlare’ luoghi sconosciuti, di intrattenersi lungo il percorso, si propone come modalità educativa che si prende cura degli interstizi, abita i margini e attraversa confini. In particolare i confini risultano necessari al lavoro educativo in quanto, demarcando differenze e creando appartenenza, creano contrapposizioni, ma anche collegamenti. Sempre più gli educatori si accorgono di quanto la labilità e la dissolvenza dei confini crei nei più giovani incertezza, e disorientamento, poiché diventa difficile acquisire consapevolezza del dove ci si trova, del verso dove si dirige la propria azione, del dove si è stati.

Confini come frontiera I confini diventano frontiera quando siamo capaci di riconoscerli, quando permettono un radicamento che è terreno di inizio, punto di avvio per dirigersi in una direzione. La crisi dei confini crea privazione di punti di riferimento, mentre la possibilità di ravvisarli e renderli evidenti accresce l’energia quando bisogna superarli, l’umiltà quando occorre costeggiarli, la perspicacia quando è necessario discuterli. L’educatore-viandante, solo tracciando confini saprà muoversi agevolmente tra il centro e i margini della vita di quanti gli sono affidati, non rifiutando né l’uno né l’altro posizionamento. Nel suo ‘essere tra’ le differenti realtà, nel suo abitare gli spazi interstiziali dell’esistenza impara ad aver cura delle diverse forme di marginalità: marginalità dei singoli, espressa nella difficoltà di trovare e di appropriarsi dei propri punti di forza e delle proprie risorse più intime; marginalità dei gruppi e delle comunità, gennaio 2014 | 31

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connessa al mancato accesso alle risorse o alla fatica di costituire punti di riferimento organici; marginalità dei popoli e delle culture, legata a dinamiche storiche, a forme di povertà indotte ed enfatizzata da stereotipie e silenzi. L’educazione itinerante ci consegna l’immagine di un viandante che sa disporsi al centro del sentiero e ai margini, valendosi dei diversi punti di vista ed elaborando un pensiero capace di dar conto della complessità del reale; muovendosi tra il formale e l’informale, l’educatore-viandante anima il rapporto tra centralità e marginalità: dai margini al centro giungono interrogativi, indicazioni per mettere in discussione ciò che è assunto come ovvio, dal centro ai margini arrivano proposte di connessioni e reti, di

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direzionalità e orientamenti. Dice Heidegger: “Salvare la terra, accogliere il cielo, attendere i divini, condurre i mortali: questo quadruplice aver cura è la semplice essenza dell’abitare”52. L’educatore che intende dar senso alla propria esistenza e sostenere altri nella personale ricerca di significato fa sue queste linee guida e si impegna ad essere radicato nella comunità, leggendo i segni che da essa vengono; non smette al contempo di tendere ai valori alti e di custodire sogni e idealità; concilia la propensione verso la trascendenza e l’accompagnamento umile e quotidiano delle persone di cui ha cura. 52 M. Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976, p. 106, corsivi miei.


Un viandante per educatore

5 Una bellissima poesia di Baudelaire, che dice: “Ignoro in quale latitudine sia la mia patria, so solo di amare le nuvole, le nuvole che passano laggiù, le meravigliose nuvole”, esprime bene i vissuti del viandante, capace di fare di ogni luogo la propria dimora e appassionarsi al movimento incessante dell’esistenza umana. Nei diversi luoghi >

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Pastorale dei preadolescenti. Un itinerario

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UN VIANDANTE PER EDUCATORE

> educativi la multiformità del mondo-della-vita emerge in tutto il suo spessore: ci si imbatte in situazioni diverse, nell’originalità dei volti, nell’unicità delle storie, nella complessità dei vissuti emotivi. Problematicità e risorse di senso fanno parte di un’unica grande trama che si tende, aggrovigliandosi o dispiegandosi, nella tela dell’educazione: lo sguardo è sempre teso a vederne i chiaroscuri, i significati che emergono dall’esperienza. L’educatore saggia la discontinuità di condizioni differenti, di cammini non lineari e ricerca la tensione unificante, si sforza di rintracciare una continuità, non lascia acquietare la ricerca di senso, tenta di accostare frammenti e stabilire nessi tra le esperienze. Chiamato ogni giorno a padroneggiare più registri comunicativi, l’educatore percepisce dislivelli, subisce contraccolpi affettivi quando ha investito troppo, è spronato a ridefinire le sfide dopo un errore.

Una irrinunciabile fiducia Il senso di incertezza, proprio dell’esistenza, diviene spesso sfondo della relazione educativa, soprattutto in condizioni di debolezza e di marginalità, ove l’educatore è chiamato ad agire. Nasce l’esigenza di riconciliarsi con la precarietà degli eventi, affinché possano leggersi nel segno positivo della creatività, come possibilità di rivedere e rifondare il rapporto con gli altri e con le cose. Si può essere punti di riferimento anche nei momenti di smarrimento, testimoniando “l’irrinunciabile fiducia nella possibilità che l’esistere abbia motivazioni grandiose”53. Si tratta di imparare ad accogliere anche le parti più fragili della propria persona, e, in virtù di questa tensione sempre viva, accordare i lati tenui con quelli forti. Le fragilità diventano corazze quando non le si è assunte e, di fronte, agli scontri, agli urti della realtà l’educatore più facilmente si abbatte, vive il senso del 53 E. Musi, Concepire la nascita, L’esperienza generativa in prospettiva pedagogica, Franco Angeli, Milano, 2007, p. 222.

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cedimento; “la tenerezza anima la speranza andando a toccare le parti molli del temperamento e degli affetti, della fiducia in sé e negli altri, della speranza e della resistenza, contro ogni delusione”54. Per poter essere guide educative non bisogna tendere alla perfezione, ma alla coerenza, occorre saper accogliere la propria incompiutezza e riconoscersi imperfetti55: è il richiamo all’autenticità che fa dell’educatore-viandante un “esempio della sua dedizione e devozione personale alla grande causa della ricerca, della verità e della scienza. (…) Il ruolo della guida-battistrada è quello di precedere l’educando sul cammino della vita e tracciare un percorso esemplare che egli non deve ripetere pedissequamente, ma ispirarvisi idealmente per costruire la propria irripetibile storia personale”56. La guida, pur tenendo una distanza rispetto all’altro e al gruppo, non smette di ricercare, anzi, è proprio la costanza di un’errare significativo che conferma l’attendibilità del cammino indicato: “Non possiamo mai considerarci ‘a posto’ (…), perché io stesso – educatore – lotto per essere educato. Questa lotta mi conferisce credibilità come educatore; per il fatto che lo sguardo medesimo che si rivolge sull’altra persona insieme è rivolto anche su di me. (…) È proprio

il fatto che io lotto per migliorarmi ciò che dà credibilità alla mia sollecitudine pedagogica per l’altro ”57. La sana inquietudine, il desiderio costante di formarsi per formare stimola a ‘esercitarsi’ nella conoscenza profonda del sé: l’educatore-wanderer è impegnato ad educarsi a segnare i territori esistenziali, a dare nomi ai sentimenti, nel mentre li si ‘attraversa’; egli è esploratore e geografo del proprio mondo interiore: sa avventurarsi nelle situazioni, sa errare lungo i meridiani e i paralleli dell’esistenza, e attribuire senso, nominare, prendere consapevolezza di ciò che vive. Costruisce in questo modo la sua mappa di riferimento, lasciandola aperta a confronti e ulteriori revisioni, e non si limita a mostrarla o consegnarla agli altri, ma, al contrario, fornisce gli strumenti e sollecita la passione nel costruirne una personale. Per delineare una carta che dica l’esperienza vissuta, rafforza per sé e per gli altri la capacità di restare aderente al reale, non stringendo i percorsi formativi in idee, sogni, proposte che possono in qualche modo risultare lontani dalle biografie dei singoli.

Farsi viandante

55 Si veda S. Tramma, L’educatore imperfetto. Senso e complessità del lavoro educativo, Carocci, Roma, 2003.

L’educatore-wanderer fa della strada la sua dimora, strada non tanto intesa nella sua fisicità, quanto nella ricchezza di simbolismi, espressioni, significati che racchiude: crede nell’incontro come segno tangibile dell’essere presenza, lambisce i margini con passo leggero, osa percorrere sentieri “dove hanno

56 D. Bruzzone, Ricerca di senso e cura dell’esistenza. Il contributo di Viktor E. Frankl a una pedagogia fenomenologico-esistenziale, Erickson, Trento, 2007, op. cit, pp. 130-131.

57 R. Guardini, Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, La Scuola, Brescia, 1987, p. 222

54 M. Filippini, La responsabilità del sentire intenerito, in V. Iori (a cura di), “Quando i sentimenti interrogano l’esistenza”,Guerini, Milano, 2006, p. 341.

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Un viandante per educatore

escluso che si possa trovare qualcosa di buono”58, sostiene i processi di superamento degli ostacoli, agevola la ripresa dopo i rallentamenti. Per questo ciascuna figura educativa prima di essere accompagnatore dell’erranza altrui, non può non sentirsi essa stessa in cammino: nutre la propria capacità di mettersi in gioco e caldeggia per sé, innanzitutto, gli slanci creativi, restando in ascolto della ‘chiamata’ a ripartire. “Farsi viandante è un invito pedagogicamente significativo non soltanto per l’educando, ma anche per l’educatore che dovrebbe in ogni momento sapere imbracciare la sua sacca e ripartire, mettersi in cammino alla ricerca di se stesso, affrontando i pericoli e le disconferme che serpeggiano nel vasto mondo. L’educatore-wanderer non è mai arrivato, poiché nuovi spazi attendono sempre di essere esplorati (…): occorre diventare ‘liberi-per-il-viaggio’, cioè liberi di percorrere lo spazio dell’erranza sulla Terra e il tempo della vita”59. Tale spirito chiede di essere alimentato da incontri e scambi all’interno di un cammino condiviso con altri educatori, con l’équipe, con il gruppo di lavoro: spesso i contesti educativi divengono 58 Cfr. P. Bertoli, Fare l’operatore di strada: tra missione e professione in AA.VV., “Acrobati senza rete”,op. cit., p. 16. 59 V. Iori, Lo spazio vissuto, Luoghi educativi e soggettività, La Nuova Italia, Firenze, 1996, p. 250.

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sfondo su cui si stagliano traiettorie personali, intersecatesi solo nei momenti di programmazione, in cui il tempo di sosta equivale ad un puro scambio di informazioni. La compartecipazione dei vissuti, la condivisione dei passi che via via si compiono per l’altro e con l’altro, la valorizzazione delle competenze di ciascuno, la ‘comune’ cura che si progetta e si propone, il sentirsi corresponsabili nelle difficoltà e nelle crisi consolidano il camminare con l’altro, diverso dal camminare accanto all’altro o dall’errare isolatamente sullo stesso territorio. Non si tratta tanto di una “marcia” che fa più rumore di un cammino isolato, ma di un “pellegrinaggio” comune che potenzia il valore di testimonianza del singolo e il potenziale teoretico e pratico dell’essere-in-cammino. Il cammino condiviso va conquistato e non si esplica in una mera vittoria sull’individualismo e sul protagonismo del singolo: implica l’attenzione al percorso più che alla meta e la valorizzazione dei processi più che dei prodotti.

Un cammino condiviso Pensare al cammino condiviso ci riporta, infatti, non solo ad una ‘coppia’ di persone che percorre la stessa strada; l’immagine che viene alla mente è pure quella di un gruppo, di un insieme di gennaio 2014 | 35

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persone, nel quale ciascuno si distingue per un ruolo o una posizione: vi è il battistrada, il precursore, colui che si pone dinanzi e guida, orienta, indica; vi è chi si discosta dalla compagine, ama starsene ai margini; chi devia, esplora, incontra pericoli, in nome di uno spirito avventuriero che lo caratterizza; vi è chi ama soffermarsi sui particolari o perdersi nei propri pensieri; vi è chi si aggrega spontaneamente, chi si avvicina ad altri per simpatia, formando così piccoli sottogruppi; c’è chi si pone in coda per vigilare sul gruppo, per sostenere chi è in difficoltà, per proteggere gli ultimi. Le figure educative sperimentano i diversi posizionamenti rispetto al gruppo: davanti perché non venga mai meno il punto di riferimento; in mezzo agli altri perché ci sia possibilità di vivere la semplicità dei gesti di cura: il sorriso, l’ascolto, il dialogo; dietro perché sappia vegliare sui passi dei singoli nel gruppo, con rispetto e discrezione, sapendo sostenerli e lasciarli andare, affiancarsi e guardarli da lontano. La maggiore difficoltà vissuta da tutti coloro che accompagnano la crescita educativa dei più giovani sta nella cura da dedicare a tutti e al singolo, nell’impegno verso il gruppo e nell’ascolto particolare rivolto alla persona. L’educatore-wanderer agevola e coltiva il rapporto interpersonale tra i membri del gruppo, nella consapevolezza che esso si pone come anello di congiunzione per un vissuto di unione e solidarietà di ordine più esteso. Il senso della comunità si radica proprio nell’esperienza diretta dell’altro: “L’esperienza feconda della

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reciprocità è così generosa che grazie a quella mi sento capace di darmi ad ogni prossimo che traversi il mio cammino. È come una speranza che io apro all’amore, una fiducia nella sua ricchezza60. Lo spirito comunitario va ricercato e costruito con fatica: considerando le diversità che connotano l’’insieme’, occorre trasformare i distacchi tra i singoli in distanze, riempiendo di senso i vuoti di incomprensione e gli inevitabili malintesi. Si tratta non tanto di calare dall’alto “comunanze” e similarità, ma di far sperimentare la crescita che scaturisce dallo scambio tra ‘realtà’ differenti e dal ritrovarsi tutti a condividere la sete di pienezza esistenziale. Se, come dice Guardini, “la vita viene destata e accesa solo dalla vita”61, la responsabilità di “mettere in moto una storia umana e personale”62 è l’impegno di ogni educatore-wanderer, che vive in prima persona la bellezza della scoperta e la possibilità di farsi spiazzare dall’irruzione dell’esistenza provvidente, oltre ogni programmazione di percorso.

60 E. Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, Edizioni di Comunità, Milano, 1949, p. 109. A tal proposito, ne Il personalismo, lo stesso Mounier aggiunge: “Ogni qual volta si invocano delle società ‘all’altezza dell’uomo’, ‘a misura d’uomo’, ci si chiede: su quali proporzioni è fatto l’uomo? Su quelle dei giardini di periferia e dei dintorni di quartiere, oppure dell’universo e della storia? Colui che esplora milioni di chilometri sopra il suo capo e millesimi di millimetri sotto l’arco delle sue mani, colui che è chiamato ad interpretare e fare la storia universale, non va misurato dall’ampiezza del suo passo. Egli può trovare difficoltà a raggruppare l’umanità sotto masse imponenti; deve fare esperienza viva dell’umanità entro società a raggio ristretto”, op. cit, p. 65, corsivi miei. 61

R. Guardini, Persona e libertà, op. cit., p. 222, corsivi miei.

62 Idem, corsivi miei.


Preparando la Bisaccia: simboli e strumenti

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PREPARANDO LA BISACCIA: SIMBOLI E STRUMENTI DELL’EDUCATORE-VIANDANTE

> Così come non vi è una mappa effettivaDi fronte all’incertezza di non avere strade prefissate, l’attenzione viene posta sugli “equipaggiamenti” più efficaci per far fronte all’imprevisto e dar senso alle esperienze che sopraggiungono. In assenza di indicazioni valide per tutti, le figure educative si chiedono quali strumenti possono consegnare alle persone di cui si prendono cura.>

mente valida se non è co-costruita e letta assieme a quanti si accingono a riceverla e adoperarla, così non vi può essere una buona attrezzatura di viaggio che non sia preparata in ascolto dei vissuti esperienziali di ciascuno e nell’interscambio continuo con chi condivide il cammino. “Di che cosa ho bisogno per realizzare questo intervento educativo?”, “Quale cassetta degli attrezzi posso costruire per far fronte alle sfide formative attuali?”, “Quali sono gli strumenti di cui non riuscirei a fare a meno quando sono con i ragazzi”: sono queste alcune delle domande che tante figure educative si pongono nella loro quotidianità. gennaio 2014 | 37

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Simboli e realtà Solitamente si pensa, dunque, ad una bisaccia da riempire, di un bagaglio da preparare perché non si resti sprovvisti del necessario lungo il cammino. E, molto spesso, gli elementi, i simboli e gli oggetti scelti rappresentano la stessa identità dell’educatore-viandante, i suoi lati in luce, le sue competenze, ma anche le sue fragilità e debolezze. Il viandante medievale, così come il pellegrino, portava con sé un bastone, per appoggiarsi nei momenti di stanchezza e per scacciare i pericoli, una borraccia, per potersi abbeverare, un mantello e un largo cappello per potersi riparare. Ma chi si metteva in cammino aveva una sacca di pelle, leggera, piccola e resistente, per ricordarsi dell’essenzialità. Ciascuno, quindi, nel compito educativo che è chiamato a svolgere può interrogarsi su quale sia il proprio bastone, ovvero sui propri elementi di sostegno; su quali siano gli strumenti per attingere alle fonti e per attraversare le avversità. Ma soprattutto, in un tempo di iperstimolazioni e ricerca incessante di sicurezze, deve avere il coraggio di lasciare nella propria bisaccia dello spazio vuoto. Il viaticum, la bisaccia del viandante, è una sacca leggera, che si apre nei momenti di necessità, e di condivisione o di accoglienza del dono altrui: esso simbolicamente rappresenta tutto ciò di cui ci si arricchisce per via, che si “guadagna” nel viaggio, prendendo ma anche lasciando. Se, infatti, il riempire una bisaccia è sinonimo di sicurezza, lo svuotare è espressione di accoglienza e apertura a quanto si presenta lungo il transito;

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ma soprattutto lasciar spazio nei propri equipaggiamenti formativi è segno di grande fiducia nell’azione provvidente della Vita e di speranza nelle capacità della persona di auto-trascendere63. Dice Etty Hillesum nel suo Diario: “E, come fosse un fagottino, io mi lego sempre più strettamente sulla schiena, e porto sempre più come una cosa mia quel pezzetto di destino che sono in grado di sopportare: con questo fagottino già cammino per le strade”64: certo solo del valore della persona e del mistero dell’esistenza, l’educatore viandante si pone in ascolto di sé e formula continuamente il bagaglio coerentemente con i bisogni profondi appresi nella ricerca di sé e nello studio della situazione contingente. Ogni equipaggiamento, per quanto affinato sia, non può, quindi, non lasciar spazio a quella speranza che è errante, che “consente all’uomo di camminare sulle strade della vita, di essere uomo: non si può vivere senza sperare! Homo viator, spe erectus: è la speranza che tiene l’uomo in cammino, in posizione eretta, lo rende capace di futuro”65. “Caratteristica delle anime che non si sono lasciate intorpidire dalla vita”66, la speranza è quella che estende lo spazio fisico e spirituale della bisaccia, facendo sì che l’educatore-viandante possa trovare strumenti e possibilità importanti anche lì dove ci si sente nudi e impreparati, spogliati di ogni sicurezza e stabilità. 63 Dice G. Marcel: “La speranza è atto d’un pensiero d’amore che trascende il fatto” in Homo viator, op. cit, p. 77. 64 E. Hillesum, Diario, Edizione integrale, Adelphi, Milano, 2012, p. 707. 65 E. Bianchi, Parole della spiritualità, Per un lessico della vita interiore, Rizzoli, Milano, 1999, p. 163. 66 Ibidem, p. 62.


Preparando la Bisaccia: simboli e strumenti

In un’epoca per cui ad ogni problema o difficoltà sembra sempre che ci sia una soluzione e una “ricetta” immediata, occorre attraversare la paura di lasciare dei vuoti, di restare scoperti e di avvertire mancanze. Spesso rischiamo come educatori di “imbottirci” e appesantirci con una serie di precetti e suggerimenti, che patiscono la precarietà del momento. In un’ottica di “iper-educazione” ci priviamo di quelli spazi di riflessività, creatività e autonomia, così importanti per la crescita personale e di quanti ci circondano.

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L Sussidio PDF

Leggerezza e sobrietà Oltre, quindi, una serie di strumenti che ciascuno elabora e di cui prende consapevolezza nei percorsi formativi, è da proporre un bagaglio sobrio, che lasci trasparire l’opera di discernimento che sta dietro il processo di liberazione e alleggerimento: vedere ciò che si scarta e ciò che si tiene, valutare le priorità, e ciò invece che può essere in qualche modo omesso, o meglio, affidato. Un equipaggiamento leggero offre la possibilità di sentire la fame e la sete che spingono ciascuno a ricercare, a mettersi in cammino, ad accettare la precarietà che è imprevisto, è affermazione del “non so” e del “non posso”, è accettazione del limite. Dice Volpi: “Nella logica e nella convinzione che a una società complessa non possiamo che rispondere con un’educazione altrettanto complessa, abbiamo dilatato senza più confini ciò che i bambini devono sapere e saper fare. (…) Non si tratta di tornare alla semplicità, ma di affrontare la complessità con “armi” semplici e fiducia nella persona”67. Forse una preparazione siffatta spiazza e sbaraglia tanti assunti educativi, ma è ciò a cui la strada educa: il decentramento, la capacità di metterci del proprio in ogni situazione, la fecondità degli “strappi” della vita. L’educatore-viandante ha da preparare e custodire, una bisaccia leggera, sobria, semi-vuota, strappata, che sa di polvere e di incontri.

Ragazzi e ragazze insieme verso la casa della felicità

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Ragazzi e ragazze insieme verso la casa della felicità

67 R. Volpi, Liberiamo i bambini. Più figli, meno ansie, Donzelli, Roma, 2004, p. 78.

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Visione del film “Caterina va in città” (Regia di Paolo Virzì, Italia, 2003)

È la storia di Caterina, una ragazza di tredici anni che si trasferisce insieme alla famiglia dal paesino di provincia Montalto di Castro in un quartiere popolare di Roma, nella casa dei suoi nonni. Il padre, frustrato insegnante di ragioneria, vorrebbe per la figlia quello che lui non è riuscito ad ottenere, e cioè che frequenti gente illustre e prestigiosa. Caterina, ragazza semplice e ingenua, sarà dunque catapultata in un ambiente ostile alle ragazzine come lei e sarà costretta a seguire ora una moda e ora l’altra, pur di integrarsi in una realtà che lascia molti nell’anonimato. Gli adulti protagonisti della pellicola sono spesso schizofrenici e isterici, concentrati sulle proprie ideologie e ambizioni, incuranti e complici dei propri figli, impreparati rispetto ai compiti genitoriali di guida e di ricerca dell’autenticità dei più giovani.

Spunti per la riflessione “Non mi do pace. Qualcosa di me combatte contro qualcos’altro. Mi chiedo dov’è andato a finire il mio io di prima e il mio io di ora: sono veramente io?”. Queste parole rappresentano l’intensità della ricerca identitaria dei ragazzi e delle ragazze e l’inquietudine che tante volte invade il loro animo. Caterina, stanca degli insulti e delle amicizie opportunistiche, dopo una rissa a scuola scappa e girovaga per la città. È il simbolo della rottura di uno stato di cose che la turba e la disorienta e il desiderio di ritrovare se stessa. Si rifugia dall’amico americano vicino di casa che la vede ogni giorno dalla finestra e che, come specchio, gli narra i suoi cambiamenti repentini e le dinamiche della sua famiglia, chiedendole “Ma tu chi sei veramente?”. “Noi siamo persone che possiamo contare solo sulle nostre forze e che proprio per questo ce la potevamo fare, invece mi sbagliavo. Siamo vittime”. Il riscatto dall’anonimato e la ricerca di senso della propria vita sono i desideri profondi che muovono

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i genitori di Caterina nei dialoghi accesi e nei gesti alle volte sconsiderati. Essere guide nell’erranza dei più giovani richiede di riconoscere la necessità di riconoscere di essere personalmente erranti e bisognosi di essere, anch’essi, guidati. Il film inizia con un viaggio, dal paesino alla città, e termina con altri viaggi, la fuga del padre in moto e la vacanza di Caterina e sua mamma al mare. Come possiamo considerare queste erranze? “Ho trovato una spiegazione a tutto questo in un documentario scientifico alla Tv. Dicevano che al contrario dei pesci che coi loro occhi guardano di lato e delle mosche che guardano dappertutto, noi uomini possiamo solo guardare avanti”: il progetto esistenziale è ciò che dà senso ai cambiamenti e ai passaggi di Caterina, alle trasformazioni della sua famiglia e che orienta e concretizza sogni e prospettive future. Caterina, infatti, sembra approdare all’autenticità esistenziale e a dar forma alla sua identità, dopo tanto vagare …


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Ascolto della canzone “Sì viaggiare” (Lucio Battisti)

Quel gran genio del mio amico lui saprebbe cosa fare, lui saprebbe come aggiustare con un cacciavite in mano fa miracoli. Ti regolerebbe il minimo alzandolo un po’ e non picchieresti in testa così forte no e potresti ripartire certamente non volare ma viaggiare. Sì viaggiare evitando le buche più dure, senza per questo cadere nelle tue paure gentilmente senza fumo con amore dolcemente viaggiare rallentare per poi accelerare con un ritmo fluente di vita nel cuore gentilmente senza strappi al motore. E tornare a viaggiare e di notte con i fari illuminare chiaramente la strada per saper dove andare. Con coraggio gentilmente, gentilmente dolcemente viaggiare. Quel gran genio del mio amico, con le mani sporche d’olio capirebbe molto meglio; meglio certo di buttare, riparare. Pulirebbe forse il filtro soffiandoci un po’ scinderesti poi la gente quella chiara dalla no e potresti ripartire certamente non volare ma viaggiare. Si viaggiare…

Spunti per la riflessione “Quel gran genio del mio amico/ lui saprebbe cosa fare, /lui saprebbe come aggiustare /con un cacciavite in mano fa miracoli”: molto spesso, sia come educatori nei confronti dei ragazzi, sia come erranti che chiediamo aiuto ad altre guide, ci appoggiamo a logiche risolutorie e riparative. In quali occasioni ed esperienze ciò si manifesta? Quale diverse prospettive si possono coltivare? “Evitando le buche più dure/ Dolcemente viaggiare/rallentando per poi accelerare”: alcune espressioni nel testo si riferiscono a modalità di essere in viaggio: quali condividi e quali aggiungeresti? Quali possono essere le buche più dure in un viaggio? In cosa non vorresti mai incappare come educatore? “Sì, viaggiare”: l’espressione di disponibilità racchiusa nel “sì” ci ricorda altri “sì” importanti e la necessità di un impegno personale nell’intraprendere un cammino di vita. Quando ti è capitato di ripartire e di dover dire “sì” all’impegno educativo? Cosa ha significato?

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Visione del film “Il ladro di bambini” (Regia di Gianni Amelio, Italia, 1992) Antonio è un giovane carabiniere che ha il compito di trasferire da Milano ad un orfanotrofio di Civitavecchia l’undicenne Rosetta, prostituita dalla madre, e il suo fratellino Luciano. Purtroppo, però, qui i ragazzi non possono essere accolti e il viaggio prosegue per un Istituto della Sicilia, passando dalla Calabria, terra d’origine del carabiniere. Tutto il film ruota attorno al rapporto tra il giovane e i bambini, un rapporto di progressivo avvicinamento, conoscenza, coinvolgimento emotivo.

Spunti per la riflessione Antonio dopo poche ore di viaggio viene lasciato solo dal collega carabiniere; si trova così ad avere la piena responsabilità del viaggio e dei ragazzini. Il collega, prima di andarsene, gli suggerisce di togliersi la divisa, ma incerto dell’utilità e del significato di questo gesto la indossa ancora per un po’. La divisa, probabilmente, lo rassicura, legittima il suo ruolo e gli indica implicitamente quale comportamento tenere. Il primo passaggio in questa esperienza è quindi proprio quello di “spogliarsi” dai ruoli precostituiti. Le difficoltà lungo il viaggio non sono poche: Luciano ha l’asma e non vuole mangiare, Rosetta ha spesso desiderio di silenzio e di fuga. Il rifiuto dell’orfanotrofio a prendere i bambini rende tutto più complesso. È in questo momento che Antonio si interroga fortemente sul suo compito: “Questo è il lavoro dell’assistente sociale, è lavoro di femmine. Io me ne laverei le mani…”. Le domande di Antonio si intrecciano con quelle di Rosetta: “Che viaggio ti hanno fatto fare? A me non mi prendono da nessuna parte…”. Le domande sul “fare” nascondono, in realtà, la ricerca di senso, la comprensione più profonda di ciò che sta avvenendo nella loro vita. Antonio risponde prendendosi cura dei ragazzi e rischiando anche qualcosa di sé, della sua carriera.

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Una tappa importante del viaggio è quella in Calabria, dove i ragazzi incontrano la famiglia del carabiniere; qui imparano, infatti, pian piano non solo a vedere l’adulto nel suo ruolo, ma nella rete affettiva e nei sentimenti ed emozioni che egli vive. Antonio si “svela” nel dialogo con la nonna, nella foto e nei racconti di quand’era bambino, nei progetti futuri. Cresce anche il senso di protezione del carabiniere nei confronti dei ragazzi; non è più solo una protezione istituzionale, ma emotiva, affinché non vengano nuovamente “colpiti” dai pregiudizi del mondo adulto. La sosta al mare rappresenta un altissimo momento esistenziale ed educativo. Antonio invita Luciano a fare dei respiri profondi; poi lo porta in acqua e gli insegna a nuotare. Il contatto fisico, i sorrisi, i gesti di sostegno e di affidamento e anche la spesa economica di cui il carabiniere si fa carico e di cui i ragazzi si accorgono, ne fanno un’esperienza unica, che resterà iscritta nel percorso di entrambi. Il bambino, infatti, delinea già una continuità e un desiderio di amicizia futura; chiede al carabiniere se prende l’indirizzo e se andrà a trovarli e Antonio offre la sua piena presenza: “Ormai ti ho preso in custodia e non ci perdiamo più…”.


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Nel dialogo tra Antonio e il collega emerge tutta la complessità della giusta distanza, del difficile equilibrio tra ruolo e presenza, tra fare ed esserci: “Sai cosa ti costa quello che hai fatto? L’espulsione per sequestro di persona. Non dovevi entrare nell’arma, ma nella croce rossa. Dovevi solo eseguire gli ordini”. La domanda di senso iniziale si ripresenta e si estende: come si concretizza la rete di sostegno ai minori? Le istituzioni possono essere sorde ai bisogni e alle vicende dei più giovani? Alcune figure sono chiamate ad eseguire gli ordini o possono (e devono) anche maturare un’attenzione

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educativa ed essere presenti come persone? La conclusione del viaggio riassume il percorso dei tre protagonisti: i bambini, pur nel disorientamento a cui devono far fronte, imparano a ridiventare bambini e ad assaporare i momenti di gioco, l’esperienza diretta con le cose, la presenza disinteressata dell’adulto; il carabiniere farà i conti con la sua sensibilità e con il desiderio di aiutare gli altri e affermare la giustizia. I ragazzi, mentre prima risultano tra loro distanti e aggressivi, imparano a prendersi cura l’uno dell’altro e a sostenersi reciprocamente.

Visione del film “Una storia vera” (Regia di D. Lynch, USA- Canada 1999)

Alvin è un uomo di settantatrè anni che dopo aver appreso la notizia dell’infarto del fratello, con cui non ha mai avuto un gran rapporto, decide di andarlo a trovare. Il viaggio non sarà dei più semplici perché il mezzo di trasporto scelto è un trattore malconcio e la strada molto lunga. Lungo la via fa molti incontri, alcuni molto particolari, che lo aiutano a riflettere su alcuni aspetti fondamentali per la propria vita.

Spunti per la riflessione Anche se appare secondario, il mezzo di trasporto scelto è di fondamentale importanza: lo aiuta a procedere con lentezza e rappresenta il suo contatto con la terra. Metaforicamente quali mezzi di trasporto utilizzo con i ragazzi di cui mi prendo cura? Gli incontri fatti hanno la funzione di far ripercorrere ad Alvin la propria storia, di fargli maturare una maggiore consapevolezza

degli errori in funzione della riconciliazione col fratello. Quali sono gli incontri che reputo fondamentali del mio percorso di vita e nella formazione del mio compito educativo? Su quali aspetti esperienziali hanno fatto luce? Possiamo definire questa erranza un viaggio di riconciliazione? Ed io con cosa e con chi ho bisogno di ritrovarmi per compiere al meglio il mio impegno educativo?

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Ascolto della canzone “Come il sole all’improvviso” (Zucchero)

Nel mondo io camminerò tanto che poi i piedi mi faranno male io camminerò un’altra volta e a tutti io domanderò finché risposte non ce ne saranno più io domanderò un’altra volta. Amerò in modo che il mio cuore mi farà tanto male che male che come il sole all’improvviso scoppierà scoppierà. Nel mondo io lavorerò tanto che poi le mani mi faranno male Io lavorerò un’altra volta. Amerò in modo che il mio cuore mi farà tanto male che tanto che come il sole all’improvviso scoppierà, scoppierà . Nel mondo tutti io guarderò tanto che poi gli occhi mi faranno male ancora guarderò un’altra volta. Amerò in modo che il mio cuore mi farà tanto male che tanto che come il sole all’improvviso scoppierà, scoppierà . Nel mondo tutti io guarderò tanto che poi gli occhi mi faranno male ancora guarderò un’altra volta. Amerò in modo che il mio cuore mi farà tanto male che male che come il sole all’improvviso scoppierà, scoppierà.

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Spunti per la riflessione Questo testo può essere definito come l’ “inno” dell’educatore-viandante: perché? Su cosa ci induce a riflettere? “Domandarsi, guardare, lavorare, amare…”: sono le azioni-chiave su cui si punta l’attenzione: cosa ne pensi in riferimento alla tua esperienza personale? Quali verbi aggiungeresti? La canzone richiama il binomio “domanda-risposta”. Ma nel rapporto educativo è sempre così lineare? Quanto spazio ci può essere tra domanda e risposta? E la domanda sta sempre dalla stessa parte, cioè dal ragazzo, e la risposta sempre dalla parte dell’educatore?


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Visione del film “In viaggio con Evie” (Regia di Jeremy Brock, Gran Bretagna, 2006)

Ben è un ragazzo che si appresta a varcare la maggiore età, scrupoloso e ligio al dovere: il suo papà è il pastore reverendo del paese e sua madre è tutta dedita al volontariato e all’aiuto del prossimo. Ben, su indicazione della mamma, inizia a lavorare presso un’anziana del quartiere per ricavare soldi per il volontariato e incontra così la signora Evie, attrice e poetessa, donna eclettica, irrispettosa, energica e allegra che sconvolge il mondo e l’impostazione educativa di Ben, ma gli permette di trovare spazi personali di conoscenza e autenticità. Ben imparerà così non solo a guidare l’auto, ma ad orientare la sua vita al meglio, in rispondenza a ciò che sente di essere e non tanto alle aspettative altrui.

Spunti per la riflessione L’intera pellicola è discutibile dal punto di vista educativo e ha un linguaggio non sempre adatto ai ragazzi, ma è interessante soprattutto per gli adulti perché mostra alcuni elementi importanti in relazione all’essere guida. Presenta alcuni modi di essere guide per i ragazzi: la mamma di Ben, con una forte incoerenza morale, dice di insegnargli a guidare, ma spesso gli fa fare teoria e guida al suo posto, non lasciandogli spazio di ascolto, di autonomia e fiducia; la signora Evie che lo porta fuori, gli fa sperimentare alcune cose, usa una sosta forzata in campeggio per rompere gli schemi e costringe il ragazzo a prendere in mano la sua vita, accettando anche di essere a sua volta guidata dal ragazzo; Evie assume anche alle volte il ruolo di guida affettiva: invita, difatti, Ben a coltivare l’interiorità, a dispetto dalle apparenze esteriori e ad esprimere al meglio le proprie emozioni e sentimenti; il padre che rinuncia alla guida in nome di un impegno più alto, ma non manca di dare a Ben piccoli elementi di conoscenza della realtà esterna.

Probabilmente né la mamma, né il papà, né la signora Evie rappresentano l’essere guida per eccellenza, ma permettono di discutere e problematizzare caratteristiche e funzioni e attenzioni da sviluppare. Un viaggio ad Edimburgo per un concorso di poesia a cui Evie è inviata sarà l’occasione per Ben per fare le prime esperienze affettive, ma anche per valutare rischi e possibilità della vita. Al ritorno di fronte ad un bellissimo panorama la signora Evie dice: “La vita ci confonde. Quando pensiamo che sia tutto finito, la vita ci butta addosso un panorama come questo e non sappiamo più dove siamo”: queste parole possono essere espressione della capacità di stupirsi e di saper stare nello spiazzamento assieme al ragazzo, in assenza di certezza ma con il desiderio di esserci. È questo sguardo stupito di fronte al ragazzo che le permette di tirar fuori il meglio da lui, non rinunciando a palesare bisogni e ad indicare disposizioni e virtù da conquistare.

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Lettura di uno stralcio del libro “Al faro”

(Virginia Woolf)

Perché mai, si chiese, premendo il mento sulla testa di James, dovevano crescere tanto in fretta? Perché dovevano andare a scuola?A lei sarebbe piaciuto avere un bimbo sempre piccolo. Era così felice di tenerlo in braccio. Sì, che dicessero pure di lei che era tirannica, prepotente, autoritaria, se volevano; non le importava. E sfiorando i capelli di James con le labbra pensò che non sarebbe stato mai più così felice, ma si interruppe, ricordando come s’arrabbiava suo marito quando lei diceva così. E tuttavia era vero. Erano più felici ora di quanto sarebbero mai stati. Un servizio da tè di poche lire bastava a far felice Cam per giorni e giorni. Li sentiva al piano di sopra sgambettare e ciangottare appena svegli; un gran chiasso nel corridoio, poi la porta si spalancava ed eccoli entrare freschi come rose, un po’ sbalorditi, ma sveglissimi, come se quell’entrata in salotto dopo colazione che si ripeteva ogni giorno, fosse sempre un avvenimento per loro. E così era per tutto il resto del giorno, finché lei non saliva a dar loro la buonanotte, e li trovava annidati nei loro lettini, come uccelli tra ciliegie e fragole, ancora lì a raccontarsi storie su un qualche nonnulla che avevano sentito, o qualcosa che avevano trovato in giardino. Avevano i loro piccoli tesori. E così andò dal marito e gli disse, perché devono crescere e perdere tutto questo? Non saranno più così felici. Lui si arrabbiò. Perché aveva una visione così malinconica della vita? disse. Non era ragionevole. (…) Era strano, ma lei era convinta che fosse proprio così, con tutta la sua tristezza e la sua disperazione, lui era più felice nell’insieme, e più ottimista di lei. Forse perché era meno sensibile alle inquietudini umane, chissà. E poi aveva sempre il suo lavoro a cui poteva appoggiarsi. Non che lei fosse pessimista, come lui l’accusava di essere. Lei semplicemente pensava alla vita – e una minuscola striscia di tempo le si presentò davanti agli occhi, i suoi cinquant’anni. Doveva riconoscere che per lei questa cosa che chiamava vita era una cosa terribile, ostile, pronta a saltarti addosso se le dai l’occasione. C’erano i problemi eterni:il dolore, la morte, la miseria. (…) Ma a tutti i suoi figli diceva, dovete farcela. Proprio perché sapeva ciò che li aspettava – l’amore, l’ambizione, una solitudine tremenda in luoghi desolati – spesso le veniva di pensare, perché mai devono crescere e perdere tutto ciò? Allora, impugnando la spada contro la vita, si diceva, sciocchezze. Saranno felici.

Spunti di riflessione La signora Ramsay è una madre affettuosa che si dedica molto alla famiglia e ai bisogni dei suoi otto figli. Di fronte ai cambiamenti e alla crescita dei propri ragazzi vorrebbe arrestarla pur di non confrontarsi con le sfide future. Ritorna nostalgicamente al tempo passato come per paura di affrontare il rischio della tristezza e dello

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sviamento. Come educatori come vi ponete rispetto al futuro e alle trasformazioni dei ragazzi? Siete capaci di lasciarli andare? Il nuovo interroga l’esistenza e la pone di fronte ai grandi interrogativi di vita: quali domande sorgono rispetto al futuro? Quale sguardo hai sul futuro?


LIBRI |

Pierpaolo Caspani CHI È GESÙ EDB 2013 - pp. 80 – € 6,90

Nel 1863 lo storico Ernst Renan pubblica a Parigi una “Vita di Gesù” con l’intento di liberarne la figura da quelle che egli chiama “pastoie dogmatiche” costruite nei secoli dalla Chiesa. Il profeta di Galilea emerge da quel volume come il portatore di un messaggio morale e di uno stile di vita altissimo e affascinante, ma al tempo stesso irraggiungibile perché troppo lontano dalla vita quotidiana. Il messaggio e l’opera di Gesù si riducono davvero solo a un insegnamento morale? A uno stile di vita affascinante, ma irraggiungibile? Il libro si propone di mettere a fuoco il cuore del suo messaggio, cioè l’annuncio del Regno, per considerare poi il centro della sua storia, il mistero pasquale nel duplice aspetto di croce e risurrezione, e concludere con alcune riflessioni circa la sua identità profonda.

José Rovira Arumí LA VITA CONSACRATA OGGI Rinnovamento della vitalità EDB 2013 - pp. 192 – € 19,00

Esiste una questione che si dà per scontata e che è all’origine di molte incomprensioni: è possibile parlare della vita consacrata come se si trattasse di una realtà univoca o come se, conoscendo un istituto, si conoscessero tutti? Negli ultimi decenni il magistero della Chiesa ha risposto negativamente a questa domanda facendo emergere il problema di analisi e letture eccessivamente indifferenziate. Tuttavia, nel considerare il complesso e vario fenomeno storico cristiano della vita consacrata si trovano elementi coincidenti e ciò consente di elaborare un discorso generale a partire dal particolare. Non si deve però dimenticare che esistono realtà concrete: gli istituti e, in fin dei conti, gli individui, ciascuno con la propria storia spirituale e umana unica, inconfondibile e irripetibile. Il volume si interroga sull’attualità della vita consacrata evitando “il pessimismo rassegnato e la stanchezza”, ma anche “l’ottimismo ingenuo” e il rischio di confondere i desideri con la realtà, i progetti con le realizzazioni per fare invece, citando le parole di papa Giovanni Paolo II, “memoria grata del passato, vivere con passione il presente, aprire con fiducia al futuro”.

Pier Giorgio Gianazza I FIGLI DEL CORANO L’Islam oltre i luoghi comuni EDB 2013 - pp. 120 – €10,00

Chi sono i musulmani? In che cosa credono? Quali sono le loro pratiche religiose e le loro norme morali? In che modo si interpretano dal punto di vista religioso e in relazione alla società? Facendo tesoro di una lunga permanenza in Israele e in Libano, l’autore racconta l’islam “oltre i luoghi comuni” e ricorda che i musulmani si sentono legati a una immensa comunità, la ùmmah, fondata sul libro del Corano e sulla Sahdah, la professione di fede che contiene gli elementi essenziali della religione. Ciò non significa che i musulmani si sentano uguali fra loro in tutto e per tutto, o che siano veramente una comunità compatta e uniforme. Accanto a inevitabili differenze etniche, culturali, sociali, linguistiche, politiche ed economiche proprie di una comunità religiosa diffusa in tutto il mondo, esistono modi di interpretare e vivere l’islam che costituiscono motivi di differenza e di divisione.

José Maria Recondo LA SPERANZA È UN CAMMINO EDB 2013 - pp. 152 – € 13,00

La vita dell’uomo sarebbe insopportabile senza la speranza. C’è però il rischio che essa venga alimentata da realtà effimere e inconsistenti che possono mettere in crisi l’intera esistenza provocando lo smarrimento del senso e dell’orizzonte. Il libro coglie nella speranza un messaggio pedagogico che disegna l’idea di un cammino personale finalizzato a dare senso e fecondità all’agire umano. “In queste pagine - scrive il cardinale Georges Cottier presentando il testo - abbiamo l’equivalente, in uno stile scorrevole e gradevole, di un trattato sulla speranza capace di aiutare la vita spirituale e di rispondere alle questioni che si pongono nel progredire della vita di fede”.

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IO E L’ALTRO | Raffaele Mantegazza PERCORSI DI PEDAGOGIA INTERCULTURALE

Ma tu da dove vieni?

L’incontro

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Il progetto della rubrica

1. Ma tu da dove vieni? L’incontro 2. Questioni di pelle (e altro). Le differenze 3. Raccontami una terra. Le memorie 4. “Ma tu non hai fame?â€?. La quotidianitĂ 5. “Siete tutti uguali voi‌â€?. Il pregiudizio 6. “Qui c’ero prima ioâ€?. Il conflitto

7. “Parlami di teâ€?. Il dialogo 8. “Aggiungi un posto a tavolaâ€?. La convivialitĂ 9. “Per un mondo a coloriâ€?. L’utopia

Un medico di provenienza togolese lavora da anni in un grande ospedale del Nord Italia. Ăˆ molto professionale e stimato da tutti i colleghi e i pazienti. Un giorno, mentre è di guardia, riceve una chiamata: bisogna andare subito a casa di una signora che sta poco bene. Il medico chiama l’infermiere e insieme si recano a casa della signora. Mentre l’infermiere prende dall’ambulanza i macchinari per l’intervento il medico suona il campanello: si affaccia alla porta la sorella della signora che dice: “Ah, guardi, non ci serve niente. Se vuole le posso offrire un bicchiere d’acqua. Un panino no, perchĂŠ ho solo il salame e voi non lo mangiate, vero?â€?. La settimana successiva lo stesso medico è al supermercato; si è fermato un attimo fuori dall’ingresso a ripassare mentalmente la lista della spesa. Un signore si avvicina con il carrello vuoto e, accennando al deposito dei carrelli e al meccanismo dove infilare la monetina per prelevarli, dice: “Morettino, vuoi guadagnarti 1 euro?â€?.

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Scrivici

Per scrivere alla redazione redazione@notedipastoralegiovanile.it

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IO E L’ALTRO |

PERCORSI DI PEDAGOGIA INTERCULTURALE

/ȇLQFRQWUR FRQ OH FXOWXUH GLÎ? HUHQWL dalla nostra è obbligato: non si tratta di decidere se incontrare l’altro/a o no, si tratta di decidere se sarĂ un incontro o uno scontro, se porterĂ a una difficile convivenza o a una troppo facile lotta. Che ci sia ancora qualcuno che parla di scontro di civiltà è segno della barbarie dei nostri tempi: non c’è un destino di sterminio reciproco tra diversi. Le civiltĂ si incontrano e non si scontrano se sanno ammortizzare i propri conflitti, e soprattutto se non ce n’è una che si ritiene superiore. Oggi l’incontro avviene da noi, sul nostro terreno, perchĂŠ da noi ci sono le risorse economiche, spesso sottratte a quegli stessi popoli i cui rappresentanti ci starebbero “invadendoâ€?.

Incontriamo gli altri e le altre a casa nostra perchÊ loro ci raggiungono in nome di una necessità di vita: non li/le incontriamo a casa loro perchÊ l’abbiamo resa invivibile, depredandola delle risorse. Fino a che il mondo non sarà giusto, finchÊ ognuno non potrà vivere del proprio lavoro sulla propria terra, l’incontro con l’altro/a sarà sempre in emergenza, e sarà sempre da pensare come incontro con persone che rappresentano culture che sono state da noi offese e depredate. Ma che cosa vuol dire incontrare una persona? Crediamo che l’incontro, quello vero e autentico, richieda alcuni presupposti, che valgono a maggior ra-

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gione quando la distanza tra le persone che si incontrano è ampia, per abitudini, credenze, usanze, provenienza geografica.

Occorre anzitutto lasciare spazio alla domanda: spesso incontriamo gli/le altri/e partendo dalle nostre FDWHJRULH GD LGHH Č´ VVH FKH FL GDQQR sicurezza ma che non ci fanno vedere la realtĂ in tutti i suoi aspetti anche contraddittori: “Se quello è un Testimone di Geova, un senegalese, una donna, certamente sarĂ cosĂŹ, si comporterĂ in questo modo, avrĂ queste ideeâ€?: questo modo di pensare impedisce l’incontro. In questo caso non stiamo realmente incontrando l’altro/a ma la sua immagine nella nostra mente: in fin dei conti stiamo incontrando noi stessi e i nostri pregiudizi. Ma non si incontra mai una categoria: si incontra sempre un essere umano con un nome, un cognome e una storia. Si incontra Babacar Diop, non “il senegaleseâ€?. Lasciare aperto lo spazio per domandarsi “Chi è costui/costei?â€? significa giĂ rifiutarsi di percorrere la comoda strada del pregiudizio e dello stereotipo con le sue risposte troppo facili e troppo violente.

Occorre inoltre lasciare spazio allo stupore: la difficoltĂ di incontrare UHDOPHQWH OȇDOWUR D ÂŞ DQFKH GLÉ? FROW¢ di stupirsi. Ăˆ triste vedere come oggi anche i bambini e le bambine si stupiscano troppo


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poco del mondo e della vita: quello stupore che secondo Aristotele era alla base del vero pensiero sembra oggi sostituito da una situazione nella quale tutto è già visto e previsto. L’incontro con l’altro/a spezza la prevedibilità della vita, ci mette di fronte al caso, alla stranezza del vivere. Oggi, purtroppo lo stupore che ci prende quando incontriamo la persona che proviene da culture differenti è spesso stupore per la sua sofferenza. La storia dell’altro/a spesso ci stupisce per la sua violenza, per le sofferenze che la attraversano; ma comunque incontrare un altro essere umano deve significare stupirsi di come le storie di vita possano essere diverse ma anche di come possano trovarsi consonanze tra storie così lontane.

togliersi le scarpe prima di entrare in una moschea, pretendere di essere serviti da un negoziante giudeo il sabato a Gerusalemme. Chi viaggia all’estero, anche solo per lavoro, dovrebbe mostrare per i riti e le usanze locali almeno la metà del rispetto che poi pretende dagli immigrati per le proprie. Quando ospitiamo un amico a casa gli prepariamo la sua stanza, modifichiamo il nostro menù se qualche cibo non gli piace, magari cambiamo anche abitudini nelle cose più quotidiane: l’uso del bagno, gli orari per coricarsi e per alzarsi. Quando invece ospitiamo gli immigrati, sembra che i nostri riti e ritmi siano sacri, dettati da chissà quale legge divina. Imparare dall’incontro con l’altro/a che le abitudini quotidiane sono una convenzione che può essere modificata proprio a EHQH LPSDUDUH ȴ Q GD SLFFROL FKH OD partire dalle sue necessità, è una grande vita intreccia i percorsi delle persone lezione per i giovani e i giovanissimi. Inattraverso strade imprevedibili e spesso contrare le persone significa cominciare dolorose: ma che è comunque possibile a cambiare: l’ospitalità è cambiamento, incontrarsi e lasciare spazio allo stupore l’ospite può cambiare successivamendi un imprevisto appuntamento tra te, se si sente accolto da una quotidianità esseri umani, entrambi con la fatica di modificata e adattata a lui/lei. Pretendere vivere sulle spalle e con una storia da che l’altro/a si adegui senza modificare le raccontare. proprie abitudini è una forma raffinata di Nonostante il pensiero comune, incon- razzismo. trare l’altro significa innanzitutto modificare le proprie abitudini, prima di chiedergli /ȇLQFRQWUR FRQ OȇDOWUR FL R΍ UH LQȴ QH OD di modificare le sue: questo richiede il do- preziosa occasione di rileggere la nostra vere di ospitalità. È buffo e triste al con- storia. tempo vedere persone che pontificano sul I ragazzi e i bambini imparano molto prefatto che gli immigrati devono adattarsi al sto a fare i conti con la loro immagine rinostro stile di vita, comportarsi quando flessa dai comportamenti delle altre persono all’estero come dei perfetti cafoni: sone; imparano che la persona è un momettersi in topless sulle spiagge di pae- saico costituito dagli incontri che ha fatto si musulmani, ironizzare sul precetto di e che fa nella sua vita. Io mi vedo realmengennaio 2014 | 51


IO E L’ALTRO |

PERCORSI DI PEDAGOGIA INTERCULTURALE

te solo attraverso gli occhi dell’altro/a: questa è una delle piĂš importanti acquisizioni che una persona può raggiungere nel suo processo di crescita. Incontrare l’altro/a e chiedergli/le come mi vede significa liberarmi delle incrostazioni che sono depositate sulla mia storia e sulla mia identitĂ . Quante volte una osservazione o una critica di un amico/a ci ha permesso di vedere alcuni lati di noi che non immaginavamo. L’umiltĂ richiesta da questi incontri individuali è la stessa che occorre praticare quando si parla di incontro tra culture. Incontrare bambini/e e ragazzi/e di altre culture significa arricchire anche la propria immagine di sĂŠ e soprattutto riflettere sulla storia e sulla cultura dell’Occidente in modo nuovo, diverso (aggiuntivo, non sostitutivo) rispetto a quanto si impara sui libri di scuola.

gire al nostro controllo. Questo è uno dei significati pedagogici dell’incontro: incontrare l’altro/a significa anche, attraverso le sue parole, imparare a vederci dall’esterno. La psicologia contemporanea utilizza per questa esperienza il termine tecnico “restituzioneâ€?: l’altro/a – lo psicanalista in terapia, il/la partner nei rapporti di coppia, l’insegnante nella relazione educativa – mi restituisce una immagine di me sulla quale io poi devo imparare a lavorare e a fare i conti.

4XDQGR FL PRVWUDQR XQD IRWRJUDČ´ D che ci è stata scattata a nostra insaputa, spesso ci stupiamo; “quello/a non sembro io, non sapevo che mi stavano osservandoâ€?: le nostre reazioni variano da una leggera irritazione a una RVVHUYD]LRQH GL ODWL Č‚ DQFKH Č´ VLFL Č‚ GL QRL FKH OH IRWRJUDČ´ H ČŠLQ SRVDČ‹ QRQ FROJRQR

Credere di essere i migliori, di essere la cultura per eccellenza, relazionare tutto alla propria visione del mondo, non sono invenzioni occidentali: molte culture le condividono, e forse ogni cultura attraversa una fase del suo sviluppo nella quale ritiene di essere l’unica al mondo, la migliore, la superiore. Ăˆ segno di maturitĂ però superare questa fase e farlo proprio attraverso le restituzioni che ci vengono dall’altro/a. In che modo? Mettendo a dura prova i riti e i miti dell’Occidente attraverso il confronto con le culture di appartenenza degli/ delle immigrati/e, vissuto nell’incontro fisico e quotidiano, ad esempio sui seguenti temi:

Una reazione psicologicamente comprensibile: ci stiamo osservando come ci osservano gli altri, stiamo vedendoci come gli altri ci vedono, cosa che non riusciamo mai a fare davanti allo specchio. La macchina fotografica o la macchina da presa manovrate a nostra insaputa ci mostrano l’immagine pubblica di noi che sembra sfug-

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Quando il diverso appartiene a XQȇDOWUD FXOWXUD DOOȇHÎ? HWWR SVLFRORJLFR di cui abbiamo parlato si somma OȇHÎ? HWWR FXOWXUDOH GHO VXSHUDPHQWR dell’etnocentrismo, cioè dell’idea che la propria cultura, la propria etnia, le proprie tradizioni costituiscano il centro del mondo.


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] il mito della gestione esclusiva del tempo:

] il mito del proprio orticello:

se c’è un oggetto con il quale l’Occidente fa fatica a relazionarsi è proprio il tempo. Ci illudiamo di programmarlo, di padroneggiarlo, di esserne i signori. Ma l’arrivo dell’altro/a non è programmabile, perché l’altro/a arriva quando il suo bisogno lo mette in condizione di farlo. Con l’altro/a non c’è possibilità di fissare appuntamenti, e questo rompe la nostra idea del tempo come programmazione totale. L’altro/a non ci invade, ma irrompe nella nostra quotidianità e ci stupisce;

forse il provincialismo è una delle più gravi malattie del nostro Paese. Tutto viene relazionato a noi, alla nostra cultura, difficilmente si trova la forza di uscire dai confini nazionali (quasi mai comunque da quelli europei o americani) per arricchire le proprie conoscenze. Se l’immigrazione porta il mondo in classe, facendo incontrare agli scolari e agli studenti ragazzi/e di altre culture, questo fatto significa che la vera cultura è intercultura. E l’incontro con l’altro/a stimola anche la curiosità, che è la base di ogni intelligenza: se conosco un bambino o una bambina che viene da un’altra nazione o da un altro continente sarò portato a farmi qualche domanda in più: a chiedere di saper riconoscere su una carta geografica dov’è il Senegal, l’Ecuador, lo Sri Lanka. A capire che differenza c’è tra Cina e Formosa. A informarmi su che lingua si parla in Brasile e perché. L’allargamento degli orizzonti è il primo, immediato effetto dell’incontro, che ci toglie dal nostro orticello per considerare gli orti degli altri, coltivati in modo diverso e con prodotti un po’ differenti dai nostri.

] il mito della centralità della cultura occidentale: osservare la nostra realtà con gli occhi di un altro/a, chiedere agli immigrati di restituirci con i loro linguaggi artistici e culturali l’immagine della nostra cultura, è salutare. Non per sostituire alla nostra un’altra cultura che occupi il centro del mondo, ma per capire che non c’è un centro. L’incontro con l’altro, anche a livello fisico – di acconciature, abbigliamento, linguaggio, postura del corpo – mi fa vivere l’esperienza del decentramento. Le culture non si dispongono a corona attorno a una cultura centrale, quale che sia, ma costituiscono una rete attraverso la quale passano i temi e i simboli. Sarà perciò interessante mostrare ai bambini come certi personaggi delle fiabe (la principessa addormentata, l’orco che mangia i bambini, l’idiota sapiente) sono presenti in molte culture e si sono sviluppati in ambiti anche distanti migliaia di chilometri;

L’incontro con l’altro/a non è semplice; necessita di strutture e di strumenti adeguati (si pensi anche solo all’aspetto OLQJXLVWLFR PD FL´ FKH SX´ R΍ ULUFL ª XQR sguardo nuovo sul mondo. Dopo avere conosciuto un senegalese forse l’acquisizione più importante non consiste nell’avere uno sguardo diverso sul Senegal, ma uno sguardo più critico su di noi. gennaio 2014 | 53


GIOVANI E FAMIGLIA |Francesco Botturi

b*UHPEL RVSLWDOL GHOOD YLWD GHOOȇDOWUR

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Famiglia ed educazione

Famiglia, generazione ed educazione formano una sequenza di atti e di processi uniti da un legame interno, spontaneo ed evidente: il far famiglia si apre normalmente alla generazione di figli, che comporta un impegno educativo. Ma è proprio questa naturale, spontanea e architettonica dinamica costruttiva a essere in crisi, cioè a non realizzarsi più con stabile continuità, avendo perso la sua evidenza “naturale” e la sua forza propulsiva.

Una premessa elementare Cause e condizioni di tale segmentazione dei processi e della disarticolazione degli atti sono molteplici e complesse, come le analisi psicologiche, sociologiche ed economicosociali ampiamente documentano. Tutte, d’altra parte, conducono a un’inevitabile riflessione antropologica, che, se non deve pretendere di fare sintesi, può fornire però una sua chiave unitaria di lettura, che riguarda il tipo di soggetto umano che è in gioco ed è giocato nelle attuali trasformazioni del vissuto familiare. Perché una relazione affettiva eterosessuale si stabilizzi tramite il matrimonio come famiglia, si apra alla generazione della prole e ciò muova un consapevole impegno educativo, è necessario che al centro vi sia un certo tipo di soggetto umano, che nella stabilità relazionale, nella fecondità e nella formazione d’altri percepisca oggetti del suo desiderio, beni appropriati e attraenti, compiti che valgono il lavoro e il sacrificio che richiedono. Occorre, insomma, che vi sia un soggetto che si autointerpreti in un modo tale per cui l’avventura familiare gli appaia come occasione di guadagno, elaborazione e fruttificazione di una ricchezza umana che lo riguarda e lo interessa. L’architettura familiare è espressiva di un certa struttura antropologica: se questa si disarticola o non giunge a compaginarsi, all’idea familiare verrà meno irrimediabilmente l’energia capace di realizzarla e l’idea stessa di famiglia entrerà in crisi.

1 Abbiamo messo in programma per il 2014 un tema quanto mai attuale, così come mostra anche la recente ricerca La condizione giovanile in Italia a cura dell’Istituto Toniolo (Il mulino 2013). Ma intendiamo subito per così dire “mettere le carte sul tavolo” e collocarci all’interno di precise coordinate socioculturali e antropologiche, per una riflessione che possa avere corretti risvolti educativi. In margine alla Settimana sociale dei Cattolici italiani (Torino, 12-15 settembre 2013) è stato pubblicato da FAMIGLIA OGGI (n. 4/2013) un interessante numero unico da cui abbiamo preso un articolo del filosofo Botturi, docente alla Università Cattolica Sacr o Cuore di Milano, che ci sembra proprio “adatto per partire col piede giusto”. Ringraziamo Autore ed Editore per il permesso di pubblicazione gentilmente concesso.

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Riconoscimento e generatività Di quale identità antropologica stiamo parlando e come possiamo caratterizzarla? Un soggetto per il quale le relazioni contano, può essere una prima risposta: ma in che senso contano? Anche per l’individualista abituato a gestire, con calcolo utilitario, le relazioni, esse contano; anzi sono oggetto di una contabilità continua, proprio perché interessano dei risultati (di varia natura) e perché interessano solo relazioni “esterne” di cui è possibile fare “commercio” (come si esprimeva il fine moralista del ‘600, P. Nicole). Anche l’individualismo è relazionale, poiché la trama relazionale è inevitabile; individualista, infatti, non è chi non si occupa delle relazioni, ma chi concepisce le relazioni come non pertinenti la sua stessa identità soggettiva. La questione delle relazioni è una questione di autocomprensione del soggetto stesso, e perciò discriminante è se si intenda o meno che il rapporto con l’altro viene prima di ogni valutazione operativa, come qualcosa in cui si è già da sempre implicati. Come ha scritto Vegetti Finzi “nessuno basta a sé stesso”, mentre “l’appello all’altro costituisce l’unica modalità con la quale possiamo affermare la nostra identità”. Per questo ciò di cui più c’è bisogno è un’etica che inizi dalla consapevolezza che “la vita è condivisione”, che si sviluppi perciò come decisione di “autolimitazione del proprio dominio” e come accoglienza e cura dell’altro in quanto bene non solo per lui ma anche per sé. L’altro, dunque, non come proiezione del proprio desiderio o come ostacolo alla propria soddisfazione,

ma anzitutto e comunque come dimora (anche) della propria identità. Ogni uomo è sottomesso infatti alla condizione di non poter progredire verso il suo compimento se non attraverso il contributo dell’altro uomo. Basti pensare a come l’inventiva del bambino e la sua intera esperienza si strutturino nell’orizzonte del “racconto” che di lui fanno i suoi genitori e le figure adulte importanti. Qui le ragioni della vita valgono non come promozione o rispetto di qualcosa che si impone al soggetto per il suo valore oggettivo e impersonale. Se la vita fosse concepita come bene oggettivo e anonimo, essa entrerebbe immediatamente in conflitto con gli interessi e il potere soggettivi; ma se la vita è invece avvertita come vita dell’altro, da generare o da curare perché mi riguarda, allora le ragioni non si impongono al soggetto dall’esterno, ma si propongono come qualcosa che gli appartiene intimamente. Alla base di queste leggi antropologiche sta un bisogno elementare e fondamentale di conferma nell’essere: come afferma Arendt, “la presenza di altri, che vedono ciò che vediamo e odono ciò che udiamo, ci assicura della realtà del mondo e di noi stessi (...)”. Nella sua fragilità ontologica, il vivente umano ha bisogno di essere confermato nell’essere e certificato nel suo valore, e ciò è possibile solo attraverso quell’ospitalità in altri che viene offerta nel riconoscimento: nell’essere conosciuto, voluto, apprezzato da altri. Solo così il soggetto umano è rivelato a sé stesso, affidato a sé e avviato al processo della sua stessa soggettivazione. Come il piccolo d’uomo ha bisogno dello specchio per acquisire gennaio 2014 | 55


GIOVANI E FAMIGLIA

l’immagine intera del suo corpo, così in ogni età della vita l’immagine di sé rinviata da altri è confronto indispensabile e perciò porta in sé un’attesa di accoglienza, di benefica conferma o di benevola correzione. Si può dire che l’uomo viene alla luce abitando in un altro uomo, non solo al suo inizio, ma secondo un moto che analogicamente si ripropone in tutte le tappe dell’esistenza individuale e a tutti i livelli della vita sociale.

b

La categoria dell’ospitalità La generazione umana, infatti, ha nella procreazione solo un primo momento, che prosegue con il riconoscimento personale e sociale del nuovo nato, dando avvio a un processo che, a differenza della nascita biologica, non ha più termine; oppure può drammaticamente essere revocato, quando l’altro fosse non solo disconosciuto o avversato, ma anche, semplicemente, trattato con consueta indifferenza, diventando come invisibile all’altrui considerazione. Ospitalità è dunque una categoria indispensabile per configurare la genealogia personale del soggetto. Tuttavia, non è sufficiente, così come non basta fermarsi a livello del pur importante contributo contemporaneo sul tema dell’intersoggettività, in tutte le sue varianti: bisogna progredire verso un’idea più dinamica e coinvolgente, che coincide con l’idea di generatività. E chiaro, infatti, che quel bisogno fondamentale di riconoscimento non si limita a una conoscenza a distanza o a un atto simpatetico, ma riguarda il bene personale globale dell’altro. Il soggetto ne ha bisogno per volgere al positivo la sua in-

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tera “condizione umana”, per attivare le sue stesse capacità fondamentali. È evidente, infatti, che nessun soggetto come non si è messo al mondo da sé, così non è in grado di attivarsi da solo, ma ha bisogno di riceve un’attivazione che è possibile unicamente nella relazione con un altro soggetto: solo un soggetto umano è proporzionato a interagire in modo generativo con la “coscienza” umana. Senza adeguato riconoscimento il soggetto non giunge affatto o giunge malamente all’esercizio della sua propria soggettività. Come afferma Angelini, “i primi benefici, a procedere dai quali si manifesta il senso della vita e diventa quindi possibile volere, hanno in ogni caso la figura dell’esperienza sorprendente della prossimità di altri alla propria vita”; e la prossimità segnala “l’interesse di altri per me”, “l’attesa di altri nei miei confronti”. La coscienza “sorge in tal senso come fin dall’inizio interpellata da altri” e quindi come “connotata dalla coscienza morale”. Tutto questo corrisponde a una realtà relazionale che ha una decisa e stabile portata generativa. Se la soggettività personale è data con la nascita, l’esistere da persone, invece, è in gran parte affidato ai processi generativi (o degenerativi) delle relazioni, in cui si giocano le possibilità dell’accesso alla propria umanità. Per questo la generatività è quella dimensione antropologicamente sintetica a partire dalla quale è possibile giudicare la condizione umana: le relazioni umane sono per loro natura orientate alla generazione e perciò mai neutrali, ma sempre inevitabilmente generative o degenerative, sempre istituenti o destituenti altri. Si sorprende qui in atto un significato nuovo


del termine generazione, che costituisce di per sé un cambio di paradigma rilevante. Da processo terminale ed esteriore (in senso riproduttivo), generazione qui assume il valore di una cifra antropologica centrale, connessa all’identità, al principio e al senso della soggettività stessa. La soggettività umana è soggettività generativa, sia in quanto è essenzialmente bisognosa di essere generata per giungere a sé stessa, sia perché, matura e conciliata con sé stessa, è divenuta capace di generare a sua volta (capace sia di ricevere il bene da altri, sia di farlo ad altri). L’identità relazionale generativa, che definisce concretamente la soggettività, apre attorno a sé un intero universo morale, in quanto mette in gioco la libertà di entrambi i termini della relazione, l’autenticità delle intenzioni, la costanza di lavoro sulle relazioni, l’esercizio della fiducia e della fedeltà. La generatività umana perciò implica, a riguardo di ciò che corre tra i soggetti, genesi e legame, e quindi custodia e cura, responsabilità e trasmissione. Questo insieme di categorie può essere ricapitolato nell’idea di alleanza: alla qualità generativa delle relazioni corrisponde una logica di libera alleanza, in cui sono inclusi appello e provocazione, promessa e lavoro, lealtà e stabilità, come elementi di una grammatica della relazione umana. Inoltre, l’identità relazionale generativa non riguarda l’esperienza in modo settoriale, ma la coinvolge globalmente. Essere generati e diventare generativi riguarda la formazione e la consistenza, il vissuto e l’autointerpretazione del soggetto e quindi la qualità e lo stile di tutto il suo agire e di tutti i livelli delle sue relazio-

ni. Infatti, non si è generativi perché si mettono al mondo dei figli, ma piuttosto perché si ha un vissuto da “figli” e dunque si è divenuti sensibili alla relazione di paternità/maternità/figliolanza. Perciò la dimensione generativa delle relazioni riguarda anche l’intero mondo sociale, immettendo in esso il senso della relazione tra generazioni come fatto antropologico fondamentale e normativo nei più diversi ambiti della formazione, dell’organizzazione del lavoro, del welfare, della professionalità, della responsabilità civile e politica, dei processi istituzionali, ecc. Non è difficile cogliere, invece, nei discorsi e nel- le pratiche dell’odierna postmodernità uno smarrimento del baricentro a riguardo della cura delle relazioni. Uno spontaneismo, una trascuratezza, uno strapazzamento delle relazioni - dalla famiglia, all’ambiente di lavoro, ai contesti sociali e di opinione pubblica -, una noncuranza complessiva della loro qualità generativa che non può non avere sconcertanti effetti e gravi costi micro e macrosociali. D’altra parte, vi è smarrimento e opposizione militante a una concezione generativa delle relazioni da parte di una certa postmodernità nichilista, che si sostanzia della negazione radicale di tutto ciò che si riconduce a idee di origine e partecipazione, dipendenza e corrispondenza, identità e somiglianza, e che vorrebbe cancellare tutte le strutture antropologiche in cui è in gioco una “comunicazione d’essere”, paternità, maternità, figliolanza e i loro analogati. Ma, nel declino storico della società tradizionale e dei suoi comportamenti ritualizzati e socialmente controllati, il sonno di una razionalità generativa genera mostri. Non gennaio 2014 | 57


GIOVANI E FAMIGLIA

ci si può meravigliare che i luoghi in cui il bene generativo è più atteso, come è il caso delle relazioni di genere e della famiglia, possano capovolgersi in luoghi di impressionante degenerazione.

Nuova identità soggettiva Il nostro discorso deve dunque ricominciare dall’interno di una prospettiva nuova, che ha al centro una certa idea dell’identità soggettiva. Se l’amore umano è incentrato sul “lavoro della relazione”, in cui è in gioco il riconoscimento dell’altro come altro soggetto, allora la generatività sta al centro anche dell’affettività umana, non nel senso per cui la famiglia sia costituita per generare figli, ma al contrario in quello per cui la famiglia è il luogo adeguato della procreazione, perché è il modo più suo per esprimere il legame generativo che la costituisce. La famiglia non è generativa perché fa figli, ma fa figli (avendone le condizioni indispensabili) perché è generativa. Dunque, anche per la famiglia la questione capitale è la sua dinamica generativa, che ha il suo luogo proprio nell’alleanza matrimoniale. A questa condizione (che non confonde la causa, la generatività, con l’effetto, la figliolanza) il legame matrimoniale è portatore di una simbolica generativa peculiare ed esemplare. Ciò oggi non è facile da cogliere, dal momento che l’affettività è normalmente esperita nella sfera di un emozionalismo soggettivo, tendenzialmente narcisista, in cui l’impegno e la risorsa costituita dalla relazione non sono facilmente percepibili. In questo contesto di sentimentalismo proiettivo la modalità della

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soddisfazione affettiva e sessuale diventa del tutto relativa al gradimento soggettivo: occasionalità, temporaneità, stabilità della relazione; eterosessualità, omosessualità, ecc. perdono il rilievo delle loro differenze oggettive, in riferimento a una condizione di gradimento/non gradimento, soddisfazione/insoddisfazione del tutto autoriferita. Diventa necessario un nuovo cammino di avvicinamento all’oggettività della relazione affettiva; solo se un percorso di maturazione affettiva è stato compiuto, allora è possibile che la partizione sessuale genitale e la sua fecondità biologica appaiano per quello che sono: l’iscrizione simbolica nella carne viva del fatto che il soggetto è fatto per generare altri e se stesso alla propria identità. Allora diventa percepibile il valore della duplice relazionalità che l’identità affettiva comporta: una relazionalità secondo differenza, perché l’identità rifugge dalla pura omogeneità e si compiace della differenza di cui ha bisogno per definirsi; una relazionalità generativa, perché una relazione che non sia fittizia, come in un gioco di rispecchiamento narcisista, è sempre qualcosa di più dei suoi termini, ma li include e li fa interagire. Su questo aspetto “oggettivo” della relazione bisogna insistere, perché è forse il punto di crisi maggiore oggi. Il “tra” della relazione non è la somma dei suoi due termini, ma, come insegna Buber, è una realtà in se stessa. Se la relazione non è esterna, come tra cose, o solo proiettiva, come tra soggetti immaturi, ma si pone tra i soggetti e li fa essere-inrelazione, essa è in qualche misura terza tra loro. L’esperienza insegna che un amore va custodito, che un’amicizia va


coltivata, che un insegnamento va accolto ed elaborato, e così via; in breve, che le relazioni sono oggetto di cura in sé stesse. Allora la relazione, vissuta e onorata nella sua logica propria, è produttrice di realtà nuova, e sente il desiderio di generare e genera oltre sé stessa: matrimonio e famiglia, sodalizio, scuola, per stare agli esempi fatti. Ciò ha nell’alleanza coniugale e nella società familiare un ambito di realizzazione primario ed esemplare. Il vincolo coniugale e la generazione esemplificano la legge fondamentale delle relazioni umane secondo cui si è liberi promotori di qualcosa (il matrimonio e la famiglia), che, una volta costituito, si sottrae a un’individuale e solitaria disposizione. Certamente, si può sempre disdire la propria partecipazione, sottrarsi al proprio impegno, revocare il proprio contributo, ma è ideologico pensare che così facendo si disponga di qualcosa che riguarda solo sé. In realtà si decide di un bene che non è la somma di singoli beni, ma è un tutto eccedente di cui si è “oggettivamente” responsabili in solido. Nei figli questa legge di potenza e di umiltà propria dell’amore si manifesta con particolare evidenza: nella generazione si esprime tutta la potenza dell’amore, che afferma sé stesso accettando umilmente di mettersi a disposizione della sua irreversibile posterità. In sintesi, essere generativi, in quanto maturità dell’identità umana e della sua capacità di relazione, significa essere grembo ospitale per la vita dell’altro e custode responsabile per ciò che si è fatto nascere. Di qui la centralità antropologica della famiglia, quale pienezza dell’amore sessualmente differenziato e biologicamente-psichicamen-

te generativo. Lungo la sua storia, l’idea occidentale di famiglia incorpora, in tal senso, un paradigma di umanità secondo cui l’uomo ha un’identità relazionale generativa; un’identità che si esercita come relazione promotrice di identità proprio perché accoglie l’altro nella sua reale differenza. Sintesi paradigmatica di iniziativa della libertà, tempo della fedeltà e fecondità della relazione, l’istituzione familiare è espressione dell’identità relazionale generativa dell’uomo, nel cui amore prendono forma le libertà dell’ “io-tu” di coppia; la fedeltà del “noi” della relazione stabile; la generazione in cui appare il “lui” del terzo.

L’azione educativa Come la generatività qualifica la relazione prima della generazione dei figli, così essa prosegue dopo nell’azione educativa. La vita consegnata nella nascita chiede di essere affidata a chi sappia proseguirne la novità: nascere è inizio e novità, come ha ricordato Arendt. L’educazione dipende dalla coscienza che il dono iniziale dell’esistenza ha bisogno di essere affidato a chi sia in grado di accoglierlo e di farlo crescere e fruttare. Vi è un nesso stretto tra generazione ed educazione, come viene ampiamente chiarito nel testo La sfida educativa: con l’educazione gli adulti rendono ragione a chi è figlio della promessa che gli è stata fatta mettendolo al mondo. Così che, al contrario, dove la generazione non continua nell’atto educativo, si smentisce e il procreare coincide drammaticamente con un gesto di abbandono. L’educazione ha bisogno alla sua base di un’esperienza elementare di positività, di gennaio 2014 | 59


GIOVANI E FAMIGLIA

relazioni semplici e buone, in cui sia tangibile la stima per l’uomo, la compassione per il suo cammino e il suo travaglio, la speranza forte nelle sue risorse; relazione dunque di riconoscimento fiducioso e creativo. Per questo, il prendersi cura iscritto nell’educare non nasce e non è giustificato da un senso di insufficienza cui provvedere e di vuoto conoscitivo da riempire (funzionalismo educativo) , oppure da un senso di esuberanza senza direzione da lasciar esprimere (spontaneismo educativo), secondo i modelli oggi prevalenti. L’accoglienza, che si esercita nella relazione educativa, non può avvenire che alla luce di un senso di sovrabbondanza dell’esistenza, bisognosa di sempre nuova nascita. Per questo vi è stretta relazione tra la crisi dell’educazione e il problema generale della trasmissione della vita. L’educazione appartiene all’universo generativo e ne condivide le sorti. La questione educativa ci ricorda che la capacità di fare esperienza è certamente originaria nel soggetto umano, ma ha anche bisogno di essere attivata. Il soggetto deve essere generato alla sua esperienza: solo l’esperienza suscita esperienza e quindi genera l’uomo alla sua propria capacità di compierla. Per questo nulla è sostituibile alla funzione attivatrice e comunicativa di una sintesi vivente dell’esperienza (che dovrebbe essere quella dell’adulto, dotato di autorevolezza). La relazione educativa è anzitutto iniziativa di attivazione e cura

della capacità di fare esperienza, innanzitutto rivolta alle nuove generazioni. L’universo educativo ha molte componenti antropologiche: libertà e spontaneità, di valori e regole, tradizione e autorità, cura e formazione. Ma, ancora una volta, il punto di crisi attuale sta nell’individuazione di un baricentro, quello che possa costituire un principio di autentica unificazione delle molte dimensioni. E tale può essere solo un principio genetico che riguardi il dinamismo vitale di chi si affaccia alla vita. Spesso si rifluisce su un’idea di educazione come orientamento dei comportamenti, perché non si ha più fiducia che ci si possa rivolgere a un centro intimo della personalità oppure perché si ritiene che questo non possa essere fatto senza violare la libertà. Se così fosse, bisognerebbe rinunciare all’educare per accontentarsi appunto di una formazione di conoscenze, abilità, comportamenti. Ma la domanda educativa non cessa per questo di esistere e di farsi presente con le sue istanze forti e drammatiche, che riguardano piuttosto problemi di identità, di origine, di senso. A questo livello l’educazione si trova immediatamente sulla linea di una relazione generativa che riconosce, condivide e accoglie tali istanze. Ciò non significa manomettere la libertà, bensì rispettarla nell’unico modo possibile, che, mentre ne accoglie le esigenze, accompagnando e interagendo, promuove la capacità della sua iniziativa, le dà spazio e la introduce alla sua imprevedibile storia.

%LEOLRJUDȴ D - Angelini G., “Conoscenza e senso, verità e libertà”, in Aa.Vv., Verità e libertà nella teologia morale, Lev, Città del Vaticano 2001; - Arendt H., Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1994; - Buber M., Il problema dell’uomo, LDC, Torino 1983; - CEI - Comitato per il progetto culturale, La sfida educativa, Laterza, Bari 2009; - Vegetti Finzi S., Volere un figlio. La nuova maternità fra natura e scienza, Mondadori, Milano 1997

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| LIBRI 0LFKHODQJHOR 7RUWDOOD D FXUD

EROS AMORE FECONDITÀ Una sessualità attenta alla totalità della persona Paoline 2013 - pp. 224 – € 13,50

Questo testo nasce da un pluriennale lavoro di équipe di persone che operano in un progetto culturale (Progetto AMOS) che si occupa di affettività, sessualità, amore e fecondità di coppia, secondo un’antropologia cristiana ma aperta a un confronto laico serio. Per ogni tematica vi è una scheda in cui si illustrano le tecniche, gli strumenti per tradurre in ambiti diversi questi contenuti e facilitare il passaggio dagli obiettivi teorici a un progetto di formazione educativa.

ΖYHV %«ULDXOW ETTY HILLESUM

Testimone di Dio nell’abisso del male Paoline 2013 –pp. 224 – € 15,50 Questo libro è una presentazione accurata e sintetica al tempo stesso della vita e del pensiero di Etty Hillesum, la nota figura emblematica della Shoah, che ha rivelato al mondo, con la sua straordinaria grandezza d’animo, che anche in mezzo all’orrore dei campi di concentramento nazisti, si può credere nell’uomo e si può credere in Dio; malgrado il male nel quale è immersa giunge a vivere unita a Dio in una gioia profonda. L’autore ripercorre brevemente la vita di Etty attraverso la scarsa documentazione reperibile, ma soprattutto i suoi diari, quindi ne scandaglia il pensiero analizzando il rapporto che Etty ha avuto con l’ebraismo, con il cristianesimo, con la Bibbia, ma soprattutto con Dio. Altri capitoli ci rivelano la personalità di Etty attraverso la sua preghiera, l’amore al prossimo, il suo atteggiamento di perdono e verso la sofferenza. Un saggio che affronta tutte le dimensioni della personalità di Etty, con passione ma anche senza remore per le ambiguità che possono essere capite solo approfondendo il carisma e la chiamata particolare di questa ebrea che ha abbracciato la religione di Dio e dell’uomo.

Anselm Grün RADICI

Un saldo sostegno nella vita Paoline 2013 - pp. 114 – € 16,90 L’autore A. Grün suggerisce come riscoprire le proprie radici e la propria identità: le radici nella Bibbia, nella forma che Dio ha voluto per ciascuna creatura; il significato del proprio nome, la filosofia di vita dei propri antenati, i loro rituali come cammino verso le radici: tanti elementi e modi che aiutano a trovare la propria collocazione nella vita. Ciascuna persona può nuocere a se stessa se rimane concentrata solo sui propri problemi. Ma anche i disturbi che vengono dall’esterno, come le malattie che ci affliggono, possono danneggiare le proprie radici. È pertanto importante imparare a “purificare” le proprie radici per fiorire nella consapevolezza e nella libertà.

9LQFHQ]R %HUWRORQH LA SAPIENZA DEL SORRISO Il martirio di don Giuseppe Puglisi Paoline 2013 – pp. 160 – € 13,00

In questo testo l’autore dimostra, attraverso la vita, gli insegnamenti, l’agire tutto di don Puglisi, come egli sia stato ucciso “in odio alla fede” perché proprio il suo essere sacerdote e pastore fino in fondo, fedele al Vangelo che viveva e annunciava, nell’amore ai fratelli che il Signore gli aveva affidato, specialmente i più piccoli, proprio questo l’ha messo in rotta di collisione con la mafia. È la sua fede – vissuta nel concreto nel quartiere di Brancaccio – che ha “disturbato” i mafiosi. Viene fatto emergere lo stile del ministero sacerdotale di don Pino Puglisi e il messaggio che ci ha lasciato: un invito a guardare oltre. Il tutto sempre attraverso le parole di don Puglisi e le molteplici testimonianze da parte di esponenti di diverse categorie di persone e istituzioni.

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SEGNI DEI TEMPI E ANNO DELLA FEDE Luigi Guglielmoni – Fausto Negri

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9LWD FKH QRQ ª PDL WDUGL per morire! /D ULPR]LRQH GHOOD PRUWH Nel noto film Blade Runner in cui si racconta la storia di un gruppo di ‘replicanti’, robot simili in tutto agli umani, i quali combattono per raggiungere colui che li ha costruiti. Una volta giunti a lui, gli chiedono perché debbano morire e implorano di essere risparmiati. Non ricevendo alcuna risposta, lo uccidono. La vicenda si compie quando l’ultimo dei replicanti dice al suo avversario: “Io ne ho viste di cose che voi umani non potete immaginare… E tutti quei momenti andranno persi nel vento come lacrime nella pioggia. È tempo di morire”. E, piegando la testa, muore. Attraverso il film si può intravedere ciò che ogni essere umano consapevole affronta davanti alla propria morte: lo smarrimento e la perenne lotta per scoprire perché si muoia, per cercare di vincere la morte. Tutto è stato inutile, se la morte vince la partita a scacchi, se l’invocazione a Colui che ci ha fatti resta senza risposta. Le prime pagine della Bibbia non sono solamente un passato di cui fare memoria, ma si pongono davanti a noi come progetto da costruire (Gen. 1-2). Il cap. 2 della Ge-

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nesi, poi, racconta delle perenni tentazioni dell’umanità: vere, oggi, come non mai!

Un “principio” che è oggi Nelle prime pagine della Bibbia l’uomo e la donna si lasciano sedurre da una forza misteriosa (simboleggiata nel serpente), la quale promette loro: - eternità: non morirete - onnipotenza: sarete come dèi - onniscienza: i vostri occhi si apriranno La donna vede allora che il frutto è “buono da mangiare”, “piacevole all’occhio”, “desiderabile per avere saggezza”, cioè il potere assoluto sulla propria vita. Questo peccato è l’archetipo di tutti i peccati dell’uomo di ogni tempo, di ciò che l’uomo non ha mai cessato di fare: oggi più che mai! La novità assoluta di questo inizio di XXI secolo, infatti, è che ci troviamo a gestire delle problematiche del tutto nuove, derivate dal fatto che l’uomo ha messo le mani sulla produzione della vita e tenta


Tutti gli articoli della rubrica

1. Vita senza Dio 2. Vita eccentrica 3. Vita di superficie 4. Vita accelerata 5. Vita digitale 6. Vita spensierata 7. Vite in vetrina 8. Vita che non è mai tardi... per morire

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SEGNI DEI TEMPI E ANNO DELLA FEDE

di scalare il cielo dell’immortalità. La più notevole sfida che il mondo della tecnica pone è che la vita si può gestire; o meglio, la vita “si produce” e si costruisce, così che la natura non sembra essere più la suprema padrona dell’umanità.

Verso orizzonti sconosciuti La lunga vita, il benessere economico, la pace, la scienza che ha messo le mani sulla vita, hanno di fatto cambiato la nostra esistenza. Anche la morte è cambiata, soprattutto la morte. Appartenenza, identità, genere, origine sono cancellati senza pietà dall’orizzonte dell’uomo libero nel libero mercato. Oggi viene valorizzato il corpo nato da nessuno, che appartiene solo all’immagine che egli stesso si è costruito. L’uomo sarà finalmente libero dalla determinatezza del sangue, della genetica e del sesso. È un giocare sull’apparenza.

Scrive Hervé Juvin: “Dopo gli dèi, le rivoluzioni e i mercati finanziari, il corpo diventa il criterio di verità. Esso è diventato il centro di tutti i poteri, l’oggetto di tutte le aspettative, e perfino quelle di salvezza” (“Il trionfo del corpo” – Egea 2006, p. XVI).

È come se, attualmente, il corpo si fosse emancipato dallo Stato, dall’ordine e dalla collettività. Gli effetti di una corretta alimentazione e dell’attività fisica porteranno presto la speranza della vita a cent’anni. Le tecniche capaci di moltiplicare gli organi vitali, di rigenerali o di cambiarli, le possibilità fatte emergere dalla neuro-

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biologia, dalla genetica e dalle nanotecnologie (chip sottocutanei che permetteranno un controllo in tempo reale, la diagnosi e il rilascio automatico di medicinali) ci stanno proiettando verso orizzonti sconosciuti. La vittoria conseguita sull’ambiente viene ora trasferita sulla genetica e la biologia, cioè sul corpo. Animali clonati, concepimento in vitro, banche organi e terapie genetiche, protesi intelligenti: è già iniziata una rivoluzione. Un dato incontrovertibile è il seguente: quando la durata della vita media raddoppia o triplica in pochi decenni, non è più la stessa vita, non è più lo stesso uomo. Oggi una persona di settant’anni, senza gravi patologie, deve prepararsi ad altri vent’anni di vita: può scoprire una nuova passione, studiare, lanciarsi in nuovi progetti… In un futuro ormai prossimo la famiglia, il matrimonio (eterosessuale, durevole, fedele), l’eredità, il risparmio, la morale stessa non avranno più lo stesso significato.

Rimozione perché Esiste un’opposizione netta tra morte, limite assoluto dell’uomo, e cultura tecnologica, animata da una spinta illimitata del potere umano. La cultura tecnologica si propone di esercitare un potere sulla realtà, dominandola, ma la morte sfugge a questo: anzi, è il segno di uno scacco totale. La scienza è ottimistica, sicura di farcela a sormontare, prima o poi, tutte le barriere; la morte, invece, è un ostacolo insormontabile.


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L Dal numero di ottobre 2013 di NPG

Vita spensierata

Siamo immersi in una cultura dell’onnipotenza, certi che l’impossibile di oggi diventerà fattibile domani, grazie al progredire delle conoscenze scientifiche; ma la morte è il segno più eloquente dell’umana fragilità e davanti ad essa ci sentiamo radicalmente impotenti. Contemporaneamente, emerge la filosofia consumistica che diffonde a piene mani un’immagine ad un tempo ottimistica ed edonistica della vita. Occorre vendere, e perché la produzione di oggetti e beni non si fermi è indispensabile concentrare l’attenzione sugli aspetti belli e attraenti dell’esistenza, lasciandone accuratamente in ombra gli aspetti oscuri, quali la sofferenza, l’infelicità, il dolore, la disgrazia… La rimozione della morte svolge così una funzione essenziale di dissimulazione della volontà di onnipotenza, contribuendo in misura forse decisiva a farla accettare: non una illusione catastrofica ma uno sforzo razionale dell’umanità di mettere a frutto le sue capacità per liberare totalmente se stessa. Gli uomini, non avendo potuto vincere la morte, han pensato bene di rimuoverla. In fondo tutti recitano la commedia di una vita che non avrà mai fine. Eccoci, così, all’incrocio di alcune strade.

Il nascondimento e la spettacolarizzazione della morte La nostra è la società delle grandi contraddizioni. Mai come oggi la morte viene nascosta e, nello stesso tempo, spettacolarizzata.

Nell’attuale società c’è tanta paura del limite, della sofferenza, della morte. Gli stessi funerali tendono a diventare sempre più un fatto privato. È in aumento la tendenza di cremare i propri morti, il che semplifica molto e velocemente i funerali. Il lutto è stato in qualche modo soppresso. Oggi è vergognoso parlare di morte e dei suoi laceramenti, come un tempo era cosa vergognosa parlare di sesso. Qualcuno ha parlato di “pornografia della morte”: un tempo si sosteneva che si nasceva dai cavoli, oggi si racconta che si muore tra i fiori. Ci si vergogna persino ad usare la parola “morte” e si preferiscono eufemismi: ci ha lasciato, è mancato, è andato in cielo, l’abbiamo perso… Molti arrivano alla maggiore età senza aver mai visto un morto e tantomeno uno che muore. Basti pensare come, in pochi anni, la festa dei santi e dei morti è stata sostituita da Hallowen. Il “dolcetto o scherzetto” ha soppiantato “l’eterno riposo”. Qualcuno potrebbe obiettare che di morti se ne vedono anche troppi, ogni giorno. Tuttavia la morte diventata spettacolo è resa asettica, ridotta ad aneddoto o fatto statistico. Anche se suscita emozione spesso non c’è tanta differenza tra un dramma realmente accaduto e una messa in scena. La morte è poi medicalizzata. Non si muore quasi più nel proprio letto, ma in ospedale. Viene spostata l’attenzione (e la preoccupazione) dalla morte in sé – come evento inevitabile e universale – alle “cause” specifiche di morte, che vanno neutralizzate o contrastate. La morte non è più accettata come termine naturale dell’esistenza; quando una persona gennaio 2014 | 65


SEGNI DEI TEMPI E ANNO DELLA FEDE

muore si va sempre alla ricerca di qualcosa o qualcuno cui dare la colpa.

La spinta a mascherare ogni negatività e limite Tante persone diventano prigioniere della mania di rincorrere quello che li fa sentire sulla cresta dell’onda. Le strade sono tante. Una strategia di vita fondata sull’acquisto, possesso e mantenimento di tutti quei beni divenuti le vere divinità della nostra epoca: ci riempiamo di cose che ci appaiono “eterne” e non abbiamo mai tempo per pensare, per stare con le parti più vere di noi stessi. L’attivismo è un’autodifesa che consente di mantenere lo spirito sempre ben occupato distogliendolo da pensieri sgradevoli e inopportuni come chiedersi dove si stia andando, che cosa valga la pena di vivere… Le domande fondamentali vengono accantonate. Il culto del successo. L’immagine dell’uomo e della donna che ci viene proposta è quella di un essere onnipotente non toccata da tutto ciò che è limitatezza e negatività. Il piacere è diventato quasi un dovere, un obbligo. Consumare tempo libero e trovare piacere in ogni modo e a ogni costo è ormai un obbligo sociale. Il rigetto della vulnerabilità e di coloro che la richiamano: i vecchi, i malati gravi, i diversi, i falliti…

di vita sconosciuto, in cui i corpi nuovi saranno sempre di più il prodotto dell’industria biologica (parti nuove, sistemi vitali e organi). In teoria, nulla più sembra vietare di superare i limiti biologici generalmente considerati insuperabili. La conquista della morte come scelta e come volontà sarà forse l’evento maggiore dei prossimi decenni? Dopo aver privatizzato il corpo e la vita, privatizzeremo forse anche la fine della vita? Alcuni segnali indicano proprio questa strada: il controllo del concepimento sino alla inseminazione artificiale, la nascita è già “produzione” di bambini. Il progetto di mappatura del patrimonio genetico umano, esploso nel 2003, racchiude la volontà scientifica di lettura del patrimonio umano e di intervento su di esso. Per la prima volta, riprodursi, soffrire, invecchiare, morire, si sottraggono sempre più alla natura Anche il morire diventerà sempre più una scelta. La morte, sbarazzata dalla sofferenza poi dalla paura e fra un poco dalla coscienza, entrerà sempre più una scelta. Alcuni esempi: la clinica “del suicidio assistito” a Zurigo ha più di 3.000 iscritti nelle sue liste di attesa; la legge che in Olanda e in Belgio autorizza un malato cosciente a poter beneficiare di un’assistenza medica per morire dignitosamente, autorizza pure la commercializzazione un Belgio di un kit farmaceutico per suicidarsi.

La “conquista” della morte come scelta

L’aggravarsi dell’angoscia per la perdita irrimediabile di sé

Dopo secoli di prospettive limitate, adesso viene il tempo di un orizzonte

Accostare con realismo il nostro corpo significa incontrare la nostra debolezza.

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L Tutti gli articoli della rubrica (pubblicata nel corso del 2013)

Così si vivono anni e anni come se fossimo invulnerabili. E quando si prende coscienza della propria fragilità, si cercano le scorciatoie: analgesici e ansiolitici sono i farmaci più venduti in Occidente. In una società che esalta la perenne giovinezza (pare un paradosso) sono proprio i giovani che hanno più difficoltà ad adattarsi. In una società di mercato sono proprio loro che devono aspettare più a lungo, trovando più difficilmente un ruolo e un posto che i loro padri sono sempre meno disposti a cedere. Non è per caso che fra i giovani dei paesi europei lo sviluppo delle malattie psichiche e delle dipendenze stia assumendo delle proporzioni preoccupanti: come non è per caso che il tasso di suicidio dei giovani fra i 15 e i 24 anni (il 12% dei decessi a questa età) sia superiore a quello della popolazione globale.

Concludendo Senza la morte non esiste la vita, non si può dare un senso (un significato e una direzione) alla propria esistenza. La morte ci indica che la vita quaggiù è comunque una cosa finita. Però è anche vero che la vita esiste perché c’è la morte. Chi sa che deve morire e fa i conti, ogni giorno, con la propria morte, cerca di vivere intensamente, prende in mano il proprio io. Oggi si vive più a lungo ma la morte, pur allontanata continua a sfidarci come nella famosa partita a scacchi del film di Bergman “Ultimo sigillo”. Così sintetiz-

za il Cavaliere di quel film: “Allora la vita non è che un vuoto senza fine!”. Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo in un nulla senza speranza. E la Morte risponde: “Molta gente non pensa né alla morte né alla vanità delle cose”. La rimozione della morte produce ripercussioni negative tutt’altro che irrilevanti sulla propria vita di ogni giorno. Forse vivere non è accantonare tutto ciò che ci minaccia, ma passarci attraverso perché resti solo ciò che è vero. Non è emarginare chi soffre e chi muore, ma accogliere con rispetto la verità dell’altro che ci rivela chi siamo. Non è ribellarci al limiti, fingendo che non ci sia, ma imprimere a ciò che viviamo un senso che trascenda ogni limite. Il credente – e questa è la forza della fede – pur temendo la sofferenza e la morte, sa come affrontarla. Egli è certo che il suo “io”, purificato e trasformato, continuerà per sempre. Nella luce del mistero di Gesù morto e risorto, la morte umana non è l’ultima parola, ma solo “l’ultimo nemico” che è stato sconfitto, annientato per sempre (1Cor 15,26). Nessun uomo, cioè, è un essere-perla-morte, ma un essere-per-la-vita. La sua chiamata alla vita è chiamata all’eternità, partecipazione alla vita stessa di Dio. Solo la fede fa percepire la morte non come fine di tutto, ma come una porta intermedia che si apre su una vita per sempre.

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INTERPELLATI DA GESÙ

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Rossano Sala

A PARTIRE DA ALCUNE DOMANDE DI GESÙ NEL VANGELO DI GIOVANNI

Ȋ$ WH FKH LPSRUWD" Tu seguimi” In coerenza con il fatto che siamo partiti in questa rubrica con la prima domanda di Gesù nel vangelo di Giovanni, concludiamo logicamente con l’ultima domanda presente. Siamo consapevoli della relatività del nostro percorso annuale, che ha analizzato pochissime domande rispetto a quante ne sono contenute nella sola narrazione giovannea (abbiamo preso in considerazione solo una decina di domande di Gesù su circa una cinquantina presenti nel testo). Così diventa chiaro che una “rubrica” dovrebbe essere un piccolo assaggio, che ha il compito/pretesa di far nascere il desiderio di continuare la ricerca delle domande che interpellano tutti e ciascuno in tutti i tempi: si può attingere

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agli altri vangeli, alle lettere paoline, alle narrazioni dell’Antico Testamento e così via. È importante poi, come educatori, acquisire l’arte di Gesù, quella di fare le domande giuste al momento giusto. Soprattutto una rubrica è utile perché dovrebbe offrire un metodo intelligente: in questo caso un punto di vista fecondo per poter avvicinarsi al testo sacro dal punto di vista educativo, facendolo parlare in maniera sempre nuova, e mostrando così che la scrittura è davvero un pozzo inesauribile da cui estrarre cose sempre antiche e sempre nuove per edificare la Chiesa. Ecco come lo dice bene un padre della Chiesa, sant’Efrem diacono, che ci aiuta a rendere grazie per il dono della Sacra Scrittura:


10 “Chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? Ăˆ molto piĂš ciò che ci sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come gli assetati che bevono ad una fonte. La tua parola offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di coloro che la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perchĂŠ coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perchĂŠ ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla. La sua parola è un albero di vita che, da ogni parte, ti porge dei frutti benedetti. Essa è come quella roccia aperta nel deserto, che divenne per ogni uomo, da ogni parte, una bevanda spirituale. Essi mangiarono, dice l’apostolo, un cibo spirituale e bevvero una bevanda spirituale (cfr. 1 Cor 10, 2).

Colui al quale tocca una di queste ricchezze non creda che non vi sia altro nella parola di Dio oltre ciò che egli ha trovato. Si renda conto piuttosto che egli non è stato capace di scoprirvi se non una sola cosa fra molte altre. Dopo essersi arricchito della parola, non creda che questa venga da ciò impoverita. Incapace di esaurirne la ricchezza, renda grazie per la immensitĂ di essa. Rallegrati perchĂŠ sei stato saziato, ma non rattristarti per il fatto che la ricchezza della parola ti superi. Colui che ha sete è lieto di bere, ma non si rattrista perchĂŠ non riesce a prosciugare la fonte. Ăˆ meglio che la fonte soddisfi la tua sete, piuttosto che la sete esaurisca la fonte. Se la tua sete è spenta senza che la fonte sia inaridita, potrai bervi di nuovo ogni volta che ne avrai bisogno. Se invece saziandoti seccassi la sorgente, la tua vittoria sarebbe la tua sciagura. Ringrazia per quanto hai ricevuto e non mormorare per ciò che resta inutilizzato. Quello che hai preso o portato via è cosa tua, ma quello che resta è ancora tua ereditĂ . Ciò che non hai potuto ricevere subito a causa della tua debolezza, ricevilo in altri momenti con la tua perseveranza. Non avere l’impudenza di voler prendere in un sol colpo ciò che non può essere prelevato se non a piĂš riprese, e non allontanarti da ciò che potresti ricevere

L’intera rubrica: INTERPELLATI DA GESÙ, nel sito di NPG Tutti gli articoli della rubrica

1. Interpellati da GesĂš 2. ÂŤChe cosa cercate?Âť (Gv 1,38) 3. ÂŤVolete andarvene anche voi?Âť (Gv 6,67) 4. ÂŤTu, credi nel Figlio dell’uomo?Âť (Gv 9,35) 5. ÂŤCapite quello che ho fatto per voi?Âť (Gv 13,12) 6. ÂŤDarai la tua vita per me?Âť (Gv 13,38) 7. ÂŤDa tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?Âť (Gv 14,9) 8. ÂŤIl calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?Âť (Gv 18,11) 9. m6LPRQH Č´ JOLR GL *LRYDQQL mi ami?Âť (Gv 21,16) 10. “A te che importa? Tu seguimiâ€? (Gv 21,22)

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Per accedere on line DO FRQWHQXWR GLJLWDOH GL TXHVWR DUWLFROR

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INTERPELLATI DA GESÙ

solo un po’ alla volta” (dai “Commenti dal Diatessaron”). Ma concludiamo il nostro itinerario risentendo l’ultimo brano che contiene una domanda ripetuta due volte, che nasce da una possibile rivalità tra Giovanni, il discepolo amato, e Pietro, primo tra gli apostoli. Risentiamo dunque la narrazione:

Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: “Signore, chi è che ti tradisce?”. 21 Pietro dunque, come lo vide, disse a Gesù: “Signore, che cosa sarà di lui?”. 22 Gesù gli rispose: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi”. 20

Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa?”. 23

Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. 25Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere. 24

Leggendo questo testo c’è la tentazione di interpretare il legame con il Signore in forma non solo preferenziale, ma a volte ristretta e addirittura chiusa. Nella

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forma di una predilezione esclusiva e non inclusiva, per cui se il Signore vuole bene a me, non può insieme voler bene anche ad altri. È oltremodo facile vivere la relazione con il Signore all’interno della Chiesa in forma monopolizzante ed escludente, senza riconoscere la ricchezza degli apporti di tutti e di ciascuno all’edificazione del corpo di Cristo che è la Chiesa. La rivalità e la gelosia, la concorrenza e la competizione, l’antagonismo e il protagonismo a volte sono dei mali anche all’interno della Chiesa. Mali da riconoscere e da combattere, che sempre si insinuano da ogni parte. La “filosofia dell’inferno”, per la quale non è possibile nemmeno immaginare che Dio sia capace di amare tutti e ciascuno di un amore unico, personale e inclusivo, è ben spiegata da un bellissimo testo che sarebbe certamente da leggere. Si tratta delle Lettere di Berlicche, di C.S. Lewis, il quale narra la tentazione dal punto di vista del demonio e del male. Esso ad un certo punto dice:

Tutta la filosofia dell’inferno consiste nel riconoscimento dell’assioma che una cosa non è un’altra, e specialmente che un io non è un altro io. Il mio bene è mio bene, e il tuo è tuo. Ciò che uno guadagna un altro perde. Perfino un oggetto inanimato è ciò che è, perché esclude dallo spazio che occupa tutti gli altri oggetti; se si espande, lo fa spingendo da parte gli altri oggetti, oppure assorbendoli. E l’io fa la stessa cosa. Con le bestie l’assorbimento prende forma del cibarsi; per noi significa


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assorbire la volontà e la libertà da un io più debole in uno più forte. “Essere” significa “essere in competizione”1. Questa “filosofia” è abbastanza diffusa nel nostro mondo. Ecco allora le ultime parole di Gesù, che sono segnate da una domanda che invita a lasciar fare a lui, a mettere da parte ogni nostro progetto e ogni nostro desiderio personale, lasciandoci portare dove Egli vuole, obbedendo a Lui. Siamo sicuri che Gesù non ha mai abbracciato la “filosofia dell’inferno”: propriamente invece ha abbracciato la croce, che è esattamente il contrario rispetto alla logica della concorrenza e della rivalità, che prendono avvio dal demonio, che fin dalle origini viene presentato come colui che vuole uccidere Dio per prenderne il posto. Il testo segna, al termine della domanda, un chiaro invito all’obbedienza nella sua forma più pura: Pietro sarà portato dove non vorrà e in fondo la cosa non lo deve interessare. Nemmeno lo deve interessare che fine faranno gli altri, Giovanni in particolare: “a te che importa?”. Questa è una domanda contro la ‘curiositas’, contro la mormorazione, contro le parole e i pensieri inutili e dannosi per la nostra vita. Contro la ricerca di altro rispetto ai doni che già abbiamo e che troppe volte non valorizziamo e di cui non siamo nemmeno consapevoli. Ognuno ha i suoi doni da Dio, e la grande tentazione è quella di guardare ai doni che Dio ha dato ad altri dimenticando quei doni che Egli ha fatto a noi. 1 C.S. LEWIS, Le lettere di Berlicche (Narrativa 776), Mondadori, Milano 19966, 73-74.

Sembra che Gesù voglia dire a Pietro: “hai già il tuo compito, la tua missione, ricevuta dalle mie mani e dal mio cuore, perché vai cercando altro rispetto a questo? Perché sogni altro rispetto ai doni che io ti ho fatto e che continuo a farti?”. A volte ci sono persone che vivono di questo: vorrebbero fare altro, essere altro, e così vivono di invidia e gelosia. Si può vivere pieni di doni del Signore e non essere mai contenti. Potrebbe capitare così anche a noi, se non teniamo presente l’invito alla sequela: “Tu Seguimi”. Sembra un po’ paradossale, se vogliamo, ma il nostro itinerario di domande si conclude con un imperativo! Seguire il Signore, mettersi dietro di Lui in umiltà e sincerità, non chiedere altro rispetto a quello che il Signore ci dà, ma essergli grati per la sua predilezione nei nostri confronti, per la sua amicizia personale, per la sua presenza continua nella nostra vita.

Che altro ci manca? Non possiamo che essere le persone più felici di questo mondo, perché abbiamo Lui, che sarà con noi fino alla fine del mondo. Che motivi abbiamo per lamentarci? Don Bosco ai ragazzi che decidevano di seguirlo nella missione di essere segno e portatore dell’amore di Dio ai giovani era solito dare una triplice garanzia: “ti prometto pane, lavoro e paradiso”, diceva. Si tratta, a mio parere, della traduzione interessante di questo dialogo tra Gesù e Pietro. Di solito si dice che il pane e il

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INTERPELLATI DA GESÙ

lavoro non ci mancano, e che il paradiso lo stiamo aspettando. A me piace invece vedere queste tre promesse insieme: lavorare per il regno garantisce davvero il pane, il lavoro e il paradiso. Lavorare per il regno con retta intenzione – ovvero essere in comunione di vita e di azione con il Signore Gesù, vivendo

“per Cristo, con Cristo e in Cristo” la nostra vita cristiana, fatta di gioie e speranze, fatiche e sofferenze, luci e oscurità – è già una vera e propria anticipazione del paradiso. Una volta che siamo e viviamo in presenza di questo, il resto non è davvero così importante come sembra.

LIBRI| (QRV 5RWD Come e perché ho abbandonato la fede Elledici 2013 - Pagine 128 € 9,50

Da una recente ricerca, si dichiara apertamente cattolico solo il 52% dei giovani tra i 18 e i 29 anni contro il 67% di appena 5 anni fa. Il volume analizza questa “fotografia”, che per la Chiesa di oggi rappresenta una sfida formidabile: come proporre un cristianesimo credibile? Questo l’indice del volume: Emergenza educativa, giovani e fede, oggi. Testimonianze di giovani che hanno abbandonato la pratica religiosa nel dopo-Cresima. Testimonianze di giovani rimasti: impegno, responsabilità, volontariato e solidarietà. La parola agli adulti: educatori, genitori, catechisti, preti e vescovi. Indicazioni per il futuro della Pastorale giovanile.

Giuseppe Galli Virtù sociali

$QWRQLR 0HOL 'DQLHOD =LLQR Come leggere la Bibbia oggi

Il tema delle virtù, nella sua lunga storia, ha avuto momenti di fulgore e altri in cui è apparso non solo desueto ma anche antipatico e moralistico. Ora sembra imporsi nuovamente, come dimostrano le numerose pubblicazioni sia in ambito filosofico sia in quello religioso. In questo libro viene proposta l’analisi psicologica di alcuni comportamenti quotidiani: la dedizione, la speranza, la fiducia, la gratitudine, la meraviglia, il pentimento e il perdono, la sincerità. Sono definite “virtù sociali” perché hanno un valore costitutivo per il legame interpersonale. L’approccio utilizzato è di carattere psicologico. Tuttavia l’analisi viene condotta anche su testi di altra origine: testi letterari, filosofici, religiosi.

La Bibbia non è un libro morto, ma una parola viva capace di illuminare e trasfigurare il vissuto umano. Il suo confronto con la svolta linguistica, che segna in profondità la cultura contemporanea, invece di metterla fuori gioco, ne esalta il suo singolare modo di significare la realtà e di trasformarla. La Bibbia contiene una Parola viva ed efficace capace di illuminare e trasfigurare il vissuto umano. Questo libro dimostra come il linguaggio biblico rimane significativo anche per l’uomo d’oggi, e mette in evidenza il carattere assolutamente originale e unico del modo di operare del linguaggio biblico.

Elledici 2013 - Pagine 128 € 9,50

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Elledici 2013 - Pagine 72 € 7,50


Fabiola Falappa |

IL CORAGGIO DELL’AURORA

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Agire

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Tutti gli articoli della rubrica

La pace interiore produce la pace esterna, la pace esterna nutre la pace interiore. (R. Panikkar) I poteri che generano armonia In quest’ultimo appuntamento dedicato alla riflessione e all’ascolto della testimonianza di Etty Hillesum, ho scelto di mettere in dialogo questa grande donna, che abbiamo pian piano imparato a conoscere, con un’altra pensatrice altrettanto preziosa per la crescita spirituale di ogni giovane e che saprà aiutarci a rileggere e porre in prospettiva gli scritti di Etty, così da permetterci di pronunciare un’ultima parola, ma ovviamente mai definitiva: pace. Mi sto riferendo ad

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Hannah Arendt, nata anch’essa da famiglia ebraica, che durante la sua permanenza in Francia si prodigò per aiutare esuli ebrei della Germania nazista. Ad ogni modo, dopo l’invasione e la conseguente occupazione tedesca della Francia, durante la seconda guerra mondiale e la successiva deportazione di ebrei verso i campi di concentramento tedeschi, dovette emigrare. Da questo vissuto esperienziale Hannah matura la concezione in base alla quale la causa della distruzione della coscienza umana è da imputare gennaio 2014 | 73


Fabiola Falappa |

IL CORAGGIO DELL’AURORA

8 alle logiche tipiche del male e alla banalità che lo caratterizza. È infatti dalla coscienza che scaturisce, secondo lei, all’opposto, l’energia per trasformare la realtà che ci circonda: una coscienza desta, vigile e critica è capace di apportare alla società grandi benefici e di essere realmente efficace nella storia. Così Arendt indaga la struttura sociale, le logiche di massa, fino a far riferimento alla mentalità e ai comportamenti comuni e quotidiani; in ciascuno di questi ambiti emerge un sistema globale che conduce all’ottundimento della coscienza umana. Di certo anche Etty avrebbe sottoscritto la lucida descrizione che Arendt rivolge a quegli anni terribili e bui. Ciò è ravvisabile, per sceglierne uno, nel passo seguente: Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi, continuavo a predicare; e non vedo nessun’altra soluzione, veramente non ne vedo nessun’altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. È l’unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove1. Mentre dominio e violenza comportano prevaricazione e rottura delle relazioni intersoggettive, il potere è per Arendt l’energia “che si genera quando le persone si riuniscono e ‘agiscono di

1 E. Hillesum, Diario 1941-1942. Edizione integrale, Adelphi, Milano 2013 (II ed.), p. 366.

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concerto’”2, è la forza che nasce dalla cooperazione. In questo senso le grandi facoltà dell’uomo sono tutte delle forme di potere. È possibile individuare allora sei forme di potere che corrispondono al rafforzamento di altrettante facoltà umane che aiutano a trasformare la società iniziando a “cercare in noi stessi”, per dirla con Etty. La prima è il potere di pensare, che infatti richiede la cooperazione tra l’ego e l’alter interiori. Il pensiero è un colloquio interiore e intimo dove l’io di una persona dialoga con la sua coscienza. L’uomo diviene eticamente stupido, “banale”, come Eichmann, quando questo pensare etico e dialogico della coscienza si spegne e si diventa acritici, insensibili, irresponsabili. C’è poi il potere di giudicare, cioè di discernere il bene e il male nelle situazioni sociali, politiche, storiche. Senza giudizio non c’è autentica azione politica né può essere costruita la democrazia. Il potere di volere dà corso concreto alla libertà, fa sì che la persona sia coerente con questo suo essere originariamente libera. Qui la scelta è insieme l’attestazione della finitezza e dell’immensa dignità della persona umana. Tutti questi poteri caratterizzano l’originalità della presenza nel mondo di ciascuno di noi, originalità che viene alla luce nell’azione. Il potere di agire e di cooperare è il fondamento di una vita buona comune. Ma più che in ogni altra forma di potere la luce di una coscienza desta, e non al contrario totalmente passiva di fronte ai sistemi sociali e alle ideologie, si mani2 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1989, p. 180.


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Gli articoli della rubrica, tutti linkati

festa nel suo confronto con il tempo, in particolare con il passato e con il futuro. Il potere di perdonare è un modo per vincere gli effetti negativi del male subito, cosicché il passato non è revocabile e tuttavia sono orientabili diversamente i suoi frutti. Il potere di promettere è invece un modo per orientare le relazioni e i comportamenti nel futuro. Esso ci sfugge per definizione, eppure gli uomini possono farsi garanti, l’uno per l’altro, di un atteggiamento positivo, leale, responsabile nella relazione dischiusa o rinnovata dalla promessa3.

Il corso della vita diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azione, e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire,

non sono nati per morire ma per incominciare4. Da questo passo emerge, a mio avviso, l’auspicabile rottura arendtiana rispetto a tutto ciò che è “inevitabile” agli occhi dell’essere umano ormai caduto nell’abitudine del vivere senza la luce della coscienza attiva. Ciascuno si convince e finisce per credere che il “normale” corso dell’esistenza porti alla distruzione totale, all’annientamento, ma è possibile andare oltre la credenza a questa fatalità facendo emergere l’unica facoltà che è così potente da interrompere il corso stesso della vita: l’azione cosciente. Quella che, a mio avviso, Etty Hillesum ha saputo testimoniare e incarnare ad ogni passo della sua esistenza nascente, costantemente lucida e fonte di speranza e coraggio per ogni altro. La facoltà dell’azione può giungere allora ad interferire con la legge della mortalità, con il corso quotidiano e inesorabile della vita spesa tra nascita e morte, e realizzare il miracolo di una vita finalmente compiuta, già solo perché continuamente pronta ad iniziare sempre e di nuovo. Solo l’agire ha come presupposto essenziale infatti la pluralità degli esseri umani: esso, a differenza di altre facoltà sperimentabili nell’isolamento, non può realizzarsi senza la partecipazione, la reazione, la cooperazione, la risposta e l’opposizione da parte di altri. Sottolineare questo aspetto ritengo significhi compiere già un primo passo contro l’attuale elogio della sfera privata che comporta conseguentemente il ripiega-

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Nascere all’azione cosciente Porsi in ascolto delle loro riflessioni intrecciate, in cooperazione appunto, significa riscoprire la libertà di agire contro gli idoli della società di massa, superare il conformismo sociale, che manifesta oggi tutto il suo strapotere, per riattingere all’energia originale dell’agire, frutto di una costante maturazione della vita della coscienza personale. In questa visione antropologica l’uomo è soggettività nascente e dunque libera, aperta a una pienezza ancora sconosciuta e a un compimento che non coincide con la morte.

Ibidem, pp. 174-182.

H. Arendt,Vitaactiva.Lacondizioneumana, cit., p. 182.

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Fabiola Falappa |

IL CORAGGIO DELL’AURORA

8 mento su di sé, l’isolamento personale e una intimità esasperata, tutte forme in opposizione radicale rispetto all’autentica armonia capace di generare quella pace tanto desiderata. L’azione, diversamente dalla fabbricazione, non è mai possibile nell’isolamento; essere isolati significa essere privati della facoltà di agire. Azione e discorso necessitano della presenza degli altri, allo stesso modo in cui la fabbricazione necessita della presenza della natura e dei suoi materiali, e di un mondo in cui collocare il prodotto finito. (…) La storia è piena di esempi dell’impotenza dell’uomo forte e superiore che è incapace di procurarsi l’aiuto o la collaborazione del suo prossimo5. Ed è proprio dall’esempio di Etty che impariamo a cogliere nella storia quei semi, dai più neanche percepiti, di pace: dal potere che può fiorire da una donna apparentemente debole e indifesa eppure capace di far generare tutta la forza che scaturisce dalle virtù interiori appena ricordate, in riferimento alla riflessione di Annah Arendt. Il suo scopo è proprio quello di comunicare questo sguardo positivo a chi ha accanto, tanto da afferma5

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Ibidem, pp. 137-138.

re la sua intenzione di “farsi pane spezzato” come un altro Cristo, per i compagni di prigionia, condividendo il suo tempo e la sua gioia. Tale energia armonica, abbiamo sottolineato spesso durante questo cammino percorso insieme, nasce in lei dalla scoperta della sensazione di rimanere in ogni momento nell’abbraccio del suo Creatore e amante delle sue creature, che continua a mostrarle il suo volto anche nel campo di prigionia o mentre è in partenza sul suo vagone. Dopo aver considerato tutti questi tratti di profonda e intima ricchezza che dipingono la persona di Etty, potendo sostenere di averla ormai pienamente come amica e interlocutrice speciale, possiamo lasciarci con uno dei suoi passi più conosciuti che è insieme un augurio e una certezza di realizzazione per tutti e per ciascuno di noi, di voi. Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio verso il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile6. 6 E. Hillesum, Diario 1941-1942. Edizione integrale, Adelphi, Milano 2013 (II ed.), p. 638.

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ECCLESIA

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EVANGELII GAUDIUM IL “ MANIFESTO” DI PAPA FRANCESCO | Cesare Bissoli Una prima lettura Lorenzo Prezzi su Settimana (n. 43) definisce Evangelii Gaudium (EG) “un’esplosione (…) di materiali evangelici incandescenti”. È una qualifica che condividiamo appieno. È doveroso perciò fare un approccio serio e responsabile: che vuol dire cercare di comprendere finalità, contenuti e incidenza pastorale, non accontentandosi di una prima lettura frettolosa e nemmeno selezionando il testo secondo i gusti personali, ma assicurando una visione globale, tanto più che è un documento organico, ben compaginato, dove tutto si collega in un’intenzione unitaria. Ciò comporta una riflessione articolata, che NPG intende fare in ottica di pastorale giovanile. Inizia con questa breve prima puntata dando uno sguardo di insieme, come quando in libreria si compera un libro nuovo che interessa: anzitutto lo acquistiamo, poi andiamo all’indice, vediamo la tra trama logica dei capitoli e loro suddivisioni, ritorniamo sul titolo, siamo colpiti nelle note da eventuali citazioni bibliografiche e finalmente ci accingiamo alla lettura. È il modello di riferimento per questa puntata di apertura.

Un documento ampio EG è un documento ampio: ben 288 paragrafi racchiusi in cinque capitoli, con 217 note. Suona come “manifesto” pro-

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grammatico in cui Papa Francesco ha voluto condensare il suo pensiero genuino che possiamo articolare in tre affermazioni: ciò che conta è annunciare il vangelo di Gesù all’uomo oggi; esso costituisce radicalmente la Chiesa (intesa come popolo diDio) in stato di missione evangelizzatrice; da ciò il mondo ne viene profondamente beneficato. I titoli dei capitoli esprimono la sostanza delle idee ora espresse, secondo una architettonica ben pensata. - Un prologo evidenzia lo spirito e stile del testo: annunciare non tanto il Vangelo, ma la ‘gioia’ del Vangelo’, il Vangelo alla lettera, cioè “bella-buona notizia”. - Il capitolo primo “La trasformazione missionaria della Chiesa “ (con 30 paragrafi) dice il dono e compito radicale che Dio affida alla Chiesa: una vera e propria riforma, che sta essenzialmente in una conversione missionaria: “uscire” da sé verso la gente, “prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare, festeggiare” (n. 24). Qui vi è il cenno ormai celebre della ” conversione” del papato e dei vescovi (nn.31-32). - Il secondo capitolo “Nella crisi dell’impegno comunitario” (59 paragrafi) evidenzia schiettamente “alcune sfide del mondo attuale” e “tentazioni degli operatori pastorali” di fronte a questa svolta missionaria. - Il capitolo terzo “ L’annuncio del Vange-


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lo” (65 paragrafi) sviluppa una intensa pedagogia della missione, sottolineando tre punti: “il popolo di Dio” come tale è soggetto e destinatario dell’evangelizzazione; l’annuncio della Parola di Dio da parte dei pastori va rinnovata profondamente; la fede va approfondita con una catechesi che sia di Dio (“kerigma”) e per l’uomo (“accompagnamento”) - Il capitolo quarto “La dimensione sociale dell’evangelizzazione” (82 paragrafi, la parte più ampia) mette in rilievo un argomento carissimo al Papa, che scrive: “Se questa dimensione non viene debitamente esplicitata si corre sempre il rischio di sfigurare il significato autentico e integrale della missione evangelizzatrice” (n. 176). Tre i punti toccati: i poveri da includere, non escludere dalla società; la pace sociale; il dialogo fra le differenze, come fede e ragione, a riguardo di altre confessioni cristiane e religiose, con ogni persona umana anche non credente. - Il capitolo quinto, “Evangelizzatori con Spirito” (29 paragrafi) esprime la fisionomia interiore, l’anima di chi evangelizza, la sua spiritualità. Due riferimenti sostanziali: “l’incontro personale con l’amore di Gesù che ci salva”, la relazione con Maria, la “Madre della nuova evangelizzazione”.

Alcuni contenuti rilevanti Si possono indicare contenuti di particolare rilevanza e originalità? Lo fa lo stesso Papa Francesco: “La riforma della chiesa in uscita missionaria, le tentazioni degli operatori pastorali, la Chiesa intesa come la totalità del Popolo di Dio che evangelizza, l’omelia e la sua preparazione, l’inclusione sociale dei poveri; la pace e il

dialogo sociale, le motivazioni spirituali per l’impegno missionario” (n.17). Ma qui ogni lettore può evidenziare ciò che lo colpisce di più.

ΖO SURȴ OR GHO GRFXPHQWR Questa panoramica iniziale va arricchita con alcuni altri dati specifici. Sono dettagli che completano il profilo del documento. - EG intende collegarsi con il Sinodo sulla Nuova Evangelizzazione del 2012 (ne riprende una trentina di proposizioni), ma vuole in certo modo contestualizzarlo andando alle radici, mettendo in rilievo la vocazione missionaria della Chiesa totalmente al servizio del Vangelo (n. 16). - La Bibbia è come sempre la fonte primaria della verità. Sono 169 le citazioni del NT (Paolo in particolare) e 26 dell’ AT. - Un riferimento particolare (ben 12 volte) è dato a Evangelii Nuntiandi di Paolo VI (1975) cui l’EG intende assomigliare nello scopo e nello stile positivo, incoraggiante. Non mancano citazione del Concilio, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. - In coerenza con la sua visione pastorale che intende valorizzare tutto il popolo di Dio, un primo passo significativo in tale direzione è tenere conto degli Episcopati locali (n. 16). Di qui la novità senza precedenti di citare le conferenze episcopali dell’America Latina (Celam): incontro dell’Aparecida (ben 6 volte), e Puebla, e poi le conferenze degli Stati Uniti, della Francia, delle Filippine, del Brasile, del Congo, dell’India e anche l’ Azione Cattolica italiana (ma non l’episcopato italiano). - Nel popolo di Dio voci autorevoli sono menzionate: Tommaso d’Aquino è il più citato (15 volte) e poi naturalmente Agogennaio 2014 | 79


ECCLESIA stino, e tra i moderni Teresa di Lisieux, Bernanos, Newmann, De Lubac, Guardini, Quiles, Fernandes. - È un testo che appare a prima vista scritto di getto in uno o due mesi, in realtà corrisponde ad una lunga esperienza pastorale di Papa Francesco come vescovo in Argentina e nel contesto latino-americano con l’emergenza autorevole del documento di Aparecida (2007), cui il Vescovo Bergoglio pose mano per gran parte, documento che riprese nell’incontro con l’episcopato latino-americano a Rio nella Giornata Mondiale della Gioventù. - Un ultimo dettaglio che poniamo qui. Lo evidenziamo perché fa parte del linguaggio ‘originale’ di Papa Francesco e dice bene il suo stile comunicativo del tipo oramai celebre “Non lasciamoci /lasciatevi rubare la speranza” (n. 86). Così, “non lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione” (n. 83), “non lasciamoci rubare la comunità” (n. 92), “non lasciamoci rubare il vangelo” (n. 97), ”non lasciamoci rubare l’ideale dell’amore fraterno” (n. 101)… (Si continui la ricerca di affermazioni simili.)

Un giudizio personale a lettura compiuta - Solidità di pensiero, teologico e filosofico, e contatto con la realtà dell’esperienza. Papa Francesco parla di Dio, del suoi progetti, delle sue azioni e della sua relazione con l’uomo come una realtà, un dato che c’è e interpella. EG è di un realismo affascinante e coinvolgente. - Non puoi realizzarti pienamente come uomo se non incontri Gesù Cristo e Dio in lui; non incontri veramente il Dio di Gesù di Cristo se non giungi a conoscere, apprezzare, amare l’uomo a partire dagli

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1 ultimi. Vi è un concentrato densissimo di antropologia e di teologia, di contemplazione e azione. - Mi ha colpito la fedeltà a certi principi che ritornano di continuo garantendo logicità e coerenza. In particolare, va rimarcato il riferimento all’esperienza e insieme andando oltre di essa; la trattazione talora analitica di singoli punti ma ponendoli in orizzonte sempre più grande, giacché ”il tutto è superiore alle parti” (n. 234). - Vi sono ripetizioni, ma sono come le colonne in un edificio: sono sempre le stesse, ma reggono spazi, cose diverse con la stessa sicurezza.

Un cammino che si apre Ciò che conta è continuare il percorso di conoscenza globale del documento, approfondirlo e magari suscitare un confronto e dialogo. Ecco alcuni suggerimenti immediati: - acquistare il testo di EG, nella convinzione che nessun operatore pastorale può fare a meno di questo ‘vademecum’ per una evangelizzazione che si vuole ‘nuova’; - procedere ad una lettura calma, precisa, con un foglio a lato, annotando ciò che colpisce di più, osservando i collegamenti tra le idee, gli accenti maggiori, in un clima di preghiera, resa facile dalle tante citazioni della Bibbia; - fare una prima indagine fra operatori pastorali, e con gli stessi giovani, per cogliere consensi, dubbi, domande… suscitati da EG; - finalmente cercare dove EG parla dei giovani, o, ancora di più, dove le cose che si dicono vanno bene per la pastorale giovanile. A proposito di questa, invitiamo a leggere con attenzione il passo più esplicito nei nn. 105-109.


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PROGRAMMAZIONE Il 2014 si apre con una grande “assenza”, per la morte dello storico e “carismatico” direttore di NPG, d. Riccardo Tonelli. Ma il suo lascito per una PG per la vita e la speranza dei giovani, ispirata al carisma spirituale ed educativo di don Bosco e attento alle novità del mondo della Chiesa e dei giovani, continua e continuerà in NPG... e cercherà anche di essere più propositivo e più in dialogo, più a servizio della PG italiana (e non).

Per i primi numeri dell’anno (da gennaio ad aprile 2014)

Due i criteri che ispirano il rinnovamento: / una maggior capacità comunicativa con i nostri destinatari... anche rinnovando una storica grafica di “serietà” e utilizzando i linguaggi con cui oggi si fa comunicazione e interazione, con cui cioè si entra in dialogo (vorremmo dire... per una PG 2.0); / l’impegno a “far pensare” i nostri lettori, non presentando soluzioni predefinite, ricette pronto-uso, sussidiazione pratica immediatamente utilizzabile. Far pensare sui giovani, sulla pastoralità, sulle proposte, sui processi, sui metodi... sui risultati ottenuti.

Dossier ] Quale educatore per i “nuovi” preadolescenti? ] Temi per una pastorale giovanile rinnovata ] Educare ad amare ] Una Congregazione per la PG ripensa la sua PG ] I colori dell’educazione

Ecco dunque le novità che presentiamo: ~ 3, ,3-4 4$12$ &0 %(" , con uso del colore, di foto e immagini, box, impaginazione... ~ 3, 0(4(12 .(Ù 1.(&*( 2 $ .0-4-" 2-0( con meno numeri (per stare nei costi), ma non con minor pastoralità ~ 3 , 0(4(12 (, 32$,2("- #( *-&"-, ( *$22-0( ,"'$ ,3-4( e con le loro esperienze e problemi, con la proposta dei “fondamentali” della pastorale ~ 3, 0(4(12 "-, ,3-4( 2$+( $ "-** !-0 2-0(

Rubriche ] Io e l’altro: per un’educazione interculturale ] Social network: passione (adolescenziale) e tormento (educativo) ] Ragazzi a scuola tra noia e scoperta ] Il Sinodo sulla famiglia ] La politica è sempre una cosa sporca? ] Le nuove domande sul sesso: genere e orientamenti sessuali

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Editoriali ] una prospettiva biblico-spirituale ] una prospettiva socioculturale sul mondo giovanile ] una prospettiva pastorale


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